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Istruzioni per fumare Dunhill alla stazione di servizio

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di Riccardo Ielmini

 

Nives Sartori fece un balzo giù dal Cruiser Toyota come una semi diminuita jazz scivolata via da una partitura neoclassica. Era scalza: gli autobloccanti della stazione di servizio trasudavano afa e sporcizia. Lei lo sentì subito e le passò la smania di fare la naïf: sbuffò, afferrò le espadrillas rosse da sotto il cruscotto, diede un colpo di mano alla pianta dei piedi e le indossò. Fredy era già sceso e armeggiava con la pistola del diesel: guardò Nives mettersi di trequarti allo specchio nel lunotto posteriore e darsi una controllata: mica che fosse gualcito lo splendore che a sua madre faceva venire in mente Liz Taylor. Fredy ricordò la volta che la vecchia aveva supplicato sua figlia: Nives amore mio, non finire gonfia come una Big Babol, non fare Lizzy in gara con Richard Burton a chi svuota per primo il frigobar di un hotel su Hollywood Boulevard. Il genere di sceneggiate à la Sartori che lo mettevano in imbarazzo. Comunque: Nives diede anche una tirata alla coda con la quale aveva raccolto i capelli e inforcò i Ray-Ban Jackie, infischiandosene che in una manciata di secondi sarebbe scoccata la mezzanotte. D’altra parte, se gliel’avessero fatto notare, che era buio pesto, firmamento stellato e tutto il resto, lei avrebbe indicato i grandi neon della stazione di servizio e avrebbe proclamato agli dei della giovinezza: «C’è questa luce accecante, cazzo. Voi non lo sentite il fastidio, mica?». Fredy, tornando dalla festa di matrimonio cui l’aveva trascinato lei, aveva giocato d’anticipo sulla spia della riserva e impostato il self su 50 euro. Era ancora mezzo ferito per le cose che si erano detti qualche chilometro prima, ma la ragazza era un animale umano meraviglioso e c’era poco da dire. Altro che quell’ubriacona di Lizzy Taylor.

«Eccoci» disse. «Dovrei indossare le maledette scarpette di cristallo, io. Mica quella sciacqua di Cenerentola. Invece eccomi qui con espadrillas scialbe da piedi gonfi, roba da vecchie contadine di Provenza imbalsamate nella lavanda». Inarcò la schiena sulla curva della scocca. Sbuffò come la gatta sul tetto. «No, no, mica. Io poi la odio, la Provenza. Sicuro roba da stronzi».  Ogni volta che tirava in ballo gli stronzi, Fredy non lo capiva, a chi si riferisse di preciso. E non voleva saperlo, perché sotto sotto aveva il terrore di carezzarla pure lui, la grande landa degli stronzi, per via del suo lavoro in Borsa o per via che lui non era capace come lei di dare dello stronzo a qualcuno, un qualcuno qualunque là fuori.

«E la carrozza? E i lacchè? E il palazzo? Niente di niente. Manco il principe». Sbuffò di nuovo. «Dio, che luci! Accecano, cazzo!».  Calcò forte su principe e cazzo, perché sapeva che Fredy, in mezzo a tutto il suo gorgheggio notturno, su quello avrebbe drizzato le antenne. Lei lo sapeva, cosa gli passava per la testa, a Fredy. Non si era inarcata sulla scocca mica per niente. Mica. Armeggiò con la borsetta e tirò fuori Zippo e un pacchetto di Dunhill. Ne tirò fuori una che fissò fra le labbra. Poi fece scattare lo Zippo una, due, tre, quattro volte, senza accendere: giusto perché lo schiocco metallico ci stava a puntino, sotto quella luce da astronave. Guardò verso il bosco che lambiva la stazione di servizio.

«Toh, forse il palazzo c’è, dopotutto». Era la sagoma di una grande villa, che sbucava come un gigantesco dolmen dal profilo frastagliato della boscaglia. Smise di far schioccare lo Zippo.

Mentre facevano i conti con il ticchettio del contatore del diesel che girava come una slot machine, una Bmw 320 cabrio planò sull’altro lato delle pompe. Scese un tizio, biondo, infilato in un paio di bermuda fiorati, una camicia di lino, aperta fino al terzo bottone e un paio di All Star sdrucite. Sventolò 20 euro che fece sparire nel self. Staccò la pistola, attaccò il rifornimento e disse: «Ciao, belli miei». Nives lo iscrisse dritto dritto nel girone dei figli di paparino, una sottomarca degli stronzi che a lei piaceva da matti stuzzicare per tirarne fuori il peggio, perché solo il peggio quelli si portavano appresso nelle scorribande sul pianeta. Riprese a far schioccare un paio di volte lo Zippo.

«Non si può fumare» disse Fredy all’improvviso. Non era un rimprovero: era un ragazzone di pace dietro i suoi browline. Lui non la rimproverava: le diceva che c’era una regola. Di tutta la vecchia compagnia dei tempi andati, giù, al bowling, Fredy era sempre stato così. E Nives questo lo sapeva, benché fosse arrivata quando la combriccola giù al bowling era già scoppiata da un pezzo e ognuno dei vecchi amici aveva preso più o meno la propria strada.  Nives lo aveva saputo subito, che lui era il tipo da grande fortezza di regole, eccetera: da quando si erano annusati come cerbiatti in un campus estivo messo in piedi dall’Università in una valle walser. Nives lo aveva stanato come il prediletto, prima da lontano, dietro lo schermo notturno di un gigantesco falò; poi più da vicino, nelle sue interminabili chiacchierate di fine giornata; e infine da vicinissimo, in una sera che era stata la loro scintilla seminale. Per Nives era irresistibile che fossero atterrati a quel falò da galassie diversissime: Fredy silenzioso, puntuale, aveva bruciato economia magna cum laude, e poi dritto per dritto a ficcare il naso negli indici FTSE MIB per società di brokeraggio a caccia del grande slam; Nives chiassosa, irregolare, sparpagliata negli andirivieni delle Dunhill e di lunghe tirate sulla Storia delle Ingiustizie (un corso universitario che abitava solo nella sua testa), prima di decidersi a chiudere con la tesi sul priore di Barbiana e buttarsi su una cattedra di lettere nella stessa scuola cattolica in cui aveva imparato a fumare dieci anni prima. Gettò lo Zippo nella borsetta, si staccò dalla portiera del Cruiser, occhieggiò fra le pompe e decise che era il momento per accendere la sua blitzkrieg con il nuovo arrivato.

«Hai da accendere, mica?» gli chiese. Quello armeggiava con lo schermo del cellulare, ma disse: «Non si può fumare qui: l’ha detto anche lui, bella mia».

«Ah. Lui l’ha detto. Però si dà il caso che questa sia una Dunhill».

«Ah be’. Ho visto su YouTube un tizio che si accende una sigaretta alla stazione di servizio; allora il benzinaio carica un estintore da battaglia e glielo spruzza in faccia. Proprio sul muso. Swaash!».

«Non era mica per la sigaretta. È che non era Dunhill. Le Dunhill, con le istruzioni giuste le puoi fumare. Speciali. Foglie alte di tabacco. John Lennon. Giovanni Falcone. E io. Il club Dunhill».

«Con le istruzioni. Come no» fece quello.

«L’ha detto lui. Cos’è, vi siete messi d’accordo?».

«Come no».

Nives rigirò la sigaretta fra le dita e sbuffò. «Eri mica al matrimonio, tu?» domandò. Sapeva già la risposta, perché lei aveva una memoria infallibile e uno così mica se lo sarebbe scordato, anche se si fosse sbarazzato in fretta di un Armani blu navy per indossare quella paccottiglia da hawaiano. Con la coda dell’occhio vide che Fredy aveva quasi finito.

«Quale matrimonio?».

«Nella villa, sopra là» rispose Nives, indicando la massa tonda e buia della collina che sovrastava la Sp29.

«Ah. No, non c’ero. Fanculo i matrimoni, comunque».

«Ah, sì?».

«Gente che mangia e beve. Gente che si imbosca al cesso per una sveltina. Gente che si promette la grande menzogna».

«Mica siamo andati lì per la metà di quella roba».

«Infatti siete in fuga, belli miei».

Fredy e l’altro si avvicinarono alle colonnine a riagganciare la pistola. Avrebbe scelto Fredy per un altro milione di volte.

«Mica in fuga. No, no. Mica hai capito. Io adoro i matrimoni. Io li adoro». Ma con quella frase parlava a Fredy, che la sentisse forte e chiaro.

«Ah, sì? Non mi sembrate granché allegri, però, belli miei».

Nives pensò che belli miei impreziosiva il vuoto della sua gang al giro di birra, al rollo di un paio di canne e al catalogo di ragazze che si sarebbero ripassate alla prima festa di turno. Lo avrebbe incendiato con una vampa di Zippo se quello non avesse fatto un saluto fasullo da cowboy per risalire sulla cabrio.

«Ma vaffanculo» disse Nives ad alta voce, mentre quello era già sulla Sp29. Voleva che Fredy la sentisse bene. Vaffanculo i belli miei scollati dalla bacheca della tua camera bambocciona, vaffanculo te e la sciacqua pescata su misura per te (che per Nives voleva dire una tizia per tirare a campare, comprando cose inutili, girando gastronomie per trovare tutto pronto, infischiandosene della Storia delle Ingiustizie, eccetera). Gridò forte perché sapeva che anche Fredy disprezzava quella roba perché gli ricordava suo padre e sua madre, gli imperdonabili che avevano fatto a pezzi la sua infanzia. Nives guardò verso la villa. Arrivava un rumore arruffato, un ronzio umano che aveva qualcosa di sinistro. Un brusìo da demoni. Fredy non lo sentì. Riagganciata la pistola, fece due passi infilando le mani in tasca. Spasimava per i notturni nelle stazioni di servizio: una silenziosa costellazione di porti sicuri. Una sera, quando aveva tredici, quattordici anni e si era buttato a leggere orribili romanzi di fantascienza, steso sul letto, aveva immaginato di collegare tutte le stazioni di servizio accese nella notte. La mappa degli allarmi agli attacchi alieni, la grande fortezza dove andare a parare quando la sua testa precipitava nello sfacelo dei ricordi, cioè l’inferno che era stata la sua infanzia: le urla e le mani addosso e il gelo negli anni in cui lui e suoi fratelli avevano vissuto con gli imperdonabili. Poi si fermò, si aggiustò i browline al naso e tornò indietro. Guardò intorno. Si accorse di un viottolo di terra battuta che dava alla grande villa. Fredy pensò che era esattamente il tipo di strada che a Nives sarebbe piaciuto infilare, una pancia di buio caldo: sarebbe piaciuto anche a lui, ma ogni volta che pensava di proporre qualcosa di fuoriserie, aveva paura di fare la figura del coglione, e così non diceva niente. Guardò la sagoma della villa: vide un paio di luci accese e stavolta lo sentì anche lui, il ronzio umano. Una portafinestra al primo piano si aprì e un’ombra sgattaiolò fuori, con una sigaretta accesa: lo si capiva dal puntino rosso nel nero della notte. Farfugliava qualcosa. Il brillo del puntino rosso faceva su e giù. La villa non era in pace e Fredy per certe cose non sbagliava. Più di tutto, desiderò appoggiarsi vicino a Nives e aspettare che lei si accendesse quella maledetta sigaretta, regole o non regole. Perché lui era un uomo di pace e non voleva pensarci più, a quello che si erano detti durante il viaggio. Nives, intanto, accese la Dunhill.

 

«Noi mica finiremo come quelli lì. Mica?» aveva detto una mezz’ora prima, appena venuti via dal matrimonio, all’imbocco della Sp29. «Oddio, forse siamo già così, cazzo». Aveva tirato giù il frangisole e si era guardata nello specchietto: «No, no. Per ora tutto in regola. Mica come quelli lì». Nives si riferiva ai «quattro stronzi» con i quali le era toccato dividere il tavolo durante il banchetto, una claque in perpetua trafila di letti, aperitivi, business, shopping: uguali uguali alla noia di una coda di almeno sei chilometri.

«Potresti non dire “cazzo” ogni volta?» aveva risposto Fredy. E aveva aggiunto, sistemando i browline al naso: «Per favore».

«Uffa. Stai tranquillo, non ne ho detto nemmeno uno quando te la sei svignata dal tavolo per andare chissà dove. Anzi. Sei tu che non devi dirmi “per favore”. Mi dà sui nervi. Se vuoi litigare con qualcuno, non gli chiedi mica “per favore”. Io non lo faccio, mica». Si era aggiustata la coda. «No, non glielo chiedi mica, a uno con cui vuoi litigare». Aveva appoggiato il gomito sulla portiera e la guancia sul palmo della mano. «E non hai risposto alla mia domanda. Finiremo mica come quelli. Ma tu non rispondi, mai». A Fredy la parola mai faceva paura, come la parola sempre. Lui era per i titoli in piazza Affari: non ce n’era uno che durasse sempre, non ce n’era uno che non crollasse mai. Con i quasi potevi controllare le cose, non sbavare, stare a galla.

«Non siamo come quelli lì. Penso di no. E non ci diventeremo. A meno che tu non voglia. Io non voglio». Fredy in quelli ci rivedeva suo padre e sua madre che avevano pensato solo alle reciproche dichiarazioni di guerra, infischiandosene di lui e dei suoi fratelli.

«Rassicurante».

«Perché ogni volta devi fare così».

«Ogni volta perché ogni volta è come se non avessi fatto la volta precedente. Tu non ti smuovi mai».

«Io vedo le cose come sono. Non credo diventeremo così. Io non diventerò così».

«Ecco. Tu non ci diventerai, mica. E io? Sai cosa penso? Penso che non ti fidi di me. Sicuro l’avrai pensato: chissà se a lei va bene starsene seduta in mezzo a quelli là, mica?».

«Smettila. Qualunque cosa io dica, non ti andrebbe bene».

«No, senti. La verità è che ho la sensazione che sia io a non andarti bene. Ho l’impressione che io non vada bene. Che non sono abbastanza. Abbastanza cosa, poi. Cosa? Come quella là, la tua Frida?». Nives sapeva che tirare in ballo la Frida, morta e sepolta prima che loro due si incontrassero lo avrebbe fatto saltare per aria: ma la Sp29 le era parso il posto giusto per il bum-crash! fra di loro. «Io mica sono come lei. E lei è bell’e che morta. Io no. Io sono qui, arrivata al momento giusto, e sono il meglio. Cazzo se sono il meglio». Nives era venuta su irregolare negli scadenzari delle cose di questo mondo, ma robusta nelle cose degli esseri ultraterreni, quelle che il tempo non si azzarda a farci la guerra. Quando diceva che era il meglio del tempo di Fredy, sapeva il suo destino e basta: essere per Fredy. Essere la migliore per lui nei tempi dei tempi.

«Cosa c’entra la Frida. Non toccare le mie cose. E smettila di dire “cazzo”». Nives aveva annotato nel suo block-notes aereo che lui non diceva “piantala”: diceva “smettila”. Che è più delicato. Era per questi particolari che Nives lo considerava il migliore per lei nei tempi dei tempi.

«Secondo me la Frida lo diceva. Lo diceva eccome: cazzo di qui, cazzo di là».  Si era stesa di tre quarti sul sedile, guardando fuori dal finestrino. «Quindi noi non diventiamo come quelli là. Ok» aveva sussurrato. Sembrava implorasse il bum-crash! dell’ultima conferma.

«No. Noi no».

«Noi o tu?».

«Noi due. Passami una cicca, per favore».

«E da quando tieni delle cicche? Fanno male. E dove?».

«Lì. Sotto. Ho la bocca secca».

Scovato il pacchetto nel vano porta oggetti, ne aveva presa una e gliel’aveva messa sul palmo della mano, come una particola o un pegno per l’aldilà. «Quindi noi non facciamo il brodo tiepido che stai insieme a qualcuno, ci scopi e ci fai le vacanze e vai a vedere autosaloni e vasi di cristallo per il soggiorno. Noi la nostra vita è semplice-semplice ed è questa: che ci amiamo. Poi ci sposiamo. Poi ci amiamo. Poi facciamo quattro figli. Li amiamo e loro ci amano. Poi ci odiano e noi loro. Ma poi ancora ci amiamo e li amiamo. Poi preghiamo di morire prima di loro. Poi moriamo prima di loro. E dovunque finiamo, abbiamo un segno di riconoscimento. E ci ritroviamo. Io non voglio meno di questo, Fredy». Poi aveva cambiato tono e aveva detto: «Dio che strazio queste scarpe!». Si era chinata, aveva sciolto il laccio che avvolgeva la caviglia e si era tolta le scarpe.

«Quattro figli. E se diventassero come quelli là? Quattro figli che finiscono nel tuo girone degli stronzi?» aveva detto Fredy.

«Fatti loro. Noi ci abbiamo provato. Li abbiamo desiderati diversi. Poi, fatti loro».

Fredy aveva visto i suoi fratelli più grandi diventare congegni affamati sempre di qualcosa che li arrapasse e che tappasse il gigantesco buco allargato sotto le loro vite di figli abbandonati. Se lui non era così, se non sarebbe mai diventato così, era solo perché aveva dato retta a sua nonna, la povera vecchia che li aveva tirati fuori dall’inferno.

«Allora?».

«Non lo so».

«Cosa, non sai?».

«Boh. Mettermi alle strette così».

«Qualcuno deve farlo, bello mio». Nives aveva teso la corda sul vuoto, e non conosceva altri modi di campare se non camminarci sopra. Da qualche tempo aveva messo a fuoco il desiderio, e sapeva che il desiderio è di una materia che non va su e giù come dannatissimi indici di borsa. Sta sempre lassù nel suo zenit, il desiderio. Fredy era esausto ed era entrato in una palude di silenzio. Poi era arrivata l’asticella bassa del serbatoio, e la stazione di servizio.

 

Ora erano sotto i grandi neon e Fredy la guardava. Si abbarbicò ad immaginare un flash di futuro: Nives a piedi nudi che indossa una sua camicia, lui mezzo steso sul divano con una bambina che gli respira addosso. Una fantasia che spazzava via le porcate di senso comune con cui si era schiantato al tavolo del matrimonio. Lo facevano commuovere, i bastioni della gioia prefigurata in quella scena. Però poi: una che diceva “cazzo” ogni mezza frase, poteva tirare su quattro figli? Una che lo braccava con tutto quel gran teatro, poteva far durare quel suo impareggiabile progetto di vita semplice-semplice? Fredy ingaggiò il corpo a corpo con la gioia che aveva provato, perché se le ricordava, le liti furibonde dei suoi, che facevano a botte e latravano come Schutzstaffel. Lui aveva provato a dimenticare la notte in cui sua nonna aveva trascinato lui e i suoi fratelli fuori da quella casa perbene dove sarebbero stati perduti per sempre. Lui ci provava a venirne fuori, dal portone della sua infanzia, ma testa e cuore sembravano intrappolati fra le quattro mura di quella gattabuia.

Nives intanto si era staccata dal Cruiser e aveva fatto una decina di passi verso il bosco. Era alla sterrata che portava alla villa, già oltre la linea di luce della stazione di servizio. Fredy la guardò: una gatta flessuosa come Lizzy Taylor all’apice del suo incanto. La guardò scivolare sulle espadrillas, entrare nel semibuio con la scia di fumo della sigaretta che segnava il suo cammino come i sassolini di Hansel e Gretel. Poteva starci davvero un destino fuori categoria, la vita semplice-semplice da matrimonio e quattro figli e tutto il resto? La guardò e si lasciò gioire, perché la ragzza non era una capace di fumare Dunhill seduta su 35 metri cubi di combustibile, pensando solo a un destino da Cenerentola, lei? Mica era una così, lei? Mica c’era da perdersi un’occasione così, mica?

Nives si fermò e si girò verso di lui: «Ssst! Senti…senti!».

Fred aggiustò gli occhiali sul naso. Prima gli arrivarono le grida. Poi, uscendo anche lui dal cono dei neon, piantò gli occhi sulle luci accese al primo piano. Vide le tende che si muovevano alla brezza estiva, e poi cominciò a sentire distintamente le grida, gli insulti, i colpi e rimase lì, fermo, piantato, con il solo desiderio che Nives tornasse indietro, che lui non avesse fatto rifornimento, che non fossero mai stati al matrimonio. Ma Nives aveva già messo in cantiere altri dieci passi in avanti, e ormai era dentro il viottolo sterrato. E in quel momento tutti e due la videro arrivare: un’ombra minuscola, frenetica, che via via prendeva la forma miracolosa di una bambina, scalza e con indosso un pigiamino corto. Era una bambina in corsa. Una bambina che piangeva. Nives guardò ancora indietro, verso Fredy. Aveva ancora i Ray-ban e li levò veloce. Nella penombra Fredy non poteva vederle gli occhi, ma lo sapeva, che cosa avrebbero deciso, quegli occhi. Nives corse incontro alla piccola, mentre le grida si facevano più tremende dei rumori di cose e corpi che cadevano e si perdevano per sempre. Fredy guardò Nives che prendeva in braccio la bambina e sentì che le chiedeva: «Come ti chiami?». Quindi tornò indietro con la piccola in braccio e gli disse: «Non possiamo lasciarla qui, mica?» e gli passò fra le dita la sua Dunhill ancora accesa. Fredy prese la sigaretta e sentì la mano libera di Nives stringersi al suo braccio, mentre passava e si dirigeva correndo verso il Cruiser: in un attimo era già rientrata nel bagliore dei neon. Prima di fare ciò che doveva, per un secondo Fredy rimase lì, la Dunhill fra le dita, elegante, guardando verso la villa e lasciando che ad ogni urlo, ad ogni tonfo il suo cuore rimettesse piede nello sfacelo. Gli tornò in mente che in quell’altra tremenda notte, nel trambusto di sua nonna che li caricava su una vecchia Volvo rossa per tirarli fuori dal disastro, in quella notte non era riuscito a portarsi dietro i pesciolini rossi, e non ne aveva saputo più niente. Forse Nives, se fosse stata con lui, sarebbe tornata indietro. Anzi, sarebbe tornata indietro di certo. Mica si può lasciarli lì, i pesciolini rossi delle mie brame, mica si può, no?  L’avrebbe vista venir fuori dall’inferno, con la Dunhill penzolante sulle labbra, la boccia di vetro sottobraccio, con dentro l’acqua e i pesciolini rossi e tutto il resto della sua infanzia.

 

Limina moralia: Boris Vian

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Illustrazione copertina di Marta Goldin.

Da qualche mese sto collaborando con Limina Rivista, con delle autotraduzioni dal francese di piccoli assaggi ( essais) letterari pubblicati in oltre vent’anni sulla rivista parigina l’Atelier du Roman diretta da Lakis Proguidis. Dopo Philip K Dick, Franz Kafka, Anna Maria Ortese, Charles Dickens è stata la volta di Boris Vian.

Buona lettura.

Illustrazione copertina di Marta Goldin.

Prologo

Amo questa canzone. L’ho sempre amata, più precisamente da quando l’ho scoperta in Francia poco dopo il mio arrivo a Parigi nei primissimi anni Novanta. Mi ero appena iscritto a un corso di lingua, intensivo, all’Alliance Française e un’insegnante “creativa” ed entusiasta ci aveva proposto a un certo punto un’analisi di questa canzone leggendaria. Ed è così che noi, per lo più studenti poco più che ventenni, provenienti da paesi e storie tanto diversi, ne siamo venuti a conoscenza, l’abbiamo tradotta, parafrasata, in francese, dal vero francese al nostro, un francese plausibile, non potendon ediscutere tra noi nelle nostre lingue materne. E proprio verso la fine della lettura del testo seguito all’ascolto della canzone, il mio vicino, scultore giapponese, adulto vero e non plausibile come noi, fino a quel momento impassibile e in disparte, con alzata di mano e con una calma tutta orientale aveva tolto il coperchio della casseruola in cui bolliva il paradosso più profondo della nostra arte occidentale.

“Madame, io proprio non capisco – fin qui tutto normale visto che non era francese – ma perché l’autore, dopo averci detto che diserterà perché non vuole uccidere dei poveri diavoli né tanto meno morire, e men che mai dare il suo sangue per una causa in cui non crede, com’è che poi nel finale ce lo troviamo ad avvertire i gendarmi che quanto a lui non avrà armi e che gli potranno dunque sparare senza nessuna resistenza? Ma non ci aveva appena detto che non voleva tirare le cuoia?”

Non che Thor avesse impiegato proprio quell’espressione e la memoria, vale la pena ricordarlo, può giocare sempre brutti scherzi a meno che l’esperienza non si associ a un’emozione forte e infatti una cosa non la dimenticherò mai: la faccia della professoressa, come di chi avesse ricevuto uno schiaffo inatteso e violento da un sedicente complice, insomma l’ennesimo caso di fuoco amico. Fortunatamente per tutti, la campanella della fine della lezione ci liberò dall’aula piombata nel silenzio, prigioniera della solitudine del maestro e del vuoto lasciato da una domanda impertinente rivolta dal più brillante degli allievi. Nei giardini dell’Alliance, mi sono seduto accanto a Thor, gli ho chiesto di rullare una sigaretta anche per me e, mentre si apprestava nella delicata operazione d’inserimento della cartina nel suo aggeggio un attimo prima di piazzare il tabacco, gli ho raccontato dell’articolo che avevo letto pochi giorni prima su un quotidiano a proposito del French paradoxe. Ci siamo accesi le sigarette e dopo un tiro denso di significato lui ha detto:

“Francese cosa?”
“Mi spiego meglio: dei ricercatori hanno scoperto che nel Sud-Ovest, il cui regime alimentare è generalmente piuttosto ricco di grassi, foie gras, confit de canard, andouillettes, per non parlare delle 1200 varietà di formaggi esistenti in tutta la Francia o dell’elevato tasso alcolico dei loro vini, il numero di infarti è solo di 80 ogni 100.000 individui all’anno, quattro volte meno che negli Stati Uniti, capisci ora? E i cretesi, quanto a loro, se la cavano ancora meglio con solo 38 casi ogni 100.000 abitanti, lo sapevi?”
“Tu MENTI!” aveva ribattuto un po’ piccato.
“Tutti i cretesi mentono, ma che significa questo”, pensai davvero. E me ne sono andato ringraziandolo per la sigaretta.

Amo questa canzone, l’ho sempre amata nonostante Thor. Anche quando ho scoperto che Le Déserteur, destò non poco scandalo a causa del suo finale. Sembra infatti che la versione iniziale degli ultimi due versi fosse la seguente:

«Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je tiendrai une arme,
Et que je sais tirer
…»

Sembra che Boris Vian avesse accettato la modifica suggerita dall’amico Mouloudji (la canzone era stata scritta alla fine della guerra d’Indocina, nel 1954, poco prima della guerra d’Algeria) per preservare lo spirito pacifista della canzone, ben nota a tutti con il suo vero finale:

«Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n’aurai pas d’armes
Et qu’ils pourront tirer.»

È stata Françoise Renaudot a svelare l’arcano nel suo libro Il était une fois Boris Vian, contraddetta però dalla testimonianza di un amico di Boris Vian, Harold Berg. Ad ogni modo, in entrambi i casi (diciamo alla Sullivan, il ribelle e alla Vian, il jazzista), l’osservazione di Thor è rimasta più che mai pertinente.

Amo questa canzone, l’amo anche in italiano. È stata superbamente tradotta e cantata meravigliosamente da Ivano Fossati, cantante-filosofo che ascolto da sempre. Mi piace la sua versione anche per una piccola e felice infedeltà che si rivela nella prima strofa:

«Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir…»

Canta Boris Vian, mentre nella versione italiana, Ivano Fossati ce la racconta così:

«Egregio Presidente
le scrivo la presente,
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra quest’altro lunedì.»

A mio parere, la grande libertà del disertore-traduttore ha permesso alla canzone di farsi cantare con grande agilità in italiano nonostante le chiare scappatelle dalla versione originale. La scelta del traduttore italiano, sicuramente motivata da ragioni di prosodia, mi sembra, sebbene infedele, molto felice, sia nella mise en abyme delle due lingue, la prima parte fredda, amministrativa (quella dei signori della guerra), e calda (quella del disertore), come nella sonorità delle parole scelte.
L’anomalia sta piuttosto nel fatto che l’ingiunzione a presentarsi il mercoledì nella versione francese, in quella nostrana diventi lunedì, come se intimamente il nostro sapesse che per essere sicuro di trovare l’italiano all’appuntamento del mercoledì sarebbe stato meglio dirgli che la data era il lunedì. Nella versione inglese, infatti, troviamo Before Wednesday night che ci riporta al fatidico mercoledì.
Nonostante i tanti elementi acquisiti negli ultimi vent’anni di vita adulta, lo spirito di Thor ha stregato i miei giorni, simile a quello del comunismo nei paesini democristiani del sud Italia del dopoguerra. Prigioniero a tal punto del paradosso, che quando, qualche tempo dopo, ho ricevuto il racconto scritto da un mio amico scrittore, compagno di branda quando eravamo alla Nunziatella, Marco Pelliccia, contenuto in un bellissimo libro sulla Costituzione italiana, La legge dei figli, edito da Meridiano Zero, gli ho rimproverato il fatto che qualcosa non andasse, e non certo sul piano stilistico e strettamente letterario. Marco vi raccontava infatti la storia di un poliziotto deciso a rendersi giustizia da solo nei confronti dell’uomo che guidando in stato d’ebbrezza aveva travolto sua figlia, uccidendola sul colpo. Quando il poliziotto deve scegliere tra l’esecuzione del suo diktat interiore e la sua adesione allo stato di diritto, adesione che aveva guidato fin lì ogni momento della sua vita, rinuncia alla sua vendetta quando sta sul punto di passare all’atto e preferisce uccidersi come per raggiungere l’amata figlia. Mi alzai, alzai il dito e gli feci la stessa osservazione che Thor, l’imperatore d’Oriente, aveva anni addietro profferito in una piccola e calda aula nel settimo arrondissement di Parigi.

“Sai, Marco – gli ho scritto – anche il suicidio è un atto contro lo stato di diritto”.
E qualche tempo dopo mi ha risposto laconico: “Forse, chissà”.

Epilogo (finto)

Forse, ecco la risposta, come non averci pensato prima! Se solo avessi potuto riavvolgere il nastro del tempo e tornare a quel famoso pomeriggio nel cortile dell’Alliance Française, questo avrei dovuto rispondere a Thor.
Sì, forse!
Certamente! Ma allora, forse cosa? E punto e daccapo.
Mi sono immerso nell’opera di Boris Vian, tutta, nelle sue creazioni multiple, patafisiche, con vero e falso nome, strumentali e vocalistiche, teatrali e politiche per arrestare la corsa dello spiritello di Thor che vagava nel mio corpo come un diavolo a sua volta posseduto da qualcos’altro di ben peggiore. Ho persino comprato l’audiolibro de L’Écume des jours e più di una volta sono stato perfino tentato di scrivere a Isabelle Carré, la voce recitante – la sua foto in copertina aveva giocato un ruolo fondamentale – per chiederle il perché del sortilegio.
Boris Vian, dal canto suo, avrebbe allora sfidato le leggi del sistema “litteratur” sparigliando le carte sul tavolo dei salotti bene della capitale. Ha appena incassato il rifiuto del Prix de la Pléiade, qualcosa di simile al nostrano Premio Calvino,  per il magnifico L’Écume des jours, se la sta passando male, ha bisogno di soldi e del successo che La schiuma dei giorni non era riuscito a dargli nonostante le critiche favorevoli di Queneau e Sartre.
E fu proprio lui a inventarsi nell’estate del ’46 davanti a un cinema degli Champs-Elysées, l’idea di un capolavoro per un editore in crisi, Jean d’Halluin, fondatore des Éditions du Scorpion, alla ricerca del «colpo grosso», una cosa alla Miller, un caso letterario come il Tropico del Cancro.
Della genealogia di J’irai cracher sur vos tombes, esiste su France Culture un magnifico dossier intitolato che vivamente consiglio per i francofoni, Docteur Vian et Mister Sullivan, l’affaire “J’irai cracher sur vos tombes”, documentario di Hélène Delye, regia di Véronique Samouiloff.

«Il 5 agosto del 1946 Boris et Michelle Vian sono in vacanza in Vandea con il figlio Patrick, che si è beccato gli orecchioni. Fu proprio mentre lo accudiva di notte che Boris Vian scrisse Sputerò sulle vostre tombe. Il 20 agosto, il romanzo è bell’e finito. La storia racconta di Lee Anderson, un meticcio del sud degli Stati Uniti, spinto dal desiderio di vendicare il fratello, linciato a morte perché innamorato di una donna bianca. È un romanzo noir, che denuncia il razzismo. Ed è anche una storia cruda, dove sesso e violenza giocano un ruolo predominante. Boris Vian decide di far credere che il libro sia opera di un romanziere americano per il quale s’inventa un nome: Vernon Sullivan. Ufficialmente, lui è soltanto il traduttore. Solo sua moglie Michelle e l’editore Jean d’Halluin sanno cosa sia accaduto dietro le quinte.»

Vian

Trent`anni prima che Romain Gary si prendesse gioco della società delle lettere francesi, pubblicando il capolavoro La Vie devant soi, sotto falso nome e premio vero, il Goncourt, a Boris Vian il colpo era riuscito con un cocktail esplosivo di politica e pornografia; certo si trovò tutti contro, dalla Giustizia per oltraggio al pudore, alla critica, ma non i lettori che in poco meno di due anni furono ben 110.000.

Nonostante tutto questo Boris Vian aveva permesso a un umile scultore giapponese di devastare come uno tsunami le solide coste dello spirito cartesiano dell’Hexagone trasformando il 34 rue de Fleurus (delle Ninfee?) in una Pearl Harbor europea?
Ho quindi studiato a fondo tutto, perfino i collage a lui dedicati da Jacques Prévert e consultato tutto il materiale audiovisivo presente sul Web. Sul sito dell’INA (equivalente del nostro Istituto Luce) si può per esempio ammirare un meraviglioso intervento di Christian Bourgois che rende omaggio ai fedeli lettori dell’opera di Boris Vian: e già perché erano stati loro a decretarne il successo editoriale degli anni Settanta. Un successo postumo, diciamo, ma comunque un successo!
Eppure.
Nonostante tutto il mio da fare non ho trovato una risposta alla fine. In tutto quello che ho potuto leggere, vedere, consultare, non c’era un rigo, una nota a margine, una strofa di canzone, non un disegno che mi permettesse, come uno spicchio d’aglio, di rompere l’incantesimo, allontanare dal campo mentale definito da Thor, la sua beffarda risata orientale: insomma, per usare un francesismo, ero fottuto!

Epilogo (vero)

O per dirla meglio, lo sarei stato se non avessi, per caso, trovato un’intervista a Boris Vian realizzata per un canale televisivo giapponese e in cui, meraviglia delle meraviglie, vediamo, su Yout-Ubu-roi, il mio maestro cantare in un poco plausibile italiano una serenata dada, accompagnato da una chitarra molto strana, Mozzani, fabbricata dal fratello liutaio.
Alla domanda del giornalista su cosa stesse cantando, Boris Vian – la sua somiglianza fisica con Vladimir Majakovskij è sbalorditiva – candidamente risponde:

“So I never went to Italy so I have to write a song about it to know it.”

Thor, sei mio! Non vi sono paradossi in Boris Vian perché è lui stesso un paradosso, e se è vero che per il colesterolo ne esiste uno buono e uno cattivo, come per la cazzimma, quella cattiva di Thor, che Boris tutto fa brodo, perché ogni cosa appartiene al mondo del possibile; cioè, potevamo andare in Italia senza averci mai messo piede, andare in guerra senza aver sparato un colpo o battersi contro il razzismo facendo propria la battaglia di tanti amici jazzisti afroamericani. Quale ingiustizia peggiore esiste nella creazione di quella d’imporre alla parola il fatto di essere realtà e non, al contrario, attribuirle la sua vocazione maggiore, ovvero di esserne l’esploratrice, privando la stessa parola della sua missione più intima, cioè il carotaggio del regno dei possibili. La verità della sfida letteraria, che sia una canzone, una poesia o un romanzo, non è forse proprio in questa estensione del dominio della creazione, capace di estendere la realtà alla sua dimensione perfino paradossale ma più autentica.
Così come, tra tutti i cretesi, ce ne sarà sicuramente uno che dice la verità, alla maniera di Franz Kafka che ci racconta l’America più vera senza mai esserci stato, possiamo dire che Boris Vian rinasce ogni volta che citiamo una sua frase, ne recitiamo un verso, ne cantiamo un strofa delle sue canzoni, consapevoli che insieme a lui anche ogni mondo da lui esplorato rinasce. Scopriamo le cose, le rendiamo possibili nel momento stesso in cui le esploriamo, anche se quelle cose sotto altre formeci abitavano già. In Le relazioni pericolose di Vadim c’è un breve dialogo che vede Boris Vian, attore, offrirci una degna controreplica al discorso:

Juliette, vous ne vous occupez jamais de moi.
Mais je vous aime bien, Prévan.
Ce «bien» me crève le cœur.
Vous avez un cœur?
Oui, depuis que Valmont nous a fait nous rencontrer.
Vous devriez lui être reconnaissant: c’est rare aujourd’hui d’avoir un cœur.

“Juliette, lei non si prende affatto cura di me.”
“Eppure le voglio bene, Prévan.”
“È quel «bene» che mi fa male al cuore.”
“Perché? Lei ne ha uno?”
“Sì, da quando Valmont ci ha presentati.”
“Dovrebbe allora essergliene grato: è raro di questi tempi possederne uno.”

Raccontano che quando il cuore di Boris Vian gli è stato strappato dal petto nella sala del cinema Marbeuf, durante la prima proiezione del film tratto dal suo romanzo J’irai cracher sur vos tombes, pochi secondi prima di accasciarsi avesse imprecato: “Americani un cazzo!”.
Certe delusioni possono giocare brutti scherzi; ritrovarsi dieci anni dopo l’uscita del romanzo nuovamente delusi dall’ambiente, dai produttori del film, dalla pessima recitazione degli attori davvero poco plausibili come americani sarà stato sicuramente insopportabile. Oppure era il cuore a battergli troppo come Vian sapeva, come i suoi amici più intimi che lo vedevano pulsare da sotto la camicia senza però mai farne parola.
Ripenso a Thor, mi verso dello Chasse-Spleen nel bicchiere e, brindando a lui, canticchio una strofa di Je bois, precisamente quella in cui il Principe di St Germain dice:

«Je bois
Systématiquement

Pour oublier tous mes emmerdements

Illustrazione copertina di Marta Goldin.

L’Apocalisse è una festa

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di Adriano Ercolani

 

Da alcuni mesi, nelle mie letture digitali, mi è capitato di incontrare un nome ricorrente, a firma di articoli ben scritti e solidamente strutturati su temi a me cari: l’opera di Tarkovskij, il cinema di Carmelo Bene, la cosmogonia gnostica, gli archetipi (in un’accezione sorprendentemente non junghiana).

Il nome è quello di Ludovico Cantisani.

Colpito dalla preparazione indubbia e la forsennata prolificità (tratto che mi ha suggerito un’immediata vicinanza interiore), ho deciso di contattare questo autore così affine per gusti e interessi.

Una volta scoperto che entrambi vivevamo a Roma, è sorto spontaneo il classico invito a prenderci un caffè.

Mi aspettavo un colto professore cinquantenne: mi sono ritrovato un ragazzo poco più che ventenne, di origini lucane, dagli occhi ardenti e l’umorismo tagliente.

Cantisani è un esempio, raro, di come si possa conciliare qualità e produttività:  ha già pubblicato cinque libri (cinque!) di cinema, tutti per Artdigiland.

Non si tratta di bignami sbrigativi, scritti a tirar via: sono saggi accurati, dalla bibliografia rigorosa, spesso corredati da interviste corpose ai protagonisti, volumi ben ragionati in cui già emerge uno sguardo critico consapevole. Non per nulla, pur non essendo pubblicati per case editrici da cinquina del Premio Strega, sono stati presentati a Radio 3 e recensiti su testate quali Repubblica, il Venerdì e Left. In particolar modo, trovo interessante come a partire dal saggio L’Apocalisse è una festa la sua attenzione come studioso si sia spostata dal cinema verso un progetto più ampio di antropologia della narrazione.

Ma Cantisani non è solo un critico e un saggista: giovanissimo, è entrato nel mondo del cinema al fianco di Luciano Tovoli, tra i maggiori direttori della fotografia del cinema italiano (lo sguardo ipnotico e visionario di Suspiria di Dario Argento, per intenderci, ma non solo), e si specializza nel settore della produzione cinematografica.

Incontrare una figura così vivace e stimolante, in un momento in cui le testate di approfondimento culturale dibattono sui peli delle ascelle delle influencer come avanguardia della rivoluzione, mi ha imposto moralmente di parlarne pubblicamente.

O, meglio ancora, di far ascoltare la sua voce.

Ecco la nostra conversazione sulla sua già ragguardevole produzione saggistica.

La tua attività è molteplice e proteiforme. Vuoi descriverci il tuo percorso fino a oggi?

Il “molteplice” deriva da un mio implacabile impulso ad improvvisare, il “proteiforme” è figlio di una mia estrema facilità alla noia. Ho avuto a monte un percorso scolastico decisamente sui generis, non tanto sul fronte dei risultati quanto nel rapporto con l’istituzione scolastica – benché io debba tantissimo ad alcuni singoli professori come Enrico Castelli, Antonella Fucecchi e Fabrizio Manieri. Alla fine del quarto anno di classico ho optato per finire gli studi da privatista, nello stesso Liceo Tasso che avevo fino a quel momento frequentato, più o meno nello stesso momento in cui ho iniziato a lavorare nel mondo del cinema. Nell’estate del 2019 ho infatti girato Penelopes, un cortometraggio-studio sull’Ulisse di Joyce la cui sceneggiatura piacque molto al grande autore della fotografia Luciano Tovoli, che accettò di fotografare il corto e di co-produrlo. Penelopes, di cui ero sia regista che produttore, ha partecipato a diversi festival tra Italia e Irlanda, e mi ha permesso di conoscere l’Augustus Color, un’importante società di cinema che curò generosamente la post-produzione di quel corto. Sono da poco tornato da un viaggio a Lisbona, dove abbiamo girato alcune scene di un documentario sul film Sostiene Pereira di Roberto Faenza, tratto dal romanzo di Tabucchi, che l’Augustus di recente ha restaurato; adesso sono alle prese con le ultime giornate di ripresa di un documentario sulla storia della Technicolor Italia, nato da un’idea di Christian Raimo, diretto da Mario Musumeci e prodotto dalla Estra Digital, per il quale abbiamo avuto l’onore di intervistare anche il tre volte premio Oscar Vittorio Storaro. Con una mia società di produzione, Ithaka, che ha base a Cinecittà, ho gestito assieme a Fabio Crisante e al mio socio Simone Marra alcuni appalti di progetti di cinema nelle scuole. Cinematograficamente parlando, in questo momento mi sto concentrando soprattutto sulla produzione, mentre l’approfondimento concettuale sto cercando di portarlo avanti a livello di saggistica.

Dovendo tracciare una linea, quali sono i tuoi interessi di fondo?

Al di là di questa divisione di fondo tra côté produttivo e côté culturale, i miei principali interessi sono la semiotica e la mistica – intendendo entrambi i termini nell’accezione più ampia possibile. Il cinema rappresenta una fusione privilegiata tra questi due campi, tra il linguaggio portato al parossismo delle sue possibilità meta-analitiche, e la scoperta di una dimensione ineffabile, inesprimibile, in cui il linguaggio naufraga e dove valgono solo le immagini. Non è però il mio unico interesse, anzi, quanto più lavoro nella dimensione industriale del cinema, tanto più scopro vitali altri campi del sapere umanistico. Leggendo un saggio di Carlo Ginzburg sull’immagine ho scoperto che Siegfried Kracauer nella sua Theory of Film scriveva che il cinema è solo un pretesto; penso sia maledettamente vero. Tra Bazin, che concepiva il cinema come un linguaggio, e Deleuze, che tra l’Immagine-movimento e l’Immagine-tempo lasciava affiorare una concezione del cinema come forma di pensiero, ultimamente mi sento più vicino a Bazin – molto più di quanto vorrei. Solo rare volte – in Malick in modo sommo – il cinema scavalca sé stesso, la sua sintassi, il fardello della narrazione. Solo in questi momenti la “settima arte” è al colmo delle sue possibilità, e riassume in sé, come voleva Bergman, tutte le altre arti e linguaggi; altrimenti resta ancillaria rispetto alla letteratura e al teatro. Il cinema, in un certo senso, resta una potenzialità raramente esplorata fino in fondo.

Parlando del tuo ultimo libro L’eroico Masini, cosa ti ha colpito di questa figura fino a farti dedicare una monografia così corposa?

Il libro L’eroico Masini. Un direttore della fotografia tra Carmelo Bene e i fratelli Taviani     nasce da una proposta di Silvia Tarquini, la fondatrice di Artdigiland, una casa editrice italo-irlandese con un’importante collana sui direttori della fotografia. Per questa collana erano già usciti libri-intervista a maestri della luce come Luca Bigazzi, Beppe Lanci, Pino Pinori e lo stesso Tovoli, con il quale anzi ero entrato a suo tempo in contatto proprio grazie a Silvia. Prima de  L’eroico Masini avevo curato io stesso due libri-intervista a Vladan Radovic, tra i maggiori d.o.p. del cinema italiano contemporaneo, uno monografico su Il traditore di Bellocchio e uno più ampio su tutta la sua carriera, Arcobaleni di grigi e nuovi colori, generosamente sostenuto da Arri Italia e da D-Vision; e mi ero trovato anche a curare Conversazioni su Favolacce, sul secondo film dei D’Innocenzo; questo libro su Masini è stato un nuovo tassello di una collaborazione già da tempo avviata. La fase preparatoria de   L’eroico Masini ha rappresentato per me l’occasione di conoscere e studiare approfonditamente il cinema di Carmelo Bene, sul quale continuo a interrogarmi anche a distanza di anni dalla prima visione. Arrivato alla scena della crocifissione mancata nella  Salomè, mi accorsi definitivamente di avere sotto gli occhi qualcosa di fronte al quale gran parte dei film che avevo visto negli anni passati semplicemente perdevano di senso.

Cosa ha rappresentato per te l’incontro con Masini?

Come ho provato ad elaborare in un articolo scritto per Limina Rivista (https://www.liminarivista.it/comma-22/gli-occhi-che-hanno-visto-la-vista-in-margine-a-un-libro-intervista-con-mario-masini-su-carmelo-bene/), quello con Mario è stato uno degli incontri più straordinari della mia vita. Paradossalmente, mi ha insegnato innanzitutto a relativizzare il cinema, dal momento che, dopo due decenni di onorata carriera come direttore della fotografia e subito dopo aver fotografato Padre Padrone dei Taviani che aveva vinto a sorpresa la Palma d’Oro a Cannes, Masini ha abbandonato il cinema per darsi all’insegnamento nelle scuole steineriane. Questo fatto rappresentò una grande soddisfazione per Carmelo Bene, che lo vide come una conferma del fatto che dopo aver attraversato i suoi set era impossibile continuare a fare cinema in senso tradizionale: ma, smentendo tutto e tutti, negli anni novanta Mario è tornato sul set, lavorando anche a un importante film africano come TEZA.

Da cosa viene il titolo L’Eroico Masini, e come si sono svolte le interviste con lui? Su quali aspetti della cinematografia di Bene ti sei voluto concentrare?

Mario Masini ha fotografato quattro su cinque degli “anti-film” di Bene, Nostra Signora dei Turchi, Don Giovanni, la Salomé e Un Amleto di meno. Fu Carmelo Bene stesso a dargli l’appellativo di “eroico”, per come era riuscito a girare quattro film con complessi giochi visivi lavorando praticamente da solo, almeno fino alla Salomé. Nell’intervistarlo,  attingendo anche alla mia personale esperienza al fianco di Tovoli, ho cercato di dare il giusto risalto all’aspetto tecnico del cinema beniano, dal momento che C.B., nonostante i suoi strali contro il cinema “nato morto” e contro l’immagine  tout court, aveva una notevole conoscenza dei mezzi tecnici e del linguaggio audiovisivo – il fatto che poi arrivasse a calpestare letteralmente la pellicola, come racconta Mario nel corso del libro, non gli precludeva un’intuizione geniale del nesso che lega tecnica e semiotica. Mario vive da tempo a Stoccarda, quindi abbiamo realizzato tutto il libro grazie a lunghe sessioni Skype; spero di poterlo incontrare in occasione dei vari festival estivi a cui siamo stati invitati. Avendo curato ormai diversi libri-intervista, con un altro paio già pronti e di prossima pubblicazione, devo confessare di vedere L’eroico Masini  come un punto di approdo di un percorso da critico cinematografico o “intervistatore” che non penso possa durare ancora molto. La mia prossima pubblicazione sarà    Il meridionalista dell’immagine, uno studio sul cinema e la televisione di Vittorio De Seta che uscirà per l’editore lucano Edigrafema, con un bel pattage di interviste; ma nell’ultimo periodo sto cercando di concentrarmi sulla saggistica, andando anche al di là del cinema.

Quali sono i tuoi numi tutelari o autori di riferimento?

Tre modelli ispiratori assoluti, ma andando ben al di là di ogni culturalismo, sono Roberto Calasso, Carmelo Bene e Franco Battiato. A livello saggistico, i miei due numi tutelari sono sicuramente Ernesto de Martino e René Girard; del primo, avendo io origini lucane e calabresi, avevo sentito parlare sin dall’infanzia, e l’ho approfondito monograficamente durante il primo lockdown; quanto a Girard, leggere Il capro espiatorio fu una delle più grandi folgorazioni della mia vita, e ho avuto il piacere di approfondire il suo pensiero anche grazie alla mia frequentazione con il Centro Studi italiano a lui dedicato. La mia prima grossa infatuazione concettuale fu a dire il vero per la psicoanalisi freudiana, ormai quattro anni fa; ma da allora ho letto gran parte delle opere anche di Jung ed Hillman. Non so sinceramente dove collocarmi, sia nell’eterna diatriba tra le diverse scuole di pensiero psicoanalitico, sia nel discorso epistemologico sul senso della psicoanalisi tout court; la mia unica certezza è che la nozione di archetipo, anche al costo di “de-junghianizzarla”, è e resterà al centro di molte delle mie riflessioni. Gli ultimi due autori che ho approfondito in ordine di tempo sono stati Carl Schmitt e il teologo Sergio Quinzio, di cui mi ha appassionato molto il concetto di cinosi, l’idea che Dio, per creare il mondo, si sia svuotato, aprendosi potenzialmente anche alla sconfitta. A breve uscirà per Bianco & Nero, la rivista del Centro Sperimentale adesso diretta da Alberto Crespi, un mio articolo che rappresenta un tentativo di applicare il concetto paolino-schmittiano di katechon alla fantascienza a sfondo ecologico.

Ne L’apocalisse è una festa ti occupi di antropologia della narrazione, rifacendoti a uno studioso come de Martino. Da cosa è nata l’idea del saggio e come ti sei approcciato all’opera di de Martino? 

L’Apocalisse è una festa. Il cinema della fine del mondo e l’antropologia di Ernesto de Martino, uscito a novembre nella collana saggistica di Artdigiland, è stato il primo, forse embrionale risultato della folgorazione provata leggendo, durante il lockdown di marzo-maggio 2020, gli appunti che de Martino aveva accumulato per il suo incompiuto La fine del mondo, nella nuova edizione Einaudi. La fine del mondo avrebbe rappresentato un passo in avanti radicale nel percorso di de Martino rispetto ai saggi del de Martino meridionalista, che già erano capolavori o quantomeno capisaldi dell’etnografica praticata prima “da tavolino” e poi, egregiamente, “sul campo”. Anche e forse ancor di più nella forma inconclusa, work-in-progress, frammentaria in cui ci è arrivata quest’opera a causa della prematura morte di de Martino, La fine del mondo è ricca di spunti fertilissimi e di intuizioni geniali che portano l’antropologia ben al di là rispetto ai suoi confini abituali. Il legame con de Martino è diventato per me quasi un fatto di sangue, e una delle emozioni più grandi della mia vita l’ho avuta quando sono andato, assieme a Goffredo Fofi, a consegnare una copia del L’Apocalisse è una festa a Vittoria De Palma, l’ultranovantenne vedova di de Martino, ultima testimone vivente delle leggendarie spedizioni etnografiche del ’59.

Qual è il nesso tra de Martino e il cinema?

 Ne La fine del mondo i riferimenti al cinema sono davvero pochi, benché de Martino fosse stato, nell’ultima parte della sua carriera, molto attento alle potenzialità etnografiche del documentario; nondimeno, leggendo La fine del mondo, mi è apparso evidente che tutto ciò che lui scriveva sul binomio “apocalisse culturale” e “apocalisse psicopatologica”, dilungandosi tra l’antico rituale latino del mundus patet e la letteratura esistenzialista in voga nei suoi anni, poteva facilmente essere applicato al cinema. Un’applicazione contemporanea del concetto di “apocalisse culturale”, una variante secolarizzata di quei miti antichi che si relazionavano con la possibilità di una fine del mondo per poi risolverla, esorcizzarla, la si ritrova facilmente nei blockbuster catastrofisti all’americana; che, per inciso, con le loro redemption stories per cui tutti i protagonisti si riscattano mentre i potenti della terra vengonk umiliati recuperano elementi dell’escatologia cristiana – gli “ultimi che saranno i primi” – molto più di quanto a un primo sguardo appaia (https://www.artdigiland.com/blog/2020/3/21/apocalissi-culturali-e-apocalissi-psicopatologiche-lescatologia-di-roland-emmerich). Dall’altro lato, un capolavoro del cinema d’autore come Melancholia di Lars von Trier rappresenta, in un altro medium, esattamente quello che de Martino intendeva rilevando “apocalissi psicopatologiche” e vissuti di fine del mondo nella letteratura esistenzialista dei vari Sartre, Camus e Moravia, oltre che nei testi di psichiatria consultati a suo tempo da de Martino.

Quanto pensi che il sentimento apocalittico sia diffuso tra gli autori del Novecento?

Dopo l’iniziale folgorazione demartiniana, il concetto di apocalisse l’ho ritrovato in molti autori, in primis i già citati Schmitt, Quinzio e Girard. Di fronte alla fascinazione che si prova in ogni catastrofe, e di fronte a quell’abitudine fin troppo umana di gridare alla fine del mondo di fronte a ogni mero cambiamento, vale sempre l’implicito monito di Umberto Eco di non essere né troppo apocalittici né troppo integrati. Dall’altro lato, prendendo spunto dalle riflessioni para-etimologiche di Heidegger sulla verità a partire dal greco aletheia – ma anche dall’ambiguità semantica di un altro grandioso termine greco quale è theoria – ultimamente mi sono interrogato molto anche sulle implicazioni epistemologiche dell’apocalisse. Che apocalisse in greco voglia dire “rivelazione” è un fatto piuttosto noto, ma se nella lettura heideggeriana aletheia andava tradotto come “svelatezza”, è tanto facile quanto sinistro immaginare un’equazione. Il titolo L’Apocalisse è una festa fu un’intuizione del tutto irrelata, a quei tempi non avevo ancora letto un rigo di Heidegger, ma a volte mi sembra che una parte importante del percorso compiuto dopo quel primo saggio abbia tentato di parafrasare quel titolo. Come ho cercato di argomentare in un testo extra-cinematografico apparso per Limina sul tema dell’eschaton a partire da Derrida (https://www.liminarivista.it/oltre-la-soglia/eschaton-quel-bisogno-della-filosofia-occidentale-di-sognare-la-propria-fine/), si può arrivare a dire che l’apocalisse è la festa della verità. Una verità palesemente assassina – il che ci porta ai tragici.

Hai già pubblicato per Artdigiland, appunto, questo capitolo che è solo la prima parte di un progetto molto ambizioso. Vuoi parlarcene?

 

L’Apocalisse è una festa è un saggio che ho scritto di getto durante il lockdown, basandomi quasi unicamente su La fine del mondo di de Martino con qualche contributo da Girard e dallo Jung di Un mito moderno. Continuando a riflettere su quel saggio, anche in occasione delle presentazioni che abbiamo fatto non appena il Covid ce lo ha permesso – tra le più belle, quella al Cine Détour di Roma e quelle ai festival lucani di cinema di Salandra e di Pisticci – mi sono accorto di aver sfiorato, inopinatamente, una linea di pensiero che poteva espandersi ben al di là di un singolo libro. Sulla definizione, resto incerto tra “antropologia della narrazione” e “critica dell’immaginario”. Dai tempi de L’Apocalisse è una festa, ho aggiunto in bibliografia, oltre a Girard, a de Martino, e ai padri fondatori della psicoanalisi, anche Eco, Barthes, Joseph Campbell, Deleuze, Foucault, Calasso, Riberi, Ginzburg, Scholem, Benjamin, Taubes, e appunto Heidegger con la sua nozione di verità. Attingendo alle loro opere, sto tentando un solve et coagula che auspicabilmente permetta, con un certo rigore ermeneutico ma al tempo stesso con un’interdisciplinarietà lontana da ogni accademismo, di comprendere e cogliere, attraverso le narrazioni, le criticità, i fantasmi irrisolti e i punti fermi della nostra società e della nostra cultura in senso ampio.

In questo percorso di antropologia della narrazione quali sono le tematiche che pensi di approfondire in futuro?

Le macro-aree su cui concentrarmi, un saggio alla volta, mi sono abbastanza chiare: il cinema dei supereroi, il cinema di fantascienza e poi, mettendo da parte il cinema, l’esistenzialismo in senso ampio, il tema del Ritorno colto diacronicamente, e lo spirito tragico dei greci. Se le tematiche e gli autori di riferimento di questo progetto di antropologia della narrazione mi sono chiari, è la questione del metodo quella su cui mi interrogo. Per ora accumulo materiali di ogni tipo: per me il maggiore merito de L’Apocalisse è una festa resta quello di aver trattato un capitolo dopo l’altro prima Sacrificio di Tarkovskij e poi i B-movie giapponesi su Godzilla, e sto cercando di continuare ad attenermi alla stessa logica al tempo stesso analitica e scanzonata anche in questi libri futuri. Il tempo delle maschere, un tentativo di indagine sul fondamento messianico dei film di supereroi in rapporto con la crisi delle istituzioni democratiche occidentali, è a buon punto, e spero possa vedere presto la luce. Il tema di maggiore fascinazione per me resta comunque il tragico greco, da approfondire in tutte le sue evoluzioni anche contemporanee alla luce di concetti quali “epifania negativa”, e l’ambiguità del termine theorein (https://www.minimaetmoralia.it/wp/cinema/maschere-di-gomma-ed-epifanie-negative-lhorror-americano-e-la-tragedia-greca/). Ma scandagliare questi temi non è mai innocuo, se è vero che, come scrisse nel modo più sintetico Vincenzo Di Benedetto, “nella tragedia greca, il vero male deriva dal conoscere”. Chi scrive, è sempre esangue.

Annie Ernaux e “Le jeune homme”

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di Ornella Tajani

 

Le roman est impossible.
A. E.

Annie Ernaux conferma il suo talento in ogni testo che scrive, anche nell’ultimo Le jeune homme, apparso in Francia a maggio per Gallimard: il racconto della passione per un ragazzo di vent’anni, nel momento in cui lei era già una scrittrice cinquantenne, diventa una sorta di dispositivo immaginifico della memoria, sia sul piano dell’esperienza, sia su quello della scrittura. I mesi trascorsi con A. scorrono per l’autrice sopra una sorta di nastro di Krapp: tutto è già stato vissuto, le strade di Rouen in cui passeggia con lui sono le stesse che percorreva quando era una studentessa di lettere; l’ospedale dirimpetto all’appartamento in cui fanno l’amore è quello in cui era stata ricoverata in seguito al tentativo di aborto clandestino raccontato in L’événement.

Questo è senz’altro uno dei punti di forza di Ernaux: ogni nuovo testo è un tassello di una medesima opera più grande, unitaria, un’auto-socio-biografia che racconta il suo percorso di donna, di intellettuale, e nel farlo dipinge sullo sfondo l’affresco di un’epoca e uno spazio attraversati dalla lotta di classe.

Le storie di Ernaux non sono mai soltanto ciò che sembrano: ogni episodio travalica i confini del vissuto e produce riflessione, discorso. È questo uno dei sensi dell’esergo: «Si je ne les écris pas, les choses ne sont pas allées jusqu’à leur terme, elles ont été seulement vécues». L’idea della scrittura come compimento e (ri)significazione insegue un’elaborazione che aggira il percorso psicanalitico e ripercorre le tracce di esempi letterari classici: se proustianamente il ricordo è una forma di passione, per l’autrice la passione è già una forma di scrittura, e qui di ricordo. A questo proposito, l’incipit può trarre in inganno e sulle prime apparire stucchevole: «Souvent j’ai fait l’amour pour m’obliger à écrire», ma a ben guardare si rivela una provocazione; l’amore, anche fisico, è sempre per Ernaux il motore di un’analisi introspettiva che si spinge ben oltre la relazione di volta in volta narrata. Qui il ragazzo amato rappresenta «le passé incorporé», e, più avanti, è visto da lei come la propria stessa morte: «il était ma mort» (il giovane amante come incarnazione della propria morte è, peraltro, una figura tipica nell’opera di Jean Cocteau).

Quasi tutto il senso del racconto è racchiuso in ciò che A. dice nel momento in cui vede una foto di lei da giovane, al tempo in cui l’autrice aveva la sua stessa età: «cette photo-là, elle me fait de la tristesse» – frase emblematica di una dolorosa impossibilità, ma che ben suggerisce il gigantesco déjà-vu (déjà-vécu) che è al centro di questo piccolo libro.

Gita al lago

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di Paola Ivaldi

Durante una breve passeggiata solitaria verso il lago Lod, poco sopra il comune di Chamois, in Val d’Aosta, mi è capitato di assistere, mio malgrado, a uno scontro famigliare, il classico litigio per un nonnulla che, visto da lontano, con il favore dunque del distacco e della neutralità, fa capire come spesso queste collisioni possano rivelare molto più di ciò che sembrano.

Lui. Aveva piazzato la grossa macchina fotografica sul cavalletto, a bordo lago, e vi si aggirava attorno con movimenti un po’ a scatti, un fare pedante, un atteggiamento che tuttavia, nel suo complesso, gli conferiva l’apparenza di uno che sa il fatto suo, con grande borsone al seguito probabilmente pieno di obbiettivi e chissà che altro ancora.

Nel percorrere il sentiero mi trovavo a una trentina di metri da lui e ho pensato distrattamente che fosse un appassionato di fotografia in fiduciosa attesa di un proprio carpe diem. Tiro dritto per completare il giro del lago e poi sedermi al sole a mangiarmi il panino in santa pace quando mi accorgo della presenza, sulla sponda quasi opposta alla mia, di un bambino urlante che corre all’impazzata in rapido avvicinamento, seguito a breve distanza dalla mamma, verso il fotografo: suo padre dunque. Nelle mezze stagioni può capitare che attorno allo specchio d’acqua non vi sia anima viva. Quella volta, si era in aprile, eravamo in quattro e potrebbe anche darsi il caso che loro non mi avessero neppure notata. Il fatto è che quando l’uomo li ha visti entrambi, ormai a pochi metri da lui, ha iniziato a sbraitare.

“Noooo… Ma siete già qui? Oh, ma dico: non è possibile! Vi chiedo cinque minuti, e voi siete: già qui! Guarda, lascia stare, non importa, però cazzo non è possibile, no, non è nemmeno più possibile, per me, avere cinque minuti di pace, per fare una foto, dico una. Ma lascia perdere, basta! Metto via tutto e non se ne parla più. Baaasta: ho detto! Ho detto bastaaaa” e avanti così. La moglie non si sentiva se parlasse o quale eventuale risposta tentasse di imbastire; il figlio, di pochi anni, stava immobile, ammutolito, pareva una statuina.

Da lontano, camminando, ogni tanto mi voltavo e li osservavo: lui aveva smontato tutta la sua postazione in fretta e furia, i gesti ampiamente teatrali. Poi si sono allontanati, tutti e tre in fila indiana, verso uno dei tavoli dell’area attrezzata. Prima che sparissero nel bosco e li perdessi definitivamente di vista ho solo più afferrato lo sgarbo con il quale lui diceva a lei: “… ma che panino e panino, cosa vuoi che me ne freghi dei vostri fottuti panini: mangiateveli tutti voi, a me è passata la fame”.

Proseguo il cammino tutto intorno al lago, chiedendomi attonita perché. Come si possa spiegare una reazione così spropositata per una foto. Ho guardato per qualche attimo il lago da dove all’incirca si era piazzato lui, ma non vi ho colto nulla di straordinario, né nell’eventuale inquadratura né nella luce o nei colori; nell’insieme non c’era da aspettarsi granché da quello scatto mancato se non la foto di un lago di montagna: una foto qualsiasi di un laghetto qualsiasi.

Mi sentivo imbarazzata per loro, provavo tenerezza soprattutto per la moglie e il figlioletto, immaginandomeli mangiare in silenzio i loro fottuti panini, preparati qualche ora prima con cura, avvolti uno dopo l’altro, nei tovaglioli di carta a quadretti e poi nella stagnola, pregustando il momento in cui avrebbero riaperto, uno dopo l’altro, tutti i loro pacchettini argentati: “Che bello: si va al lago!”.

Anche lui, comunque, nella sua apparente performance recitativa suscitava tristezza. Perché quando si giunge a simili reazioni per futili motivi, oggettivamente futili, c’è un disagio che cova, la coppia ha perso, o sta perdendo, per strada molti pezzi. Può essere di tutto. Da lontano non si può sapere né giudicare, ma osservando e ascoltando provavo sensazioni, un disagio di coscienza, ripensando a tutte le volte che ero stata io a dare in escandescenze per delle emerite sciocchezze. A tutte le volte che accade. A tutte le coppie che.

Se ci pensiamo, se riuscissimo di più a pensare a noi stessi con un sano distacco, che non è indifferenza, ma cambio radicale di prospettive, scopriremmo che assomigliamo, in quei frangenti, a degli spennacchiati galletti da combattimento che si azzuffano per un lombrico.

La parte del soccombente e quella, monologante, dell’urlatore possono essere declinate a entrambi i ruoli genitoriali. I figli sono l’involontario pubblico, assistono alle metamorfosi di papà e mamma, soffrendo in silenzio e poi avventandosi eventualmente sul panino per poi giocare con la pallina ricavata dall’aver serrato in pugno, forte forte, tutta la pellicola di alluminio.

Io, a proposito di mangiare, nel frattempo avevo rinunciato alla mia sosta e puntavo ormai a scendere verso il paese. Lungo il sentiero sto per incrociare due coppie decisamente in là negli anni, nella tipica formazione: gli uomini davanti, le donne dietro, a una distanza tale che a ognuno dei due gruppetti è consentita la libertà di parola.

La cosa sorprendente, perché in effetti capita di rado, è che passando accanto alle due donne colgo al volo queste parole: “No, ma guarda, io lo devo proprio dire: per me incontrare Elio è stata una enorme fortuna. Sai quando senti di essere fatti uno per l’altra? Ecco: ci piacciono le stesse cose, stiamo bene insieme, siamo felici, stiamo davvero così bene insieme che io dico sì: che è proprio una fortuna!”.

Lasciandomele alle spalle mi sono chiesta per un lungo attimo quale dei due uomini, che stavo nel frattempo già superando, potesse essere Elio: il signore che stava discorrendo amabilmente di prostatite, o l’altro che annuendo mansueto ascoltava l’amico? Oppure ancora, ipotesi decisamente più ardita: un terzo uomo in quel momento assente dallo scenario alpino?

Elio Elio… non saprò mai chi tu fossi, ma dopo tutto non mi importa granché, le mie vedute essendo sufficientemente ampie per contemplare anche la terza delle ipotesi. Quel giorno, intanto, mi accontentai dell’entusiasmo: il solare entusiasmo con il quale la donna aveva ammesso la propria fortuna, le parole genuinamente amorevoli confidate all’amica sorridente mi bastarono per riconciliarmi con l’arcana complessità dei rapporti di coppia.

 

STRADARIO AGGIORNATO DI TUTTI I MIEI BACI

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di Daniela Ranieri

Ospitiamo molto volentieri la prima metà di un capitolo (intitolato “A. Daltonismo”) della bellissima tassonomia mascolina/amorosa di Daniela Ranieri, pubblicata da Ponte alle Grazie

Cerchi la cattiva coscienza? La troverai nelle per­sone dal vile sentimentalismo, che rinnegano la verità per amore.

Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, estate 1880

Dire «mh» è il suo modo di farmi capire che mi ama. A volte è interrogativo: «Mh?», e vuol dire «Cerca di essere ragionevole, cioè sii il meno possibile te stessa».
Non dice spesso «ti amo», inteso come segnale in chiaro: fuori codice mh-esco, intendo; le volte in cui l’ha detto posso quasi contarle:

– Quando salvo gli insetti senza ammazzarli e li accompagno delicatamente fuori dalla finestra. Due volte mi ha detto: «Oh: quanto ti amo», dal che ho capito che per lui significa qualcosa come «sei una persona veramente apprezzabile, ho fatto una scelta giusta, tutto sommato».
– Al telefono dopo due settimane di separazione; in questi casi non vuol dire tanto «sbrigati a venire», quanto «no, non ti ho sostituito con la prima donna disponibile che m’è capitato di incontrare, e ci sono buone speranze che ciò non avvenga nel breve periodo». Naturalmente questa potrebbe anche essere una strategia per tenermi tranquilla, e lui sa che io lo penso, infatti rispondo «va bene» e lui interpreta correttamente replicando «deve andar bene per forza, giacché è così» (sottinteso: non che ti ami, ma che non ti abbia sostituito, né con la prima né con la seconda con cui avrei potuto farlo); è il «ti amo» con funzione anti-entropica e veridittiva.
– Quando mi viene una buona battuta che lo fa ridere di cuore, e allora mi abbraccia dichiarando amore e ridendo come un barbaro, mangiandomi il cervello direttamente dalla scatola cranica, come un gelato al cocco dalla sua noce svuotata; qui vuol dire qualcosa come «risate così ne ho fatte solo con gli amici dopo qualche bicchiere; a ben vedere, ho fatto un affare».
– Quando dico qualcosa di assolutamente folle o troppo irragionevole. Come quando, durante una gita a un santuario nei pressi di Agrigento che mi prometteva essere luogo pressoché irraggiungibile e segreto, gli ho chiesto: «Con quante donne ci sei venuto?» Esasperato, si è fermato un attimo a guardare per terra (beve se ha un bicchiere davanti, o si osserva le scarpe se sta al computer: a chiamare a raccolta la pazienza dei santi); ha allargato le braccia e detto: «Come sarebbe a dire?» Mi commuove la sua fiducia in me, che lo fa sbalordire ogni qual volta io violo il nostro patto silente, come l’avessi trafitto con un ferro. Guardandomi fisso (come i gatti quando li deludi), a ficcarmelo bene in testa, a svegliarmi dal mio torpore emotivo, ha detto: «Adesso amo te, no?» Già, che lui crede che il tempo passi, che gli eventi non siano tutti simultanei. Talvolta questa asserzione vale come premessa di qualcosa che però non viene esplicitato, ma che io so essere: «È evidente che se non ti sbatto fuori di casa o non ti lascio per strada a fare l’autostop è perché ci sono di mezzo i sentimenti»; altre volte come diga concettuale: «Dacché ti amo adesso, godo di una totale amnistia su atti del passato»; altre volte ancora, come conclusione di: «Come posso uscire da questa relazione onorevolmente senza ferirla? In realtà, benché lei non lo capisca, non posso farlo senza ferire anche me, stante l’impedimento alla mia tranquillità mentale rappresentato dal fatto di amarla», eccetera.
– Quando sta lavorando alla scrivania e io lo abbraccio arrivando dietro le sue spalle. Allora si allunga all’indietro e mi accarezza il collo con la testa e le orecchie, come i cani, e sussurra «gioia…», che vuol dire «amore…», che qui vuol dire: «Toh, non ricordavo che tu fossi qui, devo dire che la cosa non mi dispiace affatto». Queste sono le occasioni in cui mi rimane difficile non credere, anche a scassinarla con l’intelletto, alla verità espressa dalla altrimenti incomprensibile, inattendibile e popolarissima affermazione.

È l’unico uomo che non si sognerebbe mai di dirmi che sono intelligente: per lui sarebbe una grave scortesia porsi a un livello superiore, tale da poter guardare alla mia intelligenza. Ritenendomi intelligente, sa che preferisco che mi si dica che sono bella. Questo mi dà la certezza che non è in competizione con me, ma anche il sospetto che non gliene importi poi molto di tutta la mia filosofia e dei bei libri che ho letto, e che una donna di superiore bellezza che gli desse spago potrebbe benissimo sostituirmi.
Un giorno, per dirimere la questione, gli ho chiesto: «Se potessi scegliere, andresti a cena con Marilyn o con Hannah Arendt?» Attrice o filosofa? Come mi vuoi?
E lui: «Con Marilyn, naturalmente; ma le parlerei tutto il tempo di Hannah Arendt». Quale tipo di donna me lo porterà via? Implicitamente gli imputo la colpa di avere flirtato con me quel giorno, al bar di Siracusa, cadendo (io) nel paradosso che per dimostrarmi a priori la sua serietà e la sua refrattarietà a incontri del genere, avrebbe dovuto non mettersi con me. Ecco come fa, il signorotto catanese, con le femmine appena conosciute!: se le porta a casa. Credo che mi ami veramente. Ma a quanto ne so – e di verità in amore capisco ben poco – io ho bisogno non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato. Cioè io nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità. Un bel casino. Quando mi chiede con una curiosità da cui non è esclusa l’esasperazione cosa mi manchi, cosa cerchi ancora, perché non mi trasferisca da lui e non mi lasci andare del tutto alle rapide della vita, io vorrei spiegargli che mi manca avere desiderato di amarlo: io l’ho amato, invece, subito: in un momento in cui amarsi non era lecito né persino immaginabile. Lui mi ha invitato a casa sua e varcandone la soglia siamo entrati simultaneamente dentro il territorio senza scampo dell’amore. Forse avrei voluto che il nostro incontro, sotto la calura della piazza gialla, contenesse una bolla di indeterminatezza: che ci sfiorassimo, ad esempio, senza piacerci, per capire poi di voler oltrepassare la membrana tra il prima e il dopo. Invece, noi siamo stati subito nel dopo, subito d’accordo, contraenti che si accontentano. «Ti amo tanto», dice Sofia Loren a Cary Grant in Orgoglio e passione, praticamente subito dopo averlo conosciuto. Mi domando: dopo quanto tempo si sa che è amore? Poiché non può essere amore, quel subitaneo attaccamento, dev’essere qualcos’altro. Cosa? C’è un legame tra amore e conoscenza: solo che per me è sempre stato un rapporto inversamente proporzionale. Io non l’amerò, in futuro, come e quanto l’ho amato al secondo sguardo, quando mi parve un ladro.

da “L’avversario” di GIOVANNI TUZET

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[ in questi versi il presente di cose minute – a volte anche banali e sgradevoli – si compenetra – si mescola – si confonde con il presente storico – il passato remoto di vite – città – evi – ere e attimi ]

di Giovanni Tuzet

Le mura
 
Queste case abitano un confine.
Posano su mura dal corpo disfatto
in pietrame e mattoni,
ora in erba immersi, ora
coperti d’asfalto. C’era una guerra
se c’era un confine; e un nemico se
c’era una cinta. O la sola
paura vinceva.
È la casa dei miei ad Aquileia
lunga e stretta come la gente
in Friuli, spunta da mura
romane presso un dissepolto
anfiteatro che fu prima
distrutto dagli unni, rastrellato
per elevare un campanile
ora è una conca coperta di vigna.
La casa a Ferrara dove ho vissuto,
compreso e scritto sta nel castro
bizantino, s’innesta in uno storto
quadrato di vie acciottolate dove
i militi d’oriente scremavano.
Nella corte alta e stretta di rossi
mattoni un papale silenzio, un profumo
di gardenia in maggio e un treno
nelle notti d’estate quando
stavo alla finestra, nudo
d’amore e malinconia.
Questa casa a Milano sovrasta
le mura spagnole. Un alto
palazzo dagli anni Sessanta, pulito,
distinto, che mi riserva una
chiusa mansarda da cui, in punta
di piedi, puoi vedere la punta
del Duomo. Mentre le mura
si stendono ai lati, di stanchi
mattoni rossicci e un traffico
le striscia ed erode incessante.
Un altro inutile confine
dove resto senza un nemico
e il mattino ascolto i cassonetti
per la raccolta differenziata del vetro
svuotati di botto. Più oltre ci
sono gli eventi, c’è la città
ci sono gli stilisti, ci sono i gay c’è tutto
ma i versi indifesi mi legano qui
felicemente
a cantare e ridere solo
come un raro felino
che sulle mura ci piscia
e gode e a volte lacrima.


Souvenir
 
Ricordi che ci misero una pannocchia
bruciata a Parigi davanti all’uscio
per i nostri urli innamorati?
 
Ora scommetto che non lo fate,
tu e il tuo fringuello,
e fate i bravi
e i vicini vi salutano.


I sogni
 
Cosa sognano i feti?
Non hanno mica evidenze empiriche
di com’è fatto il mondo:
certamente non sanno se il fiume
resti verde, la trota scivoli nel lago
una rampa costruiscano le ruspe
e la Foresta nera
al cadere della luce, si popoli
di streghe. I loro sensi tabula rasa –
eccetto il fluire del cibo
e le filtrate percezioni.
I feti sbadigliano addirittura
e ti chiedi che motivo ne abbiano;
al che felpata la scienza risponde
immaginando: che serva a impaurire gli animali
come il cane
che si blocca se la bocca nella culla
si spalanca.
O forse i loro sogni speculari
a testa in giù, fanno la strega
popolata di foreste,
le ruspe costruite da una rampa
e il lago scivolato sulla trota –
senza che il fiume contenga un colore.
Dormi, bambino, che c’è tempo
per apprendere l’ordine. Aspetta
e sbadiglia se t’annoi, che c’è tempo
d’arrivare alle maniglie. Dormi
e sogna ciò che vuoi.



Affreschi

1.
Nelle lunette s’accucciano rapaci
(falchi e gufi) che catturano le prede
e appena al di sotto
le scritte latine
maestose, dai saloni alle cappelle.

2.
Rivedo il vecchio appoggiato al sasso
che accoppa le formiche
seguendole seduto
le calpesta in punta.

3.
Ebbe piacere e stupore per la gru
che si libra ad altezze vertiginose.
Stupore che una cosa così grande,
dotata di lance-zampe
che in un soffio fugge fra i nuvoli,
fosse abbattuta da una punta.
Piacere per la bellezza della caduta:
cadeva volteggiando, la gru, in una danza,
scoprendo ora il ventre, ora le ali chiuse.



Autunno

Cammina un’ape sull’ocra pavimento
indotta forse dallo scirocco ubriaco
a penetrare un altro mondo
verso il nocciola della lisca a piastrelle
intorpidita.
Sarò veloce, efficace più di te
ape tardiva
perché natura me lo impone
specie in giornate remissive come questa
se la specie dorme su deboli polpacci
e chiede il suo gene di essere difeso
e se anche non fosse non avrei esitazione
ad usare una ciabatta legnosa
contro la tua insistenza di reduce,
ape tardiva che ti ostini, come un relitto
incapace d’affondare fino al giorno dei giorni
quando il miracolo si scarta e le foglie
da gialle tornano tenere e verdi
e anche il tuo tornio rinasce.


Bebelplatz
 
Cercavo tre cose distinte: dei libri
che parlassero di te in una lingua spenta;
una chiesa dove al buio
posare e sentire la luce;
dei bunker o falangi di muro
per avere alle nari la polvere
dell’ostinato.
Invece, benché in progress
ho trovato una limpida piazza
e da una gru, canarina, suoni
da fermarsi e guardare in cima
vedendo un numero biblico
d’uccelli di varia specie e dimensione
accorgendomi allora che il cielo non è altro
che il loro concerto:
verso il tramonto corrono al metallo dei rami
e in file perfette preparano il dormire
senza una pausa di note finché dura la luce
e piccoli gruppi vengono e vanno da altre
altezze ma tutti attirati, come avessero
una fibra di ferro, dal cuore di magnete
s’infilano nel gotico degli ingranaggi
come un nido da sempre esistito
a un’altezza proverbiale, celeste,
celata ai sordi e che vale
tutti i dorsi, le cupole e i muri
che il mondo trattiene precario.


da L’avversario di Giovanni Tuzet
con uno scritto di Raffaello Palumbo Mosca
collana di poesia Nereidi
pagg.88 – euro 10
ISBN: 978-88-97374-57-2
(anno di pubblicazione: 2021)
Vydia Editore

Nato a Ferrara nel 1972, Giovanni Tuzet vive fra Aquileia (Udine) e Milano. Si è misurato con diversi generi e discipline, fra cui il contrabbasso jazz, credendo in una circolarità virtuosa.
Come poeta, oltre a testi sparsi, ha pubblicato: 365-primo (Liberty House 1999), 365-secondo (Liberty House 2000), 365-terzo (Raffaelli 2010), Logiche e mancine (Giuliano Ladolfi Editore 2017) e L’avversario (Vydia 2021).
In un friulano improbabile e ibridato ha scritto le Male lingue (Circolo culturale Menocchio 2009), mentre le Trazioni (Christophe Chomant Éditeur 2010) sono testi francesi di fine Ottocento e inizio Novecento (Apollinaire, Cendrars, ecc.) trasformati e collocati nel nostro tempo e spazio.
Come narratore ha pubblicato La città ideale (Marietti 2017), dove idee di vario ordine – filosofico, politico, giuridico – si innestano su tracce di viaggio, spunti di cronaca e brevi racconti.
Non sa cosa scriverà prossimamente ma, oltre a una sintesi poetica, vorrebbe compilare una raccolta di “Pensieri” à la Pascal o Leopardi. Sul mondo, sulla vita.

La grande bestia

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di Marco Peluso

 

Il professor Damiani continuava a tamburellare con la penna sulla cattedra, gli occhi fissi sul libro di Tacito, un lieve mormorio attorno a lui.

Quando il professore chiuse il libro la classe parve paralizzarsi. Il professor Damiani si lisciò la barba grigia, ingiallita dalla nicotina, la mano scarna sulla fronte rugosa, gli occhi persi in una visione lontana. Scosse il capo, come si fosse appena destato. Scrutò a uno a uno i suoi alunni: quello con la faccia da topo, il ragazzo con i dentoni da cavallo, quella a cui a inizio lezione faceva sempre sputare la gomma, il ripetente dal volto spigoloso: erano i ragazzi del quinto anno, da vent’anni il professore insegnava al Liceo Vittorio Emanuele.

A un tratto puntò il ripetente.

«Tu…»

«Lambiase, professore.»

«Sì, Lambiase. Dimmi cosa accade all’inizio del Libro Primo delle Storie di Tacito.»

Il ragazzo inarcò un sorrisetto arrogante.

«Beh, professore, succede che i tedeschi vogliono fare la pelle a Galba.»

Tutta la classe scoppiò a ridere, il professore picchiò il pugno sulla cattedra e li ammutolì.

«Silenzio!»

Si sistemò gli occhiali sul viso.

«Bene, signor…»

«Lambiase…»

«Grazie a te la classe intera domani mi porterà un bel riassunto delle prime cinquanta pagine del Libro Primo delle Storie di Tacito.»

Fra gli studenti un brusio di dissenso, subito frenato dallo sguardo severo del professore. Tutti conoscevano quello sguardo, alunni e docenti, e tutti ne avevano timore e rispetto, l’aria boriosa del professore Damiani gli aveva fatto guadagnare fra i professori il nomignolo di Adolf, fra gli studenti l’appellativo di Pezzo di merda.

Usciti gli alunni, il professore sistemò i libri nella cartella e si allontanò a sua volta dalla classe. Nel corridoio a malapena salutò qualche collega, le professoresse lo evitavano come la peste: dicevano che era un vecchio sadico, e anche se Damiani aveva cinquantadue anni, aveva davvero l’aria di un vecchio e lo sguardo di un sadico. Gli studenti vociferavano che la moglie, Dora, l’avesse piantato perché non gli si drizzava; i professori dicevano che quella bella donna aveva fatto bene a piantarlo, Damiani era solo un fissato che non pensava altro che allo studio, un vero maniaco.

Damiani affrontava questi pettegolezzi con non curanza, come tutto il resto.

Uscito da scuola, come prima cosa accese una sigaretta, incurante della tosse. Compì i soliti rituali: qualche affettato, il pane e due bottiglie di vino rosso in salumeria, il cruciverba dall’edicolante, uno sguardo truce al mendicante fuori a Palazzo Venezia.

Guardò la vetrina della libreria Ubik:

«Che porcherie» borbottò.

Poi si diresse al Bancomat.

La mano gli si paralizzò sul tastierino. Aggrottò le sopracciglia, gli occhi fissi sui numeri sotto le sue dita. A un tratto fu colto da un pesante senso d’angoscia, tutta la sua persona sembrava immersa in una bolla densa. Sbuffò e compose velocemente il codice del bancomat.

«Quei ragazzi mi faranno uscire pazzo» sbottò.

Entrò nel palazzo di fronte la Basilica di San Domenico Maggiore, dove aveva vissuto tutta la sua vita. Il portiere, un vecchio tozzo reputato dal professore un cafone sfaticato, lo salutò con garbo; Damiani a malapena alzò la mano. Come ogni giorno, alle tre e mezza precise, entrò in casa, sistemò la spesa sul tavolo di noce appartenuto a sua madre e prima ancora a sua nonna, indossò la vestaglia, mise su un disco di Chopin e raggiunse la libreria nel soggiorno.

Narrativa, poesia, filosofia: i libri erano catalogati per genere e autore; si infastidiva da morire se Dora li mischiava. Accese una sigaretta, passò a rassegna i libri uno per uno, la tosse gli mozzava il respiro, avvertiva una forte pressione all’interno della testa. Inforcò gli occhiali, stordito: non riusciva a mettere a fuoco i titoli dei libri. Prese Papà Goriot e, ancora tossendo, andò a sedersi sull’antica poltrona di suo padre. Riprese il libro da dove l’aveva lasciato, era la decima volta che lo leggeva.

Ah, se fossi ancora ricco e se, invece di darglieli, avessi conservato i miei averi, esse sarebbero qui a leccarmi le guance con i loro bacetti”.

A un tratto si bloccò. Lesse ancora la frase, poi tornò indietro di una pagina e lesse quanto accaduto prima.

«Sono proprio stanco» farfugliò, posando il libro sulle gambe e afferrando un bicchiere di vino.

Lo vuotò in un sorso e ne riempì subito un altro. Incrociò lo sguardo di Dora in una delle foto su di una mensola: le aveva lasciate lì nonostante sua moglie fosse andata via da sei anni, erano al posto in cui le aveva sistemate lei, Dora sembrava guardarlo con lo stesso disgusto di quando era in casa, in mano stringeva una borsetta nera, l’ultimo regalo che Damiani le aveva fatto.

Dimezzò il bicchiere e tornò alla lettura. Poi, come ogni giorno, lucidò l’argenteria di sua madre e diede un’occhiata alla collezione di francobolli appartenuta a suo padre.

Dopo cena, la bottiglia di vino quasi vuota, si mise a correggere i compiti degli alunni. La tosse continuava a martoriarlo, la cenere cadeva sui fogli. Concluse di correggere un tema, poi, nel momento di apporre il voto, la mano gli si paralizzò, la punta della biro ferma sul foglio. Rilesse il finale del tema, poi qualche riga nel mezzo, di nuovo l’inizio, e infine il nome dell’alunno: Lambiase.

Rimase interdetto per qualche istante, il mondo attorno a lui sembrava essersi fermato. Poi di colpo segnò in rosso Cinque sull’ultima pagina del tema.

«Fannullone!»

Finì il vino, gli occhi fissi sui fogli davanti a lui, la musica che echeggiava nella semioscurità spezzata appena da una lampada. Guardò una foto di Dora: lei sorrideva, Damiani non riusciva proprio a ricordare quando gliel’aveva scattata.

 

Il giorno dopo, a scuola, i ragazzi del quinto anno erano in tumulto, sapevano che quasi nessuno avrebbe soddisfatto le aspettative del professore. Damiani aveva i compiti degli alunni davanti a sé, sulla cattedra. Iniziò a chiamare gli alunni a uno a uno. I ragazzi si avvicinavano a testa bassa, ognuno andava via con il proprio tema in mano.

Lambiase, tornato a posto, sfogliò il compito e scoppiò a ridere.

«Prufesso’, ma questo è il tema di Giordano.»

La ragazza che ciancicava di continuo la gomma guardò annoiata Lambiase, poi i fogli davanti a lei.

«E a me ha dato quello suo.»

Il fragore delle risate parve picchiare contro le pareti. Il professore batté il pugno sulla cattedra con tale forza da far cadere il resto dei compiti.

«Zitti! Fate silenzio!»

Guardò ferino la ragazza che masticava la gomma.

«E sputa subito quella gomma. Capito…»

Le labbra gli tremarono, incapaci di articolare le parole. Giordano sputò la gomma in un fazzolettino:

«Mi pareva strano che non me lo avesse già detto.»

Ci furono altre risate, spezzate dalla voce tonante del professore. Rialzò i fogli da terra e sistemò gli occhiali sul viso.

«Bene, dopo, ognuno prenda il proprio compito. Adesso torniamo a Socrate.»

In prima fila, un ragazzo mingherlino e occhialuto, timido alzò la mano.

«E tu cosa vuoi?»

La classe rimase interdetta, quello che aveva alzato la mano, Pierpaolo De Carlo, era il coccolino del professore, Damiani mai gli si era rivolto così.

Il ragazzo, rosso in viso, con un filo di voce disse: «Ehm, veramente ci ha dato come compito un riassunto sulle Storie di Tacito.»

Ancora risate rimbombarono nell’aula, in fondo a essa la voce di Lambiase giunse fino al professore:

«Secondo me si è rincoglionito a furia di studiare.»

Brutale, Damiani si alzò e sbatté il registro sulla cattedra.

«Tu… tu…»

Gli occhi fissi su Lambiase, il dito raggrinzito che tremava, un filo di bava sul labbro contratto in una smorfia rabbiosa.

«Tu… fuori!»

Lambiase uscì dalla classe, tutti si ammutolirono, fissavano il professore ora non con terrore, ma incuriositi.

Al termine delle lezioni il professore corse spedito verso casa, in testa ancora le risate dei suoi alunni, un senso di impotenza lo invadeva. Si paralizzò davanti al portone del proprio palazzo. Il portiere, scopa in mano, gli sorrideva e lo salutava, ma a lui parve di vedere un mostro terrificante. Tornò sui propri passi, gli occhi febbrili, le mani che gli tremavano.

In salumeria tutti lo guardavano sconcertati, quell’uomo sempre calmo che entrava lì dentro pieno di sé, quasi contasse i propri passi, si muoveva confuso fra gli scaffali senza decidersi a prendere niente.

La voce di un salumiere da dietro al banco degli affettati lo fece trasalire.

«Prufesso’, i soliti centocinquanta grammi di cotto e duecento di Emmental?»

Damiani, cereo, gli occhi vitrei, fece cenno di sì all’uomo. Avanzò lento verso il bancone.

«Il vino paesano che prende lei sta là, ci ho fatto cambiare posto.»

Damiani non aggiunse nulla, prese il vino, i salumi, e uscì da lì con l’aria di un bambino impaurito. Aveva persino dimenticato di comprare il cruciverba, ma a casa si accorse che quello del giorno primo era intatto, nemmeno una casella segnata.

Senza smettere di tossire, la sigaretta penzolante di bocca, arraffò il cruciverba e una bottiglia di vino e raggiunse la camera da pranzo. Lasciò perdere i libri, i compiti degli alunni, scolò in un sorso un bicchiere e ne riempì subito un altro: gli occhi fissi sul cruciverba.

“Estremamente pallida; cinque lettere”.

Damiani scrisse subito la parola cerea, un beffardo sorriso gli rigò il viso.

“I concittadini di Vespasiano, sette lettere”.

Sicuro, Damiani, mosse la penna sul foglio, ma la mano gli si paralizzò. Cercava di fissare le caselle nelle pupille, la sua bocca si muoveva senza emettere un suono.

Vuotò il bicchiere di vino e si strinse la testa fra le mani.

 

Passò la notte a fare i cruciverba, la camera da pranzo era avvolta da una cappa di fumo, il tavolo era pieno di libri ed enciclopedie, ovunque erano appiccicati Post-it pieni di appunti, una bottiglia di vino vuota giaceva tra fogli appallottolati.

Il mattino seguente, Damiani, per la prima volta in vent’anni si assentò da scuola: si mise in malattia. Passò la giornata in pantofole e vestaglia a vagare in casa, negli occhi la fissità di un animale che punta una preda, il fragore della sua tosse soverchiava il suono della musica classica.

Tappezzò la casa di Post-it: nomi di imperatori rimembrati grazie a un’enciclopedia, e ancora nomi di fiumi, di città, di oggetti che aveva usato fino a un attimo prima.

Non uscì di casa per giorni, era il portiere a portargli cibo, vino e sigarette. Damiani apriva a malapena la porta. Dopo il terzo giorno ordinò al portiere di lasciare tutto fuori la porta. Il quinto giorno dimenticò persino di prendere la roba fuori la porta, non udì neppure il portiere bussare, era seduto sul letto, gli occhi fissi verso un punto indecifrato della stanza, la sigaretta consumata fra le dita.

Dopo dieci giorni, la casa era ridotta a un porcile, la sporcizia si accumulava sui mobili, decine di bottiglie sparse sul tavolo fra libri, cruciverba e appunti; i posaceneri straboccavano di mozziconi, pareti e armadi erano ricoperti da Post-it.

Damiani si aggirava pesante nella casa, una sigaretta sempre in bocca nonostante la tosse, il bicchiere di vino in mano, un perenne ronzio che gli trapanava il cranio. Leggeva il nome di un oggetto su di un Post-it, e subito andava a cercarlo in casa: ora una forchetta, una tazza, persino la sua biancheria.

Tornò a scuola dopo due settimane, i suoi alunni erano stupiti: fra gli studenti si era sparsa voce che il professore fosse impazzito. Aveva indossato il suo vestito migliore e sistemato la barba. Si sforzava di sorridere, ma non ne ricavava altro che un ghigno agghiacciante, come se con degli uncini gli stessero tirando la pelle del viso.

Aveva dimenticato che quello era il giorno della festa di pensionamento del vicepreside Torelli. I professori e il vicepreside stesso avevano posticipato i festeggiamenti fino al rientro di Damiani. Sembrava essere lui l’ospite d’onore più che il vecchio Torelli. Nella palestra, dove erano stati radunati tutti gli alunni della scuola, docenti e addetti alla segreteria gli stringevano la mano, gli chiedevano come si sentisse.

Damiani rispondeva a tutti con un sorriso, appena qualche parola: «Bene. Grazie. Gentilissimo.»

Sudava freddo, le gambe gli tremavano, evitava in ogni modo di chiamare per nome un professore o un alunno. La testa ovattata, quel dannato ronzio che non lo abbandonava, le dita e la lingua intorpidite.

In fondo alla palestra era stato allestito un palco, su di esso il preside, alto e benvestito, aveva tenuto un discorso sull’integerrima vocazione all’insegnamento del vicepreside. Damiani aveva applaudito insieme a tutti, sorrideva, si sforzava di ricordare il significato della parola integerrimo, o cosa fosse un docente.

A un tratto udì chiamare il proprio nome. Si guardò attorno spaesato, come se non ricordasse nemmeno chi fosse, un vortice di applausi lo circondava.

Un collega lo prese sotto al braccio.

«Su, avanti, vada. Vada» gli disse sorridendo.

Dal palco il preside gli faceva cenno di avvicinarsi, il vicepreside continuava ad applaudire.

Salito sul palco, Damiani era rosso in viso, la schiena imperlata di sudore. Faticò a stringere la mano al preside, professori e alunni continuavano a fissarlo.

«Tutti noi ci tenevamo che lei fosse presente al pensionamento del nostro caro vicepreside Torelli» disse gioviale il preside «A tale motivo, d’accordo con lo stesso vicepreside, abbiamo deciso di tardare la festa e il pensionamento fino al suo rientro, perché voleva essere proprio il nostro Torelli a darle la bellissima notizia.»

Ci furono ancora applausi. Gli alunni, annoiati, fissavano di nascosto gli smartphone.

Torelli, il sorriso stampato sul viso, si avvicinò a Damiani e gli strinse la mano. Damiani sorrideva a sua volta, non ricordava nemmeno il nome dell’uomo davanti a lui, né da quanto tempo lo conosceva. Scandì nella propria mentre il cognome Torelli, poi il termine vicepreside, ma gli sembrava che le parole fossero corpi che sprofondano in una pozza di sabbie mobili.

«Mio stimatissimo professor Damiani» pronunziò Torelli «È con gioia e un immenso onore che le cedo la direzione della vicepresidenza.»

Fragorosi applausi rintronarono nella sala. Persino gli alunni, costretti dai professori, applaudivano, mentre Damiani era immobile sul palco, accanto a lui il vicepreside e il preside che battevano le mani, i suoi occhi fissi su centinaia di volti che sembravano deformarsi e mischiarsi in un’unica poltiglia di carne.

Cercò di mantenere il sorriso, il ronzio nella sua testa soverchiava applausi e voci.

Il preside si avvicinò a lui e gli porse un calice di champagne.

«Una meritatissima promozione, caro professor Damiani.»

Damiani, gli occhi fissi sul preside, afferrò il bicchiere, ma le dita strinsero solo l’aria.

Il calice precipitò ai suoi piedi. Gli applausi cessarono di colpo. Adesso solo gli alunni ridevano.

Damiani, la testa leggera, il corpo assente, scrutò la folla sotto al palco senza vedere altro che ombre. Udì a malapena la voce del preside accanto a lui: «Si sente bene?»; neppure avvertì la mano dell’uomo sulla sua spalla, ma solo qualcosa di caldo e appiccicoso che gli colò dal naso, fin sulle labbra. L’ultima cosa che udì con chiarezza fu il tonfo del proprio corpo precipitato al suolo, poi solo un brusio confuso di voci, nessuna parola distinta, a malapena versi, e ovunque buio.

 

Damiani aprì di sbotto gli occhi, una luce bianchissima lo accecò, attorno a lui un fastidioso ticchettio metallico. Quel suono gli sembrava di averlo udito per anni, non ricordava altro. Provò a muoversi, ma le membra erano irrigidite, avvertiva solo la stoffa di un lenzuolo su di lui.

La luce lentamente si dissipò, ora vedeva un armadietto di ferro, mura bianche, la luce del sole che filtrava da una finestra. Si sentiva in un mondo alieno, spaventoso: un bambino appena venuto al mondo.

Poi a un tratto udì dei passi, dapprima lenti, poi veloci, e subito una mano sul suo braccio.

«Stia calmo e non si muova, vado a chiamare il dottore.»

Era una voce di donna, gli sembrava di averla già udita, ma chiunque fosse era sparita.

A fatica cercò di tirarsi su, senza riuscirci. Alla sua sinistra vide un macchinario, da un monitor si muovevano delle linee verdi, seguite da quel dannato ticchettio che gli impediva di pensare. Alla sua destra, su di un letto, era coricato un vecchio: gli occhi chiusi, il lenzuolo fino al mento, tubi che gli entravano in bocca e nelle narici. Provò di nuovo ad alzarsi, ma dei passi lo fermarono, poi una mano forte sul petto: odorava di disinfettante.

«Resti steso.»

Il dottore, così l’aveva chiamato l’infermiera, chiamata a sua volta così dal dottore, gli aveva chiesto se ricordasse il proprio nome: «Arturo Damiani», così l’aveva chiamato, ma il professore non ricordava quel nome, non ricordava nemmeno cosa fosse un professore. Non aveva detto nulla, nemmeno una parola, seguiva i movimenti della bocca del dottore e faceva appena qualche cenno con la testa.

Poco dopo, dottore e infermiera andarono via.

Era venuto un uomo vestito di bianco a togliergli un ago dal braccio: Damiani aveva strillato come un bambino.

Qualche istante dopo era tornata l’infermiera.

«Vedrà, non le farò male.»

Ci vollero tre portantini per trattenerlo mentre l’infermiera gli fece l’iniezione. Un attimo dopo Damiani avvertì il proprio corpo sempre più leggero, fino a non sentirlo più.

Quando si svegliò il sole stava tramontando, aveva nuovamente un ago nel braccio, il vecchio nel letto accanto al suo dormiva ancora, alla sua sinistra sedeva una donna dal volto chino, lo sguardo duro.

Appena la donna si accorse che Damiani si era svegliato si alzò.

«Mi hanno chiamata perché non hanno trovato nessun altro.

«Mi senti?»

La donna, seccata, corse fuori la stanza, seguita dallo sguardo confuso di Damiani. Tornò dopo qualche minuto insieme al dottore: a Damiani sembrava di aver già visto quell’uomo, ma non ricordava dove.

«Abbiamo chiamato la sua ex moglie. Sembra lei non abbia altri parenti.»

Damiani, gli occhi bovini, fissò Dora ferma davanti a lui: i capelli rossicci raccolti, gli occhi color ghiaccio, il corpo minuto. Le sue pupille si fissarono sulla borsetta nera che Dora stringeva fra le mani. Spalancò la bocca, sembrava volesse urlare, ma non emise altro che versi inarticolati.

Il dottore rivolse lo sguardo alla borsa mantenuta da Dora, poi guardò Damiani, e ancora Dora.

«È questa?» chiese a Damiani indicando la borsetta «Si ricorda della borsa della sua ex moglie?»

Damiani, gli occhi gonfi di terrore, continuava a fissare la borsa puntandola con il dito, la bocca ancora spalancata, le labbra tremule:

«Bo… boga, chex ogle…»

Precipitò sul letto, come stremato. Il dottore prese Dora sotto al braccio.

«Ha dei ricordi, solo reminiscenze di cose, persone, nomi.»

«Sta dicendo che è un vegetale?»

Da sotto al lenzuolo, ridotta a un lamento, giunse loro la voce di Damiani:

«Ghe… ghebetalue…»

Il dottore tirò via la donna.

«Venga, andiamo fuori.»

 

L’ultima volta che Damiani aveva sentito la voce di Dora era stato il giorno seguente al suo risveglio, dopo Dora non si era fatta più viva. Le uniche parole di quella donna che Damiani ricordava erano Era già insopportabile prima, Assolutamente no, Ormai è una larva.

Mentre le infermiere lo aiutavano a mangiare, più volte aveva riso ripetendo la parola larva:

«Arva! Arva!»

Erano venuti a trovarlo il preside e gli insegnanti della sua scuola, ma lui non era riuscito a riconoscere nessuno di loro; ogni tanto appena una parola: «Ghighepredide. Gacito. Muoni a dulla.»

Erano riusciti a portargli persino i suoi alunni. Lambiase era stato allontanato perché nel vederlo aveva iniziato a ridere:

«Sembra un deficiente!»

«Deghighiente…»

Dopo una settimana, non venne più nessuno a trovarlo, la settimana dopo fu dimesso: Dora gli aveva trovato una domestica polacca, pagata con la pensione di Damiani e l’invalidità.

A casa, Damiani, era sempre seduto sulla poltrona appartenuta a suo padre. Non fumava più, nemmeno sospettava dell’esistenza delle sigarette, così come del vino. I libri nella libreria erano coperti di polvere, quelli antichi erano stati venduti dalla domestica. La domestica gli dava a stento da mangiare, lo lasciava sempre solo, passava ore al telefono; ogni tanto Damiani vedeva il portiere entrare: prima di chiudersi in camera con la domestica dava un buffetto al professore e sorrideva:

«Che c’è, prufesso’, mo’ non mi tratti più come la monnezza?»

«Bodezza…»

Dora non venne nemmeno una volta a trovarlo. Nessuno metteva mai piede in quella casa, se non la domestica e gli uomini che si portava lì dentro. L’argenteria di sua madre svanì, così la collezione di francobolli di suo padre. In breve, persino tutti i libri sparirono. Damiani non sapeva neppure più cosa fosse un libro. Restava seduto a fissare il vuoto, ogni tanto un verso, poi un pianto furioso, come se qualcosa gli entrasse nella mente, scivolasse fino al cuore, senza che lui potesse afferrarla.

E di colpo tornava immobile, le pupille smarrite, la bocca aperta, la bava che gli colava sul mento.

 

Morì dopo sette anni, senza mai essersi alzato da quella sedia. Al funerale c’erano Dora, i suoi ex colleghi e gli alunni di un tempo. Sulla lapide c’era scritto: Marito devoto e professore esemplare.

 

Al mondo l’otto percento li ha blu. La maggior parte li ha marroni

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di Paola Zanini

Mia madre è morta e io mi sono dimenticata di chiedere chi le ha chiuso gli occhi. Ci penso ora, a un anno di distanza, quasi vorrei chiamare l’ospedale, fare un’indagine, risalire all’infermiere di quella notte. Sarà possibile? Chiamo il centralino, per favore mi passi il reparto di medicina, chiedo alla caposala di ricordare chi c’era l’anno scorso in turno, il 20 giugno, a mezzanotte. Si ricorderà? C’era lei (tanto sono sempre tutte donne) o qualcun altro? Mi passi chi c’era l’anno scorso, è urgente, i morti a un certo punto bisogna lasciarli andare. O è stato il medico che giorni prima l’aveva visitata? Il medico o l’infermiere non fa nessuna differenza, voglio sapere chi li ha chiusi. Si può sapere? Me lo ha insegnato Joan Didion che i morti a un certo punto bisogna lasciarli andare. E lo ripeto: lasciarli andare. L’ha scritto nel suo capolavoro L’anno del pensiero magico, tutti lo considerano un capolavoro. E in effetti lo è. Sento una certa urgenza. È passato un anno, e solo ora mi sono ricordata di chiederlo. Come faccio? Qualcuno può dirmelo? Chiamo il centralino. Nessuno risponde, come al solito. Rintraccio il medico, forse ho ancora il suo numero. L’ultimo suo messaggio whatsapp diceva: stai tranquilla… gli anziani sono forti. Verrà la morte e avrà i miei occhi e dentro ci troverà i tuoi recita Michele Mari in Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Perché mi viene in mente oggi, solo oggi? Cosa ci avrà trovato chi li ha chiusi? C’erano i miei? O solo il suo silenzio? Come faccio a saperlo? Qualcuno mi aiuti. Avrei dovuto essere pronta, chiederlo subito, ma chi è mai pronto? Però non piango, i morti sanno quello che fanno. Sono io infatti che non lo so, lo chiedo adesso. Posso chiederlo? È troppo tardi? Forse anche il suo silenzio era pieno di me. Ma gli occhi. Io voglio sapere degli occhi. Chi li ha chiusi. E cosa ha visto. Stupore? Disperazione? Pace? Espiazione? Erano asciutti, o stava piangendo? Magari ha trovato anche una lacrima, e io non lo so. Me l’avrebbe detto, no? Stava piangendo. Abbiamo asciugato noi le lacrime. Ci dispiace, voleva farlo lei? Lei, chi? La figlia? Sorpresa? Ansia? Tranquillità? Bellezza? Cosa succede appena prima di morire? Cosa c’era scritto sul suo viso? Ha visto tenerezza chi li ha chiusi? Serenità? Responsabilità? O li ha chiusi e basta. E non ha osservato niente. Chiamiamo i figli, ha detto. Ha detto chi? L’infermiere o il dottore? Forse c’era un’oss. Ecco forse li ha chiusi lei (tanto sono sempre tutte donne), sì un aiuto infermiere, donna. Chiamo il centralino, per favore mi passi il reparto di medicina, chiedo alla caposala di ricordare chi c’era l’anno scorso in turno, il 20 giugno, a mezzanotte. Si ricorderà? C’era lei (tanto sono sempre tutte donne) o qualcun altro? Mi passi chi c’era l’anno scorso, è urgente, i morti a un certo punto bisogna lasciarli andare. È stato il medico, l’infermiere o l’oss? Chi è stato dei tre? Chiamo il centralino. Nessuno risponde, come al solito. Forse è stato un sostituto e nessuno dei tre (l’infermiere, il dottore e l’oss che la conoscevano ormai da giorni), ma uno che era salito in turno proprio quella sera. A mezzanotte. Da mezzanotte alle otto. I turni sono di otto ore. Non l’aveva mai vista, li ha chiusi lui, il sostituto di tutti. L’equivalente del supplente, a scuola. Oggi il professor Martini è assente, dobbiamo trovare chi lo sostituisce. Uno a chiamata, uno che non conosce nessuno, e deve imparare. Comincia il lavoro, a mezzanotte, e chiude gli occhi a una morta. Non il professore, il sostituto. Gli occhi sono delicati e complessi. Trovano tesori. Evitano pericoli. Colgono i dettagli, le sfumature dei colori (7 milioni di variazioni), le espressioni del viso. Sono 43 i muscoli sotto al viso che esprimono la gamma delle emozioni. Ma basta un’occhiata per cogliere l’anima. Anche se l’anima resta invisibile. Come i pensieri. Chissà se loro avranno dato un’occhiata oppure osservato per bene? Prima di chiuderli intendo. Ma chi? L’infermiere, il dottore, l’oss o il sostituto? Qualcuno dei quattro sarà stato. Non c’è più nessuno che lavora in reparto. Chi fa le pulizie, ma no, a quell’ora, a mezzanotte non pulisce. Comincia alle otto. I turni sono di otto ore e di notte non si toglie la polvere. Di notte c’è buio. Oppure lei (mia madre è morta), lo sentiva che stava per sopraggiungere, e li ha chiusi da sola. Sentiva che erano spalancati, l’illusione dell’ultimo respiro li faceva muovere, e lei da sola li ha chiusi. La vista inganna, a volte. Si è portata lentamente il braccio vicino alla testa, ci ha messo un po’ per farlo (stimerei da uno a tre minuti) perché il respiro era rallentato, quando è stata vicina ha passato la forza rimasta alla mano, ha toccato le palpebre dei suoi begli occhi blu (al mondo l’otto per cento li ha blu; la maggior parte li ha marroni), ha detto li chiudo. Così non li deve chiudere nessuno per me. Faccio da sola. Ci vuole pudore. A chiuderli. Intimità. Discrezione. Il passaggio è delicato e sottile.

E tu, essere umano, ti sei mai chiesto cosa vale la pena vedere con gli occhi? Io ho fatto un elenco. Amo le liste. Questa l’ho chiamata Cose che nella vita vale la pena vedere. Ma non l’ho pubblicata. Forse ci posso fare un libro, ho pensato. Come Joan Didion e Michele Mari. Lo intitolo proprio così: Cose che nella vita vale la pena vedere. Poi aggiungo il sottotitolo: Occhi (anche per morire). Autrice: Paola Zanini Berni (metto vicino al mio il suo cognome, di mia madre intendo, per vedere che effetto fa). E in esergo, al posto di una citazione, scrivo così: l’alba, il tramonto, un neonato, i cartoni animati, la luce, le nuvole, il mio riflesso nello specchio, la morte di mia madre… comincio in questo modo, poi tu essere umano lettore che hai preso in mano questo libro, pubblicato e non ancora finito, continui la mia lista e quando hai scritto quelle cose che a te sembrano essenziali, lo passi a qualcuno che vuole scrivere la sua, e facciamo una catena. E il libro lo scriviamo tutti insieme. Facciamo un elenco ordinatissimo. E poi vicino scriviamo i nomi di ciascuno. Perché nella vita ci sono cose che vale la pena vedere, come il mondo vissuto dagli umani. Vale la pena vederli anche quando muoiono gli umani. O appena dopo essere morti. Non fanno paura. A guardarli.

Flavio Ermini: “dalla parte dell’ombra”

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Anterem ha recentemente pubblicato Perché la poesia. L’esperienza poetica del pensiero di Flavio Ermini. Come scrive Daniele Maria Pegorari: «La rilettura degli editoriali degli ultimi ventinove numeri di “Anterem”, stesi fra il 2006 e il 2020, qui ben introdotti da Marco Ercolani – che opportunamente ricorda la precedente analoga raccolta dei ventuno editoriali scritti fra il 1995 e il 2005 –, ci documenta la continuità e l’invidiabile coerenza del discorso poeticofilosofico di Flavio Ermini e della rivista che egli ha condotto per una così lunga stagione.»

Ospito qui un estratto dal libro, per gentile concessione degli editori.

 

DIRE LA VITA

 

[…] l’incessante apertura dell’apparire […]

Pascal Gabellone

 

Nella poesia interminabilmente viene alla vista il non-veduto della vita. Per altro verso: la parola poetica è esposta a un “fuori” invisibile, e quel “fuori” mette l’opera alla prova del mondo. Ma come accade?

Scrive Pascal Gabellone: «La possibilità della poesia poggia sulla certezza sensibile che il mondo, prima di essere semplicemente “ciò che è apparso”, la cosa nel suo riposo, il visibile dato come tale, sia l’incessante apertura dell’apparire che, nell’apparso, resta sepolto, invisibile, eppure reale; meglio, il reale stesso».

Vediamo benissimo i limiti della poesia quando è priva di un richiamo alla presenza, ovvero fine a se stessa e separata dal pensiero. Per questo crediamo, con Max Loreau, che si debba «cercare una scrittura che non sia affatto un fine in sé = che non sia per l’esattezza “letteraria” o “estetica”».

Tale decisione richiede di meditare ulteriormente sull’essenza della parola poetica e sul suo destino.

Il cercare persiste nel domandare, e lo fa proprio perché si trova in fondamentale rapporto con ciò che nella vita si rifiuta a ogni inchiesta e si sottrae alla risposta, in una finitudine senza fine. È quanto fa “Anterem”, che in ogni numero si costituisce come opera che torce lo sguardo sempre verso un nuovo inizio, là dove ogni volta – con una domanda – tutto comincia.

Leggiamo cosa dice Heidegger: «Il nostro scopo è il cercare stesso. Che cos’altro è il cercare se non il più persistente essere-vicino a qualcosa che si nasconde, qualche cosa a partire dalla quale proviene ogni bisogno e si accende ogni esultanza? Il cercare stesso è lo scopo e, nel contempo, il ritrovamento».

Ecco perché il dire del poeta è un pre-dire che reca l’annuncio di ciò che viene nel suo carattere di evento che è sempre a venire.

In questo senso siamo autorizzati a parlare qui di ricerca della verità: trovare nomi nuovi per ridefinire il permanere della parola nell’orizzonte della domanda, facendo emergere le prospettive che essa dischiude; lasciando risuonare l’inespresso, custodendolo e serbandolo come inviolabile segreto, irriducibile alla rappresentazione.

«Il problema» scrive Schelling «non è se e come esista realmente fuori di noi quell’insieme di fenomeni e di cause e di effetti che chiamiamo vita della natura, ma come esso divenga reale per noi, come quel sistema e quell’insieme di fenomeni abbiano trovato la via per giungere al nostro spirito […]»

Si tratta insomma di capire come la poesia possa ancora salvare il gesto della prossimità all’animale, al silenzio, al fiorire della physis, e nella nominazione renderlo intellegibile.

Intanto va detto: che ci sia poesia testimonia che c’è desiderio di relazione con ciò che è a venire.

Stando dalla parte di ciò che si offre come ignoto – dalla parte dell’ombra – la poesia testimonia che la vita non coincide con ciò che è.

Nemmeno l’origine è più vista soltanto come fondamento, ma anche come ritrarsi, come rimosso. Da qui la persuasione dell’essere agiti e dominati da un Altro che è fuori di noi.

Il discorso  – ciò che appare ben definito e formato – è il muro che comunemente si erige contro i pericoli che nascondono il thauma dell’origine e l’Altro che, in costante metamorfosi, lo abita.

È questo particolare pensiero arrischiante che prende forma di poesia. Il poeta, annota Keats, guarda nella nebbia e «lascia imperturbato che la bellezza passi come un rivo sotto la sua soglia».

L’opera si manifesta con un movimento di insurrezione che, lasciandosi alle spalle il discorso diurno, punta a una regione notturna, verso un rischio ulteriore.

Dire il non-veduto della vita, dopo che la lingua si è liberata dalla sua funzione rappresentativa, significa dire la “nebbia”: allearsi con la parola accanita che vuol parlare con la pietra.

Sorgere è quell’erompere dall’inapparente per il quale la physis appare, diviene manifesta, senza tuttavia che il celato da cui proviene possa mai compiutamente mostrarsi.

L’esercizio della nominazione, in questo particolare processo di svelamento, richiede che ci si interni nel profondo del cogito: nella parola che l’ha pensato.

Solo così il lavoro poetico – questa attività sottostante al pensiero esplicito – potrà riflettere l’Altro da sé. Quell’Altro da sé che è il suo più proprio se stesso.

Ecco perché l’opera non è affatto un luogo sicuro, saldo, fidato, ma è tale da contenere in sé l’estremo pericolo: il non che si lega alla parola: il suo opposto, che la salva.

Di queste originarie “forme di vita”, nella consapevolezza della centralità di un’aporia, siamo chiamati a fare esperienza: come giungere a conoscere e comprendere ciò che nella sua essenza appare ogni volta in modo diverso?

L’Occidente da smontare. Note a margine di un articolo politico di Carlo Rovelli

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di Andrea Inglese

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Mi è stato segnalato dall’amico indiano Antonio Sparzani questo testo di Carlo Rovelli che pare abbia circolato molto in rete. Ad una prima lettura è un testo condivisibile, almeno nella sua affermazione centrale: l’Occidente quando denuncia il non rispetto del diritto internazionale, la violenza indiscriminata della Russia, e l’imperialismo dei suoi dirigenti è ipocrita, in quanto non riconosce che quelli che condanna sono crimini che lui stesso ha commesso in passato più e più volte. Ma forse non è nemmeno la condanna dei crimini in quanto crimini, che espone l’Occidente all’accusa di ipocrisia. Che sia Madre Teresa o Al Capone a condannare un crimine a cui hanno assistito per strada, non cambia la natura dell’atto criminoso di cui sono testimoni. Non è quindi un caso che uno dei più infaticabili critici dell’ipocrisia occidentale – leggi: dei governi statunitensi –, Noam Chomsky non abbia certo esitato a condannare l’invasione russa in Ucraina, senza fornire ad essa attenuanti che ne avrebbero sminuito il carattere criminale. Cito da un’intervista all’autore apparsa il 1 marzo sul sito Truthout e poi circolata in rete anche in versione italiana (qui): “Prima di rispondere alla domanda, dobbiamo stabilire alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra paragonabile all’invasione statunitense dell’Iraq e all’invasione Hitler-Stalin della Polonia nel settembre 1939, per fare solo due esempi rilevanti. È ragionevole cercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.”

Quindi non è forse la condanna dell’invasione russa a costituire un’ipocrisia in sé, ma il fatto di porsi come i campioni mondiali della legalità e della libertà dei popoli. Rovelli scrive: “D’un tratto, l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori, il baluardo della libertà, il protettore dei popoli deboli, il garante della legalità, il guardiano della sacralità della vita umana, l’unica speranza per un mondo di pace e giustizia”. Il problema è che, secondo Rovelli, non ci si limita a condannare la politica della Russia, in quanto chi formula la condanna si attribuisce simultaneamente delle virtù, delle qualità, delle prerogative etiche e politiche. Se chi denuncia il crimine, in effetti, è il governo degli Stati Uniti, esso non può darsi anche il ruolo di poliziotto e giudice, ossia porsi al di sopra dei soggetti collettivi che possono sbagliare e quindi incorrere in condanna. Non ha nessuna storia politica né fisionomia morale per porsi al di sopra degli altri popoli, o semplicemente per attirare l’attenzione su di sé e sulle sue presunte virtù in fatto di politica internazionale. Lo sappiamo tutti molto bene. Almeno, quella componente non piccola delle popolazioni statunitensi e europee che hanno manifestato contro le due guerre in Iraq lo sa bene, perché lo ha tempestivamente detto, scritto e gridato nelle piazze. E qui però, rispetto al testo di Rovelli, incontriamo una prima difficoltà. Chi è l’ipocrita in questa faccenda occidentale? Il problema è che il termine usato nel suo testo di denuncia non ci aiuta granché da questo punto di vista. Rovelli scrive: “l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori…” Ci sarebbe quindi una sorta di unanimità (“tutti insieme”) che tale soggetto esibirebbe nell’autolodarsi. Immagino che quel termine con la maiuscola stia per un soggetto collettivo, come quando gli scolari scrivono: l’Uomo, per intendere la specie umana, che nella sua dispersione spaziale e temporale mantiene comunque le stesse caratteristiche. Bisognerebbe subito capire quali sono però i confini almeno geografici e storici di questo fantomatico soggetto collettivo, che oggi sembra d’un tratto unanime. Ed è poi così unanime? Chi sono insomma quelli che Rovelli indica come i “tutti insieme”. Ci son dentro canadesi, finlandesi, svizzeri, australiani? E da quando esiste questa entità che include una pluralità di popoli? Si tratta dei canadesi, finlandesi, ecc., di questa generazione? Insomma da quando inizia la storia di questo Occidente? E consideriamo pure che nel “coro” occidentale ci siano almeno gli statunitensi, ma quali? Quelli che hanno votato per il presidente che oggi “parla”, e ovviamente fa sentire la sua voce nel coro, o anche quelli che hanno votato per l’uscente Trump? Tutti i cittadini americani all’unisono rivendicano l’immagine della propria nazione, come l’esempio stesso dell’immacolata e democratica politica estera (e interna)? Questo credo non possiamo dirlo neppure degli elettori di Biden. E che dire dei non elettori, di tutti quelli che non hanno votato né l’uno né l’altro candidato. Come si situano gli astensionisti delle odierne democrazie nel “coro”? Penso poi a tutti i lettori statunitensi di Noam Chomsky, che probabilmente condannano oggi la Russia, senza assolvere i crimini commessi dal loro paese nel corso delle guerre contro l’Iraq. Non sono essi stessi occidentali, come tutti quegli europei che hanno, dal secolo scorso, condannato e contestato l’imperialismo statunitense, e spesso gli imperialismi in quanto tali, anche quelli che non venivano esercitati per forza dal paese in cui vivevano? Credo che, per paradossale che sia, i dipartimenti delle università nordamericane ed europee (ammesso che l’Occidente si fermi qui) hanno prodotto una ricca letteratura che analizza, documenta e denuncia non solo le malefatte dell’imperialismo statunitense e dei suoi sodali, ma anche l’ipocrisia che lo accompagna come discorso legittimante. Forse allora la categoria di “Occidente” non è davvero utile per parlare di questa guerra, e delle posizioni che certi governi prendono, e che sono diffuse e difese da una cerchia abbastanza ristretta di persone. Rovelli, in effetti, arriva a nominarle tali persone: sono esse a costituire il coro, e a renderlo unanime. Sono semplicemente i giornalisti (Rovelli: il coro ripetuto da “ogni articolo di giornale, ogni commentatore televisivo, ogni editoriale”.) Innanzitutto, leggendo la stampa e guardando la televisione, si scopre che il coro non è così unanime, a tal punto che (in Italia) si è creata, su certi media, una sorta di caccia ai commentatori non allineati, subito definiti come “filo-putiniani”. E poi se il contenitore è ancora l’Occidente, dobbiamo includervi, di ogni paese, la stampa più filogovernativa, ma anche tutta quella indipendente, che in Europa e negli Stati Uniti esiste ed è viva, per non parlare poi del giornalismo più o meno militante in rete, ecc.

Sorge, allora, il dubbio che la categoria di “Occidente” sia in realtà una delle prelibatezze concettuali proprie della stampa più allineata, che ama le semplificazioni scolastiche e pedagogiche, tipiche dei sostantivi maiuscolati. Forse un modo per criticare e denunciare questa propaganda può cominciare proprio col decostruire tali fantasmagorie vaghe, in cui ognuno può mettervi (o togliervi) quel che gli aggrada. Una delle poche cose che i miei studi umanistici mi hanno permesso di capire, è che non esistono entità storico-politiche, né culturali, in forma di monoblocco, di sostanza unanime e omogenea, se non nelle forme più grossolane di mistificazione ideologica.

Siamo ancora freschi di terrorismo islamista, attivo e letale sul territorio europeo, e abbiamo dovuto constatare che gli islamisti armati sul suolo francese erano in buona parte di nazionalità francese o belga, così come quelli che sono andati a infoltire in Siria o Iraq le truppe dello Stato Islamico “anti-occidentale”. La verità è che ogni singolo Stato nazionale è attraversato da molteplici conflitti, e che un conflitto fondamentale è quello che oppone governati e governanti, ma anche opinionisti di mass-media e studiosi universitari, anche se una minoranza di questi possono svolgere anche ruoli sulla stampa o in televisione. Non ha molto senso, quindi, prendere a bersaglio quelle rappresentazioni caricaturali, che una certa stampa o tv, e certi esperti da palco, hanno eretto per scopi autocelebrativi. Sicuramente possiamo parlare di “Occidente”, ma a patto di aver sufficientemente definito in modo preventivo a quale realtà ci riferiamo, tentando di evidenziarne i tratti principali su un piano storico-politico o storico-antropologico. Se il soggetto a cui Rovelli si riferisce è rappresentato dalla ristretta popolazione dei giornalisti filogovernativi dei paesi del G7, inclusi gli altri Stati della UE, allora tanto vale che si parli di “stampa occidentale filogovernativa”.

 

Il discorso che faccio non ha come scopo di fare le pulci al testo di Carlo Rovelli, che nel suo intento polemico, e nei suoi presupposti morali, è ben condivisibile. Il problema riguarda il modo in cui ognuno di noi si posizionerà in questa fase storica, sia rispetto al futuro che auspica ma anche rispetto all’eredità che accetterà di salvaguardare e di potenziare. Il declino dell’unilateralismo a guida statunitense apre una fase incerta che, prima di sfociare in un possibile multilateralismo pacifico, rischia di essere risucchiata in un incontrollabile ciclo di caos e guerre. Questa faccenda non può essere percepita solo come un problema d’ordine geo-politico, in cui tutto si fa o disfa con dosi più o meno ragionevoli di diplomazia o forza bruta. Questa fase annuncia o, sarebbe meglio dire, manifesta già un disorientamento sul piano culturale delle identità collettive e individuali delle persone. Di fronte a tale “disordine fuori di sé” (nell’economia, nella produzione, nella società, nel rapporto tra le nazioni, ecc.), la peggior cosa che si può fare è quella di affidarsi a uno “pseudo-ordine dentro di sé”, ossia all’edificazione di identità semplici, mistificanti, nel loro apparente e facile splendore. Questo è purtroppo ciò verso cui indirizza la cultura di destra (Furio Jesi insegna). Ma, a sinistra, il semplice rovesciamento degli emblemi non è sufficiente, e soprattutto non fornisce strumenti per il futuro. Esiste un mito dell’Occidente, ma lo si può combattere solo decostruendolo, mostrando che esso nasconde realtà plurali e contraddittorie, ed è dal confronto con questa complessità che si opera la scelta di accogliere e rigettare. Ognuno di noi è sollecitato a fare chiarezza sulla propria identità, e il tirarsi fuori dalla propria storia dicendo semplicemente “non sono occidentale” o sono “anti-occidentale” non ha granché senso. Ne ha invece precisare quello, ad esempio, che io voglio conservare e potenziare dell’eredità che mi è stata trasmessa, come cittadino italiano, che vive in Europa, e che ha assorbito, nel bene e nel male, l’egemonia culturale statunitense. E, similmente, è importante rigettare quegli aspetti della mia cultura e storia italiana, europea e nordamericana che mi hanno condizionato, ma da cui mi voglio emancipare, in quanto non voglio riconoscermi (più) in essi. E questo fenomeno si accompagna con la curiosità anche per ciò che viene da altri paesi, popoli e culture, sapendo che tutto ciò passa, però, attraverso una pluralità di mediazioni (traduttori, giornalisti e studiosi, scrittori e artisti, censura politica, ecc.).

Questo discorso ovviamente non riguarda solo “noi” (cittadini del G7 o della UE), ma anche i cittadini russi, quelli cinesi, quelli del continente africano, molti dei quali – con scandalo dei nostri opinionisti – vedono in Putin un baluardo contro l’arroganza dei vecchi e nuovi colonialisti “occidentali”. E parlando dei cittadini russi, che cosa vogliono conservare essi della loro storia? La potenza dell’antico impero zarista, nel colonizzare le popolazioni interne o prossime ai suoi confini? La macchina burocratica poliziesca e repressiva, che il partito bolscevico cominciò a mettere in piedi negli anni Venti e che Stalin portò a un grado estremo di efficacia? Oppure si rivolgeranno alla straordinaria e brevissima esperienza della democrazia consiliare (“tutto il potere ai Soviet”)? O ancora a quella forma d’internazionalismo, che malgrado tutto l’Unione Sovietica manteneva in piedi, per contrastare nel mondo l’egemonia militare ed economica statunitense?

Infine, una notazione puntuale. Carlo Rovelli, ad un tratto, scrive: “Eppure i nostri giornalisti surrealisti riescono ribaltare la realtà fino a parlare della logica imperiale di Russia e Cina!” Ora non voglio toccare qui la questione cinese, sia per limiti di conoscenza sia per la sua complessità. Ma qualcosa si può dire sull’imperialismo russo. Innanzitutto, prima che gli Stati Uniti sognassero di divenire l’incontrastata potenza del mondo (sogno che dura soltanto da un trentennio, ed è vieppiù tormentato), essi dovettero dividersi il podio con l’altra superpotenza del pianeta, ossia l’ex Unione Sovietica. Quest’ultima, poi, presa come entità transpolitica, ossia al di là delle specifiche caratteristiche dei suoi regimi politici, ha una storia d’imperialismo ben più antica di quella statunitense, storia che alcuni studiosi fanno risalire al XIII secolo. Ovviamente vi sono imperialismi e imperialismi, quello del Granducato di Mosca non è del tutto simile a quello che Trockij denunciava nella politica staliniana fin dagli anni Venti. E non sorprende il fatto che sia proprio uno dei più importanti e dei primi storici marxisti, Mikhail Pokrovski, ad occuparsi del passato imperialista della propria nazione, nel momento stesso in cui essa sembrava rigettare questo passato. Ironia amara della storia, Pokrovski morì precocemente all’inizio degli anni Trenta, dopo essere però caduto in disgrazia presso Stalin, che considerò il suo lavoro come “anti-marxista”. Quanto all’imperialismo specifico dell’Unione Sovietica, esso fu denunciato molto presto dagli stessi rivoluzionari (e non solo da Trockij), che ovviamente furono marginalizzati o perseguitati dal potere staliniano. Una piccola rassegna di fonti sugli studi dell’imperialismo russo, della sua specificità (un imperialismo “interno”) e delle sue metamorfosi storiche la si può trovare in un articolo apparso per Le monde diplomatique, nell’edizione polacca, e oggi disponibile in rete sul blog del sito Mediapart: Impérialisme russe | Le Club (mediapart.fr).

Da “Curriculum vitae. Poesie 1960-1968”

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La collana Biblioteca di poesia, diretta da Massimo Rizzante per l’editore Metauro, è dedicata a rendere accessibili in Italia alcune delle maggiori voci della poesia internazionale ed europea in particolare. In questi anni sono uscite prime antologie di autori inediti in volume, quali il ceco Jan Skácel, il brasiliano Haroldo de Campos, il polacco Tadeusz Różewicz, lo spagnolo Jan José Ángel Valente, il francese Jean-Jacques Viton. Dal mese scorso, è disponibile l’antologia del poeta catalano Gabriel Ferrater, curata da di Pietro U. Dini. Ne presentiamo qui alcuni testi.

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di Gabriel Ferrater

Traduzione di Pietro U. Dini

ATTRAVERSO I TEMPERAMENTI

Alcuni pini troppo sensibili si contorcono

lasciando intendere come si sentano patetici

mentre compiono questo dovere lirico

di esprimere il vento, che pure giunge limpido.

Le radici scricchiolano sorde, e i rami

esultano di dolore per proclamare

che è grave che soffi lo spirito. Il vento,

quando esce dal bosco, è tutto marcio di lamenti.

*

FINE DEL MONDO

Posso ripetere la frase che s’è portata via

il tuo ricordo. Non so più nulla di te.

Questa insistente acqua di parole,

sempre crescente, va sgretolando i margini

della vita che credetti reale.

La terra pietrosa e faticosa

per il camminare, e gli alberi che mi ferivano

gli occhi con un ramo delicato,

tanto vivacemente maligno e convincente

grazie alla prova migliore, quella delle lacrime,

pare non siano nulla. Si arrendono

all’ampio grigiore screziato

di sperma pallido, stomachevole. Tutto cade

con un rumore lento e molle, e fluttua

informe, o s’inabissa per sempre.

Tutto ha senso, soltanto senso, tutto è

così come ho detto. Non so già nulla di te.

*

POSSEDUTO

Sono ben lontano dall’amarti. Quando i vermi

faranno del mio corpo una cena fredda

vi troveranno un retrogusto di te. E sei tu

che indecentemente ti sei amata al mio posto

fino alla curva: sazia di te,

ora ti ecciti, te ne vai dietro

a un altro corpo e mi neghi la pace.

Non sono altro che la tua mano che palpa.

*

TRE LIMONI

Gennaio benigno. Sotto

molta aria verde, le cose

oggi non sono scontrose

né il luogo è arido. Guarda:

tre limoni, posati

sull’aspra lastra.

Giacché si bagnano di sole

e puoi esaminare

senza dubbi né fretta

la metrica semplice

che li lega, pensi

che non significhino nulla?

Guardali, ti basti.

. . . Cuore sedotto,

rinuncia sin d’ora,

taci. Non farai tuo

il gioco dei tre limoni

sull’aspra lastra.

Né sarai in grado

di protestare prima di perderlo.

Nessun sobbalzo della memoria

abolirà la quieta

maniera di estinguersi

che hanno i ricordi.

*

PERÒ NON MI DESTAR

Non entrare ora. Perditi

sulla ghiaia scricchiolante

e tristemente rosata.

Cammina lentamente. Fermati

a guardare come stanno dritte

le foglie dell’alloro.

Non cercare le arance

dal colore troppo schietto.

Ama piuttosto i ridicoli

bambù, come le spine dorsali

degli insetti pazzi o incapaci

che son morti sbattuti a terra.

Concentrati sulle cose rigide

e sugli schemi. I fasci

volgari di linee azzurre:

sono panchine. Sfere

morte: sono i monconi

dei platani del sentiero.

Lascia passare tre ore,

e poi entra. Vedi

tutto quel che è rimasto:

i posacenere strapieni,

la metà dei bicchieri

sporchi di rossetto.

Qui hanno vissuto, e tu

non c’eri. Non hanno visto

nessun tuo gesto, né ti han sentito

dire nulla. Serviti un gin.

Non chiedere il ghiaccio: è stato tutto sciolto.

Puoi sederti, ravvivare il fuoco,

e credere che abbiano vissuto.

*

IL DISTRATTO

Certamente oggi c’erano nuvole,

ma non ho guardato in alto. È tutto il giorno

che vedo volti e pietre e tronchi d’albero,

e porte attraverso cui volti entrano ed escono.

Guardavo da vicino, non mi alzavo da terra.

Ora m’è venuto buio e non ho visto le nuvole.

Bisogna che domani me ne ricordi. L’altro giorno

ho guardato in alto, e oltre la ringhiera

di un terrazzo, una ragazza che s’era

lavata la testa, con un asciugamano

sulle spalle, si passava

una, dieci, venti volte, il pettine fra i capelli.

Le sue braccia assomigliavano ai rami di un albero molto alto.

Erano le quattro del pomeriggio, e c’era vento.

*

IL LETTORE

Fra gli oggetti del mondo, fra i pochi

oggetti che possiedo, c’è un tagliacarte:

una corta lama d’avorio,

nuda tra le mie dita, che si fa dorata o pallida

secondo la luce dei giorni e dei luoghi.

Sono vent’anni che me lo ritrovo in tasca,

non ricordo neppure chi me lo donò.

È ammaccato: molte volte l’ho raccolto da terra

in una mia stanza, o fra i piedi,

dopo aver pagato la notte in un bar.

Mi ha aperto migliaia di pagine: ricordi, menzogne

di altri uomini (e di ben poche donne).

E io non ricordo neppure chi me lo donò.

E non so mentirmi un ricordo in più, qualche mano.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona

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di Antonio Sparzani

Quando trovo un libro che mi piace molto, il mio istinto di rozzo e incapace recensore sarebbe di gridare semplicemente: “lasciate cadere quello che avete in mano e correte subito a comprare il libro tale e leggetelo tutto d’un fiato”. Ma poiché questo non invoglierebbe se non forse i pochi che mi conoscono bene e condividono i miei gusti, mi pare che sia meglio, e anche più giusto, usare mezzi più persuasivi per invogliare il potenziale lettore, raccontandogli almeno qualcosa del libro stesso. Così:

«Oggi ancora, lei, che splende inghirlandata
di magnolia d’oro,
volto di loto in fiore, tenue la linea della pelurie
sul ventre,. . .»

così cominciavo qui, nel 2019, a parlare di un volume di Giuliano Boccali, nel quale l’autore traduceva e illustrava alcuni poemetti (Nuvolo messaggero, Centuria d’amore e Le stanze dell’amor furtivo) della letteratura indiana. Ma lo scorso febbraio è uscito questo suo nuovo libro Il Dio dalle frecce fiorite – miti e leggende dell’amore in India (Il Mulino, 243 pp., €16), tra l’altro molto ben corredato di quasi una trentina di immagini a colori, nel quale l’autore, allargando assai la prospettiva, si propone di dare un quadro più complessivo dell’amore nelle sue molteplici sfaccettature nella letteratura indiana (e il titolo dantesco di questo post è citato da Boccali stesso in uno dei molti racconti).

Quando si iniziano a leggere i primi capitoli, si comincia ad avere davanti agli occhi uno straordinario, rutilante turbinio di storie, di poesie, di vicende, in gran parte mitologiche anche se non completamente, nelle quali dèi supremi (Vishnu, Shiva e la Dea, in sanscrito Devi), il dio creatore (Brahma), dèi meno importanti, antidèi (asura), demoni, umani di varie caste si mescolano continuamente in intrighi, innamoramenti, tradimenti, rinunce, ascetismi alla base dei quali incontrastato – o meglio – talvolta assai contrastato ma sempre presente, comunque regna l’amore, il Leitmotiv dell’intero scritto, come del resto dichiara il sottotitolo.
Mi pare che le prime righe del testo, quelle con le quali inizia il Prologo (il cui titolo, già significativo, è In principio fu il Desiderio), siano la migliore illustrazione possibile di tutto il tema, per cui ve le riporto così come sono:

“Le fattezze di Kamadeva, l’indiano dio dell’amore, certo sono molto affascinanti, anche se piuttosto pericolose, e le sue attività genialmente multiformi, anche se talora disastrose. È stato generato con un atto mentale spontaneo dal Creatore Brahma, invaghito della sua precedente creazione, la sublime Sandhya impareggiabile per bellezza, che infatti incontreremo lungo il filo dei nostri racconti. Al pari del suo collega greco-romano Cupido – kama in sanscrito significa proprio cupido, «desiderio» -, egli si presenta come un meraviglioso giovane armato di arco e frecce, che la fantasia indiana concepisce in maniera molto immaginosa. Infatti l’arco di Kama è di canna da zucchero, la corda è costituita da una fila di grandi api nere, emblema in India del desiderio volubile e insaziabile, mentre le punte delle sue frecce sono fatte di fiori, cinque fiori identificati con precisione: loto bianco, ashoka [saraca asoka], mango, gelsomino e ninfea blu, donde l’epiteto molto frequente di «Dio dalle frecce di fiori», «Dio dalle frecce fiorite». È sprovvisto di ali mentre il suo animale veicolo e compagno è il pappagallo. Suo amico e alleato di elezione è Vasanta, «Primavera» (maschile in sanscrito), pure nato dalla mente di Brahma. In altra, più inquietante circostanza hanno origine sempre dal Creatore le truppe del dio, i Mara, «Assassini» (già!), ai quali viene affidato il compito di confondere le menti di chi è colpito dai suoi dardi e di ostacolare in ogni maniera i ricercatori nella via della conoscenza del mondo. Sull’insegna di Kama è raffigurato. . . un po’ scherzosamente non riveliamo per ora quale animale sia effigiato sulle bandiere del dio, rinviando la risposta al termine del percorso . . .”

Anch’io mi guarderò bene dal fare spoiling rivelando a voi quale sia questo sorprendente e inaspettato animale simbolo, che viene rivelato verso la fine del libro, dirò che non è certo un animalino dolce e grazioso come uno si potrebbe aspettare. Il libro contiene tante storie, la maggior parte delle quali risalgono a testi assai antichi, dal Rigveda e dal Mahābhārata in poi e anche raccontarne per disteso una sola occuperebbe molto spazio. Mi limiterò dunque a cercare di centrare un punto che Boccali, la cui conoscenza e competenza in tutto questo ambito di sapere sembrano davvero sconfinate, sottolinea verso la fine del libro (p. 180) e che suona così:

“Come già si è detto, a partire da Brahma stesso non c’è infatti alcun maschio, dio, asceta, saggio, eremita, re-veggente – ma proprio nessuno – che non abbia ceduto almeno una volta al fascino femminile, pur avendo pronunciato voti che gliela proibivano tassativamente. Il racconto delle loro storie occuperebbe una intera collana di libri, non un solo capitolo di un libro come questo. E ciò inequivocabilmente significa che per la visione indiana diffusa l’esperienza dell’ amore è fondamentale, insostituibile, proprio ai fini dell’adempimento del destino spirituale più alto: conoscenza e amore sono inscindibili, fusi l’una nell’altro. Su questo terreno germoglia e cresce la convinzione espressa dai tantra che il sesso è uno dei mezzi principali per accedere rapidamente ai livelli superiori di coscienza e alla liberazione.”

Aggiungo solo la considerazione (un po’ fuori tema) che mi piacerebbe molto che l’attuale primo ministro Indiano Narendra Modi, fondasse davvero la sua amministrazione sull’amore (così come, in un mondo assai diverso dall’attuale, dovrebbero fare tutti i governanti).

la terribile dea Kali

L’ultima Thule

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di Romano A. Fiocchi

 

Rubes ha terminato il suo racconto. Sembra sfinito. Accanto a lui, appoggiata alla sponda del letto, le braccia bianche, ecco la Serenissima. Le vesti, fluttuanti, sembrano carta velina. Solleva il piccolo scettro di corallo rosso. La sua voce asessuata attraversa la suite con note metalliche.

Anno 2070 dell’era della civiltà occidentale, 1448 dell’era musulmana, 1786 dell’era copta, 5830 dalla creazione ebraica del mondo, data giuliana: 2477159,74197. Questo è il termine che avevano prefissato per collocare nel tempo la mia definitiva cancellazione dalle carte geografiche. Evento burocratico che non ha avuto luogo per la mancata manifestazione del corrispondente evento fisico, erroneamente calcolato. Insomma non fui – come dicevano gli esperti – inghiottita dalle acque della laguna. Tutto qui. La mia, quella che sentite, è una voce autentica e non “una voce registrata dall’atmosfera, una sorta di eco rimasta in sospensione come le particelle d’acqua di un arcobaleno”. Il 16 agosto 1993, in occasione dell’apertura del negoziato sul clima, il Fondo Mondiale per la Natura presentò a Ginevra un rapporto che preannunciava le catastrofiche condizioni in cui prima o poi avrei versato. L’associazione aveva fondato le sue previsioni sulla seguente premessa: era scientificamente – leggi: statisticamente – provato che nel Ventesimo secolo la temperatura media del pianeta aveva subìto un aumento di almeno mezzo grado centigrado e i gas industriali, quelli che provocavano il surriscaldamento dell’atmosfera, erano stati prodotti in quantità via via crescente. Se le emissioni fossero continuate a quel ritmo, l’atmosfera sarebbe andata incontro ad un surriscaldamento di zero virgola tre gradi ogni decennio e i mari, sciogliendosi i ghiacciai, a un innalzamento di circa sei centimetri. Il Mediterraneo in particolare avrebbe accresciuto il suo livello di sessantacinque centimetri entro l’anno 2070. Nella mia laguna il fenomeno sarebbe stato tre volte più marcato. Se a tutto questo si fosse aggiunto il mio sprofondamento naturale, cinque centimetri ogni dieci anni – con presumibile tendenza a un peggioramento galoppante – significa che per l’anno 2100 sarebbero emersi dalla laguna soltanto il campanile di San Marco e quello di poche altre chiese, con l’effetto pittoresco ma poco edificante del trecentesco campanile di Sant’Anna nel lago di Resia.

Non avevano previsto, tutti quegli esperti, che i calcoli e le statistiche non valevano nulla se applicati alla più inverosimile delle città. Infatti non solo non sprofondai – vivere sull’acqua è sempre stata la mia vocazione – ma vidi inghiottire il resto del mondo da un mälström di paurose proporzioni. Nessun abitante della terraferma cercò rifugio sulle mie centodiciassette isole, come fecero all’epoca dell’invasione longobarda, proprio perché si temeva che fossero le prime ad inabissarsi. I veneziani residenti mi abbandonarono per la stessa paura e cercarono scampo altrove, trovandovi invece la morte per annegamento. L’oceano globale si mangiò tutto. La Terra si fece una palla d’acqua, come una cisti sierosa e immonda. L’uomo fu punito per la sua stupidità. E io lì, ad assistere impotente, sola.

Proprio sola non ero. Se si potesse guardare nei miei ricordi, se mai potessi avere ricordi, vedrei una figura goffa, avvolta in un soprabitone grigio, ferma sul limitare di un binario tronco della stazione di Santa Lucia. È irrigidita in quella posa da non so quanto tempo e osserva l’infinita distesa delle acque. Ogni tanto scuote la testa. Al suo fianco c’è la Morte, tricorno nero, tabarraccio scuro, bautta e maschera bianca in volto. Di fronte a loro galleggia inerte, in un punto impreciso dell’oceano, il relitto di una gondola. Galleggia sopra non so quale terra sommersa e chissà quanta strada ha già percorso, alla deriva sopra i ruderi sparsi delle civiltà umane. Niente e nessuno a bordo. Non un fiore di plastica. Non un cuscino ricamato con arabeschi. Non una fisarmonica abbandonata. Non un remo. La gondola è nuda.

[…]

da Romano Augusto Fiocchi, Il tessitore del vento, 368 pagine, Ronzani, 2022.

Due libri, e una lezione di vita, di Goffredo Fofi

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Roma, ottobre 2021. Goffredo Fofi in uno scatto di Simona Caleo

di Davide Orecchio

Sono usciti da poche settimane, e contemporaneamente, due libri di Goffredo Fofi. Il primo, pubblicato da E/O, è Cari agli dei. Il secondo, per minimum fax, è Son nato scemo e morirò cretino. Scritti 1956-2021, una raccolta di testi già editi curata da Emiliano Morreale. Andrebbero letti uno di seguito all’altro, magari cominciando con Cari agli dei. Io ho fatto così e mentre leggevo riconoscevo un dialogo, come se i libri fossero due persone – o una persona sdoppiata – che si raccontavano una storia (piccolo appunto a editori e curatori: gli indici dei nomi sarebbero stati utilissimi, peccato).

Che storia è? Una storia importante. Così come l’autore che l’ha vissuta e la racconta. Un’altra storia – intellettuale, politica, militante – del secondo Novecento italiano fino ai nostri giorni, e che riguarda, in una condivisa matrice “eretica”, persone, comunità, idee, riviste della sinistra italiana. Una sinistra minoritaria. Fuori dalle grandi chiese politiche che hanno dominato quel secolo. Mai bolscevizzata, né autoritaria né ubbidiente, non gerarchizzata. Spesso, se non sempre, sconfitta. Ma talmente vitale da parlarci ancora con argomenti e percorsi biografici esemplari, che non sono forse esauriti, a differenza di tanto materiale di quel secolo che risulta ormai inutile, se non tossico, per noi.

Goffredo Fofi (1937) è di quella storia un protagonista. Come ha spiegato efficacemente Massimo Onofri su Avvenire, il lungo percorso di questo intellettuale, prima educatore, poi tessitore seminale di gruppi, e critico letterario e cinematografico, si può sintetizzare in una scelta di vita comunitaria (francescana) dove il socialismo guarda all’anarchia e qualsivoglia proprietà è rifiutata con coerenza. 

Protagonista, senz’altro. Ma, invece di mettersi al centro, in Cari agli dei Fofi fa un passo di lato e sceglie di raccontare i compagni di strada, le amiche e gli amici senza i quali la vita non avrebbe senso. Compone così un’autobiografia attraverso le vite degli altri. Le tante vite incontrate nel suo instancabile viaggiare e conoscere. Questo è certamente un aspetto di Cari agli dei, libro che potrebbe sembrare molto triste ma forse non lo è.

Perché triste? Perché Cari agli dei è un libro di lutti, una raccolta di ritratti di persone morte troppo presto, “prematuramente”. Morti che si sono consumate, spiega Fofi nell’introduzione, nel quadro della “sconfitta storica del socialismo”. Citando Aldo Capitini e rendendogli omaggio, Fofi parla di “compresenza dei morti e dei viventi” nelle nostre vite. E spiega: “i morti sono presenti, sono tra noi, e dovremmo tenerne ben conto noi vivi, angosciati dal dover muoverci dentro un presente preoccupante e avvilente”. Perché – prosegue Fofi – “non tutto è stato inutile nel mondo che abbiamo conosciuto, negli anni che abbiamo vissuto, in quel poco che siamo riusciti a fare dalla parte del giusto e del vero (…) e qualche risultato abbiamo ottenuto anche se fragile e di breve durata”.

Cari agli dei è una foto di gruppo di persone che continuano a vivere in Fofi. E forse – questo l’auspicio dell’autore – potrebbero vivere anche in altri. È quindi un repertorio di exempla e parla a chi viene dopo, ai viventi, e a chi tra di loro vorrà trarre ispirazione da queste vite di intellettuali militanti, educatori, psicologi, scrittrici, poeti, sindacalisti, sacerdoti… spesso operatori delle istituzioni vocati a cambiarle, le istituzioni, profondamente, radicalmente e da dentro. Figli e figlie di un’epoca “in movimento” e non individualista, e che credeva nelle trasformazioni collettive.

La raccolta ospita 26 ritratti più una nota autobiografica sull’Umbria natale del 1944. Preziose per me le pagine su Alexander Langer o Grazia Cherchi, su Marco Lombardo Radice o Maurizio Flores D’Arcais. E quelle dedicate all’unico caro agli dei che io abbia avuto la fortuna di conoscere, Alessandro Leogrande. Pagine piene di amore e rimpianto per un giovane e insostituibile compagno e collaboratore di Fofi: “perdendo Alessandro abbiamo perso una guida, ed è stato ben difficile, purtroppo, trovarne altre della sua statura nella generazione venuta dopo la sua, soprattutto nel campo dell’analisi politica, del giudizio politico, dell’intervento politico”.

La storia raccontata in questi due libri non è solo di individui ma di gruppi e di riviste, di viaggi e di luoghi (la Sicilia “battesimale” di Danilo Dolci, Torino e Milano, Napoli, Roma), infine di decadi, con in mezzo una data spartiacque per Fofi, quel 1978 dopo il quale si chiude una stagione di militanza collettiva e tutto cambia. Ed è davvero un dialogo. Ad esempio i ritratti di Raniero Panzieri, Dario Lanzardo e Vittorio Rieser – tra gli animatori del gruppo torinese frequentato da Fofi soprattutto negli anni ’60, gli anni dei Quaderni rossi – sarebbero meno comprensibili se non si potessero leggere, in Son nato scemo e morirò cretino, le pagine su “La città del monopolio” (1963), estratte da quell’inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino che Fofi pubblicò per Feltrinelli (ma doveva uscire per Einaudi!) collaborando strettamente con Panzieri. 

L’antologia curata con intelligenza da Morreale per minimum fax ha poi, forse, un pregio in più, una utilità (Fofi parla spesso del dovere di scrivere libri che siano utili) che emerge non solo dalla sua natura di rendiconto documentale di un lungo percorso nel secondo Novecento italiano, ma anche dalla scansione cronologica, appunto, che offre al lettore un quadro nitido, storico, delle epoche e delle situazioni nelle quali sono nati i testi di Fofi. 

Son nato scemo e morirò cretino è libro denso, un tesoro pieno di articoli e tracce (critica letteraria, cinema, società, storia, politica, Nord e industrializzazione, Sud e povertà). Mi limito a segnalare, con ingiusta parzialità: “Frammenti di diario” (1960), “Lettera a Lotta continua sulla violenza” (1978), “Sognare all’indietro” (1981, con pagine illuminanti su Walter Veltroni e un certo “stile da prima liceo”), “Storie di treno” (1989), “Promemoria per una rivista” (1990, chiunque voglia fare una rivista lo dovrebbe leggere), “La fine del comunismo” (1991). E poi le pagine di critica cinematografica, dove Fofi dà il meglio di sé e Morreale lo sa bene; tra queste: “Orson Welles” (1963), “La commedia del miracolo” (1964), “Per una veridica filmografia del verace Totò” (1967), “Il cinema italiano: servi e padroni” (1971), “Cimino, cacciatore senza preda” (1979), “Introduzione al cinema di Ciprì e Maresco” (1999).

Buona lettura.

Dal “Faldone” (zero-cinquantanove, novantotto-novantanove)

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[Questi testi sono tratti da Faldone zero-cinquantanove, novantotto-novantanove. Poesie 1992-2020. Estratti, II, Aragno, 2022]. (Per una lettura migliore, si consiglia di zoomare su ogni singolo testo.)

di Vincenzo Ostuni

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FAQ

Mots-clés__Compleanno

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Paulette Goddard in "Modern Times" di Charlie Chaplin, 1936

Compleanno
di Elisabetta Abignente

Madonna, B-Day Song -> play

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Paulette Goddard in “Modern Times” di Charlie Chaplin, 1936

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Da: Francesco Targhetta, Le vite potenziali, Mondadori, Milano 2018, pp. 161-162.

Arrivò il suo compleanno, e Luciano notò come fosse sempre più numerosa la schiera di enti e istituti che ne celebravano l’occorrenza, con una proporzione inversa rispetto alle persona a cui poteva attribuire un volto. Quel giorno i primi auguri li ricevette dalla banca, prima via mail e poi allo sportello automatico: appena inserì il bancomat nella fessura illuminata di verde, sullo schermo apparve una torta, precisamente una meringata, che Luciano non avrebbe mangiato mai. A questi seguirono gli auguri via mail dell’Enel e del fornitore del gas, i quali approfittarono dell’evenienza per proporre a Luciano alcune offerte vantaggiose che tuttavia sarebbe stato ingenuo definire regali. Era innegabile, in ogni caso, la presenza di una premura nei suoi confronti da parte di chi lo dotava dei servizi essenziali alla sua vita, mentre non si poteva dire altrettanto dei vecchi amici che sempre più raramente si ricordavano di scrivergli anche soltanto un messaggio predefinito, un “Buon compleanno!” antico e sobrio, privo degli orpelli che portava con sé la crescente necessità di risultare simpatici. Forse proprio perché a lui sarebbe bastato così poco, non gli arrivava niente.
Il problema, rifletté Luciano, non era l’assenza di tempo, ma di cura: nessuno che avesse una faccia si curava più di lui, tranne i suoi. Quando a metà pomeriggio lo invitarono a cena, non poté declinare, e trascorse buona parte della serata a guardarli, anche mentre mangiava il tiramisù che Mariuccia aveva preparato per l’occasione […].
In realtà, pensò poi, rientrando a Marghera sotto la luce ammutolita della sera, molti suoi colleghi nemmeno sapevano quando lui compisse gli anni: sono informazioni che a un certo punto della vita non si chiedono più. Gli altri esistono in una percentuale sempre minore, e lui era sempre e solo coinciso con gli altri.
Arrivata la mezzanotte, spense il cellulare e, con una specie di sollievo, accolse l’arrivo di un giorno anonimo, in cui finalmente non sarebbe più stato al centro della propria attenzione.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Nuovi autismi #23 – I miei buchi

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di Giacomo Sartori [dall’archivio di NI: pezzo pubblicato il 13 giugno 2012]

I buchi che faccio per lavoro si dividono in due tipi, quelli piccoli e quelli grandi. I buchi piccoli li scavo con uno strumento apposito, una sorta di spropositato cavaturaccioli che avvito nel terreno come si stappa una bottiglia di vino. Di solito chiedo il permesso al proprietario del campo e finisce che parliamo di terreni o anche appunto di uve e di vini. Qualche volta propino alcuni consigli su come accudire e curare la terra: nel fondo degli occhi aperti al sole e al vento colgo lampi di interesse, anche se a me sembra di ripetere sempre le stesse cose. Spesso invece capisco che l’essere umano che ho davanti è ormai sazio di frasi e immagini: ritiene di sapere già tutto.

In certe zone i coltivatori mi accolgono con ruvidi sorrisi che prendo per incoraggiamenti, in altre sono sospettosi, ma a ben vedere la variabilità individuale prevale sempre sulle specificità microgeografiche. Del resto in anni di scavi non ho mai trovato due contadini assolutamente identici, anche se certo a volte le similitudini saltano agli occhi. Se mi mettessi di buzzo buono potrei approntare una tassonomia con classi e sottoclassi e varianti, corredata magari da una chiave dicotomica. Io però sono pagato per classificare la terra, non le persone, e quindi lascio tale compito a chi è incaricato di questo, a chi ne ha i titoli. Ringrazio l’agricoltore di turno, lo saluto, e mi dedico al mio lavoro.

Certe volte invece ho fretta o anche solo non sono in vena di chiacchiere, e allora scavalco con i miei orpelli elettronici steccati o recinzioni, mi infilo in spiragli di cancelli. Beninteso è sempre un po’ eccitante penetrare senza permesso in un campo e agire di nascosto, pur sapendo che si tratta di un reato lieve. Talvolta vengo scoperto o anche assalito con male parole: la collera di solito svapora però nel vuoto del cielo, perché la mia voce è pacata, per non dire un po’ rassegnata: assorbe ogni livore come una spugna. Spiego che io non voglio fare niente di male, sono anzi lì per cercare di migliorare le cose. Chiarisco che per me è importante conoscere e capire la terra, saperla ascoltare. Un pomeriggio un contadino infuriato con il mondo mi ha detto che avevo proprio una brutta faccia, e io per qualche giorno mi sono domandato se per caso quell’uomo dall’arroganza strampalata avesse ragione. Raramente mi vengono lanciati contro cani feroci, il che forse è la disavventura più grande che possa capitare a un rilevatore: non è simpatico confrontarsi con delle fauci ansanti e umide di bava lucida, restie a qualsiasi mediazione verbale. A parte queste eccezioni scavare i miei buchi piccoli è faticoso ma anche bello: trovo appagante spostarmi dove mi aggrada, senza tirarmi dietro pesanti valige e senza dipendere da nessuno. Pur non essendolo affatto, come a ben vedere non lo si è mai, mi sento libero.

Di solito sono i giovani che svolgono questa mansione ritenuta poco qualificata, io però continuo a cimentarmi, da una parte perché non ho fatto molta carriera, e dall’altra perché per indole mi separo malvolentieri dagli aspetti più basici dell’esistenza. Ma soprattutto considero esaltante scoprire i recessi ormai inaccessibili ai nostri occhi automobilistici e telematici, il caleidoscopio di odori della terra e della vegetazione, le diverse consistenze sotto la suola, i diversi tipi di silenzio. Non ho difficoltà a ammetterlo: molto spesso mi innamoro delle zone che batto, come si sprofonda nell’amore parlando e conoscendosi ogni giorno un po’ di più, senza quasi accorgersene. Ricordo con commozione certi struggenti ruderi soffocati dai roveti che mi hanno accolto in pomeriggi abbacinati di sole, alcuni inaspettati strapiombi su valli o fiumare, certe vaste scivolate sul mare, certe prospettive quasi solo minerali dove ardevano le ginestre, certe aride cascate di argilla grigio-azzurra, un sottobosco imbottito di madido e elasticissimo muschio. Perfino dietro capannoni abbandonati o pollicolture dismesse ho trovato scorci che mi hanno incantato, ho sollevato pugni di magnifica terra. Sono i miei amori lavorativi. Poi naturalmente il tempo rosicchia il merletto dei dettagli, e i contorni diventano tenui e quasi astratti, come succede anche con gli amori normali.

I buchi grandi li faccio fare con un escavatore, e quindi tutto diventa più impersonale e macchinoso. Sto a guardare il bestione metallico esattamente come facevo da bambino quando d’estate mio padre mi portava con lui sui cantieri. Nel frattempo il mondo è cambiato molto, ma l’odore dei gas di scarico dei possenti motori diesel mischiato a quello della terra appena smossa è rimasto lo stesso, e anche il mio stupore: nel turbinio di gas e fragori meccanici e minerali torno bambino. Mi dico che quei pochi giorni annui sui cantieri sono la circostanza che mi ha reso più felice nella mia vita. Poi però mi scrollo di dosso la nostalgia, e dico ai miei collaboratori come operare e a cosa fare attenzione. Perché i buchi grandi non sono qualcosa che si faccia da soli, sono una delicata incombenza di gruppo, e questo comporta vantaggi ma anche svantaggi, a partire proprio dalla perdita della solitudine e degli abissi che l’accompagnano.

Io non so mai esattamente cosa troverò nei miei buchi, grandi o piccoli che siano, e proprio lì sta la calamita che tiene avvinghiati il mio cervello e il mio respiro. Dopo tanti anni ho quasi sempre idee preconcette, e spesso ci imbrocco, a volte però quello che salta fuori non ha niente a che fare con ciò che mi aspettavo. Mi arrendo quindi all’illogicità dell’esperienza concreta, e cerco possibili spiegazioni, nuove interpretazioni, conscio che anche quelle sono destinate prima o dopo a decadere. Non dico che non sia stimolante, ma l’inquietudine potrebbe pur sempre stringere le sue ronde di bestia affamata, potrebbe avvicinarsi fino a rendersi visibile, riesumando i turbamenti della mia preistoria. Naturalmente questi scacchi più o meno clamorosi sono metafore della vita, come moltissime azioni umane viste con un sufficiente distacco diventano allegorie dell’esistenza alla quale concorrono e nel tumulto della quale si mimetizzano.

Quando scavo i miei buchi non penso ai danni che produco, mi sembra anzi di darmi da fare per difendere la terra, per salvarla. Mi dico che le informazioni che passerò all’organismo per il quale opero, a cominciare dalle prove inconfutabili delle ferite apportate dall’avidità e dall’incuria, serviranno a evitare che gli uomini devastino ulteriormente la matrice sulla quale camminano e che dà loro da mangiare, o comunque a limitare la loro azione devastatrice. Per questo ci metto tanto impegno, per questo la mia concentrazione è assoluta, ha qualcosa di ipnotico. Mentre osservo il cucchiaio dello scavatore che addenta il terreno, rivoltando strati variopinti che hanno impiegato millenni a formarsi, e che nessuno ha mai toccato, non posso però illudermi di operare solo per il bene. Proprio quella buca che appronto per salvare la terra rappresenta un’ulteriore lesione, si somma a tutte le lacerazioni precedenti e a quelle che verranno: a dispetto delle mie belle intenzioni la mia è un’opera distruttrice, come a ben vedere lo sono tutte le attività umane. Anch’io come tanti uomini devasto, le mie buone intenzioni non sono che un paravento pretestuoso, un puntello necessario al mio equilibrio psichico.

La carta vincente dell’uomo è stata proprio perfezionarsi nelle razzie e nelle stragi sfuggendo all’azione predatrice delle altre specie, svincolandosi insomma dalla dittatura spietata degli ecosistemi naturali, mi dico tra un’unghiata e la successiva della benna. L’attuale saccheggio risolutivo non è quindi una deriva, mi dico, ma la vittoria finale, la nostra apoteosi: stiamo finalmente consumando tutto, disintegrando ogni cosa. Ce l’abbiamo fatta. Dovremo essere fieri, invece di piangerci addosso, invece di enfatizzare gli svantaggi consustanziali a quello stesso vandalismo sistematico che ci dà tanta ebbrezza.

Come tutti gli esseri umani sono però anch’io incoerente: una volta finito di scavare il mio buco grande non penso alle minacce del futuro, mi lascio andare al piacere. Mi seppellisco nel ventre scuro e fresco saturo di sentori di muffe, e godo a essere il primo a vedere i segreti dischiusi dalla benna di acciaio, godo a accedere a quei messaggi così intimi e così essenziali della terra. Mi stordiscono i suoi colori caldi di affresco, mi inebria prenderla nella mano e soppesarne la consistenza sempre diversa. Bando alle ciance, mi dico poi, e comincio il mio cosiddetto lavoro scientifico. Le prendo il polso, le misuro la pressione e l’eventuale febbre. Ho sempre avuto difficoltà a capire le persone che si lamentano del lavoro che fanno: il mio è un entusiasmante gioco. Un gioco molto serio, quasi solenne, come tutti i giochi più nobili. Quando si è adulti solo lavorando si può davvero giocare, sbarrando la strada alle orde di pensieri sul retro del cervello.

Certe volte mentre torno a casa con i vestiti macchiati di quello che mia moglie chiama fango, e che per me è bellissima terra, i pensieri dolorosi ce la fanno a riprendere il controllo della mia testa. Mi dico che sono anch’io un infame distruttore. L’automobile che conduco è uno strumento di scialo e di dissipazione, gli oggetti di cui mi circondo sono il mio contributo allo smantellamento e all’ecatombe, a ben vedere quello che mangio con la mia dieta troppo ricca non potrà essere reintegrato. Provo allora nostalgia per l’ingenuità dell’umanità che mi ha preceduto, rimpiango l’epoca nella quale io stesso non ero cosciente della valenza mortifera del mio agire. In quei momenti mi riprometto che farò il possibile per invertire la tendenza, o comunque per limitare i danni. Questa volta nel mio piccolo devo fare qualcosa, mi dico. Non è vero che non c’è soluzione, mi dico. Non basta però il cinque per mille al WWF, devo fare di più, mi dico. Rispolvero antichi e bellicosi propositi, mi riprometto di intervenire e di militare.

So però che sono chimere, legate per certi versi alla stanchezza e all’insoddisfazione del mio stomaco. So che continuerò a agire come ho sempre fatto, conformandomi al cinico fatalismo e all’irresponsabilità che furoreggiano nel programma radiofonico sul quale sono sintonizzato. Le armi che ho scelto, inermi e forse superflue, sono le parole. Non sono però nemmeno tanto ingenuo da pensare che le mie ferite sommate a quelle dei miei congeneri avranno ragione sul pianeta che chiamiamo terra. Non ho questa presunzione che si fa sempre più strada: so che la terra è vissuta molto bene senza di noi, so che la sua atmosfera e la sua superficie rugosa è stato metamorfosata da organismi altrettanto scaltri di noi, e verrà a patti con ogni probabilità con esseri viventi ancora più scaltri. O al limite si riposerà con un salutare silenzio minerale.

Infilo la chiave nella toppa di casa, preparandomi a rispondere alle domande di mia moglie sulla giornata, pregustandomi il bicchiere di vino che ben presto mi verserò. Mi dico che non devo dimenticare però di mettere le batterie in carica. E mentre la nostra gatta cieca si struscia con inarcamenti e disarticolate torsioni del busto sulle mie caviglie mi sento appagato e vagamente felice.

(l’immagine: Santerre (Somme, Piccardia), maggio 2021)

 

Buena Vista Social Club: Lagioia dei classici

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Questa  rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

 

Nota sui classici

di

Nicola Lagioia

Ogni tanto, qui su Fb (credo raramente per paura del ridicolo) cercherò di prendermi la libertà di scrivere dei post che presumo saranno poco letti, post di cui io stesso non sono sicuro, vale a dire post in cui più che raccontare qualcosa (il che, per me, significa di solito aver trovato una forma), o dare informazioni utili, o dichiarare qualcosa di cui credo o mi illudo di essermi convinto (le prese di posizione non sono il mio forte, gli “inviti al viaggio” sì), proverò a scrivere su questioni di cui sono davvero incerto – e su questioni molto poco popolari immagino -, condividendo sensazioni che altrimenti andrebbero perse, con la speranza che qualcuno più bravo di me le completi da qualche altra parte, magari anche in un altro tempo.
Oppure (se sono false intuizioni, come è possibile) qui possono andare tranquillamente perse e ignorate (si prova a dare un senso alla caducità dei social). Dunque, chiedo scusa in anticipo.
(Potrei far precedere questi post da tre asterischi *** così chi vuole non perde tempo con le mie divagazioni).
Il fatto è che sono ormai 25 anni che – oltre a leggerne di continuo di nuovi – rileggo gli stessi libri, in continuazione, senza venirne mai del tutto a capo. Fondamentalmente si tratta di alcuni cosiddetti capolavori del modernismo europeo, quei libri che, forse, portano alle estreme conseguenze intellettuali ed estetiche (e all’estrema bellezza) la civiltà europea un attimo prima che crolli su se stessa (e, da questo crollo, mi pare, siamo stati generati noi). Questi libri che leggo in continuazione, senza venirne a capo (per questo, forse, mi ci accanisco così tanto) sono sin troppo noti, sono altresì considerati faticosi (non che non lo siano), tuttavia a me sembra contengano un segreto (uno dei bandoli della matassa attuale? l’ago nel pagliaio di una qualche contemporaneità?) che almeno io – e forse questo “io” è un “io” collettivo – non sono riuscito a violare.
Sono, fondamentalmente, questi libri, “La ricerca del tempo perduto” di Proust, “La montagna incantata” di Mann, “L’uomo senza qualità” di Musil, “Gita al faro” e “Miss Dalloway” di Woolf, “Ulisse” di Joyce, “Sotto il vulcano” di Lowry.
Negli ultimi mesi ho ripreso (per l’ennesima volta) “L’uomo senza qualità”. Ho il serio sospetto (ma potrei essere stolto, potrei sbagliarmi) che questi libri avvicinino come scrivevo a un segreto, un’intuizione afferrata la quale sarebbe stato possibile salvare la civiltà europea (e il pensiero occidentale) non solo “prima” delle due guerre mondiali, ma “dopo” (per questo mi interessano ora), quando questa civiltà è tornata a noi – dopo Auschwitz e Hiroshima – in una sorta di forma “fantasmatica” (che è poi, questa forma fantasmatica, quella con cui a me sembra che abbiamo a che fare noi oggi). Aggiungo che in questi libri c’è sempre l’ombra di uno “spirito” che (pur essendo anche molto europeo) trascende il ceppo giudaico-cristiano, non è il romanticismo andato a male dei nazisti né la religione del materialismo comunista, ma qualcos’altro che fatico tantissimo ad attraversare, ma vedo (lo vedo!) come il riflesso dell’acqua su una parete bianca in un giorno d’estate.
Leggendo e rileggendo “L’uomo senza qualità”, per esempio, trovo un incredibile preveggente ragionamento-visione-racconto sul capitalismo attraverso il personaggio del miliardario Paul Arnheim.
Capisco che pochi (anche chi ha letto il libro) ricordino Paul Arnheim. Ma trovo stupefacente come, con decenni di anticipo rispetto alla fine del “gold standard” e poi del “gold exchange standard” (1971) che sancì il vero inizio (o la trasfigurazione decisiva) del capitalismo finanziario, Musil avesse, nel personaggio di Paul Arnheim, riassunto tutto questo in modo strabiliante. C’è una battuta che ho letto su Elon Musk, associata a “Watchmen” di Alan Moore. E cioè che Elon Musk si crederebbe il Dottor Manhattan ma sarebbe solo un Adrian Alexander Veidt (aka Ozymandias). Il problema è che Adrian Alexander Veidt è la versione semplificata del Paul Arnheim di Musil, l’uomo (Arnheim) che tentò di trasfondere la poesia nel capitalismo finanziario (ma anche il contrario) mentre le fondamenta di Cacania tremavano senza che nessuno (nessuno in veglia: ma in sonno e in sogno?) se ne rendesse conto.
Dunque, la prima riflessione mi rendo conto forse fallace forse no è su Arnheim visto dal terzo decennio del XXI secolo.
Seconda notazione. Questo è più un consiglio. Ho riletto l’altra notte con sempre maggiore stupore il capitolo 97 de “L’uomo senza qualità”, cioè il capitolo intitolato “Forze e incombenze segrete in Clarisse”. Ricordavo a stento il personaggio di Clarisse (mentre Agathe ce l’avevo sempre presente). Ebbene… mi è sembrato un capitolo in cui forza poetica, incubo, rivelazione, erotismo, esaltazione ma al tempo stesso sottostima di un personaggio letterario (Clarisse), erano talmente intrecciati, e in un modo così sapiente (il pagliaio dentro il quale c’è l’ago ce ci salverebbe, ma della quale serratura, la serratura della porta del pagliaio, non abbiamo la chiave), che io ho “sentito” leggendo, qualcosa che non era scritta da Musil (non con l’inchiostro, voglio dire) e che (fuori dall’intuizione folgorante del momento) mi è molto difficile riprodurre qua.
E quindi (sia per Clarisse sia per Arnheim) lascio che a farlo – a capirci davvero di più – sia qualcuno più bravo e in gamba di me, al quale magari (sarebbe bellissimo, ma potrebbe non essere) potrei aver dato l’idea che non sono in grado di completare.
Perdonate questi post con tre asterischi *** Prometto che saranno molto pochi.

Quattro romanzi: Nunez, Svensson, Grossman, Kloeble

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di Gianni Biondillo

Sigrid Nunez, L’amico fedele, Garzanti, 220 pagine, traduzione di Stefano Beretta

Lei insegna scrittura creativa all’Università. È americana, ceto medio, colta, ha un romanzo che deve scrivere e una sempre maggiore intolleranza per i suoi studenti che appaiono interessati solo al successo e non innamorati, come lo era lei da studentessa, dei dolori romantici che la letteratura produce. Da giovane aveva avuto come docente uno scrittore affascinante e coltissimo. Il suo mentore. Che ora si è suicidato, lasciandole in eredità un alano, anziano, enorme, dal nome altisonante: Apollo.

Chi è L’amico fedele del titolo del romanzo di Sigrid Nunez? È lo scrittore a cui si rivolge l’io narrante (aderente all’autrice in modo imbarazzante)? È il cane taciturno, distaccato, che la protagonista doveva tenere solo per qualche settimana prima di trovargli una sistemazione? A chi dà del tu per davvero la narratrice?

Romanzo che è anche metaromanzo, questo della Nunez. Libro che parla di libri, costellato di un’inifinità di citazioni, criptiche od esplicite, che spaziano sull’intero canone occidentale. Ogni pensiero della narratrice ha già avuto qualcuno che lo ha espresso meglio. Capisco come un libro così possa aver entusiasmato la critica americana: finalmente un romanzo dove, nei fatti, non succede niente. Dove l’indagine è tutta interiore e allo stesso tempo letteraria. Una specie di rivalsa della scrittura sulla trama.

A chi parla la narratrice? Di che parla? Di amicizia, il più nobile dei sentimenti umani. L’amicizia perduta con l’amico scrittore. L’amicizia nata con Apollo, ancora più sublime e commovente. E il romanzo in fondo non è altro che una lunghissima seduta psicanalitica (molto newyorkese e letteraria) della protagonista che non ha mai accettato la perdita dell’amico, preparandosi alla perdita inevitabile del cane ormai anziano. Una lunga lettera d’addio, a ben vedere. Il suo modo di superare il lutto attraverso la letteratura.

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Patrik Svensson, Nel segno dell’anguilla, Guanda, 281 pagine, traduzione di Monica Corbetta

Mai avrei immaginato nella vita di entusiasmarmi leggendo un libro che parla di anguille. Potenza della letteratura, capace di rendere ogni argomento un mistero da sondare. Ché Patrik Svensson mica ha scritto semplicemente un libro sulle anguille. Non è un saggio, questo, non è un romanzo, non è neppure un memoir. È un oggetto narrativo indefinibile.

Nel segno dell’anguilla è un libro che parla di passioni e di ossessioni. La passione per la pesca delle anguille del padre e del piccolo Patrik che lo segue nelle notti insonni creando col genitore un legame indicibile (non si dicono praticamente nulla, le poche cose che scambiano riguardano la pesca) e indissolubile. L’ossessione crescente per il misterioso animale che Patrik confessa di non mangiare neppure, trovandolo troppo grasso e saporito. E l’ossessione dell’intera cultura dell’Occidente, che ha dovuto scontrarsi con questo animale curioso, inventando attorno a lui, di secolo in secolo, mitologie e leggende. E poi, alternando capitoli di storia personale a capitoli su scienziati, filosofi, poeti che si sono interessati al mistero dell’anguilla, osserviamo la crescita del narratore, la sua maturità, analoga a quella della scienza che nei secoli – da Aristotele a Spallanzani, da Freud a Schmidt – ha cercato di avvicinarsi al mistero insondabile di questo animale che non sembra neppure un pesce, che nasce in un mare leggendario per attraversare gli oceani e vivere nei fondi limacciosi di rivoli d’acque dolci dell’Europa.

Infine, in parallelo alla fine imminente del padre malato, la fine di una specie animale che esiste da milioni di anni, per colpa dei cambiamenti climatici e dell’intervento umano. Il tempo è l’altro grande tema di questo libro. E l’eternità. Che forse le anguille conoscono e che Svensson cerca di capire osservandole, con passione e ossessione.

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David Grossman, La vita gioca con me, 289 pagine, Mondadori, 2019, traduzione di Alessandra Shomroni

Vera compie novant’anni. Quale migliore occasione per festeggiarla, attorniata da tutta la sua famiglia e dai suoi affettuosi conoscenti del kibbutz? L’esistenza di Vera è stata così intensa che è come se avesse vissuto due vite. Quella della sua giovinezza, in Iugoslavia, dove conobbe l’unico amore della sua vita, Miloš, col quale ha combattuto nella Resistenza. E l’altra vita, quella in Israele, quando si trasferì anni dopo con sua figlia Nina. In mezzo un buco, un vuoto di senso: l’accusa di alto tradimento, il suicidio del marito, la prigionia in un campo di rieducazione, l’abbandono coatto della figlia ancora bambina. Ma è proprio attorno a quel buco, a quel baratro che si gioca il buio profondo di tutti i personaggi presenti in La vita gioca con me.

David Grossman, ispirandosi a un personaggio davvero esistito e davvero ammirato, si pone dalla parte di chi non ha la forza di una irreprensibile dirittura morale quale quella di Vera. Come ci saremmo comportati noi, si chiede implicitamente, di fronte alla possibilità di sfuggire al gulag rinnegando il proprio amore? E quali le conseguenze di tale scelta radicale?

A chiederselo, nel romanzo, è Ghili, la nipote, figlia di Nina (donna tormentata dal rapporto irrisolto col monumento vivente che è sua madre) e di Rafi, il figlio del secondo marito di Vera, conosciuto giunta in Israele. Questi quattro personaggi alla fine progettano, ognuno per ragioni differenti, di intraprendere un viaggio nel baratro del tempo, sull’isola di Goli Otok, in quello che fu il campo di prigionia di Vera. Memoria ingannevole e allo stesso tempo scolpita come pietra, amore incondizionato e irruzione tragica della Storia, patto generazionale e dramma familiare: nelle mani di altri scrittori tale e tanto materiale sarebbe deragliato verso un melò lacrimevole e insostenibile. Ma, fortunatamente per noi, Grossman non è uno scrittore come altri.

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Christopher Kloeble, Quasi tutto velocissimo, Keller editore, 2019, 382 pagine, traduzione di Scilla Forti

Fred ha sessant’anni ma è come se ne avesse sei. Ad accudirlo come un padre è stato suo figlio Albert, diciannove anni appena compiuti, cresciuto senza madre in un orfanotrofio gestito da suore, nel cuore della Baviera. Il loro tempo è scaduto, a Fred, che ha passato la vita a contare le macchine verdi passare per strada o a leggere voluminosi vocabolari, mancano pochi mesi di vita. Albert, prima di perderlo, decide di scoprire le sue origini, di sapere chi era davvero sua madre. Ma Fred, l’unico custode della verità, non può essergli d’aiuto. È solo un peso, “un quarto di genitore”, un incapace.

Messa così sembra una storia triste. Ed in effetti i personaggi e le situazioni che Christopher Kloeble mette in campo, sono intimamente tragici: storie di povertà estrema, di manie, di incesti, di infanticidi, di guerre e di follia. Ma la forza di Quasi tutto velocissimo sta nella capacità di rendere credibile anche il più incredibile dei personaggi, di rendere appassionante anche la situazione più urticante. E ce ne sono tanti di personaggi, uno più eccentrico, sbalestrato, surreale dell’altro. Tutti assolutamente sopra le righe, come se, viene da credere, nelle prealpi bavaresi possano vivere solo freak, matti, inetti o klöble, come li chiama l’autore, evidentemente autoironico.

Eppure nessuno di questi viene trattato come un mostro da baraccone. In questa ricerca delle origini, con una storia parallela che parte un secolo prima e si ricongiunge solo alla fine alla trama principale, Kloeble sembra dirci che la norma, nella vita, è l’eccentricità, che le regole sociali sono puro artificio, che dentro ognuno di noi alligna l’assurdo, il torbido, il primitivo, il lutto. Ma anche la compassione, l’amore e persino estasianti momenti di pura felicità.

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(pubblicati precedentemente su Cooperazione nel 2020)