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Dante, Catone e il suicidio compreso

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di Maria Pellegrini

[Pubblichiamo un estratto da Maria Pellegrini, La storia romana nella Commedia di Dante. Imperatori, poeti, eroi, uomini politici rivivono nei versi di Dante, Futura Libri.

In tutto il Medioevo riecheggiano gli scrittori e i poeti antichi della romanità. Dante vede in loro dei maestri di sapienza e di stile, artefici di una tradizione illustre in cui egli desidera inserirsi ponendosi come erede della loro grandezza. Perciò nella Commedia troviamo un richiamo costante alla storia di Roma e agli uomini che l’hanno resa potente e famosa. Al seguito di Dante, nel suo viaggio attraverso i tre regni dell’aldilà, i lettori incontreranno alcuni protagonisti del glorioso passato di un popolo che dominò tutto il mondo allora conosciuto: da Bruto che scacciò da Roma Tarquinio il Superbo e instaurò la Repubblica agli imperatori Costantino e Giustiniano, ma anche figure femminili come Cornelia, madre dei Gracchi e Giulia, figlia di Cesare sposata con Pompeo Magno. Per Dante un unico Impero universale era esistito, quello di Roma realizzato per volontà divina al fine di garantire la libertà, la giustizia e la pace propizia alla nascita del Cristo. La Roma imperiale e la Roma cristiana sono parte di un unico disegno provvidenziale.]

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Catone Uticense (95-46 a. C.)

Uscito insieme a Virgilio dalla profonda notte infernale (aura morta) il paesaggio cambia: solitudine e silenzio e un’alba dal dolce color d’oriental zaffiro che restituisce a Dante serenità. La montagna del Purgatorio guardata dalla spiaggia luminosa ha una solennità quieta e celeste, l’aria è dolce e pacata, un cielo azzurro sovrasta un mondo dove vige gentilezza, concordia, speranza, dove le pene da espiare non sono terribili come nell’Inferno, hanno un limite prestabilito oltre il quale si apre l’eterna beatitudine; qui si è assopita l’urgenza delle passioni terrene e ne è rimasto solo il ricordo lontano.

[…] Sulla spiaggia che si estende ai piedi della montagna erta ed aspra del Purgatorio avviene l’incontro con Catone l’Uticense, guardiano di quel luogo, […] è raffigurato con barba lunga e brizzolata, capelli che scendono sul petto, volto illuminato da quattro stelle che rappresentano le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza):

Vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.

Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
(Purgatorio, I, 31-36)

A guardia delle porte del Purgatorio Dante ha posto un uomo politico romano di incrollabili principi stoici, Marco Porcio Catone detto l’Uticense (figlio dell’omonimo Marco Porcio Catone il censore). Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo, si schierò con quest’ultimo considerando Cesare un pericolo per le istituzioni repubblicane. Dopo la sconfitta a Farsalo (in Tessaglia) e la morte di Pompeo stesso in Egitto per mano dei sicari del re Tolomeo XIII (48 a. C.), Catone raggiunse i pompeiani che si erano riorganizzati in Africa ma la sconfitta, subita a Tapso (46), lo spinse nello stesso anno a darsi volontariamente la morte a Utica, da qui l’appellativo Uticense. Non volle cadere nelle mani di Cesare e sopravvivere alla caduta delle libertà repubblicane.

[…] Catone appariva a Dante per quel che leggeva nella Farsaglia di Lucano, non come seguace di una parte politica, di Pompeo o del partito senatorio, bensì il cittadino romano che contro la sua volontà è trascinato nelle guerre civili anzi, come leggiamo all’inizio dell’opera, sono bella plus quam civilia, «guerre più che civili», considerando gli stretti vincoli di parentela: Pompeo era genero di Cesare avendone sposato la figlia Giulia. Mentre l’uno è considerato troppo debole, soprattutto per ergersi a tutore del diritto e della libertà repubblicana, l’altro, Catone, è sempre cosciente della necessità di contrastare il tiranno.

[…] In politica Catone difese sempre l’ideale repubblicano ed il potere del Senato. Fu per questo avverso a Silla e poi a Catilina. Nella maturità si oppose al primo triumvirato (Cesare, Crasso, Pompeo) schierandosi dalla parte di Pompeo contro Cesare ai primi accenni di guerra civile.  Lucano racconta che dall’inizio della guerra Catone non tagliò più né barba né capelli, in segno di lutto per la sua patria.

Il Catone di Lucano lotta perché è giusto difendere la patria, partecipa alla guerra civile per senso del dovere «trascinato da un ardente desiderio di fare il bene della patria e dall’esempio dei senatori» (auspiciis raptus patriae ductuque senatu», Farsaglia, IX, 22), e «combatté le guerre civili senza aspirare al comando e senza temere la schiavitù» (nec regnum cupiens gessit civilia bella / timens» (Ibidem, 27-28).

[…] Il suo suicidio è, secondo Dante, un gesto giustificabile perché compiuto con il fine di salvaguardare la libertà civile, precorritrice della libertà interiore cui tutte le anime del Purgatorio aspirano e necessitano per poter ascendere al Paradiso. Catone assume quindi i connotati del modello della perfezione umana al suo più alto livello terreno che comporta la libertà assoluta dalle passioni e l’anteposizione del bene comune al proprio.

Immagini dell’arrivo_parte seconda

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ph. Bernard Plossu - "Heading South", New Mexico, 1981
ph. Bernard Plossu – “Heading South”, New Mexico, 1981

 

di Carlo Brio

[qui la prima parte]

Che faccia dubbiosa o smarrita o imbarazzata faremo, quando sulle poltrone in attesa dell’imbarco o persino in volo per interrompere monotonia e soliloquio, ci parleranno con intimità di fatti che ci riguardano solo perché apparteniamo a un popolo, ma che nella classe che ci ha allevato non si sono mai verificati? La comunanza allora sarà solo umana? Fratellanza e sorellanza dei passeggeri saranno improvvise e democratiche risorse della noia, del carattere, dell’irrequietezza, della solitudine, di un indefinito malessere? Ma non sarà allegra e fiduciosa la faccia che faremo ai bambini e alle bambine che vedremo correre intorno? Quando astratti dal volo ci diremo che capiamo quanto gli attori nel film vanno dicendo e penseremo che sarà con questa facilità, con questa dolcezza che comunicheremo con persone nuove, propulsive, di cui capiremo le frasi che ci saranno porte con interesse e rispetto, che poi saranno frasi d’amore, di relazione, di elezione, che ci porteranno verso boschi e grandi case, come quelle che stiamo vedendo e dove con la mente già stiamo camminando, che facce dolci o malinconiche e astratte e struggenti faremo? Quando piangeremo all’aeroporto di casa perché con una fitta penseremo ai genitori e ai tutori che non ci mancheranno, con che faccia accoglieremo l’avvenire radioso che sfoggerà per noi chi ci dirà grazie buon viaggio: saremo sollevati e le lacrime abbatteranno la polvere delle giovanili rovine, saremo agguerriti perché al male sofferto opporremo il desiderio della rivalsa, avremo in viso segni di stanchezza che sarà presa per la dolcezza, la tenerezza provocate dagli uccelli che lasciano tondi tondi il nido? Assomiglieranno a terra bruciata come quella che lasceremo, a terra incantata, i momenti di dubbio e di costruzione temeraria dell’idea di partenza, dell’addio, idea di America, o forse a noi titubanti, riflessivi, sembreranno terra inesistita gli attimi cui tenteremo quasi per sbaglio di tornare, durante la pesatura delle carte e del bagaglio sulla bilancia della legge commerciale, per ricordare e ridecifrare i motivi che ci avranno condotti proprio lì e immersi nell’aria condizionata con stupore e capogiro non troveremo i fatti e i fatterelli così importanti, mondiali, che si saranno sedimentati nella decisione io vado e che saranno esposti nel biglietto teso con faccia dimentica o anonima? Che faccia concederemo quando, inattesa come un buco nella strada lastricata, una sala di preghiera ci sfilerà davanti mentre staremo passo passo interpretando la fuga di cartelli per raggiungere la città nuova, storditi dopo la folla, le file, la fede nel viaggio? Quando all’aeroporto patrio, tesi per il ritardo che ingigantirà sugli schermi con gli orari arbitrari, saremo attraversati dalle scariche dell’odio, quale sarà la faccia che largiremo ai guardiani del nostro viaggio? Quale espressione vedranno macchiare come olio versato i nostri occhi sbaragliati? Con che faccia più sicura, più indicata alla partenza, più allegorica usciremo dal duty free, dopo che ci saremo aspersi con il tester del profumo che avremo già in borsa, ma che tra le corse e i vai e vieni non si sa mai? Noi siamo gli arsi, i consumati della civiltà, passeremo indifferenti tra gli oggetti e gli elisir venduti come epitomi della regione, della città natale o vicaria da cui prenderemo il volo, senza toccarli, a volte senza guardarli, che non acquisteremo perché troppo vivo, rosso fuoco, il nostro legame con questi luoghi dai molti significati? Quando seduti al posto assegnato approfitteremo degli ultimi, calcolati istanti prima del decollo, dello spegnimento dei dispositivi elettronici per leggere gli ultimi messaggi, le ultime novità dei fili dell’attualità, che faccia faremo quando, arrivati agli sgoccioli coscienziosi, proveremo a spedire una frase definitiva e promettente, a scattare un selfie di cui sceglieremo la versione migliore e che invieremo per annunciare il nostro benessere, nonostante il mento sempre difficile da domare in una foto? Sarà una faccia simpatica, spensierata, un po’ pazza quella con cui partiremo per l’America? Faremo una faccia sorridente che lasci un’impressione di costante, umana allegria? Sarà una faccia seria, perché avremo ceduto alla corte del selfie per lasciare un ricordo serio, sentimentale? Sarà una faccia che ci sforzeremo di fare bella, piacente, solare? Sarà una faccia che potremo fare per testimoniare di ogni tappa e non far preoccupare o per ricordarcene noi e giudicarci? Una faccia per non sparire? Una faccia che riscatti quella del passaporto? Una faccia sicura, seguita, amata, lanciata, accompagnata? Noi siamo esseri mediali, quante volte moltiplicheremo le facce per coprire i chilometri graziati dalle traversate dei deserti? Quando tesi per il ritardo che dagli schermi c’incalzerà accanto alle lettere indifferenti con la nostra destinazione e quando in noi, atterriti e selvaggi, ammiratori di orologi svizzeri, si mischieranno la paura di restare e il biasimo per la nostra condotta e quello per la nazione, correremo per impedire che la partenza senza di noi sia imperfetta? Sprinteremo perché non risultino comiche, storiche le lotte che avremo affrontato per arrivare a pensare l’America al buio e nella chiacchiera, tra argomenti etici e risentimento? Ai controllori del nostro passaggio non offriremo, noi agonisti, noi partoriti, occhi grati e sorrisi ebeti per esprimere tutta l’importanza che costituiamo per la completezza dell’aereo? Che faccia avremo di fronte alla proverbiale vastità del continente? Come ci comporteremo con le mani, come posizioneremo le spalle e la fronte, che facce inalbereremo davanti alla ricchezza continentale, noi vestiti della nostra magrezza? Noi siamo essere comuni, uguali, una volta arrivati non saremo sfiorati da un dubbio che in sogno forse si paleserà, si sarà palesato con lucidità, che ci diranno andate via siete troppo magri e insieme troppo belli e muscolosi, ci divorerete? Noi siamo esseri comodi, conoscitori della cibernetica e dei tropismi, che faccia faremo quando rapiti o respinti dal disagio del personale ci chiederemo se il colore dei giubbotti di salvataggio sia lo stesso di quello floscio usato per la dimostrazione teatrale, quale sia il punto in cui il nostro giubbotto sarà stato riposto sulle nostre teste con mistero tecnico e che faccia staremo facendo quando, avvinti alla catena dei pensieri, ci chiederemo, sbarrando gli occhi, se riusciremo ad agguantarlo e a gonfiarlo, mentre proveremo a chiudere la bocca e a sbracciare per non affogare tra le onde colossali, madri dell’orizzonte? Che faccia faremo quando dietro indicazione del comandante vedremo nella notte o nel giorno oceanici apparire la città del nostro arrivo, che brillerà per noi e per tutti ma per noi specialmente come fosse appena nata, o nata e cresciuta appena dopo la decisione che l’avremmo raggiunta, nata per tutte e tutti e per noi specialmente come in cielo ci sembra spuntino le stelle, come si dice che per tutte e tutti ma per me in particolare brilli la stella che in questo istante mi guarda dalla sua esplosione e dalla sua estinzione, per noi, solo per noi e così la città col suo metallo e il suo fragore? Dopo le occhiate contemplative gettate al decollo, quando torneremo a guardare fuori dell’oblò e osserveremo che le nuvole sono masse galleggianti e indifferenti, che non ci toccheranno o solo per poco o da lontano ci minacceranno e spaventeranno, e che anzi per un ritorno infantile della fantasia o un avvento acerbo della disperazione si faranno ammirare per le forme estese che sapranno prendere di comignoli e dirigibili, funghi, labirinti, steppe e montagne innevate, onde immobilizzate di un mare in stato di tempesta permanente, sospese e teologiche, che faccia faremo quando, se pure avranno congiurato un regime di turbolenza, le attraverseremo incolumi senza doverci direttamente preoccupare, noi sgravati, agiati, delle onde, del sale, della benzina, del sole, della vicinanza estrema, intuitiva con le madrepore e i relitti? Noi siamo esseri informati, abbiamo letto dell’ongoingness e della resurrezione, quando ci sentiremo ispirati, quando conclusi i preparativi e passati i controlli saremo sospinti da una forza che non avremmo sospettato scaturisse e premesse proprio nei momenti cari al fato, da una linfa che dapprima chiameremo con banalità energia, e poi voluttà, scialo, fortuna, e ci muoveremo quasi ondeggiando su un ritornello, una musica che sentiremo solo noi, quando saremo così vivi e vitali che ci sembreranno pallide le facce degli altri passeggeri, con che faccia regale, salutare ordineremo un cornetto occupando come un territorio da predare e tassare il bancone del bar aeroportuale? Noi siamo esseri sospirosi, animali, a chi faremo la faccia grata per essere giunti sani, salvi e carichi di meraviglie nella terra nuova, a quale ente offriremo alla fine della frenata sulla lunga pista, quando inconsciamente si sospira, quella faccia che nessuno avrà visto perché ognuno sarà stato immerso nella propria faccia in faccia alla fissità dell’idea di inizio e fine: al nostro istinto di conservazione che intonerà entusiasta e incoercibile sei qui sei qui sei qui: si continua, all’io soddisfatto per aver compiuto la prima tappa del viaggio, alla speranza che staremo prodigiosamente nutrendo con i semini degli inizi, agli spauracchi che abitano la mente cambiando nel tempo forma e spessore così come noi abbiamo cambiato e cambieremo forma e spessore, destinazione, alla santa o al santo cui siamo stati legati col nome, a quelli cui avremo promesso di stare attenti, a coloro che ci avranno indotti a partire pervertendo la nostra educazione, avvelenando i pozzi del futuro materiale da cui con fare oscuro o iperbolico ci saremo allontanati, dinanzi a chi e facendo che faccia tireremo un sospiro di sollievo perché avremo infine toccato la terra dove potremo esistere, vivere, forse prosperare? Che faccia attonita o amara faremo quando scopriremo che nella terra nuova gli edifici hanno forme e obbedienze come quelle cui siamo abituati, solo più vaste, che le fondamenta sono fondamenta, i tetti tetti, che le case più fresche o attraenti le troveremo nelle zone centrali e residenziali, e le desidereremo, che le case più vecchie e sciupate le vedremo o abiteremo nelle periferie e verso le zone senza nome, che le insegne sono insegne, ugualmente variegate, che il cemento è cemento e l’asfalto brucia deformando l’aria o si ricopre di neve abbondante e di umidità al mattino, che le finestre sono finestre e che se fosse tradizione ci potremmo affacciare e osservare con stanchezza, curiosità o contemplazione un’ora del giorno, che le facciate sono facciate e che le porte si comportano come quando imparammo a spingerle, che i poveri sono poveri e camminano tra i vivi, e che faccia prodiga faremo quando comprenderemo che ci sono il bene e il male, solo geograficamente e storicamente, amministrativamente riconfigurati? E però il cielo non avrà sfumature impensate, che non avremo mai visto prima? E però non ci accorgeremo del male e del bene perché avremo raggiunto una posizione per poter dire male quel male, bene quel bene e fare comparazioni attonite o amare? Non sentiremo allora di esserci davvero mossi, di avere un passato? Avremo molte parole per quelli che ci avranno salvati, diremo ancora le frasi automatiche, irriflesse, che avremo assorbito nelle situazioni ricorrenti, con che faccia le balbetteremo o le canticchieremo a coloro che ci avranno accolto e avranno apprezzato le nostre qualità, che avranno creduto nelle nostre capacità umane, odissiache? Il nostro telefonare non sarà comunque un suonare di trombe? Con che faccia, nonostante la prosecuzione di bene e male, sentiremo che staremo per spegnere la nostra sete? O ci illuderemo o crederemo che staremo spegnendo la nostra sete, che staremo adempiendo i compiti e i motivi che ci avranno portato tra le strade davvero ampie e i priapismi metallici? Con che faccia sognante e cinica saremo sempre in procinto di rinegoziare una situazione, di fabbricare una soluzione calcolando aliquote e sottoscrivendo assicurazioni, quando vivremo e sogneremo in America? Che faccia sapremo artisticamente o clandestinamente fare ai testimoni infedeli del nostro transito? Che faccia faremo quando sbarcheremo affollati ed euforici, senza la sfortuna di giornalisti, telecamere e cecchini pronti a immortalare e a non vedere le facce nobili e sopravvissute degli arrivati, la carne che ha viaggiato con l’anima? Che faccia faremo quando saremo su quella scaletta e non saremo né papi né presidenti né gente d’affari né turisti, ma soltanto noi che siamo venuti in America a cercare?

Immagini dell’arrivo_parte prima

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ph. Robert Frank - 34th Street, New York
ph. Robert Frank – 34th Street, New York

 

di Carlo Brio

Noi siamo esseri colti, come arriveremo in America? Come sbarcheremo dall’aereo, facendo che faccia? Noi educati, abbiamo negli occhi e in memoria i filmati, i film, le foto dagli archivi che abbiamo studiato per alzare la mano e dare la risposta, noi con che faccia sbarcheremo all’aeroporto? I visi, le valigie, i vestiti li abbiamo visti se non proprio studiati, si sono da tempo incollati in fondo alla testa e se sentiamo le parole giuste dal quel fondo tornano in sospensione sempre le stesse immagini, mai nitide, ma generalmente giuste, granulose, velocizzate, pastose, arrestate, proprio di quelle valigie, di quei vestiti spessi, di quei visi, dei fazzoletti, sempre uguali, mai individuate, ma noi, arrivati allo smercio dei visti, che faccia faremo? Noi, quando andremo ai nastri dove spereremo di ritrovare le nostre valigie con le ruote e le cose utili che dopo molti inventari ingegnosi ed esistenziali avremo trascelto, che faccia faremo alle telecamere di sicurezza? Noi siamo persone colte, abbiamo studiato per molti anni, siamo esseri evoluti, per anni abbiamo seguito le serie tivù in lingua straniera, l’inglese è il nostro latino, che faccia faremo quando ci chiederanno stanchi, solerti e sospettosi i perché? Noi siamo cittadini del mondo, abbiamo viaggiato e avuto amici di altre nazioni, di altre regioni, quando saremo stati in volo per tante ore e ci saremo accorti di nuovo che lo spessore dell’oblò è proprio poca cosa, quando ci saremo meravigliati che da una parte del cielo è giorno e dall’altra parte è buio, quando avremo avuto male alle gambe perché sei, dieci ore si sta scomodi, è disumano, quando ci sarà sovvenuta la parola per le gambe che saranno state a un certo punto anchilosate e ci saremo detti che proprio questa sensazione quella parola voleva significare, quando avremo guardato i film offerti per passare il tempo e ne avremo visti due di seguito perché sei solo e con il cuore incerto che vuoi fare, dopo che avremo osservato fino a farcene accorgere e a distogliere lo sguardo le facce degli altri passeggeri, quelli immediatamente vicini, che devi fare una torsione più o meno sfacciata per capire come sono fatte, di cui vedi le gambe nel tipo di pantaloni e calze, i contorni delle pance o dei seni e gli oggetti che manipolano e con che frequenza, e dopo che avremo provato a capire come sono le facce di quelli davanti nascosti da sedili che avranno sempre l’aria più comoda, dopo che avremo sbirciato nello spazio che ci lascia vedere solo gli altri sedili separati delle file davanti e forse un avambraccio con la sua peluria, il suo orologio e la grandezza dell’orologio, e saremo passati ai passeggeri dell’altra fila, quelli dall’altro lato del corridoio e quelli un poco più avanti e avremo studiato come trascorrono le nostre stesse ore sopra l’oceano perpetuo, e quando avremo sonnecchiato ascoltando la musica che per fortuna pare infinita, anche se due, tre canzoni le avremo ascoltate quattro, cinque volte perché ci avranno fatto piacere o trasportato in un altro tempo in cui alcune nostre vicende accaddero in un certo modo, dopo che avremo guardato la spilla sull’uniforme dell’equipaggio e avremo fatto delle considerazioni sui corpi di quelli liberi di muoversi e di venire a darci ordini con dolcezza di consigli, quando avremo sussultato per uno sbalzo della pressione, per una raggia del cielo, mentre la notte ci avrà tolto ogni orizzonte e ci sentiremo già morti e non soltanto mosche agitate in un infantile bicchiere senza fori, quando ci saremo dati degli stupidi e delle stupide per aver dubitato della sorte, delle statistiche e della tecnica che ci tiene sospesi e ruggenti, noi cittadini della terra e dell’aria, quando l’aereo atterrerà con rombo e strida, che faccia faremo? Quale sarà la faccia quando ci diranno nella lingua straniera e familiare ma d’un tratto troppo rapida e locale che possiamo slacciare le cinture, che possiamo prendere le nostre cose facendo attenzione a non dimenticarne nessuna, quando sorveglieremo le schiene dalle file per vedere chi imbroglia, chi non rispetta, chi vuole servirsi prima? Noi amici delle scienze, con quale faccia avremo salutato i cari la sera prima della partenza? Che faccia avremo fatto all’autista che, non potendo altri, non volendo disturbare altri, non avendo altri, ci ha accompagnati con la macchina nera dai molti schermi per le successive corse e che ci ha aiutato a prendere la valigia dal bagagliaio e che avremo ringraziato quanto basta imbarazzati e sarà lui dalla nostra casa, quasi dal nostro letto, l’ultimo che saluteremo prima del viaggio? Con quale faccia, seduti sul cuoio comodo, noi amici dell’amicizia avremo risposto alle sue domande forse già stanchi per la notte agitata, forse entusiasti per la partenza, per la svolta, per l’ampiezza del nostro gesto, forse nervosi, forse paurosi, forse angosciati dall’ampiezza del nostro gesto, forse infastiditi dallo scambio di cortesie, forse addirittura raggianti e riprovevoli per dire senza dire io vado tu resti, io volo tu corri, ma quando avremo dato queste risposte, quando ci saremo sforzati per formulare la cortesia o avremo vuotato il cuore con l’estraneo, dopo che avremo sopportato le pause tra le domande, quando infine avremo acconsentito alla musica per coprire la separazione delle anime all’interno di una macchina, noi avremo fatto e detto con quale faccia? Quando con noncuranza e sollievo tireremo dalla processione colorata la valigia appena individuata, e l’apriremo subito per vedere se dentro, in quella tasca, c’è ancora l’oggetto incongruo cui teniamo tanto, ma che nel dubbio avevamo preferito affidare alla pancia dell’aereo più che alla borsa che abbiamo tenuto in spalla, come giustificheremo la faccia che faremo davanti ai passeggeri e alle guardie intorno? Che faccia staremo facendo quando tra una sollecitazione e l’altra nella terra nuova per un attimo ci verranno in mente i visi dei genitori che avremo lasciato vecchi ma solidi, ma in piedi, ma tenaci, ma giusti, ma speranzosi, ma rassegnati, senza immaginare che faccia faremo quando dagli schermi con cui non sapranno perfettamente centrarsi li rivedremo più vecchi, più deboli, seduti con scialli negli inverni? Quando ci accorgeremo che per e nonostante l’occlusione della visione periferica staremo osservando a una a una le persone che ci vengono incontro felici di sparire o che ci camminano davanti senza perdere terreno, sicuri delle rispettive mete necessarie, splendide, dritti come se i bagagli non avessero peso o se le rotelle fossero e fossero sempre state e saranno sempre più nuove e scivolose delle nostre e piene di cose utili e moderne o vecchie e di pregio, in corpi maschili e femminili audaci, profumati, che faccia faremo quando li riconosceremo e li diremo i vincenti? Quando usciremo da un bagno dove avremo desiderato un momento per noi perché dopotutto, noi educati, civilizzati, il viaggio il volo i documenti le domande i timori le amnesie i disguidi le impazienze le attese può essere, oseremo confessarlo, faticoso, lungo, duro, addirittura stressante come ci renderemo conto cacando o pisciando in posa yoga per non sederci sul cesso pulito ma dove altri si sono seduti e hanno fatto, tra voci altoparlanti che giungono attutite, nella promiscuità dei rumori e sospiri umani da una cabina all’altra, dove prima di slacciare e sbottonare avremo potuto leggere che l’acqua dello sciacquone non è potabile per gli assetati, quando saremo di ritorno al corridoio che faccia faremo? Noi siamo persone colte, abbiamo studiato e prediletto le sinuose ironie della dialettica ricacciando l’eccesso tragico nell’ipotesi e nella storia, con quale faccia accoglieremo lo spegnimento definitivo dei motori dopo l’ultimo posizionamento dell’aereo? Con quale faccia accoglieremo la voce interiore che ci dirà con tono di motore ora sei qui, ora sei qui, ora sei qui? La nostra faccia si farà entusiasta, si farà triste, quando saremo in America? Che faccia faremo, noi sempre giovani con le barbe incolte o architettate e con le frange accorciate o gli chignon destrutturati, quando ci troveremo a pochi passi dall’aereo, in fila verso le porte che saranno secondo chi le guarda indifferenti, care, ostili, ingrate? Quando il piede avrà toccato la terra nuova sopportando lo stesso peso con cui si è posato davanti al tabaccaio vicino casa, e quando l’altro piede l’avrà seguito e noi, gli esteti, i belli, i nati sani, non potremo goderci il momento simbolico mostrando di godercelo perché pressati dagli altri passeggeri, quando presi nel flusso non ripenseremo lì per lì, ma dopo, mesi o anni dopo, alla storia che si staccherà e fluttuerà nella memoria del parente che ci aveva preceduto e che, per la fortuna trovata, avevamo perduto dai rami del sangue, quando anzi ci incammineremo sentendo l’aria pungere o furoreggiare tra le luci riflesse, in che modo atteggeremo la nostra faccia proprio ingenua? Quando vorremo un caffè, ci domanderemo se coloro che ci hanno preceduti in abiti semplici avranno avuto lo stesso desiderio, e in che modo siederemo quando lo berremo chiedendoci del funzionamento delle mance? Saremo impettiti ed europei o forti e sospettosi o curvi sulla tazza e già pensierosi, mentre la vita dietro al bancone e là sulle panche accanto alla vetrina o sopra i tavoli spaiati di legno grezzo prosegue identica a prima della nostra entrata spaesata, e negli andirivieni uomini e donne intrisi d’aromi si stringono o sudano, scrivendo sui telefoni, parlando invasati, pensando in lingue straniere, mentre noi saremo noi nella terra nuova e chi sa, chi sa? Quando avremo volato per due ore e cominceremo a sentirci vivere in maniera confortevole, sapremo, sapremo immaginare, sapremo prevedere che le ore lente del volo si trasformeranno in mesi e stagioni, e che tra alcuni giorni, tra qualche settimana potremo con altri che con eufemismo sono detti, si diranno, espatriati parlare nella nostra lingua tornata materna o in una lingua terza a tavoli compositi, e che dovremo raccontare per la forza delle domande brutali, conversevoli, una parte della storia di cui ci staremo abituando a selezionare e disporre i capitoli che spiegheranno perché siamo giunti in America, e sapremo, sapremo immaginare se allora ci trapasserà gli occhi un lampo che dirà la perdita da dove veniamo, o se un’ombra suggerirà la nostra ritrosia mentre metteremo insieme le ragioni più evidenti e geografiche per non parlare agli ubriachi, agli orgogliosi e ai disperati dei motivi geografici e di quelli profondi e certo noiosi, o se faremo la faccia giusta accordandoci senza dettagli alle storie lette e poi sentite tra vecchi e nuovi arrivati con cui avremo spartito una forma di vicinanza, o se grazie all’alcol, alla rabbia e alla ripetizione fluirà menzognera la storia del nostro arrivo trionfante, del nostro arrivo mimetico, della nostra uscita nel mondo vero di giochi e azzardi cui parteciperemo con gioie e canini, o se la faccia si farà scappare il disgusto per la domanda che starà già diventando annosa e dispendiosa perché quella moneta nessuno la spenderà e l’avremo emessa solo per posizionarci sulle scacchiere estese ma piccole piccole delle altrui strategie, entrando di fatto tra i pretendenti, o se la nostra fronte offrirà un momento istrionico e rideremo del male e capovolgeremo il bene, o se senza troppo ragionare, con faccia generale diremo brevemente come tutti? Quando la luce sullo scanner sarà verde, con che faccia oltrepasseremo le porte trasparenti mettendo il piede verso l’avventura e l’esilio, verso il destino da cui, in ogni caso, ci conforteremo, potremo sempre, in ogni momento, forse con qualche lacrima e una macchia, tornare indietro, e con quale faccia trasfigurata ci metteremo nella fila dei controlli? Sarà con spirito sollevato o preoccupato che ci sfileremo la cintura perché niente suoni sotto la porta che ci sonda? E sarà con vergogna che ci copriremo la pancia che si è scoperta quando avremo alzato la maglia perché non riusciremo, proprio non riusciremo con le sole dita a trovare il passante per la cintura, oppure perché avremo rinfilato il giubbotto tenendo le due braccia in alto, campionesse e campioni della traversata, oseremo guardare intorno per vedere se qualcuno ha visto la pancia e ci ha visti bruscamente coprirci? […]

Les nouveaux réalistes: Enrico Moretti

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L’albero di natale

di

Enrico Moretti

1.

Il trabattello era stato piazzato tra il divano e il camino, al centro della stanza. Una presenza incongrua, soprattutto nella penombra del primo mattino. In quella luce crescente ricorda lo scheletro di una cattedrale gotica, le sue linee verticali senza confine. A terra le cose giocano una partita, conquistano una piastrella, attendono il proprio turno, si arroccano; a quell’altezza, seppur modesta, sottostanno ad altre leggi.

Alle otto in punto Pietro tira la prima martellata nel muro, l’intonaco inizia a staccarsi e a venire giù. La polvere in sospensione che sale lungo le narici lo riporta all’infanzia. Rivede suo padre che gli insegna il mestiere: muratore di terza generazione. Schiena dritta, peso su entrambe le gambe, sudore e fatica, poche parole, lealtà alla materia. Non c’è niente di più profondamente umano che costruire la propria casa. Mentre ricorda sferra la seconda martellata e l’aria attorno è latte in polvere.

Al terzo colpo il campanello sta già suonando. Salta giù dall’impalcato e va allo spioncino. Di là dalla porta la vicina settantenne in vestaglia è già sul piede di guerra.

  • Che succede?
  • Lavoretti – dice, aprendo la porta.
  • Sembrava venisse giù il palazzo. È lunga la faccenda?
  • Nel pomeriggio sarà tutto finito – dice, fissandola con il martello a mezz’aria e la testa dello scalpello che spunta dal pugno.
  • Avviserò l’amministratore – sbraita la donna rientrando in casa.
  • Come crede.

Pietro chiude la porta. Prima di tornare a lavoro, passa in cucina, apre il frigorifero, afferra una bottiglia dal ripiano e ingoia una lunga sorsata d’acqua fredda. Un rigagnolo cola lungo la guancia e bagna la maglietta che si fa trasparente. Monta nuovamente sulla pedana e riprende a martellare. È nato per costruire, ma niente gli dà pace quanto distruggere. Ogni colpo sferrato lo fa vibrare di piacere, lo stesso di quando da bambino al mare demoliva a calci il castello di sabbia lasciato incustodito. Il buco nella parete si allarga, un vuoto profondo, la sola macchia scura nel biancore dei teli di cellophane stesi a protezione dell’arredo e fissati con il nastro occultante. Va avanti tutta la mattina. Si ferma solo per incollarsi alla bottiglia, pisciare, rispondere e riattaccare all’operatore di un call center, aprire e chiudere youporn senza grande soddisfazione.

opere di Beniamino Servino

2.

Il muratore mangia a mezzogiorno, è una questione di credibilità. Pietro si concede una birra gelata e un panino mortadella e mozzarella. Nel frattempo scorre la lista che certifica la fine del suo matrimonio. La lavatrice e l’asciugatrice se li aspettava, erano regali dei genitori di Giulia. Ma l’albero di natale, no. Pensa a tutte le case in cui ha vissuto in precedenti relazioni, da cui è sempre uscito di scena senza portare via niente. Giulia evidentemente abbraccia un’altra filosofia. Con l’indice torna a scorrere la lista, due pagine dense fronte retro: gli asciugamani con le iniziali, il frullatore, lo sbattitore, l’estrattore, la spesa fatta da lei tre giorni prima di andarsene, una teoria sterminata di oggetti e ammennicoli di ogni genere e nessun conto. Ma quello che non può digerire è l’albero di natale. Lui odia il Natale. Da sempre, da quando sua madre, la vigilia di molti anni prima, li abbandonò, lasciando suo padre per suo zio.

  • Non voglio niente di questa casa. Non voglio niente che tu abbia toccato.

Avevano discusso forte, lui aveva provato a fare delle proposte di mediazione, ma Giulia non voleva sentire ragioni. Non intendeva portare via niente, tantomeno l’albero di natale: voleva i soldi che ci erano voluti per comprare tutta quella roba. Il prezzo pieno. A quella richiesta la lite si era fatta fisica e Pietro aveva letteralmente perso la testa.

Finito il panino torna in sala e libera l’albero dal contenitore di cartone. Ammucchia i rami di plastica sulla pedana, poco più in là i tubolari di supporto e la base d’appoggio in ferro. Monta sul trabattello e infila ogni pezzo con cura nel buco. In un secchio verde ha preparato la calcina. Con un po’ di forati inizia a ricostruire la parete. Il campanello suona insistente mentre ha già posato una decina di forati. Si affretta a tirare fuori rami, tubolari e base e li lancia nella scatola di cartone. Salta giù e recupera i pezzi finiti sul pavimento. L’incaricato dell’amministratore vuole vedere. Dal corridoio passano in salotto e restano lì ad osservare il buco, mentre la vicina aspetta sul pianerottolo.

  • Parete portante?
  • Scherza? Questa è casa mia – dice mentre con la coda dell’occhio scorge un ramo spuntare sghembo dietro la fila di forati.

Passano una decina di secondi di silenzio in cui rivede sua mamma salire in macchina dello zio. E’ l’ultima immagine che ha di lei. Poi l’incaricato dice:

  • Perché lo ha fatto?

Pietro sente la testa girare, perde l’orientamento, avverte un senso di nausea, poi risponde:

  • Una cassaforte. Voglio installare una cassaforte, per le cose di valore.

Sul pianerottolo l’incaricato gli ricorda che in futuro deve inviare comunicazione all’amministratore e affiggere un cartello a beneficio dei condomini. Poi sparisce alla vista, assieme alla vicina.

 

3.

Nel cuore della notte sogna la casa dell’infanzia, la casa al mare. L’aveva costruita suo padre pietra su pietra. Nel sogno sembra disabitata, lo si capisce dall’erba alta nel giardino. Varca la soglia ed entra. C’è aria di abbandono. Una scarpa da bambino orfana del suo paio è stata dimenticata sul pavimento, come materiale di scarto di un trasloco fatto in fretta e furia. Uno spesso strato di polvere avvolge tutto. Nel mezzo della stanza c’è un albero di natale. È triste, spoglio, senza addobbi. Si avvicina, lo tocca e le finestre scompaiano. Tutto intorno ci sono solo pareti cieche e rimane al buio, segregato. Batte con i pugni contro la porta di ingresso e contro i muri, ma non c’è modo di uscire.

Si sveglia di soprassalto, completamente sudato. Ci mette più di un attimo a capire dove sia. Nel buio mette le gambe fuori dal letto, con i piedi cerca le pantofole. Scende, va in bagno e si lava la faccia. Poi si dirige verso il salotto, accende i faretti ma li spegne subito, la luce fredda e bianca gli dà fastidio agli occhi. Tira via il nastro adesivo e i teli che proteggono le finestre. La luce del primissimo mattino accenna a rischiarare la stanza. Guarda la macchia scura alla parete che tra poco tinteggerà. La fissa. Come un test psicologico prova a tirarne fuori una figura, ma non gli viene niente. Dietro la macchia, in quella cassaforte virtuale, è murato l’albero di natale e la lista di Giulia. Gli sembra di riuscire a vederli, come se i suoi occhi potessero penetrare la materia, varcare il muro, radiografarne il contenuto. Sale sul trabattello, si volta e guarda fuori dalla finestra. Da quell’altezza scorge sopra i tetti della città la Cupola. Non sapeva che da casa sua la si potesse vedere, piccola e nitida. Si sdraia sulla pedana, chiude gli occhi e pensa a tutti i natali che non ha avuto con sua mamma, a tutti quelli che non avrà con Giulia. Poi si addormenta e cade in un sonno profondo, esausto, senza sogni.

Al mattino lo sveglia il campanello. Questa volta suona solo una volta. Scende dall’impalcato e dietro lo spioncino vede la vicina, ha qualcosa in mano.

  • Ho fatto un dolce. Ho pensato che di domenica fa piacere fare colazione con un dolce fatto in casa.
  • Non doveva.

La donna allunga il vassoio e Pietro lo accetta con una smorfia del viso che somiglia a un sorriso. Lo porta al naso, lo annusa: sa di buono, sa di infanzia, sa di casa.

  • Mi dispiace per ieri, sono stata aggressiva.
  • Non si preoccupi, non è successo niente.
  • Allora vado che tra poco arrivano i nipoti, facciamo l’albero, è una tradizione familiare. E lei, lo ha già fatto?
  • Sì certo e penso di averlo sistemato proprio bene.

Appunti su “EDENICHE” di Flavio Ermini. Ovvero: Il tramonto della luna.

1

di Bruno di Pietro

“Un pensatore lo si onora pensando” (E.Jünger)

1. Il tramonto della luna

Giunge a compimento con “Edeniche” (Moretti & Vitali, 2019) – il nuovo lavoro poetico di Flavio Ermini – un progetto che ha radici antiche. “Edeniche” copre quasi dieci anni di scrittura poetica ma rimanda ad una parola-chiave nella evoluzione del pensiero e della poesia di Ermini : la parola “anterem” (che è anche il nome della Rivista cui Ermini, che la fondò nel 1976, ha legato gran parte della propria attività intellettuale).
“Anterem” . Ciò che viene prima delle cose. Un percorso “verso la lingua primigenia dell’umanità, verso la parola originaria, ante-rem” come ci dice nella premessa lo stesso Ermini. Un percorso esattamente e rigorosamente segnato come lo descrive sempre l’Autore in una intervista concessa a Luigi Nacci nel Gennaio 2007 : “Mi piace pensare a una parola originaria, che nascendo nomina e nominando non è subito fagocitata dalla cosa che le si pone di fronte. Mi piace pensare a una parola che nomina e nominando indica il percorso percettivo che la conduce verso la cosa. (…) una parola in cui torni a vivere quel rapporto originario con la natura di cui ci hanno parlato Hölderlin, Celan, Benn …A questo proposito aggiungo che non è sbagliata l’idea di Novalis quando indica che le nostra parole si dovrebbero muovere nel mondo come un polline…” [1] .

Esaminando il lessico di Edeniche nel suo insieme la prima cosa che colpisce è l’assenza della parola “luna”: in tutto il testo non c’è, mai.
Proviamo a ragionare sul perché di tale assenza per avere una “chiave di accesso”. Mi torna alla memoria Cicerone “supra lunam sunt aeterna omnia” [2] Ciò che si trova sopra la luna trascende il divenire, è sub speciae aeternitatis. Ora, il sole resta sempre se stesso, senza alcun divenire. La luna è un astro che cresce, cala, sparisce. La normativa della luna è il divenire, la nascita e la morte. Così come l’uomo la luna ha una “storia”.
Solo che la luna rinasce: “la luna nuova”. Una periodicità senza fine che è la legge del tempo ciclico. Così la luna governa il ritmo delle acque, della vegetazione, della fertilità: le maree, le stagioni, il flusso mestruale. La luna rivela un tempo concreto, diverso da quello spazialmente misurabile, il tempo degli orologi e dei cronometri.
In Edeniche vi è una chiara, netta distanza dalla Storia. Non è una osservazione sorprendente poiché risponde esattamente a quanto Ermini ci dice proprio all’inizio di una sua precedente opera (indefinibile saggio-poetico) e cioè “Il giardino conteso” la cui premessa è intitolata proprio “L’antistoria” e in cui si legge “I nascenti prendono vita, si fanno incontro alla parola, la interpellano nella precarietà, nell’incalcolabilità. Non seguiranno “una storia” – l’hystoria dove si consuma il deturpamento del principio- , ma la “vera storia” propriamente un’ antistoria . I nascenti sono già da sempre estranei al divenire storico, ancorati come sono alla parola originaria”. [3] Per inciso qui è abbastanza chiara l’influenza del pensiero di Heidegger che ritiene tutta la metafisica occidentale un progressivo corrompere e perdere il senso dell’Essere cui è prossima la parola aurorale.
Ma per ora fissiamo che il tempo ciclico non si appartiene all’orizzonte di Edeniche. Ma, come di qui a poco vedremo, neanche il tempo escatologico della tradizione giudaico-cristiana può dirsi appartenere a Edeniche. Vedremo infine se questa assenza del tempo, del divenire, della storia abbiano qualche altro esito magari uscendo dalle categorie del pensiero occidentale. Come, sia detto sempre per inciso, sembra accada all’ultimo Heidegger.
Assistiamo in Ermini a un tramonto (definitivo) della luna.
Giacomo Leopardi dedica al “tramonto della luna” l’ultima poesia scritta fino a pochi giorni prima di morire. Riporto qui l’ultima strofa

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

Nel pessimismo radicale di Leopardi qui il destino dell’essere umano è delineato: il Nulla prima, il Nulla dopo. Eppure…..proviamo a leggere la strofa senza gli ultimi sei versi, che sono quelli poi che nell’autografo originale non recano la grafia del Poeta ma quella dell’amico Ranieri (e sia chiaro che qui non è in discussione la fedeltà del testo al dettato del Poeta). Ma, obliati per un solo attimo quei sei versi, a noi appare nitido, nella più “spersonalizzata” lirica di Leopardi, il “dire di ciò che è generato” che “inonderà …gli eterei campi” secondo l’eterno susseguirsi del divenire di cui luna è legge. La Luna è la risorsa del Leopardi morente.
E ora la domanda è: vi è in Edeniche uno spiraglio? Una speranza? Una risorsa? E inoltre. Poiché fra ogni Fine e ogni Inizio c’è sempre e comunque un “nel frattempo” (che poi è nel dominio del Dover-Essere) cosa Ermini designa e destina a questo segmento spazio-temporale? E ritorna la domanda posta all’interno del precedente lavoro poetico di Ermini “Il compito terreno dei mortali”.

2. L’aurora e la risacca

“Edeniche” ci parla dell’aurora. L’aurora della vita terrena. Ci parla di quell’attimo in cui veniamo al mondo terreno separandoci dal Tutto Indistinto/Infinito cui, secondo Ermini, apparteniamo. E quindi ci parla di un “dire aurorale” aperto e volto a permanere “insieme alle sue caduche e molteplici gemmazioni, tra enigmi e contraddizioni, tenebre ed ineluttabilità, precipizi e roseti” [4]
Ma la “condizione edenica”, molto lontana dalla idea di una “età dell’oro” è immediatamente, in Ermini, investita dalla “notizia” della “finitezza”, dalla consapevolezza che al “sorgere” seguirà ineluttabilmente un “tramontare” in una lunga interminabile notte, una notte senza mattino. Incombe immediatamente la “notizia”, nonostante tutte le lusinghe delle “apparenze”, di quell’evento “scandaloso” che è la morte. Tutto il tessuto, anche stilisticamente compatto, di “Edeniche”, è lacerato, devastato da questa dialettica Finito/Infinito, Vita/Morte.
Anche il verso in “Edeniche”, al di là della apparente compattezza, sembra attraversato da questa lacerazione assumendo un moto che molti hanno assimilato alle onde del mare e che io, accettando la assimilazione ampliandola, assimilerei alla “risacca” nello scontrarsi dell’onda che volge al lido con quella di ritorno che spinge verso il largo. Una poesia, quella di Ermini, che ha sostanza filosofica. “Una poesia, dunque, in cui l’utilizzo costante del lessico della filosofia occidentale, dei suoi lemmi fondanti, viene però sottoposto a uno straniamento poetico, nel quale insieme perde e acquista sensi. Perde la specificità tecnica, la designazione, l’attribuzione a un soggetto; acquista un’eco, una risonanza, un’ampiezza d’onda, una vasta impersonalità che si vuole quasi archetipica”. [5]

3. Le tinte scure di un incalcolabile solstizio d’inverno

Sono prevalenti in “Edeniche” le tinte scure di un incalcolabile solstizio invernale (la “bruma” spesso presente nella parte iniziale del libro)- Tinte già presenti nei precedenti lavori in poesia e saggistica di Ermini apparsi nel decennio di composizione di “Edeniche” :“Il compito terreno dei mortali” (in poesia), “Il secondo bene”, “Il giardino conteso” (in saggistica) ma che si accentuano in particolare in “Della fine” (edito nel 2016) . Lavori che non possono essere ignorati per un approccio corretto a “Edeniche” anche perché apparsi nel decennio di composizione del libro. E sia detto qui , e non per inciso, che quando parliamo di poesia e prosa saggistica operiamo una forzatura poiché la scrittura di Ermini rifugge “programmaticamente” da questa distinzione.

4. Fra supremo dolore e suprema speranza

Se si dovesse ricorrere a un pensiero filosofico che dia conto della lacerazione profonda che attraversa la trama di “Edeniche” ben si potrebbe, a la Nietzsche, definire “eroico” il tentativo messo in opera da Ermini. “268. Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e insieme alla propria suprema speranza” [6]

Fra supremo dolore e suprema speranza leggiamo in “Edeniche”

si manifesta con un piccolo grido l’essere umano
nel suo quieto svanire dietro la superficie terrena
proprio sul lato che del cielo rimane impensato
malgrado il tempo che testimonia la sostanza
per cui sogno e azzurrità sono connessi
per un sovvertimento illimitato dei sensi
atto a gloriare in terra i sepolti nell’antro dei cieli
sui quali minacciosa la casa natale si erge
dove l’essere per la morte anela alla vita [7]

L’essere per la morte anela alla vita. Come si può non pensare a un filosofo che non è citato ma chiaramente “evocato” per quella terribile pagina iniziale di “La stella della redenzione” opera che apre e segna l’intero pensiero filosofico del secolo scorso. Nella prima pagina della Introduzione a “La Stella della Redenzione” Franz Rosenzweig così dice : “Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. (…) Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre. L’uomo (…) senta violentemente, inevitabilmente senta quanto altrimenti non avrebbe mai percepito: che se mai morisse, il suo io sarebbe soltanto un illud e perciò, con tutta la voce che gli resta in gola urli, urli ancora il suo io in faccia all’implacabile che lo minaccia di un così inconcepibile annientamento. (…) Perché l’uomo non vuole affatto sottrarsi a chissà quali catene, vuol rimanere, vuole vivere”. [8]

Il vivente vuole vivere e oppone strenua resistenza di fronte all’evento morte.

nel suo cieco avanzare nell’inerzia del cielo
combatte fieramente l’orda d’oro del figlio
quale avamposto dell’ingannevole apparenza
che nella lotta ci ammalia contro la morte
cui oppongono gli uomini strenua resistenza
nell’ultimo fortilizio che resta da presidiare [9]

Ma è in una poesia che è essenziale nell’economia di “Edeniche” che tale urlo di protesta, di resistenza strenua alla morte appare con grande ed efficace potenza poetica : “Il borgo dei sassi” [10]

compie un gesto di sfida risoluto il vivente
ergendosi tra la morte e la sua rappresentazione
pur se la luce lo rende ancor più sanguinante
ferendolo così come ferisce l’arco mortalmente
là dove tornano indistinti i contorni delle cose
e oppone resistenza nel borgo dei sassi il figlio
all’ordine imperioso che al mattino lo attende

Tutto ciò che vive inclina all’esistere. Anche il fiore di campo di cui al notissimo passo del Vangelo.[11] Inclina a vivere e urla questo anelito in viso a quell’inaudito evento che è la fine, la morte (la “propria” morte). E naturalmente e quotidianamente si interroga sul consistere dell’ esperire “la soglia” “il ciglio della vita” “la Porta” (per scomodare nuovamente Rosenzweigh) . Su ciò che lo aspetta “dopo”. Ed è qui che la interrogazione diventa radicale e si rivolge a ciò che c’è “prima” (ante-rem), all’origine, all’aurora del proprio vivere, agli stadi iniziali dell’esistere

sono elementi sfuggiti all’indistinto
le relazioni che espongono i giusti all’aurora
in quel fragile grado d’intendere consentito
così come per celarsi sfuggono al cielo i viventi
che si portano agli stadi iniziali dell’esistere
guidati dalla creatura insensibile al tatto
se non più fioriscono gli alberi per errore [12]

5. Andarsi incontro a ritroso

Seguiamo quindi Ermini in questo suo percorso, questo “andarsi incontro a ritroso” (per usare una bella immagine di Leonardo Sinisgalli).

“Ogni grande cosa può avere solo un grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande”. Così dice Martin Heidegger nella sua Introduzione alla Metafisica . Facendo esplicito riferimento alla filosofia greca degli albori che dà inizio al pensiero occidentale (segnando anche la distinzione/separazione fra mythos e logos).
“La parola di Anassimandro è il più antico lasciar parlare le cose, di cui ci sia giunta notizia, e perciò è la prima parola della filosofia” [13]
E da questa muove Ermini in Edeniche che nell’ esergo rimanda subito al notissimo frammento di Anassimandro siccome derivante dalla testimonianza di Simplicio . [14]
Anassimandro fra tutti i monisti sarebbe il primo ad aver utilizzato il termine archè e ad averlo identificato come elemento degli enti. Esso non è né acqua, né nessun elemento materiale, ma una natura infinita da cui traggono origine tutti i cieli e il mondo esistente secondo l’ordine del tempo.
Il milesio avendo notato la trasformazione dei quattro elementi, e non riuscendo ad individuare in nessuno di essi il sostrato ( hypokeimenon ) pensò a qualcosa di al di là degli elementi stessi. Rispetto ai precedenti physiologoi con Anassimandro l’ archè smette di essere un che di elementare ma allude a qualcosa prima e al di là dell’elemento. È ciò che Anassimandro chiama apeiron il quale “contiene la causa della generazione dell’universo e della sua dissoluzione” .[15]
Apeiron in greco antico è “ciò che è senza limite, illimitato, infinito”. In Ermini lo troviamo come “Indistinto”. Il frammento quindi dice “ Ciò da cui proviene la generazione delle cose che sono, peraltro, è ciò verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo necessità: le cose che sono , infatti, pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. [16]
Le cose hanno inizio e fine nell’Illimitato. La stessa esistenza delle cose che sono è ingiusta, colpevole e perciò destinata alla rovina e al male, alla sciagura di vivere espiando la colpa di essere. Il male è l’esistenza di per sé stessa colpevole, la quale non può consistere in altro che nella pena di una morte vivente e di una vita morente. L’esistenza individuale è una colpa perché infrange l’unità cosmica originaria.

Così in Ermini :

l’indistinto si disvela in molteplici organismi
senza che vantaggio alcuno ne tragga l’uomo
volto com’è ai luoghi da cui può giungere il nemico
là dove noi vorremmo invece assistere all’incontro
con la sorella dedita al padre prossimo alla morte [17]

e ancora

su questa terra malamente calpestata
nessun medicamento può essere apportato
alla devastazione che subiamo nascendo
per cui patisce ogni pena il vivente
a ogni bagliore che diventa incendio
in una confusa visione del reale
che ai morti induce a dare forma
tra impensate pluralità di frammenti [18]

Chiara, negli ultimi testi citati, la influenza del pensiero di Emil Cioran :
“Noi non corriamo verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante. Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all’inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male è però dietro, non davanti a noi” [19]

A me sembra molto interessante, poiché di “inizio” stiamo parlando, confrontare gli esiti poetici di Ermini con quanto è detto in un’opera di notevole peso e rilievo sull’argomento : cioè quella di Massimo Cacciari “Dell’inizio” [20]
La tesi di fondo è la pura Indifferenza dell’Inizio. In Cacciari l’Inizio è pura Indifferenza che comprende ogni mondo possibile. E qui una certa consonanza con l’idea dell’Indistinto che regge Edeniche appare possibile. In Cacciari questa radicale indifferenza scava un abisso fra l’Inizio e l’Origine: quest’ultima appartiene già alla catena delle cause, è prigioniera dell’ “al di qua” e perciò si lascia raggiungere e dire. L’Inizio sta invece altrove come sovrana dimora dell’ Uno : “L’Uno indica il problema… del non-posto del pensiero- e dunque, in quanto non-posto del pensiero, semplice, incontaminato, non contraddittorio” [21].
Ma in Cacciari, e qui Ermini se ne distacca, l’incidenza di questo Inizio nelle forme del tempo e del fare proietta la radicale Indifferenza in direzione dell’ éschaton [22]. Cosa che in Ermini non accade traducendosi invece in una infinità a-temporale. O in un “altro tempo” come vedremo in seguito.

incede senza uno scopo definito
il mortale che ciecamente si consuma
nel fondare il mondo sulla ragione
cui la sorella del sonno si nega
quale testimone dell’oscurità che si cela
nell’impreciso vuoto del presente [23]

Ma il percorso “dall’Indistinto all’Indistinto” non ci dice qualcosa che rammemora ciò che è ciclico? E se il ritorno all’Indistinto fosse una “nuova nascita” , “un altro inizio” ?. E se dietro “la Porta” ci fosse “la Vita” (Rosenzweig) ?
Sono tutti scenari che agitano il lettore di Edeniche che in questo si rivela un libro che, più che rispondere, domanda. E che ne rendono la lettura come guida all’esercizio del pensiero.

6. “Il primo giorno”

La nascita, per separazione dall’ Indistinto, avviene ed è sempre “il primo giorno” (immagine cara a Merleau-Ponty ) e ciò che è generato ( physis o natura) si dispiega nel molteplice che così dall’Uno ha origine ancora ignaro del destino di finitezza che lo ricondurrà, al termine del percorso, nell’Indistinto.
Lo scenario che accoglie il vivente è acquatico. Fin dal terzo verso del primo testo in cui si dice “….del mondo abitato/ che dalle acque creaturali viene circoscritto” (pag.16) e nella sezione finale (la XVI) di Edeniche “Le terre dell’acqua”. All’inizio e alla fine, si badi. Tutto il viaggio del vivente è concepito come un viaggio per mare che ha come destino il naufragio. Nello svolgersi rigoroso del pensiero e della poesia di Ermini tutto questo riporta a “Il compito terreno dei mortali” (laddove il nucleo essenziale è sul “dover – essere” – “il compito terreno”) che evolve verso la detta approssimazione all’ Essere che è il progetto di “Edeniche”.
Qui è tutta la potenza del tentativo di Ermini nella distanza da tutte le cosmogonie acquatiche e nel suo sforzo di approssimarsi al senso dell’Essere. La tradizione delle acque primordiali, da dove hanno origine i mondi, si trova in quasi tutte le varianti delle cosmogonie arcaiche e primitive. Le scritture dell’origine recano quasi tutte il richiamo all’acqua. Questo nella tradizione indiana, babilonese e fino alla tradizione giudaico-cristiana in Genesi “1 In principio Dio creò il cielo e la terra. 2 La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”. [24].
La nascita “getta nel mondo” il vivente, dove “l’ingannevole apparenza” lo “ammalia contro la morte” [25] e qui incontriamo una delle immagini più care e significative per Ermini : “il giardino conteso”

su questa terra palmo a palmo depredata
implacabilmente il tempo ci aggredisce
in un devastante potere di annientamento
tumulandoci sotto strati spessi di macerie
che l’epoca sottrae alle aule del cielo
nel far sì che l’umano essere sia sostituito
da un susseguirsi ininterrotto di simulazioni [26]

Qui il vivente subisce la irruzione del tempo e “le corrosioni che il tempo produce” [27]. Prende notizia della ineludibilità del proprio esser destinato alla fine. E ciò nonostante la maestosa immagine delle “stelle fisse dell’indistinto” e della “luce originaria” che fa pensare a una possibile salvezza

fa pensare alla salvezza la luce originaria
capace com’è di minare ogni nostra persuasione
grazie alla geometrica perfezione dei suoi raggi
cui fa riscontro il sorgere delle stelle
nelle forme elementari del soffio e del respiro
così come il divino si dà soltanto a lampi e tuoni
quando a poco a poco stende sulle più innocenti prede
la rete avvolgente di un’opaca sostanza mortale
che diventa l’aula di un altro occultamento
nel restituire all’indistinto ogni singolo vivente [28]

Abbiamo già detto che Edeniche più che essere un libro che risponde è un libro che domanda. E qui le domande sgorgano : è possibile immaginare un “altro tempo” ? è possibile immaginare un “altro inizio”?

7. “L’essenza delle piante e del vento è la stessa”. La cosa è il poeta.

Cominciamo , e proviamo a cercare una prima risposta agli interrogativi posti all’inizio. Cosa connota quel “nel frattempo” che c’è tra ogni “inizio” e ogni “fine”? È vero che Ermini molto ci dice (e ci torneremo) ne “Il compito terreno dei mortali” e nel successivo saggio “Il secondo bene”, ma qui ne esaminiamo gli esiti in “Edeniche”.
Nella Prefazione [29] Ermini ci dice “Una comune origine designa la fratellanza fra tutti gli esseri del mondo. Tale origine implica la cura dell’uno con l’altro: del mortale con gli animali e le piante, del figlio della terra con le nuvole e il vento.(….) Il rapporto soggetto-oggetto non può essere concepito in termini di separazione. L’essenza delle piante e del vento è la stessa. Nel processo di una natura che si autogenera e si distrugge nuvole e mortale sono organicamente connessi. È possibile parlare della loro comune origine costitutiva solo sottraendola alla superstizione e al mito, solo affidandosi al pensare autentico , un pensare, ci ricorda Heidegger «in cui l’uomo si lascia portare dalla lucentezza e dall’odore della terra» [30]

“ Le Edeniche sono il cammino descrittivo-argomentativo che conduce alla primordiale simbiosi fra interiorità e esteriorità, tra soggetto e natura, a quello stato aurorale in cui l’uno non è distinguibile dall’altro; sono l’insopprimibile esigenza di riscoprire la primitività del mondo che permane nel nostro vissuto percettivo o precategoriale sotteso alle contraddizioni, ai contrasti, alle conflittuali ‘ingiustizie’ del vissuto quotidiano” [31]. Delogu trova in questa simbiosi con la Natura, con tutto ciò che è generato, la traccia del desiderio di infinito. E questo stato simbiotico si appartiene più al pittore o al poeta che non allo scienziato che oggettiva per separazione. In ciò stabilendo un fertile contatto con la fenomenologia di Merleau-Ponty.
Pertanto: “Il divino non è altro che una perpetua annunciazione del dolore, al quale cerchiamo di sfuggire traverso lo stordimento di una quotidianità linguisticamente alienata; gli umani, definiti ora i “consapevoli di morte”, ora gli “esuli”, sono chiamati a un cambiamento di prospettiva, dall’antropocentrismo che li determina a una visione in cui si può registrare “il movimento ondoso che precede la dimensione verbale”.[32]

In un simile contesto è naturale la assenza del soggetto, dell ‘ “io poetico” nel testo. Il seme vitale è lo scambio e la fusione con le elementarità naturali. Ultima meta è la parificazione nel tutto-nulla in cui “la cosa è il poeta” nella mutua avventura della “parola”. Il soggetto poetico risulta incapsulato, non perduto, per mezzo dell’identificazione esatta dell’essere con una sorta di “mondità” heideggeriana intesa non come categoria ma come dimensione esistenziale del mondo eseguita nell’atto poetico.
E qui mi consento di appuntare un distico straordinario di un Poeta-Pittore (non è un caso) a me carissimo: Alfonso Gatto. Il quale in “Rime di viaggio per la terra dipinta” ci dà la sua “Idea del creato”:[33]

C’è sempre un giorno che il creato crea
se stesso e gli occhi e il modo di guardare.

8. “il tempo a-venire”. E l’avventura dell’apparizione inizia nuovamente…

Abbiamo visto prima come in Ermini non operi il tempo dell’ éschaton della tradizione giudaico-cristiana. Abbiamo anche detto all’inizio che a Ermini non appartiene il tempo ciclico, del divenire, della Storia. Non c’è un nascere/rinascere di cui è proprio della luna di cui abbiamo segnalato l’assenza in Edeniche.
Eppure… E se vi fosse un’ “altra nascita” ? Se vi fosse un “altro Inizio” ?
Partiamo da lontano e precisamente da “Il giardino conteso”. Ed è qui che si manifesta la “parola poetica” come la risorsa salvifica di Ermini. La parola poetica ha la possibilità di ripetere quell’inizio che ci ha estraniati dal tutto. “ La parola, ripetendo l’estraneità dell’annuncio, riprende tutto – il tutto – da capo; essa, facendo i conti con il fondamento, nel suo dire, dà perenne origine al mondo E, in questo inizio ritrovato, noi abbiamo la possibilità di accedere alla salvezza; nella consapevolezza che ogni inizio, se è vero, porta con sé l’ineluttabilità della disfatta. Da cui si genera, grazie al dire poetico come originaria contra-dizione, la giustificazione di ogni dolore. “Soltanto all’alba i custodi/sulle macerie del greto riaprono le porte della casa natale/ in cui serbano i vecchissimi il diagramma del cielo” [34]. E l’avventura dell’apparizione inizia nuovamente…” [35]

“*il sentiero che si disperde nel bosco

al manifestarsi del secondo inizio
è in cammino l’uomo sulla stretta via
che con molta ignoranza da tempo percorre
nel cieco errare che ancora gli è proprio
spinto com’è sulla terra mattinale
verso uno stato di totale abbandono
cui porta il sentiero che si disperde nel bosco
nel diventare tutt’uno con il cantiere e i roseti
al loro incessante sfiorire e sfiorire [36]

Siamo qui prossimi alla assunzione della nozione di Ereignis ( tempo a-venire) in cui Hiedegger individua la possibilità di superare definitivamente il pensiero metafisico, portandosi al di lèà della stessa questione dell’Essere. Il tempo che viene , a-venire ( Ereignis), apre un nuovo cammino di pensiero lungo il quale è possibile pensare un altro tempo , istantaneo, discontinuo ed incommensurabile il cui a-venire si manifesta come effrazione del tempo cronologico: il tempo che viene…
La stessa finitezza non va pensata come mancanza ma come abissale ricchezza e profondità e può essere accostata alla figura cairologica della maturazione del tempo. Mentre infatti l’infinità rimanda all’idea di compimento e di eternità, la finitezza inscrive l’essere nell’ orizzonte eventuale della Lichtung . Solo nella finitezza l’esserci può approssimarsi alla verità dell’essere. Cito qui un passaggio prezioso da un bel libro di Sandro Gorgone che credo molto bene ci dica qualcosa sulla poesia di Ermini in Edeniche . “L’ Ereignis si avvale dell’uomo per far sorgere, attraverso di lui, la via che conduce il dire originario alla parola; lungo questa via esso risuona come invisibile armonia e celata “fuga” dell’essere che intona ogni ente ….Tale risuonare è quello stesso suono senza suono della quiete con cui il dire originario si mostra nel linguaggio ed a cui il silenzio soltanto riesce a corrispondere, nel muto gesto di saluto e di accoglienza con cui l’uomo si rivolge all’ a- venire. Il modo in cui l’ Ereignis fa risuonare il suo appello è il venire alla parola del dire originario che, però, non si manifesta in nessuna modalità linguistica: l’ Ereignis parla agli uomini non attraverso le parole, ma come melos, come il canto che dice cantando”. [37]

La risorsa salvifica in Edeniche (per Ermini in tutto ciò che ha scritto) è la “parola poetica”. Il poeta che si incammina, a passi lenti, su oscuri sentieri entro il tramonto, nella notte che sopraggiunge è l’unico in grado di dire l’Ereignis il tempo a-venire. Come il poeta che si inoltra nella oscurità crescente della notte, anche il pensatore deve restare in cammino verso l’essenza nascosta del linguaggio se vuole esperire il tempo a-venire; soltanto nell’ascolto del dire originario esso può essere esperito come ciò che concede essere e tempo, come quel luogo aurorale da cui sorgono tutte le differenze e le contrapposizioni ma che può essere raggiunto, conquistato solo dal poeta.

La parola , nel farsi esperienza poetica – così in Ermini – “apre il linguaggio all’accadere dell’essere e – facendosi largo fra le apparenze – offre al pensiero quell’inizialità che consente all’essere umano di portare a compimento il primo inizio e di prepararsi all’altro inizio; là dove il dire può trovarsi a contatto strettissimo con il tutto indiviso. Seguirne la via impone di orientarsi nel groviglio, di familiarizzare con le schegge e col frammento: una folata di vento, il moto del sole, il rumore di una pietra che cade. Seguirne il cammino impone di dire poeticamente quel medesimo che, manifestatosi nella physis, si è poi ritirato nel nascondimento”. [38]

NOTE

[1] “Le parole come polline” (intervista a Luigi Nacci) in AbsoluteVille 15.1.2007
[2] Cicerone, De Rep. VI , 17,17
[3] F.Ermini “Il Giardino conteso” pagg. 9-10
[4] Laura Caccia. Su “Edeniche” . in Trasversale, 20.7.2019
[5] Susanna Mati, “Edeniche.Configurazioni del principio” in “L’Indice” febbraio 2021
[6] F.Nietzsche, “La Gaia Scienza” Lib.III af. 268
[7] F.Ermini, Edeniche pag. 17
[8] F. Rosenzweig “La Stella della Redenzione” pagg. 3-4
[9] Edeniche cit. pag.45
[10] Edeniche, cit. pag.72.
[11] Matteo, 6, 24-36
[12] Edeniche, cit. pag. 69
[13] E. Severino “ Essenza del nichilismo” (Milano,2010)
[14] I presocratici. Testimonianze e frammenti DK B1 cfr.A9 Simplicio, phis. 24,13
[15] I presocratici ,cit. DK A 10.
[16] Non è questo il luogo dove discutere della tesi di Giovanni Semerano, peraltro apprezzatissima da Emanuele Severino. Semerano mostra come la parola ápeiron abbia come lontana origine il semitico ‘apar (polvere, terra), accadico eperu, biblico ‘afar, e ricorda che in greco epeiros, dorico apeiros, eolico aperros, indica la terra, il fango. Tali termini, secondo il filologo fiorentino, corrispondono ad ápeiron, «al quale fu premesso il neutro tò, segno della confusione.». Il frammento di Anassimandro, che è sempre stato tradotto «…principio è l’infinito …», andrebbe invece letto «principio delle cose è la terra… ecc.». Insomma, tutte le cose provengono dalla polvere e ad essa fanno ritorno. Un concetto che rievoca il messaggio biblico, laddove in Genesi, Dio dice all’uomo: tu sei polvere e
polvere ritornerai. Vedi, G.Semerano L’infinito è un equivoco millenario (Mondadori 2001)
[17] Edeniche,cit. pag. 50
[18] Edeniche ,pag. 55
[19] E. M. Cioran L’inconveniente di essere nati pag. 10 (Adelphi, 1991)
[20] M. Cacciari, Dell’Inizio , Adelphi 1990
[21] M.Cacciari , cit. pag.83
[22] M. Cacciari ,cit. cfr. pagg. 572-573
[23] Edeniche, cit. pag. 118
[24] Cfr. su “Le acque e il simbolismo acquatico” nonché sulle cosmogonie acquatiche le meravigliose pagine di Mircea Eliade in Trattato di Storia delle Religioni, Torino 1976 Pagg. 169 e ss.
[25] Edeniche, cit. pag. 45
[26] Edeniche, cit. pag. 46
[27] Edeniche,cit. pag. 47
[28] Edeniche , cit. pag.21
[29] Ermini, La poesia è una grazia, in “Edeniche” pag.10
[30] M. Heidegger , La poesia di Hölderlin (Adelphi ,1988)
[31] A. Delogu, “Flavio Ermini: Edeniche” in Nazione Indiana 1.8.2019
[32] E. Fobo in Lankenauta 21.7.2019
[33] A. Gatto, in Tutte le poesie , Milano 2005, pag.518
[34] F.Ermini , Il giardino conteso , 225.
[35] G. Cuozzo Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole apparire. In “Filosofia” Anno LXI pag. 243
[36] F.Ermini , Edeniche , pag.98
[37] Sandro Gorgone. Il tempo che viene. Napoli 2005 pag. 218
[38] F. Ermini, Il giardino conteso pag.15

Mezzo chilo di carne

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Nature morte à la table rouge - Nicolas de Staël, 1953
Nature morte à la table rouge – Nicolas de Staël, 1953

 

di Elisabetta Foresti

Cucino, pulisco, lavo, stiro.
Una sveltina, e via. Prima. Adesso, contaci. Ma tanto. Loris torna a casa stanco, le rughe agli angoli degli occhi. Guai a dirglielo. S’inseguono anche sulla fronte. Intorno alle labbra.
Mezzo chilo di carne, nient’altro.
La figlia, soltanto. La cerca, la vuole, la bacia. La tiene stretta, la coccola. Prima cercava, voleva, baciava. Me. Mi abbracciava, prima.
Io, il contenitore. La vita tenuta, contenuta, trattenuta in pancia. Nove mesi. Forse otto. È nata prima. Non mi ricordo.
Il contenitore, questo lo ricordo. E prima, il lavoro, i viaggi per il lavoro, l’inglese per il lavoro. Come lo so. Loris, no. Loris dice due parole. How much is it. Nemmeno. How much for this. Neppure. How much the price. Neanche. How much. Non lo so, non chiederlo, con te non esco. E because. Si dice why. Non farla lunga, ho visto come mi guardi. Il Bronzo di Riace. Un pezzo d’uccello. Quando ti ricapita.
Lo ho avuto, mi ha avuta. Tutto lì. Ci siamo avuti nello specchio dove si guarda. La testa girata. Ehi, sono qui, sono sotto di te. Posizione alla missionaria. Al massimo, a capriola. Meglio, a pecorina. L’amazzone o il granchio no, io sopra no, il comando io, no. Non sia mai.
Gira la testa e guarda la sua erezione, si eccita, guarda sé stesso che penetra. Sotto, può starci chiunque. O una cosa qualunque. Un buco qualunque. Non sono io a eccitarlo. Non ero. Penetrava. Guardava. Girava la testa. Prima. Ora, niente. Ora, Flaminia.
Dispongo piatti, forchette, bicchieri. Li sento. Chiacchierano. Paroline, vocine. Cinguettano, loro. È pronto a tavola. I maltagliati con la colatura di alici. Aglio, prezzemolo. L’ho visto su internet, facile. Non c’è il secondo. C’è, il secondo. Sogliola lessa, due patate per lui. Per lei, il purè. Per me, niente. Non mi piace niente, non ho voglia di niente.
Sigarette, balcone.
Prima, uscivo. Ora, esco in balcone. Al laboratorio di analisi trattavo il sangue. Emocromi, sieri, coagulazione. È sempre sangue. Quello non è cambiato, ci vivo dentro. Potessi levarlo.
Prima, il viso di Loris era liscio. Ora, no. Il mio, non so. Ma tanto.
I pensieri, i pensieri, se potessi cancellarli. Se potessi cancellare le parole. Dice che stare fuori in balcone è stupido. Sto fumando. Hai l’alito che sa di posacenere, per questo non ti bacio. Non mi baci, per questo riempio la bocca di altro. Sei sciatta, sei pallida, sei stupida, leggi almeno, ravvivati almeno, vestiti, vai in palestra, vai a correre al laghetto, senti un’amica.
Ma chi.
Prima le avevo. Sofia, Gisia, Erika. Non gli interessavano, loro. Persone comuni, loro. Non erano medici, politici, imprenditori. Neppure i mariti. Uno realizzava boiserie in legno, l’altro aveva la passione per l’orto, nessuno dei tre amava il calcio, o la Formula Uno.
Che te ne fai.
Ci parlo, tu non sai parlare con gli altri, tu non li lasci parlare gli altri, tu parli solo di te stesso.
Le amiche, inutili, mettono in testa idee minatorie, minano noi, pericolose, invidiose. Ma quando.
Ne accendo un’altra, la brucio in cinque boccate. Loro, dentro, guardano il film. Quello scelto da lui. È adatto, non è adatto alla visione di una bambina. Chi se ne importa.
Con Loris, la gente che conta, deputati, chirurghi, produttori. Uno, me lo ricordo, la festa-orgia, mi spinse contro il caminetto fumante di ciocchi ancora umidi e lamelle di compensato. La lingua simile a una spatola dura.
Mirko, si chiamava. Forse, Marco. Gli ho alzato una ginocchiata in mezzo alle cosce. Trenta secondi di voce baritonale mutata in flauto. Loris ha perso un cliente. Le botte, poi. Consulente finanziario, lui, al Senato, lui.
Feccia.
Inviti a cena, serate danzanti, vestiti di raso, di shantung, una gonna di tulle, le scarpe di vernice lucida, i tacchi, il male ai piedi, i capelli acconciati a boccoli, arricciati, stirati, messi a chignon. Gli uomini intorno, gli sguardi addosso mentre Loris dice che la Morning Star ha quotato quei fondi azionari Top pick, Buy, Hold, Sell. Compriamo, vendiamo, il portafoglio cammina, lo storno, se c’è, lo recuperiamo. E il Mirko, o il Marco di turno mi offre il bicchiere, il vino devi imparare a gustarlo, Alice, poi a berlo, il Nebbiolo, il Barbaresco, l’Amarone, ma che me ne importa. Le mani, a posto. Togli quelle sudice dita dal culo. Mi tasta. Il vino, in testa. Faccia perlacea che si fa rubino. Che cazzo fai. Risate, impaccio, le scuse, sta poco bene. Ma chi. Gli uomini mi guardano storto, le donne mi odiano. Loris dice sei inutile. Ma perché. I pugni. Non mi ha più portata.
Chissà chi ci porta, adesso, alle serate danzanti, alle fiere del benchmark, alle sbronze di vini, di dita che insistono e pescano.
Una qualunque. Un buco qualunque. Un culo qualunque.
E dopo, lei. Flaminia. Il nome lo ha scelto Loris. Non è della madre. Magari. Ho trovato le lettere. Neppure tanto nascoste. Sotto i calzini. Forse voleva sapessi. Forse voleva umiliarmi. Ci è riuscito. Il nome dell’ex. Il nome della donna che lo ha portato all’altare e lì lo ha lasciato. Ha sposato un altro. Fabio mi pare. No, era Fazio. La donna della perennità, quella che ha contato. Il ripiego, io. Neanche riuscito. La donna, lei, che ha detto: no.
Avrei voluto esserci.
Io, il contenitore.
Questo devi essere, almeno questo. Dammi un figlio, una figlia, ti ho sposata, ti ho dato una casa, un balcone, le sigarette, ti ho strappata al laboratorio, al sangue, alle urine, alle feci che analizzavi. Ti ci sporcavi. Sporca. Inutile. Strappata.
Adesso le mangio, le feci, le bevo, le urine, il sangue.
Settima sigaretta. Copro i sapori. Dentro, l’eco di un colpo di pistola. Flaminia strilla, si copre gli occhi. Li vedo. Vedo le loro spalle. Seduti sul divano adiacente al balcone, sotto la finestra. Loris la rassicura, la stringe, la sua vita, l’erede. Ha il respiro corto, gli duole la spalla, dice, il braccio, dice, spostati Flaminia. Un altro sparo. Ad avercela una pistola.
Mezzo chilo di carne.
Così ha detto Gesù. O almeno credo che fosse Gesù. Nel sogno. Che io pensavo lo voglio, Loris. Quando mi ricapita. Nel sogno stavo in una chiesa. O almeno credo che fosse una chiesa, ma poteva benissimo essere un magazzino. Era pieno di casse, di scatoloni, di pacchi. Era pieno di gente che entrava, che usciva, gente carica di pacchi, di scatoloni, di casse. Sono Grazie. Così ha detto Gesù. Seduto, anche Lui, su uno sgabello addossato alla parete, in mezzo allo scatolame che non riuscivo a vederne l’inizio, e non riuscivo a vederne la fine.
Lo hai chiesto tu. Ma dove, ma quando.
Sorride. È bello, Gesù. O chiunque sia. Ma cosa ho chiesto. Prendilo, è tuo. Allungo la mano. Una busta bianca coi manici. Per niente pesante. Questo mezzo chilo di carne, portalo via. Se lo dice Lui. Esco con la busta per niente pesante. Accanto, mi affiancano, o precedono, o seguono uomini e donne. Trasportano fuori pacchi più grossi. Più pesanti.
Grazie, sono Grazie più grosse. La mia, mezzo chilo di carne. Nulla di più. Puzza pure. Ma lo volevo, e Lui me lo ha dato. Il giorno dopo, Loris ha chiamato. L’inizio e la fine di tutto.
Aspiro, undicesima sigaretta. Il fumo colora di grigio il nero del cielo. Dirada, svanisce, dissolve. Potessi dissolvermi. Potessi dissolverlo. Pensieri, brutti pensieri. Cancellali.
Flaminia mi vuole bene. Io, forse. Sua figlia. Neanche mi vede, quando c’è Loris. Senza, è meglio. Tua figlia. Ma chi la voleva. Sparita, finita con lei l’ultima identità.
Chi ero, chi sono.
Il culo, le tette, la fica, prima. Il contenitore, poi. I pugni, poi. Adesso, chi sono. Cucino, pulisco, lavo, stiro. La serva. Brandelli di feci, di urine, di sangue. Ma tanto.
Dice sei sciatta. Leggins attillati, stasera, maglietta di viscosa a fiori gialli, una delle tante. Troppe. Vecchie. Ma nuove, messe una volta.
Stivali di camoscio neri, lunghi al ginocchio. Ho coperto i lividi col fondotinta. I capelli, con le trecce, li ho fatti ondulati. Gonfi, biondi. Candy-Candy. O era Holly hobbie.
Nemmeno guardata. Nemmeno vista. Non mi vede. Ha baciato Flaminia. Senza, è meglio. I pensieri, i pensieri cancellali. Il contenitore, i lividi, la serva, le lettere. Lo ammazzo. Cancellalo. Lo ammazzo. Cancellalo, cancellalo. Lo ammazzo. Lo ammazzo, lo ammazzo.
Ma come.
Il coltello a seghetta. No, il coltello dell’arrosto. Affilato. Mezzo chilo di carne infilzato. Riprenditelo.
Amato. Forse. Finché l’ho scopato. Scopata allo specchio. Scopava lo specchio. Mica me.
Scuoto la cenere. Scintilla rovente che ondeggia. Plana sulla maglia. Fiori gialli carbonizzati. Buchi minuscoli, buchi sulla maglia, buchi nel cervello. Riempili. Con cosa. Svuotali. Con cosa.
Coltelli. Appesi sul muro in balcone. Insieme al prosciutto, al lonzino, alla pancetta, alle salsicce. E l’olio, bidoni di olio buono, e vini rossi d’autore. Per farmene che.
Mascarello, Tili, Vietti, Gaja, Antinori. E bianchi spumanti, Pommery, Taittinger, Cristal, Krug, Bollinger, Dom Pérignon. Costosi. Molto costosi. Regali dei suoi clienti. Ma per cosa.
Spread e swap rate. Ma chissene.
Coltelli, invece. Dentati, lisci, a scimitarra, a falcetta, da disosso, curvi per scuoiare, con uncino per sventrare, triangolari a punta per scannare. Coltello da scanno. Utile per eseguire tagli precisi e penetranti, lama rigida, manico ergonomico. Da scanno. Lo scanno. Cancellalo.
Mamma mi prendi un bicchiere d’acqua. Pensaci tu. Mamma devo fare pipì. Mamma, mamma, mamma. Sto fumando. Ventesima sigaretta. Torpore. Muoio? Magari.
Loris dice vai al gabinetto da sola, sei grande. Non voglio. Papà è stanco, papà ha male alla spalla, al braccio. La voce roca, il gomito sollevato. Il culo dal divano, Loris non vuole alzarlo.
Senza, è meglio.
I lividi in faccia, se dico me ne vado. Quindici giorni di tempo. Non uno di più. La questura non sente ragioni, non si denuncia al sedicesimo giorno. Ma perché.
I lividi, il trucco, il regalo, un fondotinta nuovo, Christian Dior. Ma dove. Sulla guancia, stupida, mi hai provocato tu. L’ho provocato io. Le lettere sotto i calzini. La donna che conta. La figlia che porta il suo nome. L’ho provocato io. E prima. Pure. L’ho sempre provocato io.
Chi eri, chi sei.
Sei grande abbastanza per andare al gabinetto da sola. Loris insiste. Flaminia scuote la testa. Quando hai finito tira la catena e scompari nel cesso, scompari nelle fogne infinite. Lo dico, lo penso, non lo dico. Forse, neppure lo penso. Flaminia mi vuole bene. Io, può darsi.
Dice il medico che sono depressa. Sono fessa, in realtà. Cosa ci faccio qui. Subisco. Come subivo Paolo. Me lo ricordo, lui. Abusava di me davanti allo specchio. O era dentro lo specchio. Lo specchio ritorna. Dice il medico che riproduco schemi passati. Sepolti. Ma mai scordati. Mi ha dato un mucchio di pillole. Le prendo e dormo. Dormo tantissimo. Dormo di pomeriggio. Ma dopo, ritorno. Dopo, cucina, pulisci, lava, stira. E allora. Per forza, hai una figlia, hai un marito. E allora. Hanno bisogno di te. Ma chi. Flaminia è grande e io sono vecchia. Avvizzita, finita, finire, morire. Lo sono già. Morta. Contenitore sgombrato.
Flaminia al gabinetto da sola, ci va. Un piedino dopo l’altro, il kilt scozzese, il cerchietto storto. Da sola.
Loris è solo. Cancellalo. I gomiti sollevati, le braccia incrociate sul petto. Senza, è meglio. Cancellalo. Niente più pugni, lividi, umiliazioni. Loris mi chiama. Cancellalo. La finestra è aperta. Cancellalo. Il collo, la nuca, le spalle. Mi dà le spalle, la nuca, il collo, il coltello. Cancellalo. Collo, coltello, cancellalo. Coltello, coltello.
A due mani. Prendilo, preso. Colpisci secco, deciso, al centro del collo. Colpisco, affondo, dal collo alla gola. Sangue, un torrente di sangue. Mezzo chilo di carne scannato.
Sciacquone tirato. Flaminia, senza è meglio.
Giro la lama nel buco. Scavo. Buchi nel cervello. Riempio. Di sangue. Altro che pillole. Ma ormai.
Estraggo il coltello, strattone, levato. Flaminia cammina. Pulisco la mano sui leggins. Flaminia.
Il cerchietto storto, il kilt scozzese, i piedini sottili, uno dietro l’altro. Mamma, stai ancora fumando. Andiamo a dormire. Papà, perché non si muove. È stanco, no, è morto. Ma forse, non col coltello. No, non c’è il coltello, non c’è il sangue. Non piangere. Ha avuto dolore al braccio, dolore alla spalla, al petto. Ha stretto le braccia sul petto.
È possibile, dice, mi abbia chiamata. Non ho sentito. Forse, era in cerca di aria. Ma tanto.
Vieni, Flaminia, abbracciami. Papà se ne è andato. Così.
Mezzo chilo di carne, in meno.

Egitto: Dunia Kamal fa rivivere i sogni di piazza Tahrir con La settima sigaretta

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Giuseppe Acconcia

La settima sigaretta di Dunia Kamal (Poiesis Editrice 2021, 144 p, 16 euro, traduzione di Barbara Benini) è un diario intimo dell’autrice raccontato con gli occhi di Nadia. La protagonista, raggiunti i trent’anni, come fece Ingeborg Bachman, traccia un bilancio della sua vita nei tre decenni precedenti dall’infanzia all’adolescenza fino all’età adulta. Lo fa proprio mentre il sogno della rivoluzione di piazza Tahrir è ormai un ricordo che costringe l’autrice a lasciare l’Egitto con la speranza di un ritorno futuro. Le prime pagine scorrono con i ricordi di bambina, vissuti insieme alla nonna al quinto piano del palazzo affacciato sulla via principale di una città di provincia mentre echeggiava alla radio la voce inconfondibile della grande cantante egiziana, Umm Kulthum. Il primo pianto di Nadia è proprio legato a un ricordo di infanzia quando il canto della mitica Kulthum fu sostituito da quello del Corano, segno dell’islamizzazione in corso nel paese. Tra un caffè sorseggiato sin da bambina e la preparazione di prelibati piatti alle verdure, racconti e fiabe, Nadia cresceva fino allo scoppio delle prime manifestazioni al Cairo alle quali ha preso parte insieme al padre che, prima della sua morte, ha pur visto la fine del regime di Hosni Mubarak (2011). Ancora una volta il testo si iscrive nel segno di un incontro intergenerazionale che ha animato le proteste in Egitto degli ultimi anni, unendo vecchie e nuove generazioni in una richiesta univoca di libertà e giustizia sociale. Nadia racconta quindi attraverso i frammenti dei suoi ricordi le speranze dei giovani di piazza Tahrir dalle manifestazioni al Ministero degli Interni fino ai luoghi più significativi del centro del Cairo, come l’antico caffè Groppi, usato come rifugio per evitare le violenze. Le proteste di piazza hanno ispirato un’intera generazione di autori, come per esempio la scrittrice Ahdaf Soueif ne Il Cairo, la mia città, la nostra rivoluzione. Anche il racconto di Nadia si fa originale e ricco di particolari sugli avvenimenti che hanno segnato i 18 giorni di occupazione di piazza Tahrir, vissuti tra piazza Talaat Harb e via Qasr el-Ainy, insieme ai suoi compagni, Galal, Rima e Leyla. Anche qui ritorna nel racconto di Nadia la continuità tra le proteste degli inizi del Duemila e del 2011 come a segnare la forza di un movimento che mai ha smesso di credere nella fine del dispotismo. Non mancano neppure i racconti di grandi amori, concretizzatisi nella presenza del dolce vedovo Zeyn e negli occhi del giovane Ali, “l’unica cosa che volevo vedere accanto a me quando, ogni mattino, aprivo gli occhi”. L’autrice, Dunia Kamal, 1982, è una documentarista egiziana che ha realizzato negli ultimi anni decine di documentari lavorando anche con al-Jazeera. Nel 2015 ha vinto il premio letterario Sawiris per i giovani autori emergenti proprio con La settima sigaretta. La rivista Vice in arabo ha pubblicato un suo resoconto sulle molestie sul lavoro che le ha causato minacce di querela. Eppure, nonostante l’entusiasmo iniziale, neppure Nadia, la protagonista del libro, riesce a sottrarsi alla tristezza per la morte del padre e alla disillusione della repressione che il regime ha portato in Egitto dopo il golpe del 2013 costringendo la “meglio gioventù” egiziana in carcere per motivi arbitrari, ricordiamo Patrick Zaki, Ismail Iskandarani, Haitham Mohammadin e gli altri 60mila ancora in detenzione, secondo i report di Amnesty International. “Non lavoro più molto, alcuni anni fa sono riuscita a risparmiare”, e prima di prendere il volo e lasciare il paese Nadia scrive: “forse un giorno torneremo, forse torneremo per ricominciare tutto daccapo”.

Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – Eric Salerno (Il Saggiatore)

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Estratto dal capitolo: Libia e Camerun

 

«Assaggia» intimava allungando il braccio con un sorriso, quasi una sfida. La giovane, minuta, mi fece tornare alla mente un’altra donna incontrata sui monti del Darfur, in Sudan, che anni addietro mi aveva offerto e fatto gustare per la prima volta una cavalletta appena catturata e affogata in un secchio d’acqua. Qui, nel profondo Sud della Libia, la donna, abbondantemente coperta salvo i piedi che trascinava in acqua, si spostava avanti e indietro sulla riva del lago abbassando e rialzando una retina attaccata a un lungo palo e rispondeva al mio sguardo incuriosito con la sua offerta. Vuoi assaggiare? Vuoi guardare più da vicino? Prendi, prendi in mano. Non fa male.

Il mio interprete, un berbero della costa, sofisticato e poco avvezzo alle avventure in mezzo alla splendida natura del suo paese, non nascose un certo disgusto, se non disprezzo, mentre cercava di mettermi in guardia. «Sono vermi! Questa gente mangia di tutto» spiegò con una smorfia che voleva essere anche un sorriso. Era la metà degli anni settanta. Da quasi un mese stavo girando la Libia alla ricerca di testimoni delle atrocità commesse dai colonialisti italiani. Avevo parlato con decine di anziani beduini del Nord, fra la Tripolitania e soprattutto quella Cirenaica considerata povera quando gli italiani le appiopparono la definizione di «scatolone di sabbia», ma ormai centro della lucrosa attività delle compagnie petrolifere, Eni e Agip in testa. I colonialisti francesi e inglesi cercavano ricchezze nelle terre di cui volevano appropriarsi. Il Regno d’Italia si era «accontentato» di terra da coltivare e da affidare ai contadini della penisola, alla ricerca di spazio vitale. Un’alternativa alle grandi migrazioni verso le Americhe.

Curiosamente negli stessi anni in cui gli italiani, ormai sotto il fascismo, si radicavano in Libia, una commissione di ebrei venuta dalla Gran Bretagna cercava a sua volta spazio vitale in Cirenaica. Si chiamavano territorialisti e si contrapponevano ai più noti e motivati sionisti: a loro sarebbe bastata una «terra per gli ebrei» e non necessariamente creare uno stato ebraico in Palestina, la Terra santa, con Gerusalemme come capitale. Operazione sempre coloniale ma pretese minori. Si fecero accogliere dagli ebrei che da quasi duemila anni abitavano lungo la costa mediterranea della Libia. Parlarono con i rabbini, i saggi delle comunità, i padri di famiglia e tornarono a Londra delusi. Quella terra, scrissero, era troppo arida. Non poteva servire. Era sufficiente osservare la superficie per capirlo: rocce, sabbia, ciottoli e poca acqua. Come gli italiani, non potevano sapere ciò che nascondeva il sottosuolo: uno dei giacimenti di idrocarburi più vasti della terra e di qualità superiore a quasi tutti gli altri. Per non parlare dei minerali rari di cui solo da poco si è capita l’importanza.

Come aal’inizio del decennio, quando la visitai per la prima volta, nel 1977 la Libia paese era governato da Mu’ammar Gheddafi. Stava diventando sempre più ricco e il giovane ufficiale cercava modi per distribuire le ricchezze naturali a una popolazione di appena sei milioni di abitanti, sparsi in una terra vasta e in qualche modo sconnessa. Parlai a lungo con i reduci della guerra coloniale, gente sopravvissuta ai campi di concentramento, alle torture, alle impiccagioni, ai maltrattamenti. E dalla costa mi spostai verso il Sud della Cirenaica e il Fezzan, la zona più desertica ancora oggi poco sfruttata dalle compagnie petrolifere dove il Leader, così voleva essere chiamato, cercava con poco successo di trasformare i nomadi – soprattutto tuareg – in contadini sedentari. Scimmiottando Mao, aveva scritto il suo Libro verde. Non aveva una precisa ideologia, anche se il suo pensiero ondeggiava tra socialismo e comunismo. Aveva in mente – mi confessò – un modello, ed era quello del kibbutz o del moshav israeliano. Comunità fondate sul lavoro collettivo e sulla condivisione. Alla fine quella formula nata nei sogni dei comunisti ebrei sovietici non ebbe grande successo nemmeno in Israele. L’adattamento confuso e incerto voluto da Gheddafi si rivelò un fallimento già in partenza.

A ogni famiglia di nomadi o seminomadi sedentarizzati praticamente con la forza era stato assegnato un appezzamento di terra arida da coltivare. Trattori e altri mezzi agricoli venivano condivisi da molte famiglie che, in teoria, potevano aiutarsi a vicenda. Ogni appezzamento era diviso in quattro part: in un paio il neocontadino poteva scegliere cosa seminare; nelle altre due, o anche in una sola, il prodotto d’obbligo era l’erba medica, che veniva acquistata in blocco dallo Stato per destinarla agli allevamenti di bestiame allestiti nelle vicinanze. L’incasso garantito da questo meccanismo era più che sufficiente per mantenere una famiglia, motivo per cui gli appezzamenti di erba medica davano segni di grande vitalità, mentre gli altri rimasero semiabbandonati.

Ma torniamo alla giovane con i piedi nelle acque del lago. Durante la mia ricerca nel profondo Sud della Libia mi ero ricordato di aver letto su un vecchio libro dell’esistenza di un complesso di laghi salati in mezzo a un mare di sabbia. Trovammo un autista locale in quella che si sarebbe rivelata un’esperienza tra le più belle di tutti i miei viaggi nel Sahara. Avevo imparato a guidare abbastanza bene tra le dune, soprattutto la mattina, quando il gelo notturno le rafforza e reggono il peso delle macchine. Mai, però, avrei potuto anche soltanto seguire le tracce del nostro autista locale che si muoveva senza bussola o l’aiuto notturno delle stelle. Ci volle almeno un’ora per arrivare al primo lago, piccolo e disabitato. Al secondo incontrammo un pescatore di minuscoli crostacei – non vermi – che da millenni costituivano la principale fonte di proteine per la gente dei villaggi isolati. L’Artemia salina viene allevata e utilizzata come alimento per i pesci d’acquario. Una volta, forse per la velocità con la quale si sposta in acqua, era chiamata «scimmia di mare». Vivono in genere quasi quattro mesi e nell’arco della loro vita producono costantemente uova.

«Assaggia!» E assaggiai. Sapevano di sale, poca sostanza, ma poi mi spiegarono che in genere non vengono mangiate crude e nemmeno una alla volta, ma se ne fanno delle piccole polpette che vengono lasciate essiccare al sole e consumate nel corso dell’anno per integrare il fabbisogno di proteine.

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Eric Salerno (New York, 1939), giornalista, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente del Messaggero da Gerusalemme per quasi trent’anni. Nel 1961 ha portato i Peanuts di Charles M. Schulz in Italia. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Guida al Sahara (SugarCo, 1974), Fantasmi sul Nilo (SugarCo, 1979), Israele. La guerra dalla finestra (Editori Riuniti, 2002), Genocidio in Libia (manifestolibri, 2005), Mosè a Timbuctù (manifestolibri, 2006). Per il Saggiatore sono usciti Uccideteli tutti (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013), Intrigo (2016) e Dante in Cina (2018).

Overbooking: Lucio Saviani

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Nota di lettura

di

Cristiana Bullita

 

Nell’autorevole citazione che introduce il saggio di Lucio Saviani “L’esercizio della filosofia”, Jankélévitch invita i filosofi di professione a “rompere con le idee date” e a “percorrere cammini nascosti e abbandonati”. Ebbene, chi conosce e segue Saviani sa che da sempre le sue proposte teoriche sono connotate da audace e brillante originalità e che, nel percorrere i suoi temi più cari –il linguaggio, il gioco, il limite, l’Altro, cui qui se ne aggiungono alcuni più evocativi del dramma pandemico: incertezza, distanza, convalescenza- egli è costantemente sostenuto dall’originario spirito anarchico della filosofia, che gli fa preferire i percorsi in ombra e in salita della speculazione più ardua e meno battuta.

La filosofia risulta essere infatti, per Saviani, “azzeramento delle certezze quotidiane e neutralizzazione dei significati già dati”. Se compito della filosofia è anche quello di spogliare il mondo dei significati tradizionalmente attribuiti alle cose, ciò non vuol dire naturalmente che in esso il senso si dilegui. Come efficacemente scrive l’autore, resta intatto un “orizzonte del senso”, che è il silenzio che partorisce i significati, maieuticamente interpellato dalla filosofia. Dal fondo melmoso e silenzioso dell’essere la rete del linguaggio tira in superficie succose zolle di significato. Dall’orda materiale e muta della Realität insospettabili segni, fattisi parola, bucano la superficie dell’irrilevanza fattuale ed esplodono in significati inediti.

La riflessione di Saviani sulla filosofia, qui e altrove, è sempre molto densa e articolata. La filosofia è conciliazione di affettività e logica, desiderio, passione, verità, dissenso, è cura della distanza ma è pure, con Merleau-Ponty, “l’utopia di un possesso a distanza”. Come in Platone è “rinuncia, ascesi, impegno, pratica quotidiana. È esercizio”. Da qui il titolo di questo saggio.

Tuttavia la filosofia, resasi conto che le scienze particolari si sono appropriate dei suoi abituali oggetti d’indagine (l’uomo, la natura, la storia), ha risposto articolando il discorso filosofico in discipline particolari. Tale tendenza e la permanente indeterminatezza dell’oggetto della riflessione filosofica sono forse all’origine di alcune frettolose sentenze di morte della filosofia da parte di non addetti ai lavori (Stephen Hawking), ma pure di sconsolate meditazioni di esperti (Ortega y Gasset, Dilthey, Simmel). Al punto che Pareyson, ci ricorda Saviani, evoca il paradosso di una filosofia che “dichiara essa stessa la propria fine”.

Non sfugga, sempre a proposito del ruolo della filosofia, l’irritata considerazione dell’autore sulla “continua erosione” delle ore d’insegnamento della materia nei licei e nelle università, che fa il paio con “l’odierna a volte pervasiva presenza della filosofia” in ambiti non consueti, cioè a festival, caffè, salotti, passerelle ideali per intellettualoidi post moderni, per dirla con Corinne Maier.

C’è poi, nel saggio, un’interessante riflessione sugli intellettuali e sulla dissoluzione della loro funzione politica e sociale. È tramontata l’epoca che Derrida definiva della “tentazione di Siracusa”, che è la stessa dei Lumi che, presso le corti settecentesche, consentivano importanti riforme e avanzamenti sociali. Tra gli altri, Ocone e Patella, opportunamente convocati da Saviani, ci mostrano il servilismo degli intellettuali odierni verso il potere di turno e la loro irrilevanza sui processi decisionali della società.

Due colossi del pensiero filosofico novecentesco attraversano questo saggio da cima a fondo e lo permeano di sé: uno è il più volte citato Jankélévitch, l’altro è Gadamer. La figura di Hans-Georg Gadamer è certamente uno dei capisaldi della formazione filosofica e umana di Lucio Saviani. Nelle parole riferite al maestro riecheggiano sempre ammirazione e riconoscenza. Nel saggio Saviani affida proprio a Gadamer il suggestivo racconto delle origini della filosofia, lo interroga sui concetti di esperienza e di tolleranza e gli affida il richiamo al compito politico dell’ermeneutica.

Al riguardo, è importante segnalare la militanza umana e filosofica dell’autore sui temi dell’accoglienza e del dialogo (quando non improntato alla retorica del “parlare a turno” e della “par condicio”): la trama profonda del reale implica un confronto costante e una relazione reciproca tra gli individui, che non sono monadi irrelate ma hanno sempre bisogno gli uni degli altri. Giova pure segnalare il ruolo implicitamente affidato alle opere pittoriche e alla scultura comprese nel saggio: in una società preoccupata di ribadire in modo ossessivo la sua presunta purezza identitaria e terrorizzata da ogni differenza, l’arte agisce come leva che scardina il modello rigido e chiuso della realtà e fa saltare ogni certezza precostituita.

Il saggio presenta anche alcune riflessioni tratte da una lezione alla Galleria La Nuova Pesa di Roma sul mito di Orfeo, con preziose citazioni di Rilke e Blanchot.

I versi di Orfeo, un cantante, di Pasquale Panella, concludono il libro, mostrando con indubbia efficacia quanto sia vero ciò che scrive Saviani a proposito della possibilità, non contemplata dal pensiero occidentale, di fare filosofia “secondo il racconto”, e non “secondo il ragionamento”. Infatti, il racconto/intuizione in prosa, versi o musica, con il linguaggio precipuo e non inferenziale dei grandi narratori, poeti, compositori, può affiancare con piena dignità –e sublime piacere dei fruitori– il tradizionale ragionamento/Logos, sul medesimo piano della riflessione filosofica.

 

E tu cantavi l’aria…

ossia nulla… ovvero tutto…

Perché è facile la confusione tra gli opposti…

Cantavi tutto ciò che è nulla,

cantavi tutto ciò che non è vero,

ma, non essendo vero, è commovente…

È tutto quel che manca all’esistente…

e, non essendo vero, è, appunto, eterno…

(P. Panella, Orfeo, Un cantante)

Poesia, azione pubblica (Milano 25-26 settembre, Teatro Litta)

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 MTM – Manifatture Teatrali Milanesi all’interno del Festival di teatro indipendente HORS – House of the Rising Sun

presenta

LA COSA FRA LE COSE

un’idea di Antonio Syxty

 

POESIA, AZIONE PUBBLICA

programma di letture, installazioni, performance,

tavole rotonde e dibattiti

a cura di

Paolo Giovannetti, Andrea Inglese, Italo Testa

L’iniziativa metterà in mostra la poesia contemporanea, sia sul piano artistico che critico, con l’intento di ricordare che la poesia oggi, in Italia e non solo, è una realtà non solo ben viva ma vivace, in grado di entrare in contatto con un pubblico non necessariamente di specialisti. Il Festival ospiterà anche la cerimonia di premiazione del premio Franco Fortini e ricorderà due poeti milanesi recentemente scomparsi: Franco Loi e Giancarlo Majorino. Fra gli ospiti, segnaliamo la partecipazione di Walter Siti e della poetessa e narratrice Laura Pugno. Dirigerà gli eventi l’artista e regista Antonio Syxty.

*PROGRAMMA*

 

SABATO 25 SETTEMBRE

Sala Teatro Litta

Pomeriggio

h. 15.00-16.30

Tavola rotonda

Poesia / Prosa / Narrazione

Con Paolo Giovannetti, Andrea Inglese, Massimiliano Manganelli, Martin Rueff,

conduce ItaloTesta

h. 17.00-18.00

Letture dei poeti

Maria Borio, Tommaso Di Dio, Rita Filomeni, Francesca Genti, Renata Morresi

h.18.30-19.30

Poetry performing

A cura di Antonio Syxty

Su testi di

Alessandro Broggi (Noi, Tic Edizioni, 2021)

Michele Zaffarano Quattro serie di istruzioni politico-morali (all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuovi) Tratto da: Istruzioni politico-morali, di prossima pubblicazione per [dia•foria.

Pausa

h 21.00

Poesia e musica

Vòltess, omaggio musicale a Franco Loi

Musiche di Tommaso Leddi

Voce Umberto Fiori – Chitarra Tommaso Leddi

Concerto di Umberto Fiori e Tommaso Leddi su testi di Franco Loi

Presentazione di Giancarlo Consonni e Paolo Giovannetti

h. 22.00

Poetry performing

A cura di Antonio Syxty

Su testi di

Giancarlo Majorino, Antologica, testi scelti da Andrea Inglese

Marlene NourbeSe Philip (Zong, Benway Series Editore 2021)

*

h.15.00-22.00

Sala La Cavallerizza

Alcesti allo specchio
Installazione site-specific | Rito scenico

a cura di Fabio Orecchini

 

DOMENICA 26 SETTEMBRE 

Teatro Litta

Mattina

Premio Franco Fortini

h. 11.00

Lectio Magistralis di Bernardo De Luca, Guerra e tempo in Fortini

h.12.00

Letture dei finalisti e premiazione

Alessandra Carnaroli, da Poesie con katana (Miraggi Edizioni 2019)

Luciano Cecchinel, da Sponda a sponda (Arcipelago itaca 2020)

Lorenzo Mari, da Querencia (Oèdipus Edizioni 2019)

Roberto Minardi, da Concerto per l’inizio del secolo (Arcipelago itaca 2020)

Laura Pugno, da Noi (Amos Edizioni 2020)

Pomeriggio

h. 14.30-15.30

Contro l’impegno?

Gilda Policastro e Antonio Tricomi dialogano con Walter Siti

h.16.00

Letture dei poeti

Biagio Cepollaro e Florinda Fusco

h. 16.30-18.30

Tavola Rotonda

Poesia e politica

Biagio Cepollaro, Florinda Fusco, Rino Genovese, Renata Morresi, Gilda Policastro, Walter Siti, Italo Testa,

conduce Andrea Inglese

h.19.00

Letture dei poeti

Carmen Gallo, Massimo Gezzi, Fabrizio Lombardo, Laura Pugno, Stefano Raimondi

Sera

h. 21.00

Poetry performing

Mi rimangono poche cose da dire

a cura di Gianluca Codeghini – suoni

e Andrea Inglese – testo

°

Onda statica,

melologo per voce amplificata e supporto digitale

Cesare Saldicco – musica e regia del suono

Italo Testa – script

Veleria Mastrosova – voce recitante

°

Progetto per una casa

di Giulio Marzaioli (Manufatti Poetici, Zacinto edizioni 2020)

a cura di Antonio Syxty

h. 22.00

Dis-lam. Cinque antidoti al dispiacere

a cura di Dome Bulfaro

con Beatrice Achille, Dome Bulfaro, Nicolas Cunial, Giuliano Logos, Paola Turroni

*

h. 15.00-22.00

Sala La Cavallerizza

Minima Oralia
Installazione sonora

a cura di Gabriele Stera

*

Si ringrazia la partecipazione e la collaborazione alle performance e installazioni degli allievi del IV anno Corso professionalizzate Quadrifoglio di  MTM Scuola Grock Rachele Bonini, Maddalena Borghesi, Cecilia Braga, Pietro Cavalieri, Margherita Caviezel, Nicola Fadda, Elisa Mercurio, Giorgia Paolillo. Con la collaborazione artistica di Susanna Baccari.

Il Premio Franco Fortini e la tavola rotonda Poesia e Politica sono realizzati con il sostegno della Fondazione per la Critica sociale

La libreria del Foyer del teatro Litta è allestita con la collaborazione di Guido Duiella della LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO Soc. Coop. A.R.L. Via Alessandro Tadino, 18 – Milano

INGRESSO LIBERO

(Con obbligo di Green Pass)

https://fb.me/e/2GZv6Z8gG

 

Il gelo e la verità

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di Sergio Pandolfo

Solo tredici chilometri, il romanzo scritto da Giovanni Accardo e Mauro De Pascalis (Edizioni alpha beta Verlag, p. 360), è uno di quei legal thriller che vorreste sempre leggere e portare con voi, sia che amiate il genere sia che siate dei lettori occasionali di thriller. La trama, lineare ma mai scontata, coinvolge fin dalle prime pagine, giovandosi di un’ambientazione da “gelo nordico”, quella delle strade innevate della Val Pusteria, in Alto Adige. È un gelo che accompagna costantemente il lettore, costituendo una cappa attorno alla verità; ma che pure chiede, implicitamente, di essere spezzato, affinché quella verità venga alla luce. La prosa di Giovanni Accardo – il quale ha dato forma a una storia realmente accaduta che ha avuto come protagonista l’avvocato Mauro De Pascalis – è nello stesso tempo concisa e sicura, ma anche evocativa e aperta ai dubbi esistenziali del protagonista che narra in prima persona: il giovane avvocato Marco De Vitis, le cui indagini costituiranno un vero e proprio apprendistato professionale. Non siamo di fronte a un eroe che non deve chiedere mai, a un uomo forte e sicuro di sé e degli eventi, (e per fortuna, mi viene da dire, ripensando ai tanti detective stereotipati che vengono propinati dall’industria culturale); De Vitis, invece, è un giovane avvocato che ancora deve farsi le ossa, e perfino capire che cosa significhi davvero, nelle aule dei tribunali, farsi le ossa. Fin dalle prime pagine, l’introspezione psicologica porta alla luce tutti i dubbi e le irrequietudini che travagliano la sua coscienza: «Stavo andando a incontrare un uomo di ventisei anni, dunque poco più giovane di me, accusato dell’assassinio di una ragazza di diciannove. Mi vennero in mente tutte quelle cene da studente in cui ti chiedevano, per curiosità sincera o semplice diletto, con quale spirito si potesse assumere la difesa di una persona che aveva commesso un grave reato. Ecco, appunto, io non ero sicuro che Martin fosse l’autore dell’omicidio di Johanna. Se durante il colloquio avessi avuto non dico la certezza, ma la sensazione della sua innocenza, sicuramente sarebbe stato più facile difenderlo. Lui naturalmente poteva mentire, ma io dovevo fidarmi. Dovevo? Le domande giravano in tondo. Forse perché ero alla mia prima, vera esperienza professionale. Certo che te lo chiedi se stai prendendo le parti di un efferato assassino o di un povero innocente, però allo stesso tempo devi rimanere entro i confini del tuo mandato, senza farti troppi scrupoli. Chissà se i principi del foro si pongono tutti questi interrogativi, mi dicevo, o se col tempo si diventa impermeabili ai dilemmi morali e alle emozioni.» (pp.31-32).
Tutto era cominciato in un pomeriggio d’autunno, quando dentro a un fosso, al margine di una strada di campagna veneta, era stato ritrovato il cadavere di una ragazza, poi identificata come Johanna Pichler: una diciannovenne austriaca residente a Sillian, un paesino appena oltre il confine sudtirolese, a pochi chilometri dalla Val Pusteria. La ragazza presentava chiari segni di strozzamento, i pantaloni abbassati e del nastro adesivo a foderarle la bocca. Le indagini svolte dagli inquirenti conducevano fino a un giovane di San Candido, Martin Scherer, con il quale Johanna aveva trascorso le sue ultime ore di vita. Fra i due paesi, Sillian e San Candido, vi sono soltanto tredici chilometri, e questo particolare ispira il titolo del romanzo. Il quadro indiziario a carico di Martin appariva pesante, al punto che il giovane era stato subito condotto in carcere. Marco De Vitis ha accettato di patrocinarlo, e si sta per l’appunto recando a interrogarlo.
L’incontro è di quelli che lasciano il segno. Infatti, il giovane si dichiara assolutamente estraneo all’omicidio: «Io credo nella giustizia» rivela, «perciò voglio uscire dal carcere solo quando sarà provata la mia innocenza, non prima. Faccia di tutto, avvocato, io ho pazienza e aspetterò. Tiri fuori la verità.» Per De Vitis si tratta di una vera e propria investitura, l’invito a indagare meglio di chiunque altro, a superare i muri dell’apparenza, del pregiudizio, della banalità e dell’ovvio. È l’inizio della sua carriera professionale, come dicevo più sopra, ovverosia la scoperta di un mondo che certamente è assai più sporco di quanto egli poteva immaginare. Glielo confermeranno anche le parole dell’avvocato Efisio Serra, docente di Procedura penale all’Università di Padova e patrocinatore più esperto di lui, che lo affiancherà nella difesa dell’imputato e al quale De Vitis chiede consiglio dopo aver commesso la leggerezza di far rispondere l’imputato all’interrogatorio di garanzia: «Marco, te lo dico per il tuo futuro, visto che sei ancora giovane: nel nostro mestiere bisogna saper essere anche cinici e non fidarsi di nessuno. La bontà, la generosità, la comprensione, lasciale ai preti.» (p.76).
E tuttavia, oltre alle strade del cinismo privo di misericordia e della ingenua fiducia nel prossimo, ve ne è certamente un’altra: quella della tenacia, della caparbia ricerca della verità, che l’avvocato De Vitis decide di imboccare, in barba a quei principi del foro che col tempo sono diventati impermeabili ai dilemmi morali e alle emozioni. Potremmo dire, con una parola che non deve sembrare fuori luogo, la strada dell’“amore”, se intendiamo l’amore non nel suo significato comune, bensì come tensione, come resistenza a un tutto più grande di noi, costituito dall’indifferenza degli uomini a ogni valore sostanziale e dal mero e freddo rispetto delle regole procedurali, che giocoforza, e per quanto sacrosante, possono talora arrivare a non tenere in conto quei valori. È una strada difficile da percorrere, ma credo che proprio a questo “Solo tredici chilometri” debba il suo fascino, e ritengo che la sua lettura non mancherà di toccare l’animo di quegli avvocati – forse sempre più rari, ma io spero di no – che ogni giorno combattono le loro battaglie nelle aule dei tribunali nutrendo la convinzione che la loro professione richieda, malgrado tutto, malgrado le scappatoie e i cavilli burocratici, malgrado le vie più comode e sicure, il rispetto non solo della deontologia professionale, ma, appunto, di principi di giustizia sostanziale che non è possibile calpestare. Perché ciò avvenga, perché si imbocchi questa strada, come dicevo poc’anzi, bisogna avere il coraggio di andare oltre i muri del pregiudizio, della banalità e dell’ovvio.
Questo è il viaggio che compirà l’avvocato De Vitis. Un viaggio in cui il rischio è quello di rimanere soli, giacché si vuole percorrere la strada più irta e accidentata, si vuole remare contro l’indifferenza e l’opinione comune, contro il mondo del “così si dice” e “così si fa”, certamente assai rasserenante, ma anche così pericolosamente al confine con quello di una “normalità” che costituisce, per usare una frase di Robert Musil, la media ponderata in cui si celano – e magari si giustificano anche – tutti i crimini che sono stati commessi. E dunque non stupisce che all’investitura ricevuta da Martin, al mandato di tirare fuori la verità, De Vitis risponda perseguendo questa strada accidentata. Non stupisce che egli faccia rispondere Martin all’interrogatorio di garanzia, reputandolo innocente; che senta, improvviso, l’anelito di recarsi sulla tomba di Johanna Pichler (constatando, non senza un filo di amarezza, che le uniche impronte che segnavano il percorso tra la chiesa e il camposanto erano le sue); che si dedichi a quel processo anche al prezzo di sacrificare il proprio tempo e di mettere a repentaglio i rapporti con la moglie Francesca; che interroghi, senza nulla tralasciare al caso, quante più persone possano essere informate dei fatti, cercando di superare le difficoltà che incontra, prima fra tutte, quella della lingua.
La questione della lingua, in effetti, colpisce subito il lettore attento. Ci troviamo in una terra di confine, dove si mescolano persone diverse, e tra parlanti tedesco e parlanti italiano sussiste già il rischio di guardarsi in cagnesco, di diffidare gli uni degli altri, di chiudersi nel guscio delle proprie cerchie e dei propri abiti mentali. Così, De Vitis si imbatte in quello che fin dal processo a Socrate era considerato il più pericoloso dei nemici: il pregiudizio della gente. Si noti come il gelo di Sillian, il paesino in cui viveva Johanna, faccia il paio con l’indifferenza e il “gelo” dei vicini di casa della ragazza: «Sillian era imbiancata dalla neve caduta copiosamente durante la notte. Anche per questa ragione passavano rare macchine e si sentiva unicamente lo scricchiolio dei miei scarponi […] Due donne mi guardavano da dietro i vetri, non appena feci loro un cenno di saluto, aprirono la finestra. Dissi che ero un giornalista del Sudtirolo, chiesi cosa pensassero della morte della loro vicina. Dapprima sembrarono non capire, poi una delle due mi disse che con la vita che faceva, non era strano che prima o poi le capitasse un incidente […] Improvvisamente arrivò un’auto. Ne scese un tizio con le buste del supermercato. Una delle due signore con cui stavo parlando gli disse che ero un giornalista italiano che cercava notizie di Johanna. Mi guardò con espressione ostile e poi mi domandò dove prendesse i soldi per l’affitto la ragazza […] Andando avanti con la conversazione, sia pure senza essere mai espliciti, capii che i tre insinuavano che Johanna si prostituisse. L’unica certezza che ricavai da quella chiacchierata fu che non era per nulla amata dai vicini. Mi stupì la loro ferocia, l’assoluta mancanza di pietà per una ragazza brutalmente assassinata.» (pp.89-90). Tutto suona così scontato, così normale, eppure nella banalità del quotidiano – simboleggiata da quell’uomo che torna coi sacchetti della spesa e guarda in cagnesco l’avvocato De Vitis – si annida, subdolamente, il male. L’indifferenza rende ciechi al dolore umano, il pregiudizio impedisce alle persone di aprire i propri occhi e il proprio cuore: Johanna conduceva un’esistenza disordinata, non lavorava, dunque viveva di espedienti e non poteva che appartenere a una classe sociale infima; con ogni probabilità si prostituiva anche, dunque è facile pensare che se la sia andata a cercare, che prima o poi le sarebbe dovuto capitare qualcosa. Dal loro punto di vista, queste persone non si rendono nemmeno conto delle motivazioni che spingono l’avvocato De Vitis a indagare. Infatti, perché spaccare il capello in quattro quando ci si potrebbe accontentare della soluzione più semplice, scivolando sopra l’involucro dell’ovvio? E in tal modo, è altrettanto ovvio che ognuno dei personaggi interrogati dall’avvocato si chiami implicitamente fuori dalla vicenda, quasi a non voler ammettere che in un mondo destituito da ogni vero afflato di solidarietà, e in costanza di quel “gelo” dell’indifferenza umana che ci avvolge, un profilo di responsabilità in realtà ce l’abbiamo tutti. Non far nulla, non muovere un dito, è già la colpa più grande, come diceva Elsa Morante, perché l’inerzia stessa delle nostre condotte contribuisce ad avallare il male.
Ma se le lingue corrono il rischio di dividere, se ci si imbatte nell’esistenza delle classi sociali e del pregiudizio sull’altro, c’è forse qualcosa che può andare al di là di tutto questo, che può accomunare e riuscire ad affratellare: la volontà di superare gli ostacoli mettendo in circolo l’amore per la verità. È forse questo l’unico modo per fendere il gelo dell’indifferenza e del grigiore del quotidiano, pur nella consapevolezza che in quel quotidiano siamo immersi, come l’orizzonte ineludibile delle nostre esperienze di vita. Non si tratta (e come sarebbe possibile, in fin dei conti?) di uscirne fuori; bensì di “trasformarlo”, ovverosia di innervarlo di significato nuovo. Soltanto se si pone in essere questo tentativo, soltanto se si superano le barriere interpersonali, le nostre parole e i nostri gesti non saranno quelli di automi o di marionette, ma acquisteranno forza e autenticità. Soltanto in tal modo sarà possibile attingere a una fonte di verità che estingua la nostra sete di giustizia.
A questo punto tocchiamo un altro nodo del romanzo, quello della distinzione tra una verità processuale e una verità reale. Già questa seconda, del resto, può non presentarsi – e spesso non si presenta mai, in sé e per sé – come univocamente determinata, ma è bensì prismatica, quasi che ognuno possedesse la “sua” verità. «Sapevo che la verità processuale non poteva corrispondere alla verità fattuale, a cosa era accaduto realmente la notte del 5 novembre 2000. Quello lo sapevano soltanto i protagonisti e ognuno certamente l’avrebbe ricordato e raccontato a modo proprio.» (p.132) Personalmente, aggiungerei perfino l’ipotesi in cui nemmeno i protagonisti sappiano davvero che cosa sia accaduto: un’ipotesi affatto lontana dalla realtà dei tribunali, nella quale è dato constatare veri e propri buchi di memoria nei ricordi di imputati e testimoni, nonché continui cambiamenti nelle loro versioni dei fatti. Non credo che, in fin dei conti, ciò debba stupire più di tanto: viviamo nei tempi in cui la coscienza è arrivata a dubitare di se stessa e delle proprie rappresentazioni. Due osservazioni, però, sono d’obbligo. La prima è che i fatti non possono perdere di “oggettività”. Se qualcosa è accaduto, questo qualcosa è andato in un certo modo, e non in un altro. Così, se i muri di un luogo in cui è avvenuto un omicidio potessero parlare, ci direbbero in maniera oggettiva chi è l’assassino. Già questa semplice constatazione giustifica in sé l’esigenza della ricerca della verità. È inoltre opportuno spendere qualche parola a proposito della verità processuale, affinché questa non venga confusa con una delle tante versioni soggettive della verità: a quel punto, infatti, verrebbe messa sul loro stesso piano; e come queste, patirebbe il rischio di poter essere comodamente delegittimata come una verità (opinione) fra tante. A scanso di equivoci, è bene affermare subito che essa non lo è, già per il semplice fatto che venga messa in moto l’intera macchina dell’amministrazione della giustizia: una macchina che, piaccia o no, nutre in qualche modo la pretesa di gettare una luce su come si siano svolti determinati fatti, e sulla qualificazione giuridica da assegnare loro. È ben possibile, però – purtroppo o per fortuna – che verità processuale e verità in senso “oggettivo” non coincidano. «Nel processo c’è tutto e il suo contrario. Proprio come nella vita. Può capitare che chi è dalla parte della ragione esca sconfitto solo perché non ha offerto al giudice idonea documentazione; oppure chi è colpevole viene assolto, per la superficialità delle indagini o per la bravura dell’avvocato.» (p.154) Sappiamo bene che quando ci è dato sperimentare questo scarto, quando sospettiamo che un provvedimento giurisdizionale tradisca la via della verità oggettiva accontentandosi di una verità “di facciata”, nasce nell’animo un’insoddisfazione, una sete, appunto di giustizia. Sembra che la macchina processuale abbia in qualche modo tradito se stessa, e noi stessi in quanto cittadini ci sentiamo traditi. Scopriamo così che se l’Amministrazione della Giustizia vuole mantenere credibilità agli occhi del cittadino, non può fare a meno di un valore sostanziale, un valore, appunto… di giustizia.
Appellarsi a un simile valore può forse suonare metafisico, in tempi come i nostri, ma a ben vedere non lo è affatto. Ciò non significa, infatti, che tutto potrà essere spiegato, che ogni domanda riceverà una risposta. Certe vicende si concludono «senza un autentico finale, come spesso accade nella vita» (p.352) constaterà l’avvocato De Vitis, e tuttavia, per quanto possibile, non bisogna desistere dal tirar fuori dai fatti la verità, soprattutto di fronte ai crimini più gravi. Lo sforzo in sé, la tensione, lo streben che muove De Vitis è già degno di nota. È quanto si può chiedere a un professionista onesto e ligio al dovere, visto che quella dei patrocinatori è pur sempre un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Alla fine, se tutto non potrà essere spiegato, gli aspetti essenziali della vicenda verranno comunque a galla: il colpevole pagherà per le sue colpe, e giustizia sarà resa alla vittima, per quanto questo non possa riportarla in vita. Il ricordo, almeno, consentirà di non obliare l’accaduto, e di ricavare l’importante lezione che le barriere tra gli uomini – linguistiche, di classe sociale, di sesso o di razza – si presentano invalicabili soltanto nel gelo dell’indifferenza umana; ma una volta superate dalla tenacia e dall’amore si rivelano per quello che sono davvero: sottili e inconsistenti, come quella breve distanza cui fa riferimento il titolo del romanzo: «Vorrei andare sulla tomba di Johanna, mi porteresti?» «Ma certo», risposi. «Sono solo tredici chilometri.» (p.352)

Dalla scatola di scarpe a via Vigevano: andata e ritorno

1

di Marina Massenz

Le poesie di Angelo Lumelli, Milano, edizioni del verri, 2020, pp. 147

Per parlare di questo libro si potrebbe partire da alcuni versi dell’ultimo testo (che peraltro appartiene alla prima raccolta di Lumelli, Cosa bella cosa), perché già si intuisce qui un filo conduttore che andando dal passato ai più recenti scritti li lega insieme senza discontinuità, ma come un puro svolgimento che dunque si può leggere in una direzione o in quella opposta.

 

l’universale non verrà

(ma non ci lascia le parentesi?)

quindi accecante

rimarrà la luce?

 

Già, infatti accecante rimarrà la luce, ma almeno ci lascia la poesia tra parentesi. Poesia come linguaggio tra parentesi (…); lì, in mezzo, potrebbe essere come non essere. Tra queste parentesi si situa tutto un mondo di lato, non confiscato dalla realtà.

L’oscurità dei testi di Angelo Lumelli non sta nel linguaggio (non vi sono parole/forme sintattiche sperimentali o azzardi formali), ma nella mente. Che si fissa, vaga, divaga… si allontana, associa e dissocia elementi secondo nessi imprevisti. La mente, nel suo silenzio, scarica universi di parole saltando da un tempo all’altro, così come da una scena all’altra. Lumelli mette in scena il teatro della mente, senza riordinarlo prima secondo nessi logici o unità spazio-temporali; lo lascia andare. La mente è l’origine, è qui che il pensiero si scinde in mille rivoli, connettendo luoghi, episodi, tempi anche lontani e diversi tra loro.

La voce di Lumelli è unica, impossibile non riconoscerla; anche perché di questo divagare l’autore tiene i fili, uno per ogni dito delle mani, come un burattinaio, per poi ricollegarli (magari dopo varie righe o pagine intere) in un gioco di movimenti e di trame sottile e delicato. Traccia una tela/sentiero che pare esile e invece stringe, finché tutto l’insieme appare completo e complesso e sfaccettato. Lumelli crea la sua poesia seguendo il flusso con cui la nostra mente lavora quando è a riposo da cure, opere o pensiero razionale; come la mente si muove se si è sdraiati su un prato e si guarda il cielo, svagando, o come accade prima di addormentarsi, mentre immagini diverse e a volte impreviste si sovrappongono, scorrono, si intrecciano. Così guarda un fiore giallo, pensa a via Lorenteggio, a quel palazzo in sfascio, poi arriva la ragazza in auto con lo stivaletto a stringhe e poi via di nuovo, siamo in Via Vigevano. Non cerca di mettere in ordine, lascia andare così questo flusso, su cui poi interviene con l’ardita abilità di un poeta di lungo corso a dare regola e bellezza formale, ogni parola a sé come precisa e scelta affermazione. La mente procede senza ordine apparente, ma per un succedersi di immagini che fanno capolino a margine del testo principale, e Angelo è dietro, le insegue, le incornicia, poi torna sul sentiero principale; altre immagini appaiono, a volte si sovrappongono, vanno scremate, vanno incorniciate… il lavoro della “poesia sospesa” è infinito e in un certo senso non terminabile. Perciò forse, dopo avere definito i suoi testi conclusi e pubblicati dei “relitti”, ha avuto il desiderio di dare loro nuova vita, per ribadire che il percorso del fare e disfare è interminabile, come la vita finché siamo in vita. Questo libro è dunque il “ripronunciamento” di tutta la sua opera poetica.

Generalmente pensiamo che la mente coincida con la “logica”, lineare e netta nel suo procedere; solo se ci facciamo caso, seguendola come osservatori un po’ distanziati, ci accorgiamo che invece no, lavora sul molteplice e contemporaneamente, scivola oltre per immagini, così come fa Lumelli con le sue bellissime poesie.

E poi c’è la “pausa”, di cui ci parla lui stesso in La porta girevole dell’hotel Excelsior, quasi una chiusa al termine del libro, tesa non tanto a spiegare quanto a suggerire ulteriori significati e suggestioni alle proprie scelte di poetica: “La pausa richiede l’arte del disimparare, l’impiego sensibile dell’oblio, virtù che, a fronte delle abilità semiotiche, spandono un profumo eretico e mistico…” (p. 134). È la pausa che dà gravità alle parole, come pesanti vogliono essere le parole della poesia. “Tra tutte le pause, una incombe, immobile e oscura; è la pausa con un lato solo, primigenia, in difesa della nostra nascita, interruzione e inizio capitale, pausa madre, pensiero della mia nuca.” (p. 134)

Così, all’origine c’è la nuca, che prende contatto con l’aria del reale, e prima ancora questa oscura pausa, a cui siamo destinati a tornare: “…la parte della nuca, oserei dire la mia maternità”. Il luogo dell’origine è anche una poesia primaria, in urto con il linguaggio, che insegue le voci degli uccelli, ma senza assimilarsi a esse. Come dice Re Lear, nel senno della pazzia: “Quando si nasce, si piange perché ci si ritrova / su questo enorme palcoscenico di matti…”. E così Shakespeare sa fare del teatro poesia e del linguaggio dei matti la voce primaria dell’origine o la voce della verità che vola sopra i fatti, svelandoli.

Quanto spesso, poi, Lumelli ci parla di anima! Lo spirituale che può essere ovunque, in un bicchiere in una palpebra in una pozza d’acqua. Una poesia spirituale, che mai dice ciò che cerca, ma solo ciò che trova. Ma che si trova, comunque, anche se fuori tiro, sotto il dito puntato di dio…

 

…allora perché brilla

sulla tovaglia

il bicchiere di cristallo

perché cade l’anima

in tante cascatelle

quando suoni alla porta?

(da Trattatello incostante, 1980, p. 94)

 

…e il verso bello? – giostra della nostra privazione – pensiero fuori tiro – sotto il dito puntato di dio?

(da Seelenboulevard, 1999, p. 60)

 

Concludo dicendo che queste poesie sono testi che spingono, che attivano la mente e l’emozione, il cuore e l’anima, che portano ad altri pensieri… perciò è necessario leggerle più volte; come rovistando in un antico baule, tutto finisce per aria, cade a terra, svolazza intorno, ci intriga e ci abbandona, ma poi lo ritroviamo, insieme alle vecchie foto ingiallite, in posa i presenti per lo scatto, dentro la scatola delle scarpe.

Salire al Pian dei Ciliegi

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di Paola Ivaldi

La meditazione fa nascere in noi una sorta di testimone che spia il turbine dei nostri pensieri senza lasciarsene travolgere. Noi siamo puro caos, confusione, siamo una poltiglia di ricordi e paure e fantasie e vane aspettative, ma dentro di noi c’è qualcuno di più tranquillo, che vigila e riferisce.”
Emmanuel Carrère, Yoga (2021)

Può capitare, nella vita, di attraversare lunghi periodi complicati: molto lunghi, molto complicati. Quando ciò accade tendiamo d’istinto a cercare formule e pozioni, a adottare goffe quanto vane tattiche di scansamento o a fiutare scorciatoie. Gli approdi, che possono essere i più svariati, dalla chaise longue dell’analista lacaniano al divano dell’amica del cuore, dal bancone della farmacia alla sdraio ergonomica del centro benessere, si rivelano quasi sempre illusori, poiché nei mari agitati dell’esistere, c’è poco da fare: l’annaspare è azione solitaria.

Da anni accarezzavo l’idea di avvicinarmi alla meditazione sostanzialmente per questo: tentare di capire se e come poter iniziare a coltivare delle risorse interiori, tutte mie, per affrancarmi dall’odiosa sensazione che la soluzione di un tormento esistenziale sia sempre un altrove rispetto a me, che debba avvenire in conseguenza di una delocalizzazione, di una delega affidata ad altri o ad altro, soprattutto che abbia a che vedere con il denaro, passando attraverso l’acquisto di prodotti, servizi, prestazioni.

Così, a luglio, finalmente decido di salire al Pian dei Ciliegi, tra i Colli Piacentini, per partecipare a un ritiro di meditazione Vipassana, non sapendo nulla di meditazione Vipassana (che significa visione profonda), non conoscendo il programma della settimana, ignorando in buona sostanza quello che mi aspetta se non a grandi linee, per aver dato un’occhiata fugace, qualche giorno prima di partire, al “Codice di comportamento – Considerazioni da tenere a mente prima di iniziare un ritiro” ricevuto via mail all’atto di iscrizione.

A dire la verità, la mia lettura del Codice era stata alquanto sbrigativa, come a non voler mettere a fuoco l’impegno che un ritiro richiede a chi vi prenda parte, preferendo sorvolare sugli aspetti più spinosi e di certo poco allettanti. Tuttavia, c’era una frase che mi si era scolpita nella mente e che mi facevo bastare: “il ritiro è un’opportunità rara per dedicarsi all’introspezione e alla crescita personale”. Questo concetto, da solo, per me era sufficiente a farmi partire, convinta che le eventuali difficoltà o i disagi conseguenti al rigore e alla disciplina che intuivo essere richiesti facevano parte del “pacchetto” e, in un modo o nell’altro, erano da affrontare.

Il giorno dell’arrivo cade di domenica; giungo a destinazione a pomeriggio inoltrato, già in lieve affanno per quello che considero un ritardo, infatti sono l’ultima a rispondere all’appello. Viaggiare in solitaria e senza navigatore, d’altronde, con le cartine stradali e i soliti quattro, cinque fogli stampati da Google maps stracolmi di indicazioni circa le uscite dalle rotonde da imboccare, implica accettare qualche disguido, strade sbagliate, retromarce, inversioni a U. L’incertezza. Quel pizzico di “avventura” a cui siamo sempre meno abituati, ma che, in fondo, è proprio quella marcia in più che impreziosisce il raggiungimento della meta.

Ad accogliermi la giovane tutor del ritiro che mi spiega, attraversando serafica il piazzale di ghiaia e poi accompagnandomi fino alla stanza assegnatami, le cose fondamentali da sapere e alle quali cercare il più possibile di attenersi. La prima è il rispetto del Nobile Silenzio. Posso interromperlo solo con lei, per chiedere eventuali informazioni pratiche durante il ritiro, e con l’insegnante insieme alla quale si prevede, a partire dal giorno successivo, un colloquio quotidiano individuale di dieci minuti. Stop. Non dobbiamo parlare tra noi partecipanti, non dobbiamo rivolgerci la parola, salutarci, nemmeno nella sala da pranzo, dove consumiamo i nostri pasti, rigorosamente vegetariani, seduti a tavolini quadrati muniti di alti pannelli di legno laterali che impediscono la visuale del vicino. Mai una parola. Alla fine tenderemo ad abbassare gli occhi, quando ci incrociamo, in giardino, per le scale, risultando meno difficile non salutare chi non guardi.

Questo digiuno di parola è già di per sé un’esperienza di straordinario incanto, un inaspettato alleggerimento, uno sfrondare acustico benefico. Mettere a riposo le corde vocali per giorni e giorni significa non udire più la nostra voce, il cui timbro ci abita da una vita, in un certo senso agevolando un qualche tipo di avvio di distacco da noi stessi, da quella parte invadente, difficilmente arginabile e talvolta imbarazzante che è l’Ego sonoro.

Il rispetto del Nobile Silenzio implica un’estrema attenzione ai movimenti, da compiersi sempre avendo cura di non sbattere porte o finestre, non lasciar cadere oggetti, sollevare le sedie da spostare. Il silenzio chiede attenzione, concentrazione. Il silenzio è nemico della sciatteria e della distrazione. Il silenzio pretende la lentezza, che infatti è vivamente consigliata a noi tutti, sempre, anche quando ci ritroviamo soli in camera. Il silenzio è incompatibile con l’utilizzo di qualsiasi apparecchio telefonico.

Il momento cruciale, nel giorno del mio arrivo, è stato quando ho appreso il programma della giornata che si sarebbe replicato, tale e quale, per sei giorni. Sveglia alle cinque, meditazione camminata e meditazione seduta fino alle sette, colazione, poi, fino a mezzogiorno, quattro ore in cui si alternano la meditazione camminata e la seduta, dopo pranzo riposo, poi dalle 13:30 alle 17 di nuovo si alternano la meditazione seduta e quella camminata. Alle 17 spuntino leggero, poi fino alle 19:30 la consueta alternanza di meditazione seduta e camminata. Prima del riposo serale delle 22, è previsto il Discorso di Dhamma, ossia letture e considerazioni sulla pratica tenute dall’insegnante, ancora un’ultima meditazione camminata e, infine, la pratica di Metta, gli auspici di amorevole gentilezza.

I vari appuntamenti della giornata sono scanditi dal suono della campana, alcuni di noi sono chiamati a svolgere il ruolo di campanaro, il mio turno è quello delle 15:55 che richiama il gruppo nella grande sala dedicata alle sessioni di meditazione seduta. Suono prima una campana di dimensioni ridotte che mi porto in giardino e nello spiazzo per essere udita da chi è nei dintorni, alle prese con i propri passi; poi rientro e suono una campana assai più grande e pesante, che sta appesa al soffitto, le cui profonde primordiali vibrazioni assomigliano a quelle di un gong. Sempre tre rintocchi, gentili ma decisi.

I primi giorni sono i più difficili, naturalmente. Veniamo adeguatamente istruiti sulla pratica della meditazione da seduti e in che cosa consista la meditazione camminata. Quello che mi sembra di afferrare è che bisogna prestare la massima attenzione al respiro, in particolare al movimento del ventre, quel su e giù della pancia che è l’espressione fisica del nostro inspirare ed espirare. E ogni volta che la mente scappa via e schizza di qua e di là (l’insegnante li chiama i pensieri-scimmia) noi dobbiamo accorgercene e riportare l’attenzione al ventre. Su e giù. Su e giù. Questo sia da seduti sia camminando. Nella meditazione camminata è importante fare passi corti, e molto lenti, lentissimi.

I primi giorni, dunque, sono decisamente i più a rischio-rinuncia, sono quelli di chi non si immagina di poter resistere e così, tra il lunedì e il martedì, vediamo andar via alla spicciolata, con borsone e trolley, quasi vergognosi, tre di noi. Restiamo in diciassette. Mi aspettavo una maggioranza femminile, ma mi devo ricredere, essendoci parecchi uomini nel gruppo che, anche sotto il profilo anagrafico, si presenta piuttosto eterogeneo, con diversi giovani, ma anche persone più vecchie di me.

I problemi che mettono in fuga le persone possono essere innumerevoli. Così come inimmaginabili sono le situazioni di vita di ognuno di noi, lo stato d’animo con cui siamo saliti al Pian dei Ciliegi, il cosa ci aspettiamo e quanto siamo disposti ad accettare in termini di rinunce e di rigore, fisico e mentale: perché quello che colgo quasi subito è che a una postura esteriore deve corrispondere una postura interiore ed è talmente difficile trovarla, la propria postura, che ci si sente inadeguati e incapaci. Ma è assolutamente normale, esserlo, così come lo è l’accorgersene, e salutare l’accettarlo. Fanno tutti fatica, mi dice uno dei primi giorni l’insegnante.

Per me, forse, il problema maggiore è che un’ora da seduta, pur con tutti gli ausilii del caso (zafu, cuscini a cilindro, bolster, coperte ripiegate, panchetti, seggiole), è un tempo smisuratamente lungo. L’insegnante ci invita a provare a resistere il più possibile a restare nell’immobilità, almeno mezz’ora, ma le mie articolazioni sono quelle che sono e dopo venti minuti, con movimenti che dio-quanto-vorrei fossero invisibili e silenziosi, sono costretta a modificare la mia posizione, l’incrocio delle gambe, spostare un piede, togliere le mani dalle ginocchia e posarle mollemente in grembo. Cose così.

Ma anche così, il tempo non passa, pare dilatarsi come un elastico, al punto che ogni volta giungo a pensare che il timer, il cui discreto bi-bip annuncia il cambio d’ora, sia stato manomesso, si sia rotto, che l’insegnante lo abbia disattivato per farci uno scherzo o metterci alla prova per vedere quanto resistiamo oltre il confine inaudito dei sessanta minuti. Ogni volta, ogni santa volta, non mi capaciterò mai, per l’intera durata del ritiro, di quanto possa essere lunga un’ora in cui devi pensare solo al tuo ventre, stando immobile, tentanto di ignorare o ammaestrare tutti i tuoi pensieri-scimmia.

Per ragioni sanitarie dettate dalla pandemia la sala di meditazione ha sempre tutte le sette finestre spalancate ed essendo il Centro ubicato in una zona boscosa, ma non lontano da alcune abitazioni rurali, si possono facilmente udire sia i suoni della natura sia il vocìo di esseri umani ignari dell’esistenza del Nobile Silenzio o, ancora più distanti, i rumori ripetitivi di trattori, decespugliatori o seghe elettriche.

Mentre mi concentro con tutta me stessa sulla mia pancia, su e giù e su e giù, distinguo il canto del fringuello e della tortora, le cincie e le ghiandaie, c’è l’incalzante frinire delle cicale a cui, al calar della sera, si sostituisce quello dei grilli. Su e giù e su e giù, e sento in lontananza la voce di un uomo che chiede a un altro: dì, hai visto? era uno sciame o un volo nuziale? I nostri vicini più prossimi sono apicoltori, lo scoprirò la domenica di partenza, in transito con l’auto davanti al loro cancello, scorgendo il cartello dell’Anagrafe apistica nazionale.

Su e giù e su e giù, ma appena fuori dalla finestra l’incessante brusìo delle api mi cattura l’udito, insieme al ronzìo solitario e minaccioso del calabrone, al volo sguaiato di una mosca, quello lento e gentile del bombo. Su e giù e su e giù, etichettare i pensieri, dice l’insegnante, mettere etichette e accantonare: ricordo / rumore / suono / ascoltare… via via via, lasciare andare, via via, tornare al ventre: su e giù e su e giù.

Quando ci ritroviamo nell’ampia area esterna a praticare la meditazione camminata potremmo senz’altro apparire, a uno sguardo estraneo, come un gruppo di persone altamente problematiche, i movimenti rallentati al punto da sfiorare la staticità, tutti muti, tutti seri, sprofondati per ore intere in un bizzarro sortilegio, anelito collettivo di quasi-immobilità.

I colloqui quotidiani con l’insegnante si svolgono, tra prato e bosco, sotto l’ombrellone bianco, sono brevi ma preziose occasioni di confronto e scambio, a volte piango e lei mi tranquillizza dicendo: chi non piange a un ritiro di Vipassana non fa un ritiro di Vipassana.

Ma uno dei momenti più toccanti è la pratica serale della Metta, l’amorevole gentilezza. Gli auspici, quasi ingenui nella loro semplicità, sono: essere al sicuro, lontano dai pericoli, essere in pace e in buona salute, aver cura di sé ed essere felici. Vengono rivolti prima di tutto a noi stessi: questo mi fa pensare a quando in aereo, poco prima del decollo, il personale di bordo istruisce i passeggeri sulla condotta da adottare nelle eventuali emergenze e ogni volta presto attenzione al fatto che in caso di uso della maschera a ossigeno prima devo indossarla io e dopo soccorrere eventualmente gli altri. Ecco, qui il principio è il medesimo: per aiutare gli altri, prima devi salvarti tu.

Gli auspici di Metta, dopo essere stati rivolti a noi stessi, vengono indirizzati alle persone a noi più care, poi ai presenti in sala, poi ai vicini di casa, poi ai paeselli del circondario, poi esondano simili a un infinito manto di gentilezza, fino a lambire l’intera regione poi l’Italia, e ancora, continenti, mari e terre, animali, tutte le creature anche quelle invisibili. Credo davvero, ogni sera che pratichiamo la Metta, che nell’amorevole gentilezza vi sia una immensa benevola potenza, un’energia che la maggior parte di noi, sfortunatamente, non conosce, non ha imparato, non sa che si può praticare, ne ignora l’esistenza.

Ho capito, dopo giorni e giorni impiegati a tentare di addestrare la mente, anziché esserne tiranneggiata, come uno dei più grandi problemi, per molti di noi, sia dato dal vivere in modo sbilanciato, indugiando troppo nel passato o azzardando vacue proiezioni nel futuro. Proprio praticando la meditazione camminata ho messo a fuoco questa immagine: il passato è la strada dalla quale provengo, ma è una strada che cessa di esistere non appena io sollevo il piede posteriore per muoverlo in avanti e che dunque si sfalda mano a mano che procedo nel cammino; il futuro, a sua volta, non è altro che quell’istante in cui il piede che stava dietro si appoggia a terra davanti all’altro, è l’accoglienza che si rinnova nel presente che continua a farsi passato. Un gioco di equilibri concettualmente quasi inafferrabile, ma al contempo talmente naturale da risultare del tutto spiazzante. Invecchiare, dunque, è un’arte inconsapevole, ardito funambolismo che ci consente di rimanere sul filo teso del presente, senza mai farci inghiottire dai due baratri diseguali, inversamente proporzionali, del passato e del futuro.

L’arrivo dell’ultimo giorno reca in dono la gioiosa soddisfazione di avercela fatta, sì, e c’è perfino il sottile dispiacere della partenza: sappiamo tutti che non sarà affatto facile seguitare a praticare seppur per una ventina di minuti al giorno, come invita a fare l’insegnante, rivolgendosi soprattutto a noi principianti. Vedremo.

Scendendo verso valle, guidando verso la Torino-Piacenza, cerco di pensare al mio ventre, su e giù e su e giù, ma poi già sono altrove, a considerare in che modo si possa conciliare la pratica della meditazione con l’atto creativo. Se io medito e sento il canto di una cianciallegra, stando a quanto mi è stato appena insegnato, dovrei etichettare il suono e allontanarne il pensiero, le idee vanno lasciate andare via, come nuvole vaganti nel cielo primaverile. D’accordo. Ma allora io mi chiedo: se, poniamo il caso, Emily Dickinson avesse praticato la meditazione camminata noi oggi non avremmo tutti i suoi bombi, e l’incanto di petali e foglie? Avrebbe finito per non concedere nemmeno mai a una farfalla di posarsi lieve nella sua mente, impedendole di sublimarsi in un verso poetico. Ma queste, non saranno forse le classiche perplessità di una principiante che torna a casa con la testa piena di dubbi e qualche timido buon proposito in tasca? Vedremo.

Venezia 78_Il capitano Volkonogov è scappato

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di Giulia Marcucci 

Il capitano Volkonogov è scappato di Nataša Merkulova e Aleksej Čupov, in concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, si inserisce appieno in una tendenza che caratterizza anche la letteratura russa contemporanea: guardare al passato sovietico dal presente. Un tema dunque, quello del ritorno al periodo staliniano in particolare, di lunga durata, che viene spesso riraccontato da registi e scrittori (Prilepin, Jachina, Vodolazkin, Stepanova, Ulickaja e molti altri) per comprendere, ricordare e forse, anche, per riflettere da lontano e con meno rischi sull’oggi, come se quel passato non fosse stato abbastanza discusso né mai fosse davvero finito.

Il film è ambientato a Leningrado nel 1938: anno, per l’appunto, delle terribili purghe staliniane. L’ambivalenza storica, che contraddistingue tutta la pellicola, è tuttavia messa in risalto sin dalle prime inquadrature, in cui spicca il colore rosso delle tute dei muscolosi e femminei aguzzini dell’Nkvd, una divisa che non corrisponde a quella originale, bensì preannuncia la «realtà alternativa» ricreata dai due registi, secondo una definizione utilizzata da Anton Dolin nella sua recensione del film. Questa «realtà alternativa» disorienta lo spettatore: come se dal 1938 si scivolasse in un altro tempo e in un altro spazio (persino Leningrado evoca, al contempo, la Pietroburgo post-sovietica), mentre si costituiscono le basi per riflettere su quanto già preannunciato da Čechov quando scriveva che «la menzogna è come una foresta: più ci si inoltra nella foresta, più è difficile uscirne».

Nel film mentono più o meno tutti: mentono certamente quelli dell’Nkvd nel mascherare la loro identità a una ragazza da conquistare e mentono soprattutto nell’accusare degli innocenti, presunti nemici del popolo secondo l’articolo 58, ma mentono anche le vittime quando, pur di scampare alle torture effettuate «secondo metodi speciali», ammettono crimini mai commessi, inventando la verità che si vuole sentire dalle loro bocche. A questo punto la tortura finisce e i loro corpi esangui finiscono calpestati dagli aguzzini al ritmo di Poljuško-pole, famosa canzone sovietica sugli eroi dell’Armata rossa. La verità e la menzogna sono continuamente capovolte in un vicolo cieco dominato da violenza e orrore. E in questo feroce tritacarne ci può finire chiunque, come succede a uno dei compagni stessi del protagonista, torturato solo perché conosce meglio degli altri Volkonogov, il capitano scappato e ricercato. Il meccanismo perverso alla base di questo sistema è ben illustrato in una scena fortemente visionaria ambientata in una grande stanza cosparsa di fieno e dalle enormi finestre che lasciano filtrare una luce crepuscolare; qui, il maggiore spiega a Volkonogov che chi viene arrestato non è affatto colpevole, ma è «inaffidabile», quindi un potenziale colpevole da eliminare subito. Questa grande stanza vuota e isolata dal resto sembra una metafora della grande Russia, la cui grandezza è evocata sin dalle prime inquadrature con il primo piano dell’enorme dirigibile, che ha qualcosa di favoloso e di tragico al contempo: sta troppo in basso e rischia di cadere a terra distruggendo tutto. Un po’ come accade nell’inizio di Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij con il volo mancato di Efim, che cerca invano di sollevarsi in alto su un rudimentale aerostato prima di finire morto a terra (e lo stesso destino tocca al protagonista del film di Merkulova e Čupov). E nel dirigibile si concentra d’altra parte il sogno, divenuto tuttavia del tutto separato dalla realtà, della grandezza giusta della Russia rivoluzionaria.

Il cognome Volkonogov evoca il proverbio russo volka nogi kormjat, alla lettera ‘il lupo lo nutrono le sue zampe’, ovvero, non gli conviene ‘restarsene con le mani in mano’. A interpretare questa parte è il bravo Jurij Borisov, l’attore russo del momento, a Venezia anche nel film Mama, ja doma / Mamma, sono a casa di Vladimir Bitokov, dove interpreta il ruolo di un figlio che ritorna per sostituirsi a quello vero di Tanja (Ksenija Rappoport), morto in Siria. Nel film di Merkulova e Čupov, Volkonogov capisce che presto la purga toccherà anche a lui, così scappa, iniziando un viaggio alla ricerca del perdono con lo scopo di guadagnarsi il Paradiso (viene in mente un altro viaggio compiuto da Borisov nel film della pietroburghese Aleksandra Streljanaja Nevod / La rete, alla ricerca di se stesso e di una ragazza di cui si è innamorato). E così, attraverso i parenti delle vittime da cui si reca per confessarsi, conosciamo da vicino le atrocità perpetrate durante il periodo del Grande terrore. Volkonogov incontra la figlia medica (Natal’ja Kudrjašova, premio Orizzonti come miglior interprete femminile a Venezia75 nel film di Merkulova e Čupov Čelovek, kotoryj udivil vsech / The man who surprised evryone) di un professore accusato di aver cercato di diffondere in Russia un’epidemia e che aveva tentato invano di sottrarsi all’umiliazione di abbassare i pantaloni prima di essere frustato e ucciso; un commovente operaio la cui moglie aveva commesso il crimine di raccontare al mercato una barzelletta tanto divertente quanto innocua; una bambina che sta bruciando i vestiti del padre «traditore», un padre da rinnegare, secondo la lezione impartitale dalla madre e a scuola. Il mondo dell’infanzia è costretto da subito a essere complice degli orrori del sistema, ad accettare come verità la menzogna in un sistema surreale di valori ribaltati, in cui il male e la violenza dominano su tutto e si accetta la menzogna travestita da verità nel tentativo di salvarsi. Da questo punto di vista, emblematico è Proiettile, figura perturbante che ricorda certi personaggi mostruosi di Aleksej Balabanov, il regista del film culto degli anni Novanta, il dramma criminale Brat / Brother, e di Gruz-200 / Cargo-200, ambientato alla vigilia della Perestrojka, e dell’autobiografico Ja tože choču / Me too, per citarne un paio della fase culminante della sua carriera. Con un colpo secco alla nuca, l’uomo dal grembiule nero uccide le vittime che, infagottate in giacconi grigi, si avvicinano inermi con il volto al muro. E a proposito degli echi del mondo cinematografico di Balabanov, occorre ricordare che la costumista del film di Merkulova e Čupov è Nadežda Vasil’eva, moglie e coautrice di Balabanov stesso.

La meccanicità della realtà si riflette anche a livello linguistico, nella comunicazione stereotipata dei membri dell’Nkvd, negli automatismi e nelle domande della povera gente che non trovano mai le risposte sperate, bensì si inanellano in una serie di rinvii senza via d’uscita. È il caso della donna che ripete di essere iscritta al partito dal 1918, di essere ammalata di tubercolosi, che il marito era un eroe di guerra e si chiede perché non le assegnino un alloggio diverso dall’appartamento in coabitazione in cui vive. Ci penserà l’ufficio apposito, le risponde secco il maggiore Golovnja (Timofej Tribuncev).

Il viaggio del capitano fallisce, nonostante l’abilità sorprendente di smarcarsi dalle situazioni più difficili: alla fine della sua corsa sfrenata, dopo aver confidato di non sentirsi degno del Paradiso, si butta da un tetto a testa in su e con le braccia aperte, morendo come un Cristo in croce.

La critica letteraria Natalia Ivanova, a proposito della marcata tendenza nella letteratura russa contemporanea di guardare al passato, ha scritto che alla società russa è mancata la possibilità di una discussione collettiva sulla storia passata e che per questo è ora costretta, come sotto ipnosi, a ritornare «nel luogo del delitto». La letteratura, spiega Ivanova, si muove di pari passo, anche se poi le sensazioni provate sono spesso opache e torbide. Merkulova e Čupov con il loro Capitano Volkonogov è scappato si inseriscono nello stesso solco, rielaborando il passato in chiave postmoderna, a suggerirci ancora una volta che nel presente è ora di districarsi dalla foresta a cui alludeva Anton Pavlovič. Di fronte a questo nutrimento, il fatto che il lupo a Venezia sia rimasto a bocca asciutta (di premi) non è così importante.

 

Marco Zapparoli: in Italia la saggistica resta indipendente

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di Matteo Bianchi

 

Il mercato del libro non è entrato in crisi a causa della pandemia, ma del processo di cambiamento che coinvolge il linguaggio a ogni livello. Tra evasione e introspezione la lettura ristruttura le domande esistenziali di ciascuno e seguirne le sorti sui territori potrebbe essere una soluzione, facendosi carico non solo delle diversità tra Nord e Sud, ma soprattutto tra generazioni, tra chi legge di più e chi legge di meno, senza temere le differenze di genere che si sono radicate e radicalizzate nel nostro modus vivendi, e nel rapporto stesso con la parola. «Il libro deve tornare un bene comune, che appartiene a tutte le età e a tutte le regioni del paese, ridimensionando le discrepanze stratificatesi dopo il boom economico»; questo l’input che Marino Sinibaldi, presidente del Centro per il libro e la lettura del Mibact, ha lanciato durante la settima edizione di Elba Book e che ribadirà giovedì 16 settembre, al convegno “Patti per la lettura e reti territoriali” di Chiari, prima Capitale italiana del Libro nonché dimora della Rassegna della Microeditoria.

Nelle nostre dimore il libro dovrebbe essere già un oggetto quotidiano e non rimanere un’attività particolare, alla stregua di un compito a casa. Nel buio della pandemia pare che questo processo si sia intensificato, che la lettura non sia più solo uno strumento per accumulare conoscenza al bisogno, ma che sia diventata parte integrante della nostra vita, sebbene questo cozzi con l’utilizzo sfrenato dei social media. I canali social impongono una durata della comunicazione che ne abbassa la qualità, potendo solo informare superficialmente, non entrando mai nello specifico tanto meno riuscendo ad articolare la complessità circostante.

La prima serrata ci ha consegnato una responsabilità individuale, ovvero la possibilità di fermare il contagio adottando determinati comportamenti, al di là del vaccino, dimostrando sulla nostra pelle quanto l’azione consapevole di ognuno possa essere cruciale per un respiro condiviso. E addentrandosi trasversalmente in svariati settori quante sono le personalità che lo compongono, Il senso del respiro (Castelvecchi, 2020), curato da Luciano Minerva, supera le reazioni di autodifesa e di protezione del singolo di fronte alle incongruenze della società per abbracciare consapevolmente una dimensione collettiva. Se applicassimo questa lezione a una questione “enorme” da focalizzare come l’emergenza ecologica, il principio della sostenibilità ci potrebbe orientare concretamente.

UNA COSTELLAZIONE DI MICRO EDITORI

«Circoscrivere l’editoria indipendente in Italia significa identificare centinaia di case editrici – esordisce Marco Zapparoli, presidente dell’Associazione Editori Indipendenti (Adei) e già fondatore di Marcos y Marcos – quantificabile intorno al 46% del valore complessivo del mercato. Solo alcuni editori superano un fatturato annuo di dieci milioni di euro, numerosi sono tra i quatto e i dieci milioni, poi ce ne sono di piccoli e di piccolissimi. Negli ultimi sedici mesi l’editoria indipendente ha navigato nei modi più disparati e chi stampa autori estremamente conosciuti ha assistito a un incremento delle vendite. Le difficoltà sono affiorate tra gli editori con un fatturato inferiore ai 300mila euro annui, che si stanno riprendendo soltanto adesso e nel primo semestre del 2021 hanno registrato una crescita notevole, aumentando l’incasso di circa il 50%. Riguardo le vendite si è rinforzato il commercio dell’online; i più resilienti sono stati i librai indipendenti che rappresentano il 17-18% del settore, rinstaurando da subito un rapporto solido con il territorio di appartenenza, grazie a organizzazioni di corrispondenza quali Bookdealer, ma anche effettuando le consegne di persona a casa dei lettori. Hanno sofferto maggiormente la serrata le librerie in centro città e quelle di catena a ogni livello, comprese quelle religiose come il Gruppo San Paolo».

Qui la bibliodiversità ha raccolto un risultato incredibile: «Nessuno potrebbe immaginare che l’editoria indipendente, più o meno specialistica, nel segmento della saggistica abbia raggiunto il 60% del mercato dopo decenni di lavoro alacre, superando l’egemonia che i monoliti mantengono indiscussi nella narrativa. Oggi non c’è paese europeo dove il livello sia il medesimo».

IN RETROSPETTIVA

Il ddl n. 1421, sulla promozione e il sostegno della lettura, che ha avuto come prima firmataria Flavia Nardelli e che ha compiuto il suo iter con il ministro Franceschini, il 5 febbraio 2020, è stato un pilastro per Zapparoli: «Per favorire la bibliovarietà la legge in questione sostiene concretamente i Patti per la lettura, che attuano un’opportunità imperdibile di cooperazione tra istituzioni, comuni e sistemi bibliotecari, e le associazioni del territorio; oltre all’apporto economico, dà la possibilità che i Patti si realizzino e siano sostentati a lungo termine». I Patti per la lettura sono un meccanismo che dovrebbe ricostruire la domanda di lettura attraverso manifestazioni spontanee, o di concerto tra iniziative pubbliche e private.

«La legge, inoltre, prevede una forma di incentivazione delle biblioteche scolastiche auspicando che recuperino spazio. Per Adei la cosa più importante è che nel disegno ci fosse una demarcazione chiara delle regole del commercio dei libri. Fino a dieci anni fa il nostro paese era una sorta di far west, basti pensare alla gestione degli sconti: nei megastore si faceva fino al 30% sul prezzo di copertina. La prima delimitazione delle campagne fu permessa dalla legge Levi che pose i primi limiti al 15% e al 25%, a seconda della superficie di vendita. L’intesa con il Sindacato Italiano Librai e Cartolibrai (Sil) e con l’Associazione Librai Italiani (Ali) ha permesso una limitazione aggiuntiva dello sconto al 5% e un mese di campagna l’anno con un massimale del 20%, innescando una piccola rivoluzione nella filiera e lasciando nelle casse dei rivenditori non meno di 45-50mila euro solamente nel 2020». In prossimità dell’approvazione in Senato, l’Associazione Italiana Editori (Aie) lamentava che si sarebbe finiti in breve a un congelamento del mercato, aumentando le esternazioni di biasimo proprio con lo scoppio della pandemia, ma fortunatamente non è stato così.

TEMPO SPRECATO?

«I libri vincono sul tempo», ha pontificato nella sua ingenuità novecentesca Concita De Gregorio, banalizzando ulteriormente un’ovvietà in A proposito di libri, il manuale ben curato dalla redazione de “Il Post” in cui viene squadernata l’epopea dell’oggetto di carta stampata, dalla mente alla mano, dal Garamond massificante allo scaffale in bella vista. Compito del libraio è quello di selezionare ed esporre ciò che ha «potenzialità per durare», argomentava Roberto Calasso alla Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri, il 25 gennaio del 2019, presso la Fondazione Cini di Venezia. I cambiamenti in essere determinano sempre la perdita dei punti di riferimento, insicurezza e disorientamento, e il mutamento che sta subendo la costellazione di micro editori non è altro che il contraccolpo di un mutamento generale del contemporaneo a misura di schermo: «Ormai gli scrittori sono considerati come un settore dei produttori dei contenuti e molti se ne appagano. Ma questo presuppone l’obsolescenza della forma. E dove non c’è forma non c’è letteratura», precisava Calasso.

Robert Pirsig, ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974), mescolando metaforicamente il momento romantico della guida, del controllo della strada, a quello classico della padronanza della forma meccanica che soggiace all’ebbrezza, racconta come un padre e un figlio a cavalcioni su una moto per gli Stati Uniti non riescano a definire la “qualità”, a restituirne un concetto che non sia elusivo, sebbene a guidarli sia il Fedro di Platone. Tuttavia è essenziale che la qualità sia indiscutibile: è la lezione che ci ha lasciato in extremis il fondatore di Adelphi, testimoniata da un catalogo costante nel numero di pubblicazioni annue, senza impennate né stravolgimenti di collana. Perseverare è quello che fanno anche Sellerio e la più giovane Iperborea, sebbene dopo la scomparsa di Camilleri alcuni tra gli impareggiabili gialli blu abbiano cambiato formato – giusto a inizio estate – e copertina, abbandonando la sovra copertura e le bandelle di pregio. Strategia impiegata pure da Calasso stesso per ristampare Simenon, ad esempio.

Nell’articolo Libri contro sigarette, apparso sulla rivista “Tribune”, l’8 febbraio del 1946, a seguito della seconda guerra mondiale e della crisi che portava con sé, Orwell ammoniva quanto fosse «difficile stabilire un qualsiasi rapporto tra il prezzo dei libri e il valore che se ne trae». Ma trascorso quasi un secolo «l’idea che comprare, o anche solo leggere, libri sia un passatempo costoso, fuori dalla portata della gente comune, è così diffusa da meritare un’analisi attenta».

La pandemia ha evidenziato il valore ineguagliabile del tempo e di quanto quello attuale abbia perso in termini di qualità rispetto ai capisaldi del consumismo terminale. Gli editori indipendenti che hanno retto meglio la chiusura improvvisa sono stati i marchi specializzati in letture per bambini e adolescenti: genitori e nonni hanno avuto tanto tempo da dedicare ai bimbi.

«Sarebbe salutare se gli editori ascoltassero la richiesta che arriva dai librai di mantenere il decremento delle novità – conclude Zapparoli – poiché la permanenza dei titoli sui tavoli si è ridotta eccessivamente. Il catalogo di ogni librario meriterebbe meno dispersione e l’anno scorso è stato esemplare: nel 2020 si è venduto ugualmente, se non leggermente di più, con un numero di novità inferiore del 25%». L’iperproduzione libraria è uno spreco e non consente al libraio di lavorare sui titoli, emulando il sensazionalismo dilagante in qualunque settore: si bada solo alla superficie, senza approfondire. Il digitale, nonostante abbia sacrificato parte della sfera emozionale degli incontri vis a vis, si è rivelato sostenibile: eccezione fatta per l’intervista a Rushdie di Sinibaldi per “Libri Come” nel suo sottotetto londinese, conversazione a distanza emblematica per l’intimità trasmessa.

La scomparsa di Sepúlveda, d’altro canto, ha inverato l’irrimediabile: la fragilità dei contatti umani. L’approccio in video ha altresì allargato il diaframma culturale, la pluralità delle esperienze personali, a tal punto che circa il 16% dei lettori italiani ha seguito gli appuntamenti online. La sostenibilità dovrebbe indirizzare la filiera del libro con modelli compatibili e responsabili, non basandosi sull’enfasi del fare e del muoversi, ma senza ridimensionare le ambizioni degli editori.

Overbooking: Chiara Cataldi

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di

Romano A. Fiocchi

Kabul tra macerie e giardini di rose. Questo è il titolo con cui nel 2012 l’avevo recensito su un quotidiano di Alessandria, che ha poi cessato le pubblicazioni. “Prima bevi il tè, poi fai la guerra” era un libro speciale, lontano dai toni apocalittici dei giornali proprio perché scritto con una penna scorrevole e leggera, capace di muoversi nello stesso tempo tra dolore, distruzione e giardini pieni di rose, in un terra che già allora era sull’orlo del baratro. L’aveva scritto Chiara Cataldi, una giovane laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche che aveva trascorso il 2008 lavorando pressa la nostra ambasciata di Kabul. Dopo la recensione ci eravamo scambiati alcune e-mail, che con molto rammarico ho perso. Dico con molto rammarico perché dopo gli eventi dei giorni scorsi ho cercato sue notizie in rete e ho scoperto che Chiara Cataldi è morta nel 2017, uccisa da un male incurabile. Sono quindi andato a rivedere la splendida fotografia sulla copertina del suo libro, con la coppia di afghani in bicicletta sullo sfondo di una campagna popolata di edifici abbandonati, dalle finestre scure come vuote occhiaie. Ho sfogliato alcune pagine e riletto il nostalgico esergo preso in prestito da Tabucchi: «Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati».

Ripropongo questo breve pezzo qui, per Nazione Indiana, non tanto perché il libro di Chiara sia illuminante nei confronti della situazione attuale, anzi, proprio per l’opposto: perché mostra quanto l’Afghanistan, nonostante la guerra e grazie al suo popolo, rimanga una terra bellissima. E quanto chi vi abbia vissuto anche per un breve periodo l’abbia amato.

 

Prima bevi il tè, poi fai la guerra, questo il titolo del libro. Potrebbe sembrare un’allusione a una politica colonialista. In realtà il titolo scelto da Chiara Cataldi per il suo reportage su Kabul ricalca semplicemente un vecchio adagio che le ha insegnato Malik, responsabile afghano del progetto della Cooperazione Italiana per le donne. Sta a significare che bisogna dare tempo al tempo, che niente è urgente nella vita, neppure la guerra. E il tè, che va sorseggiato con calma, rappresenta questa filosofia di vita. Che è tipicamente afghana.

Un reportage, dicevo, anche se sulla copertina del libro risalta la dicitura «romanzo». Del resto, García Márquez scrive che reportage e romanzo sono figli della stessa madre e che il reportage, più che un mezzo spettacolare di informazione, è un vero e proprio genere letterario. Chiara Cataldi modifica il nome di alcuni personaggi, si inventa qualche aneddoto, arricchisce qua e là il testo con sfumature narrative ma ciò che ci consegna, alla fine, è un autentico esempio del reportage di cui dice Márquez.

Con la penna leggera e vivace di un cronista, la Cataldi passa disinvolta dalla denuncia della condizione femminile all’esaltazione dell’ospitalità afghana, dalle rovine della guerra e degli attentati talebani – compresa l’assurda e sistematica demolizione dei Buddha di Bamiyan – alla descrizione della tranquillità suggestiva del Giardino di Babur, «uno dei luoghi più belli di Kabul». O al nostalgico mausoleo dove riposa il comandante afghano Massoud, il Leone del Panjshir, che combatté prima contro l’invasione sovietica e poi contro l’ottusa crudeltà talebana. Il lettore, incalzato con un ritmo da diario in rete, quasi senza accorgersene finisce per vivere anche lui un anno a Kabul. Tra desolazione, giardini di rose, paesaggi mozzafiato.

In carico all’ambasciata italiana della capitale afghana, Chiara Cataldi – un po’ per lavoro, un po’ per istinto – nel suo anno di permanenza impara a conoscere gli abitanti di questa terra martoriata, ad avvicinarsi alla loro mentalità, a rispettare le loro tradizioni e a parlare più o meno bene il dari. Nelle 188 pagine del libro c’è un po’ di tutto, anche qualche incursione a mo’ di guida storica e turistica nel vicino Uzbekistan. Incontriamo così toponimi dal sapore leggendario, come l’antica Samarcanda, e fantasmi di profeti islamici che continuano a predicare dopo essere stati decapitati. Ma c’è spazio anche per le attività dell’orfanotrofio di Kabul, per il resoconto sull’ospedale di Emergency ad Anabah, per i miracoli del Centro Ortopedico della Croce Rossa, insomma per tutte quelle istituzioni dove la gente – occidentale ed afghana – lavora per alleviare le sofferenze e per spingere il paese verso la normalità. Che non può esistere, lo sappiamo, finché attentati e rappresaglie sono all’ordine del giorno.

Chiara Cataldi parla anche di libri e di librerie. E questo arricchisce Prima bevi il tè, poi fai la guerra di una sfumatura letteraria. C’è una libreria, a Kabul, dove il titolare ha lottato contro i Talebani per evitare che i volumi sull’Afghanistan andassero distrutti. È la «Shah M Book Co.», diventata famosa in tutto il mondo ovviamente grazie a un libro: Il libraio di Kabul della scrittrice norvegese Åsne Seierstad, dove si racconta appunto la sua storia. Che è storia vera, e forse per questo Shah Muhammad, il libraio, non è molto bendisposto verso il visitatore straniero che entra nel suo negozio come in un luogo turistico e sa tutto di lui e della sua storia personale. Nella «Shah M Book Co.» la Cataldi trova una copia – in lingua inglese, perché in Italia non è mai uscita – della Guida storica dell’Afghanistan scritta negli anni Settanta dall’antropologa e archeologa americana Nancy Hatch Dupree. È uno di quei colpi di fortuna da bibliofili improvvisati. E lo è ancora di più, alcuni mesi dopo, farsi autografare il volume dall’anziana autrice in visita presso l’ambasciata italiana.

Il linguaggio parlato, talvolta un po’ gergale (aggettivi come «sfigato», «rimbambito», espressioni come «si fiondano»), talvolta eccessivamente anglofilo («mix» in luogo di miscuglio, «glamour» in luogo di fascino), non disturba – trattandosi di un reportage – la scorrevolezza della narrazione. Insomma, il libro si legge in un soffio e ti fa l’effetto di uno splendido concerto di musica classica in un teatro devastato dalla guerra. Scrive Chiara Cataldi, mentre attraversa la città seduta a bordo di un’auto: «Ascolta questa musica e guarda Kabul che scorre al finestrino. Sembra un film surreale».

 

 

«L’OCEANO DELL’INFANZIA». SU “LINEA INTERA, LINEA SPEZZATA” DI MILO DE ANGELIS

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di Carlangelo Mauro

Un dialogo con la morte e con gli spettri, una discesa nell’oceano dell’inconscio attraverso la forza del ricordo: «Ricordiamo, ricordiamo esattamente» (p. 35). L’ultimo libro di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata, uscito per lo Specchio Mondadori, fin dal titolo, s’imprime nella mente del lettore per questo ‘spezzarsi’ della vita di ognuno di fronte al dolore, all’inesorabile destino. C’è chi decide, come i suicidi, di tagliare con il «rasoio» quella linea anzitempo. Se il titolo è tratto, come l’autore stesso ha spiegato, dall’I Ching (o Libro dei mutamenti, uno dei classici fondamentali della cultura cinese), viene spontaneo per un occidentale l’accostamento con la mitologia greca, con il filo della vita spezzato inesorabilmente dalla terza Moira, Atropo.
Fin dall’incipit della raccolta, Nemini, l’ombra della morte, con gli «spettri che corrono sulle rotaie del tram» e si presentano allo sguardo dell’io lirico, appare dominante. Così nella poesia 21 settembre (p. 20), alcuni elementi, come l’acqua, la barca, l’«isola» sulla cui «riva si affacciarono i morti», richiamano alla mente L’isola dei morti di Arnold Böcklin. A p. 47 troviamo un testo, A.D.E., che è fin dall’umoristico titolo ¬– in realtà si tratta di un garage dallo «“strano nome”» – una discesa nel regno dei morti analoga allo sprofondare nell’inconscio («scendo fino in fondo, scendo ancora»), dove il personaggio che dice io incontra il fratello, fissato per sempre in una epoca remota che richiama l’infanzia: «Oh Puia. Che gioia vederti sorridere! / Sì, fratellino, sorrido: questo è stato il mio tempo, / un tempo di dischetti e figurine, e qui resterò per sempre». In questa dimensione allucinata, in cui i gesti più semplici acquistano un senso ultimativo, anche gli incontri preludono ad un distacco: «fai con la mano un gesto / che sembrava un saluto ma è un addio», versi che sembrano un omaggio al Montale di Tempo e tempi («Ma in quell’attimo / solo i pochi viventi si sono riconosciuti / per dirsi addio, non arrivederci»), o della Bufera per il saluto di Clizia («qualche gesto che annaspa…/ Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli, / mi salutasti – per entrar nel buio»). In Linea intera, linea spezzata si annullano i confini tra la vita e la morte e le care presenze, la donna amata, i compagni del liceo e di Università, una volta evocate rimangono per sempre sospese come sul foscoliano «limitar di Dite». Solo la parola esatta della poesia può riscattarle alla fine dal buio in cui sono sprofondate; se nella prima sezione eponima sono «senza nome «gli spettri» che «si aggregano nel corridoio / del liceo…» (Scrutinio finale), nell’ultima sezione del libro, Aurora con rasoio, dedicata ai suicidi, viene evocato con nome e cognome un compagno di liceo: “Gianni Hofer” (p. 95). Egli amava tradurre e ritradurre i testi greci («porta su questa terra i suoni antichi e perduti»), ponendosi fuori da ogni rapporto con la vitalità e il reale simboleggiati dalla corsa dell’atletico compagno che lo invita appunto «al Giuriati per correre insieme», mentre Gianni rifiuta, parlando solo del ricordo, gloriosamente libresco, di Filippide che corre ad annunciare la vittoria sui Persiani agli ateniesi per poi morire esausto.
Più che al modello della Commedia, come è stato fatto, per i personaggi di Linea intera, linea spezzata farei riferimento all’Antologia di Spoon River di E. L. Masters. Gianni Hofer, il folle, rimane fissato per sempre in una scena, in un solo definitivo discorso che si ripete all’infinito tramutato in silenzio («nella stanza più remota dei folli non disse più nulla»); il personaggio, amante della classicità, è relegato in un mondo lontano, in «quel simbolo personale», per usare le parole di Pavese a proposito del libro di Masters, che è «inchiodato per sempre all’anima». Così nel testo intitolato Pensione Iride, un albergo di giovani prostitute, , l’«antica compagna / di banco e di paure», Federica, dice all’io lirico che non uscirà più dalla stanza, ancorata per sempre a quel luogo; simmetricamente Lauretta rimane «per sempre» perduta tra i corridoi di qualche casa di cura (il cui ingresso segue ad un cortile con «lettighe ed ambulanze», p. 45). In Autogrill Cantalupa ritroviamo un’altra presenza cara che appartiene al passato («la prima creatura amata sulla terra») e che rimane «ferma in cima alle scale» in un oceano di silenzio in cui spazio e tempo si annullano, giunto il personaggio lirico all’incontro con «il calendario di se stessi». E al tempo, grande tema della lirica occidentale, sono dedicati diversi passaggi della raccolta laddove «la mano solleva la polvere dal vetro» e l’io entra nella dimensione del passato per guardare, con una tragica esattezza, le figure, i gesti, i luoghi perduti che rimandano all’infanzia (il panno verde del tavolo di biliardo in Sala Venezia è «come un prato dell’infanzia», così come per Saba «l’infanzia è un verde prato») o alla giovinezza. Non può mancare, come in tanta poesia di De Angelis, il gesto atletico, la concentrazione sull’evento sportivo che caratterizza tutta la forza e la vitalità della gioventù. L’importanza della disciplina del gioco, dello sport, sia esso il biliardo o il bowling o il calcio o la corsa, passa a significare l’essenza stessa della poesia nella sua esattezza di «dizione più precisa», di «numero sancito» (p. 14), soprattutto di rigorosa disciplina interiore cui è necessario un allenamento continuo per non pronunciare l’«accento sbagliato» (p. 15) perdendosi per sempre. Oltre all’ambito cui si riferiscono, i testi sportivi di De Angelis possono anche essere letti come metapoetici. La purezza di un gesto atletico è analoga alla purezza di un verso ed entrambe si legano alla suprema delle discipline, al morire; il «morire giovane» dei classici in Exodus (II) è paragonabile a quello del «poeta che ha dato tutto al primo libro» o al calciatore «sospeso nella rovesciata che onorò tutta la squadra». Certamente diversi altri testi, al di fuori dell’ambito sportivo, sono direttamente metapoetici. Come la poesia di p. 75, ad esempio, in cui le parole che non vanno via, «bussano alla porta» e «restano lì», chiedono di entrare nel processo di gestazione dei testi in cui si gioca la partita con il silenzio («L’accusa è sempre la stessa: il silenzio»). L’immagine rimanda ancora al Montale di Satura: le «rime» che «battono alla porta e insistono […] bussano ancora» (Le rime); bussano come i personaggi di Pirandello: in Tragedia di un personaggio (in Novelle per un anno) il narratore dice che è sua «vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi» delle novelle che scriverà e Udienza è proprio il titolo della poesia di De Angelis. In effetti lungo tutta la raccolta sono evocati personaggi che come fantasmi riemergono dal viaggio nell’inconscio con l’incontro e il dialogo che ne segue, il verso lungo – stilisticamente felice – e la teatralizzazione del testo: «“Mister, lei è ancora qui, nel campo a nove giocatori, / è ancora qui con lo stesso taccuino e la matita” / Sono sempre stato qui e ti aspettavo ragazzo». Memorabile in Strapiombo, proprio a metà libro (p. 51), anche l’incontro con Luigi Tenco in cui «l’ombra di ciò che abbiamo taciuto», colpevolmente aggiungerei, è «sempre più grande», può quindi arrivare a perseguitarci. L’Udienza di De Angelis rimanda a quello che l’autore in una intervista ha chiamato il «tribunale delle parole (Colloqui sulla poesia, La vita Felice, 2008), cui bisogna presentarsi. Nello stesso volume parla altrove dei pomeriggi passati ad discutere i propri versi davanti ad un giudice severo come Franco Fortini: una scelta di «un aggettivo sbagliato o banale» costituiva una grave colpa o «peccato» in una «dimensione da fine del mondo». Ed è proprio una dimensione tragica, da aula di tribunale, a caratterizzare la poesia di De Angelis, in cui, come è scritto nella conclusione della raccolta, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, «ognuno attende la sentenza» (e i poeti per parte loro dovranno rispondere, soprattutto delle parole che dicono strappandole al silenzio). L’«arpione» che entra «nella bocca», toglie «la parola» è la morte, la cui oscura prefigurazione per il poeta è il non saper trovare le esatte parole, affondando in un balbettio, in una «lingua morta» (p. 97) una volta che si è asciugato «l’oceano dell’infanzia». Ma la fine del gioco e dell’infanzia equivalgono a quella della stessa creazione artistica, della scrittura: «balbetta una lingua morta nelle nostre mani calcinate / che ieri furono sorgente e primavera, foglio e inchiostro». Anche la narrazione del «doppio passo», la favola tragica dei due suicidi bambini, sembra conservare una allusione meta letteraria; alla fine la poesia non può che sfociare in un abbraccio di silenzio e di morte: «E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore / […] scenderemo noi due, scenderemo noi soli».

DAVID FOSTER WALLACE legge “Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale” [1999]

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Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso. A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di sì, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sì, o invece sì.

[EINAUDI 2007 – trad. Giovanna Granato – Ottavio Fatica ]

DAVID FOSTER WALLACE [Ithaca, 21 febbraio 1962 – Claremont, 12 settembre 2008] legge “Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale” da “Brevi interviste con uomini schifosi” [1999]

Luomomacchina e altre poesie

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di Marcello D’Ursi

Luomomacchina

Luomomacchina non parla
Urla
Luomomacchina divide uomo da uomo
Luomomacchina fa paura
Luomomacchina ha paura
Del luomomacchina più grosso
Luomomacchina non cade mai
Luomomacchina è un oggetto
Nelle braccia meccaniche
Di altri luomomacchina
Luomomacchina calcola
Freddo
Luomomacchina non dimentica
Ma non ricorda
Luomomacchina è prima persona
Singolare assoluto
Luomomacchina è triste
E ride sguaiato
Luomomacchina dissimula
Luomomacchina non deve chiedere
Mai
Luomomacchina pensa da luomomacchina
Che tutti siano luomomacchhina
Luomomacchina cancella l’uomo.

17/5/2016

 

 

Non smetterò mai
di portare il tuo sguardo ad una nuvola
al cielo
all’oriente caldo di mattino all’alba.
Dovrai così disimparare la macchina dell’obbligo disattendere il compito
e chi da te attende profitto.
Sarai un uomo tu, figlio,
vivo, e vivrai sentendo nel corpo nel cuore
la vita.

18/2/21_6.42

 

Un metro non è un metro
dove un uomo non è un uomo.
La lingua non è parola
dove il suono è solo rumore.
La carne non è senso dove il moto è meccanico.
Un sogno non è vero dove incombe l’algoritmo.
Bellezza è finzione
dove ricchezza è produzione.
Il socio è solo affare
dove l’uomo è solo un affare.
La vita non ha valore
dove l’uomo non è umano.

13/5/21_5.14

 

Carne e sangue contro salario

Nel rumore granitico della “giostra”, sono stato cacciato da un violento gesto salvifico.
Più che d’uomo, mi trovo in compagnia di brutale umanità: occhi rinchiusi in confini di geografie millimetriche, lingue di tre parole senza vocali, omuncoli proni all’ombra del bastone, maschere compiacenti al gioco delle parti con denti sanguigni e pronti all’azzanno.

In punta di piedi per anni, ho placato la sete col sale umido dei miei occhi. E scavato più a fondo nel putrire delle mie radici.

La frusta della parola avversa ha reso cuoio la pelle ingenua. Lo sguardo meccanico ha sottratto pietà al mio occhio. La persona che sono è maschera fredda. Il corpo è macchina. Faccio merce di carne e sangue. Un terzo del mio tempo scorre come un fiume che muove macine e ingranaggi.

Macchina sapiens tra macchine insipiens, sento un altrove che vive silente, un aldilà di vite mai sazie, mai rassegnate, digiune di ignoranza, assetate di speranza.

15/7/21_05.00

 

 

Non perderti mai la vita
ricorda che sei un uomo
non perdere mai la vita
ricorda di vivere
non lasciarti vivere
non sopravvivere
vivi
tutto, in tutto quel che sei.

18/7/21_22.07

MUSICA PER GIORNI DISPARI #01 Steve Reich “WTC 9/11” [2010]

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[ sono giorni “pari” quelli di rara e precaria armonia e luminosità – fra la bufera dei “dispari” – densi di nubi e ombre e altrettanto necessarie disarmonie – e l’uno e l’altro – per esser percepiti in un modo o nell’altro – hanno da scorrersi accanto – sempre giustapposti e ciascuno ha la sua musica per turbare o rasserenare ]
 

 

di ⇨ Steve Reich
 

Note del compositore

Nel 2009 il ⇨ Kronos Quartet mi ha chiesto un brano con voci preregistrate. La mia prima idea era di allungare le vocali o le consonanti finali di chi parla. Stop Action sound. Impossibile nel 1973 quando ci pensai per la prima volta. Possibile nel 2001 quando iniziai ⇨ ‘Dolly’. In questo pezzo doveva essere, ed è, il mezzo per connettere una persona a un’altra, in modo armonico.

Non avevo idea di chi stesse parlando. In nessun modo. Dopo diversi mesi ho finalmente capito l’ovvio. Per 25 anni abbiamo vissuto a quattro isolati dal World Trade Center. L’11 settembre eravamo nel Vermont, ma nostro figlio, con nipote e nuora erano nel nostro appartamento. La connessione telefonica con loro è rimasta aperta per 6 ore, fin quando i vicini della porta accanto riuscirono finalmente a partire in macchina verso nord fuori dalla città con la loro famiglia e la nostra. Per noi l’11 settembre non è stato un evento mediatico.

Nel gennaio 2010, diversi mesi dopo che Kronos mi aveva chiesto il pezzo, mi sono reso conto che le voci preregistrate sarebbero state quelle dell’11 settembre. Nello specifico prese da fonti di Pubblico Dominio: ⇨ NORAD, ⇨ FDNY, e poi da interviste ad amici e vicini che vivevano o lavoravano a Lower Manhattan.

WTC è anche l’abbreviazione di World to Come, come ha sottolineato il mio amico, il compositore David Lang. Dopo l’11 settembre i corpi e le parti dei corpi sono stati portati nell’Ufficio del Medico Legale nell’East Side di Manhattan. Nella tradizione ebraica c’è l’obbligo di vegliare il corpo dal momento della morte fino alla sepoltura. La pratica, chiamata Shmira , consiste nel sedersi vicino al corpo e recitare salmi o brani biblici. Le radici della pratica sono, da un lato, proteggere il corpo da animali o insetti e, dall’altro, tenere compagnia alla neshama (anima) mentre si libra dal corpo fino alla sepoltura. A causa delle difficoltà nell’identificazione del DNA, tutto questo è andato avanti per sette mesi, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Nel terzo movimento si odono due delle donne che hanno vegliato e recitato i Salmi. Si possono ascoltare anche un violoncellista (che ha celebrato lo Shmira altrove) e un cantore di un’importante sinagoga di New York cantare parti dei Salmi e della Torah.

Il WTC 9/11 è in tre movimenti (sebbene il tempo rimanga invariato per tutto il pezzo):

1. 9/11
2. 2010
3. WTC

Il pezzo inizia e finisce con il primo violino che raddoppia il forte segnale acustico di avviso (in realtà un FA) emesso dal telefono quando viene lasciato sganciato. Nel primo movimento ci sono voci d’archivio dei controllori del traffico aereo del NORAD, allarmati dal fatto che il VOLO 11 americano fosse fuori rotta. Questo è stato il primo aereo a schiantarsi deliberatamente contro il World Trade Center. Il movimento si sposta quindi negli archivi di quel giorno dei Vigili del Fuoco di New York, che raccontano cosa è successe a terra.

Il secondo movimento utilizza le registrazioni di residenti del quartiere che ho fatto nel 2010, un ufficiale dei Vigili del Fuoco e il primo autista di ambulanza (dei volontari di Hatzalah) ad arrivare sulla scena, che ricordano cosa successe nove anni prima.

Il terzo e ultimo movimento utilizza le voci di un residente del quartiere, due volontari che si sono alternati seduti vicino ai corpi e il violoncellista/cantante e cantore sopra menzionato.

Durante tutto il WTC 9/11 gli archi raddoppiano e armonizzano le melodie del discorso e le vocali o le consonanti prolungate delle voci registrate. Si ascolteranno un totale di tre quartetti d’archi, uno dal vivo e due preregistrati. Il brano può essere eseguito anche da tre quartetti dal vivo e voci preregistrate.

Il WTC 9/11 dura solo 15 minuti e mezzo. Durante la composizione ho spesso cercato di allungarla e ogni volta ho avuto l’impressione che estenderne la lunghezza ne riducesse l’impatto. Il pezzo voleva essere conciso.

“WTC 9/11” [2010]
Prima mondiale
19/03/2011
Duke University, Durham, Carolina del Nord
Quartetto Kronos

Quattro romanzi: Sorrentino, Teobaldi, Lobo Antunes, Camenisch

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(quattro letture di fine estate, mentre il sole scompare dietro le nuvole settembrine. G.B.)

di Gianni Biondillo

Piero Sorrentino, Un cuore tuo malgrado, Mondadori, 147 pagine, 2019

Bianca, la protagonista di Un cuore tuo malgrado, è un’autista di autobus. Un lavoro come un altro; era il mestiere di suo padre, ora è il suo. Poi una mattina, complici una canzone ascoltata alla radio, qualche gabbiano che attraversa un cielo terso, un signore che fuma, insomma, complice una stupida distrazione alla guida e la sua vita cambia per sempre. Non solo la sua. Al risveglio in ospedale scoprirà come in pochi secondi abbia distrutto l’esistenza di una intera famiglia. Come puoi convivere con una tale colpa?

Fortunatamente Bianca non è sola. Sua sorella Margherita l’accompagna nella lunga riabilitazione, sia fisica che psicologica. L’autore decide di raccontarci come una donna qualsiasi possa attraversare il suo inferno privato. Lo fa scavando nella sua infanzia, nei ricordi estivi, nei giochi con la sorella al mare, fino al giorno della perdita improvvisa del padre. Ma non basta. Bianca non vuole lasciarsi alle spalle la tragedia che ha provocato. È alla ricerca spasmodica di un perdono. Decide, contro l’opinione della sorella, di scrivere all’unico sopravvissuto all’incidente.

La lingua di Piero Sorrentino è così lieve e precisa che riesce a farci entrare in risonanza con una protagonista che, guardata alla giusta distanza, tutto fa tranne che agire con ragionevolezza. Nelle mani di un altro autore sarebbe stata insopportabile. A ben vedere ogni sua mossa nel corso del romanzo è istintiva, irrazionale, egoista. Spesso crudele anche con chi le vuole bene. La scelta dell’autore di non identificare mai la città, i luoghi dove la storia di dipana mira a rendere universali i tormenti della protagonista. Potrebbe accadere ovunque. Bianca siamo noi. E come lei vogliamo che la nostra anima si salvi a prescindere dal male che siamo capaci di dare.

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Paolo Teobaldi, Arenaria, 148 pagine, edizioni e/o, 2019

 

Un nonno, che racconta alla nipotina, così giovane che neppure può capire il racconto, la vita di un luogo, i suoi abitanti, il passato che non deve essere dimenticato. Un dono, un testamento orale. Nulla di più. Non c’è altro da aggiungere alla trama di Arenaria. Trama che, appunto, non esiste. Eppure non si riesce a smettere di leggere le continue digressioni del racconto del narratore che saltabeccano, vagando con la mente e la memoria, da una definizione di una parola desueta al soprannome di una famiglia di contadini; dal racconto di una casa scomparsa nel mare a una montagna (che poi neppure montagna è) che perde pezzi in modo capriccioso. Come si diceva una volta: raccontando vita, morte e miracoli.

Sono due gli elementi di forza di questo romanzo, che, a ben vedere non è neppure un romanzo: è un monologo che potrebbe essere messo in scena già da subito. Il primo elemento che struttura il testo è la lingua. All’apparenza colloquiale, bassa, popolare. Ma nei fatti coltissima, capace di riflettere su se stessa, farsi malinconica, comica, tragica, nobile, mai nostalgica. Paolo Teobaldi è uno scrittore di parole. Sembra che assista, ogni volta che le scrive, ad un miracolo. Come se semplicemente dicendole abbiano la potenza di evocare mondi lontanissimi.

L’altro punto di forza è la scelta di non avere protagonisti. Non ostante la pletora infinita di personaggi, spesso solo accennati ma con tale precisione che sembrano vivi, nessuno di questi ruba la scena al vero protagonista dell’opera: il paesaggio. Arenaria è una (rara) narrazione del paesaggio.  Racconta di una collina, pochi chilometri quadrati, fra mare e pianura. Un micromondo dove gioia e rabbia, fatica e speranza convivono. All’apparenza storie minime, dimenticabili, ma che viste con lo sguardo prodigioso dell’autore diventano un universo. D’arenaria.

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António Lobo Antunes, Lo splendore del Portogallo, 407 pagine, Feltrinelli, 2019, traduzione di Rita Desti

 

Non è affatto un libro semplice Lo splendore del Portogallo. È, a ben vedere, una sucessione di quattro voci monologanti, neppure ordinata, nel tempo e nello spazio. Quattro confessioni, flussi di coscienza, lavacri dell’anima. Antònio Lobo Antunes scombina la consecutio, il filo narrativo, la stessa punteggiatura. Per raccontarci cosa? L’intima sconfitta esistenziale di una vecchia madre e dei suoi tre figli, due maschi e una femmina. Ciò che resta di una famiglia di ricchi possidenti portoghesi in Angola e della loro vita oggi meschina, negletta, piena di false nostalgie per un’Africa dove erano trattati come esseri superiori, capaci di decidere la vita o la morte di un “negro” anche per un solo capriccio.

Questo romanzo, da leggere ad alta voce, per ammirarne la musicalità, già pronto a una trasposizione teatrale, è a conti fatti la dichiarazione di sconfitta, l’accusa cocente della coscienza critica di un intellettuale nei confronti dell’imperialismo colonialista occidentale e nello specifico portoghese. La vita sopra le righe dei possidenti europei, all’apparenza così profondamente timorati di Dio, poteva esistere grazie al sopruso, alla violenza, al profondo e radicato razzismo che giustificava ogni efferatezza. I quattro protagonisti, sconfitti dalla Storia e dalla vita, rammemorano il passato in un flusso continuo e indistinto di frammenti spesso incoerenti che durante l’appassionante, per quanto difficoltosa, lettura sembrano organizzarsi nel caos in un disegno unitario: la madre Isilde, moglie frustrata di un ingegnere dedito all’alcol, la figlia Clarissa, considerata dalla comunità dei benpensanti una sgualdrina, Carlos, il figlio illegittimo e meticcio, Rui, affetto da epilessia fin da bambino. Figure tragiche, simulacri perfetti di un’epoca tragica.

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Arno Camenisch, Ultima neve, 104 pagine, Keller editore, 2019, traduzione di Roberta Gado

 

Se il vecchio skilift non s’è ancora bloccato, uno dei più vecchi dei Grigioni, è grazie alla solerzia di Paul e Georg, che lo curano, lo mantengono, lo mettono in moto ad ogni stagione sciistica. Se poi qualcuno da lassù, molto in alto, volesse dare una mano ai due amici sarebbe meglio. Sono troppi inverni ormai che la neve si fa sempre più rara. Ma almeno la seggiovia funziona, così la gente di pianura saprà che la pista non è chiusa, che la volontà non manca, che insomma i due amici non demordono.

Solo che, dato ordine alla postazione, fatta manutenzione al tetto, catalogato i biglietti per età e sconti, cos’altro devono fare Georg e Paul tutto il giorno, mentra attendono senza posa l’arrivo di un qualsivoglia cliente? Così, fra giornate troppo assolate, rare spruzzate di neve, qualche banco di nebbia e qualche bicchiere di grappa, non resta che ricordare: ciò che era il ghiacciaio soltanto una generazione fa, oppure le leggende di chi ha avuto due funerali, o di chi scomparve per sempre. Vite di uomini, donne, di un paese, di una valle e di una lingua, il romancio, che viene parlato sempre meno.

Arno Camenisch in questo suo agile romanzo, Ultima neve, racconta cos’è la montagna, luogo dell’anima per eccellenza della letteratura svizzera, nel momento epocale del cambiamento climatico. Lo fa poeticamente, in un flusso ininterrotto di coscienza dei due interlocutori, con un testo all’apparenza discorsivo, mai enfatico, ma in realtà denso, colto, teatrale. Paul e Georg ingannano il tempo e il tempo (cronologico e atmosferico) inganna loro. In attesa dell’ultima neve, pazienti e rassegnati, non rimane loro che diventare, alternativamente, l’uno la Sharahzad dell’altro. E insieme, giorno dopo giorno, i due novelli Vladimiro ed Estragone contemporanei.

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(recensioni pubblicate su vari numeri della rivista Cooperazione durante il 2019)