Home Blog Pagina 60

Lettere della fine

3

Tre testi tratti dalla sezione aggiunta alla nuova edizione ampliata di Lettere della fine di Nadia Agustoni (Vydia editore, collana di poesia Nereidi), prefazione di Renata Morresi, postfazione di Maria Grazia Calandrone.
Info: https://www.vydia.it/it/lettere-della-fine-nuova-edizione/

quattro

a Brusaporto nell’uguale di una sera
ho creduto alle stelle sospese
tra le frane dell’erba
e la statale:

con la nostra vita viene il lavoro dei prati
e nella solitudine dei pioppi
nella quiete del poco
in un buio di forchette e un libro:

ma andava tutto insieme il parlare
a briciole e formiche morte
e ancora senza un filo di vento
correvano le siepi

e un segno più lieve
intorno al bordo dei rami
apriva il quaderno della luna
raccoglieva il volo del migrare.

*

cinque

costruimmo i nostri rifugi
di bambini di allora
– gli alberi
ci insegnarono
a quale
distanza
crescere –

scoprimmo
pian piano
il punto esatto
in cui ogni foglia
al cambio
di stagione
raccoglieva l’aria
l’intima pazienza
del brunire.

*

dieci

abitavano coi fiori stanze d’ospedale
e in caserme e cave la febbre di chi ride
emigrati come un’altra specie
con tutta la casa:

a volte portavano regali
cose piccole, un cibo
le bocche malate dei poveri
o il dolore preso in Germania

dove gli sterminati non parlavano.

per questo sappiamo
che chi tace non acconsente
e la lingua dei morti
è più lunga ferita.

Le donne della famiglia di Mahmud Shukair

0

Sin da quando era un bambino Mohammed Piccolo, chiamato così per distinguerlo dai due fratelli maggiori con i quali condivide il nome, ha ben chiara la strada che il padre, lo sceicco Mennan, ha in mente per lui: dedicare tutta la sua vita a tenere uniti i numerosi rami della famiglia ‘Abd al-Lat, a proteggerne i membri e a realizzare opere che ne avrebbero tenuto alto il nome. Ma quando arriva il momento fatidico, Mohammed, che non si è mai sentito davvero all’altezza, preferisce onorare diversamente l’eredità paterna, mettendo per iscritto la storia del clan. Allora ritorna col pensiero alla Palestina della sua infanzia, agli anni Quaranta, quando la sua famiglia lascia il deserto e si stabilisce nel paesino di Ras al-Naba’, alle porte di Gerusalemme. Abbracciare la sedentarietà è solo la prima delle tante sfide che gli ‘Abd al-Lat dovranno affrontare nel tempo. Come la nascita dello stato di Israele nel 1948, la disfatta degli eserciti arabi nel 1967 e la guerra del 1973. Alcuni di loro lasceranno il paese, in cerca di un futuro migliore in Giordania, Kuwait o Brasile. Altri resteranno e tenteranno, ciascuno a modo proprio, di conciliare il retaggio beduino con l’avvento della modernità. Alla voce di Mohammed, impiegato in un tribunale religioso, si intrecciano quelle del fratello Fleihan, scaltro contrabbandiere, e della madre Wadha, fermamente convinta che la lavatrice sia abitata da spiriti maligni. Insieme ai ricordi emergeranno anche le storie delle donne della famiglia: le loro lotte, le loro sofferenze, la loro caparbietà.

Mahmud Shukair, nato a Gerusalemme nel 1941, è uno dei più affermati autori palestinesi contemporanei. Nel 2011 Shukair ha ricevuto il premio Mahmud Darwish for Creativity, nel 2016 Le donne della famiglia è stato finalista dell’International Prize for Arabic Fiction.

Le donne della famiglia di Mahmud Shukair, traduzione Elisabetta Bartuli, Brioschi, 253 pp, 18 euro.

L’angelo d’oro della città

0

di Marco Mantello

.

Quando la casa era quasi vuota

e la cagna era quasi morta

e era rimasta soltanto la lavatrice

perché gli scatoloni erano tutti via

assieme a una grande consolatrice

che sbuffava dalla radio accesa

 

ho dimenticato di chiudere l´acqua

poco prima di staccare il tubo

 

Così, mentre l´acqua fluiva sul pavimento,

nel corridoio, e la vicina del piano di sotto

vedeva strisce sui muri e gocce

che scendevano giù dal soffitto

 

ho avuto un lungo e glorioso momento

di occhi fissi sul vuoto

e solo poi ho chiuso i rubinetti, solo dopo

 

Non ci ripenso quasi mai

in genere non mi va per niente

di fare aneddoti sul dolore

della gente minore, o sul passato,

ma quel vuoto era la società liquida

e io la vedevo nitidamente

assieme a un palazzo crollato

*

I colpevoli saranno puniti

disse l´angelo d´oro della città

poi portarono tutti all´aperto

e dopo il settimo giorno

costruirono un quartiere nell´aeroporto

gli asili vicino allo stabile

sospesero a tempo indeterminato il male

gli ebrei diventarono musulmani

e il mein kampf fu riletto a scuola

in una nuova edizione commentata

le coperte e i termosifoni

esentati alla voce doni

seppellirono una risata

nella grande tribù dei teschi buoni

 

Sui tetti bianchi di Tempelhofer Feld

sventolavano bandiere della nazionale

i semafori gridavano: “Go vegan!”

ogni volta che scattava il verde

le piste ciclabili al posto delle bare

e i campi da basket dove svernare

riscrivevano la storia di chi perde

 

Per ogni esodo c´era una mostra

per ogni cane sbranato al collo

nuove regole a casa nostra

per ogni lacrima nuove elezioni

di un presidente di polizia e di un coro

dove uomini sparpagliati nelle stazioni

misuravano tutto con il lavoro

 

A gennaio il centro accoglienza profughi

si fece caldo e amichevole

sui volti degli operatori ecologici

e sulla prima neve

mentre le pagine dei dizionari

l´angelo buono e il coro

fondevano un neonato morto a uno stupratore

la solidarietà ai sinonimi di controllo

la parola lager alla parola amore

nello stesso accecante oro

*

Armonia

 

Le cornacchie hanno mangiato l´ala

di un fratello ammalato

e una setta capeggiata dalla poiana

sta lottando per mia estinzione

con feroci passeggiate nella radura

 

L´abete siamese della vezzena

e il melo canada sotto la neve

il querciolino del parnaso

i gelsi alla gelatina e i salici

costretti a piangere per postura

al lancinante miagolio del gatto

 

Ora volano a raso le gabbianelle

con un piglio da falco fra le pere

e le droghe leggere

mentre qualcosa di originale o sociale

come un peccato o un contratto

segna la fine dello stato di natura

 

Ammira anche tu il campo di grano

e gridalo forte dalla tua magione

anche questa in fondo è permacultura

Per sempre tuo il piccione

*

La scintilla

Fra le piccole lampadine di vetro

disseminate sui cavi della corrente

ce ne sono due o tre più indietro

che brillano ancora a intermittenza

in una sorta di scintilla provvisoria

che precede l´accensione definitiva

Nessuna di loro è spenta

nessuna di loro è viva

e hanno tutte la stessa memoria

di quando la luce arriva

*

Esiste sempre una forza inerziale

che definisce argomenti e toni

quando provi a parlare per strada

a un insieme di prestazioni

c´è una durata massima da rispettare

in tutti i generi di conversazioni

 

Per le piazzole e ai giardinetti

è molto complesso liberarsi della vocina

che sente il neonato nella carrozzina

anche l´imprinting si fa passivo

così in Germania come nella Cina

ci sono persone pagate apposta

per conversare nei luoghi adatti

gli spazi appositi per lacrimare

gridatori e bestemmiatoi per matti

 

Ogni parola costa come un caffè

ogni venti negazioni un te

e ogni trenta congiunzioni un rutto

quando passi ai tavolini di un bar

capita spesso di sentire in sequenza

la stessa identica espressione di assenza

o al massimo le note di un sitar

che ti scortano verso la demenza

 

I vocabolari sono degli inganni

il tuo fuoco lo impari su un sito

che semplifica il dire al fare

di ogni vita un acrostico

di ogni voce modulata in pubblico

la tua intima voce in privato

 

Il resto è il male. Il resto non si può dire

è soltanto un linguaggio sbagliato

perché il suo fine è comunicare

qualche cosa fuori formato

*

Quando dici legalità, al singolare

quasi ce ne fosse una sola

che sia sacra di suo e solo perché legale

tu confondi questa lurida morale

dei fatti vostri e del casa tua

con tutti i nomi dei morti in mare

*

Stavolta l´angelo non lo fermerà

Isacco lo ha già capito

quando entra nella mia stanza

con la sua ascia in mano

e continua a chiamarmi Abramo

lo sa davvero come mi chiamo

 

Oggi mi porterà lui sul monte

e poi scenderà da solo

non posso dirgli nemmeno che mi dispiace

perché ho il dovere di morire in pace

altrimenti sarà lui il fallito

 

Mi dispiace per la sua guerra

mi dispiace di essere io lo stato

che detta il nomos della terra

agli spiriti pacifici del creato

mi dispiace che io non sia

nella sua discesa

 

La mia bocca non è sulla scia

di una stella che brilla a ponente

assieme alle due comete

forse oggi non basta nemmeno

offrire in olocausto me

al posto dell´ariete

per far finta che un dio ci sia

 

Ci vuole la fame oggi

e ci vuole la sete

ci vogliono ombre a seguire te

metro per metro

ci vogliono l´astio e l´odio perenne

del maledetto minorenne

per fare una faccia come la mia

e rimanere indietro

.

Sul merito e sul valutare

0

di Alessio Barettini

 

Quando assegno un tema so che mi ritorneranno una ventina di testi tutti uguali e tutti diversi. Sto parlando di testi argomentativi, cioè testi dove si richiede di  esprimere un’opinione su un argomento circoscritto. Quello che mi torna è spesso un surrogato di sentiti dire di varie provenienze, note e imprevedibili allo stesso tempo. Fin qua nulla di male. C’è chi a 16-17 anni è già formato e riesce a costruire un testo adeguato, coerente, che rispetta cioè quegli indicatori che gli insegnanti di italiano usano per valutare i temi. Altri sono più deboli, lavori senza precise idee su alcune questioni, parvenze di opinioni strutturate di studenti in difficoltà anche solo a riconoscere il problema di fondo. A volte fanno grande fatica anche solo a decifrare la richiesta e si affidano quindi, in modo spesso confuso, a quell’insieme populistico di affermazioni che li collocano  a suffragare una data argomentazione senza neppure sapere perché stiano scegliendo quella particolare parte e non un’altra, che invece escludono, ancora, senza sapere esattamente i motivi di tale scelta. Si affidano quindi a un istinto, che non è detto sia il loro, a una modalità di scrittura che più che altro si compone di diverse influenze e le fa stare insieme in modo confuso, come confuso è il messaggio che arriva da: serie tv, social, post di instagram, video di tik tok, ma anche opinioni familiari, discussioni prese qui e là. Insomma un gran caos.

Il punto è che, al di là della difficoltà stessa di scrivere un testo argomentativo compiuto (arginabili didatticamente in vari modi, uno recente molto convincente qui https://laletteraturaenoi.it/2022/09/26/prima-di-argomentare-progettare-unargomentazione/), prima cioè di uscire da questi tentativi incompleti di strutturazione di queste forme sincopate, accelerate, di scrittura, bisogna sempre riconoscere che i testi che arriveranno all’insegnante saranno inevitabilmente anche tutti diversi, perché diversi sono i ragazzi, diverse le loro esperienze, diverse le loro famiglie. Non posso credere che un’allieva propositiva, esuberante, intelligente scriverà allo stesso modo della sua compagna che è così timida da avere un tono di voce che non si riesce a sentire se non da molto vicino, (siede sempre al primo banco), con problemi alle spalle di cui non sospettiamo neppure l’esistenza. La prima probabilmente produrrà un testo che rispetta i canoni valutativi richiesti, li anticiperà, forse, insomma scriverà un testo in lizza per ottenere una valutazione alta. La seconda produrrà probabilmente un testo che a un primo sguardo si giudicherebbe poco coeso. Tuttavia può darsi che l’allieva in questione, la timida, per semplificare, farà un grande sforzo per ordinare i suoi pensieri in un testo coerente, sbagliando forse a individuare le motivazioni, scegliendo delle argomentazioni minori, dando poco peso ad altre che forse reputerà ovvie o troppo distanti, e girerà in tondo alla questione senza essere realmente incisiva. Ma come chiederle di esserlo, se il suo pensiero non è ancora formato?

Per questo valutare è sempre un atto arbitrario, retorico, che include parametri che possiamo sforzarci di esplicitare ma che non è detto siano universalmente compresi. Dico retorico ma potrei dire iperbolico, dato che una valutazione mediamente prende alcune caratteristiche della persona e le esagera fino a farle diventare totalizzanti. Certo, il voto non è personale, ma è inevitabile che venga percepito come tale dagli studenti, essendo alto il peso che ha, in famiglia, fra loro, nella scuola stessa. Inevitabilmente.

Si sta parlando di merito, in questi giorni. L’occasione è ambigua, forse nefasta, ma almeno se ne sta parlando in modo finalmente completo. La meritocrazia ha una storia, anche parecchio giovane, ma queste mie considerazioni sono derivate da una riflessione nata dopo aver letto un articolo di Curzio Maltese su Domani del 24 ottobre. L’articolo, “Una leader sempre più sola circondata dai peggiori” mette in luce la scarsa professionalità di molti politici attuali  paragonati con quelli di 50 anni fa. Maltese scrive che Berlusconi è il padre del populismo, a cui tutti stiamo soccombendo inevitabilmente nonostante le parentesi di Monti e Draghi, due tecnici che evidentemente per Maltese sono l’incarnazione di un modo di fare politico serio nella forma, come seri erano i politici tanto della DC quanto del PCI degli anni ’70. Fin qui tutto abbastanza condivisibile.

“Il problema più serio per Giorgia Meloni è non avere figure rilevanti al suo fianco”, scrive Maltese

Facendo un paragone forse paradossale dovremmo capire che una volta di più è necessario valutare tenendo conto del punto di partenza. Certi politici di oggi non valgono un’unghia di quelli di quella stagione politica, mediamente più fortunata per la nostra società e la nostra economia. Se usassimo dei parametri valutativi che ci permettano di tenere conto di queste differenze, potremmo valutare chi è stato ministro in questi anni senza avere avuto alcuna preparazione adeguata, come quei ragazzi timidi, asociali, senza alcuna copertura alle spalle? Ne dubito. Infatti, come si legge nel programma elettorale di Fratelli d’Italia,  la distinzione fatta va in tutt’altra direzione: si parla di ragazzi delle scuole “socialization-oriented, come le attuali, in cui le priorità sono la socializzazione, l’intrattenimento, e la tutela (malintesa! Delle minoranze in difficoltà” e di altri, che vorrebbero confluire nelle scuole “knowledge-oriented” a cui accedere con dei voucher. Non volendo qui entrare in una disanima linguistica usata (ma appare chiaro il carattere superfluo della lingua inglese), va da sé che è proprio qui che casca l’asino. Il punto di partenza. Non siamo tutti uguali perché non partiamo tutti dallo stesso punto. Ecco la fallacia logica di chi propone il merito come esclusivo atto costitutivo della nostra società. Il merito che significato ha? Se c’è una graduatoria di merito per un concorso o un premio non ci trovo nulla da dire. Magari avrò da discutere su questioni di gusto, ma nessuno si sognerebbe di dare un Nobel per la chimica a uno che chimico non è.  Ma pensare che il tempo che la scuola dedica a chi essendo in minoranza ha bisogno di aiuti particolari sottragga tempo nella riuscita di chi vuole studiare e brillare è non solo sbagliato, ma mistificatorio e offensivo. Se come insegnante non mi occupassi anche di chi è davvero in difficoltà, non sarei come quei medici che scelgono di curare solo i malati immaginari per avere un cento per cento di successi? Per fortuna medici così non esistono, ma perché dovrebbero esistere degli insegnanti così?

La scuola è la base naturale della formazione umana civile. Si badi, dico civile, perché di naturale c’è anche altro, prima della scolarizzazione. Ma si cresce poi in civiltà, non nello stato di natura e quindi è alla scuola che demandiamo, ci piaccia o meno, il futuro dei nostri figli e quindi i futuri possibili di questa civiltà. E quindi è barbarico ritenere che chi ha maggiori qualità abbia anche maggiori diritti di ottenere qualcosa. Semmai è il contrario. Se ragiono sui loro punti di partenza (dei miei studenti) è perché devo ragionare, come docente, sui miei punti di arrivo, cioè quel successo formativo che dovrebbe essere garantito a tutti (e che di fatto è segnalato anche costituzionalmente sin dall’articolo 3, anche se qui si parla di “pieno sviluppo della persona umana”). Se il successo formativo presuppone che io insegni loro n cose in n modi, va da sé che qualcuno ci metterà meno tempo ad apprenderli. Sarà mio compito far sì che costui e o costei non si annoi dopo due mesi perché ha già raggiunto tutto il possibile.  Il mio sapere  per mia e loro fortuna, permetterà di ovviare a questi contrattempi, anzi, quello o quella studente più bravo o più brava mi tornerà utile qualora gli altri, più indietro, facciano progressi in direzioni diverse. Nel frattempo sarà mio dovere che tutti, i timidi, gli inadatti, gli antipatici abbiano tutte le possibilità del caso per ottenere quel risultato che reputo necessario. E magari i più bravi scopriranno di non aver mai preso in considerazione un certo modo di affrontare quel tema o di essere bravi ad aiutare gli altri. Il successo, il punto di arrivo, non esiste come esito di una gara, è una proiezione, esiste come base minima (obiettivi) che suppongo sia necessario per conoscere sufficientemente bene una materia, per come questa potrà essere utile nella nostra società. Che però è mutevole, così come mutevole è il lavoro del docente: classi diverse, allievi diversi. Per questo anche quel punto di arrivo deve variare, per questo non ci si può affidare a uno standard fisso che valuti in modo univoco e che ci renderebbe dei meri vasi da riempire.

Roberta Castoldi: “scrivo da sotto il crepaccio”

0

 

 

Una scelta di testi dal terzo libro di poesia di Roberta Castoldi, La formula dell’orizzonte (AnimaMundi, 2022), che esce dopo quindici anni di silenzio dal precedente, Il bianco e la conversazione (Marietti, 2007). Il libro è il secondo titolo della collana cantus firmus a cura di Franca Mancinelli e Rossana Abis. Contiene la silloge omonima, con una prefazione di Donatella Bisutti, e la riedizione dell’esordio poetico dell’autrice, La scomparsa (1999, con un’introduzione di Franco Loi), ora arricchito da sette testi precedentemente esclusi, e accompagnato da una Nota dell’autrice e da un testo critico di Franca Mancinelli. Con fotografie dell’artista corso Dominique Degli Esposti.

***

(dalla nota di Donatella Bisutti) “[…] Siamo così di fronte a una poesia attraversata da guizzi luminosi e drammatici, in cui si spalancano abissi improvvisi e innominabili, e la liquidità è anche quella, densa, vischiosa, del sangue che cola dalle ferite. Come in un guanto l’esterno si rovescia di continuo in un interno e viceversa. Espressionismo, sperimentalismo e surrealismo: tutte queste ascendenze storiche trovano riscontro in questi testi, dove la parola non vuole esprimere il mondo né la psiche ma li reinventa entrambi mescolandoli e intrecciandoli indissolubilmente, e sonda i fondali dell’inconscio per riemergerne con un serto di alghe magari un po’ viscide, ma che di quei fondali conservano la suggestione – per poi lasciarle morire sulla riva.”

***

(dall’introduzione di Franco Loi a La scomparsa) “[…] non è lei “la scomparsa”, ma il mondo che attorno le svanisce e si deforma. C’è in questa giovane donna, per parafrasare Shakespeare, “la stoffa” di cui son fatti i poeti […]. Il suo “scomparire” è quello di ognuno di noi, quando la vita ci assorbe, quando l’amore ci risuona come musica delle cose e degli uomini, quando il mondo ci accoglie nella sua vicenda dolente e tuttavia attraente.”

 

***

(dalla nota di Franca Mancinelli) “[…] una voce così autentica da farsi subito presente nella mente del lettore, con la stessa lucidità visionaria e incandescente con cui sembrano sfiorarci, e a tratti raggiungerci, i messaggi portati dagli uccelli, dalle foglie, dalle forme che provengono dal corpo plurale della natura.”

 

 

da La formula dell’orizzonte

 

Quando l’amore mi sproporziona

 

senza tecnica

né pratica

 

in tutto il corpo

o nella mente che traspare sola

vetri e verande

 

e mi consiglia come strada un fiume.

*

 

 

Che mi trovino i cercatori d’oro

sotto il primo strato di sabbia

come un anello

 

e mi prendano senza riconoscermi

e mi vendano a qualcun altro.

 

da La scomparsa

 

 

 

da Ciclo I. Le derive

 

VIII

 

Essere nel mare come nel ricordo
il mare come aderisce al fondo: imparare

a non tralasciare sasso.

 

Aspetta ogni mio pensiero

e confonde ogni mio umore

con il suo.

 

Guidami ad aderire

alla tua riflessione.

*

 

da Ciclo II. Il compito

 

 

II

 

Scrivo da sotto il crepaccio

dove decade quanto non si ripete.

 

Raduno attorno all’osso

nudità dolorosa e tagliata

spaccata pietra.

 

Umiltà del ginocchio alla roccia

dietro di me non c’è niente.

 

Testimonio le cose:

anteriorità della bocca alla fonte

dietro di me non c’è niente.

 

*

 

V

 

Io mi spingo

 

la coscienza in piume

l’intuito della radice

 

dove il buio s’interra la gola.

 

Afferrare la lucidità
come uccelli frequentano i rami spogli.

 

 

bestia comune

1

di Nadia Agustoni

 

creata cagna mucca o animale esotico
scodellati i figli verrai santificata denutrita
lasciata indigente. ricordati: “dei poveri è il regno dei cieli
e degli ultimi”, ma sulla terra l’inganno è sempre contro l’io.
annientata chiedi al grido di chi c’è passata prima
con quale epiteto fu crocifissa.

cristo bocciato in prima elementare
lasciato lì per non avere capito che lo stomaco la mandibola gli ossi
finiscono nel loro brodo. mangia il poppatoio
con le voci stridule dei preti dei politici delle televisioni
mangia il profilattico il cilicio il family day
mangia mangia e digerisci il loro culo, l’irrisione.

 

*

 

// testo inedito di Nadia Agustoni (ottobre 2022)

// immagine di Veronica Gigli @der________redde, in mostra dal 13 novembre a Palazzo Bisaccioni, Jesi (AN)

 

Il campione

7

di Cristian Palmas

Nell’asettica bianca reception della €, @ ingannava l’attesa di oltre venti minuti sognando, con sorriso beota, presentazioni in tutto il Paese, accoglienze da star, laute trasposizioni del suo romanzo, addirittura l’Oscar, come non aveva mai sognato in tutti quegli anni di falliti tentativi di esordio; ma ora, grazie all’interessamento di F, una grande casa editrice l’avrebbe pubblicato.

Dall’ascensore apparve a un tratto una persona dall’aspetto anonimo, tuttavia capace di risvegliarlo bruscamente: non capiva se fosse uomo o donna, ermafrodita o altro; ma ben altri tratti lo spaventarono: il soggetto era alto e basso, magro e grasso, con occhi chiari e scuri così come i capelli lunghi e corti; il viso erabello e brutto, di colore indefinibile come felpa, scarpe e jeans di marche indefinibili. Ma no, non può essere! @ temette di esser stato drogato o di vedere uno spettro o un mostro; anzi no, nemmeno, poiché non poteva esisterequalcosa che non potesse essere descritto. L’anonimo si assise a lui dinnanzi e si immerse con agili dita nellosmartphone dopo un incolore «Buongiorno» a lui rivolto, ma non ricambiato. Sto impazzendo?

Trascorsero altri dieci interminabili minuti, nei quali @, seppur curioso, titubava afflitto da vari dubbi, mentre l’entità era ancora lì a compulsare app. Una porta si aprì riscuotendolo: due uomini, ridendo e chiacchierando di frivolezze, si accostarono alla reception: @ riconobbe nel più anziano il famoso scrittore ©; l’altro per un attimo si rivolse alla receptionist per le novità: #, caporedattore per la narrativa di €, fissò @ e, con sorriso commerciale, agitò da lontano una mano amichevole, promettendo infine un «Arrivo subito!».

Ma riprese a chiacchierare per altri dieci minuti di futilità varie; fino a quando non fu lo scrittore achiudere la conversazione e a uscire salutando la sala d’aspetto come chi sa di essere una star. @ era sempre più disorientato: in tutto quel tempo, nessuno si era stranito per un’entità che possedeva tutte le qualità e nessuna – la quale aveva ora le mani congiunte sul grembo, niente smartphone e sguardo fisso all’infinito, da pupazzo.

# si avvicinò a @ come per abbracciare un caro amico di vecchia data, ma all’ultimo allungò una solidamano per stringere con fare maschio quella molle e sudaticcia dell’altro, balzato su come una molla. Erano all’altezza della reception, diretti all’ufficio, quando # si voltò con noncuranza verso l’essere e bofonchiò un«Vieni», girandosi subito dopo e conducendo @. Quest’ultimo aggrottò la fronte e rabbrividì, mentre l’anonimo siavviava come automa e li seguiva. Sono io che ho le allucinazioni? È tutto normale?

@ si accomodò di fronte a #, separati da una scrivania confusa; l’ente si appollaiò su una sedia a destra di #, a ridosso di uno schedario come una cosa posata a caso, con sguardo avanti in standby. Gelido sudore teso avanzava lento sulla fronte di @, ostinato a fissare l’ente.

«Così sei amico di F, eh?» chiese # per rompere il ghiaccio, mani scartabellanti nel marasma di fogli stampati.

«Sì», rispose distratto @.

«Già, già», confermò # ammiccando, e raccolse un dattiloscritto con segnato in rosso “da F”. « A lui piace, il tuo romanzo… Anche a me, eh, molto interessante.»

«Grazie», riuscì a dire solo l’altro, l’ansia deglutendo a fatica. Per lui quello è reale?

«Ottima storia, originale, vita vera», proseguiva # tambureggiando le punte delle dita sul plico. «Ma lo stile…troppo complicato, troppo… faticoso. Mi capisci?»

Quel giudizio ebbe il potere di distogliere @ dall’anonimo – # proseguì:

«Vedi, gli esordienti commettono tanti errori. Tu scrivi molto bene, eh, però sei troppo… scolastico: periodi molto lunghi, ricchi di subordinate, punteggiatura, inutili orpelli retorici per far vedere quanto sei bravo. Sono tutte cose che disorientano, affaticano la lettura, la rendono fine a sé stessa. Anzi, infastidiscono la maggioranza dei lettori, il lettore medio… no, non mi piace quest’espressione: sembra di dare del mediocre, non è politically correct… preferisco il ‘lettore campione’… Ecco, il lettore campione ti prende per arrogante e non leggerà mai il tuo romanzo. Scritto così, eh.»

@ era allibito: anni per forgiare il suo stile narrativo, mesi dedicati a quel testo per correggere errori, rivedere contenuti, maniacali taglia e cuci, curare la punteggiatura, setacciare solerte vocaboli; per infine sentirsi dare del dilettante, dire di aver perduto tempo: amarezza e umiliazione stillavano dal suo viso.

«Non è un dramma, eh», si affrettò a rincuorare # ponendo le mani avanti. «Bisogna solo spezzare i periodi, ridurre la punteggiatura, rendere le frasi incalzanti. Il lettore campione vuole ritmo, tensione, emozioni, subito e dirette, se no s’annoia. Mi segui?»

@ non poteva parlare: aveva letto tanti contemporanei con stili simili ma nessuno gli era parso un vero artista: obbrobriosa era l’idea di vilipendere la propria prosa. # tacque di fronte a quel mutismo, e con una mano gli chiese di attendere.

«Oh!» quasi gridò rivolto all’ente, manco fosse un asino. «Leggimi questo», e gli porse la prima pagina, con un brano circondato di rosso.

@ impallidì. Davvero noto solo io che non può esistere un individuo simile? Si convinse allora di avere lui qualche grave problema, così finse che l’anonimo fosse una persona normale, qualunque, per quanto bizzarra.

L’anonimo si animò, prese il foglio e iniziò a leggere. @ provava imbarazzo per gli inciampi, il tono monocorde, il ritmo sbagliato, il suo volto impassibile nonostante quell’increscioso strazio.

«Allora?» gli chiese #, ultimata la penosissima lettura.

«Non ho capito», rispose l’ente, grigio e metallico.

«Visto?» proruppe trionfante # indicandolo col pollice ma col viso verso @.

«Visto cosa?» chiese @, alterato e smarrito in un racconto surreale.

«Il lettore campione non capisce cosa scrivi», sentenziò # vittorioso, rilassandosi sullo schienale.

«Quello è il lettore campione?» sfuggì allarmato a @.

«Eh, no, eh!» rifiutò # con mani avanti, avendo frainteso il tono dell’altro. «Niente snobismi! Tutti devono poter capire, è un principio base della comunicazione. Chi scrive per sé stesso non è uno scrittore…»

«Ma io scrivo per tutti quelli che vogliono leggermi…» obiettò confuso @.

«Bisogna essere umili, volare basso…» proseguiva #, sordo e indifferente.

«Ma io scrivo narrativa, faccio letteratura…»

«La letteratura È comunicazione…» sentenziò # interrompendolo ancora. @ ammutolì disgustato da quella superficialità, capace di sottrarlo all’assurdità della situazione.

«Se la maggioranza dei lettori», proseguiva # indicando il campione, ora rapito da un video, «non capisce ciòche scrivi, a chi vendiamo il tuo libro?»

@ per una frazione occhieggiò il campione, immobile e muto con lo sguardo fisso sullo smartphone, prima di chiedere:

«Senti, ti sei accorto che il tuo campione è sia alto che basso? E che è bello e brutto allo stesso tempo?»

«Ancora snobismo!…»

«No!» quasi gridò @ costernato e stufo. «È che non può esistere un essere sia grasso che magro, sia alto che basso… Lo trovi realistico? Normale?»

# ridacchiò tra sé, paternalistico: «Ah, gli esordienti!…» Cadde un silenzio colmo di assurdità.

«F è un nostro autore. E un amico», sottolineò # complice, infrangendo il silenzio. «Se sistemi il testo, ti prometto che lo pubblicheremo.»

@ non comprendeva se era più sconvolto dal lettore campione, da # o dal rischio di bruciare l’unicapossibilità di essere pubblicato per colpa della sua prosa artistica: aveva troppo sognato il suo successo,per potervi rinunciare ora.

«Va bene», concluse tremante, alzandosi in piedi imitato dall’altro. «Appena pronto, ti giro il primo capitolo.»

«Questo è lo spirito giusto!» esclamò compiaciuto #, stringendogli forte la mano tesa. «Faremo di te un grande scrittore!»

«Un campione!» suggerì @, ridendo nervoso e sarcastico.

«Eh già!» rise #.

@ quasi corse fuori dall’ufficio e attese di entrare in ascensore per boccheggiare. Quattro boccate e si riprese: l’ente non c’era più, l’euforia scioglieva l’ansia: è fatta, basta semplificare per esordire – solo questa volta, però!

Ma quasi gli prese un colpo quando si vide nello specchio dell’ascensore: era alto e basso, magro e grasso, e il suo viso di colore indefinibile.

Immagine di Matthias Wewering da Pixabay

Piantare un fiore nella terra bruciata: poete ucraine in Italia

1

“Piantare un fiore nella terra bruciata” è il titolo della serie di appuntamenti con le tre poete ucraine Natalia Beltchenko, Iya Kiva e Oksana Stomina, che dal 18 al 24 novembre 2022 saranno in Italia per parlare della situazione nel loro paese e meditare su cosa significhi scrivere in tempo di guerra. Più sotto una descrizione dettagliata del tour, qui di seguito quattro poesie di Beltchenko tradotte da Pina Piccolo (non osavo guardare, poesia VI) e Marina Sorina (il sabato dei genitori, l’estate è finita).

 

non osavo guardare dentro di lei,
mentre lei mi scrutava dentro senza timore.
L’aria si avvicina come polvere oscura,
le catene dell’altalena si stanno sciogliendo –
tocchi il tuo volo discendente
consegnando il tuo corpo ai giardini
della vecchia Kyiv. Sbocciano i lillà,
e il quinto petalo sei tu.

 

poesia VI

E il campo arato storto di sangue
Risponde ondeggiando, s’avvicina.
Ma nessun riflusso fermerà l’inondazione
dall’era Mesozoica si gonfia una tempesta.

L’alba riluce prima sulla faccia dei traduttori
Poi su chi s’annida nel fango del solco
E non vola a sud verso luoghi più caldi
Né mai perde sangue invano

Uccelli, uccellini caldi di nido, ptaki
Oh pterodattili, vedete come dritti
ed eloquenti, i segni l’occhio cattura.
Adamo, Adamo, una mano, bianca è la pagina.

 

il sabato dei genitori

per strada scuotere fuori da sé
i colombi verso l’occidente e l’oriente
il coltellino del padre, preso senza bisogno,
taglia anche il frutto più duro.

riconoscere nel proprio volto
mamma, papà, andare attraverso.
perdonare e sentire il fratello

baciare le orme della nonna.

nell’impotenza assopita militare
ci appoggiamo, schiena contro schiena,
con loro e con i viventi. cari, amati,
tutti spogliati dalla nudità della guerra.

labbra mani, avendo finito di bisbigliare,
di toccare, – sono tornati navigando dal vuoto.
asciugare le lacrime, dare le forze,
per non aver fretta nell’oscurità ritornare.

 

l’estate è finita, e tu sei vivo,
hortus conclusus di Cracovia è tuo.
ci profuma la terra e l’erba fuori dalla finestra
gli uccelli si lavano nel temporale prima di dormire.

l’inafferrabile e l’afferrabile emana la terra.
tutti gli unicorni sembrano dei nostri.
cresce l’albero di sommaco mondiale
l’acqua di Sambation è amara sui capezzoli.

profondo o basso, nel bozzolo o
nella imago – tutto conoscerai, correndo,
prendendo la rincorsa come il petrolio
nella pozzanghera dell’esistenza.
baciato dal silenzio nel battito cardiaco.

*

[dal comunicato stampa]

  • […] Con tappe ad Abano Terme, Bologna, Verona, Milano e Roma, ospitato in spazi culturali di prestigio come pure in semplici sale di attivismo quotidiano dal basso, il tour attraversa il nord e centro Italia e nasce dalla collaborazione di scrittrici, attivisti e operatrici culturali, riviste letterarie, associazioni della società civile ucraina, musei, organizzazioni di donne, spazi culturali, traduttrici, associazioni di solidarietà ai profughi, comuni. Il tour si offre come piattaforma per le voci di tre poete e giornaliste ucraine, i cui scritti hanno ottenuto riconoscimenti internazionali, come pure occasione di scambio con il pubblico. Con un format che abbina lettura di poesia in ucraino e italiano a un’intervista in loco alle scrittrici seguita da domande dal pubblico, gli incontri sono pensati per offrire alle tre poete il massimo spazio per informare sia sulla situazione delle persone che si trovano nel paese che di chi è profugo all’estero, e allo stesso tempo meditare su che cosa significa scrivere in tempi di guerra, discutere su come cambiano le modalità, gli stili e i temi della poesia, specialmente quando tutto accade in diretta, con tempi velocissimi delle nuove tecnologie e dei social media. In una recente intervista a il Manifesto, ad esempio Iya Kiva afferma che scrivere in una situazione di guerra induce a trovare le parole esatte del disorientamento e che in un contesto di rapidi cambiamenti la letteratura restituisce la capacità di fermare il tempo per fissare alcune esperienze umane. Le tre poete toccano nuclei diversi che vanno dal rapporto con la natura mentre è in atto una guerra (Beltchenko), che cosa significa essere in un paese che sta cercando di definire la propria identità e il rapporto con la lingua, specialmente quando il russo era la lingua in cui si scriveva poesia prima dell’invasione (Kiva), il trauma di vedere la propria città, Mariupol, rasa al suolo e la propria identità e cultura annullati (Stomina). Le poesie di tutte e tre, come pure gli scritti di oltre venticinque scrittori ucraini contemporanei sono reperibili nel contenitore digitale di scritture dal mondo La Macchina Sognante, rivista che ha fatto da propulsore al tour. Con un repertorio di oltre 20 articoli pubblicati dal 26 febbraio ad oggi, la maggior parte dei testi pubblicati sono stati tradotti in italiano usando l’inglese come lingua ponte, e alcune poesie sono state tradotte dall’ucraino grazie alla collaborazione con la scrittrice e attivista Marina Sorina. Il tour si apre ad Abano Terme il 18 novembre, in un luogo suggestivo come il teatro del Museo internazionale delle Maschere Amleto e Donato Sartori proseguendo poi a Bologna il 19 nello spazio centrale dell’Auditorium Enzo Biagi della biblioteca Sala Borsa che spesso funge da agora e con la partecipazione di Bologna4Ukraine che tanto ha fatto per mettere al centro dell’attenzione l’Ucraina e la solidarietà con la popolazione. Il tour continua poi a Verona il 20 novembre nella spazio interculturale delle donne Casa di Ramia in un incontro a cura di Malve d’Ucraina che vede protagonista il dialogo fra le tre poete e la comunità ucraina e immigrate di altri paesi condotto dalla scrittrice ed attivista Marina Sorina; la tappa successiva a Milano, il 23 novembre, si svolge nella storica Casa delle donne e con la collaborazione della Casa delle Artiste e mette al centro le questioni di genere nella vicenda bellica e di resistenza. Il tour si conclude il 24 novembre a Roma con un incontro ospitato, non a caso, nel teatro del Museo MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, spazio che si è distinto sin da febbraio per aver offerto i propri locali a mostre e residenze artistiche ad artisti ucraini, che in questo periodo storico sono messi a grande prova dalla guerra anche per quanto riguarda la capacità di produrre arte.

Per maggiori informazioni contattare Pina Piccolo, coordinatrice del tour: piccolop56@gmail.com, 3386268250.

*

Diacronie antifasciste. Breve dialogo post-elettorale

2
antifascismo

di Lisa Ginzburg e Davide Orecchio

Foto di © Simona Caleo

Questa conversazione si è svolta tra il 21 ottobre e il 5 novembre 2022

DO Ti è capitato di fare sogni politici? A me sì. L’estate passata, nel pieno di una campagna elettorale dalla quale francamente cercavo di sottrarmi in tutti i modi, evitando di seguirla per quanto potevo, ho sognato Giorgia Meloni. Ma non mi sono limitato a sognarla. Ho sognato che mi batteva i pezzi! È stato impressionante. Succedeva sulla scalinata che, a Spoleto, scende verso il Duomo. L’avevano riempita di lunghi tavoli di legno da sagra o da festa dell’Unità. Proprio lì, dov’ero seduto a bere birra o mangiare pizza, si è avvicinata “lei”, e mi ha chiesto con gli occhi dolci in quale anno fossi nato, e ha detto che era un anno bellissimo. Ero allibito. Giorgia Meloni ci stava provando con me? Allora sono scappato sotto al tavolo, dove dopo un po’ è venuta a recuperarmi mia moglie. L’ho interpretato come un pessimo sintomo della stagione politica. In fondo sono figlio di un antifascista e partigiano (per quanto mio padre fosse arrivato all’antifascismo attraverso un percorso complesso), e sono finito sotto a un tavolo per sfuggire alle avances di un’erede del fascismo. Il fatto che mi sia accaduto in sogno forse non è un’attenuante.

Tenere alta la guardia

LG No Davide, non mi è mai capitato di fare sogni “politici”, ma capisco bene la temperie che ha interpellato il tuo inconscio e lo ha fatto così lavorare “mandandoti” questo sogno. Sentivamo arrivare quello che poche settimane fa è poi accaduto; e il “sentire arrivare” genera un’ansia sottile, che si annida nelle pieghe più riposte delle nostre psicologie. Guardando indietro agli ultimi mesi, vedo un’agitazione soggiacente che ci ha coinvolto tutti, e che esprimeva questo presagio. Si sapeva che sarebbe andata così, ma poi certo, lo sgomento di fronte alla realtà è diverso, maggiore, più crudo, più ammutolito ancora. Un sogno anche, il tuo, che racconta di questa strana e perversa seduzione che la figura di Giorgia Meloni (il suo personaggio, mi viene da dire piuttosto, trattandosi di qualcuno che ha artatamente costruito un’immagine stratificata di sé) esercita su molti, donne e uomini. Leggo qua e là pericolosi esercizi di sostanziale ammirazione che si appuntano sullo stesso aspetto di questa figura da te sognato. Ovvero il suo blandire, volere piacere, rassicurare attraverso un subdolo messaggio che dice: “non sono quello che credevate, ma qualcos’altro di più accettabile, responsabile, regolato e luminoso”. 

Penso che occorra e occorrerà tenere alta la guardia su simili rischi di conciliatorio apprezzamento per questa neo premier che a ogni costo si vuole “nuova”. Andare sotto il tavolo come hai fatto tu nel tuo sogno, e da lì guardare la realtà. Stare a vedere, senza coprirsi gli occhi con nessun velo. Come figli e nipoti dell’antifascismo (cui tuo padre arrivò secondo vie complesse, i miei nonni secondo strade più dirette, molti altri secondo cammini di volta in volta sia intricati che netti) penso che allo stato attuale (a sconfitta avvenuta) questo soprattutto sia il faticoso impegno: stare a guardare, senza cedere a nessuna lusinga ma nemmeno a nessun pessimismo catastrofista ed eremitico. Vedere, saper vedere, e quando – anche tra poco – sarà necessario, agire, opporsi, reinventare forme di contrasto che da tempo invece sono morte (da quella morte, anche, l’angoscia premonitoria degli ultimi mesi prima dei risultati elettorali).

Il riscatto dovrebbe essere il nostro

DO Devo ammettere che il mio era un sogno di fuga, e per questo me ne sono vergognato. Tu lo nobiliti per generosità o buona educazione, ma io ero scappato sotto al tavolo non tanto per guardare meglio la realtà quanto per nascondermi in un posto cieco e invisibile. Ti ho mandato queste domande pochi giorni dopo il toccante discorso di Liliana Segre al Senato, umiliato dall’elezione di La Russa e Fontana alle presidenze del Parlamento, e poche ore prima che Meloni presentasse la lista del suo governo. Poi, ascoltando i nomi di quei ministri, e mettendo a fuoco la composizione e il profilo del nostro nuovo esecutivo, come molti sono di nuovo caduto sotto al tavolo. 

Adesso che fare? Tu provi rabbia? Io penso che sarebbe naturale provarne. Penso che dovremmo coltivare un sano desiderio di rivincita, un desiderio peraltro inesaudito da molte decadi. In un’intervista tv ho sentito Meloni parlare dell’opportunità di riscatto offerta da questo voto a tanta gente rimasta sempre ai margini della politica italiana. È evidente a chi si riferiva. Ma credo che avesse torto. Una classe dirigente di cultura fascista o postfascista che dir si voglia offre voce a quella gente da quasi trent’anni. Sono diventati sindaci, ministri, governatori: La Russa e i suoi non hanno un problema di riscatto politico o culturale. Sono stabilmente insediati al potere. Siamo noi, eredi dell’antifascismo, ad avere un problema di riscatto, perché l’antifascismo è diventato da tempo un valore politico minoritario e frustrato.

Roma, 27 ottobre 2018, quartiere San Lorenzo. Manifestazione antifascista © Simona Caleo

La rimozione di una rimozione

LG Personalmente non credo molto al concetto di “rivincita”. Le stesse nemesi, di cui la Storia è intessuta (e tu come scrittore questo lo sai e lo hai raccontato molto) le leggo come riscritture e ricalibrature, più che come vendette. L’antifascismo è diventato minoritario, credo sia vero, ma se è accaduto è stato anche perché non c’è stato un palese fronteggiamento del postfascismo, non riconosciuto come tale, non nominato, non compreso nelle sue continue propaggini ancorate via via a ogni presente nel corso del dopoguerra. L’adagio “può sempre tornare” riferito alla mentalità fascista probabilmente sarebbe stato più pregnante e trascinante se formulato come un “non è mai finita”. 

Il pensiero di destra si è stabilizzato come tu dici, e più o meno carsicamente reinsediato, facendo leva su quell’elemento di mai completa, definitiva conclusione del fascismo. Un elemento che la sinistra non ha saputo tematizzare e denunciare abbastanza. Parlerei di “ritorno del rimosso”, con un rimosso che si è man mano trasformato intercettando populismi, tensioni, crisi, scontenti sociali tutti drammaticamente profondi ma dalla sinistra mai guardati con limpida e concreta visione progressista. Tra i tanti, paghiamo anche questo prezzo, mi pare: il prezzo della rimozione di una rimozione. Sento molta rabbia e frustrazione su questo, il “nostro” non aver saputo vedere e considerare, nella giusta luce, l’ombra.

La lunga durata di una mentalità

DO Il ritorno del rimosso: che bella espressione hai trovato. Ed è senz’altro vero quello che scrivi: non è mai finita. Senza voler ricorrere a categorie storiografiche che mi sembrano purtroppo passate di moda (Claudio Pavone parlava negli anni Novanta di “fascismo esistenziale”) vorrei mettere a verbale che neofascismo e postfascismo non sono mai stati troppo ai margini della storia politica italiana, a cominciare da un lontano 10 ottobre 1947, quando Giorgio Almirante organizzò una manifestazione di massa missina a Roma, in piazza Colonna, mentre in Parlamento si approvava la Costituzione democratica e antifascista. 

La cultura politica fascista non è mai stata sradicata dalla società italiana – complice anche un’epurazione mancata nel dopoguerra –, e si è via via ripresentata in forme camaleontiche, a volte con violenza, a volte con una moderazione di facciata. A questo punto dobbiamo chiederci, però, quale sia stata la responsabilità dell’antifascismo storico, costituente, e quale il suo fallimento nel non saper uscire da una sfera postresistenziale elitaria, sempre più minoritaria, probabilmente anche a causa di un discorso pubblico su Resistenza, 25 aprile e dintorni troppo retorico e quindi poco convincente. Stiamo parlando degli anni della Prima repubblica. Dal 1994 in poi, data spartiacque, tutto cambia, e l’antifascismo evapora anche sul piano istituzionale e del discorso pubblico. Si trattasse di un naturale appassimento, perché il tempo scorre e la storia cambia, mi metterei l’anima in pace. Ma nel frattempo, come spiegavi tu sopra, la mentalità politica, l’indole postfascista di lunga durata ha resistito e, alla fine, ha prevalso.

Un’improvvisa paralisi

LG Temo che non abbia giovato certa aura mitologica che è andata creandosi intorno al mondo antifascista, ai suoi valori morali, a un integerrimo attraversare la vita come fu per gli antifascisti della generazione dei miei nonni, poi nel tempo ammantato di un’ammirazione giusta ma anche inibitoria verso possibili evoluzioni di medesimi valori. Qualcosa di portato idealmente troppo in alto per non bruciarsi le ali nel contatto con la terra. L’“evaporazione” dell’antifascismo di cui dici, ha alle spalle molti decenni di un discorso giustamente molto orgoglioso di quei valori, ma senza una reale capacità diacronica di trasporre quegli stessi valori nei frangenti storici successivi agli anni della Resistenza. Non uso a caso il termine “diacronia”, molto importante nel tuo ultimo libro Storia aperta. Un’attitudine al fluido fluire insieme al tempo, una necessità endemica di riattualizzazione e ricontestualizzazione che mi pare nel discorso italiano sull’antifascismo non abbia trovato sufficienti esiti. Ogni enfasi cristallizza, e questo vale anche per le forme di ammirazione le più sacrosante. L’enfasi cristallizza, la cristallizzazione paralizza.

Sempre e solo la destra

DO Constatazione a margine, e anche piuttosto banale: a me sembra che nelle ultime tre decadi della storia politica italiana le più importanti novità siano state di destra o populiste. Un laboratorio anche interessante, visto con lo sguardo esterno di un entomologo, ma noi purtroppo l’abbiamo vissuto: Lega, berlusconismo, varie aggregazioni postfasciste, i 5Stelle di Grillo che sfondarono la soglia del 30%. Non so se sei d’accordo. Ma, mi chiedo, perché?

LG Banalmente, ribadisco, c’è stato un problema di sguardo. Si è perso il contatto con la gente, si è smarrita la capacità e l’umiltà di guardare, penetrare, ascoltare. I partiti e le correnti che citi, pur nella loro assoluta faziosità e miopia, almeno in principio, al momento del voto, sono sembrati a moltissimi italiani forme di visione, paradigmi di prospettive nuove. Si guarda a ciò che si spera ci guardi. Non c’è dubbio che molta parte della popolazione dalla sinistra italiana non si è sentita vista, né ascoltata. 

Roma, 25 aprile 2015: la manifestazione dell’Anpi a Porta San Paolo © Simona Caleo

Anestetizzare qualunque cosa, oppure rinascere

DO E del Pd cosa ne pensi? A me sembra un partito in grado di “anestetizzare qualunque cosa”, come ha detto Fabrizio Barca a Repubblica. Io francamente, pur avendolo votato il 25 settembre, non lo capisco, il Pd, per com’è fatto, così chiuso e impermeabile, così moderato e istituzionale, così elitario nella sua composizione sociale, così inadatto a essere di sinistra. Bisognerebbe proprio rifarlo da zero, no?

LG Sì, sì e sì. Rifarlo da zero. Ci vuole un bagno di umiltà per ricominciare da zero, ci vuole silenzio, ci vuole decidere di rinascere. Le rinascite penso abbiano a monte delle scelte, sofferte, categoriche. Non conosco molto il Pd per aver smesso di seguirne le gesta (e le moltissime non gesta) tanti anni fa. Certo convengo che i suoi più noti esponenti e deputati portano addosso una coltre di polvere, di grigio, l’aura sbiadita che dà il mancare di concretezza. Dalle cose bisogna ripartire, dalle cose reali, dai fatti, dai dati, dai bisogni delle persone. E dalle ceneri rinascere, portati dal vento nuovo che sebbene invisibile invece da qualche parte spira. Ma ci vuole per fare tutto questo un grande coraggio, compreso il coraggio di dire che si è sbagliato praticamente tutto, nella strategia così come nelle azioni. Non vedo questo coraggio e questa umiltà se non in figure di politici più giovani (come Elly Schlein, di sicuro una eventuale Segretaria del Pd dinamica e preparata). 

Ambizioni maggioritarie

DO Ma la sinistra oggi, secondo te, che cosa dovrebbe essere e chi dovrebbe rappresentare? Io ragionerò in maniera semplice ma la penso così: se la sinistra non rappresenta il lavoro, non è. La sinistra contemporanea viene da quello, dalla rappresentanza del lavoro, anzi viene dopo: prima nacquero le leghe operaie e bracciantili, e dopo i partiti. È chiaro che oggi, dicendo “lavoro”, si intende un mondo articolato e complesso. Ma anche se un lavoro non ce l’hai, o se lo hai precario o sottopagato, o se hai studiato o vuoi studiare ma vieni da una famiglia non abbiente, o se – a qualsiasi età – hai bisogno di ospedali pubblici che funzionino, o se appartieni alla comunità LGBTQ+ ma non hai il reddito per sostenere un progetto di vita (paternità, maternità, famiglia), tu a quel mondo appartieni, al mondo delle persone (il 99% del famoso slogan) che definiscono la propria identità in relazione al lavoro, e hai diritto a un grande partito di massa, con ambizioni maggioritarie e non minoritarie, che rappresenti i tuoi bisogni. 

Un partito “intersezionale” che sappia difendere i diritti vecchi (laburisti, sindacali) e nuovi (di genere, individuali, di comunità, dei migranti) a nome di tutti coloro che non sono nati con un conto in banca già aperto che li aspetta. E che lo faccia sempre ponendosi il tema della sostenibilità ambientale, della preservazione del mondo che abitiamo. E poi: un partito che trovi e promuova la sua classe dirigente non solo nelle élite, ma ampiamente nei ceti che vuole mobilitare, e che faccia piazza pulita di tanti cacicchi ormai impresentabili. Perché nessuno prova a farlo?

Una sinistra troppo borghese

LG Come dici, il mondo del lavoro è anch’esso in profonda trasformazione, e ascoltarne le difficoltà, le necessità, le istanze presuppone un’aderenza alla vita reale che nella sinistra degli ultimi decenni è mancata del tutto. Quando pochi giorni prima del 25 settembre mi è capitato per caso di guardare alla televisione Enrico Letta rispondere con alterigia alle critiche mosse al Pd da parte dei rappresentanti sindacali, ho avuto conferma di ogni presagio. Quella sera ho capito che avremmo perso, e perso con una sonora sconfitta. Ci sono valori che sono andati perduti perché molta parte della sinistra italiana si è auto-connotata (o è stata connotata) come borghese, e la borghesia capisce il lavoro in astratto, lo vive e lo conosce e lo difende in forma ideologica molte volte più che pragmatica e reale. 

Le competenze per comprendere le ragioni storiche e sociologiche profonde di questo spostamento di identità, via via più borghese, della sinistra italiana, non le ho; ma il processo di metamorfosi in senso privilegiato e lontano dalle masse a me pare di palmare evidenza. In concreto, basterebbe cominciare con il dare voce e spazio a a chi il lavoro lo conosce, lo fa, lo patisce (ne patisce la mancanza). L’elezione di Aboubakar Soumahoro (sindacalista allievo “morale” di Giuseppe Di Vittorio), una perla nel mare inquinato di queste elezioni, è un punto di partenza: molto altro in quella stessa direzione dovrà accadere, per riacquistare presa sulla realtà e, di lì, credibilità politica.  

Una storia francese

DO Leggendoti mi è venuto in mente il libro di Didier EribonRitorno a Reims, che racconta una storia francese ma secondo me calza perfettamente nella nostra discussione. Eribon, intellettuale, sociologo affermato, militante gay, ritorna nei tempi e nei luoghi delle sue origini proletarie e ci mostra i genitorioperai nella seconda metà del Novecento, sfiancati da un lavoro di fabbrica o di servizio iniziato in giovane età, poco istruiti, fieri elettori del Partito comunista francese, non tanto per un qualche interesse nella dottrina bolscevica di Lenin e Stalin quanto per un genuino interesse di classe. Poi, a partire dagli anni Novanta, tutto cambia. Eribon illustra un mondo che va a destra. Anche la sinistra francese va a destra. Tutti vanno a destra. E i suoi genitori iniziano a votare il Fronte nazionale di Le Pen. Una scelta politicamente disperata, perché non trovano più alcun partito che risponda ai loro bisogni di classe. 

La perdita di identità della sinistra europea ha insomma una lunga storia alle spalle. Ma, di quel mondo dal quale proviene, Eribon racconta anche le possibili inclinazioni omofobe e xenofobe, a volte – questa è l’opinione di Eribon – incoraggiate dalla stessa sinistra, e ci spiega che era (ed è) un ambiente, come tutti gli ambienti, che può subire il fascino politico della destra; oltre a essere un mondo che non ha mai compattamente votato a sinistra, anche nella stagione più potente della sinistra novecentesca. 

Per tornare ai nostri giorni, mi pare che entrambe le posture di una sinistra elitaria e anemica, autoconnotata come borghese, come scrivi tu, siano sbagliate e razziste: sia ignorare e quindi disprezzare la working class, sia idealizzarla secondo miti idilliaci che non trovano corrispondenza nella realtà. Invece quello che dovrebbe fare un, al momento, inesistente partito di sinistra è ascoltare, certo; dare voce, certo; rappresentare, certo; difendere, certo; e poi – ripeto – promuovere la working class a classe dirigente entro un ambiente politico, sociale, culturale intersezionale, dove la diversità e la solidarietà sono valori che si frequentano quotidianamente.

Foto: dall’Archivio storico della Cgil nazionale

La vita adulta non ha bisogno di dogmi

LG. Non parlerei direttamente di “incoraggiamento” di convinzioni destrorse da parte della sinistra, ma penso che le reciproche fascinazioni e potenziali vicendevoli emulazioni tra destra e sinistra costituiscano un tema antico, ambiguo, a suo modo scivoloso, come che sia di sicuro un tema. I manicheismi che più si sono irrigiditi hanno contemporaneamente lasciato spazio a trasmigrazioni, glissamenti di posizioni, porosità osmotiche nelle due direzioni inimmaginabili un tempo. Storie come quella dei genitori di Eribon sono numerose, in Francia e non solo. Raccontano forse di una confusione difensiva più che di pugnaci metamorfosi esistenziali, ma questo nulla toglie al loro essere parabole dall’impressionante traiettoria. 

Per tornare all’oggi, sì, certo, rimettere al centro del discorso politico la working class: a patto che voglia dire con feconda apertura intercettare e dare voce a posizioni non ancorate a dogmi, piuttosto, come tu dici, “intersezionali”. Ci vuole maturità per saper fare questo, la maturità dell’età adulta – l’adulto accoglie l’intersezione anziché sentirsene destabilizzato, forse anche lì è il punto.

Paura e speranza

DO Hai paura di un nuovo fascismo? Io forse no, però penso che qualcuno, più di uno, nelle nostre province, nelle nostre città, si sentirà presto legittimato ad alzare la voce e le mani. Voce e mani d’ispirazione squadrista. E che bisognerà restare vigili, soprattutto a difesa di persone e gruppi sociali più esposti e bersagliati. Per quanto mi riguarda non ho alcuna intenzione di scappare sotto a un tavolo, perlomeno nella mia vita diurna e cosciente.

LG Ho paura da molto tempo. Non ho più paura adesso di quanta ne abbia avuta negli ultimi anni con un populismo nei ragionamenti che ho sentito argomentare e alitarmi vicino, anche quando ero a Parigi, cioè lontano. L’Italia ha uno zoccolo duro di qualunquismo, di pressapochismo, di superficialità nel moto ondivago delle proprie opinioni. Queste elezioni confermano un processo in atto già da tempo. La paura soprattutto per me è che non si sappia trarre la dovuta lezione da questo disastro. Che ancora una volta non si riesca a scegliere di diventare un paese adulto, capace della maturità, dopo avere fallito, di voltare pagina e per davvero cambiare, imparando a guardare gli altri, il mondo, l’ambiente, la vita.

Il merito come nudo nome e come processo sociale

1

di Giorgio Mascitelli

La nuova denominazione del ministero dell’istruzione in istruzione e merito ha suscitato un’ondata di discussioni perché molti commentatori hanno temuto, e qualcuno auspicato, che sotto tale denominazione si nascondesse il tentativo di rianimare nella scuola le vecchie pratiche selettive, che ancora allignano in qualche liceo, che comportavano l’allontanamento dalla scuola tramite la bocciatura di una parte considerevole di alunni non brillanti e spesso appartenenti alle classi popolari. Insomma, per parafrasare una vecchia canzone di Ivan Della Mea, vi è il timore di una nuova volontà di usare l’arma del voto per escludere tutti quelli che sono più deboli e non adeguati.  Il problema di questa tesi è che la stessa Giorgia Meloni, nelle sue abbastanza rare uscite pubbliche sulla scuola, non sembra affatto sostenere un discorso di questo genere: ha proposto, nella scorsa primavera alla conferenza di partito, di abolire le bocciature nella scuola secondaria, per sostituirle con un sistema di livelli e di scelta della materie, simile a quello britannico. Anche se nel programma elettorale di Fratelli d’Italia non c’è traccia di una simile proposta, l’impegno a contrastare la dispersione scolastica e l’invito a limitare i compiti a casa sono presenti e appaiono difficilmente conciliabili con un ritorno della selezione o meglio con quello che un tempo si sarebbe inteso con tale parola.

In realtà coloro che individuano nella parola ‘merito’ il segno di un ritorno a qualche forma di classismo non sbagliano del tutto perché il riferimento al sistema inglese, uno dei più ferocemente classisti al mondo, anche se privo dell’istituto della bocciatura, è eloquente e questo tutto sommato non può sorprendere in una forza politica reazionaria e conservatrice come quella guidata dalla presidente del consiglio. Infatti il merito, ossia la selezione, oggi nella scuola non passa più per l’allontanamento di una parte di studenti, ma piuttosto attraverso la costituzione di un sistema scolastico a più livelli, in cui possibilmente chi si trova nella terza categoria non deve rendersene conto. Alcune misure in Italia vanno già in questa direzione: per esempio l’introduzione delle prove INVALSI usate per stabilire una graduatoria di merito tra gli istituti virtuosi e quelli meno performanti, anziché come strumento per individuare situazioni critiche su cui intervenire, oppure i Rapporti di Autovalutazione delle scuole, che, specie nella scuola dell’obbligo, diventano strumenti di orientamento delle iscrizioni operanti una selezione sociale a monte. Insomma nel futuro, ma è un futuro che è già cominciato, la scuola del merito ossia della selezione non vedrà l’allontanamento da scuola di studenti bocciati su programmi scolastici particolarmente impegnativi, ma consisterà nella formazione di un sistema di scuole a più velocità, nel quale le migliori saranno tali non per il grado di difficoltà del piano di studi, ma perché definite così da classifiche di rendimento redatte spesso da istituti privati con criteri ed elaborazioni statistiche discutibili. Il problema semmai è che anche la Buona Scuola e altri provvedimenti del centrosinistra  si muovono in un’ottica simile, del resto in tutto l’Occidente le politiche scolastiche sono dettate dall’OCSE, pur con qualche adattamento al contesto nazionale, secondo un modello mercatista e liberista bipartisan.

Così il neoministro dell’istruzione e del merito ha spiegato, secondo una consolidata retorica neoliberale, che la nostra è una scuola classista e il merito è strumento di uguaglianza per superare le differenze. Si tratta di formule generiche che non avrebbero avuto difficoltà a usare neanche i suoi predecessori di diversa posizione politica e questo non in ragione di una particolare fumosità del ministro Valditara, ma perché da circa trent’anni le politiche scolastiche sono accompagnate da cortine fumogene in una sorta di neolingua di orwelliana memoria in cui  dichiarazioni di principio progressiste sono seguite da provvedimenti di tutt’altro genere. Per esempio il ministro ha confermato il sistema di reclutamento degli insegnanti creato dal suo predecessore che prevede la laurea magistrale, la raccolta di 60 crediti tramite corsi preparatori delle università, un periodo di tirocinio con prova finale abilitante e successivo concorso per il posto di assunzione a cui seguirà, come oggi, un anno di straordinariato. Questo è indubbiamente un percorso meritocratico della durata di 10 anni circa, giusto il tempo che serve per diventare professo della Compagnia di Gesù  e che non ha pari in nessun sistema scolastico del mondo, il tutto naturalmente per occupare una posizione lavorativa da 1500 euro al mese e anche meno nei primi anni in un paese in cui la considerazione sociale degli insegnanti è, a dir poco, scarsa. Si tratta in realtà di un blocco delle assunzioni spacciato per percorso di merito, che produrrà nella scuola pubblica un’ampia diffusione del precariato per occupare i posti vacanti con la conseguente ricaduta negativa sulla qualità dell’insegnamento. Proprio questo particolare ci ricorda che una delle caratteristiche delle parole ‘merito’ e ‘meritocrazia’ è la loro plasmabilità per qualsiasi significato concreto, la quale, unita alla popolarità del concetto dovuta alla sua evidenza lapalissiana, in quanto è difficile trovare chi si possa dire contrario al principio per cui ogni posto deve essere occupato dalla persona più meritevole per quel tipo di posto, rende questi termini dei perfetti passepartout linguistici per coprire qualsiasi tipo di operazione di potere.

Del resto la storia del termine ‘meritocrazia’ è particolarmente eloquente. Coniata nel 1958 dal sociologo inglese, vicino al partito laburista, Micheal Young con L’avvento della meritocrazia, una sorta di pastiche di un saggio sociologico che l’autore finge di comporre nell’allora lontano 2033 per dare una giustificazione pseudoscientifica alle pretese delle classi superiori, l’espressione ha all’origine una valenza ironica e critica del discorso con cui nelle società capitalista i ceti alti giustificano i propri privilegi. Questa originaria accezione satirica si perde quasi subito e sia in inglese sia in italiano la parola viene usata in maniera seria, indubbio segno della vittoria culturale dello spirito del capitalismo e del privilegio, essa ha particolare successo tra coloro che appartengono ai ceti perdenti perché vedono in questo principio una possibilità di riscatto dalla loro posizione, dimenticando che chi definisce cos’è il merito e chi sono i meritevoli di solito appartiene a classi diverse dalle loro. E così oggi il merito può diventare nel senso comune un rimedio al classismo.

Vi è però un altro aspetto curioso di questo discorso sul merito. Nella scuola classista tradizionale chi arrivava al termine poteva effettivamente vantare un livello culturale molto elevato, cioè l’idea che il merito fosse premiato aveva una sua validità empirica nell’esperienza di molti, anche se questo non cancellava gli aspetti classisti di quella scuola, perché coloro che primeggiavano in quel percorso indubbiamente giungevano a livelli culturali e disciplinari molto elevati. Oggi con il termine merito si indica piuttosto un’educazione  che propone un mix di norme di una sorta di galateo internazionale e qualche competenza tecnica, di solito di tipo economico, che il sociologo canadese Alain Denault ha chiamato mediocrazia per metterne in luce la piattezza e il conformismo culturale nascenti da un sistema che premia la mediocrità, il cui motto può essere ben rappresentato dalla paradossale esortazione dello stesso Denault “ Mettete da parte i testi difficili, basteranno i libri contabili”. Due episodi apparentemente diversi illustrano con chiarezza la natura di questa mediocrazia meritocratica: alcuni anni fa la scoperta del plagio della tesi di dottorato di una nota esponente politica tedesca lungi dall’averne bloccato la carriera l’ha portata ai massimi vertici politici ( in un sistema elitario questo non sarebbe successo non per ragioni etiche ma perché l’abito mentale di chi copia una tesi è incompatibile con la capacità di prendere decisioni in condizioni di incertezza e di informazione incompleta, che è la qualità principale di un dirigente politico), e l’anno scorso, in occasione del concorso per i docenti tenutosi in Italia, la rivelazione di numerosi errori nelle domande dei quiz, valutati in maniera così severa da causare la non ammissione della maggioranza dei candidati, riscontrati da vari specialisti nella rispettiva materia, ci rivela che l’idea corrente di merito è quella di  assenza di controllo e di senso del limite dei superiori.

Dal punto di vista storicosociale non è strano che l’asserita meritocrazia corrisponda nei fatti a questa mediocrazia perché il sistema scolastico novecentesco, diciamo quello prima della scolarità di massa, era caratterizzato da un marcato classismo nella trasmissione del capitale culturale, ma questo capitale culturale era fatto anche da una serie di conoscenze e di saperi che richiedevano lo sviluppo di alcune qualità intellettuali in quanto il processo sociale della scuola era influenzato da una borghesia delle professioni, che doveva la propria posizione e il proprio prestigio non solo alle relazioni e ai beni ereditati ma anche alla propria cultura e alle sopraccitate qualità intellettuali. Oggi invece, poiché il successo si misura unicamente in termini di denaro e il modo statisticamente più diffuso per guadagnarlo è quello di ereditarlo, tutta questa storia del capitale culturale perde un po’ d’importanza ( non del tutto perché nel capitale culturale, secondo la classica definizione di Bourdieu, sono da includere anche le relazioni sociali e le conoscenze, che ovviamente anche oggi hanno un peso). Del resto non è una novità storica: l’affermazione dell’importanza dell’educazione e della formazione, specie nell’età evolutiva, è legata allo sviluppo di una borghesia che doveva al proprio ingegno e alle proprie capacità l’ascesa sociale, mentre nell’aristocrazia, in cui la posizione si ereditava alla nascita con il proprio titolo, si dava alla formazione  molta meno importanza ( un po’ di francese per la società, dei rudimenti di religione, uno strumento musicale o il canto per le ragazze, un po’ di addestramento militare per i maschi, insomma quelle che qualche tecnico odierno potrebbe chiamare le competenze per il diciannovesimo secolo). Naturalmente le nostre società vivono ancora sulla promessa alle classi meno abbienti del miglioramento delle condizioni dei figli tramite un’ascesa sociale grazie agli studi, che gli studi non possono garantire in realtà se non a pochi; in un contesto del genere allora occorre svuotare la scuola di contenuti che non serviranno ai molti destinati a lavori non qualificati. Non essendo però possibile affermarlo in maniera diretta, per via degli ovvi rischi di proteste, ecco allora che il discorso sul merito svolge la funzione ideologica di nascondere questo processo.

 

Come continua il fascismo: il primo dopoguerra

0


di Antonio Sparzani
Franco Ferraresi era mio grande amico, direi intimo amico, della fanciullezza e dell’adolescenza. Nella molto remota ipotesi che qualcuno ricordi una piccola serie di post che pubblicai su questo blog una dozzina di anni fa e che aveva un titolo comune “Le storie di Fiorino”, Franco era l’Ernesto di queste storie, Fiorino era (ovviamente) il sottoscritto e quelli erano raccontini di vita di paese, miei ricordi di fanciullezza e adolescenza nel comune di Desenzano del Garda (nei post chiamato “San Bruno”). In particolare qui, si parlava di questo “Ernesto”. divenuto poi, passati gli studi liceali e universitari, negli anni ’80 e ’90, ordinario di diritto amministrativo, e anche di altre materie, all’Università di Torino, e mancato prematuramente a 57 anni nel febbraio del 1998.
Uno degli argomenti cui Ferraresi dedicò particolare attenzione nella sua attività accademica di ricerca fu la storia del fascismo, italiano e non solo, e soprattutto della cosiddetta destra radicale. In particolare sul tema della situazione italiana del secondo dopoguerra pubblicò un libro Minacce alla democrazia – la Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra (Feltrinelli 1995), purtroppo mi pare non più disponibile, anche se forse sarebbe il momento che qualcuno si attivasse per ripubblicarlo data la situazione politica che si è appena creata nel nostro paese.
Io lo sto appunto rileggendo e vorrei dire qualcosa dei primi capitoli, nei quali si racconta il primo decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, decennio del quali ho vari ricordi, dato che nel ’50 avevo già 8 anni, avevo un padre fascista convinto e da lui sentivo parlare, con una certa preoccupazione, delle imminenti “epurazioni”: cioè, si supponeva, delle prossime estromissioni e punizioni nei confronti di chi aveva avuto responsabilità pesanti nel regime mussoliniano. Non temeva tanto per sé, mio padre, che non aveva avuto ruoli di rilievo nel ventennio, ma soprattutto per il fratello, capitano di vascello e poi ammiraglio della regia marina da guerra al servizio prima di Mussolini e poi della Repubblica di Salò, e per la sua famiglia. Mio zio ebbe in realtà vari guai, dovuti essenzialmente al fatto che era inviso ai tedeschi in quanto non seguiva i loro ordini, per cui, uscito dalla Regia Marina venne deportato in Germania e anche la sua famiglia (moglie e tre figli) fu per qualche tempo prigioniera in Austria; alla fine, finita la guerra, riuscirono a tornare in Italia e lui fu collocato in pensione.
Timori, quelli di mio padre e di molti come lui, che si dimostrarono molto presto, in generale del tutto infondati.
Epurazione italiana in pratica quasi non vi fu. A partire dalla vergognosa amnistia, concessa da Palmiro Togliatti, sì, da lui, allora segretario del Partito Comunista Italiano e ministro della giustizia nei primi governi Parri e De Gasperi (poi rapidamente estromesso con il delinearsi della guerra fredda e del pericolo comunista) e proseguendo con numerosi processi farsa nei quali i peggiori gerarchi fascisti vennero bellamente assolti, o condannati a pene lievissime.
Invece di sottoporvi un difficile riassuntino vi trascrivo qui le pagine 36-40 del libro di Ferraresi, relative appunto al periodo; il libro è documentatissimo con una straordinaria bibliografia, tutte le affermazioni sono documentate, e qui ometto ovviamente, per non appesantire, tutte le numerose e accurate note che appunto rimandano ai documenti e ai testi ufficiali.

““Le epurazioni sono misure fondamentalmente politiche, le loro chances di successo dipendono dalla forza e dalla volontà di chi le mette in atto. Il nuovo regime italiano, guidato da molti che avevano a lungo cooperato con il Fascismo, non forniva molte garanzie al riguardo. I gruppi al potere infatti si preoccuparono innanzi tutto di evitare qualunque giudizio sui loro legami con il regime e ostacolarono in tutti i modi l’opera di “defascistizzazione” originariamente caldeggiata dagli Alleati, giungendo fino a provocare la caduta del primo governo Bonomi, quando le indagini dell’Alto commissario all’epurazione giunsero a minacciare personaggi altolocati.
Il controllo sull’epurazione fu gradualmente sottratto ai politici e riconsegnato nelle mani dell’alta burocrazia, di formazione fascista e soprattutto di una magistratura che non era stata preliminarmente epurata. In entrambi i casi, il diritto di giudicare senza sottoporsi ad alcun giudizio preventivo fu rivendicato in nome del mito della neutralità della pubblica amministrazione e della giustizia. Principale sostenitrice di tale mito fu la magistratura. Ciò non deve sorprendere. Le odierne controversie fra magistratura e classe di governo sono, in parte, il risultato di una situazione storica in cui, malgrado gli enunciati costituzionali, la magistratura non ha mai goduto di reale indipendenza dall’esecutivo. Per tutto il periodo liberale prefascista, il Pubblico Ministero dipendeva dal ministro di Grazia e Giustizia, di cui era tenuto a seguire le direttive generali e gli ordini particolari. Ciò comportava, in pratica, che eventuali abusi e illeciti del ceto politico e degli apparati amministrativi erano immuni dall’azione penale. Quanto alla magistratura giudicante, questa era, formalmente indipendente, ma di fatto pesantemente condizionata dal governo, che controllava accesso in carriera, assegnazione delle sedi, promozioni, trasferimenti, nomine dei capi degli uffici, provvedimenti disciplinari.
Non sorprende che, entro tale cornice, la magistratura si sia sempre diligentemente adeguata non tanto alla lettera della legge quanto agli orientamenti e alle intenzioni di tutti i governi in carica. Con l’avvento del Fascismo la subordinazione del potere giudiziario al nuovo regime si realizzò senza traumi. Questo anche se i giudici fascisti non giunsero mai ai livelli di aberrazione dei loro colleghi nazisti; essi furono anche nettamente meno duri nell’infliggere sanzioni.
Ma la lealtà al regime e ai suoi propositi di fondo non fu mai in discussione, come dimostrano l’accettazione e l’applicazione senza protesta delle leggi razziali del 1938. Questa fu la magistratura che amministrò le leggi sull’epurazione. Sarebbe impossibile elencare anche soltanto i più clamorosi casi di sabotaggio, ma occorre almeno indicarne lo schema generale.
La principale legge in materia (DDLn. 159, del 27 luglio 1944) comminava severe sanzioni per i “membri del governo fascista e i gerarchi del Fascismo colpevoli di aver annullato le garanzie costituzionali, distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese, condotto all’attuale catastrofe” (art. 2). La magistratura pretese che si dimostrasse un nesso causale diretto fra le azioni degli imputati e il complesso degli effetti elencati dalla norma. Naturalmente era impossibile dimostrare che alcun individuo singolo fosse personalmente responsabile di tutti questi disastri. In tal modo tutti i più alti gerarchi della nomenklatura fascista evitarono le sanzioni della legge.
Un altro articolo del DDL n. 159 prevedeva sanzioni contro quanti erano accusati “di aver contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il Regime Fascista”. Qui i tribunali tracciarono una distinzione fra lo Stato e il Regime Fascista, che, combinata con il principio del nesso causale, consentì loro di prosciogliere, fra gli altri, Leto, l’ex capo della polizia segreta (l’OVRA), in seguito vicecomandante della polizia della RSI, stabilendo che egli aveva servito lo Stato e non il regime. Si consideri che tutti questi casi riguardavano le alte gerarchie del regime, che erano in teoria passibili di pesanti sanzioni, ma che potevano anche permettersi i più prestigiosi avvocati e avevano la solidarietà dei loro antichi colleghi nelle alte cariche dello Stato.
Diversa la situazione per la massa, soprattutto nella burocrazia, che rischiava misure amministrative, ovviamente meno gravi, ma che potevano comunque comportare licenziamento o quanto meno danni alla carriera. I partiti moderati diffusero alacremente l’allarme, e, benché il danno effettivo si rivelasse ben minore di quello temuto, ne nacque un diffuso risentimento contro l’epurazione, che, si affermava non sempre a torto, colpiva arbitrariamente, soprattutto coloro che non erano stati abbastanza rapidi a iscriversi a partiti di sinistra. Tutto ciò, soprattutto a Roma e nel Sud, contribuì fortemente a screditare, agli occhi dei vasti strati impiegatizi e piccolo-borghesi, non solo l’epurazione ma il processo democratico in quanto tale, creando un clima di simpatia e commiserazione nei confronti dei fascisti “perseguitati”.
Dal canto loro i partiti della sinistra, la cui analisi del Fascismo, condotta nell’esilio, era ancora molto astratta, sottovalutavano il grado di coinvolgimento dell’intera società italiana col regime, e non erano preparati alla reazione di rigetto generalizzato che questi strati misero in atto nei confronti della “defascistizzazione”. Un decreto legge del 7 febbraio 1948 avrebbe poi liquidato definitivamente l’epurazione, disponendo la riammissione anche nei gradi più alti della burocrazia degli ex funzionari del regime, con ricostruzione della carriera: mancavano due mesi alle decisive elezioni del 18 aprile, e la DC aveva bisogno dei voti degli ex fascisti.
Molto benevolo fu anche il trattamento ‘cui vennero sottoposti i crimini fascisti. Le dure condanne emesse subito dopo la guerra furono spesso annullate o fortemente ammorbidite nelle istanze di giudizio successive e da tribunali speciali, che a volte assolsero anche quanti portavano le maggiori responsabilità, a cominciare dallo stesso comandante dell’esercito di Salò, il maresciallo Graziani.
Di grande importanza per il ruolo che il protagonista avrebbe poi svolto nelle attività della Destra radicale fu il caso di Junio Valerio Borghese, il principe romano che, dopo essere stato un valoroso comandante di sommergibili durante la guerra, aveva poi capeggiato la X MAS, una delle unità divenute più tristemente famose nella lotta antipartigiana. Ma Borghese si era mantenuto in contatto con i Servizi americani e inglesi, che, al crollo della RSI, si diedero da fare per salvarlo. All’atto della resa egli fu immediatamente preso sotto la protezione di James J. Angleton, capo in Italia dell’OSS (Ufficio Servizi Strategici), che sarebbe divenuto in seguito dirigente della CIA a Roma, e, infine capo (molto discusso) del controspionaggio CIA a Washington.
Il processo per crimini di guerra era inevitabile, ma, grazie alle sue amicizie, Borghese riuscì a rinviarlo fino al 1947. Il giudice naturale era quello di Milano, dacché la X MAS aveva operato nel Nord, ma la Corte di Cassazione “rimise” il processo a Roma. dove l’influenza della famiglia di Borghese era in grado di ottenere un clima più favorevole. Ciò non di meno, i crimini delle bande di Borghese erano troppo evidenti e la sentenza (emessa soltanto nel 1949) non poté essere che l’ergastolo. Questo in teoria. In pratica la Corte, con una scandalosa applicazione di attenuanti, misure di clemenza e decorrenza dei termini, ridusse la pena a sette anni, il che, tenuto conto della carcerazione preventiva, consentì allo sprezzante “principe nero”, di ottenere immediatamente la libertà.
Poche parole, infine, su un’altra, molto controversa vicenda del tempo, l’amnistia decretata nel 1946 [quella sopra menzionata, firmata da Togliatti, a.s.] per i crimini commessi in connessione alla guerra civile. Questa era stata pensata come un gesto di riconciliazione nazionale, indirizzata in particolare alla base fascista, responsabile di reati minori; il testo escludeva esplicitamente dai benefici dell’amnistia quanti si erano resi colpevoli di “sevizie particolarmente efferate”. La formulazione era molto infelice: “riesce difficile comprendere come a persone immuni da sadismo possano essere sembrate troppo poco le sevizie e troppo poco ancora la loro efferatezza, sì da richiedere che quella fosse particolare. La Cassazione ne approfittò per affermare che l’amnistia era inapplicabile soltanto quando “i dolori e i tormenti cagionati sorpassino ogni limite della umana sopportazione, e dimostrino in chi li procura non soltanto crudeltà, ma una vera barbarie e obiettiva ferocia”. Il risultato fu la liberazione di torturatori fascisti che si erano resi responsabili delle atrocità più orrende. Nello stesso tempo, su istigazione dei partiti moderati tesi a screditare la sinistra, venne iniziata una serie di processi contro partigiani trattati come criminali comuni. Forse il punto più basso di questa campagna fu raggiunto quando, nel 1954, il Supremo Tribunale Militare riconobbe alle unità della RSI lo status di combattenti regolari (con ciò fra l’altro assolvendo un ufficiale fascista che aveva ordinato l’esecuzione di 102 partigiani) mentre lo stesso Tribunale rifiutava di riconoscere tale status alle formazioni partigiane in quanto “irregolari”. L’indignazione provocata da questa decisione costrinse il Parlamento a varare una legge che riconosceva ai partigiani la qualifica di combattenti regolari, ma ciò non avvenne prima del 1958.””

Malanotte – racconto inedito

0
foto di Maurizio Bonfanti

di Gabriele Galligani

Malanotte

racconto inedito

Apre gli occhi. Sul soffitto della cameretta la spuma dei sogni arretra al riaffiorare dei ricordi. Quando stropiccia le palpebre, sente il trucco pizzicarle il viso. I suoi piedi scivolano fuori coperta fino alla porta. La sua guancia si appoggia alla superficie senza che le orecchie incontrino rumori. Gonfia i polmoni per prepararsi alla scoperta e tira la maniglia, ma la porta resta chiusa. Molte ore ancora la separano dalla scuola di indomani.

«Ti sbrighi?!»

Chissà quante ore prima, il suo pugno aveva bussato al bagno. Era quasi il coprifuoco e la casa era ordinata come un albergo, non fosse stato per la muffa alle pareti e gli aloni dei mobili assenti. «Ho sistemato tutto, Silvia!»

Nessuna risposta era giunta dal bagno e la bambina aveva ricacciato giù la sensazione di venire esclusa. Il suo occhio si era avvicinato alla serratura a guardare il caleidoscopio di colori, mentre la puzza di fumo iniziava a infastidirle le narici.

«Dobbiamo sbrigarci!»

Aveva controllato attorno che non fossero rimasti indizi di sé: anche fossero entrati a casa loro, gli spazzacattivi non dovevano trovarla.

Aveva strattonato la maniglia inutilmente. Era corsa al ripostiglio dove aveva sottratto la chiave; anni di giochi solitari le avevano insegnato che le chiavi delle stanze di casa erano intercambiabili. Ma la porta del bagno si era aperta da sola e una donna ne era uscita scalza. Lungo fino a metà coscia, l’accappatoio le lasciava libere le gambe: «Hai sistemato tutto, Aurora?»

«Secoli fa ho sistemato, Silvia».

«Perché non mi chiami mamma come fanno le tue amiche?»

Aurora si era fermata a riflettere mentre la mano deponeva la chiave in tasca.

«Le mie amiche non ti chiamano mamma».

«A me no, perché non sono la loro mamma. Ma la tua, sì».

«Ti chiamerò mamma quando tu mi chiamerai figlia».

«Va bene. Non hai lasciato tracce per gli spazzacattivi, figlia

«Ovvio. Ma che facevi chiusa dentro?»

La donna aveva sorriso e se ne era andata in camera. Aurora le era corsa dietro cercando di seminare il senso di esclusione che la puzza di fumo le suscitava. «Facevi le cose dei grandi?».

La donna si era fermata allo specchio e la sua mano era affondata nel beauty case.

«Mi preparavo per dormire».

«E la puzza di fumo?»

Dopo un attimo di silenzio, la madre aveva risposto senza voltarsi: «Andava a fuoco la vasca e l’ho spenta».

Aurora si era bloccata e il suo cervello aveva preso a macinare: «Va a fuoco quando l’acqua è caldissima?»

La madre aveva annuito mentre la punta della matita le sfiorava l’occhio: «Sì, ma solo dopo una certa ora».

«È per questo che si chiama coprifuoco?».

La fronte corrucciata le dava un’aria da cartone buffo. Gli occhi rifiniti di nero della madre si erano voltati a guardarla. Aurora adorava trattenere la sua attenzione e sarebbe restata ore con gli occhi in quelli della donna, se il cellulare non avesse ronzato. La donna l’aveva estratto dall’accappatoio e zittito con un tocco, dopo aver controllato lo schermo.

Aurora aveva raddrizzato il collo: «Chi ci chiama a quest’ora?»

«Nessuno ci chiama. Avevo messo una sveglia».

«Sveglia? Per cosa, se andiamo a dormire?»

«Per sbrigarci e non fare tardi».

«E perché ti pitturi il viso?»

La madre aveva sorriso e una ventaglio di rughe minuscole si era aperto alle estremità degli occhi: «Per essere bella nei sogni».

«Anch’io voglio essere bella in sogno».

Gli occhi della bambina avevano seguito le mani della madre che appoggiavano il cellulare. La donna le aveva camminato incontro con lo sguardo delle cose serie e si era inginocchiata.

«A te non servono trucchi».

«Ma voglio colorarmi la faccia».

«Prima o poi lo potrai fare».

«E quando?»

La madre aveva sorriso: «Tra un bel po’».

«Quando dici un bel po’ vuol dire che non succederà mai».

La madre aveva alzato il braccio ad accarezzarle i capelli, mentre gli occhi della bambina scendevano a vagare nella scollatura per sfuggire all’espressione triste della donna.

«Speriamo».

La madre era risalita a livello adulto con fatica, aveva raggiunto l’armadio e si era sfilata l’accappatoio: «Corri a letto che arrivo per la buonanotte».

«La buonanotte? Non dormiamo insieme?»

«Stanotte no».

Aurora aveva fatto due passi prima di fermarsi davanti al cellulare incustodito. Aveva gettato un’occhiata alla madre nascosta dietro l’anta e aveva allungato la mano come a sottrarre una caramella. Aveva premuto l’unico tasto e si era imbattuta nella richiesta del codice a quattro cifre. Immaginando fosse una parola magica per superare il livello, si era chiesta quale numero fosse così importante per sua madre. Aveva composto le cifre del proprio giorno-della-torta, ma lo schermo aveva tremato come scuotendo la testa a negarle l’accesso. La sua bocca si era piegata per la delusione di essere esclusa, un’altra volta.

«Quando è il tuo giorno-della-torta, mamma?»

«Perché, figlia?» Parti del corpo della donna sbucavano da dietro l’anta di tanto in tanto.

«Per farti una torta!»

«Non serve».

«Non serve?», Aurora si era fermata a rovistare nel cervello: «Tutte le mie amiche fanno la torta alle loro mamme!»

«Va bene. Il quindici marzo».

Le unghie smangiucchiate si erano mosse a digitare le cifre. Il cellulare era stato un secondo immobile. Poi, come generandolo dal nulla, lo schermo aveva materializzato uno scambio di messaggi.

La maestra non aveva avvisato Aurora del dolore che provoca il saper leggere. La piccola si era tenuta al ripiano mentre il petto aveva tremato per la bugia: non avrebbe mai creduto che la scoperta che gli spazzacattivi non esistono potesse provocarle quel dolore. In realtà, non avrebbe mai creduto che potesse esistere, quel dolore.

Dopo che nessuno, a casa come a scuola, era mai riuscito a spiegarle cosa fosse la morte, quel messaggio le rivelava come tutto il bello vissuto nei sette e passa anni precedenti fosse finto, un inganno inscenato da colei che ti ha messo al mondo: ti ha promesso la felicità e poi ti esclude mandandoti a letto mentre gli altri fanno festa.

Il beauty stava incustodito poco sopra la sua spalla. L’apertura zigrinata era semiaperta come una bocca da cui la lingua dispettosa del rossetto faceva capolino. Aurora aveva spalmato di nero gli occhi e preso a colorarsi il viso come se lo specchio in cui si rifletteva fosse un ritratto da pasticciare.

Quando il busto della madre l’aveva affiancata nello specchio, quattro occhi dipinti avevano preso a studiarsi dentro la cornice. La mano della donna aveva acchiappato il braccio della bambina.

«Non è il momento, ti ho detto».

Aveva tentato di spostarla piano, ma Aurora si era dimenata facendo cadere il rossetto aperto. Una striscia rossa e sottile si era allungata a terra, come traccia del sorriso che Aurora non aveva più. «Sei una bugiarda. Non esistono gli spazzacativi, non esiste babbo natale e magari neanche i pompieri».

Lo schiaffo le era piovuto sopra come un temporale.

Immobilizzata da una sensazione mai provata, Aurora aveva osservato le stanze di casa scorrerle davanti agli occhi mentre la madre la trascinava via. Solo una volta ingabbiata sotto il peso del piumino, aveva sentito la voce della donna parlarle calda.

«Dammi la buonanotte, dormiamo e dimentichiamo tutto».

Aurora aveva sbattuto le palpebre senza staccare lo sguardo dal soffitto: coperto dal velo di lacrime, le sembrava il fondo di una piscina quasi vuota.

La madre si era fermata un’ultima volta dietro l’uscio. Aurora aveva visto il ventaglio di luce restringersi e udito la serratura chiudersi. Si era promessa di non dormire, ma il sonno le era crollato addosso prima che il fuoco dello schiaffo sulla guancia  fosse estinto.

 

A sette anni, la notte è un oceano che separa i continenti diurni. Aurora guarda la porta dietro cui era scomparsa la madre chissà quante ore prima. Porta la mano alla tasca e afferra la chiave sentendosi protagonista di un gioco ben congegnato: nel livello precedente se ne era impossessata e solo per questo potrà proseguire. Si sistema i capelli e avvicina la chiave alla caverna della toppa. Malgrado ci metta tutta la delicatezza delle sue mani bambine, lo scattare della serratura straccia il silenzio come fosse un foglio di carta. Il cigolio che segue è come quello di un forziere.

La notte copre le superfici di casa col suo lenzuolo scuro. Aurora avanza finché il bagliore della finestra la richiama. Quando la raggiunge, riconosce il riflesso del proprio viso sul vetro. Il verde degli occhi è grigio e altri colori messi a caso le coprono le guance fino al mento: il trucco seccato la fa sembrare figlia di un clown in malora. Dietro la propria faccia impalpabile, o davanti, oltre a lei oppure dentro di lei, vede le strade, i tetti, i parchi e i lampioni della città. Allunga il dito sul vetro a contare le palle di luce crepitanti. Prova a farle scoppiare come bolle di sapone, mentre si chiede se è forse quello il divertimento da cui la madre vuole escluderla.

Non sembrano umane le voci che si avvicinano. Quando si volta, la porta d’ingresso si sta aprendo. Aurora percorre il corridoio e si rifugia nella stanza, dove il lettone della madre è liscio come se nessuno l’avesse mai sfiorato. Le voci occupano la casa mentre la porta esterna si richiude. Le risa risuonano in camera un attimo dopo che Aurora si è murata viva nell’armadio. Le pareti sono fredde contro le sue braccia. Il profumo di lavanda la stordisce malgrado le prese d’aria nelle ante, feritoie orizzontali che l’accecano quando la luce in stanza viene accesa.

La madre ride come non l’aveva mai sentita: una risata tagliente che non comunica gioia ma reclama attenzione. Dagli spiragli, vede un uomo bloccarsi sull’uscio. Quell’uomo le sembra uguale a tanti altri.

«Hai figli?»

«No».

«E questo?» L’uomo sventola un disegno che Aurora deve aver lasciato chissà dove.

«L’ho fatto io», risponde la madre.

«Allora siamo soli?»

Aurora guarda il profilo della madre. Sono così vicine che, se allungasse il braccio, la toccherebbe.

«Solissimi», la sente dire.

Il colpo della schiena contro l’anta la fa sobbalzare dentro. La notte scende nell’armadio e dura a lungo. Pochi centimetri di legno separano Aurora dai corpi che coprono la luce e gemono come in lotta.

Quando i due s’allontanano, gli occhi della piccola faticano a vedere. Oltre le feritoie, nella stanza è calata la penombra. La testa della bambina si svuota e i pensieri la abbandonano, mentre gli abiti appesi nell’armadio le pendono sulle spalle come fantasmi senza gambe di persone ormai andate. I due corpi sono una massa accartocciata a terra: uno straccio contorto sul pavimento che si muove a cancellare la macchia di rossetto che Aurora ha creato.


 

Gabriele Galligani insegna italiano, storia e geografia alle scuole medie e audiovisivo e multimediale alle superiori. Suoi racconti sono usciti online e su antologie italiane ed europee. Il suo romanzo d’esordio, “Transagonistica” è pubblicato nel 2021 da Battaglia Edizioni con prefazione di Wu Ming 2.

Giorgio Ghiotti: l’opacità del secolo presente

0

 

Ospito qui alcuni estratti da L’eta dell’oro, plaquette di Giorgio Ghiotti pubblicata per Via Ozanam, nuovo progetto editoriale curato da Ghiotti insieme a Leonardo Laviola.

***

 

Mi è capitato qualche volta

camminando per certe vie del centro,

in via Olona per esempio

o dalle parti di Lupetta di sentirmi

ancora dentro il Novecento. Perché è da lì

che vengo, se pure in coda io ci sono

nato, sono una sua creatura e mi contento

di scrutarla a distanza l’opacità del secolo

presente.

 

*

 

Mi ci infilo nella ruggine dei secoli,

ci sguazzo felice come la formica

esploratrice, mi ci immergo per portare

alla luce dal liquame nero del tempo

una materia inesplorata remotissima.

 

*

Per questa vicenda e per la tua terrestre

io mi facevo animale da tiro, gli occhi

impazzavano nel buio come stelle,

bucavano le pareti della mia immaginazione

chiedevano più luce, prospettiva nuova

e tutto per salvarti.

 

Mots-clés__Condoglianze

0

 

Condoglianze
di Daniele Ruini

Sébastien Tellier, Adieu -> play

__

__

Philip Larkin, Sympathy in White Major (dalla raccolta High Windows/Finestre Alte, Einaudi, 2002 [1974], traduzione di Enrico Testa)

Condoglianze in bianco maggiore

Quando faccio cadere con un tintinnio
quattro cubetti di ghiaccio in un bicchiere,
e aggiungo tre parti di gin, una fetta di limone,
e ci vuoto un quarto di tonica
in spumeggianti fiotti finché ricopre
ogni cosa sino all’orlo,
levo il tutto in un privato brindisi:
Egli dedicò tutta la sua vita agli altri.

Mentre altra gente consumava come vestiti
gli esseri umani e i loro giorni
io mi dedicavo a portare le immagini smarrite
a coloro che pensavano che ne fossi capace;
non ha funzionato né per loro né per me;
ma tutti insieme eravamo e più vicini
(o almeno così si credeva) a tutta quella confusione
che se l’avessimo perduta ognuno per conto suo.

Un buon diavolo, proprio una brava persona,
dritto come un fuso, uno dei migliori,
fidato, onesto, spiritoso,
di una spanna più degli altri;
quante vite sarebbero state più noiose
se lui non fosse stato qui?
Brindo all’uomo più bianco che conosco
anche se il bianco non è il mio colore preferito.

When I drop four cubes of ice
Chimingly in a glass, and add
Three goes of gin, a lemon slice,
And let a ten-ounce tonic void
In foaming gulps until it smothers
Everything else up to the edge,
I lift the lot in private pledge:
He devoted his life to others.

While other people wore like clothes
The human beings in their days
I set myself to bring to those
Who thought I could the lost displays;
It didn’t work for them or me,
But all concerned were nearer thus
(Or so we thought) to all the fuss
Than if we’d missed it separately.

A decent chap, a real good sort,
Straight as a die, one of the best,
A brick, a trump, a proper sport,
Head and shoulders above the rest;
How many lives would have been duller
Had he not been here below?
Here’s to the whitest man I know-
Though white is not my favourite colour.

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Produrre il cibo nell’Antropocene

2

di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

In risposta all’impennata dei prezzi dei concimi, dei carburanti e dei prodotti chimici utilizzati dalle aziende agricole, Giovanni Dinelli, grande esperto del biologico e professore a Bologna, propone un tavolo dove siedano assieme i rappresentanti dell’agricoltura convenzionale e della biologica. La prima deve lasciar perdere le sue preclusioni nei confronti della seconda, sostiene, la quale deve uscire dalla sua nicchia, mettendo sul piatto la sua comprovata capacità di ridurre drasticamente gli input produttivi e i ridotti impatti ambientali. E questo per cercare soluzioni comuni.
Per molti versi Dinelli ha ragione, l’agricoltura di molti paesi ricchi e meno ricchi è in profonda crisi. Quella convenzionale/industriale per le basse remunerazioni che accompagnano gli irrimediabili danni ambientali che crea, e perché è terribilmente energivora, come si sosteneva da tempo, e come ora anche i più scettici sono costretti a constatare. Produce molto, a ettaro, ma consumando, in particolare per quanto riguarda i concimi chimici, molto petrolio. Ma anche quella biologica fatica a gestire la crescita degli ultimi anni, come testimoniano i dibattiti in seno alle sue strutture, che partono dalla presa di coscienza di un suo diffuso appiattimento alla mera osservanza dei protocolli che essa stessa si è data, che escludono i prodotti di sintesi. Ma con logiche analoghe a chi questi li usa, perdendo di vista il suo grande punto di forza, l’approccio sistemico. E vede incrinarsi la sua immagine nei confronti del grande pubblico, per lei fondamentale (la sua crescita è stata sostenuta dai suoi acquirenti, disposti a pagare di più), messa a prova da frodi e soprattutto da questa interpretazione minimale, e in molti casi dettata da semplici ragioni economiche (visti i guadagni superiori), del suo metodo. Con il tempo si vedrà se le flessioni attuali sono solo congiunturali, ma il problema c’è, tutti sono d’accordo.
Si potrebbe allora pensare, con Dinelli, che nelle difficoltà attuali sia giunto il momento che entrambe lascino perdere le rispettive preclusioni, per trovare una via di compromesso, approfittando del fatto che l’unione fa la forza. Soluzione consensuale che potrebbe apparire ragionevole, ma che nei fatti, oltre a essere completamente irrealistica, sarebbe in fondo anche controproducente. Mi sembra anzi molto interessante che coesistano due strategie intrinsecamente diverse, in un settore più che essenziale, viste le enormi superfici interessate, i suoi determinanti impatti su ambiente e atmosfera, il suo ruolo di produzione delle derrate alimentari e di preservazione dei paesaggi. A ben guardare è proprio qui che i margini di manovra, e il rapporto costi/benefici degli interventi è molto superiore agli altri. Ricordando che l’agricoltura europea, e ancor più quella degli Stati Uniti, sono molto sovvenzionate (con gravissimo danno delle agricolture dei paesi poveri), e quindi la mano pubblica ha una decisiva voce in capitolo.

 

L’ANIMA PIU’ DIROMPENTE DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA

Se consideriamo la storia dell’agricoltura biologica, quale ce la racconta per esempio, per l’Italia, Massimo Ceriani (su Altronovecento, 2020), si evince che questo approccio è riuscito a crescere e a imporsi perché era sostenuto da una grande spinta ideale “alternativa”, caratteristica dell’ultimo terzo del secolo scorso. Se ha ottenuto i risultati che nessuno può ora negare, è grazie a agricoltori e agronomi considerati visionari e velleitari in un’epoca in cui dominavano incontrastati i diktat della chimica e dei pesticidi, e che con il loro lavoro controcorrente sono invece riusciti a aprire una nuova via, basata su modi di coltivazione che non danneggiano i suoli, preservano la biodiversità e richiedono poca energia. Persone che per anni hanno sperimentato con perseveranza tecniche e strategie in accordo con il funzionamento della natura, confrontato esperienze, condiviso conoscenze, partendo dal basso, snobbati dal mondo della ricerca scientifica, senza il supporto di alcuna struttura pubblica. Non per niente il sociologo francese Bertrand Hervieu, grande conoscitore del mondo rurale, definisce l’agricoltura biologica come un laboratorio di ricerca. La stereotipata immagine denigratoria che ancora oggi ne ha una parte del mondo scientifico italiano, si è visto nel corso del dibattito sulla nuova legge che disciplina il settore, sottintende nei fatti la più completa ignoranza della storia di questa corrente, e una concezione elitistica della scienza, aliena allo sviluppo dell’agricoltura, dove l’agire di ogni soggetto ha costituito per millenni la base per ogni avanzamento (miglioramento delle sementi, delle tecniche …).
I problemi attuali più grossi dell’agricoltura biologica nascono dal fatto che questa forza propulsiva, legata al fermento culturale e morale delle generazioni precedenti, è diventata molto più blanda, o forse meglio più rara. Attualmente il biologico mette a frutto e gode dei risultati che ha raggiunto, al punto di costituire uno dei pilastri della politica ambientale dell’Unione Europea (il “Green Deal”), cosa impensabile qualche decina di anni fa. Di esso viene però presa la versione corrispondente ad un mero rispetto dei protocolli legislativi, la sua casacca minimale, piuttosto che la sua visione olistica, solo autentico presupposto per la svolta agro-ecologica auspicata. E lui stesso si arrocca molto spesso in questo ruolo confortevole ma non molto glorioso, e soprattutto vulnerabile nei confronti di attacchi e critiche. Anche il suo essere viepiù fagocitato dalla grande distribuzione, che ha le sue regole e le sue distorsioni (conformità dei prodotti, guerra al ribasso delle remunerazioni ai coltivatori …), è molto problematico.
Tutte le sue teste pensanti sono coscienti, in Italia come altrove, che questo impasse è molto pericoloso, e che per progredire, e non essere fagocitata dall’agricoltura convenzionale, sempre più cosciente dei propri guasti ambientali, e sempre più spregiudicata nel maneggiare nuove armi di comunicazione (i vari marchi quali quello “zero residui”, che nulla garantiscono quanto a tecniche di coltivazione rispettose dell’ambiente), le occorre una nuova spinta. Ha bisogno di un nuovo slancio collettivo, una nuova saldatura con la visione sistemica delle sue origini, massicce sperimentazioni, nuove forme di fare rete e realizzare filiere. C’è certo un centrale aspetto economico, visto che nei fatti la ricerca pubblica nel settore biologico rimane nei fatti marginale (in Francia ne ha preso atto quest’anno la stessa Corte dei Conti, e non parliamo dell’Italia), sebbene a livello istituzionale si parla molto di biologico. Ma i finanziamenti non sono tutto. La forza del movimento del biologico, come forse quella alla base di qualsiasi vero cambiamento, è stata quella di crescere bottom up, da una miriade di soggetti animati da una visione controcorrente, dal loro sperimentare e creare assieme conoscenze, coinvolgendo un numero crescente di cittadini disposti a sostenerli, pagando di più. Il che rimane pur sempre una forma di militanza, anche se certo la preoccupazione per la propria salute personale può divenire preponderante (non conosco studi in materia, ma mi sembra che le due cose vadano piuttosto a braccetto).

 

L’INERZIA DELL’AGRICOLTURA CONVENZIONALE

Nello stesso modo non si può pensare che l’agricoltura convenzionale, con le agroindustrie che ne costituiscono la spina dorsale, e l’influenza che queste esercitano sul suo funzionamento e sulle organizzazioni di categoria, a loro volta determinanti per le politiche agricole dei vari Paesi (e europee), si pieghi di un punto in bianco alla visione dell’agricoltura biologica, e tanto meno nella sua versione più genuina, quella olistica e sistemica. E’ una ingenuità delle quali le stesse politiche dell’Unione Europea prendono atto, con gli intoppi che ci sono stati durante le trattative per l’adozione della nuova PAC, e le resistenze ai suoi programmi che rappresenterebbero autentiche svolte (un minimo di 25% di superfici adibite a biologico entro il 2030 …). La verità è che una visione profondamente diversa da quella attuale, in netta contraddizione con i radicatissimi modi di pensare e di fare degli ultimi settanta anni, e con la capillare organizzazione industriale (focalizzata su pochi fattori in gioco, ignorando gli altri) delle colture, non si può imporre dall’alto, tanto meno da un momento all’altro, e in un clima di grande incertezza e di redditi in calo.
L’agricoltura convenzionale deve quindi trovare da sola i modi per essere meno impattante, non devastare i suoli, consumare meno energia, produrre cibi più sani. E’ una scommessa molto difficile, e forse impossibile, perché coltivare senza fare grossi danni è molto più complicato quando si tratta di grandi superfici, per le quali si utilizzano sementi e procedure standardizzate (globalizzate), completamente slegate dalle condizioni e dalle microvariabilità locali, e con personale che non ha le conoscenze e non ha a cuore il rispetto della natura, non partecipa alla messa a punto dei miglioramenti, punto di forza di ogni approccio agro-ecologico. Si pongono grandi speranze nelle nuove tecnologie, quasi queste potessero risolvere qualsiasi problema di compatibilità ambientale, bypassando le conoscenze dei singoli spezzoni di territorio e dei fattori biotici e abiotici in gioco, e dall’infinità di mix nei quali si organizzano. E si fa molto affidamento sull’agricoltura di precisione, ma se le conoscenze sull’ambiente coltivato e sulla vita che vi si svolge (microrganismi, micorrize, lombrichi, insetti …) sono imprecise o inesistenti, se gli operatori sono passivi esecutori, come è regola, anche i più sofisticati strumenti di geolocalizzazione e i più sensibili sensori non aiutano a capire i problemi, primo passo per affrontarli e risolverli a livello locale assecondando le specifiche dinamiche ecologiche. Andranno quindi valutati i loro effettivi contributi a forme di coltivazione meno nocive e dispendiose, più adatte alle condizioni locali, più integrate nella complessità dei sistemi naturali, più partecipate, e questo ponendo un’attenzione particolare ai loro consumi energetici.
In molti Paesi (non è il caso dell’Italia, nel Piano di Rilancio non c’è nulla in questo senso) si stanno spendendo grandi risorse per l’innovazione tecnologica in agricoltura, vedremo i risultati. Per ora si ha l’impressione che si speri di trovare, e per interesse diretto le agroindustrie alimentano questa fede incondizionata, soluzioni miracolo di vario tipo (varietà modificate, tecniche altamente automatizzate …), quando i bilanci oggettivi sono ben magri. L’ecologo Alf Hornborg avvicina questa fiducia alle credenze magiche alle quali indulge spesso il capitalismo (Global magic, 2012). E non è sufficiente che siano disponibili le tecnologie, bisogna anche che esse siano applicabili a larghissima scala (la caratteristica dell’agricoltura è di occupare aree enormi), in situazioni molto diverse, senza consumare troppa energia, anche solo in forma indiretta. L’agricoltura è l’attività che permette di trasformare l’energia solare in prodotti commestibili (grazie alla fotosintesi), ma se nel processo si è costretti a immettere grandi quantità di combustibili fossili sotto forma di concimi e di mezzi di produzione, ivi comprese le strumentazioni sofisticate, il bilancio diventa molto meno vantaggioso. E non è pensabile di sopperire alle grandi richieste delle pratiche attuali solo con le energie rinnovabili.
Il problema forse maggiore è che le agroindustrie non monopolizzano solo il mercato delle sementi, dei concimi, e dei mezzi meccanici, ma anche il settore della ricerca e delle conoscenze, e di conseguenza il dibattito. La ricerca agronomica e il confronto sulle questioni agrarie sono in realtà permeati da assunti arbitrari, da valutazioni senza fondamento, da negazioni della realtà di fatto. E’ il caso della focalizzazione sulle rese per ettaro, quantificazione miope che non considera e non monetizza i danni ai suoli, alle acque, agli organismi viventi (compresi i più essenziali proprio all’esistenza delle colture, quali gli insetti pronubi), alla biodiversità (anch’essa determinante per le colture), alla salute umana, all’occupazione, alla qualità e alla percezione del paesaggio. Solo per purificare una frazione infima delle acque contaminate da nitrati e pesticidi, si spendono annualmente in Francia tra 0,5 e 1 miliardo di euro. Se però qualcuno osa mettere in discussione le valutazioni in base alle sole rese a ettaro, viene tirato fuori, è successo di recente, l’argomento della fame nel mondo, piaga che nei fatti non trae alcun giovamento dalle nostre eccedenze, ma è anzi il risultato delle nostre agricolture fortemente sovvenzionate.
Ne risulta che qualsiasi valutazione complessiva dei sistemi agrari che superi i vari impatti specifici e misurabili  (inquinamento delle falde, emissione di gas a effetto serra, bilanci energetici …) è viziata da assunti infondati, e si scontra con credenze travestite da verità scientifiche o economiche. I governanti non hanno quindi strumenti per decidere in autonomia dalle convenienze dei grandi gruppi dell’agrochimica e della fetta maggioritaria degli addetti al settore che si trascinano dietro. E’ necessario, nell’interesse generale, che una parte più consistente della ricerca non si pieghi alle schiaccianti influenze di questi ultimi, e il mondo agricolo convenzionale ne diventi più indipendente.

 

IL DIBATTITO SUL FUTURO

L’agricoltura biologica e quella convenzionale si confrontano insomma a problemi simili, di portata drammatica, si è visto con la siccità delle ultime annate, e devono entrambe limitare gli apporti energetici, mirando a minimizzare gli effetti negativi e a aumentare la biodiversità, adattandosi alle condizioni climatiche ben più difficili. Entrambe dovrebbero riuscire a limitare lo strapotere dei colossi dell’agroalimentare, che hanno assorbito in Europa come in America i distributori della produzione biologica, e dell’agrochimica, i quali dominano incontrastati il mercato dei beni agricoli e delle idee sull’agricoltura. E senz’altro le due devono imparare a comunicare, superando l’arroccata contrapposizione del passato, senz’altro la seconda può mutuare preziose tecniche dalla prima (in parte si tratta di procedure tradizionali che essa ha dimenticato), certo potranno esserci interessanti aree di collaborazione, in particolare per certi aspetti tecnologici.
Alla luce delle considerazione che precedono mi sembra però improbabile che nell’immediato futuro i due approcci possano procedere mano nella mano, come auspicano Dinelli, e prima di lui anche il “Manifesto di Brescia” stilato nel 2015 a conclusione del convegno organizzato da Fondazione Luigi Micheletti e Slow Food Italia. La prima ha bisogno di una nuova radicalità, restando più fedele al suo approccio sistemico e agroecologico, che è la sua forza. E deve trovare i modi di fare rete, e di farsi spalleggiare dai suoi acquirenti, per non essere soffocato dai colossi della distribuzione, aprendo nuove strade che possano funzionare come esempi, come ha saputo fare in passato.
La seconda deve avere una maggiore capacità di guardare dentro sé stessa, di una maggiore onestà, di provare che è capace di trovare soluzioni meno impattanti e meno energivore, entrando in sintonia almeno in parte con la complessità della natura, che finora ha ignorato. Riuscirà a attuare la rivoluzione copernicana di non considerare le coltivazioni delle piante meccanici processi industriali? Riuscirà a mutare pelle senza mettere in discussione la spregiudicatezza e l’arroganza di chi tiene le sue redini, senza un minor asservimento del mondo della ricerca, senza diminuire il suo potere sui dirigenti politici, senza una maggiore orizzontalità, e più partecipazione dei suoi addetti, senza arrendersi all’evidenza che i territori sono molto diversi, che bisogna conoscerli? Ora sembra improbabile, ma gli stravolgimenti climatici e di prospettive che ci aspettano cambieranno forse, si spera in modo non troppo brutale e violento, le carte in tavola.
In ogni caso l’articolazione tra i due approcci di questo settore capitale (ponendo l’accento, a differenza dell’economia in senso stretto, sui problemi ambientali e sull’alimentazione degli uomini) è forse paradigmatica di due correnti che vedremo opporsi nei confronti della crisi ambientale nel suo insieme, uno che mette in discussione i fondamenti, “rivoluzionario”, e uno conservatore, restio ai cambiamenti profondi. Il problema è che il confronto è impari, e i dibattiti sono sfalsati, in particolare sui mezzi di informazione. La critica del concetto di natura come uno spazio esterno all’uomo e in cui esso può fare quello che vuole, senza contraccolpi e agendo da despota assoluto, sono ormai assodate sia nel mondo scientifico che in quello umanistico (il compianto Bruno Latour, Isabelle Stengers, Philippe Descola …). Sono però modi di vedere che restano riservati a una piccola elite, sebbene la coscienza dei disguidi e il timore del futuro siano ormai generalizzati. L’educazione quando va bene risveglia la sensibilità ai problemi ambientali, ma non fornisce una formazione sui meccanismi funzionali della natura, non fornisce strumenti di comprensione. Le persone conoscono i nomi e le caratteristiche tecniche delle automobili e dei modelli dei telefoni, e di tanti gadget tecnologici, non delle piante e dei lombrichi, non conoscono i tratti generali cicli del carbonio e dell’azoto, sebbene la loro esistenza dipenda da essi. Non a caso i ricercatori che studiano la natura, le testimonianze sono sempre più frequenti, si sentono così soli e abbandonati a loro stessi. Come fare sì allora che le persone possano orientarsi e pesare, come potrebbero accedere a informazioni affidabili, come possono difendersi dalle teorie interessate e dalla strategia di rendere nebbiose le problematiche (utilizzata con successo per i danni dei neonicotinoidi sulle api, sulla pericolosità del glifosate …)? Come le decisioni possono essere prese in modo democratico? Sempre ammesso che ce ne resti il tempo, e/o l’urgenza non aumenti ancora lo strapotere di chi considera l’agricoltura una qualsiasi impresa finanziaria.

NdR: questo pezzo è stato pubblicato in forma leggermente più stringata da DISSAPORE, e apparirà a breve su STORIEDELBIO

(la fotografia dell’autore: Santerre (Somme, Piccardia), 2021)

 

Voce di donna. All’inizio, il primo tempo

4

di Paola Taboga

1.

Nel cinegiornale della mia infanzia ci sono io bambina e c’è Luisella bambina.

Mia sorella sarebbe arrivata anni dopo.

Mia madre ha sempre avuto una vera ossessione per l’ordine e la pulizia.   Il suo stratificato compendio di regole assicurava uno stato casalingo di grazia profumata e incorruttibile igiene che rendeva la fruizione della casa materia non negoziabile.  Non mi era certo concesso di invitare le amiche.

L’unica eccezione era Luisella. Abitavamo nello stesso condominio. Noi al terzo piano e la famiglia Montagna – Luisella e sua mamma – al secondo. Luisella aveva perso il padre molto presto, non l’aveva mai conosciuto.

È stata questa mancanza a intercedere per una frequentazione così stretta.

Di ritorno dalla scuola, Luisella scendeva dall’ascensore al secondo piano e io proseguivo al terzo. Dopo la merenda e la telefonata alla mamma in ufficio, Luisella saliva a casa nostra per starci fino a sera. Andavamo in cameretta a fare i compiti, a giocare, leggevamo i giornalini, oppure ci fermavamo in salotto a guardare la TV dei ragazzi. A un certo punto, avevamo preso ad ascoltare anche qualche 45 giri nel mangiadischi di plastica arancione di Luisella e a parlare di altre cose sempre più importanti: “ma dove si mette la lingua quando si bacia un ragazzo?” e parole come “mestruazioni” e “spermatozoi” facevano oramai parte del nostro lessico.

C’erano due rampe di scale fra il secondo e il terzo piano. Spesso anche mia mamma – dopocena, dopo aver lavato i piatti – scendeva per andare a fumarsi una sigaretta “in Montagna”. Succedeva che anch’io la seguissi, per ritagliarmi così una porzione extra di gioco con Luisella. Papà qualche volta aveva protestato di fronte al fatto di rimanere solo. Poi, a un certo punto, non aveva detto più nulla.

E io, ogni tanto, mi costringevo a rimanere a casa con lui, spinta da una sorta di istinto.

Per risarcire quella sua solitudine. Quei rimbalzi di indifferenza.

Ma mi era anche capitato, mentre ero a casa di Luisella, di ascoltare i discorsi delle due mamme. E spesso avevo sentito mia madre lamentarsi dei lunghi e secchi anni del suo matrimonio. Non saprei dire cosa replicasse la madre di Luisella. Forse ascoltava e basta. Ricordo molto bene, invece, la novità che quelle parole portavano: una impercettibile fessura, una sottile cosa insolita, una minuscola anima nuova, dentro.

Qualche volta, la mamma di Luisella tornava tardi dal lavoro per gli “straordinari”, e io immaginavo qualcosa che, siccome accadeva di rado, dovesse essere davvero stupefacente. E poi la parola “straordinari” evocava proprio qualcosa di enorme e sbalorditivo. La guardavo sempre con attenzione quando tornava dagli “straordinari” per capire quale meraviglia l’avesse tenuta ancora più lontana da casa e da Isa. E poi, a causa degli “straordinari,” Luisella rimaneva da noi a cena, il che aumentava il fascino già straordinario degli “straordinari”.

Quella volta, era una sera con la solita spossatezza degli adulti, una stanchezza buona però, con una rara glassa di buonumore. Papà era già in poltrona e leggeva il Corriere della Sera. La mamma asciugava i piatti. Io e Luisella guardavamo la TV.

La signora Montagna era entrata, trascinando i piedi sulle solite pattine dell’ingresso, mentre si scusava: si sentiva sempre in grande imbarazzo quando faceva tardi, soprattutto quando c’era papà. Fra un “mi spiace tutto questo disturbo” e l’altro, io e Luisella guardavamo i grandi che parlavano da grandi, dandosi delle arie, ammiccando con quei sorrisetti, come se ci fosse qualcosa che potevano capire solo fra di loro. Noi eravamo escluse.

– Questa sera sono davvero esausta.

Stava dicendo la mamma di Isa. E anche la mia aveva annuito, mentre riponeva le posate nel cassetto.

E forse era stato per marcare il territorio da adulti, che il discorso era arrivato su noi, le figlie. Non so come, la signora Montagna aveva suggerito alla mamma di darmi un fratellino. Avevo avvertito qualcosa che si agitava nel petto. E qualcosa doveva essersi mosso anche in quello della mamma perché aveva buttato subito la palla dall’altra parte del campo.

– Lo faccio sicuro, cara signora Montagna, ma dopo di lei!

Si sono sempre date del lei le nostre mamme. A quel tempo, le confidenze avevano dei limiti.

– Oh, questo rischio io non lo corro di sicuro.

– Ma se ha bisogno, posso esserle d’aiuto…

La voce di papà.

La spaccatura della nuova anima si era fatta più larga e, premendo ai lati, l’aveva inchiodata in un vero dolore. Avevo avuto voglia di gridare. Di fare qualcosa di straordinario come gli “straordinari” della signora Montagna. Ero un ordigno in carne e ossa: pronta a esplodere. E mentre la mia piccola nuova anima stava perdendo quel pezzetto dell’incanto dell’infanzia, me ne ero uscita con una delle mie prime esternazioni. Quelle che avrebbero contribuito al formarsi del mio faticoso profilo identitario. Una specie di fuga in avanti, verso la mia verità.

– Io vado di là a leggere, sono proprio stanca. Ah, papà, per piacere, non sprecare così inutilmente i tuoi spermatozoi!

Avevo detto, sospirando. Mi ero voltata verso Luisella.

I nostri sguardi si erano incrociati attraversando l’aria del salotto che si era fatta diversa, più densa.

In quel silenzio, a testa alta, eravamo uscite dalla stanza, insieme.

Spalla a spalla. I respiri uguali. Con lo stesso passo.

 

 

2.

Andare a scuola dalle suore era un privilegio. Mi era stato ripetuto decine di volte.

Era costoso e la mia famiglia affrontava sacrifici notevoli per farmi varcare ogni giorno quel portone di legno enorme, sia per le elementari che per le medie, dove la qualità dell’insegnamento era migliore.

E, quindi, il mio impegno doveva dimostrarsi all’altezza.

Tutto emanava ordine, nella scuola delle suore. I nostri grembiuli neri con colletto bianco. Il divieto assoluto di tenere i capelli sciolti sulle spalle. L’obbligo dei calzettoni bianchi traforati annegati nelle scarpe severe, stringate.

 

L’insegnante di lettere di terza media era una suora giovane dalle guance rubizze innamorata della letteratura.

Teneva moltissimo che le sue alunne non solo imparassero a scrivere senza errori, ma riuscissero ad appropriarsi della gioia del racconto, avvicinando il fuoco inarrestabile della narrazione.

Quel giorno la suora aveva deciso di procedere con una valutazione in classe dei temi che avevamo fatto la settimana prima.  In altre parole, dovevamo leggerli ad alta voce.

 

Naturalmente la selezione era cominciata dalle prime della classe che erano brave, è vero, ma erano anche figlie di persone importanti che alla scuola delle suore mandavano tutte le figlie (c’erano sempre, quindi, altre sorelle in altre classi) in una evidente occupazione del suolo scolastico che conferiva indubbi privilegi.

Alessia De Donati era per certo la migliore. Al cognome, che echeggiava di lignaggio araldico, corrispondeva l’erre moscia, altro segno di superiorità. “Mio padve dice sempve che…” Bastava questo modo di parlare – col labbro increspato, vibrante nell’aria, e anche se così si evidenziava ancora di più la peluria scura che lo sovrastava – a far capire che la De Donati apparteneva a un casato di grande levatura. E poi, quello stesso padre l’aiutava a fare delle ricerche magnifiche. Immaginavo che la De Donati abitasse in una casa enorme, luminosa – anzi, accecante – e senza mobili, dove c’era solo un grande tavolo per fare i compiti. E poi quella casa doveva contenere tutte le enciclopedie del mondo e ogni rivista esistente, giornali e documenti che parlavano di tutti gli argomenti delle nostre ricerche. Senza contare che disponeva anche di strumenti unici dato che portava le famose ricerche confezionate su fogli protocollo addirittura rilegati con dei punti metallici al centro, scritti in modo perfetto e corredati da foto speciali che illustravano i testi. Quei lavori straordinari rimanevano esposti, attaccati con una puntina al muro della classe, per mesi.

Lavinia Borrani, invece, era un altro tipo di brava. Studiava senza sforzo ed esibiva una disinvoltura su qualsiasi argomento capace di elevarla sopra tutte noi. E poi la Borrani spiccava anche – e forse soprattutto – per i vestiti straordinari, le gonne fruscianti e colorate valorizzate da calze e scarpe in tinta. Nonostante i grembiuli neri obbligatori attutissero tali primizie di vanità, era impossibile evitare di notarla, anche perché si liberava del grembiule appena suonava la campanella di fine lezione. E poi Lavinia Borrani sfoggiava cartella e astuccio nuovi ogni anno e i suoi libri erano protetti da copertine di plastica variopinta. Lavinia Borrani era ovviamente bionda con una pelle bianchissima.  Però aveva caviglie e ginocchia grosse, e questo appannava parecchio la sua grazia da madonna. Un dettaglio su cui la   munifica famiglia non poteva intervenire.

I temi della De Donati e della Borrani erano senza errori, ma mediocri. Le loro letture senza inciampi, erano sembrate monotone. Il commento della suora e della classe era stato breve. Genericamente positivo e stop.

Poi la suora si era messa a far passare i fogli protocollo per sceglierne un altro. La preoccupazione sfrigolava, sul punto di bruciarsi in ansia. Solo la De Donati e la Borrani potevano affrontare una correzione in viva voce e in diretta senza il rischio di uscirne umiliate. Noi – le altre, quelle normali, quelle senza padre onnipotente e dispensatore di donazioni speciali all’ordine delle suore dell’istituto – non potevamo affidarci ad alcuna rete di sicurezza.   E quindi, la voce di Luisella si era infilata come una lama fiammeggiante nel silenzio di quell’attesa.

– Leggiamo quello di Camilla, suora?

La verità era che io e Luisella avevamo litigato un po’ il giorno prima.

Quella sua richiesta era una vera e propria vendetta.

Avevo scritto diligentemente il mio tema sul foglio protocollo piegato a metà. Non avevo altro merito, in quel momento, alzandomi dal banco. La gola era secca. L’ansia, si mischiava alla rabbia verso Luisella. Mi era sembrato di sentirla crepitare sotto i piedi quella rabbia, mentre procedevo verso la cattedra, la postazione da cui si doveva leggere. Di fronte a tutte le compagne. La suora, in fondo alla classe, rimaneva in piedi ad ascoltare. Pareva un grande uccello nero, minaccioso.

Avevo scelto il tema che chiedeva di commentare un fatto di attualità e avevo raccontato il primo rapimento avvenuto in Italia, quello di Milena Sutter.

Non ero convinta di quel tema. L’avevo scritto d’istinto, dopo aver sentito il telegiornale insieme ai miei genitori, che commentavano sgomenti quel fatto inusitato. Avevo ascoltato con attenzione la loro indignazione, lo sconcerto. Ne parlavano spesso, in una evidente tensione. E poi, poco a poco, avevo capito. Era chiaro che mamma e papà stavano parlando di me. Perché, quello che stavano dicendo a tavola, mentre mangiavamo la minestra a cena, era che loro non avrebbero potuto sopportare un fatto del genere, cioè se avessero rapito me. E, proprio solo pensando a questo, erano preoccupati, tristi, arrabbiati.  Anzi, di più. Erano affranti. In-con-so-la-bi-li.

Mi si era stretto il cuore. E avevo immaginato di essere stata rapita. Mi ero vista tornare a casa, dopo essere riuscita a liberarmi e a scappare da sola, stanca, sporca e coi vestiti stracciati. E loro mi avevano accolta piangendo, la mamma singhiozzava proprio come quando era morta la nonna. E mi avevano abbracciata stretta stretta, baciata, dicendo che era meraviglioso ritrovarmi, che ero stata bravissima, una vera eroina. Avevo anche sentito una musica, mentre mi accoglievano, promettendo fra le lacrime che avrebbero fatto qualsiasi cosa per me. Sempre. Proprio come in un film.  Improvvisamente, la mia vita era un film.

Ne avevo però anche concluso, in un inedito pragmatismo, che era meglio essere poveri, anche se questo significava fare sacrifici per la retta della scuola. Ma era molto meglio non dare nell’occhio, e rimanere invisibili a un mondo che poteva essere anche molto cattivo. E non è che fossimo poveri nel senso che mi mancava qualcosa, ma per certo i soldi rappresentavano un’altrove straniero.  Quindi, la cosa migliore era essere lì, nella sala da pranzo coi mobili scandinavi che mio padre stava pagando a rate (lo ripeteva spesso, i debiti non gli erano congeniali), con loro due che pensavano a me ogni momento, anche quando guardavano la televisione che raccontava di Milena Sutter nelle mani dei delinquenti e io, grazie a quella sventura, ero quasi contenta. Perché ero riuscita a capire gli animi di mamma e papà e, grazie a questo, mi sembrava di essere diventata grande anch’io. Come se avessi avuto quindici anni o anche di più.

Naturalmente non avevo scritto quelle cose in questo modo. Quei pensieri e quelle sensazioni – che avvertivo anche come sconvenienti e di cui un po’ mi vergognavo – erano state trasmutate con un impeto lunatico e furioso, sperimentando per la prima volta la vertigine dissipativa ma anche trionfale dell’immaginazione, la possibilità di raccontare per far risuonare il proprio sentire.

In quel momento però, il viso lattescente della suora – ancora più chiaro sul nero del suo abito – si era abbassato sul collo con un cenno minimo. Era il segnale. Dovevo iniziare.

Avevo roteato gli occhi da sinistra a destra, attraversando la classe intera – immobile, nei grembiuli fatalmente neri – in attesa delle mie parole. Forse i ricci della mia coda di cavallo avevano oscillato. Doveva essere stato l’unico movimento, in quella fissità. E poi, non avevo potuto fare altro. Avevo abbassato lo sguardo sul mio foglio protocollo piegato al centro.

Avevo letto senza alzare mai la testa, risentendo in ogni frase la sensazione che l’aveva generata,

le pause, il tremore di certi aggettivi. Ero arrivata in fondo senza fiato e senza più pensieri. Con gli occhi, le orecchie e la bocca pieni di un sapore sconosciuto e la sensazione diffusa in tutto il corpo dello scorrere di quelle stesse parole che avevo immaginato di un azzurro intenso. Non so perché, quelle parole appena lette mi sembrassero turchine, forse perché erano come la fata che può fare qualsiasi magia.

E miracoloso, infatti, era stato l’applauso. Che era partito da Luisella, in piedi, con gli occhi stretti e liquidi in un sorriso talmente spalancato da finire sotto gli occhiali. Con quello sbattere di palmi Luisella stava inaugurando il primo dei molti altri consensi che in futuro avrebbe tributato alle mie parole scritte.  Con quel suo gesto aveva trascinato l’intera classe che, oscillando in una grande onda nera e fragorosa, si era unita al suo primo e solitario riconoscimento, facendone una vera ovazione. Anche la suora, commossa, faceva sì con la testa e mandava da laggiù, dal fondo della classe e del suo abito nero, dei veri bagliori di luce. Sorrideva e applaudiva.

Ero tornata al mio posto senza dire niente, camminando in una bolla.

L’impeto di quell’applauso tonante, era rimbombato nella mia testa per molto, molto tempo.

 

 

Le poesie giovanili di James Joyce

1

 

 

[È appena uscito per Castelvecchi Musica da camera, raccolta di poesie giovanili di James Joyce, a cura di Andrea Carloni, in edizione con testo a fronte e postfazione di Enrico Terrinoni. Ne pubblico una piccola anticipazione. ot]

 

 

 

 

«Che cosa ammirava dell’acqua Bloom? La sua universalità;
l’equità democratica e la naturale costanza nel cercare il proprio livello […]
il suo saper essere perseverantemente penetrante».
[da Ulisse, citato nella postfazione]

 

XXXII

Scesa è la pioggia tuttavia.
O viene sugli alberi ingordi:
Grasse le foglie sulla via
Dei ricordi.

Restando un poco per la via
Dei ricordi noi ce ne andremo.
Vieni, al tuo cuore, cara mia,
Parleremo.

XXXVI

Odo un’armata sulla terra caricare,
E un tuono di cavalli che si tuffano, schiuma ai ginocchi:
Dietro di loro, arroganti, in armature nere,
Sdegnando le redini, con fruste fluttuanti, stanno gli aurighi sui cocchi.

Loro gridano fino a notte i loro nomi di battaglia:
Io gemo nel sonno per quelle risa che lontane stanno vorticando.
Fendono l’oscurità dei sogni, una fiamma che abbaglia,
Sul cuore come un’incudine, risuonando, risuonando.

I lunghi verdi capelli loro scuotono trionfanti:
Urlando sul mare emergono dalla costa correndo in volo.
Cuore mio, non più hai saggezza per quanto ti tormenti?
Amor mio, amor mio, amor mio, perché mi hai lasciato solo?

_

Dalla postfazione di E. Terrinoni:

Tradurre la poesia si può solo con la poesia. E quando questo avviene si affaccia alla finestra il miraggio di un miracolo. Le parole non sono più imposte, ossia, non sono più finestre (se mi è consentito giocare di ambiguità lessicali), ma sono quello che c’è oltre. Quello che si vede di nuovo, quello che si sente di nuovo. Aria nuova, parole nuove, mondi nuovi. Eccolo, il miracolo della traduzione.

Ultima metamorfosi all’aurora | L’arké secondo Heidegger

1
di Ludovico Cantisani

 

Ci sono tre Heidegger: un Heidegger essoterico, un Heidegger esoterico, un Heidegger orante che solo l’impero del tempo ha costretto allo scritto.

Lo Heidegger essoterico è l’Heidegger di Essere e Tempo, di Che cos’è la metafisica, di In cammino verso il linguaggio. Testi nati per essere letti, testi direttamente scritti sulla base di un’esperienza di studio, di insegnamento e di Intuizione filosofica ed esistenziale unica in tutto il Novecento.

L’Heidegger esoterico – esoterico nel senso originario e post-aristotelico del termine, “privato”, “riservato a pochi eletti” – ha lasciato dietro di sé non pochi scritti e dialoghi, con l’esplicita richiesta, però, che questi testi sorgessero postumi. Innanzitutto, la sconvolgente intervista Ormai solo un dio ci può salvare – intervista che, riallacciandosi ai primordi del suo pensiero, ai corsi dedicati al pensiero cristiano, e alla sua biografia degli anni giovanili, segnati da un meditato abbandono della fede in nome della libertà della filosofia, costringe a ripensare l’integrità del percorso filosofico heideggeriano. Poi, i Contributi alla filosofia, e tutta la sua riflessione sull’evento, uno degli aspetti più reconditi e più insistenti del suo pensare privato – una porzione del suo filosofare sulla quale Heidegger, forse, si sarebbe aspettato maggiore attenzione ed eredità, di quella poi effettivamente suscitata.

C’è l’Heidegger orante, infine. Voce che ha cessato di risuonare, mente che già in vita aveva iniziato a predisporre la pubblicazione dei suoi corsi universitari, e dei seminari tenuti in vari luoghi d’Europa, talvolta per un pubblico decisamente ristretto. Alcuni dei suoi testi centrali, inclusa Che cos’è la metafisica?, nascevano come conferenze o lectio magistralis. Il suo ineludibile “duello” con Nietzsche, pubblicato già nel 1961 raccogliendo diversi corsi universitari e scritti saggistici dedicati al grande predecessore, rappresentava un notevole passo in avanti in tal senso. Ma la maggior parte dei manoscritti e delle trascrizioni dei corsi universitari tenuti da Heidegger furono pubblicate, in tedesco e nella loro forma definitiva, solo dopo la morte del filosofo, formando così, a poco a poco, un opportuno controcanto rispetto ai titoli specificatamente saggistici della sua produzione.

La storia editoriale dell’opera omnia di Heidegger richiederebbe una trattazione monografica a sé stante, quasi quanto quella di Nietzsche. In questa sede, basti dire che nel 1975, un anno prima della morte del grande filosofo, si varò il progetto della pubblicazione di oltre cento volumi di scritti heideggeriani presso la casa editrice tedesca Vittorio Klostermann, con sede a Francoforte. Quest’operazione editoriale immensa, incoraggiata dal “figlio” Hermann ed approvata da Martin Heidegger in persona, non è ancora giunta al termine, anche se, oramai, all’appello mancano pochissimi volumi; in Italia, questa fiumana carsica di opere centrali, importanti, secondarie e marginali del filosofo è stata suddivisa tra numerosi editori, tra Bompiani, Adelphi, Longanesi, Mimesis, Mursia, Il melangolo ed altre ancora.

Se è ancora della Longanesi l’edizione di riferimento di Essere e Tempo, tutte le altre opere maggiori di Heidegger sono state essenzialmente suddivise tra Adelphi e Bompiani, con la Mursia a tradurre e pubblicare alcuni dei volumi della maturità. Fu all’interno dell’Adelphi che, su Heidegger, venne concepito il progetto editoriale più ambizioso. La curatela delle sue opere venne affidata a Franco Volpi, tra i massimi studiosi di Heidegger, che approntò un approfonditissimo glossario, in parte per rivedere le precedenti proposte di traduzione del lessico heideggeriano ad opera di nomi del calibro di Pietro Chiodi o Gianni Vattimo.

Se Volpi è morto nel 2009, la sua eredità in seno all’Adelphi è stata preservata per opera di altri studiosi o traduttori come Leonardo Amoruso e Giovanni Gurisatti. Ultimo di una serie di ben venti volumi di Heidegger pubblicati, L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide raccoglie tutti i materiali relativi a un corso tenuto dal filosofo nel semestre estivo del 1932, presso l’università di Friburgo.

L’inizio della filosofia occidentale arriva dopo l’edizione adelphiana di altri corsi di laurea e scritti – il Parmenide, la Fenomenologia della vita religiosa, L’essenza della verità – forse più importanti per comprendere il grandioso percorso di pensiero tracciato da Heidegger in oltre sessant’anni di attività filosofica, tra le originarie riflessioni ancora debitrici della spiritualità cristiana, e le densissime riflessioni sul tema della verità sorte dopo la famosa Svolta.

Eppure, come suggerisce anche il titolo altisonante dato a questo nuovo volume, L’inizio della filosofia occidentale ci restituisce quasi dal vivo un Heidegger ancora work-in-progress nella ricerca di una nuova chiare, attraverso cui reinterpretare il cammino filosofico dell’Occidente – intento ad affinare, in un’operazione ammirevole e complessissima di contro-interpretazione rispetto alla lettura canonica dei presocratici, quell’intuizione dirompente che lo aveva costretto a lasciare incompiuto l’Essere e Tempo, la decisione drastica e rivoluzionaria di puntare all’Essere, e non più all’ente, e nemmeno all’essere dell’ente.

***

 

Die Deutsche Heilslinie – Anselm Kiefer

 

“L’inizio non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, come qualcosa di lasciato indietro e di passato di cui ci si è liberato, e nemmeno si trova semplicemente nella estrema vicinanza come ciò che si nasconde nella maschera del massimamente non-problematico; bensì sta davanti a noi, in quanto compito essenziale della nostra più propria essenza”. Da questa considerazione prende le mosse il corso universitario del 1932. Certo, Heidegger riconosce che “due millenni e mezzo non si possono certo saltare semplicemente tenendo un corso universitario”; ma non è il peso del tempo a sconcertarlo, e a rendere questo Inizio così lontano da noi; non dipende dall’Inizio la sua inattingibilità, ma, se mai, da noi stessi, vittime di quello che il filosofo altrove aveva definito oblio dell’essere, un processo di nascondimento iniziato proprio nel cuore della filosofia greca, nell’Atene del V o IV secolo a.C.

“Noi, gli ottusi prigionieri, gli invecchiati, i rimpiccioliti, gli inetti, dobbiamo fare i conti con la possibilità che non siano l’inizio e la sua peculiarità ad impedirci di avvicinarci a esso, ma che siamo noi stessi, e precisamente senza saperlo, a impedirci di andare alla ricerca dell’inizio”. La possibilità di avere a che fare con l’Arké dipende da una vera e propria iniziazione, si lascerà sfuggire Heidegger anni dopo, rileggendo e appuntando il suo corso del 1932, e lasciando scorgere quel fondo, questo sì esoterico nel senso corrente del termine, che smuove la sua filosofia. La direttrice più esplicita del suo pensiero, a maggior ragione all’indomani di quella Svolta che lo portò a rimodulare e infine a lasciare interminato Essere e Tempo, consisteva in un ripensamento della filosofia occidentale nel suo complesso – con una particolare attenzione per i suoi esordi, che Heidegger ha sempre presupposto più vicini all’originaria verità dell’Essere.

All’inizio c’era l’arké, all’inizio della filosofia occidentale – eppure, in questo corso ma è una tendenza generale del suo pensiero, Heidegger si concentra sui due pensatori proemiali che più di tutti hanno apparentemente disatteso tale problematica. Talete, in questo corso, Heidegger lo liquida in poco più di un paragrafo. La sua attenzione è assorbita da Anassimandro, che collocò l’arké in un quantomai problematico apeiron su cui ancora tanto i filosofi quanto i filologi si interrogano – e da Parmenide, invece, recidendo direttamente tra l’essere e il non essere, senza indugiare nel chiedersi unde, esse. Pudenda origo, avrebbe detto Nietzsche un paio di millenni dopo. Replicando l’astio del predecessore per ciò che è venuto da Socrate in poi, ma riscoprendo anche un culto della tradizione che Nietzsche non aveva, con L’inizio della filosofia occidentale Heidegger si trova ad interrogarsi sugli albori del pensiero, sugli albori della civiltà, forse, in controluce, sugli albori dell’Essere stesso.

Innovatrice e al tempo stesso originaria è la lettura che Heidegger tenta di questi due pensatori proemiali, Anassimandro e Parmenide. Replicando a distanza, se vogliamo, il fatidico scontro tra Nietzsche e von Wilamowitz, Heidegger polemizza contro i filosofi tedeschi nel loro complesso e contro Diels nello specifico, proponendo di continuo nuove letture dei frammenti tanto di Parmenide quanto e ancor di più di Anassimandro, il vero fulcro di questo corso di laurea.

“Ma donde è per l’ente la provenienza, colà si dà (accade) anche la scomparsa, secondo la costrizione (coercizione); poiché (gli enti) – mantenendo la corrispondenza reciproca e connettendosi nella corrispondenza reciproca – si concedono accordo per restituirlo (nel rispetto di esso) al disaccordo, secondo l’assegnazione del tempo”. Così ne L’inizio della filosofia occidentale Heidegger traduce, e a tratti parafrasa, il frammento più noto – uno dei pochissimi, a dire il vero – di Anassimandro, oscuro filosofo attivo nell’area di Mileto nel VI secolo a.C., tra i massimi esponenti della cosiddetta scuola di Mileto assieme a Talete ed Anassimene. È noto che su questo stesso frammento di Anassimandro Heidegger sarebbe tornato a più riprese, nel corso del suo percorso – un esempio su tutti, il saggio Il detto di Anassimandro incluso fra i Sentieri interrotti. Ma concentriamoci sulla lettura data ne L’inizio della filosofia occidentale, particolarmente genuina e precisa nonostante l’oscurità della traduzione.

Come scrive in uno degli appunti raccolti in appendice, indispensabile completamento al testo del corso di laurea, l’ambizione di Heidegger è di ottenere, da quel singolo frammento di Anassimandro, “una visione d’insieme della non sviluppata molteplicità interna del detto – tutti i pre-platonici assieme”. Se Anassimandro era già stato menzionato nel corso del 1926 sui Concetti fondamentali della filosofia antica, quella contenuta ne L’inizio della filosofia occidentale è la prima trattazione monografica di Heidegger sul filosofo: in generale, questa tendenza a un perenne ritornare, su Anassimandro, Parmenide e gli altri pensatori primordiali, è uno degli aspetti più rappresentativi e risonanti del pensiero di Heidegger, del suo stesso rapporto, da studioso, con le fonti.

Abbiamo visto come Heidegger traducesse il detto di Anassimandro, giustificando e approfondendo le sue scelte di traduzione, a beneficio degli studenti, per tutta la prima parte di questo corso di laurea. La tradizione canonica del doppio periodo, quella del filologo Hermann Diels che lo aveva incluso nella più importante raccolta di frammenti presocratici, diceva così: “ma da dove le cose hanno il nascere, colà si volge anche il loro perire, secondo la necessità; poiché esse pagano l’una all’altra la pena e il fio per la loro empietà, secondo il tempo stabilito”. Nietzsche, ne La filosofia nell’epoca tragica dei greci, la riformulava in un altro modo ancora: “donde le cose hanno la loro nascita, colà devono altresì perire, secondo la necessità: esse infatti devono pagare il fio ed essere condannate per le loro ingiustizie, conformemente all’ordine del tempo”. Evidente è la differenza abissale tra le tre versioni. Quella che Heidegger ingaggia è una vera e propria guerra di traduzioni. E di tradizioni.

Delle tre, la versione di Heidegger del detto di Anassimandro è senza dubbio la più arzigogolata, la più verbosa, la meno chiara. Eppure, coglie pienamente nel segno un aspetto specifico del pensiero greco che per molti secoli era stato sottovalutato. Se Diels e Nietzsche parlano di nascita e morte, nel tradurre gli originali γένεσίς e φθορὰν del filosofo ionico, Heidegger parla di apparizione e sparizione. Questo va in rispetto dell’originario aspetto visivo – non per forza mistico, non per forza estatico, non per forza visionario: visivo – del pensare greco.

Il λόγος definitivamente imposto da Platone e Aristotele non schiacciò solo il μύθος, ma anche questa componente visiva originaria. Tracce di esse si trovano nel termine ἀλήθεια, che Heidegger giustamente non traduceva come “verità”, bensì come “svelatezza”. Una traccia ancora più forte lo si trova nella famiglia semantica dei termini attorno a ϑεωρία che, da un originario significato religioso-cultuale si era evoluto fino a significare tanto il “contemplare” quanto il “pensare”.

Nelle sue continue proposte di neo-traduzioni e contro-interpretazioni dei pensatori più arcaici della Grecia, Heidegger lascia a più riprese scorgere questa originaria componente, più contemplativo-visiva che discorsiva o verbale, dell’esperienza filosofica greca – una componente che potrebbe essere ricondotta senza difficoltà ai misteri, anche per via etimologica. Se la sua attenzione si lascia assorbire dalla falsificazione e dall’occultamento che la filosofia successiva ha imposto all’originaria esperienza dell’Essere e della verità, sperimentata dai primi pensatori, la considerazione sul carattere visivo e svelante della verità alla greca rappresenta uno dei tanti sentieri interrotti del cammino concettuale heideggeriano.

Ma certi sentieri Heidegger li ha lasciati interrotti a favore di un’interpretazione globale del pensiero greco che momentaneamente poteva servirsi anche delle armi metodologiche della filologia, salvo poi accoltellarla alle spalle ed affermarsi come nuova, rigenerata filosofia. Rigenerata dal contatto stesso con le Fonti, a ben vedere – fonti accuratamente limate, studiate, rivoluzionate, nel disprezzo cristallino di ogni canone precedentemente imposto.

“La traduzione è sempre il risultato e la sintesi ultima di un’interpretazione”, dice Heidegger proprio nel primo capitolo de L’inizio della filosofia occidentale, “non è mai un mero sostituirsi di una lingua straniera alla lingua materna, poiché presuppone la capacità di tra-dursi, con la forza originaria della propria lingua, nella realtà del mondo che si manifesta nella lingua straniera”. Quasi trent’anni prima de In cammino verso il linguaggio, uno dei suoi testi meno compresi e influenti, quello, forse, più vicino a certo Oriente, Heidegger proponeva già una forma embrionale di teoria della traduzione che, scavalcando il tempo cronologico, doveva portarci faccia-a-faccia con l’originalità del pensare.

“Romanità, ebraismo e cristianesimo hanno completamente mutato e falsificato la filosofia degli inizi – cioè la filosofia greca”. Pur di recuperare Anassimandro e Parmenide nel loro originario portato concettuale, Heidegger accetta anzi rivendica la scelta di attingere linguisticamente e filologicamente a fonti estranee alla filosofia come disciplina, ma rappresentative dello spirito greco nel momento stesso in cui il pensiero greco abbandonava la sua fase proemiale e, con Socrate, Platone ed Aristotele entrava definitivamente nel lungo evo dell’occultamento dell’essere.

Detta più semplicemente, per ri-tradurre Anassimandro Heidegger si rifà a Sofocle, all’Aiace. Ed è un vero e proprio coup de maître quello con cui Heidegger, prendendo spunto da una battuta del protagonista della tragedia – “il tempo possente e imprevedibile fa sorgere tutto ciò che non è manifesto e vela tutto ciò che sta nell’apparire”, secondo la sua traduzione – argomenta la sua traduzione-interpretante del detto di Anassimandro. Il carattere spadroneggiante e ordinatore del Tempo era riconosciuto parimenti dai primi filosofi così come dai tragediografi: solo un Platone, quando ormai la tragedia era già morta, avrebbe potuto inventarsi un iperuranio.

Per un istante, testimoniano gli appunti posti in appendice al volume, Heidegger manifesta anche una perplessità, rispetto alla sua operazione contro-filologica. Si chiede, nello specifico, se la sua rilettura sia linguistica che filosofica del frammento di Anassimandro non sia unilaterale e arbitraria, visto che “non tiene conto dell’intera tradizione dossografica, cosa tanto più importante proprio in questo caso, dove ci è conservato un unico detto”. Ma Heidegger si risponde da solo che “nella tradizione, e nella trasmissione di materiali, si annuncia sempre una certa modalità di appropriazione”; questo non squalifica in partenza le possibilità di comprensione, tutt’altro, ma nello specifico, proprio perché a detta sua fraintesa, l’intera filosofia preplatonica è stata oggetto solo di “un fiacco giro di opinioni” da parte dei dossografi dei secoli successivi, già da prima dell’Ellenismo. Quindi tanto vale fare tabula rasa, e preservare, di Diogene Laerzio e compagni, unicamente i frammenti che hanno trasmesso a mo’ di citazioni.

Non è solo contro la filosofia greca più classica, e contro il canone ermeneutico impostosi tra l’Ottocento e i primi del Novecento con la complicità dei filologi, che Heidegger polemizza ne L’inizio della filosofia occidentale – Heidegger si trovò impegnato in un dibattito anche contro il contemporaneo. In tutti i modi, e per tutta la sua vita, Heidegger combatté per non essere ridotto dapprima nel filone della cosiddetta filosofia dell’esistenza, e poi, dopo la guerra e l’exploit di Sartre, Camus e compagni, nel novero degli esistenzialisti. “Non ho alcuna etichetta per la mia filosofia, e precisamente per il semplice fatto che non ho una mia propria filosofia”, si legge in questo corso di laurea. “I miei sforzi mirano piuttosto solo a preparare e a conquistare la via, affinché coloro che verranno possano forse nuovamente avere a che fare con il giusto inizio della filosofia”. Nientemeno.

Proprio per questo rifiuto congenito, da parte di Heidegger, di essere incluso o anche solo accostato ai suddetti esistenzialisti, un altro merito de L’inizio della filosofia occidentale sta nel fatto che questo corso di laurea contiene una delle definizioni più esplicite e dirompenti di ciò che Heidegger intendeva con “esistenza”, presentata agli studenti in riferimento ma anche in opposizione alle riflessioni di Kierkegaard e Jaspers. “Ex-sistere”, si legge in uno dei passaggi centrali del corso di laurea del ’32, “significa ‘uscire-fuori’, ‘ex-por-si a’. Questo ex-sistere deve cogliere linguisticamente il modo di essere di quell’uomo all’interno della cui storia noi stessi stiamo e siamo”.

Queste parole restano ancora ancorate all’immaginario di Essere e Tempo, eppure proprio negli anni in cui Heidegger tenne questo corso si andava consumando la sua febbrile ricerca di uno scavalcamento radicale, rispetto alle direttrici di quella che comunque rimase la sua opera maggiore. La ragione per cui Heidegger volesse distaccarsi da Essere e Tempo è lo stesso motivo per cui il filosofo non volle essere mai ricondotto al club degli esistenzialisti.

Se già l’analitica esistenziale dell’Essere e Tempo era dominata da sovratoni ontologici che esorcizzavano l’analisi e la critica in essa presenti della quotidianità a favore di un suo scavalcamento in un’esistenza più autentica, a maggior ragione dopo la Svolta ciò che Heidegger volle indagare fu l’Essere, e non più l’ente, l’Essere, e non più l’esserci. Tutto il contrario fecero gli scrittori esistenzialisti, Sartre in primis. Se con Heidegger condivisero la tematica dell’angoscia, essi si mossero a favore dell’individualità, della contingenza, e del grigiore insormontabile del quotidiano, nausée incluse. La grandiosità dell’affresco heideggeriano stava proprio nel superare, ontologicamente ed ex-staticamente, i confini dell’individuo.

In fondo, Essere e Tempo doveva apparire ad Heidegger come il tratto finale, e al tempo stesso l’esordio di una palinodia, di un lungo binario morto del pensiero occidentale. In questo corso adesso non per nulla pubblicato sotto il titolo de L’inizio della filosofia occidentale vediamo Heidegger tornare, in tutti i sensi, alle fonti del nostro filosofare, ai frammenti sorgivi di pensatori apparentemente schiacciati dal cumulo di secoli. Ma in quest’archeologia, Heidegger non cerca, solo, l’inizio. È ri-cominciare il suo vero, ambiziosissimo, obiettivo.

“La legge della filosofia. La filosofia ha la sua propria legge. Come noi ci rapportiamo a questo fatto dipende solo da noi. Possiamo aprirci a esso e soffermarci in esso – ma possiamo anche restarne esclusi”, conclude Heidegger dopo aver terminato la sua analisi del Περί Φύσεως parmenideo. “Ciò che rimane è la tremenda grandezza di quest’opera all’inizio così modesta. Se ne sta lì da due millenni – se ne sta lì per il futuro. Soprattutto, essa si erge contro la massa di chiacchiere e di scribacchiature che riempiono volumi su volumi di tutti i dotti del nostro tempo”. Su queste parole termina il corso universitario di Heidegger.

***

Se, come Jacques Derrida avrebbe sublimemente argomentato qualche decennio più in là, dopo Hegel la Western philosophy non riesce a immaginarsi se non moribonda, in agonia, o forse già piena decomposizione, lungo tutto il suo percorso e soprattutto negli ultimi quattro decenni della sua vita Heidegger avrebbe tentato, in modo più circoscritto e più circospetto, di tranciare via i rami morti, della suddetta filosofia occidentale.

“Il nostro compito: l’interruzione della filosofare? Ovvero la fine della metafisica in base al domandare originario del senso (della verità) dell’Essere”, si legge nell’esordio di questo corso di laurea. Il fatto che l’abbandono della metafisica implichi l’abbandono e la relativizzazione di pressocché tutta la filosofia occidentale, fino a Nietzsche, e un’interpretazione radicalmente nuova di quei pochi pensatori iniziali esenti dall’oblio dell’Essere, non pare turbarlo. – Heidegger è messianicamente in attesa dei filosofi venturi, dei “prossimi titani” per dirla alla Jünger.

Heidegger è il pensatore più sistematico – più vicino, all’essere sistematico – che sia sorto nel Novecento, in un momento in cui la crisi dei fondamenti, la secolarizzazione stessa, erano già ben avviate. Il suo atteggiamento ambiguo nei confronti del sacro, al tempo stesso presente e rimosso in pressocché tutti i suoi scritti, è un’importante spia di una forma mentis collettiva – e un corso giovanile come la Fenomenologia della vita religiosa, pubblicato anch’esso dall’Adelphi, lascia scorgere con una vertiginosa chiarezza quali debiti il pensiero heideggeriano abbia nei confronti della spiritualità dei primi secoli della nostra era, e non solo dell’immaginario protocristiano. Dal canto suo, L’inizio della filosofia occidentale permette di toccare con mano la grandiosità e al tempo stesso la fragilità della ricerca heideggeriana sui fondamenti della nostra filosofia.

Quello che Heidegger scopre, anche se non userebbe mai una formulazione come questa, è proprio la potenza apocalittica dell’Origine. Il percorso da lui compiuto, ermeneuticamente e filologicamente, attraverso la filosofia dell’età classica, gli consente di portare a termine una regressione elitaria. Lui non vorrebbe mai cancellare in toto la filosofia occidentale che lo ha preceduto, per ripartire dalle ceneri dei presocratici – i suoi studi su Nietzsche, su Hegel, su Aristotele e sullo stesso Platone vanno certo ben al di là della mera confutazione. Eppure, Heidegger crede di essere giunto a uno stadio sufficientemente elevato di comprensione e autocomprensione dell’occultamento dell’Essere per giudicare come un binario essenzialmente morto gran parte della tradizione filosofica che intercorre tra lui e Parmenide.

Filosofare, in senso autentico, dopo Hegel, non è facile. Ancora meno dopo Nietzsche. Ad Heidegger questo va riconosciuto. Al tempo stesso però il suo atteggiamento parimenti sprezzante e idolatrante nei confronti della tradizione è sintomatico di un’inquietudine di fondo che decine di volumi non hanno saputo estirpare – un atteggiamento non dissimile dalla sua controversa adesione iniziale al nazismo, nei primi anni del regime hitleriano.

E se questa ostinata, quasi ossessiva, ricerca delle fonti, della Fonte, dell’Origine, dell’arké, altro non fosse, per Heidegger, che un ulteriore occultamento? Se, per donare antichità a un’intuizione potentissima, ma che costringeva a ripensare il pensiero occidentale nel suo complesso, la sua scelta di rileggere in una chiave personalissima i frammenti più oscuri dei presocratici, non testimoniasse altro che un insopprimibile bisogno di un principio primo a cui richiamarsi più retoricamente che altro, quasi che i primi pensatori del pensiero greco fossero delle note a piè di pagina?

Ultima metamorfosi all’aurora. Questo verso de La Terra Promessa di Giuseppe Ungaretti sarebbe indubbiamente piaciuto ad Heidegger. Forse, gli avrebbe apposto un’unica correzione, rendendolo così: ultima metamorfosi dell’aurora. Perché, puntando all’inizio, riscoprendo, riscolpendo l’Origine, Heidegger compie l’operazione più ambigua, più affascinante, più problematica, più redentiva, più occidentale che un filosofo potesse proporsi. Quante volte le dittature hanno manipolato il passato? E fino a che punto quelle di Heidegger sono traduzioni re-interpretanti, oltre quale soglia sono intuizioni filosofiche ottime, ma ricondotte al greco solo per avere un po’ di sapore di antico?

Proprio l’impossibilità di ignorare questi interrogativi rende la lettura di Heidegger tanto interessante, quanto vertiginosa. E L’inizio della filosofia occidentale contiene il lato archeologico non meno del versante apocalittico del pensiero heideggeriano, al massimo della loro intrecciata potenza.

 

“E se, tuttora fuoco d’avventura,

Tornati gli attimi da angoscia a brama,

D’Itaca varco le fuggenti mura,

So, ultima metamorfosi all’aurora,

Oramai so che il filo della trama

Umana, pare rompersi in quell’ora”

Giuseppe Ungaretti, La Terra Promessa

 

Mots-clés__Pasolini

0
Pasolini sul set di "Edipo re" - ©Giuseppe Garrera

[Oggi, nell’anniversario della morte di Pasolini, nell’anno del centenario, Giulia Scuro mi ha proposto un mot-clé “extra” a lui dedicato; eccolo. ot]

 

Pasolini
di Giulia Scuro

Ettore Giuradei, Pasolini -> play

___

Pasolini sul set di “Edipo re” – ©Giuseppe Garrera

___

Da: Pier Paolo Pasolini, Il vuoto del potere, Corriere della sera, 1 febbraio 1975 (qui)

Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell’ammiccante luce dell’arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i “flatus vocis” delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.

Rimostranze folli

0

di Venceslav Soroczynski

Patrick McGrath, Follia, Adelphi, 1996

Già al primo rigo, ho provato un moto di rivolta: “Le storie d’amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni”. Ora, ditemi voi se questo è modo – non dico di scrivere – di vivere e di pensare. Forse, sono eccentrico io, ma, per quanto mi riguarda: 1) tutte le storie d’amore sono catastrofiche; 2) tutte le storie d’amore sono contraddistinte da ossessione sessuale.

È come dire che l’interesse professionale di un cuoco è il fatto che la pasta si butti quando l’acqua bolle! Le storie d’amore “a norma”, secondo lui, quali sono? Quelle che finiscono bene? Quelle che non provocano una catastrofe nell’io, nella relazione, nelle relazioni, sulla capacità di percezione della realtà, sul senso del tempo e dello spazio? Quelle senza sesso? Quelle in cui non si freme, brama, trema per un contatto fisico con l’altro? Mi chiamate sul diretto, quando ne trovate una?

Il nostro narratore, però, ne fa l’oggetto di un interesse professionale! Ma non possiamo mica prendercela con l’autore, perché nell’incipit c’è la voce narrante, che è il protagonista. Ma il protagonista è una figura disegnata dall’Autore, quindi non posso che rivolgermi a McGrath.

Il primo rigo, dicevo: dopo averlo letto, in testa mi rimbalzava solo la domanda: devo proprio andare avanti? Non è meglio che io legga il manualetto “Costruisci la tua casa sull’albero” che, per un protocollo di pronto-soccorso-letterario, tengo sempre sul comodino? E, invece, ho continuato a leggere. E, detto fra noi, la rivolta è stata sedata e ho dimenticato presto l’incipit: l’insofferenza per la dichiarazione iniziale si è sciolta in un insieme di sensazioni che somigliavano molto a quelle che mi diede L’amante di lady Chatterley. Anzi – ma potrei sbagliare, perché ho letto Lawrence che ero un ragazzino – direi che Follia è un Chatterley con più danno e più dolore. Insomma, nonostante l’handicap costituito dall’essere un quasi psichiatra inglese, e nonostante un certo attacco, il nostro Patrick è riuscito a mettere sul fuoco una storia che diventa subito una cosa seria.

Devo dire due parole anche all’editore. Non fa onore al testo il risvolto della edizione in mio possesso (maggio 1998), il cui epilogo è, a parer mio, fuorviante: sembra un’affannata esca per lettori di gialli, gente che apre ogni libro con la missione di trovare il colpevole. Lettori intelligenti nel dettaglio e ignari della visione d’insieme. “Qualcosa ci avverte che i conti non tornano, e che l’inevitabile, scandalosa e beffarda verità sarà molto diversa da quella che eravamo stati costretti a immaginare”. Così termina la seconda di copertina. Ma questo non è un giallo! Non è un thriller, non è un sentimentale e non è neanche uno psicologico in senso stretto. E neppure il sesso c’entra, anche se Patrick cerca di farcelo credere, cercando di amplificare l’effetto collaterale di un’erezione: durante una festa, la protagonista femminile viene invitata a ballare dal protagonista maschile, il quale le si stringe tanto da farle sentire, a lungo e sfrontatamente, il proprio sesso contro il di lei ventre. Dopo quell’episodio, lei perderebbe la testa. Questo dovrebbe pensare il lettore.

E, invece, no: se contestualizziamo, ci immedesimiamo, disegniamo le figure con i margini e poi le coloriamo, scopriamo alcune cose. Anzitutto, che la lei è moglie di uno psichiatra; il lui è un uxoricida rinchiuso, ma è anche uno scultore; il luogo è quello di reclusione: l’ospedale psichiatrico dove il marito di lei esercita e la sua famiglia vive. Una comunità, un insieme di persone che si vedono spesso, si riconoscono, si parlano, un gruppo di umani che è costretto a vivere nello stesso recinto. Ora, può essere che le attenzioni del marito di Stella verso di lei fossero diminuite (ecco, forse, perché egli parla di ossessione sessuale: vede la pulsione sessuale come ossessione), può anche essere che Edgar le strofinasse il proprio sesso sulla pancia solo con l’obiettivo finale di fuggire dal manicomio, ma il nucleo è un altro. Anzi, sono due (a ben pensarci, forse sono tre).

Il primo è che l’attrazione fra i due non è ammessa dal “gruppo” nel quale vivono. Nella comunità umana formata dai medici, dalle loro famiglie, dal personale di servizio e dagli utenti. La relazione è la condotta illecita, come si direbbe in un manuale di diritto penale. È ciò che non sta bene, è ciò che non si deve fare. Se il divieto implica l’amore o il piacere o tutt’e due, succede il disastro. La catastrofe, appunto.

Che diventa inarrestabile quando lei si è innamora. E questo è il secondo punto. Di lui, Edgar, non si capisce: forse sì, forse no. Ma lei, Stella, sì: si innamora e perde i riferimenti. Non sa più cosa è opportuno e cosa no. E a quali fini. E in base a quali valori. Non conta più niente altro, per lei. Si innamora di un uomo che ha ucciso la propria moglie un un accesso di gelosia. Ma Stella si è innamorata, lo capite? Vi è mai successo? Capivate qualcosa del mondo e di voi e dell’altro? Alla povera Stella è successo questo. La lucidità se ne va e lei fa cose incontrollabili e che, nella sua condizione, sono pericolosissime. Qualcuno conosce una definizione alternativa dell’amore?

E poi c’è il terzo punto. Ma qui dobbiamo andarci piano, perché non è un argomento per tutti: Stella aveva un destino, un programma imposto dalle scelte fatte, insomma, una vita. Tutto sembrava deciso: un marito il cui ruolo è più importante del suo, un figlio per il quale tutto si deve sacrificare, una colazione, un pranzo, una cena, un cenone da preparare. Moltiplicati per tutti gli anni a venire. Per tutta la vita che resta. Insomma, un destino. Nel quale – non si sa se perché è un destino, o se perché era il suo destino – non sembravano poterci essere altri brividi, emozioni, scosse, rischi, eccessi, eccitazioni, pericoli. E invece arriva questo brivido, questa emozione, questa scossa, questo rischio, questo eccesso, questa eccitazione, questo pericolo, questo divieto rappresentato da Edgar. Un uomo altro, che le fa intravedere la possibilità di una vita altra, o di uno scorcio di vita altra. E, dunque, Stella non si ritira: rischia. E punta tutto ciò che ha.

Sulla trama, non vi dico nient’altro. Leggetevele anche voi queste trecento pagine, non posso fare tutto io. Ma sappiate che, a un certo punto, il romanzo ha la mano pesante, è emotivamente malvagio. Dovete saperlo, soprattutto se avete figli. Io ve l’ho detto: non vi lamentate, dopo.

Chiusa l’ultima pagina, provo compassione per tutti i suoi personaggi (nonché per il genere umano in blocco, come stipato in un container che viaggia per i mari senza oblò e non si accorge che, da un momento all’altro, può precipitare giù dal ponte e non immagina che le pareti si apriranno e finirà sbranato da squali e che lo squalo che divorerà ognuno di noi ha il nostro stesso volto), poiché nessuno ha vinto. Tutti i personaggi hanno dimostrato che la vita non è una passeggiata sul lungomare. Per nessuno. È una bastonata che piomba all’improvviso appena usciti da una madre e, nel suo corso, seguono altre bastonate. Da piccini, da ragazzi, da adulti. Fino alla morte. Solo che qualcuno le prende sul petto, qualcun altro sulla faccia.

Dopo aver letto Follia e aver vissuto qualche decennio, invidio i lupi sulle montagne, o i coccodrilli nel fango denso, a sapermi uomo esposto alle maledizioni interiori. Alla curiosità. Allo sprezzo del pericolo. A quel veleno senza ricetta che è l’amore. A quella debolezza senza tempo che è l’essere uomini. All’avere un corpo. Al pensare. Alla maledetta coscienza. Alla maledetta veglia. All’inconveniente di essere nati, disse Cioran.

Non badate a tutto quello che dice l’Autore, né l’editore. Fanno finta di non capire, tutti e due. Non leggete il risvolto, non leggete la vita di McGrath. Non leggete niente su Follia. Leggete Follia. È un libro sull’impossibilità di essere felici, né amando, né rinunciando, né partecipando, né stando a guardare, né facendo i malati, né facendo i dottori. Un romanzo sull’abisso. E sulla cosa che, più di tutte, ci porta sul suo orlo.

 

Sulla scrittura «plate» di Annie Ernaux

1

di Ornella Tajani

Sono rimasta colpita dalle critiche mosse alla scrittura «piana» di Annie Ernaux all’indomani del Nobel, come se tale scrittura fosse in fondo facile, non letteraria, robetta: mi è sembrato quasi il «potrei farlo anch’io» che si sente davanti alle attese di Lucio Fontana, per fare un esempio.
Nel mio piccolo non credo di aver mai usato questa definizione per parlare della sua opera, preferendo quella di scrittura misurata, che procede per sottrazione, raggiungendo una sapiente condensazione. Per questi motivi non è affatto una lingua facile da tradurre – come per altri versi non lo è quella di Ágota Kristóf -, lo si capisce anche soltanto quando si è alle prese con un passaggio da inserire in italiano nella recensione a un suo testo ancora inedito: a volte una frase, che magari prevede una rapida successione di immagini perfettamente montate, appare come un minerale, impossibile da scomporre o da scalfire.
La definizione di «scrittura piana» rinvia all’écriture blanche, usata da Roland Barthes nel parlare, fra gli altri, di Camus (associazione che Ernaux ha in realtà rifiutato); è lei stessa a utilizzarla in varie occasioni, ad esempio nel video che segue, in cui spiega che cosa intende: intende il fatto che quando scrive non sceglie un termine perché è “beau”, ma perché è ”juste”.
Con estrema semplicità ed efficacia, Ernaux fornisce una chiave della propria opera, che va oltre lo stile; e, se vogliamo soffermarci sullo stile e sulla sua presunta scarsa complessità, risulta evidente quanto trovare il termine “giusto, esatto” sia molto, molto più difficile che trovarne uno bello.