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La coda

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di Giulio Spagnol

Oggi a pranzo, mia madre, appurato che quel non-so-cosa di viscido attorcigliato intorno alla caviglia era davvero la coda di un rettile, è svenuta tirandosi dietro la tovaglia e tutta la cristalleria. Mio padre, intravedendo la coda arretrare tra le gambe di Johanna e pensando a uno scherzo, si è precipitato a sollevare le gambe di sua moglie e a ricoprirmi di ingiurie.

– Lo sai che tua madre ha la fobia dei serpenti: a trent’anni ancora con ’sti scherzi!?

Johanna è scattata in piedi: un istante prima mi carezzava furtiva la gamba sotto il tavolo, ora gli occhi le traboccavano di lacrime, lo sguardo era inchiodato a terra mentre torceva le pieghe della gonna come se volesse strangolarla.

– Non vuoi entrare in azienda? – ha ruggito ancora mio padre rovesciando tutto il secchiello per lo champagne sulla faccia smorta di sua moglie – E va bene, fai il diavolo che vuoi, ma sappi che da noi non avrai più un soldo.

Io volevo rispondere, ma non me ne ha lasciato il tempo: puntava il dito contro Johanna.

– Lo sai che è colpa sua, vero? È da quando l’hai sposata che ti comporti in maniera assurda.

– E tu – rivolgendosi direttamente a lei – come ti permetti di venire in casa mia a tormentare mia moglie, tua suocera, con i tuoi scherzi idioti?

Io sono rimasto lì impalato. Morivo dalla voglia di confessare tutto a mio padre: le visite specialistiche, l’espressione crucciata dei luminari nei loro studi tappezzati di diplomi mentre esaminano Johanna, tutti che scuotono il capo e tutti – dico “tutti” – che se ne escono con lo stesso «non ho mai visto nulla di simile in tutta la mia carriera», le parcelle che si accumulano, lo stipendio che non ci basta più, sprofondare nel buio di tutte le notti insonni… come avrei voluto inginocchiarmi ai piedi di mio padre e raccontargli di tutte le nostre notti insonni, inchiodati al letto dall’angoscia, in un labirinto lastricato di cartelle mediche e bugiardini di pillole, svegliarsi dagli incubi e abbracciare Johanna, «adesso basta, dobbiamo chiedere aiuto, mio padre ha un amico che fa il chirurgo a NYU, ci aiuteranno», e lei che mi stringe a sé, «i tuoi già non mi sopportavano prima, figurati se lo scoprono; e se questa cosa non si può curare? a quel punto vedrai che faranno di tutto per separarci», e io che passo quel che resta della notte a cercare altri luminari su internet, finché la mattina non crollo sfinito. E dopo la confessione avrei aggiunto «ma non vedi che non ce la facciamo più? che padre sei che non ti accorgi di nulla? io non posso dirtelo, Johanna non me lo perdonerebbe mai, ma tu devi arrivarci da solo».

Invece mio padre mi stava ancora urlando addosso.

– Cos’è questa storia che adesso servi ai tavoli? E non negare perché ti ho visto io in persona, passando davanti alla vetrina, con il grembiule e tutto il resto; mi sarei sotterrato dalla vergogna; se hai deciso di rinunciare all’accademia, allora vieni a lavorare con me. Ti vergogni di essere il figlio del padrone? che assurdità.

Invece di confessare, ho preso a urlargli di non usare mai più quel tono con Johanna, che non ho bisogno dei suoi soldi e che presto un amico mio avrebbe pagato l’anticipo di due quadri. Intanto erano mesi che non prendevo più un pennello in mano. Da quella notte in cui avevo portato Johanna al pronto soccorso con un febbrone da cavallo e il giorno dopo le era spuntata quella maledetta coda da varano: «Intossicazione alimentare», ci aveva detto il medicuccio del pronto soccorso, sprofondato in un camice di due taglie più grande di lui. «Ha mangiato pesce crudo, di recente?». A Johanna non l’avevo detto, ma da fine mese avevo iniziato a farmi invitare a cena dai miei. Alla fine della cena mi toglievo il cappello e chiedevo soldi in prestito. In cambio sostenevo i loro sguardi sarcastici, ma non mi pesava, perché sapevo che con quei soldi avremmo pagato almeno un mese d’affitto, e l’ennesima visita dall’ennesimo specialista.

A quel punto mia madre, come resuscitata dall’acqua gelata, si è diretta barcollando verso la presunta artefice dello scherzo. Johanna, più pallida di mia madre, non osava indietreggiare troppo (aveva paura di inciampare su sé stessa). Prima, però, che riuscissi a mettermi di traverso, mia madre ha afferrato la coda che spuntava da sotto la tovaglia:

– I soldi per lo studio te li puoi anche scordare – mi ha sibilato, e ha strattonato la coda con tutte le sue forze.

Johanna, che ha una soglia del dolore molto bassa, è caduta all’indietro, cacciando un urlo bestiale e lacerandoci i timpani. A quel punto mia madre, trovandosi in mano la punta di una vera, fredda, squamosa coda di varano, è svenuta di nuovo. L’acqua, questa volta, non è bastata a rianimarla, così è finita trasportata in ospedale: due giorni in osservazione.

Io e mio padre siamo rimasti in piedi a guardarci negli occhi, sospesi, come quando da bambino mi lanciava in aria e poi mi riprendeva al volo. Tutti e due abbiamo le pupille asimmetriche – è genetico – anche se la sue adesso sono un po’ intorbidite dal tempo. Ci scherza sempre: «con quegli occhi sghembi, non potevi che fare il pittore». In realtà, da quando sono entrato in accademia, quasi non mi parla più. L’ultima volta che siamo andati al museo solo io e lui è stato per una mostra sul realismo magico a Palazzo Reale. Volevo fare degli schizzi di Cagnaccio e gli ho chiesto di accompagnarmi. Ha insistito per pagarmi il biglietto e, con il cappotto sottobraccio, mi ha seguito. Io mi aggiravo incerto tra le stanze mentre, schiarendomi la voce, a ogni quadro cercavo di spiegargli quanto meglio potessi Cagnaccio, la Neue Sachlichkeit, Oppi. Non mi giravo mai a guardarlo, ma sentivo il suo respiro asmatico sulle mie spalle e il suo odore pungente, tipico di un esemplare adulto. Sapevo che non ci capiva niente e, soprattutto, che non voleva capirci niente, però sapevo anche che mi ascoltava con estrema attenzione. Soppesavo attentamente ogni parola, sapendo che mi sarebbe potuta tornare indietro riveduta e corretta; cercavo di semplificare le mie spiegazioni, a tratti mi limitavo a snocciolare piccoli avvenimenti della biografia del pittore – date, numeri, fatti concreti – per cercare di intercettare il mondo in cui viveva mio padre, una sorta di mondo gnostico, creato da un demiurgo pigro e incapace, gettato agli uomini con il solo scopo di implementarlo.

Ho sistemato il mio sgabellino davanti a Dopo l’orgia di Cagnaccio e ho cominciato a tracciare qualche schizzo. Con gli occhi fissi sul quadro, facevo correre le mani sul foglio, affidavo a loro la comprensione di quel mondo nuovo che mi si apriva davanti: un mondo in cui le gambe nude delle donne, i loro sessi ancora fradici si facevano calzare dai simboli del potere – la bottiglia di Champagne, i guanti bianchi degli alti quadri fascisti – senza forzature, come una mera conseguenza fisiologica, immanente a ogni rapporto fra uomini, come la schiuma deve per forza di cose formarsi sulle onde nere; un mondo che mio padre non avrebbe esitato a definire osceno, davanti al quale io invece rimanevo stregato. Concentrarmi però mi riusciva difficile: mio padre, in attesa, si era a messo a girare tra i quadri e l’eco dei suoi passi pesanti rimbombava cupa per tutta la stanza. A volte si fermava dietro di me in silenzio. Sentivo il suo sguardo posarsi prima sui miei schizzi, poi sul quadro, e la sua bocca tremare e contrarsi in una smorfia impercettibile. Poi riprendeva il suo giro. Dopo non so quanto tempo, ho rialzato la testa, e con lo sguardo l’ho cercato nella stanza: lui se ne era andato. Da quella volta non siamo più usciti insieme. Non gliene faccio una colpa. Forse è il suo modo per farmi capire che mi stima, o non mi chiederebbe di entrare in azienda nelle rare occasioni in cui ancora mi rivolge la parola. Certo, mi è dispiaciuto vedere i disegni che gli regalavo da bambino sparire dal frigo uno dopo l’altro.

Adesso siamo ancora in piedi l’uno di fronte all’altro. Mio padre ha smesso di urlare, in mano ha ancora la flûte di champagne, si festeggiava la nuova acquisizione di una controllata o qualcosa del genere: passa il pollice sull’alone di sporco lasciato dalla sua bocca sul cristallo, altrimenti perfettamente limpido: prova a pulire via la macchia. Più ci prova più l’alone si espande offuscando sempre di più la superficie del cristallo, rendendo lo champagne luccicante al suo interno come una poltiglia irriconoscibile. Johanna intanto piange rannicchiata sul pavimento finché, esausta, non si addormenterà.

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

La traduzione del testo poetico tra XX e XXI secolo

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a cura di Franco Buffoni

[Molto volentieri segnalo l’uscita di questo volume per le edizioni Interlinea. Dice la quarta di copertina: “I maggiori autori e studiosi della traduzione letteraria sono raccolti in un libro di riferimento a cura di Franco Buffoni, tra i massimi esperti del settore a livello europeo. Da Bonnefoy e Sanesi a Bacigalupo, Magrelli e Gardini, sono messi in luce i diversi aspetti del tradurre, nell’idea che occorra comprendere e monitorare «il concetto di costante mutamento e trasformazione che è delle lingue e della traduzione, come metafora del nostro esistere».”
Riporto qui due stralci dell’introduzione di Franco Buffoni. a.r.]

Su “Noi” di Alessandro Broggi

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di Andrea Inglese

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[Questo testo è apparso sul numero 65 (2/2021) della rivista “Semicerchio”]

Il primo pregio del nuovo libro di Alessandro Broggi, Noi, uscito per Tic edizioni nel 2021, è di non assomigliare a nessun libro in circolazione. È probabile attendersi qualcosa del genere da un autore che è stato a ragione etichettato “poeta di ricerca”, ossia qualcuno che si situa consapevolmente alla frontiera dei generi, là dove si tradiscono spesso le attese dei lettori e si richiedono attitudini di comprensione del testo meno consolidate. Sette anni dopo Avventure minime, il precedente e più rappresentativo libro di Broggi, Noi presenta i tratti esteriori della narrativa di viaggio. Questa iniziale riconoscibilità del testo si rivela però fallace. Uno dei capisaldi della letteratura di viaggio, infatti, è il patto referenziale che sottende il rapporto tra lo sguardo dell’autore e uno spazio geograficamente e storicamente determinato. Vedremo come questo patto, nel lungo racconto di Broggi, sia infranto fin da subito. Siamo comunque lontani dalle prose brevi e dalle quartine che hanno caratterizzato il lavoro del 2014. In Avventure minime dominava un impianto critico, che sembrava aver tratto i propri strumenti da una lettura fresca e simpatetica della Società dello spettacolo di Debord. La carica negativa e decostruttiva di quei testi era però compensata da una strategia fondata sull’ambiguità o, come ha scritto Vincenzo Ostuni (“Oggettivo indecidibile”, in Ex.it 2014), su un certo grado di “indistinzione e indecidibilità”. Lo stereotipo narrativo o espressivo, che Broggi distillava con accurata freddezza, poteva sempre lasciarsi leggere in termini referenziali e lirici. E le stesse quartine, oltre a costituire un inventario delle formule più elementari della comunicazione quotidiana già intrise di ideologia, potevano fungere da poesia didascalica. In Noi, l’urgenza di esibire-decostruire lo stereotipo lascia lo spazio a un’architettura narrativa alla ricerca di un proprio orizzonte di senso. Questa architettura, pur non rispettando i principali criteri di verosimiglianza di una narrazione realista, permette quantomeno d’identificare un tema generale, che potremmo definire – utilizzando le parole stesse dell’autore – “un viaggio ai bordi della civiltà”. In altri termini, abbiamo abbandonato il terreno dei triti fatti e modi di dire per inoltrarci in un mondo vergine, ai margini appunto della società umana. Che cosa voglia dire, per Broggi, un tale viaggio e tale configurazione di uno spazio “inesplorato”, “integro”, “incontaminato”, è quanto ci interessa qui indagare. Punto certo, è che – anche se d’intreccio e fabula non si può parlare –, dei personaggi esistono – quattro, due uomini e due donne – e pure uno scenario costantemente cangiante ma riconoscibile. Si potrebbe pensare che, proprio in virtù del titolo, a non permettere uno sviluppo narrativo sia l’impossibilità di distinguere i quattro personaggi, che vivono quasi tutto il tempo in uno stato “fusionale”. Non solo abbiamo degli individui sottratti alle particolarità sociali e biografiche, ma nel corso delle pagine neppure acquistano delle nuove caratteristiche, in virtù degli eventi nei quali sono progressivamente coinvolti. L’unico evento in grado di incidere almeno parzialmente su questo stato d’indeterminazione permanente dei protagonisti è la morte violenta di uno di loro a opera di un orso. Qui abbiamo almeno un evento irreversibile, che sembra per un certo lasso di tempo condizionare se non le azioni almeno gli stati d’animo dei tre sopravvissuti. In realtà, nel penultimo capitoletto, verrà rievocata la presenza del compagno ucciso in questi termini: “l’uomo chiamato Norberto Orci, nel cui nome come si era aperta si chiuderà questa breve rassegna di fatti, sarà seduto di fianco a noi”. Anche l’uccisione e la morte diventano processi reversibili. Non vi è quindi da raccontare né una vicenda specifica né la trasformazione che essa avrebbe suscitato nella coscienza di un personaggio. Siamo di fronte a un impianto che assomiglia più a un paesaggio allegorico, in cui i movimenti locali non contraddicono la staticità dell’insieme. Tale paesaggio si propone di raffigurare la possibilità dell’io di sciogliersi nel noi, e dell’umanità di sciogliersi nell’ambiente che la circonda, laddove tutto il lavoro della civiltà – “moderna” aggiungerebbe Bruno Latour – è quello di edificare il confine e l’opposizione tra l’individuo e la specie, e tra la specie e il suo ambiente. In Noi, sono innumerevoli le immagini di “fusione”, “osmosi”, “abbattimento dei limiti” tra la mente e il mondo. Un piccolo campionario: “Non dobbiamo resistere a nulla, non dobbiamo erigere barriere contro nulla”; “Disidentificarci da questo luogo e da questo tempo ed essere qualcun altro”; “Magari le volte che avremo visitato tutti i possibili habitat integrandoci tra le specie, e in risonanza con essi avremo tentato di dissolvere la grande illusione separatrice in cui viviamo”. A volte l’insistenza su tali immagini sembra quasi approdare a un discorso apertamente didascalico, come quando uno dei personaggi sentenzia: “Sono senza una storia da custodire, non sono più la linea del mio movimento – niente persona, niente morte, non ho più una biografia. Finalmente senza identità”. Ancora una volta, però, la qualità della scrittura di Broggi, ossia la sua persistente capacità di rendere instabili le coordinate spaziali e temporali – gli slittamenti di modo e tempo dei verbi, di persona grammaticale, ecc. – mette in crisi non tanto il tema ricorrente della fusione, ma la sua possibilità di costituirsi come principio volontaristico, nuova dottrina, elemento ideologico, da integrare tra gli armamentari “buoni” della nostra civiltà. Il viaggio allegorico di questo soggetto umano plurale, che ambisce a fondersi dentro gli ecosistemi terrestri, non può funzionare che come ipotesi figurativa. Non sarà mai garantito da un concetto, e quindi da un discorso di questo mondo storico-sociale. Se Noi è un’allegoria, lo è come anticipazione utopica, che può acquistare senso unicamente nello spazio separato, irreale, della pagina letteraria. Al resoconto delle azioni vere o verosimili dei personaggi subentra allora una successione d’ingiunzioni o di formulazioni ipotetiche, che non hanno ancora trovato tipi umani e contesti reali di radicamento. Il materiale figurativo di una tale operazione, come già nel classico Fortini (e prima di lui in Brecht), è costituito in gran parte da magnifiche descrizioni di paesaggi naturali, di universi non umani, che soli paiono promettere qualcosa d’altro rispetto a questa umanità. Possiamo allora salutare il nuovo libro di Broggi come un felice e sorprendente contributo alla letteratura utopica, in un’epoca che è fin troppo propensa a ingozzarsi di distopia.

La verità su tutto

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di Vanni Santoni

 

Quando Dattadeva fece venire gli sbirri nella sede centrale, lì al Mulino, all’inizio credetti che stesse portando all’estremo le logiche da brigatisti del Carme e di Girolamo – scatenare una repressione per attivare una mobilitazione generale, pensa tu cosa mi toccava sentire nei rapporti che ci facevano i nostri.
Poi, quando un ulteriore rapporto da Shaktiville riferiva che Dattadeva non si faceva più vedere, che dava ordini da dietro una porta chiusa che poteva essere varcata solo dai suoi fedelissimi, mi venne il dubbio che Kumari non mi avesse dato retta. Me lo immaginai tutto ingessato, nascosto in quella stanza guardata a vista, a portare avanti la sua vendetta.
Kumari negò di aver fatto alcunché, anzi diede la colpa alla mia opposizione, dicendo che se gli avessimo dato davvero una lezione, tutto questo non sarebbe accaduto. Non seppi mai se Kumari l’aveva fatto pestare o meno; se il comportamento di Dattadeva fosse la reazione a un atto di Kumari o il frutto della mia opposizione a quell’atto.
Fatto sta che nella sua azione, o vendetta, Dattadeva trovò sponde anche in quel che restava della stampa, e non solo italiana. Quando polizia e carabinieri invasero il Mulino riuscimmo a far sparire tutto, ma una settantina di acidi e un pezzo di fumo di qualche ospite bastò a sollevare un bel casino, e quando il giorno dopo arrivò puntuale una lettera anonima di un “ex sannyasin” – che poi: non cerano ex sannyasin! Nessuno aveva lasciato l’ashram sbattendo la porta, la gente entrava e usciva e non c’erano investiture particolari! che spiegava come alla Fondazione Shakti si usassero sostanze illegali per “dare l’illusione dell’illuminazione” ci sentimmo veramente fottute.
Intendiamoci: sapevamo che lavorare con sostanze ancora illegali era rischioso, per quanto altrove il vento fosse cambiato e in tanti Paesi fossero rientrate in società dalla porta principale – anche un po’ grazie a noi, potremmo dire, se è vero che in quegli anni il nostro centro aveva iniziato almeno diecimila persone, che a loro volta ne avevano iniziate dieci volte tante –, e sentivo un retrogusto ribaldo, forse addirittura perverso, nell’assumerci un rischio del genere (avremmo potuto trasferire la sede in Portogallo o in Olanda o in Repubblica Ceca o in Colorado o in un altro Paese dove vigessero la piena depenalizzazione o almeno un minor moralismo rispetto alle libertà cognitive), un rischio che era anzitutto possibilità del tradimento.

Dopo gli sbirri arrivarono le tv, con tutta la loro beceraggine, e ci stettero addosso fino al processo. Furono mesi dolorosi, passati a rinfacciarci le responsabilità, in cui l’unica soddisfazione che ebbi fu quella di cacciare Girolamo dal Mulino a calci nel culo, letteralmente e personalmente (il Carme, più sveglio, era già sparito da solo). Molti se ne andavano da soli, come se la nostra stella si fosse improvvisamente offuscata. Fuori, non ne parliamo: parevano tutti contro di noi. Va da sé che ci preparavamo al peggio.
Arrivò invece la sentenza meno attesa: assolte in virtù della libertà di culto. E ancora non ho detto la cosa più importante. Pensa, infatti, che neanche avevo voluto prendere uno studio legale di New York a cui era stata legata la madre di Kumari, io volevo l’avvocato d’ufficio, ma sai invece chi si offrì quando la notizia arrivò sui giornali? Proprio “la tizia del mare”, l’avvocato Pia Nandretti… Che smacco, eh? O meglio, che trionfo per lei. Trionfo doppio, dato che ebbe l’acume di impugnare sentenze precedenti riguardanti la Chiesa del Santo Daime, che usava l’ayahuasca, ovvero il DMT, sostanza non meno attiva e non meno illegale, ancorché meno nota, dell’LSD, e ci fece assolvere.
Già quello era un segno, se vogliamo. Figuriamoci quando, il giorno dopo la sentenza, scoprimmo nel conto dell’associazione una donazione da quattrocento bitcoin, dodici milioni di euro, da parte di un fantomatico “Pomegranate fund”. Pomegranate fund che, scoprimmo in un sol colpo di Google, era costituito da certi anonimi “attivisti psichedelici” i quali, capimmo cercando un po’ più a fondo, altro non erano che seller della prima ora su Silk Road, venditori di acidi sul dark web divenuti ricchi sfondati grazie alle criptovalute. Potevano essere le stesse persone da cui compravamo noi stesse le sostanze per le varie sedi. Gente che aveva incassato qualche decina di migliaia di bitcoin ai tempi in cui valevano pochi euro, se li erano visti levitare sotto al naso di diecimila volte, e adesso, secondo quella propensione al proselitismo così diffusa tra chi aveva tratto benefici interiori dagli psichedelici, distribuivano donazioni spropositate alle varie organizzazioni che si battevano, ormai vincendo, per la loro rilegittimazione, legalizzazione e diffusione. Noi comprese, a quanto pareva.
Quell’evento fu la cesura tra il “prima” e il “dopo”, certo; ma se adesso avevamo i fondi per aprire non un altro paio di centri, ma decine, centinaia, il fatto che, allo sfaldarsi delle strutture sociali là fuori continuassero ad arrivare accoliti da ogni dove a riempirli, a farsene carico disinteressatamente, a diffondere il nostro verbo, quello non poteva dipendere né dalla fortuna che ci aveva baciate (ma anche quella fortuna, non era forse il frutto di precisi processi storici?), né dalle nostre capacità o dai nostri insegnamenti: ormai ci giovava – e quanto! – anche la pubblicità negativa. Evidentemente i tempi erano maturi perché una nuova sintesi spirituale si affermasse, e a incarnarla c’eravamo noi come avrebbe potuto finirci qualcun altro. Pure, c’eravamo noi. E di certo si vedeva, considerando quanto si moltiplicavano, ovunque, i nostri ritratti, non importa quanto cercassi di impedire la cosa (era vero che Kumari non la impediva, anzi): da sole o insieme, più spesso con Kumari in grande e io come iconcina a lato, ma a volte anche a parti invertite…

Così crescevamo ancora, ineluttabili. Sebbene ci arrivassero notizie sul fatto che in India un Dattadeva bandito da Shaktiville e pieno di rancore continuasse a lavorare contro di noi, animando gruppuscoli, spargendo voci, vedendosi con politici dei peggiori, l’organizzazione, con quell’iniezione di liquidità che neanche avevamo dovuto usare per il processo, cresceva ancora e ancora si strutturava, ma un paio d’anni più tardi si era già su un altro piano, e non solo perché stavamo per toccare il milione di fedeli. Un piano ulteriore, oppure molto precedente, per il contemporaneo e inverso degenerare del mondo fuori.
La folla che si era formata nel cortile centrale faceva impressione: per numero, per come ribolliva, per come alzava la polvere, ma ancor più per essere nuova: chi era tutta quella gente, perché era lì?
Quando uscii ci fu un “Oooh!” generale e si avvicinarono. Quando uscì Kumari partì un “Oooh!” anche più forte e qualcuno si buttò in ginocchio.
– Non mi piace, ti dico che non mi piace, – dissi volta verso di lei.
– Ma se sono qua tutti i giorni.
– Prima non avevano cartelloni con le nostre facce. E non erano così tanti.
– Nell’ingenuità risiede la purezza.
– Non raccontare ’ste cose a me, Kumari, ti prego… ti dico che oggi sono diversi, è come se fosse stata passata una linea…
Dalla folla si staccò un gruppo più piccolo, come uscito da un’oscura fantasia medievale: le donne scarmigliate si lamentavano, gli uomini si battevano la fronte, e al centro, in mezzo a quella angosciosa simmetria di supplicanti, c’era una donna che teneva in braccio una bambina che si sarebbe potuta dire viva solo per i piccoli spasmi che a tratti ne scuotevano il corpo pallido, con le labbra blu come quelle di un’annegata e delle occhiaie che erano le orbite di un teschio.
– La tocchi! La tocchi!
– Gridavano questo. Dicevano a me. Pietà, Shakti Devi, la tocchi!
– La tocchi, la tocchi!
– …
– Toccala, su, mi disse Kumari mettendomi la mano sulla spalla mentre quella gente invitava anche lei a toccarla. Non avere paura.

– Non ho paura, le dissi nell’orecchio. A differenza di te, non sento la seduzione di simili scene.
– Che vuoi farci. Il mondo sta andando come sta andando. Toccala, su. Dai loro quel che vogliono, Shakti Devi. Se morirà, vorrà dire che doveva andare così.
– Non ho paura che muoia, Kumari, ho paura che guarisca.

Tratto da: La verità su tutto, Milano: Mondadori, 2022

Calvino e il saggismo della mediazione

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Su Sergio Bozzola e Chiara De Caprio, Forme e figure della saggistica di Calvino. Da ‘Una pietra sopra’ alle ‘Lezioni americane’, Salerno, Roma 2021

© Saul Steinberg

 

di Carlo Tirinanzi De Medici

Quanti Italo Calvino ci sono? Dallo «scoiattolo della penna» di Pavese al pensoso utopista «discontinuo» di Claudio Milanini, il Calvino combinatorio quasi-oulipista del Castello dei destini incrociati, fino allo scrittore scientificamente avvisato di Paolo Zublena e Massimo Bucciantini, le immagini critiche dell’autore ligure si sono moltiplicate. Forse nessuno scrittore italiano continua a polarizzare così tanto gli animi degli studiosi: da Fortini, che inaugurando una lunga tradizione lo accusava in un celebre epigramma di opportunismo e gusto per il mercato, al Calvino-uomo di paglia che Carla Benedetti contrappone a Pasolini in un famoso, intelligente saggio, Pasolini contro Calvino (tanto più illuminante per capire Pasolini quanto meno disposto a discutere i rovelli di Calvino), fino alla (vulgatissima e pertrattata) bipartizione tra un “primo” e “secondo” Calvino, l’uno che ancora indirizza la sua fantasia verso l’impegno o almeno il Reale, l’altro che, invece, la libera verso una vertigine combinatoria: di qui, sia detto per inciso, la lettura di un Calvino postmoderno lesto a un ilare nichilismo, laddove né il postmoderno è così tanto ilare, né Calvino condivide con esso più di un’«analogia di posizione» (lo rileva Mazzoni in Teoria del romanzo). Più che Calvino, Pirandello, insomma, o magari Qfwfq, il proteiforme protagonista delle Cosmicomiche e di parte di Ti con Zero.

Su un altro piano, c’è un Calvino narratore, studiatissimo, un Calvino giornalista (il Calvino delle polemiche sui grandi fatti di cronaca degli anni Settanta), meno studiato (Ferretti, Le capre di Bikini), e un Calvino saggista (affrontato tra gli altri con lucidità da Barenghi in Le linee e i margini) spesso convocato in primo luogo per indagare la poetica del Calvino narratore (con risultati anche brillanti come fa Raffaele Donnarumma in Da lontano, 2008). Quasi un Calvino “di servizio”, quest’ultimo. Perciò il volume di Sergio Bozzola e Chiara De Caprio dedicato alla produzione saggistica di Italo Calvino è tanto più benvenuto. De Caprio firma i primi tre capitoli (“Posture autoriali e modelli macrotestuali”, “Organizzazione tematica e linea argomentativa”, “Il saggista e il lettore”), Bozzola gli ultimi due (“L’espressione del soggetto e il filo del discorso”, “Le geometrie dell’informe”).

Forme e figure indicano l’approccio alle strutture complessive (le forme) e ai singoli elementi (le figure) dei testi calviniani. In questa tensione tra generale e particolare si avverte la generale natura del volume, tutto basato su coppie oppositive che si distendono, per ragioni di studio, in nuclei separati all’interno dei singoli capitoli, senza però evitare di mostrare i riflessi di un polo nell’altro, rendendo conto dell’intreccio degli elementi che compongono il saggismo di Calvino. Al fondo, il volume ripercorre – molto calvinianamente, direi – riprendendolo sotto numerosi punti di vista, il rovello dicotomico, che attraversa anche la prosa calviniana, tra ordine e disordine che gli autori declinano in diversi campi metaforici e categorie. Ad esempio De Caprio identifica in diffusione e compattezza i due poli della scrittura saggistica calviniana: il tentativo di inseguire, mostrandoli, i molti aspetti del reale e delle possibili interpretazioni; la concomitante spinta a «inseguire il concetto per delimitarlo» (p. 10) e dunque comunicarlo. Di qui la natura bipartita dei capitoli, che aggrediscono il corpus sempre affrontando ora l’uno, ora l’altro corno del dilemma, e ricostruiscono un percorso che è anzitutto storico nell’oscillazione tipica di Calvino tra uno e l’altro aspetto.

In una linea temporale, si passa da una maggior compattezza (evidente nei saggi anteriori di Una pietra sopra: il Midollo del leone mostra «una regia stilistica che fa convergere il mondo e le cose verso un punto che resta chiaro e centrale», 39). Avanzando dominano invece le figure della «diffusione» (intesa in senso fisico, come sparpagliamento di particelle: in tal senso, direi io, quasi più chimico che fisico, le molecole che appunto diffondono in un mezzo e si distribuiscono ovunque), e con ciò diminuiscono anche gli elementi ipotattici in favore di giustapposizione e paratassi. Nell’avanzare verso i saggi della Collezione di sabbia si rileva che la maggior perplessità dell’autore si riflette anche in una posposizione del momento in cui il tema del saggio viene enunciato. In assenza di certezze, di sicurezze interpretative che delimitino una volta per sempre il senso, il compito che si assume Calvino è quello, complementare, di far domande: di qui la moltiplicazione delle descrizioni e l’aumento del tasso di narratività. La Collezione predilige dunque l’aspetto destrutturante rispetto a quello strutturante di Una pietra sopra. Questa destrutturazione, però, non finisce mai per travolgere tutto: anzi, l’alternarsi di spinte centrifughe e centripete, di narrazioni e ragionamenti, costituisce il cuore delle Lezioni americane (44 ss.), e l’organizzazione stessa (macrotestuale) della Collezione prova, almeno, a redimere la cattiva infinità dei granelli di sabbia, considerandoli parti di diverse modalità di conoscenza e insistendo però sui rimandi, i richiami da una parte all’altra, che gettino ponti tra queste forme e cerchino di produrre un «caos ordinato» (54-5).

Nel secondo capitolo si descrivono le forme di compattezza e diffusione nelle raccolte seguendo lo sviluppo tematico dei saggi, e le modalità di argomentazione (59-85), per poi concentrarsi sulle impurità che costellano la saggistica calviniana: De Caprio identifica un vero e proprio «cortocircuito tra descrivere e raccontare» (93) nella Collezione, con momenti narrativi che dinamizzano la descrizione (e in ciò non si può non pensare alla struttura di Palomar, che infatti riprende nella sua tripartizione momenti descrittivi, narrativi e meditativi cioè saggistici). I tre elementi si confondono per rendere conto di un senso intessuto di variazioni, mai fisso — come si legge poco prima, crea il sospetto che ciò che si vuole dire (capire) stia solo negli interstizi tra ciò che è stato detto (e rifiutato, e revocato in dubbio): «il testo non sembra giungere a una vera e propria chiusa; piuttosto si congeda dal lettore con una serie di riflessioni che paiono estratte da un flusso più ampio di pensieri» (84).

Dall’altra parte si vede che la stessa dinamizzazione del testo avviene tramite il ricorso a figure d’interlocuzione e dialoghi che permette di tenere «insieme conflitto di idee e di voci, riflessione e partecipazione» (98). Questa ultima sezione ci proietta verso il capitolo dedicato al legame narratore-lettore. Qui si evidenzia come il passaggio dal «noi» all’«io» come istanza di enunciazione sia conforme a una maggiore incertezza — incertezza che non si risolve mai in semplice decostruzione del senso, puro ritrarsi di fronte all’inconcludenza di un reale nel quale ci si smarrisce (la resa al labirinto, per citare il nostro). De Caprio ci mostra come la domanda posta in apertura possa ripetersi, in un gioco di scatole cinesi che forse non sarebbe dispiaciuto all’autore: le posture autoriali, i Calvino saggisti, sono molteplici, ognuno dotato di una sua maschera autoriale ben precisa, che comunque resta al di qua del confine testuale, non si identifica né si confonde mai pienamente con l’autore reale. Coerentemente con la posizione di Calvino, per il quale il saggio si situa come ponte o mediatore tra la necessità di rendere intelligibile – di comprendere, di spiegare – la complessità dell’esistente e appunto render conto, mostrare, e pertanto esperire, questa stessa complessità. Una forma insomma di «linguaggio comunicabile» (p. 9), il che ci pone leggermente fuori dall’ipersoggettivismo del saggismo novecentesco: si evitano certezze, si mostra la fatica del cogitare, ma appunto lo scopo è comunicare, chiarire.

Proprio la posizione defilata dell’io saggistico punteggia il quarto capitolo, che si concentra sulla funzione delle ripetizioni: Bozzola individua ed enuclea le figure di ripetizione attraverso le quali vengono messi in luce i due elementi fondativi del saggismo contemporaneo, cioè espressione dell’individualità soggettiva che prende la parola e tentativo di tenere «in chiaro la linea del discorso» (129). Questi due poli emergono attraverso il medesimo gesto (la ripetizione), ma prendono corpo in modi diversi. Bozzola osserva che il primo elemento resta spesso sottotraccia ed emerge per lampi, il che evidenzia – di nuovo – il distacco del Calvino saggista da molti altri saggi “moderni”: l’io sembra quasi in posizione subordinata al ragionamento, sebbene come ovvio proprio questa sua marginalizzazione finisca per farlo essudare in numerosi punti, spesso distanti l’uno dall’altro, del testo e così formando una sorta di rete isotopica. La strutturazione retorica delle ripetizioni riproduce questo contrasto.

Così vediamo che emergono figure legate all’eloquenza (ispirata a un ideale quasi classico della retorica), dell’eleganza (che invece si basa su sottili variazioni dell’intonazione, che contribuiscono alla scansione ritmica e di senso del testo), e infine su puri giochi fonetici e sintattici, che servono sì come gesti capaci di rendere conto della soggettività dello scrivente, ma al contempo si mostrano sempre legati alla necessità di far procedere il ragionamento, allargandone a ventaglio le possibilità. A tenere sotto controllo l’espansione sintattica ed argomentativa intervengono le «figure del contenimento» (143 ss.) spesso con funzione «strutturante e architettonica» (146), tramite periodi riassuntivi e ordinativi di quanto si è gettato, prima, in maniera diffusa e un po’ caotica. Da questo punto di vista assume centralità il ricorso ai parallelismi e alle replicazioni di parole e strutture sintattiche, esaminato nell’ultimo paragrafo del capitolo.

Infine si affrontano analogie, metafore e similitudini: attraverso queste figure, Calvino dà corpo a quella dicotomia che giace sempre in fondo ai suoi scritti, di cui si parlava in apertura — la tensione tra ordine e disordine, tra forma e informe, che non si risolve ma mostra una posizione «problematica e plurale» (173), che testimonia l’uso (tipicamente calviniano) di scrivere e riscrivere fino al risultato che, finale nella pratica, è in realtà solo un’altra approssimazione (174-6).

Questo, sommariamente, il contenuto del libro, che come si è potuto forse intuire apporta un contributo significativo e ricco agli studi su Calvino, anche grazie all’acribia analitica che puntella il testo con numerosi esempi, i quali non possono certo essere riportati nello spazio di questo breve scritto. Inoltre gli autori, con il loro riferirsi anche alle prose narrative calviniane, dànno conto della contiguità tra i due media (benjaminianamente intesi) adoperati dal ligure, saggio e racconto. Il piano tematico di fondo, il ragionamento se non dicotomico almeno per coppie oppositive (generali e forse quasi trascendentali nei primi scritti, poi via via locali e sempre più empiriche) mostra il ritornare dell’opposizione ordine/disordine, logico/illogico ecc. che caratterizza il pensare calviniano, e ne osserva l’evoluzione, pendente sempre più verso l’accettazione che il secondo polo (nell’assiologia di Calvino sempre negativo) non possa essere eradicato. Sembrerebbe che si sia tornati a quella visione di un Calvino scettico e disilluso evocata in apertura. Ma il lavoro di Bozzola e De Caprio è importante anche per ciò che ci dice su questo apparentemente definitivo scacco e, di riflesso, relativamente all’arte del saggio in generale. Partirei da questo secondo aspetto.

Negli ultimi anni le indagini sulla forma-saggio (spesso esse stesse in forma di saggio) in generale si sono moltiplicate: da Kundera (I testamenti traditi, 1992) Berardinelli (La forma del saggio, 2002) a Cortellessa (Libri segreti, 2008), a Massimo Rizzante (Non siamo gli ultimi, 2009; L’albero del romanzo, 2007 e 2018) che ha dedicato all’argomento un ciclo del Seminario internazionale sul romanzo. Allo stesso tempo si è indagata la forma che il saggio assume quando si ibrida con strutture propriamente romanzesche (Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio, 2014; Guido M. Gallerani, Pseudo-saggi, 2019). L’idea di saggio che accomuna queste posizioni è quella post-lukácsana, ripresa da Adorno, sviluppata da Fortini e derivata alla lontana dagli Essais di Montaigne, di una scrittura con forte componente personale e idiosincratica, che procede per salti e tagli: ma Bozzola e De Caprio ci svelano un’altra possibilità del saggio contemporaneo, che potrebbe tornare utile anche per leggere (ri-leggere) uno sparuto ma sempre interessante manipolo di autori, a partire da Sciascia e Primo Levi, passando per i saggi narrativi di Auster e, più indietro, per certe prose di Borges o Camus.

Un abbozzo soltanto di costellazione, che ricorre al saggismo per ampliare e sfumare un processo essenzialmente logico, senza però cancellarlo. Il ragionamento si complica, si arricchisce, talvolta s’incarta e tutto ciò appare sulla pagina: ma tutto ciò per rilanciare quel ragionamento. Siamo dalle parti, ancora, di quella lettura ricœuriana della «scuola del sospetto» che non si caratterizzava in primo luogo (secondo il filosofo francese) per il suo scetticismo, quanto semmai per il tentativo di illuminare in modo nuovo un problema, distruggendo sì le vecchie certezze e non riconoscendo alle nuove altrettanta solidità e tuttavia offrendo «una scienza mediata del senso, irriducibile alla coscienza immediata del senso» (Ricœur, Del senso, p. 48). Marx, Nietzsche e Freud ponevano l’accento sull’atto del decifrare, ma allo stesso modo questo saggismo è tutto un tentativo di decifrazione, che non sempre giunge (oggi) al cuore del problema, ma ne ricostruisce la complessità. La mediazione si allunga, s’ispessisce, il procedimento occupa sempre più spazio, così da render conto del processo decifratorio: atteggiamento noioso, inconcludente, rinunciatario? In tempi di predominio dell’emozione, della hot cognition, che sembra proporre un ritorno di quell’immediatezza del senso, forse tale lezione andrebbe riscoperta: un pensiero consapevole dei propri limiti (calvinianamente, la difficoltà di trovare un modello dei modelli), ma comunque inteso a sceverare il reale, mostrando anche il costo (psichico) di questa operazione. Il rovello insomma non s’iscrive sulla pagina solo per celebrare, o accettare, lo scacco gnoseologico: ma è esso stesso resistenza a quello scacco, e il saggio diventa un modo per illustrare la complessità – epperò anche la necessità – dell’atto mediatore in un mondo molteplice, irrigidito in opposizioni e antitesi. Ora dunque, oltre ad avere un Italo Cavino in più, forse abbiamo anche una idea di saggio che prima era rimasta un po’ in ombra. E di entrambe avevamo bisogno.

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[Segnalo che il volume si presenta a Pisa domani, 16 marzo; qui sotto la locandina. ot]

 

L’aspirapolvere (frammento)

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[Nell’ultimo pezzo scritto per Nazione Indiana (11.6.2005), che era anche un pezzo di commiato, e come tale presentava riflessioni e argomenti, a seguito dell’uscita dei fondatori Moresco, Scarpa e Benedetti, ebbene in questo suo ultimo pezzo, serio, quasi meditabondo, Sergio Nelli inseriva questo breve paragrafo finale, che riproduco per intero. Mi unisco a Giacomo Sartori per ricordarlo qui, per ricordare in particolare il modo spiazzante attraverso cui si presentava, di persona e nella scrittura, esibendo simultaneamente tenerezza e promesse di tavoli rovesciati. Andrea Inglese]

di Sergio Nelli

Sto già operando in questa direzione e dedicherò nell’immediato il tempo sottratto a questa felice (fin qui) partecipazione a uno stage per apprendere a tirare su col naso le briciole del parquet, trattenerle in gola, farle risalire all’occorrenza e poi sputarle a raffica dalle finestre. E’ un corso olistico contro la legge della minor azione che domina il mondo della tecnica; non c’è nessun invasato perché tutti sono invasati, e vi spadroneggia incontrastato il paradigma della complessità.
D’altronde, sono sicuro che non tirerò su molto.

Anno naturale

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Tillandsia

di Luca Baldoni

 

TILLANDSIA

Esistono creature che solo d’aria e luce
riescono a nutrirsi, come questa Tillandsia
per ultima arrivata tra le altre sul balcone,
pianta senza radici o aerea o epifita,
proveniente dai fianchi rocciosi delle Ande
o sospesa in inganni di foreste pluviali;

e il miracolo nasce nei lanosi tricomi
ovvero tricopompe che coprono le foglie,
portentosi organi che i sali minerali
nell’aria galleggianti assorbono nei pori,
e in saggia commistione concorrono batteri
azotofissatori che accolti tra le fronde,
ripagano dimora con chimica cattura
di organici composti, vaporizzata linfa,

e tu così sospesa in pneumatiche spirali
da tutto sollevata, stellata e filiforme,
creatura intelligente che sfida la sua forma
fisiologia perfetta che eccede convenzione,
le leggi del tuo regno: natura che prevede

lo scarto, l’eccezione – il verso di sé stessa.

 

SEMINA DI PLUTONE

Ricercati ogni inverno in questa regressione,
macerati in te stesso sino a dissoluzione

perché esistono profondità senza rumore
dove la materia frolla in stallo cellulare,
nel tratto dell’ellissi più tardo a rivoltarsi
degrada su sé stessa per fradice reazioni,
nella curva più interna fermenta nel torpore

quando il tempo sbanda, non sembra ripartire;

ogni anno fai il punto su questo assorbimento
vivo disfacimento: semina di Plutone.

 

CICLO DI ORIONE

Signore della notte: divino cacciatore
Orione tempestato nella volta invernale,
le membra luminose risorte ad ogni morte
riscuotono lo spazio in gesta siderali

rossastra Betelgeuse la prima che risplende
distingue la figura, l’enorme spalla spinge,
Bellatrix la guerriera glaciale l’arco tende,
sopra Rigel e Saif le gambe poderose
imprimono la curva, l’ascesa avventurosa,
tre astri allineati la snella vita conta,
si innesta qui il pugnale, il sesso tuo stellare
nella grande nebulosa gonfio e risplendente

il firmamento accusa inerme la tua forza
ti seguono i due cani fedeli alla tua impresa,
Sirio canicolare basso sull’orizzonte
e il Minore festante, più alto nella fuga
per primo sfida il vuoto, le spalle ti protegge,

e ti risucchi dietro quest’empito di cielo
un vuoto nel tuo moto rivolto sempre avanti

mentre in opposizione senza tregua ti attende
Aldebaran gigante rossa fiammeggiante
l’occhio del fiero Toro che contro ti si avventa
a contrastare te che vinci, che ancora sempre
come ogni altra notte di alte gesta splendi:

lo blocchi, lo batti, sotto terra lo respingi.

 

BIANCO

Ho anche una finestra che dà dall’altra parte
e supera le cime degli alberi del viale:

e oltre vedo l’ampio arco degli Appennini,
e in fondo, a Ovest, dorso a dorso, le ripide
faglie delle Apuane – e proprio l’altro ieri
di notte ha nevicato, e al mattino le vette
di luce acuminate si ergevano nel sole

fissando l’infinito mi svuoto di piacere,
mi penso lassù in cima a contemplare il bianco

un monaco scintilla su rupi himalaiane.

 

CAVALCATA NOTTURNA NEL CIELO D’ESTATE

L’Orsa la conoscerai: col caldo si solleva
fiera sull’orizzonte, splende tutta la notte
sigillo di stagione nel cielo dell’estate,

dalle Puntatrici puoi schizzare a settentrione
cinque salti e saprai la gemma di Polaris
da cui discende l’asta del Carro più leggero,
s’insinua tra le due flessuosa e sibilante
la coda segmentata del Draco primordiale

e nella regione confinante, a levante
rorida Cassiopea in forma di farfalla,
Perseo che si appressa con urla di conquista,
e su in diagonale Andromeda s’allunga,
scomposta nel terrore santifica l’eroe
le braccia in alto getta verso il cavallo scosso
Pegaso neroalato che accorre in suo soccorso

verso il colmo dell’arca considera scattante
del Cigno la saetta che fende il firmamento,
mira alle quattro stelle, l’Aquila che rosseggia,
e collegate a Vega tracciano quell’immenso
triangolo d’estate, diadema interstellare
che da sempre per mare accompagna i marinai
e in curva verso Ponente sopra l’orizzonte
risorgerà Arturo, la stella più pulsante
di Boote, il bovaro che pensieroso spinge
il punto di partenza, il Carro risplendente,
chiamato in antico anche Elice, elica

perché è circumpolare e rivolge su sé stessa.

 

Poesie tratte da: Luca Baldoni, Anno naturale (Passigli, 2021)

Per Sergio Nelli

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di Giacomo Sartori

(Unendomi alle tante voci che esortano a leggere o rileggere gli scritti di Sergio Nelli, appena scomparso, riporto questo pezzo uscito nel numero di Nuova Prosa “La letteratura italiana con gli occhi di fuori”, nel 2018)

Sergio Nelli mi sembra essere uno dei migliori cantori del male di vivere del presente italiano. E questo in particolare nei suoi racconti, popolati da una grande varietà di uomini e donne imbrigliati nelle loro miserie e incagli affettivi, famigliari, lavorativi. Questi suoi personaggi comuni, ma strutturalmente diversi uno dall’altro, come lo siamo noi, non sono mai felici, sono anzi surrettiziamente sofferenti, e quasi un po’ depressi (spesso lo sono stati nel vero senso della parola), o comunque come ottenebrati da quello che la vita ha riservato loro, invischiati in una cupezza nevrotica. Le loro abitudini, e la quotidianità nei quali ci appaiono, sono la gabbia angusta nella quale si muovono.
Non soffrono tuttavia di claustrofobia, approfittano del loro piccolo margine di manovra. Non si disperano, vanno anzi avanti navigando a vista, cercando degli appagamenti, o almeno un po’ di pace. Le occasioni di sentirsi davvero bene, o anche solo di ridere, fanno però difetto, le gioie a cui aspirano il più delle volte si rivelano illusorie (e i disastri, quelli veri, incombono). Anelano e desiderano invano, e qualche volta sembra che potrebbe succedere qualcosa di buono, o comunque differente, ma non accade, e quindi restano impelagati nella pedissequità e nel loro non espresso malessere, in una rassegnazione di lutto, una minaccia di disgrazie ben maggiori. Solo nell’infanzia hanno vissuto qualcosa di davvero buono, solo nei ricordi di quella preistoria possono imbattersi in soddisfazioni e piacere.
La grande abilità di Nelli è di riuscire a evitare tutti i cliché con i quali osserviamo e leggiamo la nostra realtà, le nostre vite e quello che ci sta intorno, schermo che ci impedisce di vedere l’essenza delle cose. Lui non cita marche o luoghi, non rappresenta situazioni ritenute paradigmatiche, o anche solo che ci sembrano più frequenti e normali, non descrive nei dettagli. Coglie anzi i personaggi in frammenti minimi della loro intima differenza, nei gesti e ragionamenti che tradiscono la loro singolarità. Il corpo e il sesso sono molto presenti, perché è lì che può esserci qualche raro riscatto, ma non hanno uno statuto privilegiato, sono anch’essi elementi del quotidiano, della fatica di vivere le giornate. Nella presa d’atto dello stato delle cose non c’è empatia, si intuisce piuttosto uno sguardo quasi divertito.
Gran parte dei personaggi della narrativa italiana sono insopportabili, e falsi, proprio nella loro supponenza, diciamolo così, di essere paradigmatici di qualcosa, un qualcosa che non esiste. Vengono più spesso dalle classi agiate, o insomma da come ce se le rappresenta, o peggio ancora sono come le stesse si rappresentano quelle meno fortunate. Sono in realtà il prodotto di visioni stereotipate o anche semplicemente giornalistiche e televisive, a ben vedere consolatorie. Nelli riesce a riprodurre la pedissequità grigia, la totale assenza di prospettive e speranze, con minuti scarti però di individualismo e di follia, che è la cifra di fondo del nostro Paese, e che tutti conosciamo. I suoi personaggi e le sue atmosfere, hanno il gusto inconfondibile dell’Italia attuale, dei palazzoni senza attrattive che dominano i suoi paesaggi, diventano anzi esemplificazioni della quintessenza della nostra società. Sono istantanee di un paese che ha perso ogni illusione, che continua però a raziocinare e a cercare scappatoie personali, si ostina a sopravvivere. E nello stesso tempo, e qui sta la grandezza, i suoi sono esseri umani che si dibattono nel mondo, alle prese con le briglie della vita.

Limina moralia: Anna Maria Ortese

4

di

Francesco Forlani

Da qualche mese sto collaborando con Limina Rivista, un drappello di giovani intellettuali, tra l’altro presenti in una recente e felice incursione indiana alla Libreria Popolare di via Tadino, a Milano. All’invito di partecipare al loro progetto ho risposto con delle autotraduzioni dal francese di piccoli assaggi ( essais) letterari pubblicati in oltre vent’anni sulla rivista parigina l’Atelier du Roman diretta da Lakis Proguidis. Dopo Philip K Dick e Franz Kafka   è stata la volta di Anna Maria Ortese .

Lo ripropongo qui, alla casa madre, perché la storia di questo articolo è nata negli anni  proprio su Nazione Indiana. Buona lettura. effeffe

Prologo

Torino è una città misteriosa; misteriosa e indolente. Tale indolenza la si può avvertire dappertutto; nei caffè storici del centro, nelle piazze spesso deserte; deserti circondati da portici, lunghissimi portici con centinaia, migliaia di persone che vi si incamminano in silenzio come a una processione; tuttavia è sui mezzi pubblici che la tocchi con mano, quell’indolenza allo stesso tempo metropolitana e metafisica. Un autobus a Torino non è un modo per spostarsi da un punto all’altro del mondo, no, è un mondo che racchiude tutti gli interrogativi fondamentali dell’esistenza e che spesso, non sempre, ritrovi nei libri: vivere, amare, soffrire.

Seduto in un 68 assai affollato, concentrato nella lettura del Corso di filosofia in sei ore e un quarto di Witold Gombrowicz (Bompiani), preparavo le ultime battute del mio corso al Liceo francese quando è avvenuto il fatto seguente.
A bordo due passeggeri di una cinquantina d’anni, una signora e un signore, in piedi una di fronte all’altro; alla fermata con conseguente liberazione di un posto a sedere, alla portata di entrambi, dopo averne costatato la cosa, si sono guardati dritti negli occhi per pochi istanti, prima che l’un# dei due passeggeri rivolgesse un cenno all’altr# per cedere l’ambita seduta. Fin qui nulla di particolarmente significativo: un segno forse di cavalleria d’altri tempi che nulla toglierebbe alla mala educación seppur aggiungendovi un seme di speranza quanto ai tempi che corrono; di questo certo si sarebbe trattato se a cedere il posto fosse stato l’uomo e non la donna come invece era stato il caso. La questione, in realtà, non era affatto di genere ma di numero, degli anni, una questione d’anagrafe, risolta dalla risolutezza e prontezza della donna che pur appartenendo alla stessa classe, dichiarava il suo interlocutore più anziano di lei, attestazione che sarebbe stata confermata da lui se avesse accettato l’invito; le cose però non sarebbero affatto andate in quel modo, dal momento che l’uomo aveva declinato con aria stizzita l’invito, con un’espressione del volto che avremmo potuto tradurre con la frase: ma ti sei vista allo specchio, vecchia stronza!

Ho allora distolto lo sguardo che, prima di immergersi nella lettura del Gombro, ha potuto per qualche istante, grazie alle potenti lenti da lettura che inforcavo, scorgere sul finestrino l’immagine riflessa della mia faccia che portava evidenti segni di appartenenza alla leva calcistica dei due passeggeri. In altre parole, vi avevo scorto chiara e distinta la mia età. Il primo riflesso era stato quello di togliere gli occhiali come la cosa bastasse a fare sparire il dolore; quel dolore che accompagna il guado da una riva abitata da chi deve cedere il posto all’altra in cui dimorano quanti a quel posto hanno diritto.
La seconda cosa che ho fatto è stata di rimetterli per riaprire il libro. Ed è così che mi sono imbattuto nella frase d’ouverture:

«Il vero realismo di fronte alla vita è sapere che la cosa concreta, la vera realtà, è il dolore.»

Le trompe-l’œil: un paio di occhiali

Si parla sempre di Anna Maria Ortese come di un autore realista; dal suo esordio, ufficialmente nel ’37, con Angelici dolori pubblicato dall’editore Bompiani. Dolore, una parola che non solo nei titoli adottati come nel caso del Cardillo addolorato, permea l’intera sua opera, da Il mare non bagna Napoli, fino a L’iguana, ma ne orienta le storie al punto di costituirne il tema maggiore, la cosa concreta.
Il realismo di Anna Maria Ortese,eppure, lo si potrà cogliere solo a condizione di esplorarne il pensiero che è alla base della narrazione, la portata filosofica delle storie.
È solo allora che la realtà, la dolente realtà diventa concepibile razionalmente, ovvero trasmutata nelle sue variazioni fantastiche; il realismo romanesque come trasfigurato dal dolore assume i tratti del racconto filosofico. Se nel caso di Gombrowicz si tratta di una scelta stilistica annunciata, come quando scrive che «Ferdydurke è una parodia del racconto filosofico alla Voltaire», in Anna Maria Ortese questo accade in modo naturale, attraverso le forme del racconto breve, gli apologhi, le riflessioni filosofiche poste a corollario delle vicende vissute dai suoi personaggi e condivise dall’io narrante con i lettori. È attraverso la cognizione del dolore che l’opera accede ai sensi più reconditi dell’esistenza, della vita pura e nuda, concreta, e se per Gombrowicz sarà possibile grazie a una vera e propria fede filosofica, in Anna Maria Ortese, autodidatta, tale traduzione è guidata da un naturalismo di tipo panico.
Di sé scrive nel magnifico Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese e pubblicato da Leonardo nel 1990:

«Motivazioni profonde non ne trova: se non lo scontento, del resto comune, e spesso l’indignazione, davanti a ciò che si chiama “reale”. E questo sentimento – che resta – le impedisce adesso di preoccuparsi se qualche futuro lettore potrà farsi di lei un’immagine più o meno vicino alla “realtà”. Di “realtà” – uno che sia in polemica eterna col reale – non può averne. Difficile soprattutto dal di dentro, capire chi sia veramente, o che voglia, uno che non accetta – non ama – quanto è “reale”. Anna Maria Ortese non sa cosa ha voluto, né chi è.»

Tale rivolta al reale trova il manifesto in uno dei suoi racconti più belli, Un paio d’occhiali, che apre Il mare non bagna Napoli. Eugenia è una ragazzina ipovedente, quasi cecata, che rischia di perdere la vista per sempre se non ottiene quei due pezzi di vetro che sua zia Nunzia ha deciso di regalarle. Eppure, prima che ciò avvenga la vediamo spensierata percorrere timidamente ogni gesto di un’infanzia che sembrerebbe felice, non pervasa dal male, dalle passioni tristi che ne determinano tutt’intorno il paesaggio: i soldi, i tradimenti, le prese in giro. Queste cose Eugenia non le sente perché non le vede ed esprime in una lingua imperfetta e vitale tutta l’energia della propria innocenza, l’adesione a una realtà ben distante dalla verità. È solo verso la fine, nel gran giorno, quando sua madre rincasa con un paio d’occhiali, che la metamorfosi avrà luogo; il volto della piccola si trasforma in una «una specie d’insetto lucentissimo, con due occhi grandi grandi e due antenne ricurve». La realtà è un pugno in faccia, uno schiaffo di rara violenza, e il dolore un non so che di nitido e cristallino che sgorga dalla visione dell’inferno.

«Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; …le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali.»Ortese

Twitter (cinguettìo)

I due passeggeri sono scesi da un pezzo. Il posto è rimasto vuoto. In questo lungo viale defilato dal centro si sente nitido e chiaro il canto degli uccelli. Richiudo il libro di Gombro e in maniera inaspettata ho come una rivelazione. C’è un legame strettissimo che non avevo mai colto fino ad allora tra il racconto appena evocato e il romanzo Il cardillo addolorato, sempre di Anna Maria Ortese. Il piccolo volatile, da vivo e da morto, tormenta il destino della protagonista, Elmina. Ora si sa che il cardillo canta meglio se accecato; per poterlo vendere al miglior prezzo taluni commercianti li fanno crescere al buio dopo averne bruciato le pupille con aghi roventi. Ecco che solo dopo aver dato alla vita un’altra forma, la si potrà cantare; solo una visione obnubilata o distorta potrà far cedere al falso che è misura e supporto della verità. Proprio quello che succede in una delle scene del romanzo, quando, riuniti alla Reggia di Caserta grazie a un potente cannocchiale, si riuscirà a scorgere l’interno misero di una casa del Pallonetto e scrutare l’inconfessabile segreto di Elmina. Quale sarà allora la relazione tra bellezza e cecità, tra il male che si subisce e quello che si compie, ma soprattutto il posto che il dolore occupa in tutto questo. Un canto d’uccelli è quel che rimane dopo il diluvio. Non si tratta di un’ennesima prova di rinascita ma di sopravvivenza pura e dura. C’è una necessità dolente nel canto degli uccelli che devono costruirsi un nido lontano da terra.

Cahiers des doléances

C’è un racconto poco noto di Anna Maria Ortese che amo particolarmente. S’intitola Dolente splendore del vicolo, pubblicato in due parti da Pasquale Prunas sulla rivista Sud nel giugno del ‘46 e nel gennaio dell’anno seguente. Sud è la rivista che ho la fortuna di dirigere, in una nuova versione, dal 2003, grazie alla presenza di antichi collaboratori della stessa come Antonio Ghirelli, Carla De Riso, Francesco Rosi, alla partecipazione come partner europeo della rivista francese l’Atelier d Roman, guidata da Lakis Proguidis, e la fondamentale adesione di Renata Prunas, sorella di Pasquale e memoria storica di quella straordinaria stagione del dopoguerra, la giornalista Nora Puntillo e Giuseppe Catenacci, presidente dell’Associazione ex allievi della Nunziatella, la scuola militare di Montedidio tra le cui rosse mura la rivista era nata nel ‘45.
Il racconto dal titolo che racchiude l’ossimoro, di fatto, del dolente splendore, ci fornisce una chiave di quella stretta relazione tra opera e dolore da cui siamo partiti. Un tema che unito alla riflessione sul bene e sul male di Anna Maria Ortese ne costituisce il suo canto più autentico e disperato.
Dolente splendore del vicolo presenta una messa a nudo della mutazione antropologica del vico; la guerra ha strappato gli abitanti dalla loro infantile innocenza, sia nel linguaggio ormai contaminato dall’inglese di liberatori e occupanti, sia nell’universo delle relazioni condannato dalla spietata ricerca di soldi, tanto per i poveri che per i più ricchi.
Questa mutazione è percepita dalla narrante attraverso l’assenza del canto: certo le persone non si parlano più ma, cosa ben peggiore, nessuno canta più. Eugenio Santillo, un piccolo delinquente e sua sorella sono i soli a resistere al frastuono del vicolo, alla mostruosità delle voci di quei miserabili. È il racconto di un dolore, di una giovane madre per la perdita del figlio, una processione infinita di Madonne toccate e accarezzate dalle puttane del quartiere, pronte a coprire di soldi la statua in cambio di un perdono. Nel finale, Anna Maria Ortese descrive l’irruzione, nel silenzio affamato del vicolo, di un’allegra brigata di giovani ubriachi e fintamente felici:

«a notte, quando già molte finestre si erano spente sulla vergogna o la solitudine delle anime, gruppi di giovani tra la vecchia e la nuova generazione, sazi e tuttavia inquieti, svegliavano il quartiere con una serie di canti che dovevano evocare la città di un tempo e dire la bellezza dell’amore puro. […] loro gridi scivolavano su muraglie cieche d’apatia, cadevano in pozzi di desolazione».

È quella felicità il male; l’inferno è l’indolenza, l’apatia, l’indifferenza. La vita senza aggettivi.

Le trompe-l’œil:un paio di calzini

In francese esiste un verbo antico per dire dolere, doloir. Il verbo latino dolere si declina nelle due forme del soffrire e far soffrire, ma anche deplorare, lamentarsi. Uno dei protagonisti del Cardillo, il padre di Elmina e sua sorella, ugualmente alte, impettite, belle e insopportabilmente mute, è guantaio. Doler les peaux, dicono i francesi per acconciare le pelli; c’è una ferita che brucia nella storia di Almina, una ferita che potrà salvarla. Una colpa originaria. Quel dolore è insopportabile ma con Anna Maria Ortese e le sue creature ne esploriamo l’insondabile mistero:

«“Credete, dunque, che il Cardillo nuoccia a chi lo ama?” con una cupa ansia che gli era nuova, il principe aveva chiesto ed è Ferrantina a rispondergli: “È così…Distrugge chi lo ama… Perché è la nostra memoria, signore…il desiderio dei giorni belli…i giorni impossibili, che tutti abbiamo incontrato…almeno una volta nella vita.” »

Ortese

Un interrogativo mi trascino dalla prima lettura di Il mare non bagna Napoli: perché Anna Maria Ortese decide di assassinare i suoi amici di un tempo in uno dei racconti che compongono questo capolavoro del Novecento, intitolato Il silenzio della ragione? Chiunque abbia dedicato una parte della propria vita alla creazione di una rivista letteraria sa bene quanto conti l’amicizia votata a una causa comune, la fedeltà all’idea. Del resto, le riviste chiudono non quando a mancare sono i soldi, ma quando viene a mancare quell’amicizia, insieme al sentimento condiviso di farcela anche senza il becco d’un quattrino. Le ragioni economiche vengono sempre evocate come causa maggiore ma è un’invenzione, una menzogna per quanto nobile.
Il racconto descrive la vita intellettuale, ma in realtà soprattutto la fine del sodalizio all’origine della rivista Sud, attraverso una sequenza di ritratti degli scrittori che avevano partecipato al miracolo su carta, quando carta in quel misero dopoguerra non ce n’era, una ricostruzione dell’idea di civiltà in mezzo alle macerie. Come viene suggerito dal titolo, Anna Maria Ortese traduce in letteratura la visione sconcertata di Goya. La galleria del reportage ha lo stesso tono grottesco e la contraddizione fondamento definita dalla doppia forza di creazione e distruzione si rivela particolarmente in due immagini.
Quando arriva nella casa di Domenico Rea la cronista nota i panni stesi sul balcone di fronte.

«Guardando in alto, vidi una fila di terrazzini bianchi, con delle cordelle tese da un muro all’altro, come già nella casa di Luigi, e da quelle pendevano un po’ di biancheria, dei calzini. Una goccia, che non era di pioggia, mi cadde su una mano. Era mezzogiorno, e non si sentiva un grido, una voce. Caddero altre gocce: era la biancheria.»

L’immagine del bucato steso al sole ritorna spesso nel racconto, per lo più associato alle idee di sole e colore. Eppure Napoleone l’aveva ben detto che il y a des histoires qui font que le linge sale ne doit se laver qu’en famille, anche se è a Napoli che la senti da piccolo la magica formula della felicità familiare: E panne spuorchee lavammo in famiglia.
Questa immagine gioca un ruolo importante nella scena che seguirà poco dopo e che dal punto di vista letterario è tra le più riuscite del racconto. Anna Maria Ortese entra nel palazzo dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla balconata. Ha un momento di esitazione prima di suonare; sta per tornarsene indietro sui propri passi ma ci ripensa, decisa di proseguire questo suo viaggio nel passato. La sposa dello scrittore gli apre la porta e sullo sfondo scorge Domenico Rea “freddo e immobile” come un chiodo. Viene fatta accomodare in cucina dove stavano pranzando. C’è anche Vasco Pratolini e dopo un breve e distaccato scambio di battute sulla letteratura e sugli amici, si spostano nello studio per cominciare l’intervista. Tutto sembra svolgersi come da copione quando a un tratto il suo sguardo viene catturato da un dettaglio, del tutto insignificante. Rea non ha smesso di provocarla, di rimproverarla di non “amare il popolo”, come adesso che le si è seduta accanto:

«Sorrise. Un pensiero straordinario gli era passato per la mente e, senza più curarsi di Vasco, guardandomi sottecchi, cominciò a sfilarsi le scarpe, e mi spiava per vedere se questo fatto riusciva a turbarmi. Aveva certe calze di filo, azzurrine come i calzoni, macchiate di giallo in punta.
“Ti piacciono queste calze?”»

Anna Maria Ortese si limita a chiedergli quanto gli erano costate perché sa già che quanto è successo è impagabile, mettere nero su bianco quanto ha appena visto può più che bastare per consegnare la pagina ai posteri. Come giustamente ha scritto Raffaele La Capria in un articolo uscito nel 2008 in occasione della riedizione del Mare. (Il Corriere della Sera, 30 maggio 2008, Napoli alza la voce, ma l’Italia è sorda):

«Con lo stesso sguardo nel capitolo «Il silenzio della ragione» ella rivide i suoi amici d’una volta e li descrisse con sottile ma penetrante crudeltà, notando ogni loro difetto fisico e morale. Oggi si può dire che quello di Compagnone e quello di Rea sono i più bei ritratti della letteratura italiana contemporanea?»

Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Pasquale Prunas, Gianni Scognamiglio, (l’unico ad essere citato con il cognome della madre, Gaedkens) cadono sotto la penna dell’antica amica e gli antichi amici non glielo perdoneranno, non subito, non tutti.  Anche lei redattrice di Sud, che come spesso accade per le esperienze più avanguardistiche, i progetti visionari, rimarrà meno nota ai più del Politecnico, fabbricato a Milano e diretto da Elio Vittorini. Imperdonabile la sua violazione di domicilio e non solo dei corpi ma delle anime di tutta la città. Come ricordato dalla mia amica Renata Prunas, Anna Maria Ortese non tornerà a Napoli che molto tempo dopo e senza scalfire il muro che era stato eretto tra lei e Napoli.

Ma perché? La ragione forse è proprio in quel passaggio del Cardillo addolorato che abbiamo citato: distruggere chi si ama perché è la memoria dei “giorni felici”, di un’epoca che non esiste più.
Dovendo scegliere tra la narrazione indolente della spasa di panni lindi, bianchi, ai balconi e la calza ingiallita in punta dello scrittore, Anna Maria Ortese non ha avuto dubbi, su quale cosa concentrarsi, per fortuna, aggiungiamo noi.

Epilogo

Il vero nemico del dolore è il male; il male è la felicità che l’indolenza, come cultura o anche solo come carattere, assicura grazie a questo “non sentire” al dolore; sintomo di una malattia molto più grave della sofferenza perché è preludio della morte dell’anima. Bisogna credere alla letteratura quando al contrario si fa dolente, criminale, violenta, in tutto e per tutto colpevole. Scrittori come Anna Maria Ortese, Witold Gombrowicz sapevano fin troppo bene che soltanto la coscienza di essere allo stesso tempo vittime e persecutori poteva affrancarli da quella terribile condizione.

Soltanto il Dolore, l’unico, è in grado di unire attraverso il tempo e lo spazio, solo il Dolore riduce le generazioni ad un comune denominatore, ha scritto Witold Gombrowicz.

Ora guardo il posto lasciato vuoto sul mio autobus. E non posso fare a meno di pensare che i migliori libri sono quelli che appartengono a una letteratura da stato d’assedio. Una sedia passeggera.

Critical Màs : Gabriele Romeo

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LO STATO DELL’ARTE in conversazione con Gabriele Romeo

di Mirco Salvadori

 

Guardo il mio interlocutore mentre si appresta a raccontare il suo complicato ma gratificante percorso professionale nel mondo dell’arte e stranamente mi tornano alla mente le parole di una vecchia canzone dei Joy Division: Here, Everything is by design. Here, Everything is kept inside. So take a chance and step outside, Your hopes, your dreams, your paradise. Siamo fondalmente diversi, potremmo sembrare come i punk un tempo seduti sugli scalini della Fenice che scambiavano le proprie sigarette con i new romantic. Due figure apparentemente contrapposte, culturalmente e musicalmente diverse che in comune possedevano la volontà nel riuscire a cambiare quanto era prestabilito, osando quel salto che li avrebbe forse condotti a realizzare le loro speranze e i loro sogni.

La prima domanda che verrebbe spontanea a chi si trovasse seduto al tavolino di un bar con Gabriele Romeo, curatore, critico e storico dell’arte, sarebbe la classica: a che punto siamo, qual è lo stato dell’arte? Ma attendiamo alcuni passaggi, conosciamoci meglio. Usiamo questo intervallo sospeso per approfondire la nostra conoscenza e quella delle bollicine che giungono dalla Franciacorta. Partiamo da te e dal tuo importante e impegnativo ruolo come Presidente della sezione italiana dell’AICA (Associazione Internazionale dei Critici d’Arte).

Finalmente la sezione italiana di AICA è rinata! Adesso possiamo essere un coro di voci. È stato, e lo è tutt’ora un lungo processo. Nell’aprile dello scorso anno fui eletto a Parigi dai membri storici della sezione italiana alla guida e alla ricostruzione delle attività critiche e intellettuali della nostra categoria. Recentemente, abbiamo ritenuto opportuno, riscrivendone lo statuto, ricostituire l’associazione ufficiale, l’unica riconosciuta in Italia dalla casa madre parigina e abbiamo optato di denominarla “Nuova AICA Italia” per voltare pagina e adeguarci ai tempi.

Ho avuto il piacere di fare la tua conoscenza al Padiglione Italia, nel corso dell’ultima Biennale di Architettura, qui a Venezia. Sono sincero: ero pronto ad assistere alla classica performance del critico che espone il suo pensiero dispensandolo come altera verità, una certezza tra l’altro diffusa in un mondo che si professa intrusivo ma in realtà è assai chiuso e criptico, nei confronti del normale fruitore. Più si procedeva nel dialogo, più mi rendevo però conto che esisteva una sorta di legame che univa i nostri apparentemente lontani mondi, quello dell’arte e quello musicale. Era il bisogno di indipendenza. Torno quindi alla domanda iniziale riformulandola senza giri di parole e veli che la rendano più piacevole: come e cosa è il mondo italiano dell’arte visto da un addetto ai lavori? Esistono più realtà che operano nello stesso settore ma in contrapposizione? Come nel mondo musicale italiano (anche quello in teoria “indie”), ci si scontra con l’immobilità e l’arretratezza ideologica di una realtà saldamente ancorata all’esile pensiero mainstream?

E sì! È stato un incontro davvero formidabile, soprattutto per la grande attenzione sul concetto della Resilienza intercalato su diverse aree tematiche dell’architettura dal curatore del Padiglione Italia, Alessandro Melis. Tornando alle tue domande che si prefissano di avere una delimitazione – credo anche per una questione di spazio e per non annoiare il lettore – ti risponderò come segue:

L’arte è un campo vastissimo prodotto dallo scibile umano come eredità inalienabile. E non bastano per un critico scrupoloso una, due, tre, ed una infinità di vite, per cercare realmente di scoprire ed esplorare tutte le possibili interconnessioni fenomenologiche che legano l’artista al suo tempo.  Infatti, è proprio il tempo subordinato al suo contesto, cioè quello nel quale un determinato artista genera un’opera, che si apre e si rivela al fruitore il “prodotto artistico” assumendo, quest’ultimo, l’aspetto di forme mediali multisfaccettate. Per essere più chiaro, mettendo a confronto le Arti visive di due periodi storici differenti e contrapposti, da un lato l’arte fiamminga e dall’altra il Fluxus, noteremo come la prima sorregga la sonorità musicale enunciata indirettamente dentro la pittura di Hieronymus Bosch, ma non è udibile, semmai essa può essere deducibile; mentre la seconda – a noi più vicina come arco generazionale – con artisti quali Dick Higgins, George Maciunas, George Brecht, sia pervasa invece a tutto campo da relazioni sinestetiche, che attraversano l’esplorazione degli organi sensoriali, per dar sfogo alla concertazione tra la scrittura, la musica, la poesia visiva, il teatro e la performance.

Alziamo i calici in questa assolata fondamenta e brindiamo a chi molto ha significato per te: Gillo Dorfles. Amerei moltissimo entrare nel tuo ricordo legato a questa possente figura del pensiero filosofico e artistico, un Virgilio che ti ha accompagnato anche lungo le pagine del tuo ultimo libro di cui andremo a parlare in seguito.

Il mio primissimo ricordo legato a questa importantissima figura e testimonial indiscusso della nostra categoria, risale al 2003. Allora ero un giovane studente universitario, curioso e affamato – cicchetti a parte – di scoprire più cose possibili sugli aspetti semantici dell’arte. All’epoca ci fu un importante seminario per presentare, a Palermo, presso il dipartimento di Estetica, della Facoltà di Lettere e Filosofia, la riedizione del testo di Rudolf Arnheim intitolato “Arte e percezione visiva”. Dorfles, che ne aveva scritto la prefazione, celebrava lo  psicologo tedesco con un dibattito insieme agli studenti. Lo rividi molti anni più tardi, nel 2013, presso la sua abitazione a Milano. Conversare con lui, seduti sul suo divanetto rosso e circondato da opere di Carla Accardi con tutti quei manoscritti, mi diede molti stimoli.

L’Intervallo Sospeso – Connettoma Cronico Dell’Arte è il titolo del tuo volume uscito lo scorso anno per Mimesis. Un titolo che cita l’intervallo perduto di Dorfles aggiungendo però un riferimento alle connessioni del cervello umano e alla sua capacità di processarle. Un titolo complesso per un saggio scritto e pubblicato in un periodo altrettanto difficoltoso, lo stesso che sembra ispirare il tuo scritto: il tempo della pandemia.

Sì, è proprio vero! È stato un anno molto difficoltoso per tutti. Anche per il miei studenti. In quel periodo ho pensato cosa potessi fare, nel mio piccolo,  per dare un mio contributo alla società. Dalla mia ricerca personale è nato questo saggio forse per prendere io stesso consapevolezza di questa irruente trasformazione in diretta della cultura e delle espressioni artistiche che inarrestabilmente stavano mutando. Credendo, però, alla condivisione e ho ritenuto opportuno mettere insieme le mie impressioni su quanto avevo analizzato per seminarle “a parole mie” tra la gente.

Gli spunti che riesci a cogliere e che vanno a irradiare di dati le nostre connessioni di pensiero sono molti e in gran parte legati alla fruizione dell’arte da parte del semplice visitatore di museo, ora strana creatura virtuale capace di scivolare lungo gli schermi del proprio smartphone entrando nel digitale e superando la cornice che un tempo delimitava e definiva il confronto con l’opera d’arte.

Quando scrivo provo a mettermi sempre dalla parte del fruitore. Cerco di rispondere a delle probabili domande orientandole al futuro. Quest’occhio di discrezionalità e di neutralità credo debba essere fondamentale per chi intende esercitare la professione del critico.  C’è anche da dire che il campo visivo digitale, la finestra della pagina bianca dell’editor può essere, a volte, un’arma a doppio taglio per quanti devono comunicare con le parole per raccontare o semplicemente recensire una mostra piuttosto che un artista. Navigando e leggendo molti articoli scritti da critici freelance, da un lato infatti, si omettono molti particolari, ci si dimentica  spesso di includere le bibliografie e frequentemente, sembra andar di moda in maniera del tutto scorretta, eludere i riscontri scientifici delle fonti comparative che si analizzano sul campo.

A proposito di digitalizzazione museale, permettimi questa semplicistica definizione. So che si sta sviluppando sempre più, anche grazie o a causa della pandemia, questa modalità fino a poco tempo fa impensabile. I musei si visitano sempre di più attraverso un interfaccia digitale, lo schermo di un pc o di uno smartphone.

Questo comportamento esplorativo di cui parli “cioè dell’interfaccia digitale per far visita ai musei” già da tempo all’Estero è esplorato dagli internauti di ogni fascia d’età. L’Italia, così come tutto quello che riguarda i processi di digitalizzazione, è rimasta indietro per anni, le strutture museali – in particolare quelle amministrate da organi locali e periferici – fanno fatica a digitalizzare, inventariare il nostro immenso patrimonio culturale e in particolar modo quello custodito nell’interesse del pubblico. È come dire guardiamo i dati, Brexit a parte, sul sito web del V & A (Victoria and Albert Museum), all’interno sono reperibili e consultabili all’istante 1.2 milioni di oggetti della collezione qui.Un esempio totalmente opposto e del tutto italiano, tanto per giocare in casa a Venezia, lo troviamo invece sul sito web della Fondazione Musei Civici di Venezia. Nel quale un turista, o o un semplice studioso, non riesce ad avere la possibilità di reperire online informazioni sulle collezioni complete di Brustolon a Cà Rezzonico (Museo del Settecento Veneziano), piuttosto dell’entità specifica delle opere scultoree di Merardo Rosso conservate a Cà Pesaro (Galleria Internazionale d’Arte Moderna).

Controtendenza, assistiamo miracolosamente ad esempi d’eccellenza per la diffusione dei contenuti delle mostre canalizzate sul web. Ne sono modelli positivi le attività interattive e digitali portate in rassegna, grazie all’impegno della sua Direttrice,  Carolyn Christov-Bakargiev al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, e certamente il funzionamento dell’efficentissimo Dipartimento Educativo – con interessantissimi approfondimenti scientifici e didattici – presso la Fondazione di Palazzo Strozzi a Firenze, struttura curata dalle competenze scientifiche di Arturo Galansino. In Italia la strada da percorrere in tale direzione è davvero molto lunga, e non credo che alla meta si possa arrivare in tempi brevi. Occorre molta più sensibilità e predisposizione ad ascoltare il rinnovamento della comunicazione.

Mi hai molto colpito quando dici: “In questo momento storico, l’arte ha bisogno di chi sa e di chi non ha paura di interfacciarsi con la tecnologia, con la posa di esposizione”.

Intendiamoci! Quando uso la seguente espressione “di chi sa” faccio riferimento al sapere universale e alla predisposizione che ha l’individuo (un artista visivo, un musicista , un critico, un curatore) di metterlo in campo, in azione, rendendolo in questo modo relativo – sapere pensante e dialettico – e non marcandolo con un valore assoluto. La tecnologia, ai nostri giorni, supporta le nuove modalità divulgative rivolte alla comunicazione e alla diffusione dei messaggi da storicizzare, rimpiazzando, ad esempio, quei supporti che furono impiegati tanti secoli fa dai nostri avi per tramandare la cronaca attraverso quelle splendide scritture apposte sugli antichi codici miniati, sulle Cinquecentine. Quando parlo di esposizione, non mi riferisco all’esibizione, bensì al coraggio che detiene “l’individuo autocritico” di argomentare varie tematiche tessendole come una ragnatela di connessione.

Portando un esempio indiretto, ma a mio avviso molto esplicativo, il grande Dubuffet afferma in una parte del suo testo “Asphyxiante culture” (1968):

“Niente svia più profondamente il pensiero del fatto di considerare le nozioni come forme fisse che si prestano a una definizione permanente, mentre non sono forme ma tendenze, orientamenti, la cui forma iniziale si modificherà incessantemente a mano a mano che muterà quella delle nozioni a cui si oppongono”.

Ho trovato estremamente interessante il capitolo dedicato alla Geek Colture, dove si cita una frase dell’ex amministratore delegato di Google, Eric Schmidt che dice: “Sappiamo dove siete. Sappiamo dove siete stati, Sappiamo più o meno a cosa state pensando“, parole queste che introducono il concetto di capitalismo di sorveglianza che tu sviluppi in modo esaustivo. Parlacene.

Mi è piaciuta molto l’analisi condotta dallo storico dell’arte Tony Godfrey, all’interno della pubblicazione edita nel 2020 da Einaudi, ed intitolata per la stampa italiana, L’arte contemporanea, Un panorama globale. Credo si tratti di uno dei più importanti manuali aggiornati su questa visione di trasformazione dell’arte ai tempi della sorveglianza controllata dai social media. Ne ho tratto sicuramente spunto per le mie indagini contenute nel mio saggio.

Il tempo dell’isolamento non è ancora terminato, si fatica anche solo pensare di poter visitare una mostra, un museo. La pandemia sembra aver azzerato le nostre capacità di movimento, di relazione interpersonale. Come accennavo prima, gli schermi dei nostri dispositivi si sono trasformati nei luoghi pubblici di incontro e visione. Cambia la modalità di fruizione e cambia anche la dimensione nella quale ci muoviamo. Due esempi hanno attratto la mia curiosità di semplice visitatore e fruitore di questi luoghi: la dimensione spaziale, come tu la chiami, rappresentata dall’opera presentata al Padiglione della Lituania e il Museo Aero Solar. Altre definizioni, forse innovative del vivere e cercare di comprendere il messaggio artistico. Uso impunemente il link del Museo Aero Solar, presentato alla 17a edizione della Mostra Internazionale di Architettura. Un link che mi invita ad affrontare il tema Biennale Arte di Venezia. Sono seduto in compagnia con un ottimo storico, critico, curatore d’arte e trovo quantomeno naturale ascoltare una sua valutazione sulla prossima 59a Esposizione Internazionale d’Arte, curata da Cecilia Alemani. Che gusto avrà il Latte dei Sogni e quale sarà l’unica Storia della Notte con il Destino delle Comete secondo Gabriele Romeo? Serviranno a creare, parafrasando il titolo di un capitolo del tuo ultimo libro, delle riflessioni sul nostro mondo in tumulto?

Innanzitutto, estendo il mio augurio ai curatori: Cecilia Alemani per la sezione generale della Biennale e a Eugenio Viola per l’Italia. Conoscendo molto bene la realtà è il patrimonio artistico della Biennale, penso sia opportuno ripensare a rimodulare con architetti creativi gli allestimenti dei singoli Padiglioni, cercando una connessione “centrale” per il coordinamento curatoriale tra le le partecipazioni internazionali dei rispettivi Stati. Credo, inoltre, che il Padiglione Venezia, ai Giardini, potrebbe divenire un luogo sperimentale per le arti applicate, mantenendo così fede alla mission della sua storica fondazione, nel 1932. Se un tempo, infatti, l’economia della città di Venezia risiedeva nel vetro di Murano, nei merletti di Burano, nei mosaici, oggi questi aspetti artistici vengono disattesi. Si potrebbe comunque pensare di creare al suo interno una sezione permanente con tipologie di prototipi ad hoc su categorie precedentemente enunciate con la consapevolezza di legare – in una revisione contemporanea da parte degli artisti ospitati –  le arti tradizionali a quelle innovative e tecnologiche. Ricordo ancora la Biennale Arte curata da Massimiliano Gioni. Quell’edizione con il “Palazzo Enciclopedico” fu fenomenale e ricca di contenuti. Per quanto concerne il concept o il tema che si intenderà affrontare con questa edizione potrebbe esserci il rischio, ma ancora non lo sappiamo concretamente, di avere troppi artisti rappresentati dalle Gallerie, con pochi critici militanti aperti alla critica fuori dai giochi, e in questo modo si adeguerebbero temi di facili portata alla vestizione dell’intera esposizione. E’ normale che io mi ponga questi ragionamenti pensando al grande ruolo sociale e politico svolto tra il 1974 e il 1978 dall’allora Presidente Carlo Ripa di Meana. Siamo passati, infatti dalle Biennali della Contestazione alle Biennali del qualunquismo. Ma questo non è colpa certo dell’Istituzione. Riallacciandomi alla conversazione iniziale, ci vuole davvero tanto coraggio, così come lo ebbe anche un’altro socio storico, nonché Segretario Generale di AICA Italia della prima stagione: Giovanni Carandente. A lui si deve presso la Biennale la costituzione dell’ASAC (Archivio storico per le arti contemporanee), e grazie alla sua formazione di storico dell’arte  e di conservatore, – svolgendo prima il ruolo di Soprintendente Venezia, e di Direttore della Sezione Arti Visive alla Biennale tra il 1988 e il 1990 – ha lasciato un segno indelebile alla memoria dell’arte, pensando lui stesso grazie al suo nobile gesto preventivamente al futuro dei giovani studenti e ricercatori.

Due domande secche, giusto per finire questo DOCG che molto ci ha tenuto compagnia nel corso della bella conversazione. Alla luce di quanto successo dal post lockdown fino ad ora, ha ancora senso il famoso invito della Abramovich al popolo italiano duramente colpito dal COVID. Un invito alla cooperazione tra simili, alla fratellanza nella speranza per un cambiamento della coscienza umana? E per ultimo: l’arte è un salvavita?

Accendo la risposta! E’ affermativa! Abbiamo la necessità di cooperare in sinergia, anche negli scontri vernacolari e dialettici che apparentemente separano, il lavoro del critico da quello del curatore, il pensiero dell’artista, dall’intercettazione del fruitore. In questi casi basta pensare a quattro fratelli che litigano, si prendono a parole per futili incomprensioni e poi si riappacificano, perché si vogliono bene.

Credo che in questo campo, e non soltanto in questo,  urge la necessità di condividere momenti, dialogare, parlare, pensare con la propria testa. In un mondo perfetto bisognerebbe ripudiare le invide le gelosie, i pressappochismi,  ma aprendo gli occhi ci accorgiamo che viviamo una realtà imperfetta, perché l’essere umano è imperfetto. L’Arte è uno strumento che può in questi casi dare sollievo alle nostre imperfezioni di insicurezza, vivendo e manifestandosi in contatto tra la gente per tentare – anche un pochino – di edificare una integrazione migliore tra la società e l’estetica contemporanea a “misura dei generi”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giorgio Ghiotti, “Biglietti prima di andare”

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E’ uscita presso l’editore  Ensemble una raccolta di poesie di Giorgio Ghiotti, ne pubblichiamo una piccola scelta:

Gli anni

Vorrei dire della pura gioia che mi prende nel sapere una luce abitata, lucernario
o abbaino, sottotetto che indovino
e quantifico in immagini un tempo amate –

il taglio della mimosa dentro un cartoccio dipinto, il passaggio della stella incendiaria
sopra il nero estivo del mare, persiane spalancate – ma chi le chiama più persiane oggi
col nome ventoso di quel vago oriente –
i benzinai mangiati dalle erbacce come certi
corpi dalla vita – fosse semplice dire vita,
corpi, e avere intera l’esistenza sulle labbra resistendo agli anni nostri, prossimi, lontani.

Anni! li chiamo da una sera acquitrinosa, Io vi dispongo nudi immemori stanziali a concimare di favole il mio tramonto.

Mia realtà scomparsa, io nuoto in te come una pianta antica col mio corpo ingannato d’anni ti risalgo
spinto da un bisogno che mi ingigantisce.

 

 

 

Cartolina

È un vasto rimpianto
a spingere il viaggio più in là:
da un lato Parigi, di qua
s’inazzurra d’accanto la costa
in una colata di rocce e spiagge ventose. Cucinerò qualcosa per pranzo
mentre guardo l’oceano e ti penso.
È il primo cielo d’aprile,
incerto come una sposa.
L’Atlantico cela specchiante i tuoi occhi (ed è mareggiata, come quando sorprendendoti irosa
intendevo guai in vista
in un sottofondo di quiete),
quel largo respiro che
mi spaventa
e mi mette una sete del mondo.

 

 

 

 

 

Proposito

E sia stavolta con forza di preghiera:
mai più aspettare che tornino le notti
a bordo fiume, sbronzi pronti a credere qualunque sua parola, la rabbia vera
che riaccendeva il sangue, che scendeva
da nome a nome e tutti i nomi in uno.
Tutti li ho amati, e non ne ho amato alcuno.

 

Indizi terrestri

È la scuola della gioia, la scuola del pianto.
Non lo sapevo io – non ero pronto – eppure
a camminare si cammina, perdendosi per casa, lasciando in giro tracce – un posacenere,
un libro aperto a pagina * – indizi terrestri.
La panca la ricordo al centro del giardino
ma la città qual era? E avevo voglia di piangere leggendo il giornale, innocuo passatempo
al piombo. La storia mi ha raggiunto anche là,
tra la cronaca, l’economia, lo sport…
C’era una commozione nell’aria, dentro la stagione, la foto in bianco e nero a bordo pagina,
la gente così bella nei suoi affari, così bella vi dico quasi trasparente. Vi amo tutti, indistintamente,
e grazie per il sogno che è stato vivere. Contrattempi, afasie comprese.

 

Arriva un carico di maiali

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di Filippo Polenchi

Arriva un carico di maiali. Chi sono gli occhi che guardano? Occhi della non-appartenenza, occhi senza volto, buttati nel letame, reclamati dagli scarti, per farne biglie e bigiotteria. Le carovane della nutrizione, a 2 euro di cauzione per carrello, attraversano le esposizioni di nature morte; composizioni spettacolari di cibo che non esiste. Quello che facciamo sono descrizioni di descrizioni, sguardi su oggetti creati per l’occhio più che per il cibo. Il banco frigo che attende il carico è una composizione floreale; è lo show della longevità.

Arriva un carico di pollame nella giornata di mercurio bituminoso, dove ogni morte tace per non aggravarsi in disperazione. Sono nuvole di piume, aguzzi bargigli abbandonati nel regno degli scarti, nelle feritoie degli scarichi, di nuovo nella merda. Aspettano il carico di polli le strutture lucide e verticali della grande distribuzione organizzata. Nei capannoni freddi, scuoiati dalla disposizione delle persone all’amore – spellate lì, quelle persone, dal bisogno, dalla garrota dei debiti, dopo il viaggio oscuro dentro i confini dei confini, nell’indistinta nebbia delle tracce perdute, le proprie e quelle della propria gente – dove la musica è però la stessa che i clienti ascolteranno nel loro trip al supermercato. Il prefisso «iper». La sovrumana versificazione orfica dei padiglioni del post-macello. Anche qui sono occhi senza cranio, enucleati. Gli operai attendono con giubbotti termici, nella fredda oscurità dei padiglioni ambrati di neon. Fuori il giorno è inaccessibile: ogni scrutinio climaterico è bandito, porta germi, sensazioni organiche. Degli uomini che lavorano in quelle cupole non sappiamo niente, non riusciamo a vedere.

Arriva un carico di manzo. Porta con sé il dolore mammario, l’estirpazione filiale. La cosa più vicina allo squartamento d’una croce: nei segni levigati delle lame, delle catene, dei nastri trasportatori si annidano, incapsulate in sacche virulente, le storie di bestie scelte per la macellazione. Ma sono storie lontane: ora che l’interezza del corpo non c’è più è possibile perdersi in frantumi. È possibile, ora, darsi all’ozio della non-interezza. Chi guarda questo carico che arriva, oltre alle solite telecamere di sorveglianza? Chi assiste, in persona, all’evento? A chi possiamo chiedere cosa sta accadendo, dove sono condotti i pezzi di carne per farne macinato, fette scelte, per allungare la pappa cronologica della separazione dalla madre. Il seno della madre. Le bocce infanti dei vitelli uccisi. Il loro essere lì, per noi. Gli occhi che guarderanno, chi mai saranno, dovranno dire di essere i destinatari divini dell’ecatombe. La salvazione divinata in un codice a barre, estrapolata dalla lunga e fumante linea conservativa di bestie covate nel culto della morte. Nutrite per la morte, per la vita. S’incendiano le vie del pensiero che portano agli esemplari d’infante, che si fronteggiano: si guardano nella reciproca inconsapevolezza. Sono due bambini, d’altre specie. Sono l’umano e il non-umano, la mutazione dell’uno nella covata dell’altro. Si sorvegliano dalle placente invisibili della Terra, nella crosta morbida che li contiene e li separa, che li pone a distanze d’anni luce, che pure buca l’humus cosmico per lasciare che quegli sguardi, che le tracce disposte e separate di fotoni giungano da un occhio all’altro. Cosa hanno da dirsi? La reciproca vicinanza? La distanza indifferente della mitosi biografica, che ha costretto l’uno in una privazione estrema di cura, d’amore, di biologico accesso di nutrizione e l’altro l’ha proiettato in una culla soffice di bambagia e sguardi, attenzioni. Scatta il relè del nervo ottico per impedire l’intrusione nelle camere di morte, nei mucchi di carne macellata esposta alla paura dei morituri, nella mescolanza di acciaio, grasso per motori, olio, lame rotanti impiastricciate di sangue rappreso, bolliture, scuoiature, seghe.

E questa mattina, nell’esposizione totale di cibo che sembra imbalsamato, come quei papi che vengono esposti ai baci dei pellegrini, di gente che viene dai deserti del mondo solo per un bacio, emerge un uomo. È il sacro del cibo, la nutrizione elevata a monumento, il nostro pane quotidiano ritornato carne e fattosi pesce. È tutto quello che rivive a 4 gradi Celsius, un esperimento d’alchimia che si ripete giorno dopo giorno. Come il corpo ibernato di Walt Disney. Nei sarcofagi della grande distribuzione, tra neon rosa-azzurrini, dove vanno alla deriva pezzi d’animali e verdure, tra horror estremo e oggetti coreografici, guarnizioni da tavola e da musical, balletti colorati di pomodori e verdure, ecatombi bestiali risorge un uomo. È stato carne incidentata, guasta, triturata e danneggiata: è stata la «tragica fatalità» di qualche mese prima, di qualche anno prima, dimenticato: proviene dalla filiera corta dei passi lungo il limes della libertà. Ha solcato le strade bianche e boscose, ha traversato i segni intangibili della sorveglianza nel gelo e nei container. Ha lavorato con i guanti, gli stivali, le tute e le cannule per irrigare i fiumi di sangue animale e poi è caduto, insieme alla carne da macello, nel macello, nel mattatoio, nella triturazione h24 ed è stato fatto hamburger alle erbette, wurstel di puro suino, animelle e frattaglie.

Ma ora il corpo soggiace alla forza gravitazionale del proprio ri-aggregarsi. Le membra ricompaiono linde, mondate dal cellophane e dalla condensa del freon. Risale dalla cripta trasparente al centro della sala piastrellata, in mezzo alla spesa del sabato mattina, riflesso negli occhi dei padri con i bimbi nei carrelli. Ha il corpo brunito e nudo, quasi glabro eccetto una piccola macchia di peluria, come pigmento, sul torace. Ha una rada barba sulle gote e sotto il naso, i capelli neri, le sopracciglia sottili. È completamente nudo, viene a portare in tournée il miracolo portatile della propria risurrezione, nell’invisibile teatro che ricompone l’infranto.

Ida Travi: Muscèt parla col cane

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«Se lavorate per il presente il vostro lavoro resterà insignificante.»

Muscèt parla col cane, il “libro che s’era perduto” di Ida Travi è nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

( i cugini del secolo scorso )

I cugini del secolo scorso, i tuoi, i miei cugini

e noi stessi dormiamo ancora all’ombra della pietra

come se fosse questo il sogno, come se fosse

ancora saldo il tetto della casa

 

– va’, dillo al bambino –

 

La grata si alzerà come una fiamma

per Zet, per Ur, per Van e anche Katarina

per tutti gli avi, per i discendenti

 

Un giorno il bambino si alzerà da terra

e nel buio parlerà: voi avi, voi discendenti

su per la scala, su.

 

***

 

(  la vecchia è entrata )

 

 La vecchia è entrata

mi ha fatto la lezione:

 

sette giri fa il tempo quando torna a casa

sette le mani che aprono la porta

 

sette sono i secoli, sette i millenni

sette sono i giorni, qui nell’acqua, qui nel fuoco

 

noi dormiamo sulla branda

– contro il muro – siamo in tre

 

io sono Muscèt, e tu sei il cane

e lui è il bambino, poveretto, poveretto…

 

 

( io rifiutavo )

 

Io rifiutavo l’insegnamento, Rot

perché volevo parlare con i morti

volevo solo parlare con la ruggine

 

Questa è la casa del morto

  • diceva la ruggine –

questa è la casa del tempestato

 

Avevo la chiave in tasca, è vero

tenevo allacciato il grembiule, è vero

tenevo le mani sopra la testa

così si vedeva la penitenza

 

Sono Muscèt, – dicevo – sarò Muscèt

fino alla prossima era

fino a quando scenderanno le valanghe

e i morti finalmente torneranno qui

a riprendersi la pala, che nera, Rot

la pala, com’è nera…

 

 

 

La salvezza non viene dalla Storia

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di Davide Orecchio

ACHILLE
Meglio quel tempo che non c’era l’Ade. Allora andavamo tra boschi e torrenti e, lavato il sudore, eravamo ragazzi. Allora ogni gesto, ogni cenno era un gioco. Eravamo ricordo e nessuno sapeva. Avevamo del coraggio? Non so. Non importa. So che sul monte del centauro era l’estate, era l’inverno, era tutta la vita. Eravamo immortali.

PATROCLO
Ma poi venne il peggio. Venne il rischio e la morte. E allora noi fummo guerrieri.

[…]

EDIPO
E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa.

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò

Io, figuriamoci, io, non so come né quando finirà questa terribile guerra, non ho idea di come alleviare le sofferenze che gli ucraini, invasi dai russi, patiscono, sono del tutto impotente, sono impotente persino di fronte alla fragilità di una signora ucraina che, al mio fianco, alla manifestazione per la pace di Roma, non smette di piangere, piange più forte delle parole pronunciate dal palco, più forte degli appelli al diritto e alla pace, più forte degli slogan contro Putin o contro la Nato, piange con tutta la forza che le offre il corpo, piange contro la guerra e contro la storia, eppure è inerme mentre un imbecille, col proprio smartphone, la fotografa.

Ma un’idea, ed entriamo nella seconda settimana dall’aggressione di Putin, me la sto facendo, e voi penserete che è un’idea sbagliata ma io, anche se è un’idea sbagliata, preferisco non tenerla per me, perché riguarda le parole che usiamo, i concetti che adoperiamo, la Storia che invochiamo di continuo per illustrare moventi, modelli, comportamenti, la storia peggiore, quella barbarica del secolo che abbiamo alle spalle, la storia delle guerre totali che adesso interroghiamo per trovare risposte, o che evochiamo con la leggerezza di apprendisti stregoni. 

Putin, calpestando ogni principio di civiltà, diritto e buon senso, ha aggredito l’Ucraina. I soldati muoiono, i civili muoiono, muoiono i bambini sotto i mortai. E intanto, le parole che scandiscono azioni e interpretazioni emergono da un lessico troppo inquietante. Pare che molti vogliano rivivere il peggiore dei mondi di ieri, o che siano talmente spaventati dal suo ritorno da, senza accorgersi, già aprirgli le porte: con le parole.

Putin ha detto di voler “denazificare” l’Ucraina, ha dichiarato guerra con questo slogan, precipitandoci nel 1945. Poi il “discorso” è proseguito. Titoli di giornali hanno evocato lo spettro di “un’altra Stalingrado” per l’assedio di Kiev, o il fallimento del “Blitzkrieg dei russi”. Analisti e storici hanno messo in guardia dal sottovalutare Putin, agitando analogie con l’Hitler degli anni Trenta, prima dell’epifania sterminatrice del Führer. Ma chi mai lo sottovaluta, Putin?, vorrei sapere, chi mai lo sottovaluta?

Politici e persone comuni hanno motivato l’armamento dell’Ucraina, approvato dai principali Parlamenti europei, evocando la Resistenza e i partigiani della Seconda guerra mondiale. 

E poi, un po’ di Churchill qui, un po’ di Chamberlain lì… 

È una guerra che si muove, e viene raccontata, come sotto dettato della storia. La storia detta le analisi, le virtù alle quali ispirarsi, le accuse reciproche. “Sei tu il nazista”. “No, il nazista sei tu”. Nessun villain sembra credibile, se non indossa una casacca del secolo scorso. È inevitabile? Mi risponderete che sì, è inevitabile, perché c’è l’Europa di mezzo, continente conformato sul sedimento di guerre e di morte.

Mi risponderete (e vi darò ragione) che, per capire il conflitto tra Russia e Ucraina, devi interrogare la storia che le accomuna e divide, dalla Rus’ di Kiev all’impero degli zar, dalle carestie ucraine degli anni Venti alla collettivizzazione forzata di Stalin, dal crollo dell’impero sovietico a oggi.

Mi risponderete che è una guerra tra eredi, una maledizione e non esistono altre parole per dirla. Ma, se queste parole sono inevitabili, vi rispondo io, allora siamo fregati, perché la fine è nota. 

Ecco, la mia idea è che, se continuiamo così, finirà molto male. Perché opereremo resurrezioni che solo i pazzi e i violenti desiderano. Riporteremo in vita il peggiore Frankenstein novecentesco. Accetteremo, agiremo e poi subiremo una storia di guerre che si vogliono ripetere. Allora si avvererà quanto scritto in quel libro bello e profetico, Cronorifugio di Georgi Gospodinov, e – mi ripeto – saremo tutti fregati. È esattamente il programma di Putin. Ma può essere il nostro?

L’uso delle parole, l’uso della storia… Lo so che può apparire un tema irrilevante dinanzi ai massacri quotidiani, alla carneficina da Mariupol a Kiev, e se così vi sembra vi chiedo scusa, e chiedo perdono a chi sta soffrendo. Eppure non riesco a togliermi dalla testa che, se dici “Hitler”, un giorno avrai Hitler, e se dici “guerra mondiale”, un giorno l’avrai. 

Non è che dobbiamo dimenticare la storia, fare finta che non ci sia stata, ignorarla o lenirne il ricordo come un brutto incubo. Sarebbe un errore anche più grave, per carità. Ma non possiamo nemmeno riesumarla, individuandone presunti pattern che assomigliano a destini ineluttabili. Non possiamo parlare solo con le parole di ieri. Quelle sono parole di tenebra e di morte. Dobbiamo ostinatamente cercare qualcosa di nuovo, per la salvezza dell’Ucraina, per la pace in Ucraina e per tutti noi. La soluzione appunto, la pace, la difesa di nuovi princìpi, il diritto alla vita, il diritto a non essere aggrediti, l’abrogazione della guerra, la diplomazia dei negoziati, qualcosa che si incarni in nuove parole, perché forse può ancora nascere un mondo nuovo, forse possono finire le repliche in tragedia, non in farsa, del vecchio mondo.

Guardate: la storia non insegna nulla a nessuno. Ma certo, se orienti le tue azioni nel presente, e le tue interpretazioni del presente, cercando ossessivamente modelli di comportamento nel passato, non sei tanto condannato per destino a ripetere la storia, quanto è tua intenzione precisa riviverla. È questo è troppo. Questo è il fallimento di un’umanità. Questo è colpevole.

In tempi di guerra la storia può essere cattiva maestra. Può essere deposito radioattivo di crimini e di paura, zona oscura, sentimento del passato che induce a scelte sbagliate. È avvenuto spesso, nel corso di grandi crisi e fratture storiche, che i protagonisti guardassero indietro a eventi simili, angosciati dal timore di ripetere errori di altri, e, quasi senza accorgersene, proprio in ragione di questa angoscia e di questa ossessione, che cedessero a una pulsione di replica, e che quegli errori li ripetessero. 

La storia è piena di linee Maginot e di accuse di bonapartismo.

Ma io non voglio che rinasca il mondo di ieri. Voglio un mondo nuovo che conosca la storia e, proprio per questo, se ne liberi.

Ammette la grande scrittrice Svetlana Aleksievič in una bella intervista al Corriere: “I miei libri si ostinano a non voler diventare storia. (…) La Russia torna sui suoi passi, cammina facendo dei giri”. 

Come fai ad aggiustare un mondo in guerra che “cammina facendo dei giri”? Se potessi saperlo, se solo potessi, ma non lo so, non lo so. Ma comincerò per quanto posso dalle parole; forse sono armi meno spuntate di quanto si creda.

Non riduciamoci di nuovo a schiavi del passato, una volta di troppo. Non pronunciamone le parole malate. Pretendiamo una storia nuova e diversa. La pace. La vita. E parole nuove per dirle.

Leòn – Anna Voltaggio

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Leòn

racconto inedito di Anna Voltaggio

Leòn si era svegliato con un terribile mal di denti e con la testa umida per il freddo. Era da circa un anno che prima uno, poi un altro, i denti avevano iniziato a guastarsi.

Non avendo medici di riferimento, un giorno aveva cercato su google “dentisti economici Milano” e trovato il numero del dott. Cognetti che alla prima visita gli era sembrato affidabile, così aveva iniziato con lui la cura.

Il termostato di casa segnava 13 gradi, e mentre tirava il piumone fino al mento e si alitava addosso, pensò che il mal di denti doveva essere iniziato durante la notte perché sentiva tutto un malessere depositato e ricordava un sogno veramente inquietante.

Nel sogno, una donna molto bella, con i capelli raccolti e un seno grande lo accarezzava con la dolcezza di una madre e gli parlava in un orecchio con una lingua sconosciuta e indecifrabile. Quelle carezze che in un primo momento lo avevano intorpidito diventavano poi più misteriose e intime, tanto da eccitarlo e accorciargli il respiro. A un certo punto la donna scioglieva i suoi capelli rossi, capelli folti e morbidi che gli erano sembrati una cascata di miele, tanto lunghi che finivano a toccare il pavimento, così che lui, sdraiato sulla chaise longue, cercava di non rimanerci impigliato mentre tentava di trovare la cerniera del vestito. Poi le braccia e anche le gambe di quella donna fatata diventavano sempre più lunghe, lunghe come i capelli, e l’abbraccio che lo eccitava si trasformava in una morsa dolorosa e insopportabile, lo avvinghiava fino a immobilizzarlo stringendo così violentemente che Leòn sentiva i suoi organi comprimersi e infine, il respiro fermarsi.

Si mise a cercare una bustina di oki nel fondo della borsa, sciolse il medicinale sotto la lingua e ripiombò sul letto pensando che avrebbe voluto chiamare Rachele e pregarla di tornare. Subito dopo avvertì in quell’idea un senso di catastrofe definitiva, e lasciò stare.

Alle 10 del mattino, a pancia sotto e con la guancia schiacciata sul cuscino per alleviare il dolore, Leòn non aveva ancora aperto le persiane e il freddo trattenuto dai muri della sua casa a piano terra e senza riscaldamento lo faceva sentire terribilmente solo.

Quella tana in cui viveva era il meglio che poteva permettersi. A Leòn, che si adattava bene, non dispiaceva neanche troppo, se non fosse stato per il freddo aguzzo.

Nei giorni in cui si metteva a fare bilanci si sentiva più vittima che colpevole. Si era occupato della sua vita semplicemente vivendola, senza essere rapace ma anche senza essere, in fin dei conti, uno sprovveduto.

Non era nato nella povertà e non era stato neanche particolarmente maldestro nella gestione economica,

Aveva studiato per un po’, frequentato i centri sociali e poi gli ambienti stimolanti della media borghesia colta. Non aveva preso la laurea ma aveva seguito i corsi di una scuola di scrittura con la vaga idea di voler diventare scrittore.

Alla fine aveva trovato uno spazio onorevole come collaboratore di diverse testate giornalistiche. I suoi pezzi venivano pagati puntualmente e apprezzati dai direttori. Da un certo momento qualcosa era cambiato senza che si potesse fare niente; gli articoli che proponeva rimanevano senza risposta, le riviste con cui era più assiduo rimandavano alla prossima volta, le testate più piccole fallivano e si portavano nel fallimento pure i soldi di Leòn.

Dopo qualche mese che le risorse erano esaurite aveva smesso di pagare l’affitto del suo appartamento al terzo piano in via dei Transiti, accampando una scusa dopo l’altra e chiedendo prestiti alle agenzie di credito, finché un giorno era arrivato esecutivo l’ordine di sfratto.

Per attutire il colpo sua madre pagò gli arretrati ma gli aveva sottolineato, educatamente, che la pensione non avrebbe sostentato entrambi.

Leòn cominciò a vivere di lavoretti saltuari che spaziavano dalla correzione di bozze al montaggio dei palchi per i concerti, quando lo chiamava qualche amico che bazzicava l’ambiente.

Il fatto più penoso era stato vedere i suoi colleghi rimanere a galla, tanto da non capire se il problema fosse la crisi economica, i tempi nuovi, oppure se, semplicemente, non scriveva più niente di interessante.

Per qualche ragione Leòn faceva coincidere il momento in cui aveva iniziato a precipitare all’arrivo di Rachele nella sua vita. Per lui Rachele rappresentava la linea tra un prima e un dopo.

– Buongiorno, scusi l’urgenza. Ho un dolore fortissimo, credo a un molare. Ha modo di inserirmi in giornata?

– Buongiorno Leòn, venga a mezzogiorno.

Fece un respiro profondo per trovare la forza di tirarsi su.

Usò il solito trucco e si fece venire in mente Henry Miller che per metà della sua vita aveva arrancato senza un soldo, Edgar Allan Poe morto di stenti nella solitudine più cupa. Così in compagnia si sollevava l’umore.

Come chiunque scrive Leòn aveva il vizio dello sguardo e sul tram numero 3 che lo portava verso lo studio del dentista osservava due ragazze che avevano marinato la scuola e consultavano il cellulare. Non c’era neanche una traccia di sofferenza nei loro occhi, avevano le unghie colorate e appuntite per gioco.

Avrebbe voluto dire loro di stare attente, di non perdersi di vista, che basta un attimo e tutto evapora.

Dopo questo pensiero si era sentito davvero patetico, così aveva spostato lo sguardo e trovato un vecchio signore dall’aspetto stravagante seduto da solo in fondo al tram. Indossava un completo bianco con il fazzoletto damascato che sporgeva dal taschino, una mano reggeva il bastone di legno col pomello in argento. Pensò che fosse talmente fuori contesto che gli venne il dubbio di vederlo solo lui.

Arrivò in via dei Caroncelli 66.

Davanti al portone accese una sigaretta e seguì la spirale di fumo nell’aria, fin dove si vedeva. Lo sguardo rivolto verso l’alto si accorse di un gatto nero appollaiato sul davanzale della finestra con la coda che dondolava lenta nel vuoto, il gatto schiuse per un attimo gli occhi e fissò Leòn.

Il dentista, Miro Cognetti, lavorava ai piani bassi di un palazzo signorile. Una volta entrati dal portone, anziché prendere l’ascensore, si dovevano scendere due rampe delle scale collocate dietro il gabbiotto della portiera. La portiera era la signora Corvino e in effetti ricordava un corvo, con i capelli lisci e molto unti, tinti di un nero innaturale, il naso aquilino e lo sguardo sempre sospettoso, come se chiunque varcasse la soglia potesse essere un potenziale pericolo.

Leòn sperava sempre di non incontrarla, ma la signora Corvino se anche non era seduta oltre il vetro del gabbiotto, spuntava da dietro una colonna o se ne stava in cima alle scale come di vedetta.

– Buongiorno

– Dove deve andare?

– Dal dottor Cognetti, ci vediamo ogni mese – disse Leòn sorridendo nel tentativo di instaurare un rapporto più rassicurante

– Deve scendere di sotto, per due rampe, poi in fondo al corridoio

– A destra? – chiese con stizza

– A sinistra.

Mentre scendeva le scale si liberò della giacca perché lo sbalzo di temperatura tra l’esterno e l’interno era quasi insopportabile. La targhetta sulla porta riportava la scritta secca dott. Miro Cognetti

Leòn suonò il campanello.

Si era fatto l’idea che Cognetti avesse pressappoco la sua stessa età o comunque non sopra i cinquanta. Lo aveva sempre visto in camice e con la mascherina chirurgica tanto che per strada non lo avrebbe riconosciuto, ma la sua voce nitida, quasi vellutata, a Leòn suonava sempre confortante e familiare.

L’odore di disinfettante prendeva tutto il corridoio.

Nonostante non provasse un piacere particolare nell’andare dal dentista doveva ammettere che lì si sentiva al riparo dal resto della sua vita. Una specie di sottomondo in cui il tempo era sospeso per un’ora o due, che in certi casi secondo Leòn, era sufficiente.

Ancora sul pianerottolo gli venne in mente un ricordo sollecitato da quell’esalazione di medicinale intensa e probabilmente a base di chiodi di garofano. Nel suo ricordo, Rachele sta preparando una zuppa. Lui è in piedi nel salotto e cerca un cd dei velvet underground perché gli piace sentirla cantare con la voce di Nico. A un certo punto Rachele gli fa una domanda strana:

– Se ti chiedessero di vendere l’anima per ottenere quello che vuoi nella vita, lo faresti?

– Vendere l’anima a chi? Al diavolo?

– Eh, al diavolo.

– Non sono sicuro che la mia anima varrebbe tanto

– Dico davvero. Lo faresti?

– Direi di no.

– Se ti chiedessi di venire in un posto con me, un posto dove c’è gente che venderebbe l’anima al diavolo, ci verresti?

– Che posto?

– Un posto di perdizione.

– Perché vorresti andare in un posto del genere?

– Ho paura che altrimenti non riusciremo ad essere felici – dice. E poi si avvicina finché i loro corpi non combaciano.

Leòn fa una risatina nervosa.

– Ma poi ne usciremmo vivi e con l’anima?

– Dipende da noi.

Leòn capisce con chiarezza quello che Rachele sta dicendo. Le prende una mano e intreccia le dita alle sue.

– Con te potrei fare qualsiasi cosa – dice.

Il dottor Cognetti aprì la porta.

Era nella sua solita divisa bianca, i guanti in lattice e la mascherina che gli copriva metà del viso, i suoi occhi piccoli e allungati di un colore indefinito tra il marrone e il grigio, le sopracciglia che sembravano disegnate da un pittore fiammingo.

– Mi dia dieci minuti Leòn e la faccio entrare.

Leòn lo guardò percorrere il corridoio e sparire nella stanza in fondo.

La sala d’attesa era piccola e i termosifoni sovradimensionati, il caldo gli sembrò malsano e gli fece sentire il bisogno di acqua fresca. Aveva sempre trovato bizzarro che al posto delle pubblicità sui denti sani o i dentifrici, nello studio di Miro Cognetti erano appese stampe di fumetti storici degli anni ’70 e ’80.

Valentina di Guido Crepax occupava lo spazio maggiore, in primo piano nei riquadri, dettagli di lei, le labbra, i capelli, un ginocchio. Di fronte, un manifesto di Ranxerox che tiene stretta al fianco la sua piccola e tossica, Lubna. Da quella posizione non si vedeva ma verso la fine del corridoio c’era anche una tavola di Moebius.

Il cellulare, due piani sottoterra, non prendeva e non c’era nessuna rivista da sfogliare.

Leòn si alzò dalla poltroncina e cominciò a passeggiare nei pochi metri quadri a disposizione. Nessun altro paziente in attesa, nessuna segretaria al telefono. Leòn fece caso, per la prima volta, che nello studio dentistico di Cognetti non aveva mai incrociato anima viva a parte Cognetti stesso.

Pensò che probabilmente era per questo che le sue tariffe restavano tanto economiche.

Continuò a camminare avanti e indietro fino a spingersi, dopo un po’, all’inizio del corridoio dove a destra era piazzata una libreria semivuota, con qualche bigliettino da visita su uno scaffale e alcuni raccoglitori che riportavano l’etichetta con l’anno in corso.

Leòn fissò l’attenzione su un particolare che non aveva mai notato prima, una piccola teca incastonata in fondo a uno dei ripiani che incorniciava il primo numero di un vecchio fumetto di Milo Manara, Il gioco, che lui comprava quando era un ragazzo.

Il dente stava ricominciando a pulsare e Leòn sentiva il dolore arrivare fino all’orecchio e all’occhio sinistro. Pensò alla notte in cui andarono alla festa. Aveva lo stesso identico dolore ai denti e per smorzarlo, prima di uscire, aveva bevuto troppa vodka.

La guardò salire in macchina, il vestito era elegante e così corto che si vedeva il pizzo delle autoreggenti quando era seduta, lo eccitava vederla accanto a sé, preparata per un’iniziazione.

In macchina si erano baciati a lungo, carichi di un’euforia luminosa e ferina, lei disse che quell’esperienza li avrebbe uniti definitivamente, e poi aggiunse:

– È un gioco molto serio.

– Sei la donna che aspettavo da sempre – aveva detto lui.

Aprì la porta un uomo alto, che doveva essere il padrone di casa perché disse che era felice che avessero accettato l’invito. Indossava un completo bianco e una maschera nera che copriva metà del viso. Leòn lo trovò eccessivo ma non ebbe il tempo di pensarci troppo.

Rachele era entrata come se non fosse particolarmente intimidita e sulla porta si erano guardati con un sorriso pieno d’amore e d’intesa.

L’aveva seguita senza capire esattamente dentro quali incognite si stava muovendo e il dolore al dente combinato alla vodka gli faceva vedere leggermente sfocato.

Guidato da un’esaltazione nuova, che controllava a fatica, prese una delle maschere nere a disposizione degli ospiti incolonnate su un mobiletto déco.

Non c’era molta gente, almeno gli sembrava. Le tre donne nella stanza erano eccentriche e quasi nude se non per qualche accessorio. Una di loro indossava un collare di velluto e sandali dai tacchi così alti da superare l’altezza di Leòn. Si avvicinò a lui con confidenza, sistemandogli la maschera che aveva messo storta e non gli lasciava vedere bene da un occhio. Rise con una certa tenerezza a un centimetro dalla sua bocca e poi lo baciò.

Avvertì un senso di vertigine e la stanza gli sembrò grande in modo smisurato, il profumo zuccherato di lei lo portò d’istinto a trattenerla quando quel bacio si era interrotto. Sentì il suo seno nudo schiacciarsi sul petto.

Si lasciò condurre per mano in una stanza piccola e laterale. Solo dopo diversi minuti, non avrebbe saputo dire quanti tanto era sopraffatto dall’alcol, Leòn si fermò di colpo chiedendosi dove poteva essere Rachele, e con chi.

Sentì un vuoto comprimere lo stomaco immaginando il suo vestito sollevato. Tornò nella stanza principale lasciando la donna sul divano senza dire una parola.

Nella stanza fissò la coppia distesa sulla chaise longue e poi girò lo sguardo più volte. Non la trovava.

S’addentrò nella casa che adesso gli sembrava piena di insidie.

Guardò dentro una camera da letto e aspettò fuori dal bagno chiuso a chiave ma pochi istanti dopo uscì un uomo scusandosi per l’attesa. Non era da nessuna parte.

Tornò ancora nella prima stanza con l’aria persa e affannata, si tolse la mascherina e la lasciò cadere per terra. Rimase sospeso in un punto qualsiasi e ripercorse con lo sguardo ogni angolo, finché l’uomo con il completo bianco seduto su una poltrona, con le gambe accavallate e una sigaretta accesa, gli afferrò il polso.

– È andata via – disse.

– Chi?

– La donna che sta cercando.

Intanto era passato un quarto d’ora e Leòn, stanco di aspettare Cognetti, cercava di carpire qualche rumore ma non sentiva nulla.

Le tre porte che davano sul corridoio, due a destra e una a sinistra erano come sempre chiuse. Non sapendo più cosa fare si avvicinò alla prima e accostò l’orecchio per sentire se c’era qualcuno. Poi lentamente abbassò la maniglia e mise il viso nello spiraglio aperto. Rimase sconcertato nel vedere un ambiente che non aveva niente a che fare con lo studio medico di un dentista.

Aprì completamente la porta e mosse alcuni passi dentro la stanza.

L’unica spiegazione plausibile di ritrovarsi in un comune appartamento era pensare che Cognetti, come usano fare gli psicologi, aveva deciso di allestire lo studio medico in una parte della casa in cui abitava. Ci volle qualche momento prima che cominciasse a riconoscere alcuni elementi e dettagli dell’arredo.

Non appena mise a fuoco, il suo sconcerto aumentò fino a farlo agitare e il cuore prese a battere così violentemente da farlo indietreggiare come davanti a un fantasma.

Quando fu seduto sulla poltrona, mentre Miro Cognetti era di spalle impegnato a spacchettare gli strumenti sterilizzati, Leòn si sentiva molto debole e con un filo di voce chiese:

– Ha sempre saputo chi ero?

– Sì – disse lui.

Poi Leòn aprì la bocca e si lasciò curare.


Anna Voltaggio è nata a Palermo nel 1980. Si occupa di promozione e formazione per l’editoria. È co-fondatrice del collettivo editoriale Clementine. Vive a Roma.

Dal “Diario da Kiev” di Ol’ga Bagrina

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Gli estratti che seguono sono stati scritti da Ol’ga Bagrina (1982), poeta, narratrice e traduttrice che è nata e vive a Kiev. Si tratta delle primissime impressioni della guerra pubblicate da Bagrina in russo sulla propria pagina Facebook. Nel frattempo il “Diario da Kiev”, montaggio dei post scritti in questi dieci giorni, è stato tradotto in inglese e in svedese.
La traduzione è a cura di Giulia Marcucci ed è stata pubblicata nella sezione “Voci contro la guerra” del sito dell’Università per Stranieri di Siena; qui si possono leggere altri scritti e testimonianze su quanto sta accadendo in questi giorni [o.t.]

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di Ol’ga Bagrina
traduzione di Giulia Marcucci

A scuola abbiamo tutti letto Tjutčev,
“beato chi ha visitato questo mondo nei suoi minuti fatali”,
ma per noi erano solo parole, non mi sarei mai immaginata
che nel nostro quartiere ci sarebbero stati spari e truppe di soldati.

 

25.02.2022, ore 02:08

Abbiamo spento la luce, non riusciamo a dormire. Non sapremmo dove scappare e nemmeno ne abbiamo i mezzi. So che durante un bombardamento il luogo più sicuro è il corridoio, ma serve solo a proteggersi dalle schegge. Non vorrei scendere nel rifugio antiaereo, soffro di claustrofobia. In questo istante ho abbracciato la mamma e le ho detto che le voglio tantissimo bene. E dico la stessa cosa anche a tutti voi.

25.02.2022, ore 8:43

Di notte è stato terribile. Le esplosioni. Ora sono riuscita a dormire un po’; abbiamo preso le nostre cose, nel caso suonasse l’allarme. È la materializzazione di un incubo, per cui razionalmente sai come devi fare e dove scappare, ma si alternano solo due stati d’animo: il panico e lo stupore. E non puoi farci niente. È terribile non sapere che cosa succederà. Fino all’ultimo non credevo che sarebbe accaduto tutto questo. La mamma sarebbe andata in ferie e avevamo in programma di mangiare il sushi e di guardarci insieme una serie. Ho due libri da tradurre, e ora invece il mondo sta andando in frantumi. Ieri sera ho abbracciato la mamma e le ho detto che le voglio tantissimo bene e che non sappiamo perché siamo qui e perché il mondo è così, e perché ci siamo capitati proprio ora (siamo gente normale, completamente impreparata alla guerra). Di nuovo le esplosioni.

25.02.2022, ore 10:57

Tra le notizie ieri ho letto un confronto con il ’68 in Cecoslovacchia. La situazione, nel suo insieme, non è di certo paragonabile; mia mamma aveva cinque anni, mentre suo fratello maggiore stava facendo il servizio militare e lo avevano mandato in Cecoslovacchia sui carri armati. Raccontava che faceva finta di sparare ma non sparava, poi proprio davanti ai suoi occhi hanno ucciso un suo compagno e allora il fratello della mamma è andato su tutte le furie e anche lui ha cominciato a sparare. I cechi stavano lungo la strada quando passavano i carri armati e dicevano: «Andate via, che cosa siete venuti a fare qui?»; nonna Katja, a sentire questo racconto, si è indignata: perché poi non sarebbero dovuti essere contenti dell’arrivo delle truppe sovietiche, lei proprio non lo capiva. Il fratello della mamma vive a Volodarka, ci ha chiesto di andare da lui, ma noi non ci siamo andati e siamo restati a Kiev. Stiamo pensando al rifugio antiaereo e alla valeriana, chissà se farà effetto dopo la crisi di panico che mi ha colpita oggi alle 6 del mattino.

Incursione nella Romagna hippy (1969)

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di Mauro Baldrati

Il festino era partito bene. C’erano alcuni ragazzi delle panchine, Dennis, due ragazze hippy di Faenza capitate per caso a Mezzaluna, e la Cammellona, con la minigonna e gli stivali, i lunghi capelli castani che incorniciano il bel viso ovale. La chiamano in quel modo perché cammina dinoccolata e ha un paio di gambe lunghissime. Ogni volta che sfila nella piazza del paese c’è sempre qualcuno che la indica: “Ohéi, guardate che c’è la Cammellona, la Cammellona!” e tutti la guardano con gli occhi sgranati, questa gigantessa magra e flessibile come lo stelo di un fiore. I ragazzi le riempivano di attenzioni, mentre io mi davo da fare coi dischi e preparavo le bevande.
A un certo punto mi siedo sul pavimento e  sento Dennis che dice, rivolto alla Cammellona: “Bah, Jack Kerouac non è poi questo gran scrittore che dicono.”
L’ho guardato con gli occhi sgranati per la sorpresa. Ma che diavolo stava dicendo? Abbiamo parlato per ore, per giorni della grandezza di Kerouac, delle emozioni che esprime che si identificano con le nostre. Mi sono avvicinato, sicuro di avere frainteso il senso delle sue parole. Macché, senza degnarmi di uno sguardo ha continuato: “Molte sue pagine sono pura confusione di ubriaco, e lo stile non è certo la cornucopia dell’innovazione.” Ha detto proprio così, la cornucopia. A questo punto non ho avuto dubbi: quel traditore opportunista diceva quelle sciocchezze per farsi bello agli occhi della Cammellona. Dennis è molto bravo a parlare, assume dei toni dottorali che incantano l’interlocutore. E poi è furbo, preparato, sarcastico. Nessuno riesce a tenergli testa. Ma abiurare in quel modo Jack! E a casa mia poi! Non potevo tollerarlo. Tutti sanno che Jack è il mio scrittore preferito, è mio fratello, il mio protettore. Come si permetteva Dennis di parlare in quel modo in mia presenza? Sono intervenuto, cercando di mantenere un tono calmo, distaccato: ho detto che Kerouac è un maestro, che la sua tristezza è la nostra tristezza; come nessun altro ha espresso il senso di vuoto che ci circonda.
Dennis mi ha guardato con due odiosi occhi sornioni e ha detto: “Uhm, non è altro che la visione tragica dell’alcolista, che quando si alza al mattino dopo la sbronza vede il mondo come un enorme teatro del disastro.”
Quel furbastro! La frase enorme teatro del disastro l’ha letta in un articolo riferita a Céline, e la utilizzava per Kerouac! Mi sono innervosito, l’ho aggredito con una voce che ho sentito stridula, insicura. “Ma cosa dici!” ho esclamato. La Cammellona mi ha guardato, intuivo le palpebre che sbattevano dietro le lenti viola. Dennis se ne stava seduto come un guru che ascolta le domande sciocche dell’allievo, lisciandosi con un a mano la barbetta bionda da capra.
“Ma quale alcolista! Kerouac… insomma!”
Mi è salita una rabbia che mi ha accecato. Ho gridato, sono balzato in piedi.
“Kerouac è grandissimo! Lui… la sua scrittura è un flusso continuo di rabbia, sofferenza, gioia, e…”
“Bah” mi ha interrotto Dennis, calmissimo. “I cosiddetti flussi kerouachiani sono nulla in confronto a Joyce. Dico, l’hai letto il monologo finale dell’Ulisse?”
Mi sono irrigidito, colto alla sorpresa da quella domanda a bruciapelo. Cosa c’entrava Joyce? Non contento di quel colpo basso Dennis ha detto: “Per quanto la rabbia il dolore eccetera Kerouac è acqua fresca di fronte a quella teppa di Céline.”
Una pugnalata alle spalle. Potevo forse sminuire il sommo Céline? E poi, che senso hanno questi confronti? Ogni scrittore è unico, esprime il suo mondo interiore in cui noi troviamo riflesse parti del nostro mondo interiore. Ero schiumante di rabbia, ho gridato un “vaffà” e sono andato a trafficare col giradischi. Ma ho fatto saltare la puntina, così sono uscito e sono andato in bagno.
Quel vigliacco traditore. Venire a dire quelle stupidaggini qui, a casa mia! Come poteva mancarmi di rispetto in quel modo?
Mi sono lavato la faccia con acqua fredda e sono rientrato in camera. Avevano abbassato le luci, e sul piatto Jim Morrison gridava: “Padre? Sì, figlio? Voglio ucciderti!”
Le ragazze erano sedute sul pavimento, rivolte verso Dennis, che aveva incrociato le gambe nella posizione del semi loto. La Cammellona gli era di fronte. L’ho sentito che diceva: “Per quanto riguarda la prosodia devo dire che Pound…” Quando pronunciava il nome del poeta pazzo assumeva un tono solenne, Paaund, Paaund… e si lisciava la barba.
Situazione assolutamente insopportabile!
Che andasse a infangare Kerouac fuori da casa mia!
Ho acceso la luce, ho aperto la porta e ho detto: “Adesso basta, fuori!”
Tutti mi hanno guardato stupiti, le ragazze hanno ruotato le teste e hanno puntato su di me le lenti viola, azzurre, verdi. Dennis invece è rimasto impassibile, come se avesse previsto la mia reazione. Ho sentito in me qualcosa che schioccava come un colpo di frusta.
“Fuori, avete capito o no?”
Le ragazze sono state le prima ad alzarsi, mentre i ragazzi dicevano: “Insomma Jimi, maccheccacchio…”
Sono usciti tutti, ho sbattuto la porta alle loro spalle.
Ho messo il disco di Jimi e ho preso il basso. Ho di nuovo spento le luci, acceso il faretto e aperto lo sportello dell’armadio con lo specchio.
Ecco, stiamo partendo. C’è questo inizio in sordina, quasi incerto, qualche fraseggio con la chitarra e la voce e poi l’attacco dell’organo. Chi suona l’organo? Nel disco non c’è scritto, però abbiamo letto su Freak che è Steve Winwood, quel ragazzino prodigio. E al basso c’è addirittura il grande Jack Casady, il bassista dei Jefferson Airplane, che si alterna con Noel Redding. Sì, sono tutti con me, sono miei ospiti, miei amici, fanno la loro parte in questo straordinario concerto che sconvolgerà la storia della musica rock. Faccio partire la voce, canto con gli occhi chiusi, ci metto tutta la grinta che fa di me un cantante originalissimo, oltre che il chitarrista più poderoso e creativo che sia mai esistito. Ci metto la mia rabbia, che è la rabbia di tutti i giovani del mondo che rifiutano il dio denaro, la guerra, il razzismo. In platea ci sono molti giornalisti, le televisioni, c’è addirittura un inviato del Quotidiano del popolo di Pechino perché la mia musica non conosce frontiere, parla alle persone di ogni razza e lingua. Ci sono anche dei musicisti, Eric Clapton, i Rolling Stones al completo, B. B. King, Miles Davis, che di recente ha detto che io sono l’unico vero artista che proviene dal rock. E poi c’è lei, il mio amore: Julie Driscoll, la cantante più fantastica della galassia, la mia ragazza. E’ seduta in platea con le amiche, ma ogni tanto si alza per venire dietro al palco. Intuisco i suoi riccioli, la sua giacca coi disegni psichedelici, i pantaloni gialli a campana. E’ fiera di essere la mia ragazza,  ed io l’amo come non ho mai amato nessun’altra.
Quando sto per lanciarmi nell’assolo principale, col ritmo devastante dell’Experience che mi segue e l’organo che si insinua come un urlo tra le note della chitarra, succede qualcosa.
Tump tump tump!
Qualcuno bussa alla porta. Ho un attimo di sbandamento, l’assolo parte ma io sono fermo, sto uscendo di scena. Tump tump! Vedo davanti a me, riflessa nello specchio, l’immagine di un ragazzo con un vecchio basso a tracolla mentre la musica scivola via come acqua da una bottiglia mezza vuota.

 

NdR Questo testo è il secondo capitolo del romanzo “Un amore di Jimi”, appena pubblicato da Clown Bianco Edizioni

Mots-clés__Casa nera

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Casa nera
di sparajurij

Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du Temps  -> play

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[Forough Farrokhzad, La casa è nera, VO con sottotitoli in inglese]

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Da: Nadia Agustoni, [la casa è nera], Vydia Edizioni, 2021 (pp. 36, 68)

nella terra non arata
l’asse di legno a chiudere la casa
ricorda il mancare dei vivi
i lavandini bianchi —

la luce di questi giorni
per conoscere le ossa
scava dove la talpa
è il suo ricordo

e un tempo di polvere
va nel cielo, perché parli
qualunque voce
qualunque io.

[…]

a volte il pane è un altro silenzio diventa mangiare tenersi in piedi. uno sbaglio finire col vento. taglia via la radice spacca il ramo. i tronchi da soli non fanno niente. i fiori non verranno. sono parole col cielo.

il futuro dove il tempo è la foglia i nomi sentiti nel ricordo di chi va via. cartoncini al collo dei morti per la notte che non parli, per la terra sopra il dolore. questa domanda e questo silenzio sono soli. qui non pregano Iddio o un uomo, solo la parola rimasta indietro. così vivono quelli che vivono.

in un filo spinato si è liberi dal cuore e canta la bambina senza nome un fiocco rosso nei capelli e in mano le parole imparate a metà per dire il colore, l’albero, la finestra e come l’oro è meno dei fiori e i fiori sono la nostra casa.

ma nel magro dei cani torna la guerra. grandina sulla terra sconosciuta, sulla casa senza chiavi, sulla mano difesa. tutto il sangue è guardarsi.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Biancamaria Frabotta: “Velocità di fuga”

2

 

 

Fve ha recentemente ripubblicato Velocità di fuga,  romanzo di Biancamaria Frabotta uscito per la prima volta nel 1989. Alberto Moravia lo definì “autobiografia critica di un’intera generazione”.  Ospito qui un estratto dal libro, e un frammento della postfazione di Manuela Fraire. Ringrazio la casa editrice per la disponibilità.

 

***

 

Il mattino ha l’oro in bocca, si sa, ma non a Roma, né per gli aspiranti Inseparabili che non scendono al Gamelino se non a giorno fatto. Anche oggi sono arrivata troppo presto; il cancelletto della nostra cantina è ancora chiuso e al di là delle grate di ferro non mi pare di vedere nessuno.

Elvira continua a ripetermi che dovrei imparare a farmi aspettare, ma io non sono abituata a esercitare il meschino potere del ritardo; anche perché il potere, quello vero, non si patteggia. Lo si può soltanto sognare fortuito e divino come il capriccio di un fanciullo.

Dalla scuola che sovrasta il Gamelino con la sua scura mole annerita dallo smog e dal tempo i ragazzi escono urlando e spintonandosi come possono, con i gomiti, le cartelle, le righe inastate sopra le teste in un beffardo alzabandiera. Sono talmente eccitati dalla piena di libertà che li attende sulla strada che divorerebbero a spicchi l’erta collina dell’Esquilino.

A stento trascino sotto il braccio un gran fascio di giornali; dovrei vergognarmene alla mia età, ma questa esuberanza cartacea ha uno scopo puramente seduttivo. Infatti non ho ancora abbandonato la speranza di convincere Eugenio che nessuno come me potrebbe mettere ordine in quei caotici album nei quali, con la pazienza di un antico amanuense lui raccoglie ritagli, recensioni, spigolature, insomma tutti quegli affascinanti scampoletti del sapere che, altrimenti, sarebbero destinati all’effimera vita di una giornata, di una settimana. Ma anche questo trucco non so quanto resisterà alla prova del tempo. Non ho affatto l’anima del collezionista e nemmeno da bambina, se la memoria non mi inganna, sono mai riuscita a completare un album di figurine. Bastava un vuoto, una perdita, una qualsiasi distrazione e andava sprecata la fatica di mesi; la Serie si esauriva e io, già da allora incapace di fare scambio di un bene di consumo, rimanevo smarrita a contemplare le lacune della mia volontà.

Una ragazzina che mastica un bastoncino di liquirizia si volta a guardarmi, incuriosita. Che penserà di questa corrucciata passante aggrappata con tutta la forza dei suoi polsi alle grate di un cancello chiuso? Penserà che voglio infilarmi di soppiatto dove non avrei diritto di entrare. Che abbia ragione? Un’improvvisa irritazione mi fa scattare verso di lei nel caso mi stia ancora spiando, ma la ragazza ora è ferma al semaforo completamente dimentica di me. Non mi resta che aspettare, le spalle appoggiate al muro, il corpo che oscilla su una gamba sola. Con l’altra gamba puntello il muro. O forse no: è il muro che sostiene me. Con la mano libera dai giornali giocherello con il grosso lucchetto del cancello. Chi ha la chiave di quell’ingresso ne potrebbe spalancare di doppi fondi dentro di me!

Prima ancora di vederli riconosco Eugenio dalla voce; quando discute di qualcosa che l’appassiona arrotonda la erre come se sotto la lingua gli rotolasse una pallina di piombo. Beniamino gli cammina accanto senza forzarne l’andatura. In mezzo agli studenti che ora si sono sparpagliati sul marciapiede come piccioni in cerca di becchime appaiono insieme, il capo un po’ chino sul petto, le braccia dietro la schiena, scostati ma vicini. Sono così magri e spediti che invece che i corpi in carne e ossa mi pare di veder avanzare le loro anime nascoste in panni leggeri. Anche Beniamino si mantiene snello nonostante i quarant’anni incipienti. Solo sul petto scoperto ogni tanto luccica al sole qualche pelo bianco.

Con meticolosa calma Eugenio sfila il lucchetto dal grosso anello.

“Perché non vuoi una copia della chiave?”

“Preferisco di no. Ho già avuto troppi fastidi in passato per il Gamelino”.

“In questo caso però vorrei conservarla solo io. Sai che su Fausto non ci si può fare affidamento”.

“Lo so, è sempre così fuori di testa. Tutto il giorno stravaccato su quei maledetti gradini di San Pietro in Vincoli”.

“In altri tempi uno come Fausto non si sarebbe ridotto così”.

“Altri tempi? Ma quali altri tempi?”

“Migliori di questi, senz’altro”.

“I tempi sono tutti uguali”, ribatte il giovane. “Tempi morti”.

Litigano così basso e fitto che ancora non si accorgono di me. Quando finalmente mi vedono Eugenio mi porge la sua mano esangue e sfuggente; non so mai se stringergliela o sfiorarla appena con le dita come fa lui con la mia. Prima o poi finirò per sollevarla verso la bocca quella pallida mano e baciargliela in punta di labbra. Beniamino invece mi dà una tale strizzata che l’anellino che porto all’anulare destro e che io stessa mi sono infilata fingendolo un dono di Eugenio mi si conficca nella carne.

“Io, la chiave del Gamelino, se ce l’avessi, saprei come usarla. Almeno vi aiuterei a fare un po’ di pulizia”, intervengo prima che cambino discorso. È una mia vana speranza quella di far entrare un po’ d’aria fresca, laggiù. Eugenio annuisce soprappensiero.

“Guarda che disastro qua dentro!”

Il primo raggio che filtra nella cantina dalla porta dischiusa infatti rivela uno sconfortante scenario: sotto l’ampia calotta del soffitto a volte, il nostro rifugio è veramente poco accogliente con la sua unica poltrona sfondata, le ragnatele che fluttuano a mezz’aria, la brandina disfatta e ricoperta alla meglio da un plaid a scacchi gialli e viola che non mi pare di aver mai notato prima. Oggi poi sembra peggio del solito: cicche dappertutto e sui libri, sui dischi, sulla macchina da scrivere di Eugenio un dito di calce grigiastra che smuove perfino il mio stomaco, figuriamoci il suo, così delicato e schifiltoso. Si vede che questo posto ce l’ha procurato Beniamino; veramente roba d’altri tempi.

“Usa il portacenere almeno”, grido nella direzione di Beniamino che ha appena gettato a terra una Nazionale ancora accesa e si accoccola sul bracciolo della poltrona come un naufrago aggrappato al suo relitto ancora vivo, mi sussurra Eugenio all’orecchio quando lui non ci sente, in virtù di sommesse risse inesplose.

“Per una volta ha ragione anche lei”, infatti aggiunge.

“E no! Ora non te la puoi mica prendere con me. Ormai questo è il tuo regno, d’accordo, ma io sono sempre tuo ospite, ricorda. E poi se non ti va, tuo padre è ricco. Fatti pagare l’affitto di una mansarda di lusso se vuoi vivere fra il lindo e il lustro”.

E subito si mette a ridere sotto i baffi che non ha più, dopo che gli abbiamo fatto notare che troppo pelo alla sua età invecchia. Del resto è appunto a quest’ora che comincia a assillarlo l’influsso del malefico Saturno sotto la cui costellazione dice di aver avuto la disgrazia di nascere, quindi non insiste. E poi lo sa che Eugenio, sotto sotto, gli riconosce il merito che fra tutti i nostri professori, per quanto scombuiato e un po’ stordito lui è il solo che ci permette di poter utilizzare un luogo come il Gamelino per una educazione sentimentale guadagnata a prezzi così stracciati.

 

Dalla Postfazione di Manuela Fraire

 

Un romanzo è un po’ come una persona che non si può smembrare prendendone solo le parti che ci piacciono e lasciando fuori quelle che ci dispiacciono.

Il romanzo è un modo, quello dell’autore, di guardare alla realtà e per quanto bizzarra la storia da esso narrata possa essere, esso ci dice della posizione che egli occupa rispetto a sé stesso e al suo intorno in quella fase della sua vita.

Per questo motivo il rischio di far dire all’autore ciò che non ha inteso dire rende il compito di chi interviene assai arduo. Il lettore è al riparo da questi rischi poiché abita il romanzo clandestinamente e così facendo fa la propria parte. Colui invece che scriverà a proposito del romanzo compirà sempre, anche se involontariamente, una violazione. La sua parola e non la sua fantasia entrerà in relazione con la parola dell’altro. E non si può dimenticare che tra parola e fantasia vi è uno scarto. Mentre l’una può cambiare forma con la stessa velocità con cui muta il soggetto, l’altra oppone al soggetto la propria resistenza al cambiamento e la propria perentoria consistenza.

Una storia di donna acre e commovente come lo può essere solo la vita di certi tipi di donne, quelle che cercano di camminare in bilico tra la femminilità melmosa delle madri e il desiderio di scoprirne una diversa, forse più attraente. Questa è la vicenda della quale si parla. La scommessa è quella di trovare la giusta distanza tra le fantasie attivate dall’intreccio e dai protagonisti e la curiosità che serve per interloquire con loro. Lo scarto è, in questo contesto, la distanza che permette di non confondersi con l’oggetto osservato e anche però di non perderlo di vista.

La protagonista del romanzo cerca sé stessa attraverso il tentativo di sfuggire alla presa allettante dell’amore di Elvira, la madre, e all’incertezza del rapporto con Eugenio. La scrittura notturna, dialogo appassionato con le scrittrici famose, è il luogo in cui l’inquietudine del corpo e il peso della mente raziocinante si combinano in un significato ammissibile. È il modo come la vita diurna scolpita crudamente dai fatti e quella notturna, dominio delle fantasie, approdano al tempo storico senza rimanere prigioniere del tempo cronologico e senza perdersi nell’atemporalità dell’inconscio.

Il passaggio da quel dialogo alla narrazione è talvolta brusco come certi risvegli e come quelli genera un momento di confusione tra ciò che esiste e ciò che abbiamo sognato con lo sconcerto che genera l’essere stranieri tra le cose che sappiamo razionalmente esserci familiari.

“Ebbene sì; sono stanca di ingurgitare mangime come un’oca all’ingrasso, forse è venuto il momento di restituire tutto quello che ho ingoiato, se non io un’altra, un’altra me stessa, magari, più generosa e più spericolata”; a queste parole, tratte dal dialogo con Djuna, fa seguito l’incontro con Olga, donna che ha vinto il bisogno dell’amore di un uomo. Durante questo incontro alle domande provocatorie di Olga la protagonista risponde: “Laggiù sono l’unica donna. E mi considerano quasi come uno di loro”. Il risveglio è qui segnato da una presenza femminile potente quanto lo è quella notturna di Djuna; solo gli esiti sono opposti. C’è altro becchime da ingurgitare.

Lo stesso può dirsi delle parole rivolte a Simone: “Per fortuna io non sono destinata a una vita da massaia”, in sequenza con l’incontro con Eugenio che dispone di lei secondo modalità squisitamente narcisistiche.

Risvegli bruschi, passaggi dalla fantasia alla realtà come vi fosse una cesura netta tra la notte il giorno, senza albe né tramonti. Luci crude, accecanti illuminano la scena diurna. Uomini che difendono una complicità omosessuale restituita al mondo come un’impresa in cui la storia se non del genere umano almeno della letteratura sembra essere in gioco.

Donne che oppongono all’impaccio della protagonista una disinvoltura e sicurezza che non ha nulla da invidiare alla arroganza carica di paura degli uomini.

[Continua in libreria…]

 

Ridicolizzare Putin

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di Edoardo Pisani

Ma che fare dunque con i nemici che ci attaccano?
Lev Tolstoj, da Ricredetevi!

Nel compendio a Storia della Russia di Nicholas V. Riasanovsky, Sergio Romano scrive che nei primi anni Novanta ci si domandava quali conseguenze avrebbe avuto la morte dell’Urss sulla situazione politica mondiale, mentre oggi – continua Romano – ci si chiede quali conseguenze potrebbe avere una sua rinascita. D’altra parte Vladimir Putin dice, in epigrafe a Limonov, il libro di Emmanuel Carrère: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore.” Intanto, mentre scrivo queste righe, le bombe russe devastano l’Ucraina e Kiev tenta di resistere agli attacchi; la Russia di Putin è in guerra. Volodymyr Zelensky, il presidente dell’Ucraina, chiede al mondo intero (e in special modo agli Stati Uniti e all’Unione Europea) di non lasciare solo il suo paese. I governi delle grandi potenze mondiali sanno che saranno giudicati dalla Storia per ciò che faranno o non faranno in questi giorni.

Quale demone conduce Vladimir Putin? In un libro che è al tempo stesso una biografia impossibile di Hitler e un’istantanea della sciagura storica e umana dell’Olocausto, Hitler, di Giuseppe Genna, si sostiene che Adolf Hitler non sia un uomo bensì un demone posseduto dal mostruoso lupo Fenrir, una non-persona che prescinde dal tempo e che è destinata a devastare l’umanità e a sovvertire la Storia. Si può essere in disaccordo con questa opinione (o visione) del Male, giacché Hitler è stato un uomo, appartenente alla nostra stessa specie, figlio della cultura europea e della prima guerra mondiale e del trattato di Versailles, e tuttavia anche Guido Ceronetti, a cui forse non sarebbe dispiaciuta la parte più “celaniana” di Hitler (Apocalisse con figure), ha insistito più volte sulla disumanità del Male, ad esempio scrivendo che Lenin era “l’inviato della Tenebra” (in Ti saluto mio secolo crudele) o che la “tristezza canina di Hitler nascondeva bene la sua dedizione completa al padrone infernale” (ne La vita apparente). Come Genna, Ceronetti credeva nei demoni; come Genna, Ceronetti raffrontava la poesia umana al male disumano.

Da quale demone è quindi guidato Vladimir Putin? Di sicuro l’invasione dell’Ucraina risponde a una situazione politica particolare: il ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan, la debolezza internazionale del presidente americano Joe Biden, il mondo in stallo per il Covid, la fine del mandato di Angela Merkel, l’ascesa economica e politica della Cina e dell’India, le prossime elezioni in Francia. Eppure all’improvviso appare chiaro che Putin preparava da anni questa guerra, sia politicamente che militarmente; i suoi toni di sfida sono rivolti non soltanto all’Occidente ma al mondo intero. Non bisogna intralciare i piani della Russia. Putin è pronto a tutto, anche a una guerra nucleare. L’Ucraina è una minaccia per la Russia e va “denazificata”.

Se non ci fosse stato Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, la guerra putiniana sarebbe stata più semplice. Invece Kiev ha resistito eroicamente per giorni, e resiste ancora. Le forze in campo sono impari; prima o poi – si teme – l’Ucraina cadrà. Nel frattempo però Zelensky ha insegnato al proprio popolo (e al popolo russo) il significato della parola speranza. Si spera infatti che un giorno la Russia sia libera dalla morsa di Putin. In un passo del Diario russo di Anna Politkovskaja c’è scritto: “È passato un anno dall’arresto di Chodorkovskij. Il potere non fa una piega. Nell’aorta potere-società c’è un embolo. Come ai tempi dell’Unione Sovietica. All’epoca l’anello di congiunzione tra potere e società era il KGB, che forniva al potere informazioni falsate sullo stato della società e che così facendo ha contribuito al declino dell’URSS. Anche oggi l’FSB falsifica le informazioni che propina alle alte sfere, e Putin giudica ostile ogni altra fonte. Speriamo che questa volta l’embolo ci metta meno di settant’anni.” Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno di Putin; da allora Chodorkovskij è in esilio, come Garri Kasparov, e molti oppositori di Putin sono stati o incarcerati o uccisi.

La parola, la letteratura, è forse vana contro l’orrido potere dei tiranni, perlomeno a breve termine: ora Kiev abbisogna di armi e uomini e non di parole e libri. Nondimeno cosa possiamo fare noi che non sappiamo né vogliamo imbracciare un mitra e che viviamo di libri e dunque di parole lette e amate e mai dimenticate? Nel finale di Sabato, un romanzo di Ian McEwan scritto quasi vent’anni fa, il protagonista guarda l’alba fuori dalla finestra e all’improvviso si figura un uomo simile a lui, un medico, cento anni prima, nel febbraio del 1903. “A questo gentiluomo edoardiano ci sarebbe da invidiare tutto quello che ancora non sapeva” scrive McEwan. “Se aveva figli giovani, poteva perderli nel giro di una dozzina d’anni, alla Somme. E a quanto ammontava il conteggio dei corpi, Hitler, Stalin, Mao? Cinquanta, cento milioni? A chi gli avesse descritto l’inferno a venire, o lo avesse messo in guardia, il buon dottore – gioviale figlio della prosperità e di decenni di pace – non avrebbe creduto. Dio ci scampi dagli utopisti, uomini pieni di zelo e sicuri verso l’ordine sociale perfetto. Eccoli di nuovo, totalitaristi sotto altre spoglie, innocui e isolati adesso, ma in costante crescita e pieni di rabbia e smaniosi di un ennesimo bagno di sangue.”

Il bagno di sangue è arrivato; ne seguiranno altri. Putin non è un lupo, benché sembri mosso da demoni oscuri, come Hitler o Stalin, e ha anzi un cuore umano, come scrive Emmanuel Carrère nella sezione finale di Limonov (e pure Hitler aveva un cuore); Putin però è soprattutto un bullo, un prepotente, come ha detto in questi giorni Fernando Aramburu. E i bulli – questo ce lo insegna Charlie Chaplin – vanno ridicolizzati. In Russia bisogna dimostrare che anche il re può essere nudo; spogliare Vladimir Putin delle sue vesti di gelido e invincibile uomo di stato (o dittatore) è l’unica maniera di affrontare e vincere il suo strapotere politico e bellico. La guerra continuerà. Il potere è disumano e la letteratura può fare poco per combatterlo, forse niente. Ma talvolta anche scrivere, come pensare, come dubitare, come raffrontarci al male nella vana speranza di estinguerlo, può essere utile.

 

L’educazione democratica e il falso progressismo pedagogico

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di Giovanni Carosotti

É molto probabile che l’ultimo libro di Christian Laval e Francis Vergne sulla scuola (Éducation démocratique, La Découverte, Paris 2021)  non venga tradotto in italiano, come già accaduto ad altri lavori dei due studiosi dedicati allo stesso tema. Se in effetti alcuni riferimenti richiamano lo specifico contesto francese, pure il quadro complessivo che ne emerge, storico-politico-culturale, è decisamente più comprensivo, e costituirebbe un punto di riferimento decisivo anche in Italia, per fare chiarezza non solo sul progetto reazionario e neoliberale che guida la politica di riforma della scuola da ormai troppo tempo, senza trovare alcuna reale opposizione neppure tra le forze progressiste,  ma soprattutto per individuare i giusti presupposti di una politica scolastica che il mondo della sinistra dovrebbe fare propria senza divisioni interne.

La scuola, oggi più che mai, è –secondo i due studiosi-  istituzione ormai devastata dai poteri economici, che intendono appropriarsi in toto del processo di trasmissione del sapere tra le generazioni, con l’intento di rendere senso comune quei principi del capitalismo neo liberale, destinati a perpetuare la diseguaglianza e a impedire che negli allievi si sviluppi la capacità di immaginare qualsiasi azione trasformativa.  Per contrapporsi a tale disegno risulta necessario proporre un paradigma radicalmente alternativo, quello dell’«educazione democratica».

Un paradigma il cui progetto è «superare il sistema capitalistico», per fondare una «democrazia sociale ed ecologica inedita». Il sistema capitalistico, nella sua radicale versione neo liberista, che ne rappresenta la forma concettualmente più pura, ha avuto esiti devastanti non solo per il destino del pianeta, ma per aver nel contempo provocato anche una regressione antropologica: «uno degli effetti tra i più tremendi della società dominata dal neocapitalismo, che si avrebbe torto a considerare secondario rispetto alla distruzione dell’ecosistema, è quello della deresponsabilizzazione dell’individuo nei riguardi della vita collettiva e dei doveri che essa comporta», poiché il capitalismo  è responsabile della «negazione assoluta dell’autolimitazione responsabile».  La lotta contro il capitalismo è parallela a quella per la scuola democratica, in quanto non ci può essere «eguaglianza a scuola se non c’è eguaglianza nel lavoro», ed è impossibile «realizzare l’eguaglianza scolastica indipendentemente dalla trasformazione sociale».

I progetti riformatori della scuola in atto da più di due decenni, invece, pretenderebbero di ridurre «il problema della diseguaglianza a scuola a questione metodologica», ricercando semmai facili soluzioni nella «psicologizzazione e medicalizzazione delle difficoltà scolastiche». L’autentico obiettivo di questo pensiero riformatore è quello di offrire «eguale opportunità di accedere ai processi di valorizzazione», formando però nient’altro che una «mano d’opera subordinata».

 

«Opporsi al dominio delle tecnoscienze»

La riduzione a questione metodologica dell’insuccesso scolastico, svincolato dalle cause sociali, conduce alla strumentale messa sotto accusa dei docenti, i quali non applicherebbero modalità didattiche innovative, che assicurerebbero i risultati attesi.  Da qui la presunzione della nuova scienza pedagogica di costituire una sfera imprescindibile per la pratica d’insegnamento, ma allo stesso tempo da essa separata; alla quale i docenti dovrebbero essere obbligatoriamente formati. Un grande progetto corporativo da parte dei professionisti della pedagogia, non supportato da alcuna certezza epistemologica né evidenza scientifica. Ma che imporrebbe una forte azione di soggettivazione dei docenti, e il loro asservimento a una sorta di pedagogia di stato.[1]

Per i due autori si tratta di un «nuovo maccartismo», che pone «la libertà pedagogica sotto tutela»; certo, nei paesi democratici tale tutela viene esercitata attraverso una «censura sottile», che agisce con «l’imposizione del programmi», con la «prescrizione dei metodi», ma anche con la «richiesta di adattamento alla realtà», ovvero di adeguamento ideologico ai principi (competitività, mercato, imprenditorialità) che dominano la società neoliberale. La scuola, invece, deve rifiutarsi di «seguire l’opinione corrente»; infatti «non è mai l’adattamento all’evidenza che deve dirigere l’educazione, ma la distanza e la contraddizione».

Basterebbero queste analisi per sgombrare il campo dalla risibile affermazione per cui gli insegnanti non solo sarebbero impreparati dal punto di vista pedagogico, ma addirittura rifiuterebbero la disciplina pedagogica in sé, in quanto strumentale e deviante rispetto alla purezza teoretica dei contenuti disciplinari da loro trasmessi. La diffidenza degli insegnanti si spiega invece proprio da un consapevole atteggiamento intellettuale di resistenza verso una caricatura della scienza pedagogica, che Laval e Vegne indicano giustamente con l’espressione «tecnopedagogia», il cui  vero obiettivo è quello di ridurre l’istruzione a merce, per sviluppare nell’alunno solo le capacità adeguate a renderlo un lavoratore subordinato, per umiliarne le doti di immaginazione teoretica, piegandole a un principio produttivistico di corto respiro. Lo «scientismo pedagogico» coincide con la «subordinazione della pedagogia alla psicologia», che «ha permesso “alla scienza della psiche” di proclamarsi autonomamente sovrana dell’educazione. Appoggiandosi sull’obiettivazione psicologica, una “doxa” depoliticizzante si è così imposta in pedagogia».  Come scrivevano in fondo già nel 1964 P.Bourdieu e J-C.Passeron in un testo fondamentale [I delfini. Gli studenti e la cultura]: «[…] i sistemi pedagogici attualmente conosciuti […] non avendo alcun altro fondamento che quello psicologico, servono di fatto a un sistema che ignora e vuol ignorare le differenze sociali. Non c’è niente dunque di più lontano dal nostro pensiero che il richiamarci alla pedagogia cosiddetta scientifica che, aumentando in apparenza la razionalità (formale) dell’insegnamento, permette alle diseguaglianze reali di pesare più di prima, ma con maggiori giustificazioni di prima».

 

Quale didattica per la scuola democratica?

Ma come immaginare –e, soprattutto, come costruire- una scuola che sappia opporsi alla deriva apocalittica prodotta dal neocapitalismo? Laval e Vergne affrontano la questione a partire da diversi ambiti, tutti fra loro però strettamente connessi. L’organizzazione interna delle scuole, gli obiettivi educativi, la condizione del docente e i contenuti dell’insegnamento.

Per prima cosa, una scuola democratica non può che concepirsi come un «Commune», un luogo cioè dove, pur nel rispetto delle funzioni, tutti coloro che ne fanno parte devono confrontarsi alla pari, in vista della formulazione di un progetto didattico condiviso. A partire dal 1968, si è assistito alla trasformazione «dalla scuola caserma alla scuola impresa». Il nuovo modello di scuola deve invece prevedere «un’assenza di gerarchia», con il Dirigente Scolastico eletto dagli insegnanti suoi colleghi, e non esonerato dall’insegnamento. Anche gli organi collegiali devono prevedere una loro ricomposizione, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati (una partecipazione addirittura obbligatoria per i genitori), sempre però nel riconoscimento delle funzioni, in modo da evitare «l’appropriazione familiare della scuola», intesa come «luogo di beneficio privato».

Decisivo, per la realizzazione di una scuola realmente democratica, è il mantenimento del gruppo classe, da svilupparsi proprio in senso comunitario; e da opporsi alla falsa socializzazione che introdurrebbe una frantumazione della classe stessa («residuo del Novecento», l’ha definita con dubbi riferimenti culturali il ministro Bianchi nel suo libro sulla scuola), e che si configurerebbe in realtà come un’atomizzazione delle figure discenti, che lascerebbe indifeso -ovvero privo di strumenti sia culturali sia di solidarietà- il singolo alunno nei confronti dei processi di soggettivazione, di disciplinamento e di condizionamento, messi in atto nei suoi confronti. La classe deve essere eterogenea e in essa devono dispiegarsi confronti socio-culturali attraverso i quali sviluppare una reale dimensione dell’incontro e della solidarietà.  Un modello comunitario che esclude, per forza di cosa, la degradante «concorrenza fra scuole».

Per quanto riguarda gli obiettivi che l’educazione democratica deve prefiggersi, in contrasto con l’«utilitarismo educativo», lo «psicologismo individualizzante» e il «patrimonialismo conservatore», bisogna valorizzare negli allievi quella facoltà che gli autori chiamano «immaginazione pedagogica», ovvero «sviluppare una soggettività capace e desiderosa di pensare altrimenti», in modo da «liberare dalla routine dell’alienazione»; l’allievo non dovrà solo socializzare, ma essere capace di «partecipare e determinare collettivamente le regole comuni». L’educazione, «bene comune e non merce», deve rifiutare la concezione proprietaria insita nell’espressione «capitale umano» ed essere «a profitto della conoscenza, dell’arte e della cultura». La falsa idea di “individualizzare il processo di apprendimento”, e la volontà conseguente di «differenziazione dell’offerta pedagogica» non fanno in realtà altro che «rafforzare la segregazione sociale». L’insegnamento, in altre parole –e qui il richiamo dei due autori è alla lezione di Jaurés e Freire-  deve produrre senso, e lo può fare attraverso impostazioni che intenzionalmente prendono le distanze dall’utilitarismo pedagogico incentrato sul concetto di “capitale umano”.

Frequente è il riferimento dei due autori alla lezione di Dewey. Non direi però che si possa parlare, come si legge su qualche sito francese, di adesione incondizionata alla teoria dell’educazione del grande filosofo americano. Da una parte i due autori ci tengono a distinguere la lezione originaria di Dewey da tanto «pragmatismo deteriore» che «tende a contrapporre l’universo autonomo del giovane al mondo adulto, a privilegiare il metodo pedagogico a detrimento dei contenuti del sapere, a sviluppare il “fare” indipendentemente dall’ “apprendere”»; ma, soprattutto, non condividono l’idea di Dewey di «non separare la didattica dalle esperienze sociali allievi». Per Laval e Vergne, invece, per  «preparare l’allievo all’azione critica», come lo stesso Dewey auspica, e «suscitare il suo interesse», non bisogna «partire dall’esperienza concreta», bensì essere consapevoli del «valore del sapere apparentemente sganciato dalla realtà», con il proposito di «far uscire gli allievi dall’esperienza immediata» e farli «riflettere razionalmente sulla situazione reale del mondo». E proprio in questo risiede la «vera difficoltà dell’educatore». È sbagliato, da questo punto di vista, sottovalutare il «valore della teoria» e del «concettualismo astratto», inteso come «capacità dello spirito di costruire problemi propriamente teorici, stabilire fatti distanti dalla realtà che si percepisce». Solo in questo modo è possibile «dotare i cittadini di strumenti di comprensione del mondo e fornire loro strumenti di resistenza».

La comunicazione didattica deve, invece, donare al vissuto quotidiano una significazione storica e sociale, accompagnando gli alunni verso un processo di liberazione (dalla dimensione alienata dell’esistenza) individuale e collettivo. Laval e Vergne contestano la tendenza attuale a promuovere un abbassamento del livello dei contenuti didattici, e insistono gramscianamente sul dovere di rendere accessibile la cultura “alta” a tutti. Pur in un quadro  in cui viene abolita la selezione e la bocciatura. Un principio tutt’altro che impossibile, ma obiettivamente ancora distante dalla mentalità tradizionale con cui alcuni colleghi interpretano la loro professionalità in riferimento alla valutazione. Un atteggiamento che impedisce l’individuazione di nuove strategie per produrre motivazione e coinvolgimento, senza ricorrere allo squallido “saper fare” sostenuto dalla «tecnopedagogia» neoliberista.

L’abbassamento del livello disciplinare, infatti,  equivale ad «adattare il sistema educativo alle norme del neocapitalismo e dell’individualismo liberale», poiché «l’adattamento verso il basso rafforza le disuguaglianze», destinando ciascuno a ciò che è più adatto alle sue condizioni di partenza. La democrazia scolastica prevede sì l’«autonomia pedagogica negli alunni», ma non la confonde con «l’anarchia dell’individuo»  (una condizione simmetrica all’«autoritarismo pedagogico»), in base alla quale si vorrebbe che «gli allievi siano più avanti e decidano autonomamente cosa apprendere»; una tesi tanto cara al nostro attuale ministro, in particolare quando si riferisce al digitale, peraltro considerato da Laval e Vergne, «uno dei nuovi nemici, che si reclamano portatori della modernità. […] non meno pericolosi per la libertà di pensiero e la capacità di agire, anche per il carattere seducente del loro linguaggio».

Altre sono le priorità: «La cultura comune democratica ed ecologica non si confonde neanche con “il principio comune delle competenze” come le definiscono l’OCSE e la Commissione Europea […] Ne consegue che la scuola egualitaria deve garantire a tutti gli alunni un apprendimento il più completo possibile della lettura, della scrittura e del calcolo e che sarebbe sbagliato prendersi gioco di questa esigenza fondamentale […]». Ci sembra che l’idea di un sapere unitario e universale, difeso da Laval e Vergne, corrisponda a quello che in tempi recentissimi ha espresso anche in Italia Giulio Ferroni: «l’attenzione all’ambiente chiama direttamente in causa le scienze, impone una stretta convergenza tra discipline umanistiche e discipline scientifiche.  […] la convergenza tra discipline diverse nel quadro di un umanesimo ambientale non può prescindere da un confronto con i corpi concreti delle stesse discipline, non può esaurirsi nel gioco indeterminato delle competenze, di una flessibilità indeterminata, orientata verso un problem solving che ignori le condizioni in cui il problema è scaturito» [Ferroni, La Scuola del Futuro]. Analogamente, Laval e Vegne: «la situazione attuale sollecita una nuova “antropologia”, che sia alla base di un articolazione ragionata della filosofia, della storia-geografia, delle scienze sociali e delle scienze della vita e della terra».  L’obiettivo è quello di far intendere come il sapere sia il «risultato di un’attività collettiva di portata universale», e di mostrare come «le scienze sociali non siano indipendenti dalla natura»; questo consente, nello stesso tempo, di «prendere coscienza del processo di costruzione del sapere che acquisiamo». Ovvero, lo stesso sviluppo di autocoscienza cognitiva, individuale e collettiva, non viene considerato patrimonio esoterico, ricetta segreta di iniziati pedagogisti che la offrono a ingenui insegnanti -che nient’altro saprebbero esercitare se non un’azione di comunicazione caratterizzata da puro spontaneismo-; ma i fondamenti di una pedagogia dell’emancipazione sono presenti potenzialmente nelle stesse discipline, ed è la professionalità del docente che fa emergere tale potenzialità.

 

Per una figura docente liberata

L’insegnante della scuola democratica non può che porre come prioritario obiettivo il condurre gli studenti a immaginare un percorso personale e collettivo di liberazione; egli deve contribuire a renderli sensibili alle condizioni necessarie perché il mondo del futuro   «sia ancora vivibile». Una possibile innovazione -insistono i due studiosi- non può avvenire dall’alto, come sostengono i riformatori, ovvero con l’applicazione di «buone pratiche concepite da una cerchia di esperti»; ma da autonomi, «collettivi critici di insegnanti e ricercatori», svincolati da ogni autorità esterna.

La scuola democratica non può infatti esistere senza riconoscere completa libertà pedagogica al docente, sottraendolo a qualsiasi pressione gerarchica, vuoi dei Dirigenti, vuoi dei pedagogisti o di qualsivoglia esperto; deve invece coltivare una continua relazione con tutte le altre componenti della comunità scolastica, per individuare insieme gli obiettivi critici ed emancipativi del processo educativo, senza confusione però di ruoli. Laval e Vergne sono consapevoli dello stato di demoralizzazione, sofferenza, addirittura di «violenza psichica» cui sono sottoposti gli insegnanti. Il loro essere costretti a esercitare la professione «in un terreno ostile».

Di fronte a questa situazione «dare senso politico alla propria azione è il miglior modo per reagire alla demoralizzazione»; l’ «erotizzazione del sapere», che essi sono in grado di praticare, è l’arma da contrapporre alle continue mansioni burocratiche e alle innovazioni neuro pedagogiche.

Nella Conclusione, segue una straordinaria descrizione dell’educatore democratico, che si interroga:

  • «sulla relazione tra la sua azione e il mercato»;
  • «di quale cittadino avrà bisogno il mondo perché sia ancora vivibile e abitabile»;
  • «quale sorta di educazione politica deve essere messa in atto oggi»;
  • come «operare per la transizione ecologica del mondo» nella convinzione che «un altro mondo è possibile»
  • come «proporre alle nuove generazioni un orizzonte politico, sociale ed ecologico desiderabile».

 

Sicuramente si tratta della forma di «insegnamento più invisa alle classi dominanti», che può sembrare per alcuni tratti utopica; ma che rappresenta invece l’unica possibilità per reagire all’orwelliano processo di soggettivazione in atto verso docenti e studenti. L’unico in grado di alimentare la resistenza nei confronti di  chi vuole far credere –facendo della scuola uno degli strumenti in questo senso più efficaci – che non sia possibile pensare un mondo diverso da quello dominato dall’economia di mercato.

 

[1] Pericolo non chiaro a tutti, neanche a sinistra, come dimostra lo strumentale intervento di Massimiliano Fiorucci su Il Manifesto del 22/01/22 (Caro canfora, la formazione non è un belletto), totalmente privo di argomentazioni, in risposta a una giusta valutazione di Luciano Canfora, che identificava questo nuova pretesa pedagogistica con una pratica di indottrinamento e, aggiungiamo noi, di definitivo annullamento della libertà d’’insegnamento.