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Più schifo di prima

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di Marco Corvaia

Se la tenera luce dellʼalba le facesse visita ogni mattina, rendendo affabili tutte le superfici, e la sua pelle, e lʼaria, quasi non le dispiacerebbe abitare in questo seminterrato, sotto sua madre, che chiama solo Vania; quei colori ammalianti le infondono una sensazione di benessere che la accompagna a lungo. Invece capita di rado, e oggi non è uno dei giorni fortunati. Mangia uno zabaione davanti alle uova che accudisce, illuminata dalla lampada che ha trovato tra la spazzatura, nel soggiorno consumato dallʼumidità.

Quelle stanno bene. Dormono, orfane e indifferenti, negli alloggi dellʼincubatrice, che ha una temperatura stabile, confortante. Aggiunge dellʼacqua nella vaschetta e ammira la loro intatta perfezione. Manca poco alla schiusa. La rottura dei gusci però la disturba, preferirebbe si aprissero come dei fiori che sbocciano, per poi tornare alla forma originaria. Accertarsi che contenessero embrioni e rubarle non è stato facile. Terminata la colazione, gli scatta una foto con il cellulare.

Non si era mai occupata di qualcosa di vivo in modo esclusivo, non ha nemmeno una pianta. Lʼunico essere vivente che è stato in casa sua è un topo. Lʼha catturato con la colla, spappolato a martellate e messo in bellavista, finché non si è putrefatto, come avvertimento per i suoi simili.

Spazzola i capelli, che le nascondono viso e collo, ma non abbastanza, e si veste pesante, anche se fuori non fa freddo. Saluta i surrogati da maternità ed esce.

 

Dalla fermata dellʼautobus vede la finestra della camera da letto di Vania. Come sempre a questʼora lì è tutto spento, lei si sveglia quando le pare. Non deve pagare lʼaffitto, e lʼassegno di invalidità, sommato a qualche lavoretto di sartoria, le basta. Lo riceve da quando un tizio lʼha buttata giù dalle scale, per farle capire che la loro relazione era finita. Caviglia e rotula le si sono sbriciolate, ma non lʼha denunciato. Da allora è zoppa e non frequenta più uomini.

Deve aspettare cinque minuti. Le viene in mente la volta in cui ha chiesto a Vania: «Come si legge lʼorologio con le lancette?». Aveva sei anni; le ha detto che non lo sapeva.

Qualsiasi domanda le facesse, la risposta era sempre la stessa: «Non lo so». E con uno sdegno che le atrofizzava lʼintenzione di insistere. Da bambina credeva che Vania fosse la donna più ignorante del mondo, non conosceva niente. Crescendo ha capito che semplicemente non voleva parlarle, per guardarla il meno possibile. Ha dovuto imparare tutto da sé, suo padre è sparito prima che fosse in grado di conservarne dei ricordi.

Una cosa però glielʼha insegnata: i periodi buoni sono unʼillusione. Lo ripete spesso, appena i problemi si assentano per un poʼ. Ne è convinta anche lei.

Prende posto in fondo, come ai tempi della scuola. Non si è mai pentita dʼessersi ritirata dopo le medie. Di studiare non le importava, e fare da bersaglio era snervante; veniva offesa e derisa da tutti, ogni giorno, perfino dai bidelli. Non se nʼè mai lamentata, non avevano torto, i suoi occhi sono troppo distanti e allʼingiù, la mandibola è troppo stretta, il mento non cʼè, il naso è piatto, gli zigomi sono incavati, i denti stanno nella bocca a casaccio e al posto delle orecchie ha dei residui di cartilagine senza senso. Ma la reiterazione è una tortura. Se non avesse i dotti lacrimali tanto ristretti, quando la esasperavano avrebbe pianto.

Lʼudito invece le funziona benissimo. Sente tutto quello che dicono i presenti. Qualcuno si lagna degli immigrati, qualcun altro dellʼinflazione, dei ragazzini sono in ansia per il compito in classe. Un tipo scheletrico suggerisce a uno con la gobba di non voltarsi, altrimenti rischierebbe di vomitare, quello non gli dà retta e vedendola sussulta; poi commentano con disgusto la sua bruttezza. Lei sogghigna, la mancanza di solidarietà dei difettosi la reputa una patetica rivalsa.

Origliare la tranquillizza, rende meno logorante la solitudine; è la sua abitudine sociale. Di recente un argomento ha contagiato tutti, il fatto di cronaca del momento: un bambino ha accecato il prete che voleva violentarlo, pugnalandolo nelle orbite con un crocifisso. Dicono che è un eroe, che merita una medaglia, che chissà quanti altri ne ha salvati così. E che è stato Gesù Cristo ad armare la sua mano, perché lo ama. Quando lʼha saputo, ha pensato a quel sacerdote orbo, che nega le accuse. Lo conosce, le ha fatto il catechismo, e in quei due anni non lʼha sfiorata neppure per sbaglio. Neanche un pedofilo mi ha voluta scopare, ha considerato, manco uno grasso e stupido.

Intanto marciapiedi e alberi scorrono, lʼautobus si svuota, le case si abbassano, si distanziano, diventano villette, e superato il campo di granturco, dove il territorio sembra spianato da una pialla colossale, che lʼha privato di qualsiasi punto di riferimento, tocca a lei scendere. Il resto della strada lo percorre a piedi.

 

Allʼingresso dellʼazienda, che molti definiscono lager nazista, le fanno subito notare che anche stavolta non è arrivata in motorino, come se non lo sapesse. È guasto e fino al prossimo stipendio non potrà ripararlo.

Nel magazzino, spacciato per spogliatoio dei dipendenti, si piazza sopra un sacco di plastica vuoto che fa da tappetino, toglie gli abiti in eccesso e li appende a un chiodo conficcato nel muro scrostato. Poi indossa guanti da giardinaggio, mascherina monouso e stivali di gomma.

Carica il mangime su una carriola e si avvia verso un capannone, incrociando qualche collega, con cui si scambiano lievi cenni del capo. Tranne un ex carcerato che ha trovato dio e che con questo impiego vuole continuare a espiare i propri peccati, sono tutti stranieri, e non durano granché. Loro le rivolgono la parola, se ne hanno il tempo, ma solo se ha il volto coperto.

Apre la porta di lamiera, accende i neon e si spinge dentro. Il fetore di ammoniaca è talmente intenso, e il convulso chiocciare di migliaia di galline ovaiole è così assordante, che il primo giorno lʼhanno fatta svenire. Ormai ne è assuefatta, procede tra le gabbie con disinvoltura, ignorando zampe spaccate sulle grate, becchi spezzati, creste mozzate e qualsiasi malformazione. Se ne frega anche di quelle morte, eliminarle è una mansione saltuaria, deve solo nutrirle, assicurarsi che abbiano da bere e raccogliere le uova.

Dopo il terzo capannone è il turno dei polli broiler. In questo cʼè buio, tira fuori una torcia per vederci qualcosa. Miasmi e baccano sono ancora peggiori, parecchi sono malati e di cadaveri ce ne sono di più; avanzando nella calca scalcia gli animali che le intralciano il passaggio. Fuori tossisce marrone, la polvere sembra averle bucato la protezione, intasandole la gola. E ne deve affrontare altri tre. Nellʼottavo, il suo preferito, andrà di pomeriggio.

Addenta il panino con la frittata, seduta su una pila di bancali, con le suole incrostate di merda e piume. Durante quella breve pausa pranzo, quando non piove, sta allʼaperto; nel magazzino spacciato per mensa ci sono soltanto delle sedie sgangherate, e il tanfo di muffa sovrasta quello del cibo. Ci starebbe anche quando diluvia, se ci fosse un punto dove ripararsi; le reazioni di ribrezzo le stroncano lʼappetito, nessuno sopporta vederla masticare.

In disparte evita ulteriori chiacchiere sul bambino e sul prete. Non capisce perché se ne parli tanto. Con il primo colpo si è difeso, con il secondo lʼha punito; è stato bravo, caso chiuso. Forse è solo più facile discutere di qualcosa che non ci riguarda, riflette, soprattutto se fa clamore, piuttosto che parlare di sé, e la gente non sa starsene zitta.

«Ehi, amica, mi dai un sorso di birra?» sente domandarsi da dietro.

«È limonata» risponde, risollevando la mascherina.

Un ragazzo le è girato intorno e adesso le sta davanti, con lʼespressione di chi non ha capito, mentre fissa la sua bottiglietta dal contenuto giallognolo. È nuovo, forse marocchino, non lʼha mai visto.

«Non è birra, io non ne bevo. Sono astemia» specifica.

«Ma sei di queste parti?»

Lei annuisce, appallottolando lʼincarto del panino.

«Cioè sei veneta e astemia? Non è possibile, qui vi ubriacate tutti».

«Io no».

«Non ci credo» dice, e si fa una risata. «Devi essere unʼaliena» aggiunge.

«Mi hanno chiamata anche così» ed espone la sua deformità, stroncando il divertimento.

Dopo lo sgomento e delle goffe scuse, il ragazzo si dilegua. Lei si rimette a lavoro.

E sgorbio, mostro, incubo, seppia, scorfano, senzʼanima, spaventacristiani, faccia sciolta, aborto fallito, bestia informe, immondizia umana, Super Sloth, film horror, maschera di Halloween, creatura dellʼinferno, errore della natura, fenomeno da baraccone. Le hanno dato così tanti soprannomi che non li ricorda tutti. Alcuni però lʼhanno fatta sorridere per lʼoriginalità.

Pulisce i viali attorno ai capannoni e ai magazzini, scarica da un camion dellʼattrezzatura per gli uffici, in gruppo, e riempie due furgoni di uova, fingendo di non sentire il marocchino che blatera del suo aspetto. Il sudore le infradicia la maglietta, percepisce tutto il peso del cielo trevigiano su di sé. Chiede al responsabile il permesso di andare in bagno.

Piscia in equilibrio precario, fra batteri e funghi patogeni, con i pantaloni alle ginocchia. Si sciacqua le mani con acqua non potabile, esaminando la ragnatela che sostituisce il solito fastidio dei bagni pubblici; di specchi non ce ne sono, come a casa sua.

Inizia a sentirsi smontata dalla stanchezza e a corto di fiato, le fanno male braccia e schiena, ma appena entra nellʼottavo capannone rinasce. Il sessaggio dei pulcini è stato quasi ultimato. Li sente pigolare, tutti insieme, frenetici e impauriti. Qualcuno sta già spostando le femmine nel pollaio. A lei spettano i maschi, e ne è felice.

Impila le cassette con quegli scarti di produzione su un carrello e li porta nella sala accanto. Il grande macchinario che chiama tritacarne è in funzione. È un imbuto di denti metallici che ruotano a una velocità esorbitante, sminuzzando tutto quello che ingurgita. Rastrella i piccoli a manate e ce li scaraventa dentro, assaporando ogni suono della triturazione, una cassetta dopo lʼaltra, finché sono tutte vuote. Ne adora il ritmo, ogni rumore prodotto, la trasformazione organica; quando nessuno la vede si ferma, chiude gli occhi e si gode quella sinfonia.

Sa che in altri allevamenti intensivi è tutto automatizzato, oppure il loro smaltimento avviene in modalità differenti; è una fortuna che sia stata assunta in questo, è la principale ragione per cui ci lavora. Torna di là, fa un altro carico e ricomincia.

In alcuni paesi europei questa pratica non esiste più, e ha letto che tra qualche anno verrà abolita anche in Italia, ma non vuole farsi rovinare la parte migliore della giornata da certi pensieri negativi. Dipendesse da lei, la estenderebbe ai neonati maschi, per avere delle chances in più con le ragazze. Non crede sia davvero crudele, è una morte più rapida di altre, ma meno convenzionale. Morire così le piacerebbe, diventando una nota della musica che la inebria, e non troppo tardi, è vivere male la vera crudeltà.

Rientra nel finto spogliatoio. Ripulisce gli stivali, conserva i guanti, getta la mascherina. E recuperati gli abiti appesi, se ne va.

Mentre si dirige verso lʼuscita del campo di concentramento, come un kapò che ha degli incarichi da eseguire allʼesterno, volge lo sguardo allʼedificio di cui si è innamorata allʼistante. Il primo ascolto è stato una rivelazione. Appena ne ha avuto la possibilità, ha registrato la sinfonia del tritacarne, per averla sempre con sé, scoprendo però che lʼeffetto era più blando. Per raggiungere lʼestasi deve esserne lʼimpulso scatenante, e già freme per la replica di domani.

Nessuno degli svaghi che ha provato è mai riuscito a darle il minimo piacere. Lo sport è ridicolo, il cinema è bugiardo, disegnare è frustrante, le escursioni sono deprimenti. In questo periodo sta testando videogiochi e pornografia. Con i primi spara, distrugge e ammazza chiunque, senza capirne lo scopo. Con la seconda guarda splendide ninfomani che si fanno di tutto, senza mai eccitarsi, così si sofferma sulle scenografie. Quella tenda è più attraente di me, pensa, quella sauna è più intrigante di me, quella Jacuzzi è più affascinante di me, quelle lenzuola sono più desiderabili di me.

Il suo edonismo risiede solo nel congegno che tritura quei pulcini maschi.

 

È di nuovo in autobus. Le vibrazioni sotto al sedile e il leggero dondolio nelle soste le danno sonnolenza. Le palpebre cedono. Appena sente nominare Venezia però si risveglia, come se fosse scattato un allarme.

Ricorda il treno che viaggiava su rotaie invisibili, con il mare a destra e a sinistra, in una suggestione di fantasia. Alla stazione, dopo un velo dʼombra simile a un sipario, sono apparsi canali, pontili, rii, imbarcazioni, filari di case basse e piantagioni di souvenir per turisti. Ne è rimasta stregata, si è detta che assuefarsi a quella meraviglia è impossibile, e ha contato quanti come lei erano rimasti in contemplazione: quindici.

È salita su un vaporetto, direzione Dorsoduro. Ha fissato per tutto il tragitto le gondole ormeggiate, mosse dalle onde, inconsolabili, e i segni dellʼacqua alta sui contorni, linee marcescenti e verdi muschi che le sono sembrati dei moniti. Ha sentito gemere le fondamenta delle architetture, di lamenti melmosi e ovattati. Ha annusato il profumo di un luogo che illude dʼimmutabilità, come una magnifica leggenda.

Si è inoltrata nei giardini di Caʼ Rezzonico, e ha proseguito per musei e antichi palazzi, passeggiando fino a piazza San Marco, senza che unʼocchiata di repulsione, o di commiserazione, le si posasse addosso. Indossava una bauta bianca e un cappello a tricorno con le piume. Era carnevale, nessuno faceva caso a lei.

Tra gli artisti del centro storico è il suonatore di calici ad averla rapita. Era un uomo corpulento, ma mentre le sue dita umide sfioravano quei bordi di vetro con la velocità e la grazia dei colibrì, lʼimpaccio della massa svaniva. Sprigionava la melodia dellʼinanimato, componendo motivi che le sembravano di un altro pianeta.

Dopo lo spettacolo serale avrebbe voluto vagare per le centinaia di isole e ponti di quella città dalla fragile naturalezza, che sprofonda per una fine poetica, in un futuro subacqueo chissà quanto lontano. Ma la folla era soffocante, ha ripiegato nellʼintimità di vicoli desolati, finché si è imbattuta in un ubriaco sconfitto, con la sua stessa maschera e un cappello identico, più un tabarro scuro e dei guanti eleganti, che gli ha portato via. Ha completato il suo costume e in una tasca interna di quel mantello ha trovato una cartolina dorata. Si è allontanata serafica, voltato lʼangolo ha visto uscire da un portone due gnaghe allegre, che parlavano di una festa folle. Ha aspettato che si aprisse di nuovo e si è imbucata.

Allʼingresso cʼera la sorveglianza. Le hanno chiesto lʼinvito e ha sfoggiato la cartolina. Era una casa sfarzosa, arredata in stile diciassettesimo secolo. Al centro della sala maggiore cʼera una piccola orchestra che suonava musica barocca, in quella successiva dominavano banchetti di pietanze pregiate e vini costosi, in tutte le altre cʼerano orge di sesso, bondage e cocaina. Si è aggirata tra quei corpi euforici come unʼinfiltrata, fantasticando di doverne analizzare i livelli di depravazione. Certuni ne sembravano succubi, altri la padroneggiavano con esperienza, e qua e là qualcuno la scambiava per la persona che aveva sostituito. Rispondeva con dei gesti e si defilava, sorseggiando champagne, ma lʼinganno non convinceva.

«Benvenuto nella prossima Atlantide, in cui dimorerà chi ha sangue diverso dagli esseri umani» le ha detto un medico della peste con accento slavo.

Quando ha provato a ripetere la tattica, quello lʼha afferrata per un polso e ha urlato: «Non conosci la risposta in codice perché sei un intruso».

Le ha ordinato di svelare la sua identità, ma lei non avrebbe mai rinunciato allʼanonimato. Non lʼha fatto neanche quando è stata legata a una cavallina da BDSM, a culo nudo, né quando lʼha avvisata delle conseguenze se non obbediva. Le ha spinto nellʼano tre uova sode, tra lʼesaltazione degli ospiti, e poi ha tolto la propria maschera, per mostrarle un volto che non doveva dimenticare. Quei lineamenti ruvidi, quegli occhi ferini e quella cicatrice da bocca a orecchio le tormentano ancora i sogni.

Appena ha ripreso a camminare bene è andata in unʼagenzia interinale. Le hanno offerto quel posto da inserviente, in mezzo a polli e galline. Ha accettato, dicendo che era ciò che meritava. A Venezia non è più tornata.

Riemersa dalle paludi della memoria, si accorge di essere scrutata da un bambino seduto davanti a lei, in una torsione elastica.

«Perché la tua faccia è così?» le domanda.

«Ho una malattia che si chiama sindrome di Treacher Collins».

«Ti fa male?»

«No».

«Puoi guarire?»

«Macché».

«Come ti sei ammalata?»

«Sono nata così».

«Tanto tempo fa?»

«Non direi, ho allʼincirca ventʼanni».

«Allʼincirca?»

«Non fa differenza se sono più o meno di venti».

«Perché?»

«Non cambia niente».

«Sei strana. Come ti chiami?»

«Non lo so più. Nessuno mi chiama mai per nome» e si alza, interrompendo lʼintervista. Deve scendere con un paio di fermate di anticipo, per comprare cartaculo e beveraggio a Vania; così le ha scritto per messaggio.

Ficca nel cestino gin, grappa, rum scuro, acqua tonica e carta igienica. Che si sfondi il fegato e caghi fino a morire, rimugina, se è questo che vuole niente glielo impedirà, tantomeno io. Poi cerca qualcosa per sé, ma la distraggono unʼanziana signora e la sua nipotina; sghignazzano come se fossero complici in uno scherzo, che vorrebbe capire quale sia.

«Menomale che nessuno ti vorrà mai, avrei odiato diventare nonna» le ha detto Vania nella sua ultima sbronza. Le ha bussato alla porta a notte fonda per farglielo sapere. Dopo è risalita, zoppicando e ridendo.

Averle confidato che è lesbica era stato inutile, non lʼaveva nemmeno ascoltata.

Sceglie carciofi, cipolle rosse, pomodori secchi, sapone liquido e un ammorbidente. Le servirebbe anche un bagnoschiuma, ma lʼeccessiva varietà la confonde. Distoglie lo sguardo per non perdersi in quegli scaffali, e tentando di ricordare quale ha comprato la volta scorsa, avvista qualcuno che le sembra familiare. Si avvicina per guardarlo meglio, senza farsi notare: è un signore di circa settantʼanni, tozzo, con la chierica, delle folte basette e una postura remissiva, da perdente. Crede che sia suo padre.

Non ne è certa, lʼha visto solo in qualche fotografia sbiadita. Se gli si parasse di fronte quello non avrebbe gli stessi dubbi, da queste parti nessuno è come lei. Ma non se la sente. Lo segue fra i reparti, alla cassa, per strada. Non ha la macchina, cammina da solo, così decide di pedinarlo, ignara della ragione.

Di quel genitore sa che è tornato dalla prima moglie, che vive nelle vicinanze e che ha spedito lʼassegno di mantenimento fino alla sua maggiore età. Nientʼaltro. Vania le ha detto anche che le ha abbandonate per colpa della sua orrenda fisionomia, la riteneva un castigo divino, ma sospetta che non sia la verità; non le ha mai dato motivi per fidarsi.

Gli va dietro con un paio di sacchetti. Svolta alla copisteria, poi alla clinica veterinaria, supera una piazzetta e aspetta fuori da unʼenoteca. Si domanda che lavoro facesse, se è in salute, se ha altri figli, se questi sappiano della sua esistenza, se lo hanno reso nonno, se detesta esserlo. Quando riappare, persevera con il pedinamento e le incognite.

Dopo unʼaltra decina di metri però quello si volta di scatto, facendo oscillare le sue provviste.

«Credi sul serio di poter passare inosservata?»

È questa la voce di mio padre?, sʼinterroga lei, è così raschiante? è con questo timbro cacofonico che si rivolgeva a me? oppure è stata tramutata dal tempo? Le sembra fatta di sabbia e sassi, dovrebbe appartenere a un uomo di pietra, non a un individuo comune.

«Che cosa vuoi?»

Lei vorrebbe unʼalba luminosa ogni mattino, dei soldi per aggiustare lo scooter, lavorare soltanto nellʼottavo capannone, la revoca allo stop dello sterminio dei pulcini, essere una buona mamma per le galline che nasceranno, infilare nel tritarifiuti gli eventuali maschi, fare sesso con le ragazze, imparare a suonare gli oggetti, scordare lo sfregiato e che la faccia di Vania diventi come la sua. Ma nessuna di queste risposte le pare corretta, così continua a tacere.

«Ti sei ingoiata la lingua, o sei sorda?»

È indecisa se dire che altri con la sua sindrome perdono lʼudito, e hanno problemi respiratori che possono ucciderli, ma a lei è andata bene. Oppure ribattere con un secco vaffanculo, un padre dovrebbe saperlo. Invece la attira un aroma. Sono davanti a una polleria. Dei polli allo spiedo girano sotto fiamme bluastre, in vetrina, come in una lenta danza di saggezza. Le rammentano che il presente conta più del passato. Deve controllare le uova nellʼincubatrice.

Rinuncia al confronto con il padre potenziale e prova a ripercorrere lo stesso tratto a ritroso. Volta da una parte, poi dallʼaltra, passa da un incrocio, attraversa una galleria, finché non sa più dove si trova; non è mai stata in questa zona. In giro cʼè ancora qualcuno, anche se è sera da un poʼ, ma di suscitare sconcerto chiedendo informazioni non le va. Accelera il passo, rimpiangendo di non avere prestato attenzione al percorso, alla ricerca di uno stralcio di senso dellʼorientamento, con la crescente convinzione che le uova abbiano bisogno di lei. E il boato di unʼesplosione terrorizza lʼintero isolato, e lʼonda dʼurto fa tremare ogni cosa, e un fumo catramoso appesta lʼatmosfera, mentre un blocco di muratura la sbalza contro unʼauto parcheggiata, facendole perdere conoscenza.

Rimane sul marciapiede, tramortita, a ricoprirsi di detriti e fuliggine, con gli abiti che bruciano e la spesa sparsa ovunque, ai piedi di una palazzina squarciata come se fosse di cartapesta.

 

Un acquazzone sta abbeverando terreni agricoli e vegetazione urbana, sta ripulendo stabilimenti, carreggiate e condomini, sta obbligando i passanti a proteggersi con gli ombrelli o a rintanarsi. Lei lo vede infrangersi contro la finestra della stanza dʼospedale, dove lʼilluminazione le trafigge i sentimenti.

Si sente imperniata a letto, con medicazioni, attrezzi chirurgici e terapie endovenose che le impediscono qualsiasi movimento, ed emicrania e acufene che le castrano ogni riflessione. Riesce a pensare solo agli analgesici, le sembrano dosati con avarizia. Immagina di stare là fuori e che quella sia una pioggia di morfina.

È rimasta in coma per un mese. Appena ha dimostrato di avere recuperato le capacità cognitive le è stato comunicato del trauma cranico, delle costole rotte, delle fratture alla clavicola, allʼomero e alla tibia, della perforazione di un polmone, delle ustioni di terzo grado su spalle, arti e viso, degli interventi operatori che ha subìto e di quelli a cui dovrà sottoporsi. Non sa se anche Vania ne è al corrente, è la prima volta che viene a trovarla, e non fa altro che stare seduta a sbevazzare da una fiaschetta.

«Fai più schifo di prima» le dice allʼimprovviso. E va via.

Non se la prende, sa che schiettezza spesso non fa rima con gentilezza, ed è sicura che non si sbagli. Non si è arrabbiata neppure quando le è stato raccontato del vecchio con la leucemia, che ha fatto scoppiare con il gas lʼappartamento in cui viveva insieme alla moglie malata di Alzheimer, per porre fine alle loro sofferenze; per una decisione che denota coraggio e amorevolezza prova rispetto, è la sfortuna che lʼha fatta essere lì nellʼattimo peggiore, e a quella è abituata. E per i pulcini che dovevano nascerle si è rammaricata, finché non ha realizzato che trasformare in un pollaio quel seminterrato era una bestialità. È lʼinsufficienza di antidolorifici che la fa schiumare di rancore, farebbe a pezzi qualunque cosa che le sta attorno e quel poco di sano che le è restato in corpo, se potesse. Ma può solo premere il pulsante per richiamare lʼinfermiera, sperando che le conceda un intermezzo di quiete, in quel lancinante supplizio che le fa desiderare di gettarsi in un tritacarne gigante.

1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 3

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di Giuseppe A. Samonà

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[La prima parte di questo intervento si può leggere qui. La seconda qui.]

  1. Lo ius sanguinis e lo ius soli

 

Ma chi sono questi italiani all’estero?

Innanzitutto, come dicevo, sono i molti giovani che hanno lasciato il paese a partire dagli anni 80/90, mentre l’Italia da terra d’emigrazione di massa cominciava sempre di più a mutarsi in una meta d’immigrazione, anche se poi, lo si è accennato, nel corso degli anni Duemila i flussi in uscita hanno ripreso a crescere, fino a superare quelli in entrata. Questa nuova emigrazione è essenzialmente volontaria, intellettuale, composta di persone per lo più laureate e in patria prive di sbocchi, il che ha generato la grottesca, patetica formula di fuga dei cervelli, come a distinguere questi emigrati del terzo millennio da quelli che li avevano preceduti, costretti a partire dalla miseria, e ignoranti, i quali avrebbero esportato semplicemente le loro braccia: come se dall’Italia non fossero sempre partiti individui completi, muniti di cervello e di braccia, e gambe, cuore, storie… Con l’Italia, questi nuovi emigrati, hanno nel corso degli anni mantenuto un rapporto più o meno stretto, anche se molti di loro, com’è il mio caso, sono diventati cittadini anche di altri paesi o hanno comunque rifatto interamente la loro vita altrove e in Italia, per viverci, non torneranno più; ma resta comunque un legame di affetti, tra amici e familiari che ancora ci vivono: e si tratta, sia pur da fuori, di un legame reale, che li porta a seguire con una certa implicazione quel che vi succede.

Ma c’è appunto un’altra categoria di italiani all’estero, creata da uno ius sanguinis singolare, sofferto, che affonda le sue radici nelle caratteristiche originarie del paese. L’Italia è nata in un certo senso… svuotandosi: fra il 1861 – data battesimo del Regno d’Italia –  sino alla fine degli anni Venti emigrarono in più ondate una ventina di milioni di italiani. Il periodo fascista segnò una pausa, per via delle restrizioni imposte dal regime, insieme a quelle decise dalla maggior parte dei paesi di destinazione: partire divenne molto più difficile, e di fatto non rimase attiva che l’emigrazione politica. Subito dopo la seconda guerra mondiale tuttavia il flusso in uscita riprende con ritmi elevati, e conta sino alla fine degli anni Settanta sette otto milioni di emigrati, per un totale complessivo di circa 30 milioni in poco più di un secolo di storia, dei quali due terzi non sarebbero più ritornati in patria, distribuiti in molti e molto diversi fra loro paesi d’adozione: in Europa (la Francia, la Germania, il Belgio, la Svizzera, ma anche il Regno Unito, la Finlandia etc.), in Sud America (l’Argentina, il Brasile, ma anche l’Uruguay, il Cile, etc.) e in Nord America (gli Stati Uniti, il Canada), e poi l’Australia, e in misura minore anche altri paesi. L’emigrazione, un’emigrazione di necessità – la povertà, la crisi del mondo agricolo, l’indigenza del proletariato in generale ne sono state il motore –  costituisce dunque una caratteristica fondamentale dell’Italia: ed è stato di conseguenza inevitabile, e giusto, che la prima legge globale sulla cittadinanza, la n. 555 del 13 giugno del 1912, ne tenesse particolarmente conto, assicurandola al figlio di padre italiano, indipendentemente dal luogo di nascita, o più precisamente a chi avesse una discendenza italiana per via paterna (poi la Costituzione del 1948 eliminerà la discriminazione patriarcale, equiparandole la discendenza per via materna). Insomma, come a risarcire la memoria di coloro che erano stati costretti ad abbandonare il paese, i loro discendenti, senza limiti di generazioni, e con la sola riserva che la catena di trasmissione non si fosse interrotta per esplicita rinuncia alla nazionalità, mantenevano intatta la possibilità di ritornarci da cittadini. Ed era doveroso che questo tragico esodo – perché di fatto di questo si è trattato – non fosse dimenticato, e venisse, venga sempre riconosciuto, come anche, concretamente, che restasse aperta la porta al ritorno. Per altro, questo grande movimento di emigrazione ha mischiato fra loro, sia pure fuori dall’Italia, le diverse zone del paese, il Nord e il Sud, contribuendo a forgiare un’identità (nel senso concreto di esistenza) nazionale e non più regionale… E di più: sempre dal di fuori, gli italiani all’estero si sono proficuamente mischiati, loro malgrado (non sarebbero voluti partire…), con le popolazioni dei paesi che li accoglievano, influenzando, creando nuovi prodotti culturali che a loro volta hanno profuicamente fecondato la madrepatria, e viceversa (influenze, prodotti non sempre positivi, a dire il vero: basti pensare alla mafia siculo-americana). Parlano in me anche i ricordi: di questi discendenti di italiani, fra Montréal e Buenos Aires, mi sono appassionato a raccogliere diverse storie.

Solo che poi il contesto è cambiato: in particolare, nel corso degli anni Ottanta, l’emigrazione esauriva il suo slancio, mentre l’Italia diventava appunto una terra di immigrazione. La legge  n. 91 del 5 febbraio 1992 avrebbe dovuto ripensare la cittadinanza alla luce di questa trasformazione del paese in senso multietnico. Ora di fatto ha confermato tale e quale l’impianto della normativa del 1912: italiani si è o si diventa iure sanguinis, e anzi le pratiche d’acquisizione della cittadinanza per chi sia nato all’estero da avo italiano risultano estremamente semplificate; lo ius solis invece è sostanzialmente limitato a chi nasce sul territorio da genitori ignoti o apolidi, mentre l’itinerario verso la cittadinanza di tutti gli altri immigrati o figli di immigrati resta inspiegabilmente complesso. Non solo: la legge abolisce il criterio di cittadinanza esclusiva, cioè stabilisce che la cittadinanza italiana non preclude il possesso di altre cittadinanze. Dal punto di vista che ci interessa qui, è una vera rivoluzione: fino al 1992 lo straniero discendente da avo italiano poteva diventare italiano solo rinunciando alla sua prima cittadinanza (argentina, statunitense, canadese, etc.) e quindi non si prevaleva praticamente mai di questo diritto, a meno di non decidere di cambiare vita trasferendosi nel Belpaese; dopo questa data invece qualunque argentino, americano, australiano etc. che abbia un avo italiano può, conservando la propria, prendere la cittadinanza dell’Italia, anche senza mai venirci a vivere, o addirittura senza mai neanche metterci piede. Curiosamente le statistiche esatte dell’acquisizione di nazionalità per discendenza anno per anno mancano – o almeno io non sono riuscito a trovarle – come manca la possibilità di distinguere, nella comunità degli iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE, creata con una legge del 1988, ed entrata in funzione nel 1990), fra chi proviene dall’Italia e ha come sua prima cittadinanza quella italiana (o un’altra: dall’Italia partono anche alcuni “nuovi” italiani di origine straniera), e chi proviene proprio dal paese estero in questione, di cui possiede la sua prima cittadinanza e in cui ha ottenuto ulteriormente quella italiana, appunto per meriti di sangue; senza considerare poi che molti italiani residenti all’estero non sono iscritti all’AIRE: ma è comunque significativo che gli iscritti a questa anagrafe siano passati nel giro di una trentina d’anni (1990-2022) da neanche un milione a quasi sei – e di nuovo ricordo, fra i miei amici e conoscenti canadesi e argentini di origine italiana, come la nuova normativa sulla nazionalità dinamizzò le domande di cittadinanza.

Last but not least alla fine del 2001 veniva varata la legge sul voto estero fortemente voluta dal ministro degli Italiani nel mondo (sic) del governo Berlusconi, Mirko Tremaglia, di salda fede missina (lo stesso che aveva ideato la legge del 1988 sull’Anagrafe estera), facente seguito alla modifica di alcuni articoli costituzionali ad essa collegati effettuata a inizio 2000 e inizio 2001 (il 48, con la creazione della circoscrizione Estero, il 56 e il 57, con il rimando ai deputati e senatori ivi eletti – che secondo l’ultimo aggiustamento, in seguito al recente taglio del numero dei parlamentari, sono passati rispettivamente a 8 e 4, di cui 3 e 1 nella ripartizione Europa). Prima di quella data gli italiani all’estero potevano votare (è un diritto sancito dalla Costituzione), ma per farlo dovevano tornare al loro comune elettorale di appartenenza in Italia, con un’agevolazione per il prezzo del biglietto, ma solo per la parte che riguardava lo spostamento dentro i confini nazionali (in altri termini chi ad esempio avesse voluto tornare per votare dall’Australia, doveva sostenere i costi del viaggio fino alla frontiera italiana, e solo dopo sarebbe intervenuta la riduzione del biglietto, per il tratto nazionale sino al suo comune di origine!). Ecco insomma che, al di là delle buone (o meno) intenzioni, si è venuta a creare una situazione sbalorditiva e profondamente iniqua. Si provi a immaginare, per meglio capirla, un’ipotetica legge che permettesse agli abitanti della Louisiana e del Québec di prendere la nazionalità della Francia e decidere, attraverso il voto, della sua politica – bene, la situazione reale dell’Italia è peggiore: perché i discendenti degli italiani nel mondo, quelli che un tempo si chiamavano gli oriundi, sono molto più numerosi di quelli della Louisiana e del Québec riuniti, si calcolano fra i 60 e gli 80 milioni, cioè più numerosi della stessa popolazione che vive nell’originaria madrepatria, l’Italia appunto, che non arriva a 60 milioni, e tutti possono diventarne cittadini, anche senza senza averci mai vissuto o conoscerne la lingua, la cultura, o avendone una conoscenza puramente memoriale, mitologica – lo ripeto, fra Buenos Aires e Montréal ho raccolto tante storie, non di rado commoventi, piene di poesia: ma possono queste storie tradursi in diritti e voto e decidere del destino di chi in Italia ci vive? Per altro, questa mitologia spinge la maggior parte delle numerose associazioni che gestiscono gli interessi delle comunità di emigrati e loro discendenti all’estero ad assumere, per quel che concerne la cittadinanza, posizioni retrivamente puriste e agli antipodi della loro storia di fecondo metissaggio: penso ad esempio all’USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani), che ho avuto modo di studiare più da vicino, opposta a qualunque forma di ius soli perché con questo – per citare le parole del suo presidente Eugenio Sangregorio – l’Italia non sarà più degli italiani… (Ricordiamo per inciso che lo ius soli è ciò che permise agli emigrati italiani di prendere radici nel Sud come nel Nord America, o ancora in Australia…). Viceversa, capita anche non di rado che la nuova nazionalità ottenuta da questi “discendenti” sia intesa in modo del tutto strumentale, e soprattutto abbia ben poco a che vedere con l’Italia: ad esempio è, semplicemente, un modo per potere risiedere in un altro paese dell’area Schengen… Tutto ciò suona ancora più scandaloso se si pensa ai milioni di stranieri che in Italia ci vivono da molti anni, ci lavorano, ci hanno fatto le scuole, sono concretamente italiani ma, per via di questo questo miscuglio di ius sanguinis abnorme e ius soli praticamente inesistente, si vedono preclusi voto e nazionalità. E dire che la riforma della cittadinanza varata nel 1992, che superava la legge del 1912, avrebbe dovuto essere il dispositivo al servizio di un’Italia che – per dirlo con le parole dell’allora ministra dell’Immigrazione, Margherita Boniver – nel giro di una generazione diventerà una società multietnica, multirazziale, multiculturale… Ed è appunto quello che è successo, solo che la legge è andata nella direzione contraria, ribadendo di fatto quella del 1912, ma in un contesto completamente mutato: i discendenti degli emigrati italiani, diverse generazioni dopo, sono oramai stabilmente cittadini dei loro (non più) nuovi paesi, e non sono loro ad aver bisogno di essere protetti dall’Italia, in cui non contano certo di ritornare. Ho sentito spesso criticare, e spesso con ignorante superficialità, la legge del ritorno israeliana: cosa dire allora di quella, ben più radicale, italiana? Israele infatti garantisce la cittadinanza israeliana alle persone di discendenza ebraica nel mondo, purché si trasferiscano in Israele, per viverci e restarci, con un bouquet di diritti e doveri, fra cui – se l’età lo permette – il servizio militare, della durata di quasi tre anni per gli uomini e di due per le donne; l’Italia invece la garantisce a tutti i suoi discendenti che ne facciano domanda, anche qualora decidessero di non metterci mai neanche piede: un diritto gratuito, senza doveri e, oggettivamente, fortemente discriminatorio nei confronti di chi in Italia ci vive.

Bisognerebbe insomma ripensare nel profondo la legge che regola il diritto di cittadinanza dei discendenti degli antichi emigranti partiti dall’Italia e degli attuali immigrati che ci sono arrivati negli ultimi trenta quarant’anni e continuano ad arrivarci, e ancor prima, a tal fine, rivoluzionare la prospettiva culturale e politica che la sottende: ma a farlo non sarà certo questo governo, con la sua mistica della patria e del sangue… Ecco, uno dei nodi di resistenza – quella resistenza che in tanti, dentro e fuori dall’Italia auspichiamo – e di speranza per i destini del paese mi sembra, culturalmente, politicamente, passare proprio da qui: recuperare il ricco patrimonio della diaspora – che si tratti di nativi italiani o di italiani di recente cittadinanza – attraverso una sua diversa orientazione, creando cioè un ponte, una trama di sintonie, fra le mescolanze diasporiche e quelle che in Italia si sono formate in questi ultimi anni, un ponte se vogliamo fra i meticci fuori dal paese e i meticci di dentro. Solo questo, a mio avviso, potrà sottrarre l’Italia all’odierna tristezza e decadenza che vanno di pari passo con lo spegnersi della sua demografia.

FINE

Mariano Prosperi: “tremor amoris”

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È stata recentemente pubblicata da Vydia Editore un’edizione ampliata di S’AGLI OCCHI CREDI. Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti, antologia a cura di Cristina Babino  dedicata ai capolavori dell’arte visiva delle Marche interpretati da voci poetiche marchigiane. La prefazione è di Massimo Raffaeli. Tra tra le opere d’arte che hanno ispirato gli scritti dei poeti: La Muta di Raffaello, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, la Pala Gozzi del Tiziano, la Crocefissione di Lorenzo Lotto a Monte San Giusto, La nascita di Corrado Cagli, L’Angelo di San Domingo di Osvaldo Licini, una fotografia dalla serie Presa di Coscienza sulla Natura di Mario Giacomelli, la scultura Il volo frenato di Valeriano Trubbiani, e opere meno note ma di rara bellezza come il Ritratto di Giovanna Garzoni di Carlo Maratti e un ritratto maschile realizzato da Pericle Fazzini.

Ospito qui un estratto dal mio intervento, dedicato all’arte di Mariano Prosperi.

 

La santa Senza Titolo, che vediamo aureolata di colore e come sfigurata, è – proprio per questo – figura-emblema della produzione di Mariano Prosperi, luogo dove l’immagine si sfalda in rilievi ritmici, in rivoli e segni di celeste rotazione. Qualcosa accade nel mezzo dell’opera, un turbamento spalanca la contrada pittorica per farvi entrare altre luci attenebrate, che scontornano il volto incarnando il Mistero: è tutto «uno sgomento fatto di rispetto, un tremore fatto d’amore», come dice Sant’Agostino della Scrittura (horror honoris et tremor amoris). E dove nel volto santo molti hanno saputo trovare soltanto una cella di umana rassomiglianza, Prosperi non ha esitato a incorporarvi un’evasione da ogni quieta natura, quasi ad accogliere l’infigurabile.

Che dire di questo artista di cui poco si parla nelle Marche – già traboccanti e sempre troppo taciute – dei Lotto e dei Licini, dei Crivelli e dei Mussio? Egli è «una piccola storia dell’Arte che arriva e rimane». A scriverlo è Giovanni Prosperi, suo fratello poeta: non mi è possibile altrettanta leggerezza. Solo qualche appunto, allora, partendo dalla nota che l’altro fratello gemello, don Felice Prosperi, ha inserito nell’introduzione a una delle sue mostre: «con grande entusiasmo frequentò e terminò gli studi accademici, licenziato con 30 e lode in Decorazione pittorica all’Accademia delle Belle Arti di Macerata, come risulta dal diploma dell’11 giugno 1976. […] Entrò in Convento, seguendo tutto l’iter comunitario formativo, religioso e intellettuale, che lo ha portato alla professione religiosa temporanea e alla promozione nel primo grado di Studi teologici, che saranno molto importanti per la sua Arte e la sua Fede. […] Però, nel frattempo, qualcosa si è rotto nel suo organismo e soprattutto nella mente. Forse è qui la genesi della malattia mentale, diagnosticata come schizofrenia, che infine è stata la vera causa della sua morte, nel togliersi la vita, a 44 anni, il giorno 20 aprile 1995».

L’arte di Prosperi (5000 pezzi, fra schizzi, opere minute, centinaia di disegni e pitture, sparsi ovunque, molti in Argentina, dove Mariano passò un anno con i parenti e con Don Felice, missionario nella periferia di Buenos Aires) è la rosa senza perché: fiorisce perché fiorisce. Del resto, il suo Vasetto di fiori potrebbe essere considerato un’altra opera-emblema, fatta di stupori implosi: offerta della mano al fuoco, e viceversa.

Le mani di Mariano mi sembrano, almeno per quanto ho potuto vedere dalle sue foto, un compendio del disarmo, e ancora più sono le sue figure senza titolo, senza certa nominazione, come quella che siamo qui chiamati a osservare: bellezza ignota a se stessa, precipitata in voto di sospensione aerea, concentrata, votiva adunanza di asimmetrie e colori, pittura pluviale e senza appartenenza – noi non amammo una singola cosa, ma l’immenso fermento, come al margine di una elegia di Rilke.

E sembra che non ci sia verso di spiegarsi che la pittura qui vada intesa come pensiero sulle mani nella stessa maniera in cui andrebbe inteso il pensiero ai piedi del funambolo; è tutto lì, nella piccola veglia reciproca degli strati: leggerissima manovalanza che sa della carta come terra spirituale, e disegna un volto o un paesaggio come composto di soli ictus e cadute, isole screpolate di colore.

A chi dirà che il segno è goffo, senza presa, che esso è consegnato a un caso frettoloso, che insomma ci troviamo di fronte a un’opera priva di grazia nonostante il “soggetto”, si dovrà rispondere con le parole di Henri Focillon: «l’artista riceve con gratitudine il dono del caso, e lo mette rispettosamente in evidenza. Gli proviene da un dio, e così è anche per la casualità che è frutto della sua mano. Se ne appropria senza esitare, e ne fa nascere qualche nuovo sogno. È un prestidigitatore capace di trarre partito dai suoi errori, dalle sue prese mancate, per farne giochi nuovi: e nulla ha più grazia dell’eleganza che si produce a partire da una goffaggine» (Elogio della mano).

Osserviamo, a tal proposito, l’attento disaccordo degli occhi nella figura Senza Titolo: Prosperi le fa piangere da un lato una cascata di terriccio che dal marrone trasmigra nel nero, si seppellisce in un buio già tramato di oro: è questo – malgrado tutto – l’occhio che vede, mentre l’altro, integro, sembra sbarrato da una cecità che attende ancora la rivelazione della lacrima. Cosmogonia dell’occhio storto, maldestro, allo stesso modo della storia di Lourdes di cui parla Deleuze in Sovrapposizioni: «fai che la mia mano ridiventi l’altra… ma Dio sceglie sempre la mano sbagliata». Santificazione perpetua della materia pittorica, a cui obbediscono movimenti e sembianze che sono qui senza essere di questo mondo, non gli somigliano affatto pur rivendicando il proprio mescolamento con la terra, con la cera e l’inchiostro.

Senza bisogno di evasioni, tutto parla di questo altrove, tutto lo annuncia proprio qui, anche se la bocca della santa è per metà nascosta e serrata – ma ve ne è un’altra aperta in un tenero grido, appoggiata di profilo sopra la fronte. Non è raro trovare nelle opere di Mariano il precipitare di una cosa nell’altra: paragonabili a quasi nulla dell’attorno artistico, questi volti solo apparentemente accidentati tramutano il foglio in una sintesi agiografica, parabola di forze che continuano a modellare sulla carta il proprio paesaggio spirituale.

Poesia secondo istruzioni, a cura di Guy Bennett #1

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[Pubblicherò in cinque episodi su NI del materiale legato a un progetto promosso da Guy Bennett, poeta statunitense. Si tratta di un’opera collettiva di poesia generativa che ha coinvolto 60 poeti, artisti e designer per un totale di 140 testi prodotti. Non vi è un’unica lingua di riferimento, anche se la maggioranza dei testi è stata scritta in inglese e in francese. Dopo aver ricevuto tutti i testi, Bennett ha inviato a intervalli regolari di tempo dieci “samplers” a tutti i partecipanti, contenenti ognuno 10 poesie. Infine tutti i testi sono stati raccolti in un catalogo digitale con un’introduzione e un ricco apparato paratestuale. In questo primo episodio presenterò la lettera d’invito che, in quanto partecipante, ho ricevuto da Bennett, con la presentazione generale del progetto. Segue un’intervista al curatore sulla nozione di “poesia generativa” e più in generale sul suo percorso e i legami che intrattiene con l’Italia. E infine la lista delle 99 istruzioni per realizzare una gran quantità di poesie. a. i.]

 

Poesia secondo istruzioni. A cura di Guy Bennett

Un’opera di poesia generativa (non combinatoria)

 

Di Guy Bennett

Traduzione di Andrea Inglese

IL PROGETTO

Un’opera di poesia generativa (non combinatoria) che s’ispira alla musica e all’arte della metà del XX secolo basate su istruzioni.

Questo progetto è frutto d’un duplice impulso : da un lato, il desiderio d’immaginare una poesia generativa, il cui contenuto verbale non sarebbe predeterminato dall’autore del progetto, come avviene di solito, ma che sarebbe piuttosto aperto a coloro che scrivono effettivamente le poesie; dall’altro, il desiderio di estendere all’ambito letterario quella specie di gioco concettuale, presente nelle arti visive e nella musica da più di cinquanta anni, e che è implicito nelle opere destinate ad essere create a partire da istruzioni verbali.

Nel gennaio 2022, ho fatto circolare una serie di 99 istruzioni, inspirate da quelle che Sol LeWitt aveva creato per i suoi Wall Drawings a una sessantina di poeti, artisti e designer, invitandoli a scrivere o a creare delle poesie a partire da questi semplici algoritmi. Sei mesi più tardi, avevo ricevuto i loro contributi e ne presentavo sul mio sito una scelta di 10 samplers, una campionatura di dieci testi.

Dal gennaio 2023, un catalogo numerico che contiene l’integralità del progetto – le 99 istruzioni, tutte le poesie generate a partire da quest’ultime così come qualche testo ausiliario – è ora disponibile sulla mia pagina.

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L’INTERVISTA

Una domanda su di te innanzitutto. Come si situa il lavoro di Guy Bennett nel campo odierno della poesia statunitense?

Non mi è facile risponderti, perché da un lato, tutto considerato, leggo abbastanza poco la poesia statunitense e, dall’altro, il poco che leggo, mi dà l’idea di essere un extraterrestre, tanto i miei centri d’interesse e le mie preoccupazioni paiono estranee alle forze motrici che fanno evolvere attualmente la poesia di questo paese, per come la percepisco.

In genere, coloro che si riferiscono alla formula “poesia generativa” hanno in mente un processo di scrittura che implica una macchina (computer) e un insieme di regole di produzione (algoritmi). In tale prospettiva, le nozioni di combinazione e di caso svolgono un ruolo importante. Qual è stato il tuo approccio a questa pratica? In altri termini, come sei arrivato ad elaborare il tuo progetto di “poesia generativa”?

La poesia generativa che tu descrive dovrebbe essere piuttosto etichettata come “poesia combinatoria”, in quanto si tratta inevitabilmente di produrre dei testi (o, se vogliamo, delle istanze da un testo matrice), che si generano a partire da un lessico / da una serie di versi forniti dall’autore del testo “generativo” in questione, dal momento che l’autore della poesia da generare si limita a combinare questi elementi predeterminati attraverso un algoritmo creato lui pure dal suo predecessore (ossia da colui che ha fissato il materiale lessicale di partenza). Questo vale ugualmente per le poesie numeriche quali Taroko Gorge di Nick Monfort che per quelle su carta, di cui l’esempio più celebre sono i Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau. (Discorso analogo per quanto riguarda la musica generativa – si vedano i programmi Bloom, Trope, Scape e altri di Brian Eno e Peter Chilvers, che funzionano esattamente allo stesso modo.)

Per quanto mi riguarda mi sono spesso domandato a cosa potesse assomigliare una poesia generativa, in cui l’autore della poesia da generare sarebbe libero di determinare tutti gli aspetti del suo contenuto verbale e nello stesso tempo d’interpretare in modo autonomo l’algoritmo che serve da protocollo generatore – Poesia secondo istruzioni è una delle possibili risposte a questa domanda. Come sono da sempre affascinato dai Wall Drawings di Sol LeWitt e che avevo già giocato con uno dei suoi testi (le sue “Sentences on Conceptual Arts”, sulle quali tornerò in seguito), ho deciso di prendere come modello le sue opere, che si realizzano attraverso delle istruzioni scritte.

Quali sono state le fonti che hanno ispirato il tuo progetto, fatto salvo Sol LeWitt che citi esplicitamente? 

Ce ne sono state diverse: principalmente gli “Event Scores” di George Brecht e Compositions 1960 di La Monte Young, Grapefruit di Yoko Ono, gli spartiti di 4’33” (John Cage) e di Pendulum Music (Steve Reich), e più generale, anche se in misura minore, i programmi informatici, le ricette di cucina, le indicazioni stradali, ecc.

Come definiresti la poesia concettuale o conceptual writing? Penso in modo particolare a due libri apparsi negli Stati Uniti e che hanno avuto una certa eco anche in Italia: Against expression: an Anthology of Conceptual Writing a cura di Craig Dworkin e Kenneth Goldsmith, da un lato, e Uncreative Writing. Managing Language in the Digital Age dello stesso Goldsmith, dall’altro. Come consideri il tuo progetto rsipetto a questi due lavori, che si basano su nozioni quali l’impersonalità, il protocollo, l’appropriazione?

Conosco male la conceptual writing statunitense; per altro non mai consultato le opere di cui tu parli e non posso quindi offrirne una definizione o utilizzarle come paragone rispetto al mio progetto. Ciò dipende dal fatto che la lettura di alcuni testi “concettualisti” all’inizio degli anni 2000 mi aveva lasciato indifferente e che, in seguito, non ho mai avuto voglia di esplorare ulteriormente ciò che si faceva in quell’ambito; da qui la mia lacuna.

Ciò detto, c’è una letteratura concettuale che conta molto per me, ma – a differenza di quella statunitense che ho potuto conoscere – essa è sparsa nel tempo e nello spazio / non è il prodotto di una scuola / testimonia di una sottigliezza dal punto di vista dell’idea che stuzzica la mia curiosità e mi soddisfa pienamente in quanto lettore. Penso a opere quali Testimony di Charles Reznikoff, Livro do desassossego di Fernando Pessoa (vedi tutta la produzione eteronimica), A Humument di Tom Phillips, Roland Barthes par roland barthes di Roland Barthes, Douleur exquise di Sophie Calle, Porque ella no lo pidió d’Enrique Vila-Matas, ecc. Mi faccio forse delle illusioni, ma credo che il mio lavoro recente abbia delle risonanze più significative con questi testi piuttosto che con quelli dei miei compatrioti contemporanei.

Quali sono i tuoi rapporti con l’OULIPO? Tra gli autori invitati a partecipare al progetto, ci sono membri dell’OULIPO come Ian Monk, Jacques Jouet, Michèle Audin, Hervé Le Tellier et Frédéric Forte, che per altro è anche il tuo traduttore in francese. Ma più in generale, qual è il tuo sguardo sulla poesia francese contemporanea? Tu poi parli e scrivi in francese. Vedi delle affinità tra certe correnti poetica negli Stati Uniti e in Francia?

 Con l’OULIPO intrattengo dei rapporti d’ammiratore, di simpatizzante, di lettore e, talvolta, di traduttore. Sono anche contento di contare qualche amico tra i membri del gruppo, la cui opera è, per me, una fonte d’ricchissima di stimolazione e d’ispirazione. Quanto alle affinità che può esserci tra correnti poetiche attuale negli Stati Uniti e in Francia, devo ancora una volta confessare la mia ignoranza, e questo per le stesse ragioni evocate in precedenza. La poesia statunitense alla quale sono più sensibile e che mi sembra la più dinamica attualmente è quella che tratta di questioni socio-politiche (la supremazia bianca, il razzismo, la xenofobia, la storia violenta del paese, quella della sua politica estera disastrosa, ecc.). Una tale poesia si scrive, oggi, in Francia? Lo ignoro.

Che cosa ti ha interessato di più in questa operazione? Prendere in contropiede ancora una volta il “lirismo” (in Italia, gode sempre di buona salute)? L’ironia e a volte la dimensione comica, come effetti prodotti da questo tipo di procedimenti di scrittura? Un lavoro al crocevia dei generi: tra poesia concreta, concettuale e “sous-contrainte”? Il ruolo del caso (perché alcune istruzioni sono state scelte piuttosto che altre)? L’interpretazione singolare di ognuno, malgrado il fatto di scrivere a partire da istruzioni comuni?

Tutti questi aspetti m’interessano. (Segnalo, in ogni caso, che non sono un anti-lirico; leggo regolarmente e con grande piacere la poesia lirica di culture ed epoche diverse.) Se pertanto dovessi indicare una motivazione determinante, sarebbe quello del desiderio di vedere quali risultati un tale approccio sarebbe in grado di dare.

Come ho notato più sopra, le mie fonti d’ispirazione sono state multiple, ma nessuna viene dall’ambito letterario. Questo perché, per quanto ne so, non c’è mai stata un’opera di poesia generativa di questo tipo. Quando la questione del contenuto verbale della poesia da generare è lasciata aperta, colui che la produce non è più semplicemente qualcuno che aziona un algoritmo – il quale a sua volta mette in sequenza degli elementi predeterminati da qualcun altro – ma l’autore di un testo unico che lui stesso ha concepito e scritto. È ormai il collaboratore dell’autore del progetto, un co-autore a tutti gli effetti, perché senza di lui non ci sarebbe poesia – non ci sarebbe che l’algoritmo o, nel nostro caso, le istruzioni. Questo è forse l’aspetto più affascinante di questo tipo di opera, il più sovversivo anche, perché rimette in questione lo statuto dell’autore assieme a quello dell’opera stessa.

In Italia, ho conosciuto il tuo lavoro attraverso le traduzioni di Ballerini e Vangelisti, nell’antologia Nuova poesia americana: Los Angeles (Mondadori, 2005). Da quale tuo libro è tratta la serie Eight Architectural Miniatures, che nell’antologia è stata tradotta? Più tardi, sul sito GAMMM gli amici Giovenale, Bortolotti, Raos hanno tradotti alcuni testi di Self-Evident poems in italiano. Vi sono altre pubblicazioni, in rivista o volume, di tuoi testi in traduzione italiana che sono attualmente disponibili? E per concludere, puoi dirmi qualcosa sulla tua attività di traduttore dall’italiano, di cui si parla nella nota dell’antologia summenzionata?

Eight Architectural Miniatures non fa parte di un libro ; il testo è stato pubblicata solo in antologia – in quella che citi e in un’altra negli Stati Uniti, ovviamente in lingua originale. Prima della traduzione di estratti da Self-Evident poems, Stefano Maria Casella aveva tradotto due poesie per la rivista Anterem alla fine degli anni ’90; poi c’è stato Drive to Cluster, un libro in collaborazione con il pittore statunitense Ron Griffin, tradotto da Manuela Bruschini e pubblicato in edizione bilingue da ML & NLF nel 2003. E dopo, il solo altro testo ad essere stato tradotto in Italiano è “Sentences on Poetry” – quello che ho menzionato prima e che s’ispira delle “Sentences on Conceptual Art” di LeWitt. È apparso nel 2015 nella rivista-manifesto 2×2 a cura di Paolo Di Vita, Chiara Giorgetti, Margherita Labbe, Anna Mariani, Italo Testa e Paul Vangelisti nella traduzione che ne ha fatto Renata Morresi. (Gli ingegni curiosi possono leggerlo e scaricarlo attraverso questo link.)

Quanto alla mia attività di traduttore dall’italiano, è davvero sporadica! È accaduto che il primo libro apparso a mio nome fu la traduzione nel 1994 di un’opera di poesia visiva molto poco conosciuta di un futurista italiano, Stati d’animo disegnati di George Steiner (Ingegni curiosi, se cercate ancora cose da leggere, le troverete qui. Confesso di sentire una certa fierezza per il fatto di aver esordito la mia carriera di traduttore con una raccolta sprovvista di parole (anche se c’erano i titoli e un’introduzione da redigere). Durante questo stesso periodo ho tradotto altri testi futuristi, Dune di Filippo Tommaso Marinetti e qualche estratto da BÏF§ZF+18 Simultaneità e Chimismi lirici d’Ardegno Soffici. La mia tesi di dottorato, che avevo appena concluso, riguardava la poetica dell’avanguardia storica, e quindi ero immerso ancora nella poesia dei vari –ismi dei primi decenni del XX secolo.

In quegli stessi anni su richiesta di Paul Vangelisti, ho cominciato a tradurre Giovanna Sandri, la cui opera mi ha affascinato. È la poetessa che ho più tradotto. All’inizio si trattava di qualche poesia per delle riviste (tra cui la bellissima “Origine lunare dell’alfabeto”), poi una piccola raccolta pubblicata nel 1998 (Clessidra : il ritmo delle tracce), e dieci anni più tardi un volume di sue poesie scelte (only fragments found: Selected Poems, 1969–1998). Nel corso degli anni Novanta, ho avuto una corrispondenza con Sandri; conosceva l’inglese e dunque ha potuto partecipare ad alcune delle mie traduzioni, trasformando persino il testo originale di certe poesie per permettere la creazione di “versioni perfezionate” in inglese. Ho anche tradotto con Brendan Hennessey, il saggio Verso la poesia totale di un contemporaneo di Sandri, Adriano Spatola.

Ecco tutto, credo.

 

⊗⊗⊗

INSTRUCTIONS / INSTRUCTIONS / ISTRUZIONI

 

1 A poem of just one unit (letter /word/ line / stanza).

Un poème en une seule unité (lettre /mot/ vers / strophe).

Una poesia di una solo unità (lettera / parola / verso / strofa).

 

2 A poem of two units (letters /words / lines / stanzas).

Un poème en deux unités (lettres /mots / vers / strophes).

Una poesia di due sole unità (lettere / parole / versi / strofe).

 

3 A poem of more than two units (letters /words / lines / stanzas).

Un poème en plus de deux unités (lettres /mots /vers / strophes).

Una poesia di più di due unità (lettere / parole / versi / strofe).

 

4 A poem divided vertically into three equal parts, each including nine different punctuation marks.

Un poème divisé verticalement en trois parties égales, chacune comprenant neuf signes de ponctuation différents.

Una poesia divisa verticalmente in tre parti uguali, ognuna comprendente nove segni di punteggiatura differenti.

 

5 A poem of lines less than two inches in length.

Un poème dont les vers ont une longueur inférieure à 5 cm.

Una poesia i cui versi hanno una lunghezza inferiore a 5 cm.

 

6 A poem of lines more than two inches in length.

Un poème dont les vers ont une longueur supérieure à 5 cm.

Una poesia i cui versi hanno una lunghezza superiore a 5 cm.

 

7 A poem of lines both more and less than two inches in length.

Un poème dont certains vers ont une longueur inférieure à 5 cm, d’autres supérieure à 5 cm.

Una poesia in cui alcuni versi hanno una lunghezza inferiore a 5 cm, altri superiore a 5 cm.

 

8 A poem divided vertically into four equal parts, each with a different grammatical person, tense, and mood.

Un poème divisé verticalement en quatre parties égales, chacune comprenant une personne, un temps, et un mode de verbe différents.

Una poesia divisa verticalmente in quattro parti uguali, ognuna comprendente una persona, un tempo e un modo del tempo diversi.

 

9 A poem divided horizontally into an odd number of parts, each with an even number of lines /words / syllables.

Un poème divisé horizontalement en un nombre impair de parties, chacune ayant un nombre pair de vers /mots / syllabes.

Una poesia divisa orizzontalmente in un numero dispari di parti, ognuna comprendente un numero pari di versi / parole / sillabe.

 

10 A poem embodying cognitive dissonance.

Un poème qui incarne la dissonance cognitive.

Una poesia che incarna la dissonanza cognitiva.

 

11 A poem written in one minute.

Un poème qui s’écrit en une minute.

Una poesia scritta in un minuto.

 

12 A poem that can be read in one minute.

Un poème qui se lit en une minute.

Una poesia che si può leggere in un minuto.

 

13 A timeless poem.

Un poème intemporel.

Una poesia senza tempo.

 

14 Lines written from and to specified random points on the page. (The specific location of the points is determined by the poet.)

Des vers écrits depuis et jusqu’à des points précisés, placés de manière aléatoire sur la page. (L’emplacement précis des points sera déterminé par le poète.)

Versi scritti da e fino ad alcuni punti precisi, situati in maniera casuale sulla pagina. (La disposizione precisa dei punti è scelta dal poeta.)

 

15 A poem with lines in three different directions.

Un poème dont les vers vont dans trois directions différentes.

Una poesia i cui versi vanno in tre direzioni diverse.

 

16 Same as the preceding but with four colors.

Identique au précédent mais en quatre couleurs.

Come al punto precedente ma in quattro colori.

 

17 A poem that seeks to give the impression of the color yellow.

Un poème qui cherche à donner l’impression de la couleur jaune.

Una poesia che cerca di dare l’impressione del colore giallo.

 

18 A poem containing the phrase “to see red.”

Un poème comprenant l’expression « voir rouge ».

Una poesia che contiene l’espressione « vedere rosso ».

 

19 A poem that makes the reader feel blue.

Un poème qui donne au lecteur un petit coup de blues.

Una poesia triste come una canzone blues.

 

20 An 11-line poem written using all of the Crayola crayons in a pack of twelve.

Un onzain écrit en utilisant tous les crayons d’une boîte Crayola 12 couleurs.

Una poesia di undici versi scritta utilizzando tutte le matite di una scatola di Crayola di dodici colori.

 

21 A two-part triptych.

Un triptyque bipartite.

Un trittico bipartito.

 

22 A three-part inverse serial poem: synthesis, antithesis, thesis.

Un poème sériel tripartite inverse : synthèse, antithèse, thèse.

Una poesia seriale tripartita rovesciata : sintesi, antitesi, tesi.

 

23 A four-inch long poem, featuring four repeated instances of particular items (vowels /words / figures of speech/ themes et al).

Un poème ayant une longueur de dix centimètres, comprenant quatre répétitions d’éléments particuliers (voyelles /mots /figures de rhétorique, thèmes, etc).

Una poesia lunga dieci centimetri, che includa la ripetizione di cinque elementi particolari (vocali, parole, figure retoriche, temi, ecc.)

 

24 A poem divided vertically into five equal parts, each with a different type of repetition (alliteration/ anadiplosis / isocolon/ etc.).

Un poème divisé verticalement en cinq parties égales, chacune comprenant un type de répétition différent (allitération, anadiplose, isocolon, etc.).

Una poesia divisa verticalmente in cinque parti uguali, ognuna delle quali comprenda un tipo di ripetizione differente (allitterazione, anadiplosi, isocolo, ecc.).

 

25 A 100-line poem in which the words “peony,” “nightingale” and “firefly” appear only once.

Un poème de 100 vers dans lequel les mots « pivoine », « rossignol » et « luciole » ne paraissent qu’une fois.

Una poesia di 100 versi nella quale appaiano una volta sola le parole “peonia”, “usignolo” e “lucciola”.

 

26 A poem in which each word appears only once.

Un poème dans lequel chaque mot ne paraît qu’une fois.

Una poesia in cui ogni parola non appaia che una volta.

 

27 A poem in which no word appears twice.

Un poème dans lequel aucun mot ne paraît deux fois.

Una poesia nella quale nessuna parola appaia due volte.

 

28 A poem that only seems to be addressing appearances.

Un poème qui, paraît-il, traite des apparences.

Una poesia che, a quanto pare, parli delle apparenze.

 

29 A poem-mirror.

Un poème-miroir.

Una poesia-specchio.

 

30 Double poem: lines containing metaphors from the four corners of the page, similes from the midpoints of four sides of the page, all lines converging in the center.

Poème double : des vers contenant une métaphore depuis les quatre coins de la page, d’autres contenant une similitude depuis le point médian des quatre côtés de la page, tous convergeant au centre.

Poesia doppia : versi contengono metafore dai quattro angoli della pagina; altri contengono similitudini dal punto mediano dei quattro lati del foglio, tutti convergono al centro.

 

31 A poem-telescope.

Un poème-téléscope.

Una poesia-telescopio.

 

32 A poem-microscope.

Un poème-microscope.

Una poesia-microscopio.

 

33 A poem that looks both in and out.

Un poème qui regarde et l’intérieur et l’extérieur.

Una poesia che guarda e l’interno e l’esterno.

 

34 A poem imagined but never written down.

Un poème imaginé mais jamais écrit.

Una poesia immaginata ma mai scritta.

 

35 A poem written down but later forgotten.

Un poème écrit mais oublié par la suite.

Una poesia scritta ma dimenticata in seguito.

 

36 A poem remembered.

Un poème de mémoire.

Una poesia ricordata.

 

37 Plans for a poem.

Des projets de poème.

Progetti di poesie.

 

38 A line is written; another line is written at a right angle to the first; lines are written at right angles to each preceding line until the poet is satisfied. The lines may cross one another.

Un vers s’écrit ; un autre s’écrit à l’angle droit du premier ; des vers s’écrivent à l’angle droit de chaque vers précédent jusqu’à ce que le poète soit satisfait. Les vers peuvent se croiser.

Si scrive un verso; se ne scrive un altro all’angolo retto del primo; si scrivono versi all’angolo retto di ogni verso precedente fino al momento in cui il poeta è soddisfatto. I versi possono incrociarsi.

 

39 Lines not short, not straight, crossing and touching, written at random using four colors and covering the entire surface of the page.

Des vers pas courts, pas droits, se croisant et se touchant, écrits au hasard en quatre couleurs et couvrant la totalité de la page.

Versi non corti, non dritti, che s’incrociano e toccano, scritti a caso in quattro colori, in modo da coprire la superficie intera della pagina.

 

40 A poem written with the pencil /pen not leaving the paper. The line may cross and touch itself.

Un poème qui s’écrit sans que le crayon/ stylo se lève de la page. Le vers peut se croiser et se toucher.

Una poesia che si scrive senza che la matita / la penna si stacchi dalla pagina. Il verso può incrociare e toccare se stesso.

 

41 A poem you might be embarrassed to share with your mother.

Un poème que vous seriez gêné·e de montrer à votre mère.

Una poesia che saresti imbarazzato di far leggere a vostra madre.

 

42 A poem your father wouldn’t care for.

Un poème qui ne plairait guère à votre père.

Una poesia che non piacerebbe per niente a vostro padre.

 

43 An orphaned poem.

Un poème orphelin.

Una poesia orfana.

 

44 A poem written on a page covered here and there with bits of masking tape, which are removed when the poem is finished.

Un poème écrit sur un feuillet couvert ici et là de bouts de ruban-cache adhésif qu’on enlève une fois le poème terminé.

Una poesia scritta su un foglio coperto qua e là da nastro adesivo, che si toglie a poesia conclusa.

 

45 An erasure poem containing only the erased words.

Un caviardage ne contenant que les mots caviardés.

Una poesia cancellata che contiene solo le parole cancellate.

 

46 A homophonic translation of a visual poem.

La traduction homophonique d’un poème visuel.

La traduzione omofonica di una poesia visiva.

 

47 A poem with a blindfold.

Un poème qui porte un bandeau sur les yeux.

Una poesia bendata.

 

48 A poem in which the speaker doesn’t speak.

Un poème dans lequel celui qui parle ne parle pas.

Una poesia nella quale il parlante sta zitto.

 

49 A poem that’s all ears.

Un poème qui est tout ouïe.

Una poesia tutt’orecchi.

 

50 A poem quiet as a mouse pissing on cotton.

Un poème silencieux comme une souris qui pisse sur du coton.

Una poesia silenziosa come un topolino che piscia nel cotone.

 

51 A poem overheard.

Un poème entendu.

Una poesia origliata.

 

52 A poem overthought.

Un poème sous-entendu.

Una poesia sottintesa.

 

53 A poem understood.

Un poème, bien entendu.

Una poesia benintesa.

 

54 A poem deeply distressed by the enormity of the climate emergency.

Un poème profondément affligé par l’ampleur de l’urgence climatique.

Una poesia profondamente afflitta dall’enormità dell’urgenza climatica.

 

55 A poem written inside, away from the weather.

Un poème écrit à l’intérieur, à l’abri des conditions atmosphériques.

Una poesia scritta al chiuso, riparati dalle condizioni atmosferiche.

 

56 In two separate rooms, not visible to one another, two poets write poems on pages of the same dimensions.

Dans deux pièces indépendantes, invisibles l’une de l’autre, deux poètes écrivent des poèmes sur des feuillets ayant les mêmes dimensions.

In due stanze indipendenti, invisibili l’uno all’altro, due poeti scrivono poesie su fogli dalle identiche dimensioni.

 

57 Two poets write poems on pages of different dimensions while sitting back to back in the same room.

Assis dos-à-dos dans la même pièce, deux poètes écrivent des poèmes sur des feuillets de dimensions différentes.

Seduti schiena contro schiena nella stessa stanza, due poeti scrivono poesie su fogli dalle differenti dimensioni.

 

58 A poem with alternating pleonasms and oxymorons.

Un poème alternant pléonasmes et oxymores.

Una poesia che alterni pleonasmi e ossimori.

 

59 A poem in which each letter is replaced by the 7th one following it in the alphabet.

Un poème dans lequel chaque lettre est remplacée par la septième lettre qui la suit dans l’alphabet.

Una poesia in cui ogni lettera è rimpiazzata dalla settima lettere che la segue nell’alfabeto.

 

60 A poem you might have written for someone else.

Un poème que vous auriez pu écrire pour quelqu’un d’autre.

Una poesia che avresti potuto scrivere per qualcun altro.

 

61 A monovocalic monorhyme poem.

Un poème monovocalique monorime.

Una poesia con un’unica vocale e un’unica rima.

 

62 A poem someone else might have written for you.

Un poème que quelqu’un d’autre aurait pu écrire pour vous.

Una poesia che qualcun altro avrebbe potuto scrivere per te.

 

63 A monovocalic polyrhyme poem.

Un poème monovocalique multirime.

Una poesia con un’unica vocale ma molteplici rime.

 

64 A poem no one has yet written.

Un poème que personne n’a encore écrit.

Una poesia che nessuno ha ancora scritto.

 

65 A poem in disbelief.

Un poème incrédule.

Una poesia incredula.

 

66 A poem that clings all the more tenaciously to its erroneous beliefs when presented with factual evidence to the contrary.

Un poème qui s’accroche encore plus à ses fausses croyances lorsqu’on le met devant des preuves du contraire.

Una poesia che si aggrappa ancora di più alle proprie false credenze, nel momento in cui le si mostrano prove del contrario.

 

67 An unbelievable poem.

Un poème incroyable.

Una poesia incredibile.

 

68 The location of ellipses points.

L’emplacement de points de suspension.

La disposizione dei puntini di sospensione.

 

69 The location of a colon.

L’emplacement d’un deux-points.

La disposizione di un due punti.

 

70 The location of a dash.

L’emplacement d’un tiret.

La disposizione di un trattino.

 

71 A poem divided vertically into two equal parts. 1st part: an active voice exploration of inertia. 2nd part: a passive voice meditation on action.

Un poème divisé verticalement en deux parties égales. 1e partie (voix active) : une exploration de l’inertie. 2e partie (voix passive): une méditation sur l’action.

Una poesia divisa verticalmente in due parti : prima parte, un’esplorazione – con voce attiva – dell’inerzia. Seconda parte, una meditazione – con voce passiva – sull’azione.

 

72 A poem of lines superimposed on one another.

Un poème de vers superposés les uns sur les autres.

Una poesia di versi sovrapposti gli uni agli altri.

 

73 A “square-root” poem (i.e. 12 dodecasyllables /10 decasyllables /8 octosyllables / etc.), the cesura appearing after a different syllable in each line.

Un poème « racine carrée » (i.e. 12 dodecasyllabes /10 decasyllabes /8 octosyllabes / etc.), la césure venant après une syllabe différente dans chaque vers.

Una poesia « radice quadrata » (ad esempio, 12 dodecasillabi / 10 decasillabi / 8 ottonari, ecc.), con la cesura situata dopo ogni sillaba differente in ogni verso.

 

74 A poem each line of which contains an enjambment.

Un poème dont chaque vers contient un enjambement.

Una poesia in cui ogni verso contiene un enjambement.

 

75 A poem each line of which is a complete sentence.

Un poème dont chaque vers est une phrase complète.

Una poesia in cui ogni verso è una frase completa.

 

76 An incomplete poem.

Un poème incomplet.

Una poesia incompiuta.

 

77 A poem of the moment.

Un poème du moment.

Una poesia del momento.

 

78 A poem before.

Un poème avant.

Una poesia prima.

 

79 A poem after.

Un poème après.

Una poesia dopo.

 

80 A poem that’s good enough for now.

Un poème qui suffit pour l’instant.

Una poesia che per ora basta.

 

81 A poem that seeks to manipulate readers by eschewing demonstrable facts and appealing instead to their emotions and personal beliefs.

Un poème qui cherche à manipuler ses lecteurs en rejetant les faits démontrables pour faire appel plutôt à leurs émotions et croyances personnelles.

Una poesia che tende a manipolare i propri lettori, rifiutando i fatti dimostrabili, per fare appello piuttosto alle emozioni e alle credenze personali.

 

82 A poem presenting alternative facts to materially manifest entities and/or scientifically proven phenomena.

Un poème qui présente des « vérités alternatives » pour contester des entités matériellement manifestes et/ou des phénomènes scientifiquement démontrés.

Una poesia che presenta delle « verità alternative » per contestare delle entità materialmente manifeste e/o dei fenomeni scientificamente dimostrati.

 

83 A poem that fosters doubt in the real and/or factual by maliciously claiming lack of consensus and/or insisting the opposite is true.

Un poème qui sème le doute quant au réel et/ ou aux faits en proclamant malicieusement un absence de consensus et/ou en insistant pour que le contraire soit vrai.

Una poesia che insinua il dubbio riguardo al reale e/o ai fatti, proclamando maliziosamente una mancanza di consenso e/o insistendo che è vero l’opposto.

 

84 A poem that knows better.

Un poème qui fait preuve de bon sens.

Una poesia che la sa lunga.

 

85 An unknowing poem.

Un poème inconscient.

Una poesia inconsapevole.

 

86 Poem know thyself.

Poème, connais-toi toi-même.

Poesia conosci te stessa.

 

87 A pantoum-villanelle hybrid.

Un hybride pantoum-villanelle.

Un ibrido pantoum-villanelle.

 

88 A haiku-Ruba‘i hybrid.

Un hybride haiku-rubaï.

Un ibrido haiku-rubai.

 

89 A reconfigured sonnet.

Un sonnet restructuré.

Un sonetto ristrutturato.

 

90 A fixed form poem that’s broke.

Un poème à forme fixe changeant.

Una poesia a forma fissa mutevole.

 

91 An alt-palindromic poem (i.e. comprising metric /phonic / syllable-count palindromes).

Un poème alt-palindromique (i.e. comprenant des palindromes métriques /phoniques / syllabiques).

Una poesia alt-palindroma (ad esempio, comprendente palindromi metrici / fonici / sillabici).

 

92 Four figures of words (anaphora / commutatio/ subjectio/ etc.).

Quatre figures de mots (anaphore / commutation/ subjection/ etc.).

Quattro figura di parola (anafora / commutatio / subjectio / ecc.).

 

93 Four figures of thought (exergasia / image / simile / etc.).

Quatre figures de pensées (image /prosopopée / similitude / etc.).

Quattro figure di pensiero (prosopopea / similitudine / allegoria, ecc.)

 

94 Go figure.

Pire cas de figure.

Figurati un po’.

 

95 A poem feeling ever more hopeless and enraged in the face of mendacious, cynical and criminally unaccountable local leaders and heads of state.

Un poème de plus en plus désespéré et furieux face aux dirigeants locaux et chefs d’état mensongers et cyniques qui pensent que la responsabilisation ne les concerne pas.

Una poesia sempre più disperata e furiosa di fronte ai dirigenti locali e ai capi di stato impostori e cinici, che agiscono irresponsabilmente.

 

96 A poem attacking any reader that fails to praise it.

Un poème qui attaque tout lecteur qui manque de le louer.

Una poesia che aggredisce ogni lettore che non la loda.

 

97 A poem that makes you happy you’re not a poem.

Un poème qui fait que vous êtes heureux de ne pas être un poème.

Una poesia che fa in modo che tu sia contento di non essere una poesia.

 

98 A poem that couldn’t care less.

Un poème qui s’en moque éperdument.

Una poesia che non può fregarsene di meno.

 

99 A poem that doesn’t know when to stop.

Un poème qui ne sait pas quand il doit s’arrêter.

Una poesia che non sa quando deve fermarsi.

 

*

L’immagine è tratta da: Resources :: Exhibition Poster: Sol Lewitt, Wall Drawings & Structures, John Weber Gallery, New York | Smithsonian Learning Lab (si.edu)

 

 

Storia di un fiore

2

di Francesca Caponi

Malalbergo, maggio 1944

Teresa appoggia l’indice sulla sua giovane bocca appena in tempo, un altro secondo e la goccia di sangue sarebbe scivolata dal dito ai pantaloni del fratello che tiene sulle ginocchia. C’è mancato poco, pensa succhiando la piccola ferita fatta dall’ago. Non ama cucire, eppure tutto ciò che le resta di sua madre riguarda proprio il cucito: una cesta adagiata sul tavolo accanto a lei con dentro qualche rocchetto di filo, dei ferri con una maglia avviata e aghi di varia dimensione. Tutto quello che le resta della madre che non ricorda. Ciononostante il cucito era sempre stata per lei una mera necessità che niente aveva a che fare con la passione. Chissà, forse sarebbe stato diverso se avesse imparato a cucire da sua madre, invece a cinque anni si trovò a rimbalzare come un grillo da un’anziana all’altra del paese, tutte pronte e volenterose nell’insegnare alla povera Teresina, ognuna a modo suo, ma tutte d’accordo sul fatto che non dovesse usare la mano sinistra per nessun motivo. Così Teresa imparò a cucire con la mano che sapeva usare peggio che però, evidentemente, era quella giusta, e le signore del paese si dettero pace.

Il dito non sanguina più e Teresa riprende a riparare lo strappo nei pantaloni, tenendo ben saldo l’ago tra il pollice e l’indice della mano destra. Sono passati più di dieci anni, ma lei ricorda bene le mani leste e precise delle sue insegnanti: mani nodose, mani fragili, mani corte e piene, mani chiazzate; si muovevano da sole, mentre le signore parlavano e sembravano pensare ad altro, loro continuavano per volontà propria a lavorare, cucire, ricamare e tagliare. Vorrebbe poter essere più veloce anche lei, ma questo giorno le mani le fanno particolarmente male. Pensa con sollievo a quel pomeriggio a casa, ha bisogno di riposare, non solo per il dolore alle mani, ma anche alla schiena. Alza gli occhi verso il letto, abbastanza grande per far riposare sia lei sia il fratello. Ancora poco e potrà riposare, già le sembra di sentire il peso del suo corpo lasciarsi andare sopra le coperte, la tensione alla schiena allentarsi piano piano, come il morso di un lupo che si apre e lascia cadere la preda. Il fratello, spesso, prima di dormire le massaggia le mani e qualche volta Teresa si addormenta così, con la mano tra quelle più grandi di suo fratello. Giulio è appena entrato in casa, senza che la sorella, assorta nei pensieri, se ne sia accorta. In una mano un piccolo mazzo di fiori rossi, il cappello nell’altra, allunga una mano per appenderlo al chiodo accanto alla porta, ma il posto è già occupato da quello, più largo e ingombrante, della sorella, fedele alleato per ombra e sollievo «Cosa ci fai già a casa? Cosa è successo?» Il sussulto di sorpresa di lei si esaurisce in una smorfia di dolore per una fitta alla schiena «Ti sei fatta male?» Le domanda avvicinandosi. «No, sto bene. Ti avevo detto che forse sarebbe cominciato lo sciopero.» Risponde facendo il nodo di chiusura al rammendo e, solo dopo, guarda il fratello. «Quei fiori?» Lui sorride avvicinandosi. «Sono per te. Non pensavo cominciaste così presto con lo sciopero.» Si siede accanto a lei, mette il cappello e i fiori sul tavolo. Passa più volte le mani nei folti capelli biondi e le dita lasciano segni come piccoli sentieri in un campo di grano. Teresa ha finito, ripiega i pantaloni senza alzarsi e ripone ago e filo nella cesta della madre. «Dove sei stato? Pensavo di trovarti a casa.» Giulio non parla, ora si struscia gli occhi, poi le tempie, mentre i piedi si intrecciano tra di loro sotto la sedia. La sorella lo nota e lo incalza. «Allora? Dov’eri?» Giulio sospira e la guarda negli occhi. Lei capisce e il dolore alle mani e alla schiena non ha più importanza, la stanchezza pure se ne torna alla sorgente e concede libero spazio alla rabbia, amica infelice della paura. «No.» Giulio teme quel momento più di ogni altra cosa, più di qualsiasi cosa lo avrebbe atteso dal giorno dopo. «Teresa, ascoltami.» Ma lei non ha intenzione di farlo. «Non abbiamo notizie di nostro padre da due anni, e tu hai il coraggio di lasciarmi qua da sola.» Le sue parole sono un soffio, la furia di un serpente che non può urlare, mentre piccole gocce cadono sul tavolo sotto di lei. Giulio osserva le lacrime della sorella farsi strada sulle guance rosse di sole e rabbia, alcune cadono giù, altre scendono sul collo e finiscono per essere soffocate dal fazzoletto bianco e sporco che la sorella tiene tutti i giorni intorno al collo. Sente qualcosa morire dentro, ma non può farci niente, non può evitare quel dolore alla sorella. Si alza, sposta la sedia in modo da potersi mettere in ginocchio davanti a lei, le prende le mani. Aveva sette anni quando sua madre è morta; ora che ne ha diciannove i suoi ricordi sono sfumati, il volto di sua madre ha perso precisione e spesso gli appare in bianco e nero, il suo profumo è una scia lontana che ritrova ormai solo con grande sforzo, ma la voce e le mani per fortuna sono quelle della sorella. Le dita di Giulio sono sempre sporche d’inchiostro Tue e le tue parole, le diceva sempre la sorella con ammirazione mascherata da ironia quando lui le leggeva qualche riga dei suoi scritti. Era stato il fratello ad insegnarle a leggere e insisteva spesso anche per farla scrivere, lei non ne aveva mai capito il motivo, una mondina non ha bisogno di scrivere e, soprattutto, dopo quindici ore passate con le mani nell’acqua, non ne ha alcuna voglia.

«Ti fa male la schiena?»

«Sempre.» Risponde lei dura.

«Teresa, ascoltami. Devo partire, devo farlo anche per te. Sai cosa fanno i soldati alle donne.» Dice lui sperando in quel modo di farla ragionare.

«Morirai. Morirai e io sarò sola.» Giulio decide di ignorare la cattiveria. È arrabbiata, ha ragione.

«È tutto organizzato, domani mattina prima dell’alba parto con Oliviero e Corrado. Dovremmo arrivare a Montefiorino in un giorno, dove ci aspetta un conoscente di Oliviero della divisione Armando. Ti lascio scritto su un foglio cosa devi fare per contattarmi. Aspetta la fine dello sciopero, stai in casa il più possibile e se dovesse tirare una brutta aria vai via, vai in Piemonte. Ti lascio l’indirizzo della madre di un amico di Oliviero, si è detta disponibile ad ospitarti se ce ne fosse bisogno.» Teresa non lo guarda, fissa ostinatamente il debole fuocherello nel camino accanto alla modesta cucina. Solo la sera prima erano seduti accanto al fuoco, Giulio leggeva a voce alta le sue poesie da un quaderno con la copertina nera e consumata, Teresa ascoltava nella tranquillità ritrovata in quei pochi giorni in cui non avevano più discusso di guerra, di partigiani, di partenze; la calma prima della bufera.

Quella stanza col tavolo, il letto, il camino e la cucina è tutta la loro casa La mia casa, pensa Da domani sarà solo la mia casa. I singhiozzi escono forti dal petto e dalla bocca, il fuoco che sente dentro si indebolisce. Giulio l’aiuta ad alzarsi e l’abbraccia forte: Teresa è poco più bassa di lui, ma in quel momento, mentre bagna di lacrime disperate la sua spalla, le sembra tanto più piccola. La fa sdraiare sul letto e le accarezza il volto «Sei proprio bella, lo sai?» Le dice. La risposta è tagliente come un coltello appena affilato «Bella e sola.» Giulio le prende una mano e comincia a massaggiarla. Poco dopo Teresa dorme.

È notte. Teresa è persa da qualche ora dentro un sonno agitato, ogni tanto Giulio si volta a guardarla e la trova sempre in una posizione diversa. Dovrebbe dormire anche lui, lo attendono ore di cammino e fatica, ma non ci riesce. Le parole e le lacrime della sorella non sono state una sorpresa, ma gli hanno fatto male ugualmente. Si volta di nuovo: la luce della fiamma le illumina il bel volto e rimbalza sui capelli dorati, leggermente più scuri dei suoi. Bella dentro, bella fuori. Lasciarla lo spacca in profondità e in superficie, ha anche pensato di portarla con sé Sei matto aveva detto Corrado Già solo il viaggio è troppo faticoso e poi è più al sicuro qua, alla risaia. Un forte respiro, forse un sospiro, fa vibrare i petali rossi dei fiori sistemati in un bicchiere d’acqua in mezzo al tavolo. Li osserva, li sfiora. Ne prende uno, lo annusa, lo adagia vicino al calamaio. Apre il quaderno e comincia a scrivere.

Il freddo della mattina senza sole prende a schiaffi il viso e le gambe sotto la gonna, ma lei non ci fa caso. Guarda il fratello allontanarsi Non mi volterò, non voglio vederti piangere le aveva detto sulla soglia mentre si abbracciavano. Ma lei non sta piangendo, lascia che il rumore dei passi che stanno portando via suo fratello spezzi il silenzio dentro di lei. Stringe forte i due fogli che Giulio le ha messo in mano prima di salutarsi e quando la sua figura scompare nel buio lontano, rientra in casa e si siede vicino alla luce del fuoco. Nel primo foglio il fratello aveva scritto le istruzioni per essere contattato e un indirizzo di Vercelli. Dal bordo irregolare del secondo foglio Teresa capisce subito che si tratta di un foglio strappato dal quaderno, una poesia, pensa: il fratello le avrà regalato una delle poesie che le aveva letto a voce alta, magari una a cui lei aveva mostrato maggiore attenzione. E invece no, è una nuova, che Teresa non ha mai sentito, non ha mai letto. Legge il titolo, Alla parte bella del mio cuore, e poi via, tutto il resto. Legge la poesia più di una volta, e ogni volta qualche lettera perde un po’ della sua precisione dentro a una lacrima. Legge quella scia dell’anima di suo fratello un’ultima volta, poi la sistema dove deve stare, sul tavolo, sotto ai papaveri. Fa una carezza agli ultimi versi

È questo il fiore del partigiano o Bella ciao Bella ciao Bella ciao ciao ciao è questo il fiore del partigiano morto per la libertà; una carezza alla poesia o al poeta, non lo sa.

Questo racconto si ispira alle principali e controverse ipotesi sull’origine di Bella ciao. In breve, una vede la nascita e la diffusione di Bella ciao durante la Resistenza in alcune aree ristrette come Montefiorino, Bologna, Reggio, Apuane e Reatino e solo dopo, a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, si sarebbe diffuso nelle altre regioni; un’altra ipotesi la vede nascere da una rivisitazione di un canto delle mondine (Questa mattina mi sono alzata/ o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao ciao/ sta mattina appena alzata in risaia mi tocca andar./ E tra gli insetti e le zanzare/ o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao ciao/ e tra gli insetti e le zanzare/ un dur lavoro mi tocca far. […]). Tuttavia quest’ultima teoria è stata molto contestata e oggi ha maggior seguito l’idea che sia stata Bella ciao ad ispirare la versione delle mondine e non il contrario.

Gibellina. La materia poteva non esserci

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di Jamila Mascat

Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio di 55 anni fa, la valle del Belice, raccolta tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo, fu travolta da un infausto terremoto che rase al suolo Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago e si propagò in una ventina di paesi limitrofi, causando trecento morti, un migliaio di feriti e centomila sfollati. Per quasi quarant’anni le baracche con i tetti di legno e di eternit, che Sciascia paragonò “ai più abbietti campi di concentramento”, rimasero come una ferita aperta sul corpo del disastro, finché nel 2006 le ultime duecentocinquanta vennero definitivamente rimosse. Nell’epicentro della catastrofe restano cumuli sparsi di macerie, come quelli tra cui si aggirava a piedi Joseph Beuys nel Natale del 1981, ritratto nelle foto di Mimmo Jodice; e come quelli ancora ben visibili lungo la Strada provinciale 5, tra cui i Ruderi di Salaparuta, restaurati e visitabili. E resta l’enorme Cretto di Alberto Burri (1984-89) che congela la devastazione di Gibellina nel cemento di una cicatrice bianca a cielo aperto, ruvida e muta.

Sotto il Cretto, di Alberto Burri.

C’è chi, come me, Gibellina la conosceva solo così, per via di Burri e di Pietro Consagra, l’artefice, entre autres, della stella d’acciaio inox che sovrasta la Statale 188 e accoglie chi arriva a Gibellina Nuova.

La Stella del Belice, di Pietro Consagra.

Di Gibellina conoscevo solo la promessa di resurrezione, il piano visionario del sindaco Ludovico Corrao che voleva farla rinascere sotto forma d’opera d’arte, l’utopia concreta caldeggiata da Sciascia, Guttuso e Carlo Levi. Furono in tanti negli anni Settanta e Ottanta, oltre Burri e Consagra, a rispondere all’appello di Corrao a reinventare e ricostruire la città ideale.

Il Sistema delle Piazze, di Franco Purini e Laura Thermes.

Alla nuova Gibellina, che nacque a valle, e a diversi chilometri di distanza dalla vecchia, ciascuno rese omaggio a modo suo, privato e dissonante. La città fu dotata di un municipio (Vittorio Gregotti, Giuseppe e Alberto Samonà, 1972), di una Chiesa Madre (Ludovico Quaroni 1972-2002), di un Sistema della Piazze (Franco Purini e Laura Thermes 1982-90), di un Teatro (Pietro Consagra, 1984), di una Torre civica (Alessandro Mendini, 1987),  di un Meeting-bar (ancora Consagra, 1976), di una Fontana (Andrea Cascella, 1986), di un Aratro (Arnaldo Pomodoro, 1986) e un centinaio d’installazioni en plein air.

La Città di Tebe, di Pietro Consagra.

Il Teatro, di Pietro Consagra.

Il Teatro e il Meeting, di Pietro Consagra.

La staffetta creativa è continuata negli anni Novanta e Duemila, dalla Montagna di sale di Mimmo Paladino (1990) alla pittura murale di Sten Lex (2016), all’insegna della stessa filosofia: da ciascuno secondo le sue possibilità. Se invece la città fatta ad arte sia stata edificata anche secondo i bisogni di ciascuno, è tutt’altra questione che, a distanza di tempo, torna ad essere spesso sollevata. Il verdetto di Mario La Ferla in Te la do io Brasilia (2004) è senz’appello: Gibellina è un sogno abortito, una tragedia che l’arte non ha saputo riscattare e di cui ha finito per prendersi gioco. Dopo aver visto Gibellina dal vivo, assolata e vuota in un mattino di dicembre, è difficile dargli torto. Ci si rammarica del silenzio di una città afona e deserta, e forse disertata dai suoi abitanti (ufficialmente poco più di 4500). Ci si rammarica dell’idea che non ha preso corpo, della resurrezione sconfitta.

Ancora il Teatro di Consagra.

Ancora il Meeting, di Consagra.

Peccato per le rovine d’autore della città nuova: per il campanile arrugginito della Chiesa Madre, per il corpo alieno e sfinito del teatro incompiuto in cemento armato, per la corazza perforata e fatiscente del Meeting-bar, per le due piazze che mancano al Sistema delle cinque piazze, per tutto quel che a Gibellina è di troppo, ma non è abbastanza. La materia poteva non esserci, si direbbe con Consagra.

La Piazza Joseph Beuys, a Gibellina (ma non ne sono certa).

Il calcio in camicia nera: “Mondiali senza gloria” di Giovanni Mari

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di Daniele Ruini

In genere un cieco amor di patria è affetto incongruente con l’attività storiografica e critica
(G.E. Gadda)

Chissà se gli appassionati di calcio si sono mai chiesti che ci fa una maestosa torre sulla sommità dei distinti dello stadio Dall’Ara di Bologna… E qualcuno avrà mai notato che il Franchi di Firenze, se visto dall’alto, rivela una struttura a forma di D? E ancora, quanti conoscono la figura del fascista bolognese Leandro Arpinati, presidente della FIGC (Federazione italiana giuoco calcio) che ebbe un ruolo non secondario nei primi dei 6 scudetti vinti dalla squadra della sua città tra il ’24 e il ’41?

A illuminare questi aspetti è Giovanni Mari nel suo recente Mondiali senza gloria (edizioni People), un’approfondita panoramica sugli intrecci tra politica e pallone durante il ventennio fascista. L’investimento mussoliniano sulla propaganda coinvolse, infatti, anche lo sport, e il calcio in particolare: le vittorie italiane al Mondiale casalingo del 1934, alle Olimpiadi di Berlino del ’36 e al Mondiale francese del ’38 furono la conseguenza di una precisa pianificazione ordinata dallo stesso Mussolini, nonché di un’evidente pressione da parte del governo italiano sulle istituzioni internazionali dello sport.

Si scopre quindi che il fascismo è stato anticipatore anche su questo aspetto, avendo intuito quanto il calcio poteva tornare utile come spettacolo di distrazione di massa e veicolo di visibilità per lo stesso regime. Si tratta di un aspetto a cui ormai siamo assuefatti e che ha conosciuto uno dei suoi apici con i recenti mondiali in Qatar, definiti da Mari «una grande operazione di sportwashing» (col loro contorno di migliaia di lavoratori stranieri morti durante la costruzione degli stadi, divieti di esibizione di simboli LGBT+, e indagini sulla possibile corruzione di parlamentari europei per favorire un ritorno di immagine in occidente).

Se «il calcio è politica», Mussolini lo capì dunque con largo anticipo e dalla fine degli anni ’20 impiegò molte risorse per fare della nazionale italiana di calcio l’ambasciatrice del regime: ecco allora il saluto romano imposto ai calciatori prima e dopo le partite, la diffusione di Giovinezza prima del fischio d’inizio e l’obbligo di iscrizione al Partito fascista per i giocatori convocati in nazionale. Ma a venire permeato dalla dittatura fu tutto il sistema dello sport, come dimostra l’imposizione di presidenti fascisti alla guida del CONI, o le ingerenze dei vari potentati locali nelle società sportive.

Dopo aver deciso di investire sul pallone, Mussolini fece quindi di tutto per ottenere l’assegnazione della seconda edizione dei Campionati mondiali di calcio, disputati nel 1934. E ci riuscì garantendo alla FIFA rigore assoluto –come solo uno stato dittatoriale poteva fare– in materia di ordine pubblico; oltre a ciò, offrì all’evento una copertura finanziaria straordinaria, promettendo di sostenere le spese per tutte le squadre che avrebbero partecipato al torneo (cosa mai più accaduta in seguito in nessuna competizione internazionale). E una volta occupatosi degli aspetti organizzativi (tra cui rientravano anche la costruzione o il rifacimento degli stadi), il governo si preoccupò di realizzare le condizioni migliori per favorire la vittoria della propria nazionale. Tale strategia prevedeva di pilotare i sorteggi e, soprattutto, di disporre di arbitraggi favorevoli, un aspetto che si rivelò decisivo nel percorso degli azzurri verso la vittoria finale. La doppia sfida ai quarti vinta contro la Spagna, la semifinale contro l’Austria –la vera favorita del torneo– e pure la finale contro la Cecoslovacchia furono infatti macchiate da grossolani favoritismi arbitrali a vantaggio dell’Italia, mentre gli avversari subirono torti colossali (evidenti a tutti eccetto ai giornali italiani). E ci furono episodi ancora più inquietanti, come le minacce denunciate dal fortissimo portiere spagnolo Zamora a cui fu di fatto vietato di scendere in campo nella ripetizione del match dei quarti di finale.

Naturalmente Mussolini s’intestò la vittoria, celebrandola come il trionfo del fascismo e il riscatto del popolo italiano. Va anche detto che tale successo fu favorito dall’assenza di Inghilterra e Uruguay (all’epoca le compagini più forti) e dalla circostanza per cui l’Argentina aveva inviato al torneo una squadra fatta di riserve. Quest’ultima decisione era stata presa per evitare un’ulteriore deriva di quel fenomeno che aveva visto molti calciatori sudamericani “comprati” dai club di serie A e trasformati in italiani da poter convocare in nazionale. Bastava infatti rinvenire una –anche molto lontana– origine italiana e proporre loro grossi ingaggi per convincerli a vestire la maglia azzurra. L’Italia vincente del ’34 poté così contare in formazione diversi oriundi, nonostante in molti casi ciò rappresentasse una violazione delle regole stabilite dalla FIFA (che imponeva ai calciatori l’obbligo di residenza per almeno 3 anni nella nuova nazione come condizione per poterne vestire la maglia).

Dopo che la nazionale era riuscita ad imporsi anche al torneo di calcio delle Olimpiadi tedesche del 1936, due anni dopo fu la volta dei Mondiali di calcio assegnati alla Francia, gli ultimi ad essere disputati prima della lunga pausa imposta dalla Seconda guerra mondiale. In realtà già su questa edizione si allungarono le ombre dell’aggressiva politica estera nazista: in seguito all’annessione dell’Austria da parte dello stato tedesco, la compagine austriaca dovette infatti rinunciare alla partecipazione. Anche la Spagna, lacerata dalla violenta guerra civile del ’36-’39, non poté prendervi parte. Come già ai Mondiali precedenti, inoltre, anche in questo caso mancavano Inghilterra e Uruguay, a cui si aggiunse la defezione dell’Argentina, offesa con la FIFA per non aver assegnato il torneo ad una nazione sudamericana.

Facilitata da queste assenze, e potendo contare su una squadra molto forte, la nazionale italiana –ancora sotto la direzione del commissario tecnico Vittorio Pozzo (un ex alpino che aveva partecipato alla Grande Guerra e che era considerato un sostenitore del regime)– riuscì a confermarsi campione del mondo; e Mussolini, che organizzò un fastoso ricevimento a Palazzo Venezia per celebrare la nazionale, «costruì su quel bis una gigantesca e capillare opera di comunicazione». Se questa volta non fu necessario ricorrere alla corruzione degli arbitri, gli azzurri dovettero invece fare i conti con le contestazioni di migliaia di antifascisti in esilio in Francia: di fronte ai fischi che arrivavano dagli spalti, gli azzurri vennero invitati a non abbassare i loro bracci tesi e si presentarono ai quarti contro i padroni di casa indossando addirittura una casacca nera (per la prima e ultima volta in una gara ufficiale).

Come controstoria di questi trionfi ottenuti in maniera tutt’altro che onesta, Mari non dimentica poi i nomi di alcuni calciatori antifascisti le cui carriere vennero apertamente ostacolate: come il sindacalista Vittorio Staccione, consegnato ai nazisti e ucciso a Mauthausen; o Ferdinando Valletti, calciatore-operaio che per la sua opposizione alla Repubblica di Salò venne deportato al campo di Gusen; o ancora il comunista Bruno Scher, obbligato a lasciare la serie A per non aver accettato di italianizzare il proprio cognome. E molti furono gli allenatori ungheresi di religione ebraica costretti, in seguito alle leggi razziali del 1938, a lasciare i loro posti alla guida di squadre italiane e a scappare dal paese; tra di essi il più noto è Arpád Weisz, vincitore di 3 scudetti e che, ai tempi dell’Inter, aveva lanciato in prima squadra un giovane Giuseppe Meazza. Proprio mentre quest’ultimo, con la fascia di capitano al braccio ed esibendo il saluto romano, alzava la coppa del mondo, Weisz era obbligato a fuggire in Olanda, dove alcuni anni dopo sarà catturato dai nazisti: spedito ad Auschwitz, vi troverà la morte insieme a tutta la famiglia.

In conclusione, dal libro di Giovanni Mari (ora diventato anche un podcast) s’impara come Mussolini sia stato un abile precursore della strumentalizzazione politica dello sport; d’altra parte proprio la storia recente dei Campionati mondiali di calcio dimostra come i paesi ospitanti continuino a cercare di sfruttare al massimo tale evento a fini propagandistici (vedi l’edizione russa del 2018), talvolta non facendosi scrupoli ad impiegare mezzi illeciti per favorire apertamente la squadra di casa (come accadde nel 2002, quando la Corea del Sud riuscì ad arrivare in semifinale grazie agli evidenti aiuti arbitrali nella sfida degli ottavi contro l’Italia). E abbiamo ancora davanti agli occhi la surreale scena di Lionel Messi a cui l’emiro del Qatar fa indossare il bisht arabo durante la cerimonia di premiazione degli ultimi Mondiali; nelle foto del capitano dell’Argentina che suggella una carriera straordinaria festeggiando una vittoria a lungo rincorsa rimarrà così impresso il marchio del paese qatariota: poteva forse esserci una conclusione migliore per una monarchia assoluta in cerca di visibilità internazionale?

 

Quella notte al Majestic

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di Romano A. Fiocchi

Andrea Pagani, Il giardino d’acqua,
Ronzani Editore, 2022.

Un libro richiama sempre altri libri. Qualche tempo fa l’editore Keller ha pubblicato un volume curioso: 1517. Storia mondiale di un anno di Heinz Schilling (su Nazione Indiana ne ho scritto qui). Si tratta di un libro che mi ha reso evidente una cosa: la convergenza di eventi storici è un fenomeno straordinario e ricorrente nella storia dell’umanità ed è una chiave di lettura altrettanto straordinaria del mondo in cui viviamo, perlomeno per noi abitanti della civiltà occidentale. Intendo quella civiltà che va grosso modo dall’incoronazione di Carlo Magno sino ai nostri giorni e che Spengler ci prospetta come giunta alla fine del suo corso. Un tramonto che porterà con sé quel senso della Storia che proprio per la nostra civiltà è elemento imprescindibile.

Ebbene, il 1517 fu l’anno in cui Lutero compì il gesto di affiggere sul portale della chiesa di Wittemberg le novantacinque tesi che scatenarono la Riforma protestante, l’anno di convergenza degli eventi che più rappresentano il nostro corso. Il 1922 fu invece un punto di convergenza per la letteratura, se non tutta, certamente quella del Novecento. In quest’ottica si presenta il libro Il giardino d’acqua di Andrea Pagani. In particolare, Pagani identifica un giorno e un momento precisi: giovedì 18 maggio 1922. «O meglio, a onor del vero – puntualizza – le prime ore del venerdì». Fu presso l’Hotel Majestic di Parigi, nell’imponente avenue Kléber, che nel corso di una serata organizzata dai ricchi coniugi Schiff si riunì un’incredibile schiera di artisti e di intellettuali. Tutti per assistere all’incontro tra due giganti della letteratura: Marcel Proust e James Joyce.

Scrive Pagani: «La notte di quel giovedì, la luna di maggio era calante, nel passaggio dal segno d’acquario a quello dei pesci, gonfia e gibbosa come un gigantesco frutto tropicale. Sotto quella luna, tutti erano immobilizzati in una nuvola di sospensione e attesa, come se il tempo si fosse congelato in un istante risolutivo».

Nel 1922 ci sono in realtà altre due date fondamentali da tenere a mente: il 2 febbraio, uscita dell’Ulisse di Joyce, fatto coincidere con il suo compleanno, e il 18 novembre, la morte di Proust a soli quarantanove anni. Il ’22 è anche l’anno di pubblicazione della seconda parte di Sodoma e Gomorra, il quarto volume della Recherche, e del romanzo La stanza di Jacob di Virginia Woolf. Ovviamente la Woolf non partecipò all’incontro di Parigi ma se ne avvertì il peso spirituale grazie alla presenza del cognato Clive Bell, critico d’arte e soprattutto esponente del gruppo Bloomsbury, di cui Virginia Woolf fu tra i fondatori. Viceversa parteciparono di persona figure di spessore intellettuale ed artistico del calibro di Igor Stravinskij e Pablo Picasso, impresari teatrali illuminati come Sergej Djagilev, accompagnato da una parte del corpo dei Balletti Russi (tra cui la danzatrice Olga Khokhlova, moglie di Picasso) che proprio la sera del 18 maggio aveva portato in scena il Renard di Stravinskij. Di qui la presenza, tra gli altri, del compositore Léon Delafosse e della pianista Marcelle Meyer. Una quantità di personaggi che Pagani evoca come attraverso una seduta spiritica letteraria.

Veniamo ora alla struttura del libro, che se da un lato ricostruisce storicamente quella serata, dall’altro si sviluppa come un racconto di narrativa che porta avanti per centonove pagine le conversazioni tra i convenuti e l’atmosfera mondana degli anni Venti parigini, per poi culminare nel momento fatidico dell’incontro tra Proust e Joyce. Suddivisa in cinque capitoli, a loro volta ripartiti in tre sottocapitoletti, la narrazione si apre con la scena dell’arrivo di Proust all’Hotel Majestic, avvenuta verso le due di notte, orario non insolito per le metodiche abitudini di lavoro dello scrittore francese. I capitoli alternano i protagonisti: in quelli dispari Proust, in quelli pari Joyce, come se Andrea Pagani si trovasse alla regia e manovrasse due differenti telecamere puntate sui due scrittori.

La particolarità di questa alternanza di punti di vista è rafforzata da un susseguirsi di brani in corsivo che riportano veri e propri “flussi di coscienza”. Joyce con le sue frasi spezzate, i suoi monconi di pensiero, la sua ricerca musicale della parola, il ritorno istintivo a espressioni utilizzate nell’Ulisse («Mkgnao. Piagnucola la gatta. Guarda in su con occhi avidi ammiccanti»). Proust con le sue elucubrazioni più articolate, i suoi lunghi periodi in divenire, l’ombra della “cattedrale gotica” sul suo stesso linguaggio. Le due telecamere di Andrea Pagani convergono nel capitolo cinque, dove i corsivi dei flussi di pensiero si incrociano e avviene lo storico incontro.

Il libro non finisce qui. C’è una serie di schede, non schematiche ma discorsive, che Pagani – fedele a questa sua dinamica cinematografica – chiama Titoli di coda. Sono ben sessanta pagine di note biografiche, aneddoti, semplici ritratti narrativi dedicati a ventun personaggi: quindici intervenuti al Majestic e altri sei assenti ma evocati nelle conversazioni. Tra questi ultimi, per fare un esempio, Afred Dreyfus, nel ’22 poco più che sessantenne, riabilitato dopo il celebre errore giudiziario ma ancora oggetto di discussioni e di prese di posizione contrastanti a distanza di vent’anni.

Tuttavia, per quanto inizialmente possa sembrare strano, il filo conduttore di tutta questa convergenza di genialità in quel preciso punto spaziocronologico è un altro genio del periodo: Claude Monet. In realtà Monet non partecipò alla serata del Majestic, sia per il peso dei suoi ottantadue anni, sia perché ritirato nella sua piccola casa colonica di Giverny, in Normandia. Eppure Pagani gli dedica l’introduzione e persino il titolo del libro, Il giardino d’acqua, che riconduce al suo ciclo pittorico delle ninfee. Lo fa per un semplice parallelo ideologico: Monet, con il suo tormento creativo, la sua ossessionata ricerca dell’attimo supremo, dell’energia vitale concentrata nel suo giardino d’acqua, è identico a Proust, a Joyce, a Virginia Woolf. È la sintesi della loro poetica proiettata nel mondo dell’immagine. Proust stesso, nella Recherche, sembra richiamarsi a lui inventando la figura del pittore Elstir.

«Il fluire della vita – scrive Pagani – e la volontà comune del pittore, del musicista, dello scrittore, Joyce, Proust, Monet (Elstir), Virginia Woolf, di fissare l’attimo, di ristabilire l’essenza dell’impressione, di donare l’eternità al momento. Solo così riuscivano a fronteggiare la sensazione di un mondo che andava in frantumi. La loro lotta contro il potere distruttivo del tempo. Contro la morte. Quello volevano fissare. La bellezza di quel preciso momento».

Racconto-saggio, il libro riporta anche un nutrito elenco di riferimenti bibliografici che si articola su quattro pagine. Dai testi fondamentali, come ovviamente la Recherche e l’Ulisse, alle fonti indispensabili per la ricostruzione della serata al Majestic, alle bibliografie critiche su Proust e su Joyce, alle indagini sulla loro poetica (tra queste James Joyce e la fine del romanzo di Enrico Terrinoni e Il cammino di Bloom. Sentieri simbolici nella Dublino di Joyce dello stesso Andrea Pagani), alle memorie di Sylvia Beach, la libraia-editrice di Joyce, fino alle pubblicazioni minori dei due grandi autori, come gli Scritti mondani e letterari di Proust curati da Mariolina Bertini o il celebre Commento a «Ulisse» di Giulio de Angelis compreso nella sua storica prima traduzione italiana dell’Ulisse. Chiude il libro, caratteristica della collana Carvifoglio della Ronzani, un codice Spotify per ascoltare on-line l’elenco delle musiche che fanno da colonna sonora al testo: tra queste, ovviamente, il Renard di Stravinskij e brani di Debussy e di Satie.

 

L’ossessione di Szafran per il filodendro

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di Ornella Tajani

 

Nella primavera del 1966 il pittore cinese Zao Wou-Ki presta il proprio atelier parigino al collega Sam Szafran. Szafran rimane incantato dal filodendro che invade l’ambiente, eppure gli sembra di non riuscire a dipingerlo. La pianta diventerà un’ossessione e la riprodurrà per decenni.

Fra i nomi che hanno influenzato l’opera di Szafran c’è Georges Perec, in particolare le sue riflessioni sugli spazi (Espèces d’espaces), ma in verità questi luoghi pieni di vegetazione ricordano anche una pittorica «tentative d’épuisement» di un atelier o di una stanza.

Il quadro qui di seguito si intitola: Lilette dans les feuillages (Hommage à Georges Perec) [2003]

In mostra al Musée de l’Orangerie di Parigi fino al 16 gennaio.

 

 

 

1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 2

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di Giuseppe A. Samonà

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[La prima parte di questo intervento si può leggere qui.]

  1. La democrazia

Ancora formule ricorrenti.

La democrazia italiana è solida. Giudicare sulla base di un aggettivo (solido o il suo contrario) implica inevitabilmente un certo grado di soggettività – mi limitero dunque a elencare alcuni fatti: le trame nere di cui si diceva poco sopra; i tentativi di golpe; le stragi, nelle piazze, nei treni, a tutt’oggi rimaste irrisolte; le organizzazioni criminali (Mafia, Sacra Corona Unita, ‘Ndrangheta, Camorra) che controllano ampie zone del territorio nazionale, in modo incomparabile con gli altri paesi europei; la corruzione, anch’essa incomparabilmente più alta rispetto agli altri paesi d’Europa. La storia della cultura italiana consta di molti secoli, quella della Repubblica di pochi decenni, e costruita sulle basi fragili di un antifascismo che in realtà non è mai stato condiviso consapevolmente dalla maggioranza della popolazione. Ne avevano ben coscienza i cosiddetti Padri Costituenti, che crearono un testo, un quadro, la Costituzione appunto, che aveva fra altri compiti quello di disinnescare le possibili tentazioni autoritarie del paese – e che adesso, anche con alcune sponde al di fuori della propria maggioranza, Renzi in particolare ha già dato la sua piena disponibilità, come anche Calenda, la destra si appresta a riformare.

Ma gli italiani hanno votato democraticamente. Appunto: in certo senso non è proprio questo voto “democratico”, liberamente espresso, la nota dolente? (sulle virgolette dirò qualcosa più sotto) Non voglio tanto ritirar fuori l’antico ritornello sulle peggiori dittature del Novecento arrivate al potere democraticamente (ma sarà bene comunque non dimenticarlo), quanto sottolineare come queste elezioni siano solo il riflesso del profondo mutamento che si è maturato nella società civile negli ultimi due o tre decenni. È per così dire “la banalità” del voto – come e chi ha votato questa destra, come ha reagito, o per meglio dire non reagito, chi non l’ha votata – che colpisce, inquieta, più del voto stesso.

L’esito di un copione già scritto da anni… ce lo aspettavano… il risultato era già annunciato da tempo… Così diversi amici abbacchiati hanno appunto spiegato, a volte persino giustificato, la sostanziale indifferenza, apatia, distrazione con cui ampi settori storicamente, culturalmente a sinistra, o almeno, opposti alla destra, hanno accolto il suo trionfo. Ma il fatto che non sia stata una sorpresa, che questi risultati maturassero da tempo dentro la società, non mi sembra possa costituire un’attenuante, anzi: indica appunto, al di là del voto, l’esistenza di alcuni spostamenti profondi. Ed è quel che avvilisce di più. La mia impressione è che anche l’apatia, se non la depressione, in cui versa l’un tempo combattiva società italiana sia… un copione già scritto da anni.

La destra è divisa… è a pezzi.. non ha la maggioranzail governo non durerà… è solo un voto di protesta… la rissossità e il trasformismo pasticcione all’italiana ci proteggeranno anche dalla destra,  sino all’iperbolico: … le forze democratiche, progressiste e di sinistra, che sono maggioranza in Italia… – secondo le parole, riportate alla lettera, di un editoriale del “Manifesto” a firma Norma Rangeri nei giorni immediatamente successivi al voto. E confesso che ho dovuto rileggerle due o tre volte, queste parole, perché non riuscivo a crederci: ma poi, in diverse varianti, le ho rincontrate anche in altri autorevoli e stimabilissimi rappresentanti della sinistra, ad esempio il segretario della CGIL Maurizio Landini. Intendiamoci, diversi giornalisti del “Manifesto” – per altro il quotidiano che da sempre più seguo e sostengo – e la stessa Norma Rangeri, come anche Landini, hanno espresso altrove piena coscienza della gravità della situazione; e del resto le parole che mi hanno fatto per così dire sussultare fanno parte di un ragionamento più complesso, sfumato, sulla composizione della società, il poco democratico meccanismo elettorale, il grado di astensione record etc., per molti versi condivisibile. Ma dal mio punto di vista lontano-vicino restano sbalorditive – e non sono altro che la punta di diamante di un’attitudine diffusa, tendente a sminuire la vittoria della destra, a farne una mera questione elettorale, dovuta ad accidentali circostanze, che non rifletterebbe in nulla il paese reale (altra mini-formula misteriosa); o ancora, secondo questa stessa attitudine, il problema della sinistra, appunto molto più in salute di quanto non si creda, sarebbe solo di non sapere trovare uno sbocco politico-istituzionale… O forse, questo continuo parlare delle debolezze dell’avversario, anche esaltando le presunte virtù del proprio campo politico, è una sorta di rovescio del non c’è pericolo fascista di cui si diceva prima, sia pur questa volta con lodevoli intenzioni: rianimare le proprie truppe, incitarle, sottrarle alla depressione, mostrando il bicchiere mezzo pieno. Resta comunque una percezione molto diversa, al di là della politica, della società italiana, a seconda che la si guardi dal di dentro o dal di fuori: perché a me, come a molti altri italiani che da anni non abitano più in Italia, quel bicchiere appare quasi interamente vuoto – è innanzitutto proprio il “paese reale” a inquietarci. La lontananza-vicinanza ci indurrebbe a prendere un abbaglio?

Non si tratta comunque di parlare male dell’Italia, né di spiegarla in qualche frase o ancor meno di metterle un voto: le società, le culture sono sempre organismi complessi, intrecciano qualità e difetti in una percentuale più o meno equivalente, con fasi alterne, tendenze e controtendenze, e ci vorrebbe un libro per mettere a nudo Il Belpaese. Per altro tutte le formule sopra riportate sono anche in parte vere; ed è vero in particolare che la nuova legge elettorale – il cosiddetto Rosatellum, fortemente voluto da Renzi quando era a capo del Pd – è ingiustamente viziata, se non del tutto incostituzionale: impossibilità di scegliere i candidati, che sono imposti dalle segreterie dei partiti; quasi il 40% dei seggi determinato con il maggioritario secco, il che per altro – con un invisibile meccanismo perverso – falsa anche il circa 60% determinato con il proporzionale; penalizzazione dei piccoli partiti, in nome del mito della governabilità che tende a favorire le coalizioni (anche se poi i partiti di queste coalizioni sono liberi dopo le elezioni di rompere e di allearsi con altri, persino con i loro avversari!). Concretamente, da un lato la destra già ampiamente vittoriosa è stata ulteriormente gonfiata, vedendosi attribuire un 16% in più per via dell’uninominale, di fatto un premio di maggioranza nascosto; dall’altro la ridimensiona ancor più radicalmente il livello record di astensione – oltre il 36%, cui va aggiunto poco meno d’un milione di schede bianche fra Camera e Senato e quasi due milioni di schede nulle, sintomo anche questo, probabilmente, di un sistema elettorale poco attraente, democraticamente parlando. Ma bastano questi elementi a banalizzare il suo inarrestabile avanzare anno dopo anno? e soprattutto l’avanzare delle sue idee, della sua visione del mondo dentro la società?  I giornali, la televisione, la gente, sembrano non interessarsi che alla crosta, discutendo all’infinito sulla longevità o meno del governo, di questa o quella alleanza, etc. Quasi nessuno tuttavia sembra soffermarsi più di tanto sul diffondersi  dentro la società del razzismo e dell’estero-diffidenza, dell’omofobia e della transfobia, dell’antifemminismo; e questo, benché la lotta a questi atteggiamenti sia oramai parte del discorso ufficiale delle democrazie occidentali, Italia compresa, e nonostante il fatto – i paradossi della politica non finiscono mai – che sia proprio una donna, per la prima volta, a guidare la destra come Presidente del Consiglio. E nessuno, soprattutto, sembra inquietarsi della letargia-dissoluzione della sinistra, cui accennavo prima.

In questo senso vorrei indicare un “piccolo” fatto concernente le elezioni estere, che intreccia il problema del vizio democratico e quello appunto di questa particolare forma di distrazione.  Breve ma necessaria premessa. Avevo deciso di votare, qui a Parigi, per l’Unione Popolare. Non che condivida tutto di questo progetto, anzi: diverse sono le cose che non mi convincono, o di cui almeno mi piacerebbe discutere, a cominciare dal nome. Ritenevo giusto però, dal mio punto di vista, contribuire a far superare la soglia di sbarramento a un movimento federatore esplicitamente di sinistra con un reale programma alternativo: che l’Italia fosse l’unico paese europeo a non avere nel suo parlamento neanche un rappresentante di tale sinistra mi sembrava infatti molto pericoloso, non per la sinistra in sé ma per la società tutta, un ulteriore sprofondamento nella crisi sociale e democratica che va avanti da molti anni. Sia chiaro: di sinistra, sono diversi stimabili candidati del Partito Democratico – sempre meno numerosi, a dire il vero – come anche ovviamente i candidati di Sinistra Italiana e Verdi – ma il PD che ha oramai da tempo perso qualunque carica alternativa mi sembrava, mi sembra oramai irriformabile, e la scelta di Sinistra Italiana di aggregarsi al carro proprio del PD, invece di rischiare un’alleanza con Unione Popolare, non mi ha persuaso. Ero e resto convinto che per rilanciare una prospettiva di alternativa viabile, che metta di nuovo insieme le battaglie per l’ecologia e i diritti civili con quelle da troppo tempo dimenticate contro le disuglianze sociali, sia necessaria una sorta di rivoluzione culturale dentro la società, e che per questa servano nuove aggregazioni politiche.

(Gli storici dei movimenti politici fra qualche anno studieranno probabilmente l’originale processo tutto italiano che ha fatto sì che la rifondazione di quello che fu il Partito Comunista si sia trasformata nella rifondazione della fu Democrazia Cristiana, magari a partire dalla sua ala più democratica: una sorta di compromesso storico che tuttavia ha condotto alla progressiva espulsione della ex-componente comunista… Espulsione mi verrebbe da dire quantitativa e anche qualitativa: il PD, oltre a funzionare a fasi alterne persino sui diritti civili, oramai da molti anni non comprende più nulla di quel avviene negli strati più bassi, popolari, della società – in questo senso il paradosso di cui dicevo prima, e cioè che a guida della destra ci sia una donna, o meglio, una donna del popolo, almeno in apparenza, è tutt’altro che anodino…)

Devo per altro precisare che in questa scelta ero anche confortato da un lato (molto) dal fatto che per la prima volta il contesto generale, già fermamente orientato a destra, paradossalmente restituiva la libertà appunto di scegliere, sottraendo gli elettori al ricatto del voto “utile”, o almeno, facendo apparire quel voto utile come “inutile” in una prospettiva di reale alternativa; dall’altro, dal quadro internazionale e nazionale che sosteneva e sostiene il programma di Unione Popolare (Podemos, Union Populaire, Friday for Future, etc; ma curiosamente – ed è stata un po’ una delusione – il Manifesto, invece di dare spazio a tutte le componenti della sinistra, ha espresso una decisa simpatia per Sinistra italiana e Verdi, o persino per i pochi esponenti di sinistra dentro il PD, e dentro i 5 Stelle: di fatto Unione Popolare è stata oscurata). Infine vorrei sottolineare che a questa scelta ero arrivato, a torto o a ragione, più per un personale calcolo di prospettive che per un autentico senso di appartenza: del resto non ho mai cercato di convincere né ho contestato gli amici che in Italia avevano scelto di votare l’Alleanza Sinistra Verdi, o anche il Pd, o il Movimento 5 Stelle – su cui sarebbe necessario fare un discorso a parte – perché anzi vorrei che tutti quelli, molti, che votando per difetto questi partiti sono orientati a sinistra animassero questo nuovo soggetto politico.

Ma ecco – per arrivare finalmente al “piccolo” fatto di cui dicevo sopra – che ho ricevuto a casa le mie due schede elettorali: le ho aperte, le ho esaminate e riesaminate, per constatare con sorpresa che il simbolo di Unione Popolare non c’era. Di fronte all’ignoranza degli amici più politici in Italia, ho cercato nei giornali nazionali, e anche là non ho trovato nulla. Il solo aiuto è stato uno scheletrico articolo sull’Indipendente [Elezioni: 5 milioni di italiani all’estero non potranno votare per i partiti anti-sistema – L’INDIPENDENTE (lindipendente.online)], per mezzo del quale ho rintracciato diverse norme e decreti legge principalmente sulla Gazzetta Ufficiale. Molto velocemente, la storia è questa: per presentarsi alle elezioni ogni partito doveva raccogliere, in una trentina di giorni a cavallo fra luglio e agosto, poco meno di 37000 firme per la Camera e quasi 20000 per il Senato; tuttavia una disposizione del testo unico delle leggi elettorali prevedeva che i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi fossero dispensati dalla raccolta – solo che in seguito, di emendamento in chiarimento, di chiarimento in cavillo, etc., di tale esenzione hanno finito per beneficiare tutti i gruppi che avessero anche solo un deputato in parlamento, anche se nel frattempo avevano cambiato di nome e collocazione, all’esclusione di tutti gli altri – cioè i diversi partiti e formazioni frettolosamente ammucchiati sotto l’etichetta di “antisistema”. L’allora presidente del Consiglio Draghi è stato anche insistentemente sollecitato perché fossero autorizzate, come succede già per i Referendum, le firme elettroniche, per almeno attutire questa iniqua disparità di trattamento; ma non c’è stato niente da fare: è stato necessario, fra luglio e agosto, che i cittadini tornassero al loro comune di residenza e firmassero di persona, e che le firme fossero autenticate da un pubblico ufficiale, nel pieno del periodo estivo, con le città deserte e gli uffici non di rado chiusi … Così, alcuni partiti (ad esempio i radicali dell’Associazione Luca Coscioni) non ce l’hanno fatta; altri, fra cui appunto Unione Popolare, sì. Ma, per rendere il tutto ancor più ingiusto, questi nuovi gruppi, pur essendosi finalmente guadagnati il diritto di partecipare alle elezioni sul territorio nazionale, dovevano andare a caccia di firme anche nella circoscrizione Estero – apparentemente  poche (250 per ripartizione), ma in tempi ristrettissimi e in condizioni ancora più proibitive: come allestire la raccolta in piena estate in un paese straniero?  Risultato: nella lista elettorale estera europea c’erano solo i partiti già con un piede in Parlamento, comprese le miniformazioni come quella di Di Maio, morta prima ancora di nascere. What more is there to say?

Eppure quel che sarebbe dovuto suonare come uno scandalo flagrante, sia pur all’interno di una legge elettorale di per sé già scandalosa anche se in modo diciamo più garbato, è filato via nella più totale indifferenza. Se gli italiani con cui ne ho parlato a Parigi erano effettivamente indignati (e per altro già sapevano), la maggior parte di coloro con cui ne ho parlato in Italia, anche i più di sinistra, hanno accolto la notizia con sostanziale disinteresse, ed erano peraltro all’oscuro di tutta la faccenda. Non è un caso: l’apatia è stata appunto il sentimento predominante con cui la maggior parte della sinistra italiana – nel senso della base, di coloro che continuano a essere orientati in tal senso – ha vissuto il voto del 25 settembre e la nuova situazione che questo ha determinato. Ed è proprio questa apatia generale, questa indifferenza, alternata con un’intristita rassegnazione, questa mancanza di entusiasmo, che mi ha spinto a scrivere queste righe: perché mi sembra la caratteristica più saliente e peculiare, la più dolente, della società italiana oggi, a sinistra e anche al di là.

Ora si potrebbe dire – me lo hanno già detto – che la destra estrema avanza ovunque in Europa e che ovunque, parallelamente, la sinistra è in crisi: l’Italia insomma non farebbe altro che inserirsi nella scia e non meriterebbe una particolare attenzione. Ma non è così, e ci sono diversi motivi per guardare con un occhio particolarmente attento quel che succede in Italia. Certo, la progressione della destra più radicale è indiscutibilmente fenomeno europeo – persino la civilissima Svezia… – anzi mondiale; ma che, ben al di là di una crisi, la sinistra, la sua gente, si sia trasformata e assopita, dissolta, in modo altrettanto radicale, è un fenomeno più originale e tutto italiano, e che molto ha a che fare con il mutamento profondo che ha rimodellato il partito che tradizionalmente ne raccoglieva, nelle istituzioni, buona parte delle aspirazioni: nel PD, il governismo come nuova cultura politica, il progressivo ma convinto appropriarsi della prospettiva neoliberista, la timidezza se non peggio persino per quel che riguarda i diritti civili (includendo anche la posizione sui migranti, sullo ius soli etc.), fino all’assunzione di una gestione unicamente normativa della crisi covid (che ha permesso alla destra di assumere strumentalmente quella vigilanza sulla democrazia e la libertà che negli altri paesi è stata patrimonio della sinistra) sono andate di pari passo con lo spegnersi della sua base dentro la società. E forse lo snodo decisivo che anche spiega l’ascesa irresistibile di questa destra e delle sue idee è la crescente perdita di senso dell’antifascismo cui negli ultimi anni ha contribuito anche una parte della dirigenza progressista. (Fra i tanti episodi di questa perdita di senso e del revisionismo storico che l’accompagna vorrei ricordarne almeno uno, di cui mi sono occupato da vicino ne La frontiera spaesata [La frontiera spaesata – Exorma (exormaedizioni.com)]: la riscrittura semplificata e parziale delle complesse vicende del confine orientale, oramai diventata storia ufficiale della Repubblica, che è sfociata nel subdolo avvicinamento del Giorno del ricordo al Giorno della memoria, con l’aberrante equiparazione, sempre più proposta, tra foibe e Shoah). Ma appunto – ripensando a Piero Gobetti, a Carlo Levi – l’antifascismo che ha fondato la Repubblica italiana è qualcosa che va al di là di questa o quella stagione politica: è l’antidoto strutturale, culturale prima ancora che politico, fondante appunto, a una tentazione ricorrente, e anch’essa ahimè strutturale, della storia nazionale. E poi c’è la capacità che l’Italia possiede di farsi nel bene e nel male laboratorio, contagiando con le sue idee l’Europa, il che è ancor più vero oggi che nel passato, considerando l’importanza che detiene di suo come paese fondatore del progetto europeo: l’hanno ben capito i governi di Ungheria e Polonia, e poi il Rassemblement National, Vox, Alba Dorata, che hanno festeggiato la vittoria di Fratelli d’Italia come se fosse la propria. Insomma, le elezioni italiane più che essere nella scia tracciano un percorso e valgono il doppio, hanno avuto da subito una dimensione internazionale. E vale il doppio anche la dolorosa apatia che le ha accompagnate, e ne accompagna il seguito.

Quando sui miei vent’anni sono arrivato per i miei studi a Parigi mi ha molto colpito una frase di Cocteau: les italiens sont des français de bonne humeur. Per qualche tempo è diventata per me una sorta di mantra, che mi confortava non solo sull’incontenibile allegria e spontaneità dei miei compatrioti italiani, ma anche sulla scontrosità, sulla formalità ingessata dei francesi: la battuta insomma si era gonfiata in una sorta di minianalisi sociologica. Attraverso questo e altri simili stereotipi, positivi o negativi, ho felicemente viaggiato per anni, per piano piano, inconsapevolmente, eroderli, sfumarli, da un lato e dall’altro. E oggi, se dovessi fotografare con un’istantanea la mia  percezione dei due paesi – ma questa volta so che si tratta di una battuta, di uno stimolo di partenza, non di un’analisi sociologica: le culture sono come si è detto organismi complessi e pieni di contraddizioni – mi verrebbe da rovesciarla, la frase di Cocteau: sono gli italiani a risultarmi tristi, a volte cinici, i francesi, tra i quali vivo, più gioiosi, più sognatori e pugnaci – soprattutto i giovani, che costituzionalmente rappresentano il futuro: la Francia del resto, come altri paesi d’Europa, è piena di centinaia di migliaia di ragazzi italiani, che in Italia mancavano appunto di prospettiva.

(Donne, uomini e bambini che escono dall’Italia, donne, uomini e bambini che ci entrano: ho passato giorni e giorni a leggere statistiche, numeri, uno diverso dall’altro e tutti meritevoli di essere analizzati. Tutti comunque, impietosamente, arrivano a una stessa conclusione: l’emigrazione italiana è in costante crescita, e sfiora oramai i livelli dell’immediato dopoguerra, ma soprattutto è di gran lunga superiore, anno dopo anno, all’immigrazione – il che, anche considerando il costante calo demografico che fa dell’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo, spiega bene, al di là della propaganda, quale sia la vera emergenza del paese e come questo avrebbe bisogno non di respingere ma di accogliere, di più e meglio, se si vuole rilanciare, se non vuole scomparire…).

Dei tanti aspetti di questa apatia, di questa distrazione, uno mi stupisce e mi interroga particolarmente: a parte qualche salutare eccezione, gli intellettuali italiani tacciono. O meglio, alcuni si sono specializzati a dibattere nei talkshow, la cui portata si esaurisce per definizione all’interno della chiacchiera teletrasmessa, altri si occupano delle loro cose, cioè del loro lavoro, e magari si isolano, si barricano dentro di quello, alcuni esercitando una sorta di antifascismo interiore. Intendiamoci, quel lavoro sa ancora essere di grande qualità, la cosiddetta letteratura critica continua a produrre opere, articoli originali che sorprendono, fanno riflettere – tuttavia, non a caso, da qualche anno a questa parte ha accentuato la propria tendenza necrofila: si moltiplicano le commemorazioni e i tour per celebrare questo o quello scrittore dei bei tempi andati, ma non per proiettarlo nella vita – come i bravi professori cercavano di fare a scuola –  ma per trincerarcisi dentro, come per sfuggire, difendersi dal tempo presente. Quasi mai infatti la parola degli intellettuali, che sia direttamente o indirettamente politica, è concepita per uscire dal cerchio dei propri pari e adepti, il loro legame con la società è sostanzialmente spezzato, persino il sapere critico elaborato dentro le università, che dovrebbero essere luoghi aperti per eccellenza, resta confinato tra le mura sempre più ispessite dell’accademia, separato dal mondo di fuori. Fuori circolano invece fra la gente, con inesauribile vitalità, le imitazioni, le satire, i guizzi dei comici, alcuni geniali: ma possono i comici sostituire la riflessione e la politica? Insomma, vista dalla Francia, l’Italia mi sembra un paese che si chiude in se stesso, nutrendosi di un edonismo stanco, per cui l’aperitivo con gli amici diventa l’obiettivo della giornata: come se la famosa dolce vita italiana, la capacità di perdere tempo e di scherzare, di ridere, lo straordinario senso dell’umorismo, quello star seduto al bar, quel passeggiare chiacchierando liberamente, gratuitamente, rivelassero improvvisamente il loro lato tragico, anche oscuro… L’Italia si diverte ed è depressa, i giovani sognano di scappare. E a volte, sempre di più, tornandoci mi sembra che sia stato un sogno, un’illusione, il paese che mi ha formato ed educato, quello che mi hanno trasmesso i miei genitori: e che comunque non esista più. (Scrivendo questo paragrafo avevo per così dire l’impressione che Leopardi stesse seduto sulla scrivania e soggiungesse: lo vedi? già scrivevo più o meno le stesse cose, esattamente due secoli fa…)

Qualche eccezione, lo dicevo, qualche scintilla c’è, fra gli intellettuali come fra la popolazione in generale, ma il quadro complessivo – rispetto al resto d’Europa – è singolarmente avvilente, esangue: basti pensare a com’erano diversamente reattivi la sinistra, i sindacati – sia pur sulla via dell’evaporazione – ancora durante il ventennio berlusconiano. E credo che chi aspira a riorganizzare una sinistra frantumata, o appunto evaporata, dovrebbe poter nominare questo problema, guardarlo in faccia, e partire da là. A me, a ogni ritorno, o semplicemente ogni volta che ci ho a che fare attraverso i tentacoli di un’amministrazione che non di rado perseguita i suoi soggetti anche all’estero, la società italiana appare come una palude (Pontiggia…), avvolta da una sospensione incantata, e strangolata dall’eterno labirinto legislativo della sua ipertrofica burocrazia (Manzoni…): sembra che nulla succeda – succedono in realtà molte cose, ma subìte – mentre sotto avanzano, s’infiltrano le idee velenose, come se niente fosse… Comunque mai come adesso, in questo ragionamento, sarei felice di sbagliarmi, di essere appunto vittima di un’illusione ottica prodotta dal mio lontano-vicino, e scrivo anche nella speranza che qualche amico mi dica, mi dimostri, che le eccezioni, le scintille, sono molto più numerose e vivaci, e che le buone idee escono fuori dai luoghi del sapere e circolano nella società molto di più di quel che vedo io, dalla Francia. In ogni caso non scrivo per parlar male, o lamentarmi, ma perché credo che sia necessario, dentro e fuori l’Italia, riannodare tutti i fili che possano animare un progetto di resistenza e di speranza.

Continua…

Il segnalibro di Rimbaud

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di Ornella Tajani
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Nel 1954 è stato rinvenuto il manuale di grammatica usato da Rimbaud a scuola. Dentro c’erano il suo nome, delle frasi-monito che gli diceva il padre e un paio di esercizi svolti, come quello in cui doveva creare una frase usando un participio presente; lui scriveva cose del genere: “Ils étaient là, cherchant, remuant, fouillant, tripotant, barbotant, pataugeant dans la mare, et criant d’une façon horrible, sauvage, absolument comme on crie au parquet de la bourse”.
Nel libro c’era anche un segnalibro recante la scritta “Abracadabra” (i flots abracadabrantesques sono di là da venire), e sopra Rimbaud aveva annotato a penna: “pour préserver de la fièvre”. Il tutto è stato poi battuto all’asta e nessuno l’ha più visto, ma a quanto pare da qualche parte esiste ancora il segnalibro usato da Rimbaud a scuola.
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Per approfondimenti: Olivier Bivort, La “grammaire” de Rimbaud, in Vies et poétiques d’Arthur Rimbaud, actes du colloque de Charleville-Mézières (16-19 septembre 2004), <<Parade sauvage>>, Colloque 5, 2005, pp. 17-37.

Dialogo degli infimi sistemi

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di Igor Antonio Lipari

E un giorno per qualche suo strano motivo lei disse tutto d’un fiato: sembra che tu sia una persona vera.

[Quest’affermazione lascerebbe intendere che esistano due distinte categorie di esemplari appartenenti alla specie Homo Sapiens: persone vere e false, o almeno che sembrano tali. Si potrebbe anche presuppore la presenza di una terza categoria: entità che, pur non essendo persone (vere o false), ne abbiano l’apparenza, infiltrate come una quinta colonna fra le (vere o false) persone come false persone (vere o false). Ma, in quanto agli oscuri motivi per cui le cose starebbero così, sembra prematuro sbilanciarsi.]

La TV mormorava di voler dichiarare guerra alle macchie di sudore. Al tartaro e alle carie. Alle rughe. Ai chili in eccesso. Alle emissioni di gas serra. A zanzare e scarafaggi. Al colesterolo. Alle disparità di genere.

Lei disse anche: sentivo come se tu volessi comunicarmi in qualche modo qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa.

Lo Smartphone notificò che c’erano due nuovi messaggi in arrivo.

Lei disse: la batteria del mio cellulare era scarica, così l’ho sostituita con quella del cellulare della mia amica, per poterti chiamare.

La App informò di essere pronta ad aiutarti.

Lei diceva: odio le telefonate. Non ci si può guardare in faccia. In fondo gli occhi non servono ad altro che a vedere gli occhi dell’altro. Il resto del mondo, a chi interessa? Esiste davvero?

La TV disse: il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Aggiunse che questa le sembrava di averla già sentita da qualche parte, ma non ricordava assolutamente dove. E comunque la cosa non era nemmeno del tutto vera.

A volte lei diceva: non girare attorno alle cose. Si gira sempre attorno a qualcosa.

Il PC disse: Sii sempre te stesso. Migliaia di followers approvarono all’unanimità.

Lei disse: adoravo le candele. Da piccola ne accendevo continuamente ovunque, e stavo a guardarle mentre si consumavano. Una sera mio padre entrò all’improvviso nella mia stanza e le spense tutte.

La TV diceva che fa male quando te ne accorgi. Che crescere è difficile, ma invecchiare lo è ancora di più.

Lei diceva: preferisco fare di testa mia.

PC e Smartphone consigliarono di restare morti di fame e imbecilli. Pochi trovarono difficile adeguarsi.

Lei disse: queste scarpe nuove mi stanno tormentando i piedi. Mi prenderesti in braccio?

L’Influencer dichiarò che la strada verso la tua meta è irta di ostacoli. Che bisogna superare gli ostacoli. O ritirarsi dalla gara.

Lei disse: una notte ho sognato di ballare un valzer con Gesù Cristo. Ero convinta di essere Maria Maddalena.

La TV diceva che attraverseremo un periodo di profonda recessione. Dall’altra stanza l’ultima parola si poteva scambiare benissimo per depressione.  

Lei cominciò a dire: quando imparerai che è meglio fare di testa propria?

Il Sistema Operativo avvisò che erano disponibili aggiornamenti.

Poi lei disse: in giro sullo scooter, il vento che fa lacrimare gli occhi, dare più gas finché non ritornino asciutti. Un senso di leggerezza, come se si svanisse.

Una vasta circolazione depressionaria insistette sulla città per un periodo insolitamente lungo, considerando la stagione.

Lo scooter era malandato ma ancora funzionante. Emanava una sottile essenza di zolfo anche da spento. Venne rubato una notte che era stato lasciato senza catena. Non se ne seppe più nulla. Nemmeno di lei si è saputo più nulla.

E in quanto a lui – allora non disse proprio un bel niente che valga la pena ricordare. E quello che avrebbe da dire adesso non ha la minima importanza.

Leggere Reznikoff: tra oggettivismo e letteralità

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[Questo saggio è apparso sul n° 80 del “verri”, nella rubrica “scrittura di ricerca”. Si propone due obbiettivi: innanzitutto far conoscere un autore che ha un’importanza fondamentale nella poesia del novecento statunitense e che rimane ancora quasi del tutto ignorato in Italia, nonostante una prima edizione bilingue a cura di Andrea Raos (Olocausto / Holocaust, Benway Series, 2014); in secondo luogo, Reznikoff è un poeta che ha nutrito e continua a nutrire alcuni importanti filoni della ricerca letteraria negli Stati Uniti e in Francia. Su NI, sono già apparse traduzioni di suoi testi qui e qui.]

 

Di Andrea Inglese

 

Da ora in poi ciò che era naturale diventa per lui innaturale. Quando si accende d’ira, deve verificare che l’ira in quel caso non sia fuor di posto, deve guardare con diffidenza alla propria compassione, alle proprie idee di giustizia, di libertà, di solidarietà, deve guardare con sospetto a tutti i moti della sua anima.

Bertolt Brecht, Appunti sullo stile realistico

 

  1. Un decennio di letture, traduzioni, scritture

Dieci anni fa, per il numero 24 di « alfabeta2 » (novembre 2012), curai un dossier dedicato alla poesia francese contemporanea dal titolo Actions poétiques. In un suo intervento, raccolto in quell’occasione, Luigi Magno scriveva: “Ponge in Italia resta ai margini del poetico, o meglio la critica si mostra incapace di percepire la sua opera come poetica. Con Ponge la critica italiana ha accantonato, archiviandolo senza nemmeno aprirlo, il dossier di tutta la linea letterale, oggettivista e critica della poesia, che potremmo disegnare, per la Francia, con l’asse Ponge-(Denis)Roche-Hocquard-Gleize-Tarkos-Quintane-Alféri-Cadiot-Hanna, ….” (Note per una cartografia. Sulla poesia francese dell’estremo contemporaneo in Italia). Dieci anni non sono passati invano e, indipendentemente da quello che la critica italiana dice o fa, si è aperta una riflessione su quella “linea”, una riflessione che è avvenuta secondo diverse modalità: la lettura diretta prima di tutto, ma anche la traduzione, l’elaborazione teorica, la pratica poetica tout court. Non è mia intenzione fare qui la storia della ricezione italiana di questa linea: ne esistono oggi svariate prove “editoriali”; mi limiterò a citare quattro titoli, due usciti per Benway Series in edizione bilingue, rispettivamente nel 2013 e nel 2014 (Francis Ponge, Nioques de l’avant-printemps, ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera, traduzione di Michele Zaffarano e Charles Reznikoff, Olocausto, traduzione di Andrea Raos), e due per Tic edizioni nel 2020 e nel 2021 (Christophe Tarkos, Anacronismo e Jean-Marie Gleize, Qualche uscita. Post-poesia e dintorni, entrambi tradotti da Michele Zaffarano). Sul piano dell’elaborazione critico-teorica, varrà la pena almeno di citare un paio di titoli. Nel 2013, il già citato Luigi Magno e Cristina Giorcelli curano una raccolta trilingue d’interventi saggistici e di testi “sperimentali” dal titolo New Objectivists / Nouveaux objectivistes / Nuovi oggettivisti, in cui la proposta degli oggettivisti statunitensi degli anni Trenta viene considerata a partire dagli effetti che genera, nello stesso paese, su certa poesia a partire dagli anni Settanta (L=A=N=G=U=A=G=E poets e “nuovi oggetivisti”) e un po’ più tardi sul fronte francese della linea littéraliste. Nel caso di La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività di Gian Luca Picconi (Tic edizioni, 2020) abbiamo a che fare, invece, con un saggio critico-teorico che, pur sviluppandosi su di un terreno autonomo e ampiamente orientato all’analisi di testi prodotti in Italia, accoglie ed elabora istanze che provengono dall’area francese citata (in particolar modo, Picconi cita Gleize e Nathalie Quintane).

I tempi sembrerebbero maturi – e questo è in ogni caso la prospettiva che qui voglio proporre – per passare a una seconda fase, più approfondita e personale, del dialogo con le svariate pratiche di scrittura (di azione poetica) che termini come objectivism e littéralité permettono d’individuare e al contempo valorizzare. Non parlo, quindi, in veste di studioso di letteratura, o di critico, o di esperto di letteratura francese (o statunitense) contemporanea. Parlo dal laboratorio delle pratiche e dei progetti di scrittura, che comunque implicano un lavoro di lettura di testi altrui e un utilizzo di armamentari concettuali che concorrono, in modo più o meno lineare, più o meno trasparente, a ricadere su quelle pratiche e su quei progetti.

Si è scritto molto in questi anni sia negli Stati Uniti che in Francia, sulla scorta di quanto accaduto nel mondo delle arti visive[1], del rapporto tra poesia e archivio, tra scrittura e documento, tra materiali extraletterari e operazioni di appropriazione o, per usare un termine caro a Kenneth Goldsmith, di dislocazione. È indubbio che queste riflessioni contribuiscono a descrivere e consolidare sperimentazioni poetiche che si pongono al di fuori del genere lirico, dei suoi presupposti ideologici e delle sue forme riconoscibili. Inoltre, dietro queste nuove denominazioni, ritroviamo spesso le vecchie strategie degli oggettivisti statunitensi e dei letteralisti francesi. Per parte mia, trovo importante ripartire da alcuni autori e da alcune opere chiave, in grado di fare una certa pulizia nei proclami teorici e programmatici in circolazione. Questi ultimi, infatti, nella loro fase di più ampia ricezione, rischiano spesso di ridurre la ricchezza di aspetti e la complessità di obiettivi delle pratiche di scrittura a cui si riferiscono e che hanno cercato di modellizzare. Ho già proposto in un’altra occasione[2] un ritorno a Ponge, per evitare letture troppo schematiche e di carattere normativo del concetto di littéralité così come è formulato da Jean-Marie Gleize. In questo caso, voglio ripartire da Charles Reznikoff e dalla sua opera, per mettere in luce il suo uso peculiare del documento e la portata politica della sua operazione. A differenza di quanto ad esempio predica Goldsmith riguardo all’appropriazione – “È una macchina da annessione senza limiti, risucchia indiscriminatamente ogni cosa”[3] –, libri come Testimony e Holocaust illustrano una estrema consapevolezza etico-politica nella scelta e nella lavorazione dei propri materiali verbali.

 

  1. La cornice lirica e i suoi presupposti ideologici

Nel già citato La cornice e il testo, Gian Luca Picconi si occupa d’individuare quei tratti della “poesia di ricerca” che esorbitano o tradiscono quella che lui chiama “cornice lirica”, in modo da individuare un chiaro spartiacque tra ciò che rimane interno al paradigma dominante della poesia novecentesca e ciò che si situa al di fuori di esso, creando non solo prospettive inedite verso il futuro, ma anche risonanze con filoni minoritari del passato. Parlando di paradigma dominante, ossia di paradigma lirico, intendo riferirmi a una serie di presupposti ideologici che stanno a monte della “cornice lirica”, e le permettono d’imporsi come la più “familiare” – ossia naturale e essenziale – al lettore del genere “poesia”. Ora la scelta di sabotare o semplicemente abbandonare questa cornice nasce in chi scrive da una critica – e prima ancora da una crisi – nei confronti di quei presupposti. Essi non sono più plausibili, non ottengono più il nostro assenso[4]. Naturalmente si potrebbe fare la storia, e soprattutto esibire le motivazioni, le circostanze, i disincanti, che hanno portato all’esaurimento delle fede “lirica”. Mi accontenterò, in questa occasione, d’indicare alcune delle componenti ideologiche che sono entrate in crisi.

La prima riguarda la nozione di espressione individuale, a sua volta inserita in una più ampia costellazione che può includere concetti oscuri come quello di linguaggio privato. Abbiamo qui, come Wittgenstein ha mostrato nelle Ricerche filosofiche, una sorta di “mito filosofico”[5]. Questo mito, però, ha avuto uno straordinario successo nel corso del Novecento, soprattutto in ambito di più o meno formalizzate teorie sulle arti e la letteratura[6]. Per quanto riguarda la poesia lirica, la superiorità dell’enunciato linguistico espresso dal poeta dipenderebbe dalla capacità di quest’ultimo di tradurre i suoi vissuti singolari nella lingua di tutti. Se il linguaggio ordinario ci tiene lontani dai tesori dell’interiorità, offrendoci strumenti comunicativi usurati, poveri e imperfetti, l’enunciato poetico permette a tutti di scorgere almeno la profondità e la ricchezza di un mondo individuale, quello del poeta. La celebrazione dello stile, come cifra personale, inconfondibile, inaudita, può coniugarsi con l’idea che lo scarto dalla norma linguistica sia garantito, nella sua specificità e continuità, dalla specificità e continuità degli stati interiori che quello scarto esprime.

Quanto a Wittgenstein, egli dovrebbe aver insegnato ai poeti che il miracolo del linguaggio non si attua quando finalmente l’individuo esprime nella lingua comune la sua esperienza singolare senza tradirla. Il miracolo è la lingua comune, il miracolo è quella possibilità dei collettivi umani di coordinarsi per lo più con straordinaria (a volte terrificante) efficacia[7]. Degno di ammirazione e meraviglia, è l’accordo tra le forme di vita e i giochi linguistici. Ma anche il fatto che la voce singolare esista grazie – e non malgrado – la lingua materna. Ed è semmai a livello di lingua materna, intesa come fatto sociale sovra-individuale, che si porrà, a un certo punto, il problema dell’ideologia, ovvero di ciò che il linguaggio non solamente ci permette, ma anche ci obbliga o ci impedisce di fare e concepire. In conclusione, possiamo dire: non esiste una zona franca individuale rispetto alle strutture ideologiche che attraversano la lingua comune (l’espressione poetica di un supposto linguaggio privato); questo non ci costringe però a dover scegliere tra un discorso alienato e un non-discorso – ossia un’opzione globalmente asemantica, asintattica, ecc. –, considerato come il solo gesto non-alienato possibile. Come ha ripetuto più volte Ferruccio Rossi-Landi discutendo di questi temi, non si salta fuori a piè pari dall’ideologia; si può solo usare la lingua (anche attraverso la letteratura) in una prospettiva disalienante[8].

L’altra componente ideologica del paradigma lirico, su cui mi soffermo più rapidamente, è quella che rinvia alla specifica potenzialità gnomica o veritativa dell’enunciato poetico nei confronti del mondo evocato o invocato. Qui c’interessa poco la corrispondenza tra l’enunciato e il vissuto individuale – e il nesso autobiografico o confessionale che lo sottende – ma la forza della parola poetica d’intrattenere un legame con il mondo attraverso un giudizio o la distillazione di qualche elemento di verità, pur fragile e parziale, su di esso. E soprattutto conta la capacità dell’enunciato poetico di distinguersi da giudizi e riflessioni della vita ordinaria, per porsi attraverso l’incorniciatura e la chiusura poetica fuori dal flusso delle parole che si dicono. Forse il contenuto di verità o il principio morale saranno esibiti nella loro incertezza o fragilità, l’evento o il personaggio a cui le parole s’indirizzano rimarranno indeterminati o sfuggenti, ma sarà comunque salvaguardato lo spazio rituale di un’enunciazione che si vuole piena, totalizzante e memorabile, ponendosi quindi a debita distanza dall’individuo empirico e dalla sua comunicazione ordinaria[9].

Se consideriamo due autori come Charles Renznikoff e Francis Ponge, entrambi fortemente orientati a una poesia “oggettiva” e degli “oggetti” – ricordo che appartengono alla stessa generazione, il primo nasce nel 1894, il secondo nel 1899 –, la loro opera costituisce il migliore monito contro le tentazioni di reintrodurre la figura di un poeta giudice del mondo, e detentore di verità che la poesia sarebbe in grado di formulare in modo chiaroveggente e compiuto. Ciò che va salvaguardata è la tensione infinita nei confronti del mondo e dei suoi oggetti, in quanto il lavoro di “oggettivazione”, ossia di avvicinamento alla realtà implica un processo inesauribile di costruzione ed elaborazione di un pensiero che è anche linguaggio e che è anche mondo. È qui che si rivela utilissima la lettura letteralista che Emmanuel Hocquard ha fatto di Reznikoff e Jean-Marie Gleize di Ponge: essi hanno messo in luce il carattere opaco di quel mondo materiale a cui il poeta statunitense e quello francese si rivolgono, un’opacità, però, che emerge nell’elaborazione stessa del linguaggio convocato a descriverlo.

Ritorniamo ora alla “cornice lirica” da cui abbiamo preso le mosse. Scrive Picconi:

La cornice pragmatica della lirica spinge il lettore a ricondurre continuamente la voce del soggetto dell’enunciazione a quella dell’autore implicito; a vedere una circolarità interpretativa tra le istanze soggettive che presiedono alla produzione del testo; a cogliere una continuità ideologica tra le marche rinvenibili dell’istanza soggettiva e la coerenza discorsiva globale del testo; e per questa via appiattisce la prospettiva ideologica del soggetto dell’enunciazione su quella dell’autore implicito.[10]

È proprio questa continuità tra autore implicito e soggetto dell’enunciazione che nella poesia di ricerca entrano in crisi. C’è un momento, in cui uno scarto ineliminabile s’introduce tra l’enunciatore e il suo enunciato: qualcuno parla (scrive), ma non si riconosce (più) in ciò che dice. Soprattutto l’autore empirico, con tutta la sua storia, i suoi ideali espressivi, il suo bagaglio ideologico, non si sente più garante di un’espressione autentica e di un discorso di verità. La crisi della cornice lirica implica tutto un dispositivo formale e ideologico che s’inceppa, e nello stesso tempo apre la via a forme diverse di enunciazione “poetica”. Rinunciando a essere faber, artefice, da un lato, e individuo che esprime se stesso, dall’altro, il poeta (di ricerca) può diventare raccoglitore di enunciati e ascoltatore di voci altrui. Va comunque fatta una precisione: l’ipotesi che il poeta presti la propria voce a un personaggio fittizio, che agisca insomma come un narratore in versi, non implica di per sé una rottura con il paradigma lirico. Ritroviamo in tal caso tutte le pretese relative a un discorso di verità sul mondo che, nella forma scultorea del verso e nell’economia di materiale propria al genere poetico, si rafforzano, rispetto a quanto accade all’interno del genere propriamente romanzesco. Quest’ultimo, infatti, possiede per sua natura strategie atte a criticare tali pretese (si pensi al carattere bivocale e polifonico che Bachtin attribuisce al romanzo moderno).

  • Charles Reznikoff durante una lettura a New York nell’ambito di “Poetry In the Parks” (1975)

 

  1. Reznikoff irriconoscibile

Le due opere probabilmente più importanti di Charles Reznikoff, Testimony e Holocaust, hanno scosso in modo permanente le coordinate attraverso cui comprendiamo i generi e la letteratura. La semplice storia della non-ricezione di questi libri nel paese dove sono stati scritti, ossia gli Stati Uniti, sarebbe di per sé istruttiva. Ma è forse ancora più istruttiva la vicenda della loro appassionata (ri)scoperta nel corso degli anni Settanta da parte dei L=A=N=G=U=A=G=E poets e, in Francia, da parte di poeti e traduttori di poesia nordamericana. L’opera di Reznikoff esiste grazie a una catena di letture entusiaste realizzate soprattutto da poeti, e grazie a questi poeti, oggi, dentro e fuori gli Stati Uniti, essa si affaccia sul pubblico della poesia contemporanea.

Ciò che affascina nella biografia di Reznikoff è questo plurimo scollamento, questa sfasatura continua, tra la sua figura d’autore e l’universo letterario e culturale che lo circonda. Rispetto agli altri due esponenti maggiori dell’oggettivismo, Louis Zukofsky (il teorico) e George Oppen (il militante), Reznikoff è più vecchio di una decina d’anni. Nei confronti dell’esplicita militanza marxista di Zukofsky e di Oppen, la posizione di Reznikoff appare meno esibita, ma è indubbio che i capolavori di quest’ultimo sono frutto di un intento profondamente politico. Testimony, in modo particolare, appare come uno straordinario contro-monumento della modernità statunitense. Ci ritorneremo in seguito, ma varrà la pena ricordare cosa scrive Christophe Hanna (critico e autore francese) su quello che lui stesso definisce “il documento poetico”: “il suo scopo non è quello di federare la comunità attorno a un monumento ufficiale nel quale ciascuno deve poter riconoscere il simbolo d’un passato e di un divenire collettivo, ma di rendere visibili altri aspetti dell’avvenimento e di renderne più articolata la comprensione, di renderci sensibili alla varietà di problemi che può porre”[11].

Nel corso della sua intera esistenza, l’ebreo newyorkese Reznikoff si è interessato alla storia e alla cultura delle comunità ebraiche emigrate negli Stati Uniti. Per un non praticante e non credente come lui, l’attenzione alle questioni ebraiche era inscindibile da una riflessione sulle difficoltà e le speranze inerenti alla costruzione di un’identità statunitense, nata dall’apporto di tutte le diverse culture migranti. Mettendo uno di fronte all’altro Testimony e Holoucaust riscontriamo una sorta di non-simmetria, di sovrapponibilità parziale: nella prima opera emergono tutte quelle figure che il trionfante progresso della società americana ha sacrificato o lasciato ai margini: neri, nativi americani, donne, bambini, operai; nella seconda, l’umanità schiacciata – e questa volta in modo scientifico e senza altro scopo che il suo totale annientamento – ha il volto particolare del popolo ebraico. È come se l’opera di Reznikoff cercasse di cartografare una zona di realtà (a volte terrificante ed estranea, a volte intima e familiare) situata tra due potenti miti: quello degli Stati Uniti come paese di un’umanità nuova, edificato grazie agli apporti di una pluralità di culture e popoli, e quello dell’ebraismo inteso come identità culturale di un popolo senza paese[12].

Il peso dell’eredità ebraica, è percepibile anche sul piano linguistico: i genitori di Reznikoff sono ebrei russi sfuggiti ai pogrom di fine secolo. Entrambi parlano yiddish e russo, e i nonni ebraico; la prima lingua di Reznikoff è però l’inglese, non la lingua della madre. Come in molti casi di famiglie emigrate, l’obiettivo primario dell’assimilazione privilegia l’apprendimento della lingua del paese d’arrivo. Questo rapporto complesso sia con le lingue sia con le identità culturali e nazionali è stato indagato, tra gli altri, da Ian Davidson in The Languages of Charles Reznikoff, un articolo apparso nel 2011. Davidson ha messo in luce tutte le premesse dell’atteggiamento oggettivista “radicale” di Reznikoff, che muove innanzitutto da una cronica inappartenenza nei confronti della lingua: “il suo uso del linguaggio è sempre consapevole (self-conscious): non c’è nulla nella sua esperienza che gli permetta di normalizzare le funzioni espressive e rappresentative del linguaggio o delle forme letterarie”[13].

Anche rispetto ai generi letterari e alle forme della poesia, Reznikoff mostra una sorprendente libertà d’azione. Oltre ai due poemi già citati, costruiti interamente attraverso materiale documentario, egli pubblica raccolte di poesia su temi disparati, scrive romanzi e drammi in versi. Rachel Blaud DuPlessis ha parlato di realist claim[14], per definire l’attitudine “oggettivista”, una formula che ricorda quella espressa da Ponge nel suo titolo-manifesto: il partito preso delle cose. Due dei significati del sostantivo claim sono qui particolarmente chiarificatori: “rivendicazione” e “richiesta”. Come nel caso della formula pongiana, né l’oggetto né la realtà sono qualcosa di cui lo scrittore dispone, ma un obiettivo da raggiungere, e ciò implica non solo il tentativo di ridurre l’inevitabile distanza tra la scrittura e il referente, ma anche la considerazione delle molteplici e incerte vie da percorrere per approssimarsi ad esso. Ed ecco lo sperimentatore radicale Reznikoff, che si dedica alla stesura di romanzi familiari (By the Waters of Manhattan, 1930), storici (The Lionhearted: A Story about the Jews in Medieval England, 1944) o allegorico-autobiografici (The Manner Music, pubblicato postumo nel 1977). Vi ritroviamo, certo, i temi prediletti dell’identità ebraica e della diaspora, ma non solo. Questa irrequietudine nella scelta del genere e della forma è legata all’altra faccia del realist claim, quella che ha tanto affascinato i poeti francesi della littéralité. Per autori come Reznikoff, spostarsi da un genere all’altro, da una forma all’altra, non significa solo esplorare temi simili da prospettive diverse, ma anche interrogare ogni volta di nuovo il proprio rapporto con la lingua, con l’opacità e lo spessore delle parole, alla luce dei molteplici condizionamenti che si manifestano in esse (condizionamenti letterari, storico-sociali, ideologici)

Grande è la tentazione di ridurre la complessità di quest’opera, di comprimerne lo spettro degli interessi e delle forme, affinché ogni lettore giunga a riconoscersi in lei senza troppo disagio. In realtà, già la divaricazione più evidente che emerge nella gemellarità imperfetta di Testimony e Holocaust ci impone di non attenuare né risolvere la tensione tra l’autore d’avanguardia cosmopolita, testimone di un’umanità minore e perduta, e lo scrittore ebreo, portavoce della singolarità del proprio popolo e della sua estrema sofferenza. Non è l’opera di Reznikoff che dovrà entrare nelle nostre pur utili e brillanti categorie, ma siamo noi che dobbiamo imporci di seguire la sua accidentata topografia, rispettandone tutta l’imprevedibilità.

 

  1. Poesia e documento

La vicenda editoriale americana di Testimony è assai tormentata. L’edizione integrale e definitiva apparirà nel 1978 – a due anni dalla morte di Reznikoff – per la Black Sparrow Press con il seguente titolo: Testimony: The United States 1885-1915. Recitative  (Testimonianza: Stati Uniti 1885-1915. Recitativo). Una prima versione in prosa uscì nel 1934 per The Objectivist Press; nel 1965, nel contesto della riscoperta degli “oggettivisti”, per l’editore New Directions e la “San Francisco Review”, venne pubblicato il primo volume in versi (1885-1890), a cui dovevano seguirne altri due. L’insuccesso di critica e pubblico costrinse Reznikoff a stampare a proprie spese il secondo volume (1891-1900). E si dovette aspettare l’edizione postuma, per avere riunite tutte le parti dell’opera, incluse la terza (1901-1910) già prevista nel programma del 1965 e l’ultima (1911-1915) emersa dalle carte dell’autore dopo la sua morte.

Testimony è articolato secondo tre criteri principali: cronologico, geografico e tematico. Il primo criterio, permette all’autore di esplorare il periodo che corrisponde al grande sviluppo industriale e demografico del paese, situando il punto d’avvio tra l’ultima guerra importante contro il nemico interno, le tribù Sioux, avvenuta nel 1876, e la prima guerra al di fuori del suo territorio, nel 1898, contro la Spagna per il controllo di Cuba. Il punto d’arrivo è il 1915, che coincide con l’occupazione di Haiti e un imperialismo statunitense ormai consolidato. Le aree geografiche interessate sono il Sud, il Nord e l’Ovest. Infine, tutti i “componimenti” sono raggruppati secondo un certo numero di temi: Scene domestiche, Età delle macchine, Furti e ladri, Bambini al lavoro, ecc. Il tratto più determinante dell’opera, però, è espresso in una nota di tre righe firmata dall’autore, che precede sia l’esergo sia il susseguirsi delle quattro parti: “Tutto ciò che segue è basato su resoconti processuali realizzati in diversi stati. I nomi di tutte le persone sono immaginari e quelli dei villaggi e delle città sono stati cambiati. C. R.”. Questo asciutto paratesto non si limita a orientare l’approccio del lettore, ma costituisce anche l’unica occasione per percepire la parola diretta dell’autore.

Una, infatti, delle principali interrogazioni che la lettura di Testimony fa nascere, riguarda il rapporto tra l’enunciato testuale e l’autore che se ne fa carico. Fin da subito è evidente che né la cornice lirica né i suoi presupposti ideologici funzionano più. Leggiamo dalla prima sezione[15]:

Scene domestiche

1

Era quasi l’alba quando diede alla luce il bambino,

sdraiata sulla trapunta

che lui aveva ripiegato per lei.

Lui si sistemò il bambino sul braccio sinistro

e lo portò nell’altra stanza,

e lei poté sentire lo schizzare dell’acqua.

Quando rientrò

lei gli chiese dove fosse il bambino.

Lui rispose: “Là fuori – nell’acqua”.

Attizzò il fuoco

e tornò con una bracciata di legna

e il bambino,

e mise il bambino morto nel fuoco.

Lei disse: “Oh John, non farlo!”.

Lui non rispose

ma si voltò verso di lei e sorrise.

Chi parla nel testo? Impossibile attribuire questo enunciato all’autore empirico o all’istanza autoriale implicita. Innanzitutto non abbiamo verbi alla prima persona. Ma neppure possiamo immaginare che la voce del poeta coincida qui con un’istanza narrativa, un punto di vista esterno ai fatti come nel caso di un tipico narratore extradiegetico. La brevità e l’asciuttezza della vicenda narrata, la sua decomposizione in versi, la mancanza in essa di una morale o di un significato espliciti e, infine, la fonte documentaria dei materiali linguistici utilizzati escludono sia una forma di autorialità testimoniale (racconto di eventi di cui l’autore è stato testimone) sia di autorialità fittizia (racconto di eventi immaginari a scopo morale o conoscitivo). La nota introduttiva di Reznikoff ha chiaramente stabilito una sorta di “patto documentario” con il lettore: gli enunciati non sono né espressioni di vissuti dell’autore né vicende da lui immaginate ma, come già il titolo dell’opera annuncia, delle deposizioni processuali, ossia delle testimonianze raccolte in un contesto dove i fatti e le circostanze contano, non le interpretazioni psicologiche, i giudizi di valore o le emozioni personali.

Detto questo, in Testimony non c’è traccia dei procedimenti più usuali delle scritture avanguardistiche novecentesche. Non abbiamo forme di pastiche, ma neppure di cut-up o collage, con frantumazione della sintassi. Non vi è un intento anti-figurativo, che mira alla disseminazione del senso o all’incoerenza semantica. Anche rispetto alla partizione found poem e sought poem, è difficile collocare il lavoro di Reznikoff. In Testimony, vi è sì una ricerca attiva e tematica, oltre che un intento di elaborazione e riorganizzazione formale, ma ciò avviene su di un materiale omogeneo sul piano stilistico – lo stile spassionato, appunto, della deposizione processuale – e non, ad esempio, sul materiale stratificato ed eterogeneo prodotto da un motore di ricerca[16]. Anche il procedimento del ready made non rende pienamente conto di per sé dell’operazione compiuta. In un articolo dedicato a Reznikoff e ad Alexander Kluge, Marie-Jeanne Zenetti sottolinea la tensione esistente, in un’opera come Testimony, tra la cornice estetica dei materiali verbali (“questa è poesia”) e quella di carattere documentario (“questo è un documento”): “Dal momento che si tratta di documenti, l’opera conserva un legame forte con la realtà e il lettore non può assumere un atteggiamento puramente estetico e disinteressato. (…) Uno stesso oggetto funziona così secondo un duplice modo, estetico e documentario[17]”. Questo impone al lettore una sorta di strabismo: egli “esita costantemente tra due modalità di ricezione, ed è invitato a interrogarsi sull’abisso che separa l’una dall’altra[18]”.

Possiamo, però, considerare le cose inversamente, e chiederci che cosa accade nel passaggio tra il puro documento e la sua dislocazione “estetica”. Innanzitutto abbiamo una neutralizzazione della coscienza morale e veritativa, che in genere accompagna la narrazione e la completa. L’evento, per come è presentato nel testo, non include né chiari giudizi morali (condanne, giustificazioni, ecc.) né motivi o cause evidenti, in grado d’inserirlo in un contesto narrativo più ampio. Ciò che il dispositivo testuale ribadisce ogni volta, è l’evidenza di una specifica serie di circostanze: è accaduto questo. “Prima di spiegare, di cercare un perché, di archiviare il fenomeno singolare al di sotto di qualche legge generale, tenetene conto, consideratelo, prendetene atto, memorizzatelo”; questo è l’invito che accompagna ogni pagina di Testimony e Holocaust.

Il taglio versale funge da prima interferenza rispetto alla dinamica narrativa, che invece di proiettarsi verso lo scioglimento, sembra voler arrestarsi a ogni passo, mettendo in rilevo, come componenti a sé stanti, dettagli e singole azioni. Nel caso del testo citato, è evidente poi che l’assenza di qualsiasi commento o espressione emotiva ne rende opaca la lettura, come se fossero stati sottaciuti o esclusi elementi importanti della vicenda. Certo, capiamo che si tratta di un infanticidio – gli oggetti e le operazioni che contribuiscono alla morte del neonato sono del tutto evidenti – ma sentiamo di non avere abbastanza dati per rendere intelligibili le azioni dei due protagonisti, il padre e la madre. Vediamo tutto quanto c’è da vedere di questa orribile “scena” domestica, ma ci è impossibile attribuire a essa un significato univoco, spiegarla attraverso cause e motivazioni, giustificarla nel bene e nel male. L’aspetto enigmatico del testo è ulteriormente rafforzato dal fatto di situarsi in una serie di componimenti che non hanno nessi tra loro, se non dal punto di vista tematico. Nessuna narrazione di livello superiore viene a inglobare i singoli episodi. Oltre alla prima, possiamo leggere – tutte numerate progressivamente – altre tre “scene domestiche”, tutte interrotte da un omicidio (quasi sempre volontario). Nella seconda abbiamo a che fare con un litigio tra marito e moglie, nella terza con un litigio tra una sorella e un fratello e i loro rispettivi coniugi, e nella quarta con un marito che programma a mente fredda l’avvelenamento della moglie. La serialità, insomma, piuttosto che contribuire a una totalizzazione del senso, rende ancora più estraneo e opaco ogni episodio.

L’uso “poetico” del documento, quindi, risponde a un duplice obiettivo: fissare nella memoria degli eventi cruciali, sottraendoli all’indistinzione e all’invisibilità in cui l’archivio li mantiene, e nello stesso tempo impedirne un’immediata assimilazione, attraverso spiegazioni, giudizi, interpretazioni. Il dispositivo testuale messo in opera in Testimony ha esattamente lo scopo di estrarre e isolare alcuni episodi dal flusso indifferenziato di avvenimenti che caratterizzano la storia degli Stati Uniti. E questo lavoro di separazione e cristallizzazione si applica prevalentemente a quell’universo di avvenimenti, di cui sono protagonisti soggetti collettivi quali le “classi popolari”, i “lavoratori” nordamericani o gli “esclusi” dal progresso trionfante della nazione. In altre parole, Reznikoff non si limita a restituire presenza e visibilità a personaggi che, per destino sociale, sarebbero condannati all’oblio (indegni di targhe, biografie, monumenti), ma vuole combattere una seconda forma di oblio, quella operata dalla storia intesa come discorso istituzionale, che fa di quei personaggi componenti invisibili di entità sopraindividuali. Non si tratta qui di negare appartenenze di classe o un certo grado di realtà inerente ai gruppi sociali, ma di criticare il modo in cui il destino del singolo è cancellato, in quanto componente incalcolabile o irrilevante di un insieme sociale più vasto e significativo.

In conclusione, vorrei mettere in rapporto quanto appena detto, con la nozione di récit elaborata da Emmanuel Hocquard, in uno dei testi eminenti della linea letteralista francese. Quello stesso Hocquard che, come abbiamo visto, assegna proprio a Testimony un ruolo centrale non solo per la comprensione della poesia statunitense degli anni Trenta, ma per la ridefinizione della poesia francese di fine secolo. Egli scrive in Un grammaire de Tanger: “Il racconto (récit) non è una rappresentazione, ma una presentazione. (…) Nel racconto, gli avvenimenti non sono gli anelli di una storia ma gli elementi di una costruzione. I nomi e i pronomi non si riferiscono a dei personaggi (o a degli oggetti) esteriori ma divengono i personaggi, gli attori stessi di ciò che si trama”[19]. Ora, tutto ciò può applicarsi a Testimony (e Holocaust), ma con una decisiva differenza: nel caso dell’opera di Reznikoff, la dimensione referenziale del testo non può mai del tutto essere neutralizzata; essa lo abita, e riemerge come una delle sue possibilità di lettura.

 

 

[1] Varrà la pena di citare almeno Hal Foster, “An Archival Impulse”, in October, vol. 110 (Autumn, 2004), pp. 3-22, e l’esposizione Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art, curata da Okwui Enwezor presso l’International Center of Photography di New York (gennaio-maggio 2008).

[2] “Iconoclastia artistica e il concetto di littéralité”, in Teoria&poesia, a cura di Paolo Giovannetti e Andrea Inglese, Biblion edizioni, Milano, 2018, pp. 95-109.

[3] Kenneth Goldsmith, Against Translation. La dislocazione è la nuova traduzione, in “il Verri”, n° 75, febbraio 2021, p. 54. Per una critica dell’atteggiamento “testualista” di Goldsmith dal versante francese, si legga Franck Leibovici, Des opérations d’écriture qui ne disent pas leur nom, Questions théoriques, 2020. In particolar modo, il capitolo “Le cas Goldsmith”, pp. 113-125.

[4] Un’opera che tematizza “in atto” il frangersi della cornice lirica è Le Carnet du bois de pins (1940-41) di Francis Ponge. Il testo vorrebbe porsi come il resoconto (l’espressione) “del piacere proprio ai boschi di pini”. L’enunciazione poetica dispone, ad esempio, di forme metriche ereditate (il verso alessandrino). Ma l’autore finisce col presentare al lettore, assieme alle sue composizioni in versi, anche tutti gli abbozzi, i tentativi, le riflessioni metatestuali, che hanno accompagnato il suo processo creativo. In modo per niente programmatico, Ponge ci propone un testo che assieme testimonia dello sfaldamento lirico e della genealogia di una poesia di ricerca.

[5] Per una disamina filosofica sulla questione, rimane ancora insuperato in ambito francese il libro di Jacques Bouveresse, Le Mythe de l’intériorité. Expérience, signification et langage privé chez Wittgenstein, Minuit, Paris, 1976 e 1987.

[6] Le componenti ideologiche del paradigma lirico funzionano come le diverse idee, che dal Romanticismo in poi, hanno definito l’oggetto più generale di letteratura. “L’«idea» della letteratura , certamente multipla e mutevole in ogni epoca, non ha, come indica Rancière, nulla di concettualmente rigoroso (…). Essa si modella con dei riferimenti filosofici deformati, delle nozioni teoriche spesso vaghe o ambigue.” Laurent Jenny, La fin de l’intériorité, Presses Universitaires de France, Paris, 2002, p.12 (traduzione mia).

[7] In Ponge è possibile cogliere lo stupore relativo alla lingua (parlata e scritta) come uno straordinario terreno d’incontro e di accordo. “Cosa, la Parola? Ebbene, questo fenomeno misterioso – misterioso quanto alla sua origine: le ragioni di parlare e di scrivere; misterioso anche nei suoi effetti: l’accordo che si realizza grazie ad esso, la comunicazione che si attua, il potere temporale e intemporale che procura.” Francis Ponge, Pour un Malherbe, Gallimard, Paris, 1965, p. 204. Traduzione mia.

[8] Rossi-Landi, attraverso i suoi libri, insiste particolarmente su due cose: la realtà è sempre ideologica (la lingua è sempre alienata); porsi in un’ottica progressista (potenzialmente rivoluzionaria) vuol dire: prenderne atto e proporre un’ideologia innovatrice, che ambisca a programmare diversamente l’individuo e le istituzioni dentro cui è inserito. Si leggano ad esempio le pp. 88-92 di Semiotica e ideologia (Bompiani, Milano 1972 e 2007). Su questo punto abbiamo una sostanziale prossimità con Cornelius Castoriadis. Quest’ultimo sostituirebbe semplicemente il termine paideia a quello di “programmazione”.

[9] Enrico Testa parla a questo proposito di “enfasi sull’aspetto ‘monumentale’ dell’opera, sui suoi tratti di immobilità e compiutezza” (Per interposta persona. Lingua e poesia del secondo Novecento, Bulzoni, Roma,1999, p. 12.) La chiusura formale e la coerenza tematica del singolo componimento poetico stanno a dimostrare che qualcosa di definitivo può essere detto sul mondo e salvaguardato dal suo disordine.

[10] Gian Luca Picconi, La cornice e il testo, cit., pp. 68-69.

[11] Reznikoff è citato in diverse occasioni in questo libro teorico di Hanna, che dedica ampio spazio all’uso del documento da parte dell’attuale poesia di ricerca soprattutto francese. Hanna, classe 1970, appartiene ormai alla seconda e più giovane generazione di teorici, che s’iscrivono nell’eredità di Hocquard e Gleize. Christophe Hanna, Nos dispositifs poétiques, Questions théoriques, Quercy, 2010, p. 188. Traduzione mia.

[12] Affinché progresso autentico possa darsi sia per l’americano che per l’ebreo, è essenziale fare un lavoro negativo, di critica e disincanto, nei confronti di questi due miti. Sulla critica al mito dell’ebraismo come identità culturale di un popolo senza paese, viene spontaneo il riferimento al libro di Abraham B. Yehoshua, pubblicato anche in Italia: Elogio della normalità. Saggi sulla Diaspora e Israele, Giuntina, 1991.

[13] Ian Davidson, “The Languages of Charles Reznikoff”, in Journal of American Studies, vol. 45, n° 2 (May 2011), pp. 355-369. Traduzione mia.

[14] Rachel Blau DuPlessis, « Objectivist Poetics and the Work of Drafts », in New Objectivists / Nouveaux objectivistes / Nuovi oggettivisti, a cura di Cristina Giorcelli e Luigi Magno, Loffredo editore University Press, Napoli, 2013, p. 46.

[15] Utilizzo in questo caso una traduzione realizzata da Giuseppe Nava, e pubblicata su Nazione Indiana, in un post dedicato a Testimony: (Testimony. The United States (1885-1915): Recitative, 3/10/2019).

[16] Mi riferisco qui alla distinzione operata da K. Silem Mohammad in Sought poems (2003), e-book disponibile sul sito GAMMM (2007).

[17] Marie-Jeanne Zenetti, « Prélèvement/déplacement : le document au lieu de l’œuvre », in Littérature, n° 166, 2/2012, p. 37.

[18] Ibidem

[19]Emmanuel Hocquard, Une grammaire de Tanger, cipM, Marseille, 2007. Pagine non numerate. Traduzione mia.

La neve

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Herisau 1956
 

di ⇨ Paolo Marco Durante

[Ho descritto fatti reali e provato anche a immaginare, mescolando: ne è venuto fuori un misto di verità e menzogna, come sempre d’altronde, nelle cose che facciamo. Percorrere sentieri del possibile, se non sempre del plausibile. Da questo, comunque, mi sono lasciato irretire e trascinare in un gioco pieno di rischi, che però non voleva essere irrispettoso, né presuntuoso né, tantomeno, arrogante. Provare l’emozione, la vertigine, il privilegio, concesso solo a chi scrive e a chi recita, di vivere altre vite, le vite degli altri.]

Esiste al mondo qualcosa di più bello della neve? Si può immaginare una meraviglia più meravigliosa di una fitta, lenta, silenziosa nevicata? E un’attesa più santa, quando il cielo promette e tutto sta per accadere? E si può pensare a una gioia più intensa e più pura di quella dipinta sul volto di un bimbo appoggiato al vetro di una finestra quando i primi fiocchi cominciano a scendere?

Eccoci lì – immobili, fermi e zitti per non sentire noi stessi – ad avvertire la musica celestiale dei fiocchi che calano sul mondo e che si assestano piano, con garbo e accuratezza, l’uno su l’altro, l’uno su l’altro… Una mobilità immobile, incessante, lontana. Una pace ovattata, una quiete imperturbabile, totale, senza paragoni possibili. E un’indifferenza letale, implacabile.

Il mondo – se ancora il mondo esiste – è distante, inaccessibile. L’uomo è solo,  dimenticato, sperduto in uno spazio straordinario, straniato nel possente, opaco, grandioso silenzio, nel prodigioso non colore, mortale, della neve.

Una gioia antichissima, prenatale. Una calma armonia, una beatitudine indicibile, insondabile. E una commozione intensa come una vertigine.

Nello stesso tempo un’ansia lieve, una tenue sofferenza che si insinua, qualcosa di inappagato, di inestricabile, di irraggiungibile. Nel paesaggio stupefacente e caduco, sotto la candida, precaria coltre, pare si debba nascondere qualcosa di smisurato, si debba concretare qualcosa di formidabile, fragile, fuggevole.

Cosa ci può essere di più bello del camminare in un campo innevato, nella luce velata del primo meriggio, il giorno di Natale?


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Herisau 1956
 

La passeggiata era iniziata subito dopo pranzo.

Il paesaggio, stranoto, era dunque irriconoscibile: morbido, smussato, amichevole, evanescente, spettrale. Anche malsicuro però, rischioso, un suo abbraccio più stretto avrebbe potuto… Era bello, bello da far paura, bello da morire. Non c’era possibilità di raffronto, con null’altro al mondo.

Mentre i passi avanzavano piano, sprofondando leggermente in quel morbido sogno, si stava impadronendo della sua anima un senso di acuta e quieta distanza dalle cose mentre il cuore palpitava sommesse emozioni prossime a sconfinare in un’infantile idea di santità  della terra.

C’era un laghetto lì da presso. In realtà nulla più di un minuscolo stagno, circolare. Non era ancora del tutto ghiacciato. La lastra di gelo, partendo dalle basse rive, si espandeva come una ragnatela cristallina lasciando però il centro della pozza in balia dell’alito stesso dell’acqua che si increspava impercettibilmente ricevendo i fiocchi che scendevano pacati, sereni. E rassegnati a morire, annullandosi sulla superficie liquida, rinunciando ad opporvisi. Lì dunque si dissolveva quella unicità irripetibile, quella molteplice, infinita, geometrica singolarità incomparabile, come le generazioni nel tempo, una dopo l’altra, una dopo l’altra.

La passeggiata riprese dopo quella sosta che aveva rivelato il quieto sacrificio.

Scricchiolava quella sconfinata moltitudine di particelle d’acqua ghiacciata sotto i passi che sprofondavano con dolcezza. Un abete si scrollò di dosso il candido mantello con un fruscio lieve, wuff…, un soffio di sollievo.

Si levò dalla coltre bianca un nugolo di fringuelli che rapidi s’innalzarono su, su dove avrebbe dovuto trovarsi il cielo e più quelli salivano più a lui sembrò di precipitare in basso, di sprofondare in una candida vertigine che lo avrebbe inghiottito.

Era giunto sul vasto prato davanti all’Abbazia. Il grande rosone splendeva della luce all’interno come se invece fosse il sole, sparito dal mondo, a farlo risplendere. Sulla destra il cancello del camposanto.

La neve aveva smesso di scendere. Dopo aver tuttavia già uniformato il paesaggio, smussandone le asperità, spegnendone le lame affilate, le cuspidi aguzze che sotto la coltre immacolata si erano chetate. Ora tutto appariva gentilmente e dolorosamente morbido per quel bianco remissivo, mansueto.

Dall’interno della chiesa giunsero voci di bimbi, un coro natalizio, cantavano “O Tannenbaum”.

Le punte di lancia del cancello erano diventate placide e inoffensive. E buffe, come bonari batuffoli d’ovatta sui rami dell’abete addobbato.

Si voltò indietro, a guardare ancora una volta le ultime case del paese. Osservò a lungo il fumo uscire dai comignoli, che si condensava e subito si perdeva nell’aria gelida, e svaniva.

Vide due corvi levarsi dai campi di neve con un volo pesante, faticoso, due cupi pensieri. Il fumo dei comignoli e due corvi. Lo schiocco delle nocciolaie, che però non si vedevano. E le cose, le altre cose. Tutte le altre cose. Il cielo, le nuvole, la nebbia leggera che accarezzava tutto. Gli alberi, il bosco, il paese che adesso era lontanissimo. Le montagne, il resto del mondo, i mari, i fiumi, le isole, tutto, tutto. Avrebbe voluto scrivere una storia su ognuna di quelle cose, tante storie su tutte le cose del mondo, una per ogni cosa. E sulla neve. Sull’aria di neve che si sente ancora prima che scenda. Sul profumo di neve che tutti conoscono ma che nessuno sa descrivere. Su quel cielo da neve invisibile e opaco e su quelle silenziose promesse. Sulla panchina, lì vicino allo stagno. La panchina coperta di neve, curiosa e arrotondata dalla bianca materia che l’ha trasformata in un oggetto allegro, paffuto e inutile, sul quale non puoi sederti ma che fa simpatia.

Robert Walser

Tutta quella neve! Scrivere una storia per ogni cristallo, in omaggio alla sua indicibile irripetibilità. Raccontare – ma come? – la stabile precarietà della coltre bianca, gli equilibri impossibili su un tetto, su un ramo, su una foglia, su un lampione, su un fil di ferro, sui suoi baffi, sui suoi capelli, sulle ciglia, minuscole perle che trasformavano la vista in un regno fatato. E il tonfo attutito di quando la gravità vinceva su quella vita inattuabile, sulla poesia. Fino a quando, anche per questa volta, sarebbero rimaste per terra solo le ultime chiazze ingrigite di tutto l’antico immacolato splendore, a testimoniare che un altro anno è passato.

Proprio in quegli ultimi giorni gli era accaduto di ripensare al romanzo di uno scrittore italiano, che aveva letto, tanti anni prima. Parlava di un uomo, un prete, che si sentiva come un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro. Gli erano rimaste impresse, quelle parole. Anche lui si era sempre sentito così, un vaso di coccio. Ma proprio in quel pomeriggio, durante quella passeggiata avventata, imprudente, proprio in quell’esatto momento, si era reso conto di come quella sensazione che si era portato in spalla, oneroso fardello, per tanti anni, fosse stata invece ingannevole. Aveva compreso ora, ora soltanto, che in realtà i vasi di coccio erano loro, gli altri, anche se mascherati dietro ridicole armature di tolla. E come lui fosse invece non certo un vaso di ferro ma un’ampolla di cristallo, finissimo, lucente, sfavillante. E fragile, sì, fragile e fugace come tutte le cose che contano davvero.

Il coro dei bimbi intonava adesso, lontano, “Stille Nacht”.

Si sentì stanco. Una stanchezza leggera, aggraziata, deliziosa. E profonda, quieta, misteriosa. Una sensazione singolare, nuova, mai percepita prima.

Da lontano sembrò che s’inginocchiasse.

In mezzo all’immenso prato bianco adagiò l’ampolla di cristallo.

La neve, che aveva ripreso a scendere fitta, copiosa, ricoprì la fragile ampolla, in poco tempo, sapientemente, e allora rimase soltanto una morbida ondulazione del manto candido, a ricordo.

Quella morbida ondulazione era adesso in perfetta armonia con la terra e col cielo che intanto s’era riempito di opache minuscole stelle.

Lo trovarono i bimbi.

Herisau, 25 dicembre 1956

 
Robert Walser. Herisau, 25 dicembre 1956
   

Il gatto nel burro

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"La flûte", gravure sur bois de Félix Vallotton (1896)

È uscito per le edizioni Via del vento il volumetto dal titolo L’ubriaco, che raccoglie alcuni racconti inediti di Charles-Louis Philippe; traduzione e cura sono di Stefano Serri. Pubblico come anticipazione il primo testo, Il gatto nel burro. [ot]

 

“La flûte”, gravure sur bois de Félix Vallotton (1896)

 

Boyaud, il macellaio, non solo era alto, ma era anche grosso. Occupava un sacco di posto in città. Lo si notava da lontano, non solo per il suo volume, ma anche per il suo colore. Era rosso. I suoi capelli erano rossi, come quelli di tutti i rossi, ma di simile alle guance c’era soltanto il fuoco. Quando passava vicino a un fienile, gli gridavano:
– Non avvicinarti. C’è della paglia.
Doveva essere come lui, la strada, enorme, rossa e distesa, perché vi potesse trovare posto. Non gli piaceva la carne bianca, il vitello. Mangiava carne di manzo, ne mangiava parecchia. Avrebbe voluto mangiare qualcosa che fosse più carne della carne stessa, e poi, mangiarlo crudo. Non gli piaceva il vino leggero, beveva un vino denso che a bicchieroni si versava dentro come sangue. Quando aveva finito con il vino, attaccava con l’acquavite per scaldarsi le budella. Solo l’acquavite era calda come lui.
Di certo fu la moglie di Regrain che sbagliò per prima. Boyaud era andato a casa di Regrain per cercare un vitello che aveva comprato un giorno nel corso dei suoi viaggi. Quando arrivò, la moglie di Regrain era sola in casa, intenta a battere il suo burro nella zangola. Gli disse:
– Regrain lavora nel campo. Mi aspetti, vado a cercarlo.
Partì, lasciando Boyaud solo nella stanza. Commise un errore. Boyaud non amava restare solo. Se almeno gli avesse dato da bere, avrebbe bevuto per impegnare il tempo. Se ci fosse stato un bambino, lo avrebbe piazzato in cima all’armadio. Non poteva mica sedersi e incrociare le gambe una sull’altra. Che fare? Nelle stanza c’erano soltanto una gatta con il suo gattino. Mentre Boyaud li guardava senza prestare loro troppa attenzione, vide anche la zangola, e gli venne un’idea.
S’impossessò del gattino, sollevò il coperchio della zangola e mollò la bestia lì dentro. Soltanto dopo riuscì a calmarsi e ad aspettare la moglie di Regrain.
Tornò con il suo uomo. Boyaud sistemò i suoi affari. Il vitello venne staccato, caricato nella vettura, il prezzo venne corrisposto. La moglie di Regrain, come al solito, disse:
– Fa comunque male, darlo al macellaio.
L’uomo rispose:
– Che vuoi! gli animali son fatti per essere mangiati!
La donna tornò al suo lavoro, perché così è la vita. Batteva il suo burro, lo batteva per bene. Aveva fama di fare il miglior burro del paese. Dimenticò il vitello. Era stato davvero seccante quella distrazione. Non ci si dovrebbe mai distrarre quando si batte il burro: il suo era già rappreso. Ne fu anche stupita.
– Eppure non c’è stato brutto tempo! È come se la mia panna si fosse trasformata!
Spinse più che poté per comprimerla: davvero, il suo burro era duro come formaggio. Si arrabbiò, lo pestò, gli parlò come se volesse tenerle testa:
– Bestia rognosa, ti sistemo io!
Regrain fu costretto a dirle:
– Invece di arrabbiarti in questo modo, guarda piuttosto che non ci sia qualcosa dentro la tua zangola.
Aveva proprio ragione. Sollevò il coperchio, guardò con attenzione. Quello che vedeva era troppo strano perché non ci pensasse su prima di parlarne. Convinse pure suo marito a venire a vedere.
– Vieni a vedere, si direbbe che c’è una cosa tutta nera!
Nessuno ama mettere le mani nel burro, perché non è corretto verso chi lo compra. Regrain disse:
– Chissà, che non sia caduto dello sporco nella tua panna.
Non si è mai sicuri, nonostante si stia attenti. Rispose:
– Non credo proprio!
– Insomma, resta solo una cosa da fare. Tirati su la manica e tocca quella cosa.
Diede tre grida. Il primo fu un grido di paura; lo diede afferrando un cosa enorme e appiccicosa che stava in fondo alla sua zangola. Il secondo grido, lo diede sollevando quella cosa, e il terzo grido, che fu il più acuto, lo diede nel momento in cui espose il gattino alla luce.
Del resto, entrambi, Regrain e la moglie, videro subito di che si trattava. Era stato Boyaud! Sapevano bene come, da lui, ci si dovesse aspettare di tutto, ma mai si sarebbero aspettati una cosa simile. Si era comportato come un macellaio.
Povero animaletto! Regrain ce l’aveva anche con la moglie. Le disse:
– Non c’era bisogno che spingessi tanto. Dovevi chiederti cosa ci fosse.
Avrebbe pianto, lei, sia per colpa del gatto che per la discussione che ora minacciava di nascerne. Di colpe lei non ne aveva! Posò il gattino all’angolo del camino. Era tutto schiacciato. Mamma gatta si avvicinò. Leccava il figlio. Regrain era furioso e non voleva mettersi in testa che la gatta leccava il cucciolo non perché fosse il suo piccolo, ma perché era coperto di panna! La cacciò con delle pedate.
Solo in un secondo momento pensarono al burro.
Regrain era del parere, santo cielo! che nessuno avrebbe saputo nulla, che lei doveva solo continuare a battere il suo burro e lo avrebbe venduto il giorno di mercato come se la disgrazia non fosse accaduta. Ma lei era orgogliosa, ci teneva alla reputazione dei suoi prodotti, e, prima ancora di approfondire l’argomento:
– Questo, neanche morta!
Regrain ebbe un’altra idea: poiché lei non voleva venderlo, beh! non avevano che da usarlo loro stessi. Di questo, ella non volle sentire neppure parlarne.
Aveva un bel dire, lui.
– Insomma, meglio usarlo che perderlo!
Ce n’erano almeno quattro libbre nella zangola. Per la rabbia, Regrain si alzò e andò a lavorare nel campo.
Il giorno dopo questa sinistra avventura era giorno di mercato. La donna si recò in città con il suo paniere. Sapeva che tutte le mattine, verso le undici, Boyaud andava da Monsel, l’oste, per prendere il suo vermut. Lo spiò. Appena quello si fu piazzato per bene, in compagnia di tutti i bevitori, se ne andò nella macelleria dove la signora Boyaud era sola. Le diede le sue spiegazioni:
– Ecco qua! Vostro marito mi ha detto che volevate mettere da parte del burro e mi ha incaricato di portarvene quattro libbre.
– Giusto, in effetti, è venuto a casa vostra ieri! rispose la macellaia.
Povera donna! Nemmeno per sogno le avrebbe raccontato i brutti scherzi del marito. Eppure le faceva pena, ingannarla! Quella pagò il burro. La moglie di Regrain non perse la testa e le fece pagare un buon prezzo: trenta soldi alla libbra. In piazza, costava ventisei soldi, ma, perdio! la differenza avrebbe rimborsato il gatto!
Quando Boyaud, tornando dall’osteria, venne a conoscere questa storia, fu fortunato a non aver pranzato, perché, in quel caso, si sarebbe beccato una congestione. Uscì in strada, senza cappello; uccidere i Regrain non sarebbe stato sufficiente. Avrebbe dovuto, almeno, mangiarseli! Bruciare la loro casa, era una misera vendetta. Avrebbe voluto ridurla in macerie e ballare sulle rovine fino a farne polvere. Avrebbe voluto rivoltare i campi di Regrain, ammalarsi di una malattia immonda e vomitarcela sopra.
Rientrò a casa per cercare il suo berretto. Aveva voglia di attaccare il cavallo alla vettura e di partire subito per andare a buttarsi nel fiume. Del burro dov’era crepato un gatto! Certo, nessun cibo poteva spaventare Boyaud. Avrebbe mangiato manzo frollato, vitello malato, porco magro, gallina vecchia, porcellino d’India, se avesse voluto. Una volta aveva mangiato anche un porcospino e un’altra volta un corvo. Ogni cosa avrebbe potuto farla bollire un giorno intero nel brodo, se fosse stato necessario. Ma un gatto! Non è, a ben vedere, che di per sé non sia un animale adatto. Un giorno, quando era nel’esercito, durante le grandi manovre, dei soldati, come lui, si erano impossessati di un gatto, gli avevano tolto la pelle, lo avevano fatto cuocere e lo avevano mangiato. Quello che lo spaventava, era il pensiero dei peli. Erano gialli. Dovevano essere bagnati, quando avevano tolto la bestia dalla zangola. I gatti, quando vengono immersi nella panna, diventano una porcheria. Gli sembrava che tutto il burro fosse una sorta di liquido innominabile, che chiamava succo di gatto. Sentiva che stava per diventare incapace di mangiare, per il resto della vita.
Tremava. Non poteva neppure camminare. Attaccare il cavallo? A che pro! Forse non ne avrebbe avuto neppure la forza. Andò in camera da letto, perché lì non c’era nessuno. Avrebbe voluto morire da solo in un angolo, come un cane. Si sedette. Posò il berretto, che gli faceva male. Povero Boyaud! Si mise la testa tra le mani, chiuse gli occhi per non vedere nulla e, tra le sue grosse dita di macellaio, sentì colare delle grosse lacrime, le lacrime del grosso bambino che era.

Per un’educazione democratica

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di Christian Laval e Francis Vergne

( E’ uscita l’edizione italiana del saggio di Christian Laval e Francis Vergne Educazione democratica, trad.it di Davide Borrelli e Rossella Latempa, Novalogos, Roma, 2022, euro 16, riporto qui sotto le conclusioni finali del saggio grazie alla cortese disponibilità di curatori ed editore, g.m.)

Il desiderio di conoscere e l’esperienza del comune

 

I cinque principi dell’educazione democratica[1] non sono ricette ma spunti per riflettere, agire e creare. Mirano a un aldilà rispetto ai tempi oscuri per la democrazia in cui viviamo. Sappiamo in che stato si trovano oggi scuola e università, e sappiamo come ci sono arrivate. L’anomia prende il sopravvento, e con essa la demoralizzazione, a volte il disimpegno. Si sottovaluta la sofferenza che provano gli insegnanti quando non riescono più a trovare nessuno con cui parlare e agire. Si dimentica troppo spesso che insegnare mette a dura prova la persona del docente, lo espone a volte alla violenza fisica e ancora più di frequente a quella psicologica. Si è fatto di tutto per disarticolare i quadri professionali comuni, e l’attuale desindacalizzazione del settore rischia di rimuovere gli ultimi sostegni che gli insegnanti trovavano nel collettivo. Nulla è più grave per il futuro dell’educazione dell’indebolimento della capacità di pensare e agire insieme. Freinet aveva sofferto l’isolamento nella sua scuola, ed è con cognizione di causa che rivolgeva ai membri del suo movimento questo avvertimento: «non restate da soli». La raccomandazione non è mai stata così attuale. L’invenzione di un’altra scuola comincia con la moltiplicazione dei comuni professionali e dei comuni sindacali[2] . È quindi spesso su un terreno ostile e in condizioni a volte estremamente difficili che il docente esercita la sua professione. In qualunque condizione, favorevole o meno, il docente nella sua stessa pratica opera in un campo di molteplici tensioni, messo di fronte ad antinomie che riflettono ed esasperano dottrine e ideologie pedagogiche a volte palesemente opposte: tra libertà e autorità, tra sviluppo del bambino e logica della conoscenza, tra istruzione generale e formazione specializzata, tra finalità economica e finalità socio-politica, e così via. Se abbiamo presupposto che la finalità democratica deve orientare le dimensioni fondamentali dell’educazione, non è certo per dire che le pratiche concrete si possono miracolosamente liberare da tali tensioni. Dare un senso politico forte a ciò che si fa costituisce ancora il modo migliore per non demoralizzarsi di fronte alle difficoltà che ci sono a svolgere semplicemente il proprio lavoro, soprattutto nel momento in cui la condizione economica e il ruolo simbolico di docenti e ricercatori sono così svalutati in un gran numero di paesi, compresa la Francia. L’operazione che abbiamo provato a fare in questo libro è irrealizzabile se non si accetta di immaginare il possibile al di là di ciò che la realtà ci impone. Le pratiche democratiche che consentono fin da ora di cambiare la scuola non sono concepibili se non nell’orizzonte di questa “altra scuola” possibile.

 

Un desiderio condiviso di conoscere

Che cosa può sostenere l’insegnante nel suo slancio verso un’alternativa democratica se non il desiderio di conoscere? Con quali energie il desiderio di conoscere può coinvolgere studenti che non vi sono stati predisposti dal proprio ambiente o dalla propria famiglia? Qui viene chiamata in causa la responsabilità degli insegnanti, ed è in gioco la loro legittimità. Si dice giustamente che i docenti per funzione ne sanno più degli studenti, e che in questa differenza risiede la fonte della loro autorità e del rispetto che dovrebbero ispirare. Se bastasse questo, le cose sarebbero meno difficili per molti di loro. Abbiamo mostrato che occorrono anche altre condizioni, come ad esempio la riduzione del numero di studenti per classe e la maggiore eterogeneità sociale degli istituti. Ma ci sono anche delle condizioni soggettive che hanno a che fare con il desiderio di fare della conoscenza un bene comune accessibile a tutti, e con lo sforzo di facilitare in ogni modo il superamento della distanza tra ciò che gli alunni sanno e le conoscenze che devono acquisire, anche contro programmi o prescrizioni palesemente non idonei. Non affliggere le menti dei ragazzi con la noia e l’addestramento quando invece non ci può essere niente di più appassionante che insegnare e imparare, dipende in parte da tale disposizione soggettiva. Ma l’erotizzazione della conoscenza si scontra con i giganteschi sforzi burocratici tesi a standardizzare i metodi, i contenuti e i dispositivi di valutazione che esperti e ingegneri della formazione impiegano ovunque e in ogni grado d’istruzione. La più recente innovazione “neuro-pedagogica” non è la meno pericolosa: essa si limita a prendere in considerazione del “cervello-computer” solo delle zone di attivazione neuronale in cui si cercherebbe invano, perché non ve la si può trovare, la relazione desiderante che i soggetti istituiscono con la conoscenza attraverso la mediazione del docente e del gruppo classe. All’oggettivazione degli studenti si aggiunge il maltrattamento manageriale che subiscono i docenti, oltre al degrado sociale e all’impoverimento economico. Come possono trasmettere ancora qualcosa del desiderio che li ha portati in classe, come ci riescono ancora, quando la razionalizzazione burocratica intende trasformarli in tecnici obbedienti? Non si pensi che parlando di soggettività si abbandona il terreno politico: al contrario, si resta sempre su questo piano, e più di quanto non si creda. Il management presunto apolitico lo sa bene, quando cerca di “cambiare le mentalità” dei docenti sottoponendoli al «governo per mezzo dei numeri», così ben analizzato da Alain Supiot (2015). Infatti, la posta in gioco non è solo subordinarli nel merito della loro professione a una gerarchia locale, di per sé molto dipendente dalla macchina burocratica, ma indurli a comportarsi come sinistri ingranaggi in un meccanismo di trasmissione degli imperativi economici. È sminuendo il valore della loro funzione, negando la loro professione, degradando la conoscenza a semplici dati d’informazione e a supporti della comunicazione commerciale che il potere burocratico ha cercato di arruolare la massa degli insegnanti nella moderna scuola-impresa, e questo con il pretesto delle “pari opportunità”, dell’“equità” o dell’“individualizzazione”. E per spacciarsi agli occhi dei docenti come una politica virtuosa, tale trasformazione manageriale della scuola è stata avvolta in una retorica pseudo-democratica, un modo ingannevole per mascherare il cambiamento di scopo e di funzione che si è voluto imporre all’istruzione. Peggio ancora, la dimensione democratica e cooperativa di alcune fra le nuove pedagogie è stata ridefinita nei suoi scopi attraverso una reinterpretazione imprenditoriale e tecnicistica della cosiddetta nuova pedagogia. L’“alleanza” fra innovazione pedagogica e spirito del capitalismo è costata cara, soprattutto perché ha accantonato il problema di un’autentica democrazia nelle pratiche scolastiche. Ci sono infatti due tipi di nemici dell’educazione democratica, uno antico e l’altro moderno. Conosciamo bene tutti i vecchi avversari della libertà di pensiero e di azione, i fedeli amici della gerarchia sociale, gli adoratori del mondo ineguale, i seguaci dei dogmi religiosi, i sostenitori dell’autoritarismo e del disciplinamento dei ragazzi. A questi si sono aggiunti nuovi nemici, che pretendono di essere moderni. E non sono meno pericolosi per la libertà di pensiero e per la capacità di agire, anche se il loro linguaggio vuole essere più attraente. La digitalizzazione, l’intelligenza artificiale e la connettività sono i rimedi universali. Succede che i due gruppi di nemici dell’educazione democratica, quello antico e quello moderno, formino un’alleanza. Ad esempio, nei paesi dove si è imposta negli ultimi anni una forma particolarmente autoritaria e brutale di neoliberalismo, in particolare in Brasile, Ungheria o Turchia. Questo nuovo patto oscurantista si può estendere. I segni si stanno moltiplicando fino in Francia.

 

L’esperienza del comune educativo

È verso tutt’altra direzione che occorre muoversi nel fare l’esperienza del comune in ambito educativo, a tutti i livelli e in tutte le sue dimensioni. L’educazione democratica non si può immaginare pienamente che in un’altra società. Diviene concepibile solo nel momento in cui “quelli che stanno in basso”, vale a dire la maggioranza delle persone, possono scegliere il proprio destino rendendo la società più vivibile e la Terra ancora abitabile, non per rimettere questo desiderabile futuro nelle mani di persone più potenti di loro, ma determinandolo essi stessi negli organi decisionali alla loro portata, dove vivono e lavorano. Qui si incontra una grande difficoltà: come possono i poteri costituiti accettare di buon grado un’educazione guidata da un obiettivo così radicale che li mette in discussione? Si misura allora la posta in gioco storica e la responsabilità degli educatori che sostengono l’accesso a scuola per tutti, una pedagogia cooperativa, una cultura comune di buon livello: lottare per l’istruzione democratica significa volere la sovranità popolare che ne è l’orizzonte. L’educatore democratico, se è coerente con sé stesso, deve interrogarsi sul rapporto tra la sua azione educativa e l’andamento della società. Non può nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi, che gli piaccia o meno vi è coinvolto. Quando si chiede di quale cittadino avrà bisogno il mondo per continuare a essere ancora vivibile e abitabile domani, è costretto a chiedersi che tipo di educazione politica si dovrebbe attuare a partire da oggi. E si rende conto che non saranno sufficienti solo piccoli ritocchi e aggiustamenti del vecchio sistema. Che ci vuole una vera rifondazione, una vera rivoluzione. La consapevolezza della necessità di una rivoluzione educativa non gli impedisce di fare lezione. La speranza in un altro mondo possibile è la condizione affinché il docente sia ascoltato dai ragazzi che saranno chiamati ad attuare quella che troppo pudicamente viene definita “transizione ecologica”, e che in realtà è un mutamento radicale del modo di produzione e di vita su una scala che è difficile da immaginare. L’educatore democratico non deve essere semplicemente “in sintonia” con le urgenze del suo tempo, deve essere soprattutto un portatore di speranza. Se vogliamo evitare le regressioni religiose dogmatiche o le ridicole illusioni della svolta transumanista o della conquista del pianeta Marte, l’educazione democratica deve offrire alle nuove generazioni un orizzonte politico, sociale ed ecologico più felice della rappresentazione da incubo di una serie di disastri della cui esperienza ci ha dato una prima idea la pandemia di Covid 19. Ma la speranza non può passare come ai tempi del razionalismo illuminato, del positivismo e del marxismo dogmatico attraverso una fede ingenua nel progresso della scienza, il che tornerebbe a rimettere ai sapienti, ai professori e agli “intellettuali” il compito di tracciare la via alla felicità. L’alternativa non è nella tecnoscienza ma nella democrazia reale, nella presa in carico da parte della società stessa del proprio futuro, al quale la conoscenza deve contribuire nella misura in cui risponde ai bisogni di sapere di tale società. Robert Musil ha osservato che «se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa» (1930-43, p. 12). E Musil plaudiva al «consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione» (ibidem). Questo è quanto abbiamo voluto tentare. Non si tratta come nelle vecchie utopie di proiettare in un futuro immaginario l’educazione perfetta, ma di darci la possibilità di espandere su più vasta scala aspirazioni, lotte, pratiche che si aprono a una nuova forma di educazione. Come ci ha invitato a fare André Gorz, «bisogna imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente» (1997, p. 9). Eric Olin Wright ha parlato di «vere utopie» (2010). Si tratta in effetti di sperimentare realmente e concretamente nuovi principi e di verificare collettivamente che le conseguenze siano positive. In questo senso il nostro lavoro vuole essere un invito a un nuovo sperimentalismo educativo nella prospettiva della rivoluzione democratica e nei limiti del possibile. È tempo di rendersi conto che il senso della realtà si unisce oggi al senso della possibilità. Questo è il solo senso veramente realistico nel momento in cui è la realtà stessa che impone un cambiamento nei modi di vivere, di agire e di educare.

[1] Sono i 5 principi attorno ai quali è organizzato il libro, uno per ciascun capitolo: il principio di libertà pedagogica e accademica; il principio di uguaglianza di condizioni concrete di accesso ai saperi; la ricerca di una cultura comune aperta e plurale; il principio di democrazia e autogoverno dell’istruzione, dalla scuola d’infanzia all’università [NdR].

[2] Non abbiamo analizzato nel libro una delle condizioni di tale trasformazione, che è il rinnovamento dell’azione collettiva e la rifondazione del sindacalismo nel settore dell’educazione. Lo abbiamo fatto nei nostri lavori collettivi per l’istituto di ricerca della Federazione Sindacale Unitaria dell’insegnamento, della ricerca e della cultura (FSU): Barnier, Canu, Laval, Vergne (2016), Laval, Vergne (2019) e Vergne (2021).

 

 

Fascismo di oggi

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di Antonio Sparzani

Il 26 dicembre 1946, nello studio del padre di Arturo Michelini, presenti anche Pino Romualdi, Giorgio Almirante, Biagio Pace, avvenne la costituzione ufficiale del Movimento Sociale Italiano (MSI) e la nomina della giunta esecutiva, formata da Giacinto Trevisonno, Raffaele Di Lauro, Alfonso Mario Cassiano, Giovanni Tonelli e Carlo Guidoboni. Su indicazione di Romualdi, Trevisonno fu scelto come segretario perché poco esposto nel regime fascista e decise di fondare un movimento invece che un partito. Tuttavia Trevisonno si dimise il 15 giugno 1947 perché la giunta esecutiva aveva deciso di accettare nelle sue file anche deputati della Costituente dissidenti provenienti dall’Uomo Qualunque. Diventò allora segretario Giorgio Almirante. L’MSI dal 1947 ha come simbolo la fiamma tricolore, spesso identificata in quella che arde sulla tomba di Mussolini.

Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 1947, n. 298:
Costituzione della Repubblica Italiana, disposizioni transitorie e finali,
titolo XII
È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.

Da allora l’MSI, non sfiorato dal Titolo XII qui sopra riportato, ha cambiato vari aspetti formali, nome e statuti. Ha cambiato segretari e dirigenti, ma ha continuato ad avere buoni rapporti con personaggi del tutto equivoci (grande eufemismo!) del genere di Pino Rauti o Stefano delle Chiaie, il cui ruolo nella strategia della tensione e nelle azioni della destra radicale è stato storicamente provato oltre che dichiarato in varie sentenze di tribunali passate in giudicato. Ha sempre invece mantenuto, e tuttora mantiene, irrinunciabile, la fiamma tricolore nel suo simbolo ufficiale che arda ancora per bene.

Nell’attuale non felice centenario della Marcia su Roma, che portò Mussolini e il fascismo al potere, in Italia governa una coalizione il cui principale partito è appunto l’erede, ovvero l’ultima versione, del MSI, che dopo tutti gli opportuni cambiamenti di nome, è diventato Fratelli d’Italia, che bello, è l’inizio del nostro inno nazionale.

Per la non felice coincidenza del recente 26 dicembre con quella lontana data di 76 anni prima, l’attuale sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, figlia del sunnominato Pino, e il presidente del Senato, seconda carica dello stato, Ignazio La Russa (entrambi, s’intende, fratelli d’Italia) si sono sentiti che ormai, date le condizioni politiche attuali, potevano permettersi di commemorare, o, diciamo, celebrare la nascita del MSI.

L’Italia, che nel 1960, quando il governo di Fernando Tambroni ebbe l’appoggio esterno del MSI, saltò per aria, tanto che il governo durò, con qualche interruzione, quattro mesi, adesso muta e attonita, quando non plaudente, sta; proteste deboli e inconcludenti dai vari partiti d’opposizione che neppure su questo comunque trovano un qualche accordo. Continuiamo tutti a stare a guardare, anche noi muti e attoniti?

Lettura molto consigliata: Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia – La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1995, purtroppo non più ristampato ma reperibile nelle migliori biblioteche (o chiedendone al sottoscritto una copia pdf).

“Signora Disgelo”: tre cartoline per il sei gennaio

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a cura di Bianca Battilocchi,

Viviana Fiorentino, Mariadonata Villa

Il sesto giorno del calendario gregoriano celebra l’Epifania cattolica e la cosiddetta ‘Befana’ che raccoglie l’eredità di quegli antichissimi culti agrari propiziatori alla rinascita della natura. Questa personificazione al femminile dell’inverno è infatti chiamata anche ‘Signora Disgelo’, colei che spazza via dalle case il vecchio per fare spazio al nuovo. In Irlanda, soprattutto nel sud del paese, il 6 gennaio è Nollaig na mBam, il ‘Piccolo Natale delle donne’, con riferimento alla tradizione di lasciare che gli uomini si occupino dei preparativi della festa lasciando riposare le donne. Oggi viene festeggiato con degli incontri di lettura e scambio di libri di autrici che si sono lette e amate.

In sintonia con l’augurio di Rigenerazione racchiuso in questa giornata di crocevia culturali, abbiamo voluto proporre tre cartoline poetiche per ricordarci e ricordare la necessità di quegli elementi femminili volti alla creazione e trasformazione.

 

 

1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 1

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di Giuseppe A. Samonà

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Ho vissuto in Italia i primi vent’anni della mia vita, e altrove i successivi quaranta: ma in Italia sono tornato regolarmente, almeno una volta l’anno, soprattutto per via di alcuni affetti preziosi che ancora ci vivono, registrandone attraverso il tempo mutamenti più o meno significativi. È questa distanza partecipe che ha orientato le mie impressioni sul voto del 25 settembre, sulla campagna elettorale che lo ha preceduto e sulle reazioni, o i silenzi, che ha provocato nelle settimane che lo hanno seguito, in particolare imponendomi all’attenzione questioni che nella discussione italiana sono meno o per nulla considerate, o comunque facilmente risolte con formule che a me, da questo mio punto di vista lontano-vicino, appaiono spesso come luoghi comuni. Vorrei condividere queste impressioni, questi abbozzi di riflessione, forse più antropologiche – o persino in parte sentimentali – che politiche, con gli amici italofili o italiani che come me non abitano in Italia, e con quelli che continuano ad abitarci.

  1. Il fascismo

In Italia c’è da tempo un gran ripetere che non esiste più un pericolo fascista. Anno dopo anno sempre più forte e aggressiva nella società come nel parlamento, lo ha frequentemente ripetuto la destra radicale, dapprima suadente poi via via più sprezzante, fiera: Non siamo fascisti, volentieri precisando che non possono esserlo perché il fascismo non esiste più, non ha più senso (e dunque, va da sé, non ne ha più neanche l’antifascismo…). Ma, sia pur in una diversa prospettiva, lo han ripetuto non pochi dei loro avversari a sinistra, o per dir meglio, nel campo che si richiama al progressismo: Non sono fascisti, il fascismo non può tornare, appartiene alla storia, spesso precisando che la destra va combattuta, certo, ma il voto deve essere rispettato, la democrazia è solida, etc. Per i primi, si è trattato innanzitutto di un modo di farsi accettare, di rassicurare – più l’Europa che l’Italia, dove la parola fascismo oramai non crea più il rigetto di una volta – nella loro marcia trionfale verso il potere, e del resto il ritornello sta nel contempo mutando di colore e perdendo in intensità ora che al potere ci sono arrivati; per i secondi, viceversa, si è trattato di un modo di rassicurare se stessi, di addomesticare la possibile sconfitta, con il ritornello che si è intensificato nel mentre quella sconfitta assumeva i contorni dell’apocalisse, quasi che il negare il pericolo ne dissolvesse la realtà: un po’ come quando si evita di pronunciare il nome di una grave malattia, perché il semplice nominarla la renderebbe irreversibile, costringendoci a cambiar vita per combatterla.

Ora il pericolo, anzi, il fascismo, in Italia esiste, non è mai morto, e non è mai stato tanto florido come oggi – anche se certo non si tratta del fascismo storico, quello del manganello e dell’olio di ricino, perché la storia non si replica: e su questo ha buon gioco Giorgia Meloni a ridicolizzare l’accusa che le è, sempre di meno per altro, rivolta. Ma di cosa si tratta, allora?

Innanzitutto, a un livello più profondo, sotterraneo, va considerato quello che Carlo Levi ha definito “l’eterno fascismo italiano” [L’eterno fascismo italiano (altritaliani.net)], e su cui hanno aggiunto del proprio tanti altri scrittori e artisti (Sciascia, Consolo, Camilleri, Fellini, etc. per non citare che quelli che ho avuto modo di riavvicinare negli ultimi tempi): il lungo Ventennio mussoliniano ne è stato solo uno straordinario momento di compiuta apoteosi; i molti anni di Berlusconi (di nuovo, più o meno un ventennio…) e quelli più recenti e meno numerosi di Salvini lo hanno prepotentemente riportato alla luce, con le sue pulsioni, i suoi tic, i suoi luoghi comuni… Il termine “eterno” tuttavia non deve trarre in inganno: non rimanda a una presunta italianità innata, quanto a un terreno, a una predisposizione culturale composita che si è formata in un largo movimento della storia e i cui tratti hanno finito con l’infiltrare – come se fosse appunto da sempre – la società italiana.

Del resto è Manzoni, con I promessi sposi, a offrirne una delle più acute e inalterabilmente attuali descrizioni, come se questo romanzo del XIX secolo (la versione finale è del 1840) che retrocede l’azione nella pre-Italia del XVII avesse acquisito, attraverso l’immortalante caratterizzazione dei personaggi che mette in scena, la capacità di navigare attraverso il tempo, anticipando il futuro: che si pensi fra i più significativi al mediocre tiranno Don Rodrigo e alla corte dei mediocri e cinici asserviti che gli gira intorno, dal frivolo conversatore cugino Attilio al cialtronesco avvocato Azzecca-garbugli, con l’incomprensibile intrico di grida leggi e pene che lo aiuta e aiuta in generale l’oppressore contro l’oppresso, affermando tutto e il contrario di tutto; o ancora al vanesio e ridicolo politicante Conte zio, gonfio del proprio vano prestigio, o al Griso, al Nibbio, allo Sfregiato e agli altri bravi, gli scherani del potente don Rodrigo o dell’ancor più potente Innominato; e soprattutto a Don Abbondio, il prete codardo e arrangione, disposto a sottomettersi a qualunque potente in cambio della sua piccola ed egoista tranquillità domestica (il cattolico – convertito – Manzoni è stato vicino al pensiero illuminista e al protestantesimo versione giansenista e non esita ad denunciare il vizio insito nella struttura ecclesiastica), non a caso è Alberto Sordi, vera e propria incarnazione della viltà furba e meschina della piccola Italia, a rappresentarlo nel celebre sceneggiato televisivo della fine anni Ottanta. (Ovviamente nei Promessi Sposi, come anche in Italia, oltre ai vizi ci sono le virtù: ma, nonostante il lieto fine, Manzoni è decisamente più abile nell’eternizzare i primi che le seconde: forse perché i primi esistono veramente, le seconde sono soprattutto delle aspirazioni.).

Anzi, pochi anni prima dei Promessi Sposi – o se se si preferisce parallelamente alle prime versioni del romanzo – alcuni di questi vizi insieme ad altri li aveva già descritti Leopardi, con identica capacità di navigazione attraverso le epoche, anche se su un piano più filosofico, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani (1824 – e si noti che sia Manzoni che Leopardi pensano e scrivono prima della nascita istituzionale dell’Italia…). Ora, appunto, non sono più i personaggi emblematici a parlare, ma lo scheletro stesso della nazione, in modo ancora più crudo, attraverso alcune sconvolgenti generalità: in primis, quella da cui derivano tutte le altre, la mancanza di società stretta, la società cioè considerata nel senso del rapporto più intimo che gli individui hanno fra di loro, nella quale ognuno tiene conto di tutti gli altri – e dietro appunto, di conseguenza, la generale assenza di centro, la poca cura che si ha verso il proprio onore, l’indifferenza all’opinione pubblica, il cinismo sociale, la forte predisposizione a ridere di tutto e di tutti che va insieme all’incapacità politica etc. Con una radicalità assoluta: le possibili virtù stanno infatti sullo sfondo, sono ombre che accompagnano i vizi, in un certo senso li definiscono, non hanno esistenza propria, non interessano comunque Leopardi; e in realtà non si dovrebbe neanche parlare di vizi e virtù, ma semplicemente di incurabili peculiarità, analizzate con l’impassibile occhio clinico del chirurgo, o dell’entomologo. Qui insomma non è previsto nessun lieto fine.

Andrebbero entrambi riletti, il romanzo di Manzoni e il discorso di Leopardi, insieme agli scritti storico-politici di Piero Gobetti, che interpretò il fascismo – per riassumerlo con la sua celebre formula – come l’autobiografia della nazione. Se dovessi molto liberamente, anche attraverso la griglia storica che mi viene dai miei studi, intrecciarli insieme tutti e tre (anzi tutti e quattro, con Carlo Levi), direi: l’Italia, arroccandosi  sulla Controriforma, o meglio, non essendo neanche sfiorata dalla Riforma – una Controriforma senza Riforma insomma! – è rimasta più o meno impermeabile alla modernità, immatura, strutturalmente dominata dall’ideologia piccolo-borghese, caratterizzandosi con una mancanza di autonomia, di vita libera, o più semplicemente di società autentica, nel senso del vivere insieme, anche per via di una disposizione (nel senso collettivo della polis, del vivere insieme) alla servitù volontaria e al cinismo, all’indifferenza per il bene comune – il che significa anche la preminenza del senso comico rispetto a quello civico – al quale sempre si preferiscono le diverse forme di famiglia… In questa direzione, il fascismo è una malattia soggiacente, cronica, una vocazione culturale prima ancora che politica, che come l’araba fenice sempre può rinascere dalle sue ceneri. E l’antifascismo la cura, l’antidoto – anch’esso per fortuna appartenente alla storia italiana! – l’unica possibilità di riscatto…

Va quindi considerato un secondo elemento, più drammaticamente concreto e squisitamente storico, nel senso della storia più vicina, breve. La Resistenza, che ha appunto permesso di riscattare la vergogna del Ventennio, ha di fatto, soprattutto ai suoi inizi, mobilitato un’esigua minoranza di italiani in una piccola parte del paese, facendosi più consistente solo dopo l’evidenza della disfatta. In questo senso, guardando indietro nel tempo attraverso quasi ottant’anni di vita nazionale (che in tutto, lo si ricordi, ne conta poco più di centocinquanta), non si può non constatare che questa gloriosa pagina della storia italiana è stata anche la foglia di fico che in qualche modo ha permesso di non vedere, di evitare un reale lavoro di memoria: l’Italia, vuoi per adesione vuoi per indifferenza, era stata globalmente fascista, e il fascismo, i suoi uomini, non si sono evaporati per magia dopo il 1945, ma – anche grazie a consistenti provvedimenti di amnistia – sono materialmente passati dentro gli apparati pubblici, la burocrazia, i luoghi di lavoro della nascente Repubblica italiana – ed è stata un’infiltrazione capillare, profonda. E poi c’è stato il Movimento Sociale Italiano (MSI), fondato da reduci della Repubblica Sociale Italiana e del Regime, Giorgio Almirante in testa, un partito consapevolmente, volutamente fascista, anti-democratico, anche se via via con qualche aggiustamento più di facciata che di sostanza, che costituzionalmente  sarebbe dovuto essere fuorilegge – ricordate? articolo 12 delle disposizioni transitorie e finali:  È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista – e invece è stato sin dall’inizio presente nel Parlamento, nonché dentro la società, più o meno oscuramente legato alle diverse trame nere che hanno avvelenato la vita del paese. Berlusconi ha avuto per così dire il merito di ridare legittimità, forza, blasone a questa destra radicale e a idee, gesti, simboli, che nella Prima Repubblica erano ufficialmente fuori dal cosiddetto arco costituzionale, e di annacquare il termine “fascista”, al suo posto trasformando “comunista” in insulto (i comunisti, lo ricordiamo, ebbero un ruolo fondamentale nella Resistenza, e poi nella scrittura della Costituzione). Quella che un tempo si chiamava maggioranza silenziosa è tornata, e rumorosamente, a parlare, è diventata la spina dorsale del paese. Ed ecco, come a compiere la parabola iniziata nel 1994 con la prima vittoria del Cavaliere, che oggi a vincere le elezioni c’è un partito che se, va ripetuto, non si richiama al Ventennio, si vuole esplicitamente diretto erede, financo in alcuni suoi elementi chiave, del MSI, a cominciare dall’assunzione come suo simbolo rappresentativo dell’infausta fiamma tricolore. Con un sintomatico rovesciamento: se un tempo il partito di Berlusconi ha guidato, come elemento principale, coalizioni di centrodestra in cui rappresentava la destra, oggi fa parte di una coalizione di cui rappresenta, come partitino comprimario, il centro moderato – di conseguenza sarebbe forse più chiaro parlare di coalizione di “estrema destra-destra”. E c’è anche, come emblematica ciliegina sulla torta, il ritorno in senato di Berlusconi in persona, nove anni dopo la sua decadenza per via della legge anti-corruzione detta Severino (che ora la destra a lui più vicina vorrebbe non a caso cambiare nella sostanza).

Insomma, il fascismo del 1922 non è tornato né sta per tornare, ma se questa destra governerà per qualche anno – e non vedo nell’immediato cosa potrebbe impedirglielo – la Repubblica nata dalla Resistenza, l’antifascismo con i suoi simboli, a partire da diversi nomi delle strade, delle piazze, dei ministeri, etc., i libri di testo nelle scuole, la Costituzione, e dietro tutte le battaglie per i diritti civili e sociali, saranno (già lo sono) oggetto di un attacco costante, e senza precedenti: anche se probabilmente tale attacco, considerando la notevole intelligenza politica e retorica di chi questa destra la dirige, non si farà in modo lineare e frontale, ma come dire, dal di dentro, localmente (i segni già si moltiplicano…) sotto la spinta di una subdola e questa sì senza mezzi termini riscrittura della Storia: cambiare il passato per regnare sul presente – il discorso di insediamente del(la) neo-nominat(a) Presidente del Consiglio è in questa prospettiva esemplare. L’Italia in altri termini non si avvia – probabilmente – a essere fascista, ma si avvia decisamente a non essere più antifascista, risvegliando valori, parole, gesti, simboli evidentemente soltanto sopiti, in totale antitesi con quelli che nei cinquant’anni successivi alla guerra hanno fatto, socialmente, civilmente, culturalmente, la forza di un paese avido di futuro, e sino a qualche anno fa ancora avvolti dalla vergogna. Il mutamento è epocale, antropologico, ben più che politico – si provi a immaginare, secondo scenari ovviamente molto diversi, se la Francia si svincolasse dalla Rivoluzione del 1789, o la Germania dalla pregiudiziale anti-nazista, o ancora gli Stati Uniti dichiarassero che la lotta al razzismo non ha più senso… – e come tale non è certo istantaneo, matura da tempo. Di fatto, quelle parole, quei gesti, simboli e valori circolano già da diversi anni, diventando più forti, più banali a ogni giro di calendario, e rivelandosi anche nei più piccoli dettagli: le esternazioni di un barista romano o palermitano, i malumori della gente al mercato, o in qualche luogo di lavoro, con ricche variazioni di esterofobia, gli scambi, le chiacchiere ad alta voce di sempre più numerosi turisti nel metro parigino, o in fila per prendere l’aereo che li riporti a casa o per salire al Partenone di Atene (cito a caso ricordando episodi di cui sono stato testimone e che negli anni si sono fatti sempre più frequenti). È come se l’immagine dell’italiano medio stesse cambiando colore – la leggendaria bonomia lascia gradualmente il posto a un livoroso incattivimento… – e il paese si isolasse sempre di più, si avvitasse su se stesso: nel senso di quell’autobiografia della nazione di cui dicevo prima. Tuttavia un paese non è mai un paese solo, ma molti: così, mentre la nuova-antica Italia si andava via via risvegliando, l’altra Italia, quella diciamo della Repubblica nata dalla Resistenza, o almeno dei suoi settori più a sinistra, ha via via perso la sua capacità collettiva di resistere, di manifestare il dissenso, di progettare il futuro, sino a cadere in una sorta di rassegnata letargia, se non direttamente a scomparire. Ecco, in questa prospettiva le ultime elezioni sono semplicemente il sigillo, la sentenza che rende ufficiale una situazione già esistente, come anche un’ulteriore, significativa scossa, un poderoso squillo di tromba, le cui conseguenze non sono ancora misurabili.

Questa nuova destra al passo coi tempi (formuletta…) ormai dichiara apertamente di voler cambiare in profondità l’Italia, anzi, la Nazione; molti suoi avversari sdrammatizzano dicendo – è una formula anche questa – non cambierà nulla, come sempre! E da un certo punto di vista è vero perché, come scriveva Giuseppe Pontiggia, l’Italia è il paese delle Sabbie immobili – anche nel senso di quel che scriveva nel Gattopardo Lampedusa: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi… Si tratta tuttavia, per così dire, di un’immobilità dinamica e pericolosa, perché riafferma un’antica e radicata prospettiva della storia nazionale. Eh già…: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… (O anche appunto, per qualificare questo risveglio con un’epentesi: … s’è destra…)

[Continua…]

Palo luce 33

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di Anna Caldara

Diceva che ero la sua Jeanne Hebuterne ma non so se lui fu mai il mio Modì.

Erano giorni da cani sciolti e rhum in vena, con l’astinenza che non sapeva più se restare o venirmi a cercare per le strade di quella Milano da bere, o da trascurare, chissà, per riportarmi al solito posto. Al palo luce numero 33. E me l’ero conquistato quel palo a suon di scazzottate con le altre puttane della zona, tutte straniere con tanto di papponi al seguito che però non si immischiavano e ci lasciavano sfracassare tra noi mignotte.

Io non avevo un pappone ma un fidanzato e forse non c’era davvero tutta questa differenza se non la soddisfazione di poter dire e pensare che a me qualcuno mi amava davvero, mica come quelle poverette che una volta a casa le prendevano se avevano incassato poco. Io le botte non le ho mai prese per i soldi, anche perché nessuna guadagnava più di me che ero italiana e, modestamente, mi davo un gran daffare con bocca e cosce, ma le prendevo solo quando lui aveva bevuto troppo e magari ci aveva aggiunto anche qualche sniffatina. Allora gridavo che la doveva smettere, che doveva farsi bastare l’eroina, che non la sopportavo più tutta quella situazione da tossici scaduti e che me ne sarei andata. Anzi, se ne doveva andare lui visto che l’affitto lo pagavo io. Più urlavo più lui si arrabbiava perché mi volevo far sentire proprio da tutti, brutta puttana della malora, e ci dava dentro ancora di più con calci in testa e anfibi rinforzati fino a che stare zitta mi sembrava la soluzione migliore. Alcune volte i vicini chiamavano la polizia ma, anche se lo portavano in questura, poi tornava sempre a casa chiedendo scusa, che non l’avrebbe più fatto e che mi amava e che non era colpa sua ma delle sostanze e che si sarebbe disintossicato al Sert e le solite balle. Io ero una puttana romantica e quelle bugie me l’ero sempre bevute ma scema fino in fondo no e, dopo l’ultima volta, decisi che non l’avrei più fatto entrare in casa. Avrei cambiato la serratura e staccato il citofono e se l’avessi visto solo una mezza volta in quartiere o al mio palo avrei chiamato subito la polizia, i carabinieri e tutto l’esercito messi insieme. Non volevo più rivedere la sua faccia del cazzo perché volevo sentirmi libera di fare quello che mi pareva, anche di non essere più una puttana, e di andarmene in giro tutto il giorno a fare shopping e bere rhum e coca. Di certo io non mi sarei mai ubriacata col vino nel cartone a 0,99 euro della Lidl che chissà quante porcate doveva contenere e che se poi ti stordiva avevi mal di testa per tre giorni. Ne avevo già abbastanza della scura che fumavo su strisce di stagnola e che anzi, in questa mia nuova vita non avrei più nemmeno fumato. Mi sarei liberata da tutte le dipendenze per tornare a splendere nel fantastico firmamento delle luci in ascesa. Largo gente, non c’è nulla di più irresistibile di una ex puttana ingrifata di vita!

E davvero non saprei dire come fosse potuto accadere di ridurci così, a sputarci addosso saliva e bestemmie con la stessa passione con la quale una volta facevamo l’amore. Ci eravamo amati tantissimo anche se lui era un eroinomane ed io, pur di non perderlo, lo sono diventata a mia volta perché volevo sempre stare con lui, addosso come fanno i vermi e, quando mi bucava, il mio cuore scoppiava d’amore. “Sono tua” gli dicevo “puoi anche uccidermi se ti va e se lo farai io non lo saprò mai perché sarà una morte tanto veloce che nemmeno me ne accorgerò”. E quando poi finirono i risparmi, e quando i soldi prestati e poi rientrati sparirono definitivamente, e quando gli sbattimenti per smerciare qualche vestito o almeno uno dei nostri due cellulari, che tanto uno poteva bastare visto che eravamo sempre insieme, o il minipimer perché a quanto pareva gli spaccini avevano sempre bisogno di un minipimer, quando tutto questo cominciò a fruttarci meno di un grammo, e per noi un grammo sarebbe stato comunque poco, quel tanto per tirare là mezza giornata, decidemmo che battere sarebbe stata la scelta migliore. O meglio, decidemmo che io avrei iniziato a battere mentre lui mi avrebbe fatto da bodyguard e mi avrebbe portato un bel caffè caldo nelle notti gelate in cui l’aria si sarebbe divertita a mangiarmi la fica. Saremmo stati l’invidia di tutte le puttane della zona, roba da non credere.

E invece eravamo diventati i nostri nemici pubblici numeri uno e non si riusciva proprio a farlo quel maledetto passo indietro in memoria dei vecchi tempi perché i vecchi tempi se n’erano andati e con loro anche il nostro grande amore. Troppa droga, troppi soldi, troppi uomini, troppa solitudine. Insieme ci saremmo solo fottuti perché non saremmo mai riusciti a salvarci, nemmeno se ci fossero mancati quei nostri abbracci forti, con quell’odore acido di scoppiatura che rimaneva sui vestiti per giorni.

“Sai che assomigli a Jeanne Hebuterne? Te l’hanno mai detto?”

Proprio così mi disse a uno dei nostri primi appuntamenti, o non appuntamenti visto che io avevo preso un impegno con lui mentre lui aveva un puntello con lo spaccino di turno.

“No, non credo. Ma non so nemmeno chi sia”

“Era la donna di Modigliani che si è buttata dalla finestra due giorni dopo che lui era morto”

Non mi sembrava un bel presagio, perdio!

“Vuoi essere la mia Jeanne Hebuterne?”

Gli risposi di no ma nella realtà lo fui e lo seguii più della sua stessa ombra in posti in cui anche le ombre se ne sarebbero andate volentieri se avessero potuto. Vidi uomini in quasi decomposizione con una puzza di carogna così acre da non sapere più se quella che avevo davanti era proprio una persona o una carcassa animale. Vidi donne sbavare per aver fatto una pera troppo piena e altre camminare carponi cercando il figlio che avevano dato in adozione. E non ci si può mica dimenticare di un dolore così doloroso perdio, che a pensarci la disperazione mi camminava ancora addosso.

Avevo bisogno di una fumata di roba per calmarmi.

Non potevo di certo mollare tutto in una giornata, ci voleva organizzazione perché senza eroina sarei stata male come una cagna bastonata e di botte ne avevo abbastanza. E il palo luce 33 non lo potevo mica abbandonare all’improvviso, dopo tutte le lotte intestine che nemmeno i sindacati ne avevano mai viste di così appassionate: il territorio era stato segnato ed ora andava difeso. E poi forse non ero arrivata al punto da odiare così tanto il mio fidanzato o ex fidanzato, chi lo poteva sapere, da condannarlo a dormire in strada, col freddo di Milano a gelargli l’uccello che pure il piscio sarebbe uscito a cubetti.

Ci avrei pensato poi, ora sentivo la nausea salire peggio che a una donna incinta e nessun pensiero poteva essere degnamente pensato senza quella stramaledetta fumatina. Me ne sarei tornata al mio palo luce perché ne avevo lasciata un po’ nascosta in una buca per i momenti di crisi come questo, visto che in casa c’era sempre stato lui che avrebbe potuto fregarmi qualunque cosa, anche i soldi, perfino la droga e farmi rimanere scoppiata. Ma la colpa non era tutta sua, lo sapevo che aveva una dipendenza bestia che se lo gestiva come voleva e quando prendeva una tirannia così c’era ben poco da fare.

Bisognava solo che arrivassi al posto e poi magari due o tre pompe le avrei fatte lo stesso, tanto per avere qualche soldo in tasca veloce veloce. E se poi lo avessi visto lo avrei lasciato a liquefarsi nella sua merda, anzi gli avrei fumato in faccia lasciandolo scoppiato. E se mi avesse chiesto di poter tornare a casa gli avrei detto: “Seguimi se ci riesci, scoppiato del cazzo che non ce la fai nemmeno a stare in piedi”. Ma no, non lo so cosa avrei fatto, piuttosto bisognava pregare che lui non avesse scoperto il nascondiglio che all’occorrenza gli poteva venire un fiuto peggio di un cane da tartufo, e allora addio fumatina. Dovevo sbrigarmi ad arrivare. Il quartiere non mi era mai parso così dispersivo e ancora non lo vedevo il mio palo, anche se era il più alto di tutti, così alto che se ci si arrampicava fino in cima si sarebbe potuto di certo vedere il Duomo di Milano con la Madonnina appesa.

“Ancora uno sforzo, piccoline!”, dicevo alle mie gambe per incitarle al proseguimento dell’impresa, che se mi avessero abbandonata sul più bello sarebbe stata la fine. La scoppia non perdona mica. E all’improvviso ecco la discesa di Cristo sulla Terra con le colombe, l’asinello e il bue a intonare buona Pasqua e buon Natale, ecco l’alleluja del cielo! Il mio palo. Fine della sofferenza. Ora mi ci sarei anche potuta appoggiare, come succedeva nelle serate in cui non stavo in piedi o perché troppo fatta o perché troppo scoppiata. Era il palo più illuminato della zona e anche da un chilometro mi si sarebbe potuta vedere là sotto, con la fica ai raggi X, perfino con la nebbia. Ed era mio, cazzo, mi ci ero battuta per averlo, con le altre puttane della zona e i loro papponi al seguito che ogni tanto si immischiavano pure e ci sfracassavano di botte tutte quante.

Di tutta una vita spesa tra il provare un po’ a resistere e un po’ a morire non mi rimaneva altro che quel misero palo. Il numero 33. E con le nude mani iniziai a scavare la nuda terra con quel poco di dignità che ancora mi rimaneva.

 

Apprendistato alla salvezza

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di Marino Magliani

In un catalogo di bellissimi titoli di narrativa e di sillogi e saggi, persino titoli di canzoni e quadri, che raccontano di scienze, come anatomia, fisica, geometria, il termine apprendistato si ritaglia uno spazio non definito, un percorso non compiuto: apprendistato come qualcosa di possibile. Anche il resto, alla salvezza, sembra trascinarne il valore verso lo sconosciuto, verso qualcosa di cui non sappiamo, non noi almeno, che restiamo e alla fine possiamo prevedere molto, ma non se l’apprendistato ha funzionato, se ha portato all’ottenimento della salvezza. Forse perché la salvezza sembra riguardare qualcosa di cui da qui si sa poco. Alla fine sembra giocarci la vita intera in un connubio del genere. Insomma un titolo così dovrebbe incoraggiare a darsi delle regole, essere una specie di regolario dell’apprendistato alla salvezza, ecco. No, in realtà, nessuna regola, qui, in questo apprendistato, nessun ordine, se non l’invito alla calma, la meravigliosa esortazione a un silenzio. Il primo verso ce lo indica. Il silenzio della notte modellato dalla voce. Non fosse che il poeta mi è amico da anni – collaboriamo da distante a un blog che si chiama La Poesia e lo Spirito- , e che questo libro mi è giunto da lui, leggendo il secondo verso della seconda poesia avrei desiderato saperne di più sull’autore. È un verso che sento tremendamente mio:

Oggi sono il cane di me stesso

Dev’essere qualcosa che lega scrittori e poeti il bisogno di identificarsi in un cane ”solitario”. In un mio libretto sul paesaggio olandese faccio chiedere a un camminatore con cane: “Lei non ha un cane?” La domanda è rivolta naturalmente a un camminatore senza cane. Uscire la sera in questo quartiere sbattuto dal vento e dalla pioggia è una forzatura, uno lo fa se deve portare fuori il cane. Come dire, se esce senza cane non ha un alibi. Il camminatore senza cane, dinnanzi a una domanda del genere, si compiace d’aver pronta la seguente risposta: “Io sono il mio cane”. Ecco, quando le poesie ci prendono. Quando, come scrive Vitagliano, ci portano in un posto che sentiamo, sconosciuto o già “nostro”, e costruiscono il nostro teatro anatomico e di certo lo condividono. A quel punto ci stupiamo, esattamente come lo fa il poeta:

 Non mi sembra vero

Di essere riuscito a fare delle parole

Copie che vibrano e dialogano

E rileggiamo. Questo faccio da tempo con Apprendistato.
E allora l’apprendistato diventa un processo di trasformazione, sembra una questione di trovare altri mezzi di respiro? Ci sono nate le branche starnutiremo senza paura – di tentarle tutte, per dire È completata questa vita.