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Tracce per una playlist (tre frammenti sottocomuni e una postilla)

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di Lorenzo Mari

Ci sono molti libri che fanno problema: scriverne è, tutto sommato, un esercizio facile e piacevole; talvolta, poi, la recensione può portare a un aumento, per quanto limitato ed effimero, del capitale simbolico dell’autore o dell’autrice, e anche di chi ne ha scritto. Ci sono poi alcuni libri che sono problema: nominandolo e agendolo, mettono in crisi le dinamiche stesse dell’accumulazione e dello scambio del capitale simbolico, liberando, così, energie che si possono dirigere altrove.

Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero (Tamu/Archive Books ed., 2021) di Fred Moten e Stefano Harney entra di diritto nella seconda categoria: questa raccolta di saggi e interventi – che trae origine da un articolo apparso nel 2004 su Social Text[1] e che testimonia un lavoro collaborativo e cooperativo più che decennale, e non ancora terminato, per quanto infine approdato alla forma-libro, in inglese, nel 2013 – espone un programma culturale e politico che si estende a tutto campo, partendo dall’incontro-scontro tra la tradizione radicale nera e l’operaismo/post-operaismo/neo-operaismo italiano e giungendo a ridefinire alcune questioni fondamentali tanto per la produzione culturale – in ambito accademico, in particolar modo – quanto per la militanza.

Questioni che potrebbero forse essere riassunte sommariamente così: “non solo e non tanto dentro e contro l’università, bensì anche con e per gli undercommons”. La prima parte rinvia direttamente alle famose parole di Mario Tronti, con la sostituzione dell’“università” alla “società” presente nella formulazione originaria (e questo, secondo Moten e Harney, non tanto perché l’università sia il prodotto diretto di più ampi processi socio-economici, quanto perché la stessa divisione del lavoro accademico può anticipare e prefigurare quei processi). La seconda parte, invece, porta al cuore dello specifico dei contributi di Moten e Harney, ovvero a quegli undercommons[2] che offrono ulteriore articolazione all’ormai lunga tradizione di analisi e lavoro sui commons[3], evidenziando come nel processo di costruzione di questi ultimi siano sempre all’opera dinamiche di esclusione che sono riconducibili, in prima istanza, a una divisione del lavoro intimamente classista, fortemente razzializzata e rigidamente assestata secondo linee di genere.

Allo stesso tempo, però, Moten e Harney non si concentrano sui possibili sviluppi di quell’approccio intersezionale che potrebbe derivare in modo piuttosto immediato e coerente da quanto appena affermato, passando, invece, più direttamente, a delineare una possibile localizzazione culturale e politica degli undercommons (una localizzazione costitutivamente provvisoria, peraltro).

Rifacendosi en passant alla figura del “ladro di idee” e proto-hacker promossa da Félix Guattari[4], infatti, il saggio non mira alla sistematizzazione del concetto di undercommons, perché quest’ultima porterebbe unicamente a una sua legittimazione, politicamente ambivalente, entro i confini ambivalenti della “critica”: rielaborando alcune annotazioni sparse di Fredric Jameson e di Gayatri Chakravorty Spivak, Moten e Harney sottolineano come una critica, apparentemente progressista, che nasca in ambito accademico avrà sempre una serie di determinazioni di classe (di razza, di genere, etc.), nonché un rapporto con l’istituzione e la divisione del lavoro che ne limiteranno la portata e l’intervento politico.

Oltre a preferire l’utilizzo strumentale, militante e non di rado ludico – come ribadito nelle prime pagine del dialogo degli autori con Stevphen Shukaitis[5] – degli undercommons, se ne dà, piuttosto, una provvisoria localizzazione sociale: «Comunità maroon di insegnanti di scrittura, dottorande senza supervisore, storici marxisti a contratto, docenti di management dichiaratamente queer e omosessuali, dipartimenti di studi etnici di università statali, programmi di cinema rimossi, case editrici di riviste di studenti yemeniti con visto scaduto, sociologhe di università storicamente “nere” e ingegneri femministi»[6]. Con questo, Moten e Harney non intendono individuare una sorta di lumpenproletariat accademico che possa provare a emanciparsi dal punto di vista culturale e materiale, bensì presentare una rapida ricognizione sociologica dei luoghi degli undercommons: luoghi che esistono già ora – nonostante l’elenco possa funzionare soltanto da rapida e magari immaginifica esemplificazione – e che già ora complicano le dinamiche stesse di produzione della teoria[7].

In altre parole, all’interno di una scrittura che non disdegna e anzi pratica a pieni mani il linguaggio (uno dei possibili linguaggi) del post-strutturalismo – intersezione, questa, mai negata, da Moten e Harney, nella loro proposta teorica, più volte ribadita, di un incontro-scontro fra la tradizione radicale nera e l’operaismo/post-operaismo/neo-operaismo italiano – sono frequenti le “fotografie di realtà”, delle quali non si può dare conto qui in modo esaustivo, ma che di certo confermano e arricchiscono il percorso teorico del saggio. Sono, inoltre, la spia di una dimensione materiale che può ancora irrompere fortemente nella teoria, configurando lo snodo tra teoria e prassi in un modo già parzialmente diverso da quello della teoria che si auto-legittima (in attesa di una verifica storica, sempre lungi dall’arrivare nel momento in cui la teoria, nei luoghi stessi della sua produzione, si svincola dall’implicazione con le proprie strutture materiali) o, ancora, di quella divulgazione che, già nella propria strutturazione retorica, si vuole immediata traduzione “nella realtà delle cose”.

Di fronte a questo procedere magmatico e insieme per lampi e frammenti (simile all’improvvisazione musicale, nel jazz e oltre i confini del jazz), sembra qui inopportuno, inutile, forse impossibile, tentare di pervenire a considerazioni “critiche” di fondo – esse stesse sono problema, per Moten e Harney – ma, aderendo alla sostanza della loro proposta (pur nell’abbondanza delle note a piè di pagina, contrariamente a quanto proposto nel libro), si cercherà di proporre tre ulteriori frammenti che riprendano e rielaborino le energie che si disperdono a partire dal libro. Riguardano tre direttive fondamentali del libro: il general intellect e lo “studio nero”, la “pianificazione fuggitiva” e l’approccio culturalista (al rapporto tra musica, produzione teorica e militanza, in particolar modo).

 

1) Frammento sulle macchine (e sulle intellettuali sovversive).

 

Cosa intendono Moten e Harney per Black Study o “studio nero”? Non si tratta dei più comunemente noti Black Studies – sintomo, pur nella loro legittimità e importanza, di una compartimentalizzazione disciplinare che ha poco a che vedere con gli undercommons – bensì dello “studio” vero e proprio. Si rifugge così l’attuazione di quelle politiche identitarie così spesso imputate agli Studies: la blackness è intesa non come immodificabile attributo ontologico; al contrario, “studio nero” e “pianificazione fuggitiva” «sono rivolti al fare causa comune con la rottura dell’essere, una rottura […] che è anche nerezza, rimane nerezza, e che nonostante tutto rimarrà rotta e in rovina, perché questo libro non è una prescrizione per alcuna riparazione o risarcimento»[8]. In questo, non c’è apologia di quello che è stato storicamente rifiutato, ma “rifiuto del rifiuto”[9]: contro le aporie delle politiche identitarie, costitutivamente essenzialiste, ma anche contro quelle dell’anti-fondazionalismo, ad esempio anti-razzista, implicato nelle aporie di certo relativismo[10]. Tornando alla “carne” – già punto focale della riflessione teorica afroamericana[11] – si può sottolineare, invece, la permanenza di un «punto fisso di nessun punto fisso»[12] che sovverte l’intero discorso della logistica (dell’economia della logistica), ora diventato dominante, in quanto suo margine irriducibile, o “logisticalità”: «La logistica, in qualche modo, sa che non è vero che non sappiamo ancora cosa possa fare la carne. Esiste una capacità sociale di istanziare più e più volte l’esaustione del punto fisso come terreno sottocomune, che la logistica conosce come inconoscibile […] La logistica percepisce il senso di questa capacità come non mai – questo lascito storico inseorgente, questa storicità, questa logisticalità, delle vite rubate»[13].

Questo punto – definito da Christoph Brunner e Gerald Raunig come una forza che rifugge ogni mossa essenzializzante, anche strategica, mantenendo un certo appiglio (hold) perché il potenziale di radicalità sia ancora percepito e agito attraverso i corpi e gli spazi[14] – può forse costituire l’anticipazione, peraltro anch’essa sempre già presente, di un posizionamento. Oltre al posizionamento, tuttavia, è opportuno segnalare anche quello che implica, più concretamente, la promozione dello studio: né acquisizione di competenze professionalizzanti, né lavoro propedeutico all’esercizio della critica, lo studio è ciò che si ritrova ad eccedere continuamente i limiti dell’università neoliberale. Per quanto sia definito come «poco professionale» dalla stessa università – perché collocabile ai margini della divisione del lavoro accademico, essendo stato espulso dai suoi meccanismi di valutazione e selezione, che valgono tanto per le “studentesse” quanto per le “lavoratrici dell’università” – lo studio è un’attività già «più che professionale»[15], alla base della stessa definizione di Universitas e al tempo stesso suo continuo eccesso, mai del tutto normalizzabile.

Si tratta di un’apologia della studentessa fuori corso? Anche. Della ricercatrice incompetente? Anche. Se si dimentica per un attimo la celebrazione dello studio – della produzione e riproduzione delle comunità universitarie, ad esempio, come comunità interne, ai margini o anche esterne all’ambito accademico – che è stata contrapposta alle restrizioni imposte con la didattica a distanza, questa presa di posizione resta scandalosa, soprattutto se rapportata al dibattito italiano, dove da tempo si guarda con un certo disprezzo classista alle studentesse universitarie (come prodotto di una più generale “lotta di classe dall’alto” alla scuola[16]); può sembrare, in altre parole, una provocazione dai toni inutilmente massimalisti, tesi ad autolegittimare la mancanza di competenze e di professionalizzazione in nome di una sterile critica dell’«affermazione dell’individualismo borghese»[17].

Se si ammette invece la correttezza dell’argomento – con ogni probabilità, basta analizzare in modo approfondito i sistemi di valutazione dell’istruzione e della ricerca per concordare, almeno in parte – nasce un ulteriore interrogativo: il luogo di elezione per questa dialettica non resta forse l’università stessa? Se lo chiedono anche Moten e Harney, rispondendo: «essere un accademico critico all’interno dell’università significa essere contro l’università; ed essere contro l’università significa sempre riconoscerla e trarne riconoscimento; istituire la negligenza di quel fuori interiore, quel sottoterreno non assimilato, una negligenza di quello che è esattamente, dobbiamo insistere, la base delle professioni. […] L’università non riconoscerà questa indecisione e, di conseguenza, la professionalizzazione sarà formata esattamente da quello che non può riconoscere, il suo antagonismo interno, il suo lavoro imprevedibile, il suo surplus»[18]. La più alta professionalizzazione corrisponde alla più grande negligenza degli undercommons, nonché delle forze sociali che lo agitano e lo agiscono: di nuovo, l’intellettualità sovversiva non può essere ricompresa entro i limiti della produzione e riproduzione del sapere accademico, senza esserne neutralizzata; l’intellettualità sovversiva, come insistono sia Moten e Harney sia Jack Halberstam, nella sua prefazione, deve restatre prerogativa del general intellect.

Questo non è, però, un general intellect che discenda in linea diretta dal Frammento sulle macchine dei Grundrisse di Karl Marx, riferendosi piuttosto alla tradizione post-operaista/neo-operaista italiana, con la sua ricerca di un’automazione progressiva che sostenga il rifiuto del lavoro e con i suoi frequenti intrecci del general intellect marxiano con la concezione spinoziana del social brain[19]. Tuttavia, nel suo “rifiuto del rifiuto”, la componente principale di questo intelletto generale resta paradossalmente assimilabile a quel pensiero astratto e “senza portatore” che già per Marx era il «pilastro generale della produzione della ricchezza» in quanto parte del «processo vitale stesso della società»[20]. L’intelletto generale resta slegato da una prospettiva antagonista o emancipazionista; continua invece a “pianificare”, in modo incessante e “non competente”, in eccesso rispetto a ogni tentativo di policy – sempre estremamente “competente”, pur nella sua inefficienza, o nel suo autoritarismo normalizzante – ma anche in alternativa a ogni prospettiva rivoluzionaria, considerata, nelle parole introduttive di Jack Halberstam, nient’altro che un «impeto mascolino o uno scontro armato»[21].

Si pianifica, in altre parole, restando esclusivamente all’interno di una dimensione eminentement6e culturale e cercando di praticarvi quella distinzione tra “generazione di conoscenza” e “generazione di comportamenti” già evidenziata da Andrea Fumagalli, dove la prima può, forse, perpetuarsi felicemente nello studio, mentre la seconda rischia sempre di «diventare veicolo e opportunità di nuovo profitto privato, nel momento stesso in cui i nuovi comportamenti, inizialmente e necessariamente alternativi, vengono incapsulati nel fenomeno della moda intesa come ulteriore (e potenziato) feticismo della merce»[22]. Come sia possibile distinguere attivamente la “generazione di conoscenza” dalla “generazione di comportamenti” resta imprecisato, nel testo di Moten e Harney, così come la sottrazione della “generazione di conoscenza” da un processo di semplice messa a valore capitalistica degli undercommons.

Se questo resta “lavoro da fare” – o meglio, un’opzione che resta, ancora, radicalmente aperta – allo scopo di evitare una culturalizzazione dell’intelletto generale che ne sopprima ancora una volta la dimensione antagonista, appropriata dal capitale[23], vi è anche un’altra possibile complicazione materiale dello studio: come si può, sostenere quel debito che contraggono gli studenti – specialmente, ma non solo, nel sistema universitario statunitense – mantenendolo nei termini paradossali e sempre eccedenti del “debito illimitato”, che non può essere “riparato” né “risarcito”? Come segnalano Moten e Harney, la giustizia riparativa ha certamente i suoi limiti, in quanto non cancella l’impronta del credito, ma, davanti alla stretta materiale e coercitiva di un “debito illimitato”, come si può garantire la riproduzione stessa dello “studio”?

 

2) Frammento di Pistola (o della manager in fuga)

 

La risposta di Moten e Harney è che lo studio si riproduce soltanto nella “pianificazione fuggitiva”. «Tornerò all’università e lì vivrò di furto» è la soluzione proposta da Moten e Harney, con un’opportuna misquotation e dislocazione dell’originario monologo di Pistola nell’Enrico V di Shakespeare[24]: «Questa è oggi l’unica relazione possibile con l’università statunitense e potrebbe valere per ogni università, in ogni parte del mondo. Potrebbe essere vero per l’università in generale. Ma, certamente, è tanto più vero negli Stati Uniti: non si può negare che l’università sia un luogo di rifugio e non si può accettare che sia un luogo di rivelazione illuminista. Alla luce di tali condizioni, non si può entrare nell’università se non furtivamente e, una volta dentro, rubare tutto il possibile. Abusare della sua ospitalità, ostacolare la sua missione per unirsi alla colonia di profughi, di rifugiate, al suo campo nomade, per essere nell’università ma non dell’università – questo è il percorso dell’intellettuale sovversiva nell’università moderna»[25].

La relazione con l’università, dunque, può essere soltanto “furtiva” e, di conseguenza, “fuggitiva”: non si tratta soltanto di un “esproprio proletario” in una sua nuova, ed estremamente problematica, versione culturale[26], ma della rivendicazione di un’intera dimensione politica sottratta alle dinamiche del possesso e dello spossessamento con la quale Moten e Harney – prescindendo, di nuovo, dalla più classica prospettiva emancipazionista, basata sui processi di autocoscienza e di lotta di classe all’interno di una specifica divisione del lavoro, e ricorrendo invece alla memoria della “conquista”, e cioè di quel lungo dominio a carattere schiavista che ha segnato, in modo particolare ma non esclusivo, la storia degli Stati Uniti – identificano più volte la politica stessa[27].

Davanti alla mancanza di alternative propalata dal realismo capitalista – Fisher continua a tornare, in controluce – si potrebbe parafrasare che “la pianificazione del cambiamento è già essa stessa cambiamento”. Continuare a pianificare, con e per gli undercommons, consente di continuare la fuga, che è ancora, mutatis mutandis, quella delle schiave e degli schiavi in fuga dalle piantagioni; non si ricerca una strategia controegemonica, che si segnala già in partenza come fallimentare, ma si mantiene la memoria della “conquista” e della stiva della nave del Middle Passage per uno scopo che è, innanzitutto, di «preservazione militante»[28].

Se questa posizione può sembrare eccessivamente difensiva, o anche auto-legittimante, ciò non lo si deve, tuttavia, a un giudizio morale, “critico” e nemmeno “politico” – nelle due accezioni, almeno, rifiutate da Moten e Harney – ma alle conseguenze stesse della posizione che assume la “pianificazione fuggitiva” rispetto alla questione manageriale della policy, cui Moten e Harney dedicano una sostanziale operazione decostruttiva[29], ma che resterebbe, in ultima istanza, immodificata da una strategia di “preservazione militante”.

Se è senz’altro vero, come scrivono Moten e Harney, che «ci sono persone che vogliono gestire le cose, e ci sono cose che vogliono scappare»[30], ancora una volta, però, all’opzione della fuga è utile contrapporre un’altra strategia, sempre suggerita da Mark Fisher – il quale torna ad essere, ancora una volta, utile cartina da tornasole, per la lettura di Undercommons – in uno dei suoi ultimi scritti, che è quella di “accelerare il management”[31]. Resta possibile, infatti, un tentativo di accelerare il management fino a svincolarlo dalla sua appropriazione neoliberale – «What is a communist society if not a managed society?»[32], si chiede Fisher (non senza una punta di candore, che Moten e Harney, potrebbero fiutare e rifiutare) – e rimetterlo, così al servizio di un’agency collettiva.

Ora, mentre l’articolo di Fisher si chiude con un paio di richieste a una nuova managerialità del lavoro culturale che sembrano limitare di molto la portata della sua proposta – manager che non portino a paradigma la loro dipendenza tossica dal lavoro, imponendo carichi di lavoro eccessivi ai loro dipendenti; manager che non soverchino i dipendenti di tante micro-mansioni (non di rado, di natura burocratica e burocratizzante), ma di uno “spazio per pensare”, ecc.[33] – è qui utile osservare come l’accelerazione del management invocata da Fisher sia, in realtà, permeata dal desiderio di ritorno a quei corpi intermedi, dal partito al sindacato, che la folk politics di sinistra – così com’è stata esemplificata, nel mondo anglosassone, da un movimento come Occupy (riferimento che, in certo modo, oscura esperienze simili e precedenti) – ha inteso abbandonare in favore di una logica neo-orizzontalista[34].

Com’è noto, Fisher è molto attento a non lasciarsi invischiare nelle forme melancoliche di una politica della nostalgia: anche per lui, si tratta di re-immaginare un mondo. Anche per lui, si tratta di guardare a un’altra citazione shakespeariana proposta da Moten e Harney – « Pazzo, amante, poeta: tutti e tre sono composti sol di fantasia», da Un sogno di una notte di mezza estate (Atto V, Scena 1) – dove, se Moten e Harney suggeriscono di sostituire al poeta (un’elisione bizzarra, ma, in fondo, non troppo, in un testo, come Undercommons, che non di rado sconfina, di fatto, nei territori della poesia) la «guerriglia anticoloniale»[35], Fisher potrebbe chiedere di aggiungervi il “militante del desiderio post-capitalista”, se non, addirittura, un “sindacalista” (una nuova forma di sindacalismo, almeno).

 

3) Frammento dell’eschaton discacciato e cantato a ritmo di scat (o del party clandestino)

 

Re-immaginare il mondo non vuol dire accelerarne la fine all’insegna del “tanto peggio tanto meglio” – su questo punto, anche l’accelerazionismo, nell’accezione datagli da Mark Fisher, sembra piuttosto chiaro[36]. Moten e Harney si mantengono al di là delle interpretazioni escatologiche (e anche anti-escatologiche, intendendo rifuggire anche questo ulteriore binarismo) che sono rifiorite, su altri versanti, in tempi di pandemia. Una delle loro formule più riuscite, ricordate anche da Jack Halberstam nella sua introduzione, è la celebrazione del «gioioso rumore dell’eschaton discacciato e cantato a ritmo di scat»[37], rifuggito e al tempo stesso portato altrove da una pratica musicale coerente con la storia culturale e politica della nerezza che permea il libro. Musica soul (Curtis Mayfield e Marvin Gaye su tutti) e jazz (Joe McPhee e Don Cherry, tra gli altri) restituiscono un percorso che flirta con le metodologie degli studi culturali, per poi portare a nuovi approdi. Si prenda, ad esempio, l’ascolto della struttura antifonale di Nation Time (1970) di Joe McPhee: «In un certo senso, sembra davvero che McPhee stia richiamando all’ordine, stia facendo la paternale al pubblico in una serie di domande e risposte: “What time is it?” “Nation Time”. Ma per altri versi, qualsiasi ordine impostato secondo quel richiamo all’ordine, se lo è, allora si spezza rapidamente o muta in qualcos’altro attraverso l’improvvisazione collettiva […] mi chiedevo come si possa allo stesso tempo richiamare all’ordine e richiamare al mutamento, o a una rottura, o forse a un genere diverso di ordine»[38]. Al che Fred Moten incalza: «Ho sempre pensato che l’enunciazione di Nation Time […] è davvero una sorta di annuncio dal tono internazionale e, oltre e attraverso di esso, anti-nazionale. A me sembra che il nazionalismo nero, come estensione del panafricanismo – che è resistenza a una data Africa all’interno dell’Africa, vista esattamente come una combinazione venale, amministrativa e accumulativa di accaparramento e spartizione – interrompa la nazione. […] Non solo è facile sbagliare l’origine, ma sbagliare proprio tutto, quando si pensa in termini di un’origine. Ma non penso che McPhee fosse o volesse essere originario. Forse c’è un modo segreto, rivelato da qualche parola unica e segreta, per muoversi attraverso queste organizzazioni e disorganizzazioni costanti della domanda, che prende la forma in deformazione di una sola voce che acconsente e richiede la sua moltiplicazione e divisione»[39]. Questa “forma in deformazione” data dall’“organizzazione e disorganizzazione della domanda” è presente anche nel brano “Trini To The Bone” (2003) di David Rudder – apparentemente una celebrazione nazionalista di Trinidad a ritmo di calypso e, in realtà, una disarticolazione e ri-articolazione di quel discorso attraverso la citazione puntualmente riportata da Moten e Harney: «How we vote is not how we party»[40].

Nella loro dimensione collettiva e ludica, gli undercommons sono, soprattutto, una festa, nella quale si esplica il “rifiuto del rifiuto” della tradizionale azione politica basata sui processi di autocoscienza attraverso una liberazione, già ora, dei corpi. Perché, allora, non aggiungere alla playlist, soprattutto soul e calypso, di Moten e Harney quella proposta da Matt Colquhun, in appendice a The Postcapitalist Desire (2020) di Mark Fisher, da lui curato[41], e che spazia da “Jobseeker” (2008) degli Sleaford Mods a “At Last I am Free” (1978) di Chic, passando per i Jam, gli Specials, ma anche “Can’t Stop Playing (Makes Me High)” (2015) di Dr Kucho! & Gregor Salt?

 

[La playlist per una festa futura è disponibile già ora. In fondo, come ha scritto Paolo Do in una recensione del libro, «che sia la stiva di una nave negriera, la sala caffè delle infermiere o degli insegnanti di un liceo, una qualsiasi cucina, portico, cantina, corridoio, panchina di un parco poco importa. È durante una qualsiasi “festa improvvisata di notte” che ci si incontra per decifrare la musicalità di questo testo e comprendere il ritmo dove tutti possono mettersi a insegnare e a imparare da tutti». Perché, una volta delineata una proposta di playlist, non re-immaginare già ora un luogo per questa festa, che sia anche un luogo di traduzione degli undercommons? Ha forse a che fare con la re-immaginazione di quei centri senza affiliazione, o ancora quei “centri sociali” che, nella tradizione italiana, hanno già da sempre costituito un luogo di espropriazione e riappropriazione dei saperi dall’università e di pianificazione fuggitiva? C’è ancora, ai margini della policy che riguarda la “didattica a distanza”, ma ogni “distanziamento”, in genere – finché ne perdura la qualità prettamente ideologica del “distanziamento sociale” – un modo per re-immaginare quei luoghi dove gli undercommons erano già all’opera, prima della pubblicazione di questo libro?]

 

 

 

 

[1] Cfr. F. Moten, S. Harney, “The University and the Undercommons: Seven Theses”, Social Text, 79, 2004, pp. 101–115.

[2] Nella traduzione italiana, “undercommons” è scritto in tondo, mentre qui si manterrà la grafia in corsivo, come scelta maggiormente straniante e più coerente con un dibattito culturale e politico che, fino almeno alla traduzione del libro da parte della casa editrice Tamu, in collaborazione con Archive Books, non aveva ancora accolto appieno la proposta teorico-politica di Moten e Harney. Si accolgono, invece, le altre scelte linguistiche adottate nel libro da Emanuela Maltese e spiegate nella nota all’introduzione firmata dalla Technoculture Research Unit, il collettivo che ha curato l’edizione italiana: «Traducendo dall’inglese, i limiti imposti dall’uso del maschile sovraesteso nella norma linguistica italiana generano un conflitto con la volontà degli autori e delle case editrici di rivolgersi a una comunità accogliente per le esperienze di dissidenza dei generi, come quelle trans e non binarie. Da tale esigenza viene la scelta editoriale di declinare il genere grammaticale utilizzando alternativamente sia il maschile che il femminile, e di introdurre in questo libro la schwa, vocale centrale dell’Alfabeto fonetico internazionale, presente in inglese ma anche in molti dialetti italiani» (Technoculture Research Unit, “La comunità fuggitiva dello studio nero”, in F. Moten, S. Harney, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, Tamu/Archive Books ed., Napoli, 2021, p. 11)

[3] Per una prospettiva divergente, ma di tutt’altro tipo, sui commons, si veda il lavoro di Angela Mitropoulos sul concetto di un/common nella genealogia dei commons, cfr. A. Mitropoulos, “The Commons” in Gender: Nature, a cura di Iris van der Tuin, Macmillan, Farmington, 2016, pp. 165–81.

[4] Cfr. F. Guattari, R. Maggiori, “Petites et grandes machines à inventer la vie”, Libération, 28-29 giugno, 1980, in F. Guattari, Les années d’hiver (1980-1985), Les Prairies ordinaires, Parigi, 2009, pp. 165-179.

[5] F. Moten, S. Harney, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, cit., pp. 171 e passim.

[6] Id., pp. 66-67.

[7] Il già ora si contrappone decisamente anche a ogni teorizzazione politica “a venire”, come quelle che costellano, ad esempio, il pensiero di Jacques Derrida: «La falsa immaginazione e la sua critica minacciano il comune con la democrazia, che è sempre solo a venire, così che un giorno, che non avverrà mai, saremo più di quello che siamo. Ma lo siamo già. Siamo già qui, in movimento. Siamo stati nei dintorni. Siamo più della politica, più che insediati, più che democratiche» (F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 52).

[8] J. Halberstam, “L’oltre selvaggio: con e per gli undercommons” in F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 33.

[9] Id, p. 69: «…non […] un antifondazionalismo o un fondazionalismo in quanto entrambi sono usati l’uno contro l’altro per evitare il contatto con gli undercommons».

[10] Id, p. 95.

[11] Cfr. ad esempio H. Spillers, “Mama’s Baby, Papa’s Maybe: An American Grammar Book”, Diacritics, 17.2, pp. 64-81: https://people.ucsc.edu/~nmitchel/hortense_spillers_-_mamas_baby_papas_maybe.pdf

[12] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 157.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. C. Brunner, G. Rauning, “From Community to the Undercommons. Preindividual – Transindividual – Dividual – Condividual”, Commonist Aestethics, 2015: https://onlineopen.org/from-community-to-the-undercommons

[15] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 67.

[16] Cfr. R. Mordenti, “La scuola, ovvero il luogo della lotta di classe “dall’alto’” (2018): http://raulmordenti.it/la-scuola-ovvero-il-luogo-della-lotta-di-classe-dallalto/

[17] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 69.

[18] Id., pp. 68-69.

[19] Id,, Undercommons, cit., p. 175.

[20] K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Giulio Einaudi, Torino, 1977, p. 719.

[21] J. Halberstam, “L’oltre selvaggio, cit., p. 42. Il rifiuto della strategia rivoluzionaria ritorna con frequenza, all’interno di Undercommons, passando anche attraverso alcune ambigue equiparazioni tra fascismo e comunismo (p. 78), per approdare poi, sinteticamente, alla necessità di essere «comunistə nei confronti del comunismo» (p. 142).

[22] A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma, 2007, p. 198.

[23] Cfr. a questo proposito D. Mariscalco, “Sul divenire culturale del general intellect”, in Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory, a cura di P. Maltese e D. Mariscalco, Ombre Corte, Verona, 2016, pp. 179-190.

[24] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 69. Il riferimento è agli ultimi versi della prima scena del quinto atto dell’Enrico V, con i quali Pistola termina il suo monologo più importante (dai toni originariamente comici, ma che assume tutt’altra valenza per Moten e Harney): «Tornerò in Inghilterra furtivamente, per darmi al furto / mi applicherò delle bende sui segni delle legnate/ e giurerò che nelle guerre galliche me le son procurate».

[25] Ibidem.

[26] La problematicità di questo “esproprio proletario” di piccolo cabotaggio si rende già evidente sulla pagina di Moten e Harney, nella quale, alla descrizione di un possibile caso di esproprio – «Ma se l’accademico critico è semplicemente un professionista, perché perdere così tanto tempo con lui? Perché non rubare semplicemente i suoi libri, un mattino, e donarli a quelle studentesse non immatricolate e rinchiuse in un bar studentesco, stipato e fetido di birra – dove ha luogo il seminario su come squattare e scroccare?» – segue immediatamente una risposta che, inevitabilmente, allarga i confini della questione, chiamando indirettamente in causa strategie a più ampio spettro: «Eppure, dobbiamo parlare di questi accademici critici, perché si è scoperto che la negligenza è un grave crimine di stato» (F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 82).

[27] Id., pp. 50 e passim.

[28] Id., p. 132.

[29] Id., pp. 125-144.

[30] Id., p. 98.

[31] Cfr. M. Fisher, “Accelerate Management”, PARSE, n. 5, 2017: https://parsejournal.com/article/accelerate-management/

[32] Ibidem.

[33] Ibidem.

[34] Cfr. ad esempio: «The dominant mood of folk politics is neo-anarchist: it declares the age of the political party and the trade union to be over, embracing the self-organising and horizontal dynamics of the network against what it characterises as oppressive (and obsolete) hierarchical structures» (ibidem).

[35] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 225.

[36] Per una definizione sintetica della differenza tra l’approccio all’accelerazionismo di Mark Fisher e quello – assimilabile, per semplificazione, allo slogan “tanto-peggio-tanto-meglio” – di Benjamin Noys (in B. Noys, The Persistence of the Negative: A Critique of Contemporary Continental Theory, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2010), cfr. M. Colquhoun, “Introduction: No More Miserable Monday Mornings”, in M. Fisher, Post-Capitalist Desire. The Final Lectures, a cura di M. Colquhoun, Repeater, Londra, 2021, pp. 22-25.

[37] J. Halberstam, “L’oltre selvaggio”, cit., p. 40.

[38] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 214.

[39] Id., pp. 215-216.

[40] Id., p. 164.

[41] M. Fisher, Post-Capitalist Desire, cit., pp. 219-220.

Discorso intorno a un sentimento

1

di Quelli della V E

Intendiamoci, non voglio stare qui a raccontarvi per filo e per segno tutto quello che accadde quel giorno, perché altrimenti non potrei smettere di pensare a quanto fossi stupido e a tutte le battute cretine che feci su di lui. Sono cose di cui oggi mi vergogno profondamente, ma che in quel tempo mi sembravano normali. Mi limiterò dunque alle cose essenziali.
Tanto per cominciare i miei genitori erano appena tornati a casa dall’ospedale con un fagotto stretto fra le braccia. Era nata mia sorella. La sua voce era un gorgoglio simile a una risatina, mi sembrava un miracolo, così restai sveglio tutta la notte a contemplarne il viso nella culla. La mattina dopo non mi reggevo in piedi. Mi trascinai in strada a fatica, arrivai a scuola in ritardo e una volta in classe fui costretto a occupare l’unico posto rimasto libero. Naturalmente nessuno aveva voluto sedersi accanto a Leonardo, di conseguenza mi ritrovai al suo fianco senza potermi opporre in alcun modo. Mamma mia, che spavento! Sembrava uno zombie. La sua faccia era un ammasso informe di carne bruciata. Gli occhi, mangiati dalle infezioni, vagavano timidi alla ricerca di uno sguardo amico che non c’era. Il naso era piatto come quello dei serpenti. In aggiunta a questo gli mancava la mano destra; al suo posto aveva una specie di palloncino rosso, di cuoio duro.
Il cuore mi si fermò in gola. Rimasi immobile, come imbalsamato, senza la forza di muovere un solo muscolo. Pensai: “È stato investito? È caduto dalla cima dell’Everest? È stato usato come cavia per esperimenti atomici?”
Il ragazzo che mi sedeva davanti sembrò leggermi nel pensiero. Si chiamava Alessio, ma questo l’avrei scoperto più tardi. Si girò lentamente verso di me, mi dedicò un sorriso da dentifricio e sussurrò:
«Gli è successo allo zoo. È caduto nella vasca dei piranha e quando l’hanno tirato su gli mancava mezza faccia.»
Cercate di capirmi, non potevo farcela. Per quanto i miei genitori mi avessero sempre raccomandato di rispettare gli altri, non riuscivo ad accettare che il caso mi avesse riservato un destino tanto crudele: passare tutto il giorno vicino a quella specie di mostro. Mi faceva star male solo a pensarci. Era una sensazione davvero sgradevole, simile a quando da bambino sognavo di camminare per una strada buia, rincorso da ombre scure e minacciose. Così cercai di distogliere lo sguardo da quella maschera, provando pian piano a staccare il mio banco dal suo. L’operazione durò una decina di minuti. Alla fine riuscii a guadagnare quel metro di distanza che mi diede l’opportunità d’immaginare un mondo nuovamente meraviglioso, in cui avrei potuto vivere per sempre libero, lontano dalla malattia più orribile di tutte: l’infelicità. Naturalmente stavo solo cercando una via d’uscita a una situazione che rischiava di farsi ogni giorno più disperata.
Sennonché il professore di matematica, un uomo dalla faccia quadrata, con folti baffi neri e un’espressione austera che lasciava trasparire un carattere di fuoco, alzò a un tratto lo sguardo su di me, interrompendo la lezione e fissandomi con una tale intensità che mi sentii mancare. Per un istante ebbi la sensazione che volesse trasmettermi la stessa impavida e ferrea determinazione con cui per una buona mezz’ora aveva cercato di instillare nei suoi nuovi alunni il senso di responsabilità.
«È il senso di responsabilità» aveva detto «che ci consente di comprendere e condividere i sentimenti altrui. Pensate alla sofferenza, pensate al dolore e alla tristezza.»
Beh, doveva essere pazzo. Io non volevo pensarci nemmeno per un momento, alla tristezza. Al contrario, la mia aspirazione era vivere spensierato e felice.
«Come ti chiami?» mi chiese.
«Emanuele Alfieri.»
«Le grandi utopie avanzano sempre a piccoli passi, non è così Emanuele? Dimmi, perché hai deciso di andartene a spasso per l’aula trascinandoti dietro il banco e la sedia? Non è faticoso?»
Sentivo gli occhi dei miei compagni addosso, stavano tutti aspettando una risposta che non avevo intenzione di dare. Dei sussurri e delle risatine soffocate rendevano l’atmosfera ancora più opprimente.
«Torna immediatamente al tuo posto» concluse il professore «e che io non debba più affrontare questo argomento, intesi?»
Avrei voluto piangere, tanta era la rabbia che mi consumava in quel momento, ma la paura mi paralizzò e non riuscii a fare altro che obbedire.
Durante l’intervallo Leonardo s’immerse nella lettura di un libro. Non so per quale motivo, immaginai che fosse uno di quei libri che quando li finisci è come se un amico ti salutasse per l’ultima volta, lasciandoti un senso di vuoto che non ti abbandonerà più. Noialtri ci radunammo in fondo all’aula per definire meglio la situazione. Alessio, con una voce rauca e spesso punteggiata da una tosse secca e stizzosa, cominciò a prenderlo in giro in maniera sempre più decisa e determinata. Sembrava non volesse finirla più fino al giorno del giudizio universale.
«Appena l’ho visto mi è passato il singhiozzo» disse. E poi ancora:
«Non ha un bell’aspetto, vero? Dovrebbe farsi visitare da un veterinario.»
«Sua madre deve averlo immerso nella varechina per provare a renderlo immortale, ma la sua pelle era così delicata che ne è uscito fuori un maialino arrosto.»
Insomma, avete capito, no? Tutta una serie di offese e prese in giro che avrebbero fatto impallidire un generale dell’esercito. Eppure Leonardo si limitò a dedicargli qualche occhiata indifferente, contornata a volte da un lieve sorriso. Era una situazione ai limiti del paradossale. Più trascorrevano i minuti più le offese di Alessio diventavano feroci. Cercai d’immaginare cosa avrei fatto io al posto di Leonardo; di sicuro sarei saltato su come un diavolo e gliel’avrei fatta vedere, a quello lì. Lo avrei riempito di pugni, ecco quello che avrei fatto. Lui invece non si lasciò andare a nessuna reazione; se ne restò in silenzio, impassibile, a leggere il suo libro fino alla ripresa delle lezioni. Sembrava indossasse una corazza, era insensibile a tutto.
All’uscita da scuola trovò sua madre ad aspettarlo. Era una bella signora bionda, dai modi gentili, vestita in maniera elegante. Mentre i miei compagni sciamavano tutt’intorno affrettando il passo per tornare a casa, io restai a osservarli mezzo imbambolato. Li vidi abbracciarsi in un modo molto tenero. Rimasero stretti l’uno all’altra per un tempo che mi sembrò interminabile, per poi avviarsi tranquilli lungo il viale di betulle che fiancheggiava l’ingresso della scuola. Per un po’ li seguii in silenzio, a una decina di metri di distanza. Ridevano, scherzavano, si raccontavano storie. A un tratto Leonardo accennò una canzoncina. Mi sembrò perfino di sentirlo fischiettare allegramente mentre svoltava l’angolo, giù in fondo alla via, cingendo con un braccio il fianco della madre. Ero sconvolto. Tornai a casa con l’angoscia dentro. Per lo sbigottimento non riuscivo quasi a respirare, mi sentivo morire, e forse per la nausea mi rifugiai in camera rifiutando il pranzo. Mia madre non faceva altro che chiedermi come fosse andata a scuola, come mi ero trovato con i compagni, che impressione mi avessero fatto i professori, ma io non riuscivo ad ascoltarla, né tanto meno a risponderle. Per tutto il giorno non riuscii nemmeno ad avvicinarmi alla culla di mia sorella, non avrei potuto guardarla negli occhi, non più, c’era qualcosa che mi faceva pensare di esserne indegno. Continuavo a ripetermi che ero stato un vigliacco e che avrei dovuto difendere Leonardo da tutte quelle cattiverie gratuite, invece non me l’ero sentita, perché avevo temuto di diventare un bersaglio, di essere evitato da tutti come la peste. In preda a una sorta di ossessione passai tutto il pomeriggio a fare una ricerca sui vampiri, sul tipo di sangue che preferivano, sui forti traumi infantili che potevano innescare il consumo di sangue umano, sui grossi sassi che venivano infilati in bocca ai vampiri prima di essere seppelliti nelle fosse comuni, cose così. La sera faticai ad addormentarmi, ma al di là dei miei tormenti, c’era una domanda che continuava a girarmi in testa come un criceto sulla ruota. Non facevo altro che chiedermi: “Cosa è davvero successo a Leonardo?”

NdR: questo è il secondo capitolo di un romanzo scritto dai bambini della scuola elementare Evaristo Dandini di Frascati, in collaborazione con i loro insegnanti, e che è diventato un libro. Ecco come Carlo Cannella, docente all’origine dell’iniziativa, mi ha presentato la cosa:

“Quest’anno abbiamo provato a dedicarci tutti insieme, docenti e alunni, a un progetto piuttosto complesso per bambini così piccoli, quello di scrivere un romanzo intorno ai temi della pace e della guerra. Ne è venuto fuori questo “Discorso intorno a un sentimento”, in cui immaginiamo un mondo finalmente pacificato, nel quale si affermano i principi del mutuo appoggio e della gentilezza disinteressata. Il risultato mi sembra buono. L’intera narrazione è il prodotto di innumerevoli spunti offerti da ogni singolo bambino, “ricuciti” dal team docente, soprattutto in ordine a uno “stile narrativo” che potesse dare omogeneità al lavoro.”

Ed ecco come Cannella, su mia richiesta, spiega più in dettaglio il lavoro che hanno fatto:

Due anni fa, i bambini della III E della scuola Evaristo Dandini di Frascati, scrissero un libro intitolato “C’era (quasi) una volta… e poi?”. Dopo aver letto delle fiabe provarono a immaginarne il seguito, divertendosi a volte a far vincere i cattivi, un modo come un altro per non nascondersi il mondo reale, che sempre porta con sé qualche ferita. Presi dall’entusiasmo decisero di dedicare i successivi due anni alla stesura di un romanzo. L’idea era quella di organizzarsi in gruppi di lavoro che a partire dall’ideazione di una storia (un bambino orribilmente sfigurato da una bomba inesplosa risalente all’ultimo conflitto mondiale che con il proprio esempio convince l’umanità a rinunciare per sempre alla guerra), riuscissero ad accompagnare il testo in tipografia. In quel tempo nessuno poteva però immaginare che i bambini avrebbero trascorso una buona parte di quei due anni in solitudine davanti a un computer, o che non sarebbero comunque riusciti a lavorare insieme nel rispetto delle norme sul distanziamento. Poco tempo, dunque, per fare un mucchio di cose. Sennonché quelli della V E sono bambini testardi, e aiutati dai loro docenti (che hanno confrontato i diversi testi, selezionandone via via gli spunti più interessanti e lavorando con loro alle riscritture) hanno infine dato vita a questo “Discorso intorno a un sentimento”. Buona lettura.

E qui di seguito l’introduzione che nel libro precede il testo del romanzo collettivo:

Lo stesso sbalordimento sembra tormentare i bambini di scuola primaria non appena prendono coscienza di cosa sia la Storia, non solo una trasmissione della memoria a livello collettivo, il fondamento e l’espressione dell’identità di un gruppo, ma anche un continuo conflitto fra gli uomini per brama di ricchezza e di potere, l’imprigionamento e la riduzione in schiavitù di interi popoli, sconfitti in guerra e perciò annullati nella loro umanità. Da qui la necessità di una ricerca che produca la possibilità di un mondo nuovo, fondato su principi altrettanto innovativi, quali ad esempio, per usare le parole espresse dai bambini nel loro libro, l’aiuto reciproco e la gentilezza disinteressata.
Proprio intorno alle riflessioni sulla guerra e sulla pace, che i bambini della V E hanno consolidato attraverso la conoscenza di testi quali il De monarchia di Dante Alighieri o il saggio di filosofia Per la pace perpetua di Immanuel Kant (che non a caso viene citato nel testo) nasce e si sviluppa questo breve romanzo, scritto durante un anno certamente particolare. Inutile dire che le condizioni dettate dall’emergenza sanitaria non hanno loro permesso di lavorare a stretto contatto, rendendo quindi la riuscita dell’operazione piuttosto difficile. Sono mancati il confronto, la condivisione degli intrecci narrativi, le fasi di riscrittura a piccoli gruppi per armonizzarne quanto più possibile lo stile. Ciononostante non sono mancati loro il coraggio e la perseveranza per portare a termine l’impresa. Al riguardo ci piace sottolineare come il lavoro sia stato sempre contraddistinto dall’impegno e dall’entusiasmo. Ogni venerdì pomeriggio, partendo da una discussione intesa a fissare via via i punti essenziali della trama, ognuno di essi ha praticamente scritto il proprio romanzo personale, affrontando la storia con una sensibilità, una modalità e uno stile narrativo propri. Si potrebbe dire che ogni autore si è rivelato con una sua voce personale e irripetibile. Compito degli insegnanti è stato quello di confrontare i diversi testi, cercare di selezionarne gli spunti più interessanti, farli convergere quanto più possibile verso una linea comune e soprattutto uniformarli nello stile affinché la lettura risultasse quanto più possibile fluida e omogenea. Laddove si è reso necessario, in particolar modo nei capitoli 10 e 11, si è lavorato in proprio su aspetti storici e geopolitici un po’ troppo impegnativi per bambini così piccoli. I possibili scenari di guerra da introdurre nel romanzo sono stati tuttavia presentati ai ragazzi in sessioni distinte (in particolare sono state affrontate le questioni relative all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, al conflitto isreaelo-palestinese, a quello fra India e Pakistan per la rivendicazione del Kashmir). Un interesse particolare ha suscitato la possibilità di un futuro conflitto fra Stati Uniti e Cina, che più volte è comparso nei loro testi originali, ma che non è stato possibile introdurre in quello collettivo per problematiche strutturali e di coerenza narrativa.
Cos’altro dire? Al termine di questi cinque anni, vissuti in maniera certamente intensa, districandoci fra mille difficoltà e inquietudini, eppure in modo sempre gioioso, la nostra gratitudine va ai bambini per averci dato la possibilità di condividere il nostro tempo e il nostro impegno con le loro intelligenze. A ognuno di essi rivolgiamo oggi il nostro pensiero e la nostra preghiera. Non dimenticate: siate gentili, siate altruisti, siate solidali verso i discriminati e gli oppressi, vicini a chiunque abbia bisogno del vostro sostegno per affrontare un momento di difficoltà. Conservate con amore la possibilità di un grido, quell’indignazione nei confronti del sopruso e della prevaricazione che ci permette di restare ancorati al nostro essere persone. Quel grido che farà, di ognuno di voi, nel momento delle scelte, un sostenitore della giustizia e un costruttore di pace.
Che il canto dell’addio non sia altro da quel grido. In alto i cuori. Ora e per sempre, gridiamo insieme: “Nemecsek non deve morire”.

Giovedì

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di Cristiano Musella

Ci siamo, ancora. Apro gli occhi, disserro gli occhi, sgrano gli occhi. La prima luce che entra dalla finestra mi riempie lo sguardo di ambiguità. Che giorno ho davanti che giorno è che giorno era ieri, mi chiedo. Dovrebbe essere giovedì, ieri sera ho cenato con Miki, no, ieri l’altro, no, sì, è proprio giovedì. Non c’è dubbio. Mi alzo, mi isso, sono in piedi. È giovedì, il giorno più ignobile che ci sia. Il lunedì ha tutta una sua mistica, penso, una sua mistica sulla ripresa forzata del lavoro, un’arida primavera ricorrente riconosciuta all’unanimità. Martedì, martedì invece è uno spiraglio e nessuno lo ammette, preparo la moka, innesco la fiamma, bramo il caffè, nessuno lo ammette, ma il martedì si batte per il giusto ritmo, benedetto Cicero. Dopo il grigiore di chi lo ha preceduto è sempre pronto ad accompagnarti di nuovo fuori dalla porta, irriducibile. È snervante, è untuoso. Uno spiraglio senza poi il sereno che senso ha. Il martedì è il giorno dei filistei, realizzo finalmente. E a proposito, sono ormai finemente truccata e vestita. Del mercoledì non parliamo proprio. L’unico che per insulsaggine regge il confronto con quello che gli viene dopo. E gli ultimi tre, ecco, ecco, l’ho dimenticata, devo tornare indietro. Riapro la porta di casa e allungo la mano su quello sgradevole oggetto cornuto che non so come sia entrato in casa mia, su cui la tengo appesa. Richiudo la porta a doppia mandata e mi avvio, di nuovo. Ecco, gli ultimi vanno considerati un gruppo unico, un mostro policefalo: la Noia di Lerna. Partendo dall’ultimo li battezzo Noia sacra, Noia profana e Noia nascente, sì, il venerdì è Noia nascente, un sole freddo che spunta all’orizzonte, dico mentre mi tiro per bene gli elastici dietro le orecchie. La mascherina è troppo grande per il mio viso. Qualsiasi mascherina che ho provato lo è. Questa versione chirurgica poi è la peggiore di tutte. Summum ius summa iniura, somma giustizia somma ingiustizia. Possibile che siamo alla seconda ondata globale e nessuno ha pensato di tagliare delle mascherine più piccole che non salgano fino agli occhi delle donne minute come me. Ho tentato con quelle di tessuto, ho cercato per settimane quella che facesse al caso mio. I produttori si sono impegnati di più a inventarsi fantasie di fiorellini e pupazzetti che a ragionare sul fatto che le persone non hanno tutte la faccia della stessa dimensione. Ma tanto quelle di tessuto non sono altrettanto efficaci, e in autobus le mamme ti guardano come se sospettassero che vai a letto col loro uomo, per non parlare di tua sorella, medico, che pensa che tu sia una pusillanime, che se non la ascolti è perché ti fai condizionare da quelli su internet che negano la sciagura… E allora torna alle mascherine da ospedale, adattala al naso con veemenza per impedire per quanto possibile che ti salga fino alle palpebre, e fai il nodo agli elastici per accorciarli, e ricordati di cambiarla ogni giorno e ricomincia daccapo. Ed è giovedì, benedetto Cicero. Mentre prendo abbrivio e mi dirigo in studio ne vedo altri come me. Eccolo, il padre oberato, che ogni mattina conduce a scuola la sua piccola ciurma di tre bambocci saltellanti, serbandone un quarto nel passeggino. È così intento a provvedere che tutti siano bardati contro il freddo e i patogeni che un giorno sì e uno no lo incrocio mentre si rovista istericamente addosso cercando la mascherina mancante, quella che spetta a lui, che infine estrae stropicciata ma probabilmente fresca di bucato da una tasca sempre diversa. Ha a disposizione una sola mano per riuscire a indossarla come meglio può, nel frattempo fissando con intensità le peripezie dei pargoli per non investirli col trabiccolo che va spingendo. Quindi scorgo la signora mattiniera, che a quest’ora sta già tornando dal giro di acquisti con due sporte piene di spesa, e nello sforzo non può fare a meno di abbassarsi il bavaglio profilattico sul mento, ansimando con lo sguardo basso per la fatica e il pudore. Lambisco la massa dei cecati due volte, dannati, la buffa schiera di coloro che subiscono pure il contrappasso: già indeboliti nella vista per conto loro, la pandemia li punisce con un’analogia feroce, gli annebbia col vapore della bocca le lenti che dovrebbero invece aiutarli a orientarsi. Attraverso lo sciame di tutti questi occhi esausti. Cerco quegli indizi vibratili con scrupolo, con metodo. Ogni atteggiamento impacciato, ogni strenuo comportamento in risposta alla calamità che ci sta travolgendo, è una denuncia. Denuncia chi sono, chi siamo. Siamo il padre, la madre, i figli ipovedenti: i coscritti del regno della fatica. E siamo anche il popolo dei lungimiranti, quelli che non riescono a fare a meno di pensare al domani, al futuro, a resistere, a resistere, sempre, a ogni costo. Combatteremo il virus – no, non si tratta di una guerra, il virus non pretende nulla di ciò che abbiamo, non vuole la nostra terra né tantomeno i nostri segreti, è solo che si abbevera del nostro fiato – lo contrasteremo coprendoci il volto, e se ci verrà chiesto di imbottirci le orecchie o legarci le mani faremo anche quello. Salus populi suprema lex esto, il bene pubblico vale più di quello privato. E allora io? Cosa resta di me sotto la divisa della sopravvissuta? Il lenzuolo che mi fagocita il volto di cosa si sta riempiendo? Trentatré anni. In altri tempi avrei guardato la mia vita in termini relativi, come si usa, specialmente fra donne. Non mi sarei chiesta cosa volessi ma cosa avrei dovuto fare rispetto alle mie possibilità, rispetto ai desideri altrui, rispetto alla mia età, allo scorrere imperturbabile delle cose, insomma rispetto a quanto già fatto o già perduto. Ora le cose non scorrono più, il flusso si è arrestato, sento di non essere ammessa né al passato né al futuro. Il virus concede uno scampolo di eternità a chi resta, non a chi se ne va. E non sono pronta per questo. Mi sgomenta questo osservatorio da cui posso solo misurare la mia stessa vita, senza poter muovere un muscolo, come un chirurgo chiamato in sogno a operare se stesso d’urgenza, ma sul punto di incidere si accorge di aver scordato tutta la propria scienza. Contiamo i contagiati, i guariti, i posti nelle terapie intensive occupati e quelli ancora liberi che si assottigliano sempre di più. Il nostro destino si incarna nei bollettini sanitari, siamo una civiltà riassunta nell’urgenza di dover sopravvivere. Come posso ancora soffermarmi a chiedere se sarò moglie, madre, nonna, sono titoli da usurpatrice in un simile frangente. Cosa sono i desideri se devo accanirmi con tutto il mio livore per distinguere un giorno dall’altro, se mi pare di vivere ora e tra una settimana allo stesso tempo, con l’unico orizzonte del prossimo decreto della presidenza consiglio dei ministri? Benedetto Cicero, non avrei dovuto parlare ad Antonio in quel modo sabato sera. Sì, era tanto che aspettavo di farlo, e per questo avrei potuto facilmente continuare a tacere in questo anno che pare isolato da tutti gli altri. Galleggio nella sua vita da prima che iniziasse il 2020, e allora perché proprio mentre mi trovo nell’occhio del ciclone ho deciso di ribellarmi, di dirgli che così non ce la faccio più. Mi ero messa apposta la gonna più corta che ho, le autoreggenti che mi fanno sentire veramente una spregiudicata, tanto per propiziare una serata identica alle altre che abbiamo avuto durante la prima chiusura del paese, durante l’estate interlocutoria e di nuovo adesso, con la seconda ondata. Niente cena, ci si vede a stomaco pieno. Quattro chiacchiere, semmai una birra. Se abbiamo voglia di strafare annunciamo di guardare un film, cosa che non accade mai. Però ho scelto gli stivali, non i tacchi. Per non essere troppo provocante e avere l’occasione di vuotare il sacco, invece di affrettarmi a venire spogliata? O al contrario per proporre una variante di stimolo? Se gli dessi retta dovrei andarci anche a dormire con i tacchi a spillo, allora forse questa volta volevo davvero avere voce in capitolo. Iudex damnatur ubi nocens absolvitur, bisogna condannare il giudice se il colpevole viene assolto. D’accordo, volevo comunque scopare, alzo le mani, questa è la mia difesa. Quest’anno che va alla deriva come l’avanzo di un relitto mi pare proprio l’alcova adatta per dare e prendere senza capire che accade, tenendo il mistero anche con me stessa, l’anno delle andate senza ritorno, verso dove non ha importanza. E allora perché, perché insistere con le proteste, benedetto Cicero. Perché domandare chi sono, sono ancora l’amante che accampa madornali diritti, come vorrebbe farmi sentire lui, e neanche fosse sposato! O sono la donna della sua vita, giunta in leggero ritardo, malauguratamente, che con pazienza e dedizione però si conquista il proprio spazio nella libera competizione degli affetti. Non lo so, non so più chi sarò, non riesco a vederlo; come quelli che incrocio per strada e non distinguono i miei lineamenti sotto il morso di un abnorme mascherina. Sarà perché è un anno e mezzo che lui ed io andiamo avanti così, sarà quest’annata maledetta che recide il presente dal passato e dal futuro e io sono rimasta gelata sul ramo dell’incompiutezza, come fossi un usignolo incapace dell’intonazione distintiva. Il limbo non è una sala d’aspetto in penombra; è una battuta di atroce silenzio, il controcanto nell’inno della vita, un brivido di non-essere che ora non mi abbandona, terremoto perpetuo.

“Come dice, signorina? Il biglietto ce l’ha o no?” “Certo, mi scusi. Ecco il mio abbonamento”.

Lo stesso vale per il lavoro. Gli anni massacranti dell’università, e in seguito stagista, praticante, apprendista, collaboratrice, per un attimo perfino libera professionista. Professionista libera, perché qualcuno ha sentito di dover aggiungere l’aggettivo: la madre di tutte le excusatio non petita accusatio manifesta, come se la mancanza di prospettiva ti emancipasse dai vincoli, anziché renderti prona a ogni richiesta arrogante. Non so nemmeno più se sono ancora un avvocato oppure no, a dire il vero. Quello che ho desiderato da quando ho visto per la prima volta in tv una puntata di Law & Order, a undici anni. Non che mi occupi di crimini efferati, però anche il diritto civile è un aspetto dell’esistenza organizzata che va regolato, un’espressione dell’ordine cui siamo tesi per natura. Invece mi hanno trattata de facto come una segretaria per anni, poi un’intrusa, infine un’incapace, ripetutamente, quando mi hanno congedata senza tanti complimenti, e quando mi hanno ripresa come fosse un’elemosina. Ho potuto dedicarmi di più al volontariato, questo è vero, al volontariato che voleva fare io, come volevo io. Ci sono le prestazioni pro bono, attieniti a quelle!, dicevano. Non togliere tempo al lavoro. Ma io volevo fare qualcosa di diverso, sentivo senza esitazione di essere anche qualcosa di diverso. Non sono una giurista nel momento del conforto e della consolazione, sono di più, o almeno lo pensavo. Con altre tre persone attorno a un tavolo so essere una giocatrice di carte attenta. All’occorrenza sono una cuoca di minestre, porzioni enormi di minestre. Sono un confessore paziente, non solo un consulente legale. Quod non vetat lex, hoc vetat fieri pudor, proprio così: io non sono il riflesso pallido di un manuale, il codice che mi descrive si perde nell’infinità. Ma adesso, invece, gli sfoghi e i lamenti che mi investono non sono dei disgraziati della mia onlus, gente che è giunta da altri continenti, a volte a piedi, attrezzata solo di speranza; ora protestano i patrizi delle discoteche, gli oracoli ribelli dal volto scoperto, i luminari in competizione di sussiego fra loro. E che cos’è il tintinnio della mia volontà di assistenza in questo assurdo trambusto, in questo presente deforme che si arroga il travaglio dell’universo intero? Io ho bisogno di ieri e di domani, del loro muto sostegno. Come direbbe l’architetto Antonio Trento riferendosi però alla sua concubina, ovvero io, ieri e domani sono contrafforti: non vedo il peso che di continuo scorre su di loro e si scarica a terra, ma se non ci fossero anche la cattedrale eretta con la pietra più santa sarebbe come di sabbia. Io so di essere chi sono solo se riconosco il pericolo di crollare nel vuoto, se assegno a un tempo che chiamo passato il registro delle mie pene e a quello che chiamo futuro la culla della mia redenzione. Così mi faccio l’autoritratto più prezioso, con i colori evanescenti della sostanza immaginaria, sui fogli sfuggenti che sono ieri e di domani… Sono arrivata. Aspetto che qualcuno mi apra il portone dallo studio di boriosi dove sconterò la mia deminutio capitis da perenne matricola, l’habeas corpus subiciendum, in virtù del quale presto i miei servigi ai derelitti nelle forme che decido da sola, e il mio ottuso sentimento per Antonio: davvero margaritas ante porcos. Nessun saluto al citofono, scatta la serratura. Mi porto le mani alle orecchie, sistemo gli elastici, schiaccio il ferretto sul naso a più riprese, aggiusto quasi con isteria. Mi accorgo che l’interno della mascherina è già umidiccio.

“L’hai di nuovo abbassata troppo, Caterina. Ti si vede la punta del naso” mi ammonisce l’avvocato Diriso. “Devi tenere sempre il viso mezzo coperto. Non te lo ripeterò più!”

È solo giovedì, anche se sotto il velo protettivo non fa più alcuna differenza: omnia sunt incerta, cum a iure discesseris.

Luigi Di Ruscio e il paradigma del dubbio

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di Niccolò di Ruscio

[Pubblico qui un articolo di Niccolò Di Ruscio tratto dalla sua tesi di laurea dedicata all’ omonimo marchigiano. Luigi ne sarebbe stato felice… B.C.]

Al Nordre gravlund di Oslo, il cimitero della periferia settentrionale della capitale norvegese, c’è una lapide con incisa una spiga di grano. L’epitaffio recita: “Luigi Di Ruscio. Poeta italiano. f. Fermo. d. Oslo.” L’uomo sepolto in corrispondenza era nato nella cittadina marchigiana circondata dai campi di grano, aveva conosciuto la miseria e deciso di scappare in Scandinavia. Per 37 anni lavorò in una fabbrica metallurgica di Oslo, dove conobbe la moglie norvegese Mary con la quale ebbe quattro figli. Perché allora poeta italiano? Quella che sembra la biografia di un qualsiasi emigrante nel secondo dopoguerra è anche la biografia di uno scrittore che dall’esilio geografico e culturale in cui è costretto, scolpisce su carta le vicende di un’esistenza ai margini. Alla fine «il tutto risulterà una variante della stessa angoscia»[1] di chi è emarginato ed escluso, brutalizzato dal meccanismo sociale ma al contempo aggrappato a una gioia vitale e palpitante per resistere all’orrore. «Poeta non omologabile»,[2] Luigi Di Ruscio è un caso eccentrico nel panorama letterario italiano: le vicende editoriali raccontate nei suoi romanzi sono le tappe dell’epopea bislacca di un escluso dall’élite culturale. Tuttavia, per quanto Di Ruscio fosse emarginato anche geograficamente, la sua è «opera esterna, che volutamente assume la sua non partecipazione al sistema letterario come chiave di lettura critica, ma non ignara, non estranea».[3] Perciò la menzione di autori contemporanei, la citazione di brani poetici, talvolta persino la parodia di questi; ma anche i giudizi di valore, le simpatie verso gli autori di riferimento e il disprezzo per quelli più consolidati nel canone,[4] sono tutti procedimenti retorici utilizzati nella sua produzione come tentativo di rimanere a contatto con il dibattito culturale, per non scivolare definitivamente nell’oblio. Nonostante la lingua problematica e l’emigrazione, Di Ruscio è un poeta, egli stesso lo afferma e giustifica a più riprese negoziando il «ritratto apologetico di sé come poeta».[5]

La sua formazione gravita intorno a pochi testi fondamentali e ai classici del pensiero dialettico, che prende in prestito «nella biblioteca dove c’era un infinito tutto scritto».[6] È quindi innanzitutto un lettore vorace che spazia dalla poesia alla filosofia passando per Dante e i deliri eretici di Campanella e Bruno; tuttavia scrive sin da giovanissimo, subendo lo scherno dei compagni del partito per i grossolani errori ortografici che tradiscono la sua autodidassi imperfetta, di cui prova vergogna: infatti ero stato scoperto, ormai tutti sapevano che scrivevo poesie, il mistero era diventato pubblico, sta sempre nella biblioteca comunale a leggere libri che nessuno legge, spedisce plichi da tutte le parti. Non facevano che domandarmi: Poeta ora ti provo, dimmi chi è nata prima la gallina o l’uovo? Fa il poeta e scrive “l’aradio”. Avevo vergogna di tutti i miei sbagli ortografici, erano come peccati mortali e il sottoscritto veniva scrutato, speculato, squadrato e non ero neppure un Don Chisciotte, perché avevo su tutto molti dubbi e non sono neppure un poeta lirico perché i lirici non si interrogano, perché loro sono completamente nelle loro orribili e giulive certezze, non hanno scampo mentre io cercavo di scappare da tutte le parti e le pagine erano strapiene di correzioni e cancellature, chi ti credi di essere brutto stronzo? Come ti permetti d’iscrivere le poesie nostre?[7] Per diventare poeta è necessaria la fuga, la clandestinità, sfuggire ai pregiudizi del proprio ambiente e alla menzogna della poesia rarefatta dei salotti letterari. Di Ruscio rifiuta qualsiasi convinzione e si aggrappa al dubbio come strumento di osservazione della realtà e del «caos di una identità che ha per centro queste continue scritture».[8] Si ritrova smarrito nei «labirinti delle identità sovrapposte» e trascinato da forze centrifughe e centripete alternate, tra un fuori e un dentro, così che alle istanze di riconoscimento in una classe sociale o in una molteplicità di categorie, segue ciclicamente il rifugio nell’individualismo: «mi permetto di essere estraneo e basta e con una identità non codificata dai signori critici nostri».[9] Si rivela in tutta la sua produzione un titanismo solitario contro il mondo, esercitato attraverso un processo di autoaffermazione come individuo prima ancora che come poeta, il quale contempla tutte le tappe di un apprendistato complicato: «Non ero proprio nato come scrittore di versi / ci sono diventato a forza di calci in culo»[10] e «sapendo approfittare delle smagliature della rete metallica».[11] Il conflitto con il potere manifesta quindi il portato politico della sua produzione, che per quanto inizi prima dell’emigrazione («è stato Fortini che mi ha battezzato poeta scrivendo una favolosa prefazione alla mia prima raccolta»),[12] tuttavia nella condizione di operaio emigrato ad Oslo, nel suo destierro[13] trova la dimensione ideale:

mi ritrovo in un casino di stradette e strade verso tutte le direzioni, presi una strada a caso sperando che non mi conducesse all’inferno, infatti alla fine sbuco nei pressi di casa, dove sei stato marito mio? All’inferno! Dopo allegrissime odissee vengo assunto in una fabbrica di chiodi come operaio manovratore di filatrici ed inizia una produzione sprocedata di versi.[14]

Surrealista e caustica allo stesso tempo, nella logica paradossale delle clausole diruscesche la poesia è diretta produzione delle macchine filatrici della Christiania Spigerverk di Oslo. Di Ruscio legge «l’inferno [di Dante] come fosse un reparto di fabbrica di Oslo nella seconda metà tutta intera del ventesimo secolo»[15] e ripete a se stesso con vocazione missionaria: «POESIA COME INFANZIA DEL COMUNISMO».[16] La divinità è scalzata da un’ideologia ancora acerba; spetta ai poeti fondare i caratteri della ‘nuova religione’. Una nuova religione che è di conseguenza nelle profezie dei «vati, indovini, auguri, profeti»,[17] i quali sostituiscono alla parola di Dio la poesia che annuncia l’inizio della «nostra nuova chiesa invisibile».[18] Infatti la fabbrica è al contempo luogo infernale e ultima cattedrale del secolo; di conseguenza l’operaio può diventare predicatore con la missione di «riuscire a santificarvi tutti»:[19] Le sue ovaie contenevano un unico Uovo Sacro, quello di Cristo che da una eternità aspettava l’incarnazione, l’immacolata quindi non ha mai avuto le mestruazioni, è stata sempre sacra e pura, un uovo che aspettava di diventare Cristo da una eternità. Dogma proclamato il 20 ottobre 1999 dal sottoscritto in preda ad acuta illuminazione mistica.[20] Esclusa ogni pretesa apostolica, l’elogio dell’individualità e il rifiuto di qualsiasi potere esterno sulla coscienza dell’individuo emergono dalle strampalate e visionarie riflessioni teologiche e filosofiche. Pertanto, anche la ricorrente menzione di Cristo riconduce al conflitto fra l’individuo e il mondo, interno ed esterno, e «assolve a una duplice funzione: è emblema di un corpo straziato ed è anche stralunata figura di una resurrezione metacronica»,[21] l’epifania del volo di un angelo ribelle dipinto dal conterraneo Osvaldo Licini. «Il miracolo è avvenuto e non sarà più ripetuto»[22] perché la poesia è l’immediata e fulminea rivelazione del proprio essere e quindi dichiarazione d’esistenza.

Di Ruscio è in agonismo con qualsiasi figura di potere e nella religione («io sono un nemico d’Iddio e quindi sono da Dio molto amato e non ho bisogno di niente e di nessuno»),[23] soprattutto per quanto riguarda il culto ufficiale cattolico, non può che trovare terreno fertile per l’aggressione satirica. Attraverso il procedimento retorico della blasfemia banalizza il rapporto di subalternità con il divino; d’altronde l’etimologia di blasfemia deriva da bláptein ingiuriare, e phê¯mê, reputazione e «significa appunto diffamazione, contestazione dell’operato della Fama – cioè, più che della divinità in sé, della credenza in essa; del suo senso condiviso, sociale, identitario».[24] Quindi la bestemmia per il marchigiano è il terreno di conflitto con il nemico, per quanto tranquillizzi talvolta il “Palmiro”: «sta tranquillo caro sottoscritto, in queste lettere il nemico è solo una metafora».[25] La blasfemia infatti è il «luogo predestinato e liminale di nominazione dell’Ineffabile»,[26] e solo la poesia può riprodurlo con intento non prettamente mimetico, ma più marcatamente trasgressivo, irrompendo nella dimensione del divino e facendosi religione. Questo doppia relazione con la divinità gioiosa e terribile al contempo emerge dall’alternanza di invettive contro la gerarchia ecclesiastica e il «babbo celeste»,[27] irriverente nomignolo affibbiato al Creatore, e vertiginosi picchi lirici che tendono verso un vago panteismo:

 

basta con i dualismi

non esiste Iddio e le creature

ma iddio nelle creature

le creature in dio[28]

Un topos ricorrente della sua produzione è quello della processione religiosa alla quale lo accompagnava la nonna che «andava a fregare l’acqua santa immergendo la bottiglietta nella capace acquasantiera»[29]. Il corteo con in testa il corpo di Cristo era seguita dalla «madonna sette volte spadata»[30] di Fermo, ovvero la statua della Madonna del Pianto con le sette spade d’argento conficcate nel petto, e dagli «strafottenti portatori dei valori anche bancari».[31] Sfilavano per tutte le parrocchie cittadine e lungo le strade c’erano le «coperte più belle dei letti matrimoniali esposte sui davanzali»,[32] mentre «le forze dell’ordine cercavano di contenere la pressione della folla che sembrava volesse impadronirsi dell’Iddio dei ricchi».[33] La gerarchia politica ed ecclesiastica faceva bella mostra di sé, potendo vantare la vicinanza all’ostensorio sacro:

l’eja eja alalà, l’urlo d’esultanza fascista si sentiva anche nelle processioni al passaggio dell’arcivescovo oliato e mitratissimo il più ricco agrario del Piceno che portava il santissimo sacramento con un pesantissimo e preziosissimo ostensorio raggiante sole, era proprio il più ricco, il più unto, il più nobile a portare il corpo d’Iddio e vicinissimi al santissimo d’oro massiccio i nobili gli agrari più benestanti del paese. Gli unti, i toccati dalla divina provvidenza erano i portatori d’Iddio per le strade del paese delle tante faticose salite e delle tante precipitanti discese e la particola sacra sembrava una luna sacra, un Dio ricchissimo per i ricchi e c’era anche la madonna del pianto con le sette spade infilzate sulle mammelle sacre che paurosamente vibravano alle scosse dei portatori e nonna indicandomi il mostro sacro mi diceva guarda, cosa hai fatto alla madonna?[34]

Il poeta ha una vera ossessione per questo episodio, e per sua stessa ammissione, egli fu «sempre affascinato dalle cerimonie religiose, dall’oscillazione dei merlettamenti delle confraternite dei mezzadri che a squarciagola urlavano i canti dei riti, i carabinieri con i cappelli piumati e statuari presidiare l’altare».[35] I procedimenti retorici che Di Ruscio utilizza di frequente contribuiscono a restituire l’icastica rappresentazione di una paradossale danza macabra, ma svolgono anche una funzione parodica del linguaggio solenne che si addice al culto, banalizzando la sacralità delle cerimonie quando non le irride apertamente. La bestemmia è connaturata alla dimensione orale della sua scrittura, non è mera mimesi del parlato, ma uno degli strumenti critici con la quale arma la sua poesia nel conflitto basso/alto, individuo/mondo, ma anche nella lotta di classe e nella battaglia poetica per l’autoaffermazione. «Martirizzato dai lapsus e dalle ripetizioni»,[36] Di Ruscio elabora la finzione di una lingua che sfugge al controllo dell’autore (o del “sottoscritto”) ed è responsabile della produzione “sprocedata”[37] di ingiurie, errori ortografici e persino bestemmie, come nei repertori di lapsus più o meno volontari in cui incappa il suo dettato:

non errore ma orrore, non io ma Iddio, non parodia ma poesia, non sbaglio ma bavaglia, non la fine del mimmennio ma del millennio, non cassate ma cazzate, non la processione del porco d’Iddio ma del corpo d’Iddio.[38]

Inoltre la religione professata dalla poesia di Di Ruscio non ammonisce alla caducità dei corpi ma invita a una febbrile vitalità, si contrappone quindi al feticismo cattolico che venera le reliquie «come se il culto vero sia quello della morte e non della resurrezione».[39] Il poeta folgorato dallo «spirito santo patrono dei verbi consacrati»,[40] all’interno della dialettica conflittuale tra individuo e mondo, confessa: «spesso ho creduto di essere iddio»,[41] «Dio dei poeti delle profezie e della morte».[42] Tuttavia è un’istanza rivelatrice della dimensione particolare della sua interiorità, la quale è difesa armandosi di tutti i dubbi. Non c’è verità e quindi nemmeno rivelazione all’infuori della poesia, che per quanto in Di Ruscio sia all’apparenza di impegno civile e militante, sprigiona anarchicamente non le istanze di una classe sociale, ma dell’individuo in quanto essere umano: «Luigi Di Ruscio, al di là delle ovvie etichette, non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court».[43]

Per scorgere le ragioni del suo «iscrivere»,[44] la risposta va quindi ricercata nelle stralunate impennate liriche della sua prosa che con straordinario erotismo riconducono alle passioni umane:

Io mi misi stranamente a sognare che facevo l’amore con una bellissima, ed era proprio la Palmira con cui sognavo di fare l’amore e piano piano risvegliandomi o ridestandomi delicatamente da questo sogno, proprio mentre piano piano mi ridestavo mi accorsi che eravamo strettamente congiunti. Dormivo e sognavo di essere allacciato alla Palmira e nello stesso tempo ero realmente allacciato a lei.

Il mio sogno più bello era nello stesso istante anche la mia realtà più bella e Palmira, forse anch’essa dentro un proprio sogno, assecondava il mio con estrema morbidezza e che il sogno fosse anche la realtà e la realtà fosse anche il sogno mi procurò una folgorazione enorme e anche se il mistero mi capitò una sola volta in tutta la vita fu come se improvvisamente fosse entrato Iddio tutto intero dentro di me e fu proprio questo che mi rese poeta per sempre.[45]

L’ossessiva pratica metapoetica da un lato quindi «pone l’accento su se stesso scrivente come certificazione di esistenza e bisogno corporeo di identità per autolegittimare il proprio dire e il proprio ruolo»,[46] e dall’altro cerca di giustificare il conflitto connaturato nella violenza della sua espressione. Tuttavia, più che nelle risposte, la scrittura si risolve in un continuo interrogarsi sulle ragioni della scrittura, sul portato politico e sociale della poesia e sul compito che questa può ancora assolvere. «È già tanto potersi porre domande»[47] per Di Ruscio, poiché l’imperscrutabile verità è sempre oltre la possibilità della poesia di scandagliare il caos, di decifrarne i simboli. Per quanto il compito del poeta resti quello di «raggiungere la verità estrema, guardare l’orrore e non indietreggiare»,[48] tuttavia può limitarsi soltanto a combattere la menzogna:

è da anni cinquanta che cerco di dipanare la matassa, anni cinquanta di poesia imperterrita per rafforzare tutti i vostri dubbi e combattere contro tutte le vostre certezze perché quando i dubbi sono pochi e tante le certezze la gente si ammazza come le bestie.[49]

Il dubbio è l’unica arma a disposizione per resistere alla brutalizzazione, è il viatico per la salvezza che dispensa il poeta, ma «il rito è eseguito a chiesa vuota davanti al niente e all’ignoto».[50] La funzione maieutica della poesia è messa in scacco non solo dal caos imperscrutabile, ma anche dalla condizione di emarginazione che vive il poeta: «scrivere poesie senza speranza di pubblicazione è uno scrivere quello che non potrò dirvi»,[51] «è il tracciare le carte di un continente inutile».[52] Ma la necessità di scrivere, di mettere «carta davanti alla belva»,[53] si sovrappone a quella fisiologica della sopravvivenza, senza l’una, la poesia, non c’è l’altra, la vita:

Sino a che io posso scrivere io vivrò. Scriverei anche se fossi capitato in un pianeta completamente abbandonato senza nessuna possibilità di far giungere a qualcuno la scrittura, e bisognerebbe scrivere come se uno si trovasse in una solitudine assoluta. Bisogna scrivere di tutto quello che vedo come se lo vedessi per l’ultima volta.[54]

«Al marchigiano non importa niente che lo si legga o no»,[55] scrive Quasimodo nella prefazione a Le streghe s’arrotano le dentiere, in virtù del fatto che «la scrittura è anche una terapia, a forza di scrivere uno riesce a provocare la catarsi, la liberazione dal male».[56] Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che non sia affatto contemplato un destinatario ideale poiché, sebbene non risieda nel lettore la ragione della scrittura, la «verbalizzazione stritolata, inceppata e caotica»[57] che vuole racchiudere in sé tutto l’universo, assume caratteri performativi: è scrittura che agisce sulla lettura, «non passa attraverso il comunicare, asse linguistico rigettato dall’Autore, ma attraverso il rappresentare e l’ostendere».[58] Laddove «la poesia è una maniera d’essere una maniera di vedere dove per solito la gente non vede niente»,[59] si assottiglia il confine fra la parola e la cosa, si sovrappongono i significanti ai significati: la poesia acquista l’aspetto della cosa assolutamente necessaria. Lo scrivere è come uno scavare, alla fine trovi l’incredibile, trovi quello che mai ti eri sognato di trovare, la cosa va cercata e scovata ad ogni costo, ogni poesia è come deve essere, prenderla come fosse un prodotto della natura, una foglia, un ruscello, una mela.[60] Poesia come rivelazione, come epifania, ma anche poesia che dando il nome alle cose, le genera, quindi «scrittura creaturale, che fa e definisce la norma stessa dell’esistenza del mondo».[61] L’orrore del mondo deve essere rappresentato senza intermediazioni per poterne smascherare la menzogna oscurata dai linguaggi mediati e per moltiplicare il portato espressivo della comunicazione/ostensione. Di Ruscio accelera il ritmo della scrittura a velocità vertiginose che scalzano l’autore stesso dalla posizione di controllo sul caos della materia poetica; ricorre alle forme più elementari del verbo e a una sintassi costruita per sedimentazione sul già detto tramite uno schema giustappositivo che predilige predicati all’infinito e all’imperativo. Così le riflessioni prendono la forma di un libretto di istruzioni per il lettore, ma anche per se stesso scrivente e chiunque ritrovi nella poesia una palpitante carica vitale; il risultato è un vero e proprio manuale della resistenza:

Scandite ogni sillaba, mettere nella scansione tutta la vostra rabbia, dire con feroce calma ogni verso che sono riuscito a scrivere, mettere un baratro tra me e loro, oppure leggere come se quello che leggete non riguardi nessuno, come se l’utopia fosse rimasta solo nei miei versi, non dimenticare di fare atti sconci verso il pubblico tutto, a ogni modo divertitevi, la poesia è come il sangue universale, possiamo darlo a tutti, però ogni altro sangue ci mette in pericolo mortale.[62]

Ricorda Apuleio, che mette in guardia il lettore e poi raccomanda al divertimento: Lector, intende: laetaberis. D’altronde la vis ilare e gioiosa di molte pagine del poeta marchigiano è la diretta conseguenza del piacere che lo stesso ricava dalla scrittura, la quale al contempo però gli procura «travagli profondi»[63] e le frequenti delusioni che si alternano alle poche fortune editoriali. Sebbene assumendo una prospettiva macroscopica, risulti poco sorprendente constatare il fenomeno del proletario proveniente da una classe subalterna che comunque riesce a raggiungere un pubblico. Tuttavia considerando il caso particolare di poeta, emigrante ed emarginato, «ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra per la sua voce italiana»,[64] la scrittura di Di Ruscio è il miracolo di un’ostinata fiducia nella poesia. Il portato politico della sua produzione non emerge infatti dal riconoscimento nella sua classe sociale, le cui rivendicazioni certo condivide, ma dall’appartenenza alla religione della poesia, dalla fede alle «carte disinteressatamente iscritte e per la sola gioia di comunicarvi tutto senza le reticenze del perbenismo dell’oggettività, una scrittura viva, palpitante al contrario delle scritture spente senza resurrezioni e orgasmi».[65] Allora la carica vitalistica, erotica e spirituale della poesia è per l’essere umano l’unica fuga, la speranza di una salvezza:

Non disperate, mettetevi a scrivere le poesie, ne ricaverete rilasciatezza, felicità gestuale, leggerezza nei contatti con il prossimo vostro, sentirete la presenza degli Dei in prossimità della tua ombra, gioia lavorativa, aumento vertiginoso della creatività in tutti i campi, sviluppo della personalità. Leggermente folle correrai verso tutte le sciagure, ti crederai inseguito da bande antiblasferiche armate di mazze ferrate, sfuggirai ai pericoli con rapidissime fughe, potrai metterti a volare come niente fosse, diminuzione vertiginosa della rigidità muscolare e anche mentale, diminuzione dei mali di testa, sarai in preda a dolcissimi spasimi sessuali. Iscrivere poesie a occhi chiusi, sgranare frasi una dietro l’altra con la massima velocità sino al punto che la battitura segue perfettamente il ritmo delle tue pensate anche quelle più stravaganti, velocità massima nel concatenare libere associazioni, scrivere con la schiena bene appoggiata alla spalliera della sedia, tenere la testa non troppo reclinata sulla tastiera, da oggi tutte le ore sono le nostre mi disse un poeta, fa’ rimbalzare tutto sulla tastiera. Piove, nevica, suona il telefono alla porta tu inchiodato davanti alla tastiera della macchina da scrivere.[66]


[1] Luigi Di Ruscio, Firmum, Ancona, Pequod, 1999, p. 146.

[2] Id., Neve nera, cit., p. 466.

[3] Marco Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, in Geografie della modernità letteraria: atti del XVII Convegno Internazionale della MOD (Perugia, 10-13 giugno, 2005), a cura di Siriana Sgavicchia, Massimiliano Tortora, Pisa, ETS, 2007, p. 489.

[4] Cfr. L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, p. 212: «Mai ho avuto infatuazioni dannunziane, ero infatuato degli Ossi di seppia, e leggevo anche Lavorare stanca», dove a d’Annunzio contrappone il primo Montale e Pavese, e p. 21: «la mia formazione coincise con la prima edizione delle lettere dal carcere e io affabulavo sull’antologia di Anceschi chiamata lirici nuovi […] e vedevo i ladri di biciclette e Roma città aperta».

[5] M. Gezzi, Le strategie del “sottoscritto”: paragrafi per Di Ruscio narratore, https://puntocritico2.wordpress.com /2011/01/18/le-strategie-del-sottoscritto-paragrafi-per-di-ruscio-narratore/ (data di ultima consultazione 19/02/2021)

[6] L. Di Ruscio., Palmiro, cit., p. 23.

[7] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 209.

[8] Ivi, p. 143.

[9] Ivi, p. 351.

[10] Id., Firmum, cit., p. 128.

[11] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 179.

[12] Ivi, p. 219.

[13] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 494, dove il termine castigliano è utilizzato in opposizione al “dispatrio” meneghelliano: «si tratta infatti di una vera e propria eradicazione per cui mezzo la lingua viene privata del suo luogo per  essere assegnata irrimediabilmente all’esterno, al “fuori”, in una condizione in cui esodo permanente, memoria, verità e, conseguentemente, possibilità scritturale, coincidono».

[14] L. Di Ruscio., Neve Nera, cit. p. 419.

[15] Ivi, p. 441.

[16] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 314.

[17] Ivi, p. 325.

[18] Id., Neve nera, cit., p. 494.

[19] Ivi, p. 486.

[20] Ivi, p. 459. Cfr per una variante ‘cosmologica’ ivi, p. 489: «Scrivere per la gioia di cancellare e venne il primo Aprile ed ebbi la rivelazione: Primo aprile anniversario dell’esplosione dell’uovo comico cosmico che sia, il giorno che inizia la creazione dell’universo, anniversario della frittata universale, non c’era niente, neppure il tempo e neppure lo spazio però un uovo comico doveva pur esserci, anniversario delle esplosioni dell’ovo, quando tutto il silenzio si mise ad urlare e tutto fugge da noi in una fuga infinita in un furore sempre crescente delle divergenti galassie che precipitano verso il niente», dove “comico” è lapsus per “cosmico”.

[21] E. Zinato, L’oralità di Luigi Di Ruscio, cit., p. 34.

[22] Id., Firmum, cit., p. 146.

[23] Id., L’allucinazione, cit. Cfr. con il componimento numero 89 in L. Di Ruscio, Iscrizioni, Edizioni Biagio Cepollaro, Poesia Italiana. Collana di inediti ebook, 2005, p. 17: «Cristo ha detto di amare i propri nemici / infatti essendo un nemico d’Iddio / io da Dio sono molto amato».

[24] Roberto Cuppone, Iaculatoria in Blasphemia. Il teatro e il sacro, a cura di Roberto Cuppone ed Ester Fuoco, Vicenza, Accademia Olimpica, 2019, p. 8.

[25] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, in Romanzi, cit., p. 271.

[26] R. Cuppone, Iaculatoria, cit., p. 7.

[27] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 223, dove rivolge persino una supplica, imitando gli stilemi  della preghiera liturgica: «Babbo mio celeste, tu che non esisti, perdona questa gioia irresponsabile che mi cade addosso tutta intera, questa gioia irresponsabile mentre giro in tutte queste terre matte».

[28] Id., Iscrizioni, Edizioni Biagio Cepollaro, Poesia Italiana. Collana di inediti ebook, 2005, p. 19. Cfr. Id., Poesie Scelte, cit., p. 286:  «tutto ritornerà nel ventre d’Iddio / niente andrà perduto / tutto sarà gioiosamente salvato».

[29] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 199.

[30] Id., Neve nera, cit., p. 496.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem, si noti che l’uso del congiunzione “anche”, come di frequente in Di Ruscio, non rafforza alcun rapporto copulativo, anzi prende valore limitativo, escludendo che siano portatori di valori, sottinteso, morali.

[33] Ibidem.

[34] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 198.

[35] Id., Neve nera, cit., p. 469.

[36] Id., Firmum, cit., p. 146.

[37] “Sprocedato” è un termine dell’italiano regionale di Lazio, Marche e Umbria, che Di Ruscio ritrova anche nei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Cfr. L. Di Ruscio, L’allucinazione, cit., dove la moglie Mary lo rimprovera perché Luigi bestemmia in italiano in presenza dei figli: «Devi smetterla con il tuo sprocedare italico. Scrivi in italiano quello che ti pare ma devi smettertela con il tuo sprocedatissimo parlare con la tua lingua». Si noti anche che le parole di Mary sono riportate in senso espressionista, nemmeno lontanamente con intento realistico.

[38]Id., Zibaldone norvegico, cit., p. 23.

[39] Id., Neve nera, cit., p. 403.

[40] L. Di Ruscio, Firmum, cit., p. 135.

[41] Ivi, p. 93.

[42] Ivi, p. 138.

[43] M. Raffaeli, Prefazione in L. Di Ruscio, Poesie scelte, cit., p. 10.

[44] Andrea Cortellessa, La vergogna delle lettere italiche, cit., p. 537: «se l’azione del Verbalizzatore – col più espressivo e insistito dei suoi lapsus – non è quella di scrivere bensì di iscrivere, è perché questo suo scrivere è in effetti un insistere, l’impuntarsi maniaco su un luogo e un tempo cui si è crocifissi psichicamente: tanto più quanto la pratica esistenziale della fuga, da quel luogo e da quel tempo, abbia in effetti allontanato il protagonista».

[45] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 278.

[46] S. Verdino, Luigi Di Ruscio, in «Istmi», n. 7-8, 2000, p. 96.

[47] L. Di Ruscio, Neve nera, cit., p. 473.

[48] Ivi, p. 426.

[49] Id., Neve nera, cit., 473.

[50] Id., Firmum, cit., p. 125.

[51] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 388.

[52] Id., Firmum, cit., p. 103.

[53] Ivi, p. 113.

[54] Id., Palmiro, cit., p. 131.

[55] S. Quasimodo, Introduzione a Le streghe s’arrotano le dentiere, cit., p. 152.

[56] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 287.

[57] Ivi, p. 173.

[58] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 492.

[59] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., pp. 213-214.

[60] Ivi, p. 287.

[61] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 492.

[62] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 388.

[63] Ivi, p. 304.

[64] Id., Firmum, cit., p. 104.

[65] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 362.

[66] Ivi, p. 363. Cfr. una variante in Neve nera, cit., p. 456: «Piove, nevica, buttano le bombe, avanzamento nelle fiamme dell’incendio, il Titanic che affonda e tu imperterrito a scrivere un verso dietro l’altro, smascherare anche l’Iddio immobile, tutti i maiali delle logge massoniche più coperte, tutte le carogne associate e perfino la Repubblica nostra ti sembrerà giovanissima come quando nelle tiepidi notti picene andavo ad attaccare i manifesti per la repubblica nostra».

Nosferatu non esiste

0

di Andrea Accardi

 

Io che m’illudevo di tenere tutto insieme

che le mie braccia arrivassero oltre questo

fuggi fuggi e chiudessero in tempo

ogni tipo di porta

ecco che invece mi ritrovo in mezzo

alle cose che finiscono

a questo continuo perdere pezzi

e lasciare andare, recidere

decidere

svegliarsi in viaggio con la schiena a pezzi

vedere paesaggi sognati da altri

 

(Albumi d’alba, riflessi, screzi.

La trasparenza dei Carpazi)

 

***

 

Resto immerso nel rumore del sangue,

caldo crepitio di globuli, sibilo

che unisce, difendo la casa

con barricate d’ossa, mi aggrappo

a ogni cosa con i denti

ma lascio solo un’orma ridicola:

due fori ciechi. Da piccolo

guardavo la luce cambiare

tra le persiane, come uno strappo

di tempo che nessuno ricuce.

Nel buio ora sento i topi brulicare

sobbalzare, divorare tutto.

Bisogna dare ali

a questi topi.

 

***

 

Mi tormentano immagini, fanno

male dietro gli occhi i ricordi

come questo che si accanisce adesso

strisce di sole sul bucato steso

un balcone sopra l’altro, il solito

latrato lontano, ovunque lo stesso

le stanze dell’infanzia degli altri

la dolcezza di un garage, poi la salita

una mano che saluta, l’altra che parte

lo sventolio feroce di alberi e case

fino a quando un’intera città

scompare dalle carte.

 

***

 

Rivedo l’immagine del mio corpo

nei diversi punti della rete

– in cima a scalinate, dietro porte

a vetri, sul fondo di paesi

che diventano spiagge – ma sempre

come in movimento e in controluce

la vedo che fugge, scivola, affonda

nella sua stessa presenza, incavo

pulsante, vuota intermittenza,

macchia tremolante sullo sfondo.

E invece la cornice che da sempre

mi circonda e mi separa dal mondo

ecco che adesso prende il sopravvento,

si avventa sulla vita, e ogni esistenza

soltanto accennata ritorna

di colpo insopportabile e vivida,

fulminata da odori estivi,

fissata in colori di ceramica,

in una bugia di smalto.

Il tempo che prosegue senza di me

è tempo reciso in cui non invecchio.

Per questo sparisco allo specchio.

 

***

 

Costeggiavamo campetti accesi

nel lampo del vedere un tiro fuori,

poi la strada si alzava all’improvviso

e dava su antenne, bagliori, sui paesi

nascosti dal fumo. Ma le carte non dicono

i posti che lasciamo, e le cose

si vendicano del nostro oltrepassarle,

fanno fronte comune, tutto del quale

non possiamo essere parte, mondo ch’esiste

senza noi oscuramente, ci sono sale

d’aspetto senza riviste, luci

dietro finestre, mani che spostano

sedie e non possiamo farci niente.

Nelle città immense la gente vive

senza perdersi, guarda la pioggia

sui palazzi di fronte, apre negozi

di oggettistica, si affaccia lo stesso

fiduciosa dai balconi sui fiumi

di sapone che scorrono in basso.

Nei centri piccoli vicino

alle stazioni saluti, gesti

consueti, sapere cosa fare

il caffè da prendere.

E di queste abitudini non so

dire nulla, anzi è lì che sprofondo

ogni volta, nelle vite degli altri

trasandate e inspiegabili,

nel loro mattutino ripetere il caso,

sbattere in alto come un sogno appeso.

 

***

 

La notte porta draghi di fosfeni

e un buio senza fondo dietro

presagi di cime, potessi uscire

da questo buio, giocare al gioco

del tempo, scegliere e rinunciare

come fai tu vivendo. Ma queste

infinite voglie, nascoste teste

d’aglio, avvelenano la stanza

e tutto il resto, il mio amore non sceglie

manca il bersaglio, nulla gli sembra

abbastanza.

 

***

 

Da qui non ti vedo e non vedo

la tua casa

e intorno a me continua ad accadere

questa selezione idiota

e silenziosa.

Penso a te come a un rimedio

come a una via d’uscita.

 

Il tuo nome sa di cose

che a forza di non crederci

vengono esaudite.

La tua casa è sulla carta

in mezzo a linee che si addensano

vortice minerale, gorgo

di antracite

 

(ti scrivo dal cerchio di un ostello

che è una pausa qualunque del mondo

scotta la ghisa ai bordi della stanza

e appanna i vetri e sfianca le voci

qualcuno che impreca, l’ostessa che prega)

 

***

 

Capitava di lasciare posti e persone

e guardare indietro fino a vederli

svanire, di pensare l’impossibile

di una casa in assenza di me

che l’abitavo, di vedere gli altri

già dissolti

nell’ultima parte di ogni cosa.

Anche adesso che avanzo verso di te

per ogni metro di spazio sperperato

registro il punto esatto della perdita

del mio non essere più lì

mentre l’aria si riempie di una musica

d’archi, suonata per cosa, da chi

 

(Sto arrivando.

Ecco il castello, il sortilegio.

La pietà del tuo contagio)

 

Gino Scartaghiande: per una ricognizione impossibile

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di Francesco Iannone

Se l’analisi delle cose è la morte della Bellezza o della grandezza loro, come scrive Leopardi nello Zibaldone, allora le riflessioni che seguito a condividere con voi siano lette come ghirigori sugli azzurri del cielo.

La poesia di Gino Scartaghiande (Cave de’ Tirreni, Salerno, 1951), non può essere letta alla luce della temperie degli anni settanta. Eppure da quelle istanze si avvia, da quelle premesse sembra decollare la sua grammatica. Ma è un abbaglio una simile circoscrizione, una deviazione cieca che decentra il lettore e allontana il nostro poeta dal fuoco del suo nucleo, in un tempo in cui la parola diventa sogno posando davanti ad uno specchio deflagrata in frammenti da ricomporre secondo un ordine di vanità e non di verità.

 Chi soffia sulle braci, insomma, e non uso a caso questa immagine, e chi soffia sulla cenere. Scintillìo o polvere. I due termini, a mio avviso, della questione. Lo aveva capito Amelia Rosselli che, ancora oggi fraintesa fra biografismo, sperimentalismo e vago spiritualismo, prende le distanze dal gruppo ’63 e si ricolloca al centro di un’ossessione che attiene essenzialmente al significato ultimo delle cose. Per Rosselli la parola è una res sacra, religiosa, laddove religere, rilegare, è mettere insieme in funzione di un’unità che giustifica le moltitudini. Così fa Scartagniande. Nei Sonetti d’amore per King Kong (Cooperativa scrittori, 1977) l’inconciliabile si armonizza, le dissonanze dialogano conferendo ordine al disarticolato (la sintassi è spesso alterata, la funzione logica degli elementi non è sempre immediatamente afferrabile, il canto è ora rude, ora levigato). Le violazioni sintattiche, le immagini crude, talvolta violente (scrive a questo proposito Simone Weil ne L’ombra e la grazia: la realtà è dura e rugosa. Vi si trovano gioie, non cose gradevoli […]), seppure alternate a momenti di puro lirismo, potrebbero convincerci della filialità della sua poesia alle esperienze in atto tese ad una contrazione, se non a una demolizione, dell’io a favore di un impeto reazionario, o rivoluzionario come ebbero a dire gli stessi esponenti della neoavanguardia, che ponesse il prodotto artistico in relazione, (dialogo?), con la società, ne rappresentasse, anche formalmente, le complessità, le contorsioni. Arte come gesto politico, e politico lo è nelle intenzioni dei Novissimi, programmaticamente, mentre la poesia, come Scartaghiande sembra suggerirci, è politica tutte le volte che un io si accorge di sé, in quanto dramma, fame, bisogno, stupendosene all’infinito. È da questo incontro che l’io rigenera se stesso e perciò rinnova il suo rapporto con gli altri e con il mondo, replicando il medesimo orizzonte escatologico di Anna Maria Ortese nel suo densissimo Corpo celeste quando scrive: Vedevo nell’arte, e nel suo ordine, quando l’arte respiri con l’uomo, tutta l’intesa fra uomo e uomo. E da qui si muove Scartaghiande. Dalle oppressioni dei Sonetti fino al ricongiungimento di Bambù (Rotundo, 1988). Come un’emersione che da oscure profondità tracima radiosa la sua acqua battesimale. Dalla crepa che agevola il flusso fino all’esplosione dello zampillo, è questo il viaggio che compie il poeta. Una parobola-ponte che è un attraversamento, da un bordo all’altro, dall’aspirazione al senso (nei Sonetti) alla Grazia (in Bambù), esito perseguito con esasperazione da Beppe Salvia, altra voce a lui gemella. E che cos’è la Grazia? L’attimo in cui si toccano le fondamenta, si adagia la fronte della fatica alle mura del ristoro. È un attimo. Poi tutto cade un’altra volta, tornano la tristezza, la noia, la rabbia, il disamore, tutto rotola nei cupi echi di uno spavento grande. E siamo già oltre King Kong, il mostro ha espulso il poeta, Pinocchio ha ritrovato Geppetto nel ventre della balena, si compie la Storia, è stata finalmente raggiunta la pace. Ciò che è accaduto una volta vive e vive nella memoria come speranza di carne che riaccade se attesa, desiderata. Con Bambù siamo fuori dalla nube della non conoscenza, mentre ne eravamo totalmente immersi nei Sonetti. Nei Sonetti c’è un dolore “genuino”, per citare l’anonimo autore de La nube della non conoscenza, pieno di desiderio e proprio perché genuino, cioè non disperato (ma è possibile sottrarsi alla disperazione se si hanno delle ragioni ponderatissime per non consegnarsi all’angoscia) sopportato come un chiodo della promessa confitto in mezzo alle palme. Nei Sonetti Scartaghiande urta gli stipiti di una porta strettissima, per dirla con San Giovanni della Croce, ma il passaggio è facilitato da una graduale decompressione del buio che restituisce alla parola gli spazi entro cui la notte dilata enormemente fino alla creazione di quei vuoti che se accettati sanno chiamare a sé nuova luce, e colmarsi, ed è ciò che accade in Bambù. Con i Sonetti Scartaghiande si tuffa nella fossa che è la bocca di un averno intimo con la consapevolezza che se si discende in se stessi si trova che si possiede esattamente quel che si desidera, ancora Simone Weil. Questo ritrovamento potrebbe essere accaduto in Bambù. La poesia è solo presente, avvisa Scartaghiande in una recente intervista per il Quotidiano del sud. Ci parla nel presente se è vivo in noi il dramma di un significato presente, sanguinante. La parola illumina l’esperienza come l’esperienza rischiara la parola. Un movimento osmotico irrinunciabile. Ma ciò accade se si è vivi e se è viva la parola, perché concepita all’inizio in seno ad una necessità cogente. E sia nei Sonetti che in Bambù c’è un’amicizia, una esperienza di prossimità, di vicinanza (Hai visto non sono proprio / io, ma il più ampio anfratto per riceverti), una protusione di mani e braccia leggerissime che calmano l’animale, citando un emistichio della poesia dal titolo L’animale, in Oggetto e circostanza (Il labirinto, 2016) titolo eponimo della seconda sezione del libro summa dell’autore. E se nei Sonetti esplode una voce che si pensa senza fondo è in Bambù che il poeta si accorge di avere un fondo e l’onda si appiana, confortata dalla certezza di una base, una superficie su cui posare il grido. I Sonetti manifestano una visione che è quella della propria miseria umana con tutte le sofferenze che ne conseguono, Bambù invece usa questa sofferenza, la manipola trasfigurandola a favore della Grazia; caravaggeschi, quindi, i Sonetti con tutto il loro “realismo feriale”, per dirla con Roberto Longhi, nominato nella sua ruvida fattualità e talmente impavido da andare incontro alle improvvise gittate di luce; giorgionesco, invece, Bambù, laddove la tempesta non turba, e forse la esalta addirittura, la pace di una qualsiasi conquista che sembra essersi impossessata dei personaggi ammorbidendone i gesti, le pose, le forme. Nelle opere di Scartaghiande, seppure con toni differenti, tutto si incatena, nulla è senza ragione, invocando stavolta le fiamme di Cristina Campo nella sua opera più vorticosa, Gli imperdonabili. Ed è questo ciò che rende sempre giovane, o, più prudentemente, ancora giovane, la poesia del nostro poeta, perché sa esistere nel vento di ciò che vive e che muore, ci guarda e ci fa sentire guardati, scoperti, nudi.

da Sonetti d’amore per King-Kong

Nella sua curva dolce metto

una porta oscura e la lascio

aperta. Vi conserva un’acqua,

uno specchio nell’erba e nido.

Vi respirano la notte e le ombre.

Quando distese le cose s’insinuano

nei propri vuoti. Un rimando duplice

ora, mettermi io stesso a parlare.

Dove si sposta il cerchio alle labbra.

Se qui scagliato io fossi sempre tu.

da Bambù

I raggi stanno tessendo

quest’addio. Non sono più

la fantasia. Non ho memoria

che sotto di me, furono

splendidi, freddi, quei

concavi cieli. A chi do

perdutamente

i miei baci,

se nella strada, in un attimo

ti fermi dietro di me?

Sto consumando lentamente

questa terra. Non per le strade

che seguo. Io se non te. Non

per conservare, ma essere

che tu sia. Dove si fa chiaro

io sto diminuendo dentro.

Che tu avvenga. Che tu possa

sopra un’urna chiara d’erba,

vedere quest’oasi di noi.

Le montagne e il resto di Antonia Pozzi

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di Ornella Tajani

È uscito per Ponte alle Grazie un bel volume di poesie, lettere e foto di Antonia Pozzi, scelte e raccontate da Paolo Cognetti, dal titolo L’Antonia. Seguire l’autrice – che in vita non vedrà pubblicato neanche un suo componimento – negli anni che vanno dal 1929 al 1938 è attraversare, contemporaneamente, un pezzo di storia novecentesca, via via sempre più buio, e il passaggio di una giovane donna dall’adolescenza all’età adulta: «È terribile essere una donna, ed avere diciassette anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi», scrive al suo ex insegnante Antonio Maria Cervi, con il quale avrà una casta relazione. Pozzi si innamora in modo appassionato, dopo Cervi toccherà a Remo Cantoni e poi a Dino Formaggio: intanto viaggia per l’Europa, manda cronache dall’Inghilterra, si laurea con Antonio Banfi con una tesi su Flaubert, va a Berlino, scopre la realtà delle periferie milanesi, inizia a insegnare a scuola; intanto il padre ha preso la tessera del partito fascista ed è un uomo molto in vista di Pasturo, quel «brutto, dolce paese» dell’Antonia, dal quale scrive a Cervi: «Che cosa è un ritorno? Una cosa che, per qualche ora, scioglie i groppi duri che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo».
In mezzo a tutto questo, le escursioni in montagna, sempre più frequenti: la Grigna, le Dolomiti, il Cervino, queste presenze che «Occupano come immense donne/la sera», da cui Cognetti parte e attraverso le quali tesse una narrazione inframezzata dalle fotografie scattate da Pozzi, che si fanno via via più belle e importanti per lei; tant’è che arriverà a pregare la madre di mandarle un altro apparecchio fotografico, nel momento in cui quello che possiede in montagna si rompe, giacché lei senza macchina è «una donna morta».
La cura e la dedizione che Cognetti mette in questo racconto, che è stato innanzitutto una ricerca, sono il valore aggiunto di questo volume, e ci si emoziona insieme a lui mentre scorta chi legge nei luoghi immortalati da Pozzi nei suoi scatti.

Pubblico una delle poesie contenute nel volume, che punteggiano le molto più numerose lettere; in apertura una delle fotografie.

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Confidare

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far rifiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

8 dicembre 1934

L’inutile sacrificio della purezza

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di Eleonora Roaro

Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore, il brillante esordio narrativo di Gabriele Sassone (1983) per il Saggiatore, è nel contempo Bildungsroman, raccolta di memorie e saggio sull’industria culturale e sulla produzione di immagini. Protagonista del romanzo è un quarantenne che, all’interno di confini spaziali (il suo bilocale) e temporali (una notte) claustrofobici e ben definiti, si trova a dover improvvisare in poche ore la presentazione di un convegno nell’università in cui insegna sul tema – volutamente generalista – Art in the Age of Social Media. E nel tentativo di identificare il momento in cui «una persona comune diventa un artista» (p. 16) il protagonista analizza e mette in dubbio i meccanismi di sfruttamento su cui si basa il sistema culturale – spesso precario e intermittente –, i preconcetti sulla produzione di immagini, il funzionamento del mercato dell’arte e, non ultimo, il ruolo della formazione in ambito genitoriale e accademico.

I ricordi personali del protagonista legati ai suoi primi lavori come assistente di galleria e agli aspiranti artisti conosciuti nel corso degli anni mettono in luce le contraddizioni di un sistema in cui questi «lavorano di continuo ma sono pagati raramente» (p. 36). Scrive l’autore, riecheggiando Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro di Maurizio Lazzarato: «L’artista emergente non è subordinato a un padrone, ma è subordinato ai dispositivi di potere» (p. 37).

Lo sguardo situato del protagonista permette, da un lato, di seguire la produzione del lavoro culturale nel suo svolgersi, con i suoi dubbi e contraddizioni, nella volontà di demistificare una professione – quella del docente e del curatore – dove ben poco è lasciato all’ispirazione ma è invece frutto di ricerca meticolosa; dall’altro mette in scena un voyeurismo assimilabile a quello dei social media mostrando in maniera morbosa dettagli del tutto irrilevanti del suo modo di vivere, su tutti l’ossessione per il fitness. Il corpo del protagonista, inoltre, non solo viene evocato in relazione all’allenamento: la sua gestualità quotidiana, dal preparare una tisana allo sfogliare i libri utili alla creazione delle slide, è sempre descritta in maniera meticolosa, a ricordarci che il pensiero non è mai totalmente astratto.

Il titolo del libro è rappresentativo della volontà dell’autore di far coesistere tra loro più livelli, e quindi «high e low culture» (p. 113), dando la stessa importanza a ekphrasis di opere d’arte, prodotti della cultura pop ed elementi della vita quotidiana: è tratto infatti da un verso del brano Gutter Ballet (1989) dei Savatage, gruppo heavy metal statunitense, di cui il protagonista del romanzo guarda il video su YouTube di un vecchio live che, a sua volta, innesca una catena di ricordi e riflessioni legati alla giovinezza.

«Il verso completo di Gutter Ballet ordina di uccidere l’unicorno soltanto per possedere il suo avorio. È la metafora dello spreco tipico dei giovani. La distruzione dell’innocenza e della purezza; la distruzione di ciò che è sacro. La distruzione di ciò che è bello, semplicemente». (p. 71)

Il protagonista ripercorre il pensiero di teorici, artisti e scrittori importanti per la sua formazione (da Boris Groys a Paul Preciado, da Giuseppe Berto a Luigi di Ruscio) che hanno minato le sue certezze legate all’educazione familiare e scolastica, ma non riesce a superare questa contraddizione, esemplificata al meglio nel suo modo di guardare le donne o dal timore di sembrare un «minchiamoscia» (p. 14). Difatti, se la sua educazione sentimentale, nella volontà di ripensare una critica d’arte in cui la posizione del critico sia dialogica e non impositiva e giudicante, pone le proprie basi in Autoritratto di Carla Lonzi, la realtà dei fatti lo contraddice, e il suo altro non è che un tentativo fallito di essere diverso dal sistema patriarcale ed esclusivo in cui è cresciuto.

Questo conflitto tra quello che siamo, quello che vorremmo essere e quello che non saremo mai è ben esemplificato nel rapporto con il figlio piccolo:

«Io sento una responsabilità enorme verso mio figlio. Lo amo più di ogni altra cosa, eppure so che gli insegnerò a commettere i miei stessi errori. Per esempio a realizzarsi nella vita senza essere prepotente ma neanche troppo interessato al prossimo. A vestirsi con indumenti prodotti tramite lo sfruttamento di altri bambini. A essere gentile e educato, a tratti molto generoso, ma incapace di privarsi del suo benessere». (p. 121)

Nonostante il protagonista si metta costantemente in dubbio e sottoponga sempre la sua identità a una verifica (p. 203), il suo fallimento disvela l’immutabilità delle cose. La struttura circolare del romanzo – che si apre e si chiude con la stessa scena – è emblematica nel dimostrare che tutto resta irrisolto e che continua a riproporsi nello stesso modo: il passato si sovrappone al presente, e si ripete.

Dante e Forese Donati

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Tra le opere in volgare di Dante, dopo la Vita Nuova, vi sono le Rime, di vario tipo, sonetti, canzoni, alcune anche di dubbia attribuzione, che vengono comunque riportate per sicurezza nei vari repertori danteschi. Vi sono in particolare, tra quelle considerate sicure, dei sonetti scambiati con altri poeti coevi con cui il Nostro intratteneva buoni o anche ottimi rapporti. Uno di questi è un certo Forese Donati: egli porta lo stesso cognome della moglie ufficiale (non la sua donna angelicata che tutti sappiamo) Gemma Donati e infatti è suo terzo cugino. Negli anni compresi tra il 1293 e il 1296 (anno della morte di Forese) lui e Dante si scambiano tre sonetti a testa, comincia Dante e finisce Forese, che ha dunque l’ultima parola; come vedrete questi sonetti non sono proprio benevoli, anzi i due si scambiano insulti e insinuazioni sulle reciproche capacità di vario tipo. Forese è chiamato Bicci novel per distinguerlo dal nonno paterno che aveva lo stesso nome. Qui trovate i primi tre sonetti, Dante – Forese – Dante e i seguenti tre domani su La Poesia e lo Spirito, dove, come ogni mese pubblico parallelamente questi ricordi danteschi. Ecco dunque la prima metà della tenzone:

1. Dante a Forese (LXXIII)

Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.
Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ogn’altro mese!
E no·lle val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.
La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi,
ma per difetto ch’ella sente al nido.
Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: «Lassa, che per fichi secchi
messa l’avre’ in casa il conte Guido!».

2. Forese a Dante (LXXIV)

L’altra notte mi venn’ una gran tosse,
perch’i’ non avea che tener a dosso;
ma incontanente dì [ed i’] fui mosso
per gir a guadagnar ove che fosse.
Udite la fortuna ove m’adusse:
ch’i’ credetti trovar perle in un bosso
e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso,
ed i’ trovai Alaghier tra le fosse
legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,
se fu di Salamon o d’altro saggio.
Allora mi segna’ verso ’l levante:
e que’ mi disse: «Per amor di Dante,
scio’mi»; ed i’ non potti veder come:
tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio.

3. Dante a Forese (LXXV)

Ben ti faranno il nodo Salamone,
Bicci novello, e petti delle starne,
ma peggio fia la lonza del castrone,
ché ’l cuoio farà vendetta della carne;
tal che starai più presso a San Simone,
se·ttu non ti procacci de l’andarne:
e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.
Ma ben m’ è detto che tu sai un’arte,
che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,
però ch’ell’è di molto gran guadagno;
e fa·ssì, a tempo, che tema di carte
non hai, che·tti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno.

non occorre stupirsi di questa apparente aggressività: Dante e Forese rimangono buoni amici e tutto questo modo di lanciare invettive è largamente rituale tra la focosa gioventù dell’epoca, e da quel che traspare dalle cronache del tempo focoso Dante lo era assai, soprattutto in politica, naturalmente, nelle continue battaglie tra guelfi e ghibellini e tra Neri e Bianchi, finché proprio dai Neri Dante sarà in malo modo scacciato da Firenze.

La felicità dei mobilifici

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Assieme ad alcuni amici all’inizio del 1990 fondai un giornale che usciva settimanalmente, composizione a piombo, formato da vecchio foglio aziendale, 260 x 325 mm; erano molte, tutt’a un tratto, le potenzialità inutilizzate. Volevamo accompagnare e promuovere la democratizzazione del paese. A metà febbraio uscì il primo numero. Non avemmo bisogno di un capitale di partenza, poiché l’intera tiratura fu venduta molto prima della scadenza della fattura di stampa. Agli annunci inizialmente volemmo rinunciare, lo spazio ci occorreva per cose più importanti.
La sera del 18 marzo, il giorno delle elezioni della Camera del Popolo, ridemmo delle prime proiezioni. Gli occidentali non capivano proprio niente! A poco a poco tuttavia s’insinuò in noi la verità. Il 2,9 per cento al Neues Forum nel risultato definitivo fu uno shock. Adesso potevamo anche chiudere il giornale. Ma in qualche modo dovevamo pur guadagnare dei soldi e tutti ci eravamo già licenziati due mesi prima. L’aspetto più penoso era che adesso erano proprio i «flauti dolci» dei partiti di blocco a festeggiare la vittoria. Non erano forse stati i peggiori leccapiedi? Il nuovo segretario Lothar de Maiziere non aveva forse parlato, ancora in febbraio, di un «socialismo più caloroso»?
Presto non seppi più cosa scrivere. La maggioranza aveva deciso. La logica dei numeri era diversa da quella delle parole. E cosa potevano le parole contro i numeri? Sempre e ovunque era esclusivamente una questione di numeri! E dunque di soldi. Nella primavera 1990 riflettei per la prima volta sul denaro. Era divertente guadagnare soldi come imprenditore, e per i miei parametri era una quantità di denaro inverosimile. Per altro verso avevo paura di indebitarmi fino alla fine dei miei giorni e dover spedire venti dipendenti all’ufficio di collocamento.
Con l’unione monetaria del 1° luglio 1990 fondammo un giornale di annunci. Invece di battermi per la democrazia, presto ebbi a che fare soltanto con mobilifici di nuova apertura e concessionarie di automobili. Annunci a cadenza settimanale, venti per cento di sconto, per lei un altro dieci per cento, buona collocazione, anzi ottima. Dovevo cercare di soppiantare i cosiddetti concorrenti, che avevano assunto la nostra segretaria e possedevano la nostra banca dati clienti, della quale invece noi sentivamo la mancanza. Li odiavo, tutti quei «concorrenti», perché puntavano a minare la nostra esistenza professionale, anzi la nostra esistenza tout court – come noi la loro.
Fino a poco prima avevamo manifestato a voci spiegate: «Democrazia, ora o mai!», «Libere elezioni!», «Libertà di movimento!», «Stasi in miniera!», «SÌ all’educazione popolare, NO a educazione militare, alzabandiera e Margot Honecker!». Nell’autunno 1989 avevo fatto esperienza di come rivendicazione e prassi potessero combinarsi. Era in gioco il volto umano della società, quindi la dignità di noi tutti, un mondo migliore. Ma che aspetto aveva il mio volto, adesso? Deformato dalla rabbia? In preda al panico? Perplesso? Braccato? Quel che facevo giorno dopo giorno non era forse contrario a ciò che ritenevo buono e giusto? Mi ero mai contorto davanti a un funzionario come facevo adesso davanti al proprietario del più grande mobilificio della regione? Che all’improvviso era diventato il re della regione, nella quale, come praticamente ovunque nell’Est, le grandi aziende avevano dichiarato fallimento, perché come c’era da aspettarsi non erano in grado di pagare salari e stipendi in nuovi marchi.
La cosa più strana di tutta la faccenda, però, è che allora non avrei potuto dirlo come lo sto descrivendo adesso. La narrazione della «svolta» andò diversamente. Si parlò di auto-liberazione, di democrazia anziché dittatura, libertà anziché muro, economia di mercato anziché pianificata ecc. ecc. E non era forse vero? Chi sollevava un qualsiasi dubbio, o era un inguaribile passatista o/e era privo di senso della realtà. Uno sguardo verso est, nei paesi fratelli di un tempo, era pur sufficiente a vedere quanto indicibilmente bene ce la passassimo noi tedeschi orientali. E il mondo intero non voleva e vuole forse vivere come noi? C’era o c’è ancora una qualche alternativa apprezzabile alla nostra way of life? E non aveva forse ragione Francis Fukuyama con la sua ristampa de La fine della storia?
I rapporti di forza nel mondo sono mutati dal 1989/90. Le «normalità» di allora, tuttavia, si sono globalizzate e in tal modo consolidate. Esse condizionano e cambiano il mondo ininterrottamente, sono più efficaci della fine del conflitto fra i due blocchi.
Una di queste «normalità» è un economicismo onnipervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato. Pensare qualcosa che non «renda», che non serva alla crescita, che si sottragga al principio McKinsey e alle quote, è un’opzione risicata e marginale. E tutto ciò viene interpretato come fine delle ideologie, come avvento di una politica conforme al mercato e orientata ai vincoli esistenti. Le mire di profitto private sono considerate normali, si ritiene cioè che abbiano un fondamento nella natura umana.
Un’altra «normalità», connessa alla prima, è la coscienza di aver vinto. L’Occidente è il vincitore! Noi siamo i buoni!
[…]
Ripensando a quanto io stesso mi sia lasciato abbindolare da questo economicismo, la cosa mi diverte o mi spaventa, a seconda; credevo di essere passato da un mondo costruito sulle parole a uno fatto ormai soltanto di numeri. E su questa base avevo tentato di descrivere l’impressione che ormai nulla mi avrebbe dovuto legare al mondo a parte il denaro. Tutto il resto era subordinato al denaro (o alla crescita o al Pil o al valore azionario), poiché sembrava che con il denaro si potesse fare tutto, nel bene e nel male.
Come giovane imprenditore nel 1990 ricevetti benevole pacche sulle spalle: anche tu ce la puoi fare se ti ci metti d’impegno e ti rimbocchi le maniche. Ma fare cosa? Arrivare in alto, ai soldi e al riconoscimento! Mi sentivo rigettato nella felicità privata, mentre si sarebbe dovuto trattare della felicità di tutti. L’idea, se non addirittura la pretesa che la mia felicità fosse legata alla felicità altrui, che non potessero darsi indipendentemente l’una dall’altra, era contraddetta dalla mia pratica quotidiana. La mia felicità era l’infelicità degli altri. E la felicità degli altri la nostra infelicità. Quella nostra lotta, tuttavia, che cos’era? La felicità dei mobilifici e delle concessionarie? E non approfittavamo forse noi stessi della concorrenza fra le tipografie? Non volevamo scegliere anche noi la migliore di tutte? Insomma, questo sistema non è forse il migliore per tutti?
Assolutamente no! Basta anche solo la constatazione per cui il 60% dei danni ambientali provocati dalla popolazione della Svizzera si trova al di fuori dei confini di quel paese. Per la Germania non sarà tanto diverso.
Se compriamo un computer o un cellulare, di solito conserviamo la confezione oppure smaltiamo il polistirolo nel bidone giallo e il cartone in quello blu, e prima o poi il computer finisce in quello arancione. Ma ciò che è stato necessario per ottenere le varie materie prime per questi oggetti, ciò che è occorso per raccoglierle, assemblarle eccetera, tutto questo si sottrae al nostro sguardo, come anche il percorso degli stessi oggetti una volta richiuso il coperchio del bidone.
Questo significa: sì, abbiamo paesaggi floridi perché abbiamo chiuso e rottamato o venduto i nostri vecchi impianti industriali più inquinanti. Non siamo più noi a dover inghiottire lo sporco, ce lo possiamo permettere, adesso lo inghiottono altri. Per questo la nostra aspettativa di vita è anche più elevata, se poi si è benestanti lo è ancora un po’ di più.
Nel racconto Vecchio scorticatoio di Wolfgang Hilbig si legge: «Era strano che si corresse il rischio di cadere fuori dal mondo se ci s’interessava delle cose più semplici… e magari persino il rischio di sparire dal mondo. Era come se anche gli oggetti più semplici, se solo vi si rifletteva abbastanza a lungo, si estendessero fino alle profondità sotterranee, come se fossero legati con una fibra della loro essenza al male nascosto».
Ciò che Wolfgang Hilbig coglie nel suo valore universale è un’esperienza che ognuna e ognuno di noi può fare ogni giorno, è il doppio fondo delle cose. A volte è sufficiente prendere coscienza delle condizioni in cui vengono prodotti i nostri alimenti. Da lì si può proseguire considerando le condizioni di produzione del cotone della mia camicia e quelle in cui viene cucito il tessuto – per non parlare delle materie prime e dei prodotti di cui necessita la nostra way of life giorno dopo giorno, ora dopo ora. Il bel mondo della nostra merce è sorretto nel profondo da un lavoro massacrante e non troppo diverso dal lavoro schiavile. Basta grattare un poco la superficie – a volte di più, a volte di meno – ed ecco che inizia il viaggio all’inferno.
Se oggi dovessi nominare una delle nuove contraddizioni fondamentali del capitalismo, senza considerare superate quelle esistite finora, forse la definirei il fenomeno dell’89: credersi i vincitori indiscussi della Storia, benché in tutto il pianeta si producano condizioni insostenibili.

 

NdR: È da poco uscito per Marietti 1820 La felicità dei mobilifici, una piccola raccolta di interventi di Ingo Schulze curata da Stefano Zangrando. Pubblichiamo qui un estratto dal primo testo del libro, ringraziando la casa editrice e Zangrando.

Da “Betelgeuse e altre poesie scientifiche”

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[Circola un’arietta leopardiana, ironica e frizzante, a tratti glaciale, nell’ultimo libro di Franco Buffoni, BETELGEUSE e altre poesie scientifiche, Mondadori, 2021. Un’arietta rara nei libri di poesia contemporanea, e che non ha a che fare con aggiornamenti poetici dell’ultimo quinquennio sul concetto di antropocene e brutture climatiche all’orizzonte. Ma con un dialogo tra poesia e scienza di lunga data. A. I.]

di Franco Buffoni

Tardigradi

  

I tardigradi visti in fotografia

Somigliano ad orsetti bruni

Ma sono di gran lunga più piccini,

Invertebrati d’un millimetro

Provvisti di otto zampettine

Adatti alle più estreme condizioni.

Si sono schiantati sulla Luna

Nell’aprile diciannove

Col relitto israeliano

Dell’Arch Mission Foundation.

Tutto distrutto, tranne loro

Pronti a resistere nel vuoto

Deponendo uova e magari chissà

A riprendere il volo

Sopra un carro di fuoco

Lasciando la porta socchiusa per Elia.

*

La superficie del Sole

 

È come un alveare la superficie del sole

E le sue celle continuano a mutare,

Emergono infuocate e si massificano

Raffreddandosi

Poi ripiombano nel nucleo

Mentre altre risalgono

Inarrestabilmente

Da cinque miliardi di anni

E si prevede per altri quattro almeno.

Ogni cella grosso modo

Grande come la Francia.

L’Italia accanto.

*

Angelo mio

 

Perché a velocità diverse le galassie

Si muovono nello spazio?

Dipende dalla forma, quelle a spirale

Come la Via Lattea sono più veloci,

Ci spostiamo a seicento chilometri al secondo

Lasciando al palo le galassie ellittiche.

A questo però dobbiamo aggiungere

I settecentomila chilometri all’ora

Di traslazione del sistema solare

E anche i centomila del nostro girare

Attorno al Sole. Se stai fermo

Somigli a un sonetto

Così sembri un colosseo sforacchiato

Sembri due angioletti di raffaello

Ora che stai

Per fermarti.

*

Crinoline di criolite

Per combinazione si è formata la Groenlandia,

Proprio al limite di qua

E proprio al limite di là,

Ultima terra dei danesi

Più vicina agli americani.

Con lo Jutland occupato

Fece gola ai tedeschi

Per quel complesso d’alluminio fluoro e sodio

Che era la criolite delle miniere di Ivittuut,

Essenziale per gli aerei da combattimento.

Così gli Yankee presidiarono la baia

Impedendo ai Kraut di sbarcare

E Ivittuut conobbe la ricchezza del commercio

E delle bare. Di chi muore in miniera.

Perché la criolite è tossica e inodore.

Oggi Ivittuut è la città-fantasma

Delle miniere abbandonate

Attonite a fissare il mar di Labrador

Come crinoline di Burano

Imprigionate nel museo del merletto.

*

Homo erectus

 

Quando un milione e mezzo di anni fa

Si insediarono nell’isola di Giava

Certamente quei nonni non pensavano

Che a mantenersi in vita pescando

E andando a caccia,

Qualche funerale con relativa sepoltura

E ben chiaro il need della replicazione.

Poi la simbolica rappresentazione

Della cognizione del dolore

Su frammenti d’ocra e uova di struzzo

Non lascia dubbi sull’evoluzione

Delle loro capacità cognitive.

Come per gli utensili in pietra

Dirozzati nel tempo per divenire più efficienti

Anche i motivi incisi per decorazione

E segnalazione d’appartenenza

Si affinano col passare dei millenni

Fino al design del nostro

Avanzato antropocene

Che non vede l’ora di tornare

A quei frammenti d’ocra

E di uova di struzzo. E a cacciare

E a pescare.

*

Dentro il cantiere

Dentro il cantiere del nuovo aeroporto

Di Città del Messico

Nell’antica conca lacustre prosciugata

Tre mammut si stanno dissetando

Da ventimila anni.

Incapaci di muoversi nel fango

Incastrati coi piccoli da lance

E frecce aguzze

Quei proboscidati

Furono preda dei locali

Il cui cimitero sorge accanto

Con i resti nei loculi

E gli uccelli in creta

Per il viaggio nell’aldilà.

Prima che dal mare arrivasse Cortés.

*

Antichi vizi

 

Non è solo da centocinquant’anni

Che con il cosiddetto antropocene

È avanzato il lavorìo sul clima.

Da prima, molto prima…

Sono almeno diecimila anni,

Dalla fine dell’epoca glaciale

Che qui in Europa ci stiamo provando.

Da quando, con il clima più umido e piovoso

Cominciammo a riprodurre il cibo

Allevando piante ed animali,

Bruciammo uno dopo l’altro

Ogni pezzo di foresta disponibile

Immettendo sempre più Co2 nell’atmosfera.

Certo oggi i nostri derivati

Nel continente sudamericano

Non ascoltano quando gli diciamo:

Per favore, siate saggi, fermatevi,

Non fate come noi che predichiamo.

 

 

 

 

Il blu di Geneviève Asse

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Geneviève Asse, Ligne bleue, 1969

«Fenêtre atlantique», 1990, huile sur papier
«Fenêtre atlantique», 1990, huile sur papier

 

di Ornella Tajani

Si può scoprire molto di Geneviève Asse leggendo Un été avec Geneviève Asse (Éditions L’Échoppe, 1996), una lunga intervista che l’artista francese concede a Silvia Baron Supervielle nel corso dell’estate 1995. Poco nota in Italia, la sua opera pittorica è fatta prevalentemente di sfondi azzurri e blu di ogni sfumatura, in cui spesso sopraggiunge una linea a tracciare un orizzonte, o a dividere lo spazio, come lei stessa spiega in questo piccolo libro: a dare cioè il senso dell’essere umano in precario equilibrio al suo interno.

Nata in Bretagna – dai cui colori è chiaramente segnata sin dall’infanzia, e dove ritornerà anziana, difatti l’intervista si svolge sull’Île aux Moines -, Asse sarà volontaria della Croce Rossa durante la guerra; entrerà nella baracca del campo di concentramento di Theresienstadt dove pochi giorni prima era morto il poeta Robert Desnos, che lei aveva incontrato nei bar parigini frequentati da entrambi; lavorerà in atelier collettivi sempre in maniera autonoma, quasi un essere appartenente a un’altra dimensione, come emerge da ciò che ne racconta; incrocerà sul suo percorso molti pittori celebri, come Braque, De Staël, Morandi e altri; collaborerà con vari poeti, di cui illustrerà le opere: Beckett, Frénaud, André du Bouchet, Bonnefoy. Per lei la pittura e ancor più l’incisione sono forme di scrittura: e nella sua opera non si può non riconoscere una precisa poetica, ricca di interesse e fascino.

Geneviève Asse, Ligne bleue, 1969

 

Geneviève Asse ha oggi 98 anni, Supervielle – scrittrice e traduttrice – una decina di meno: questo libro-intervista offre a chi legge la possibilità di trascorrere delle giornate – che si immaginano fresche e inondate di sole – con due donne che hanno attraversato il Novecento, alla scoperta di una splendida artista.

Presento di seguito alcuni estratti tradotti del testo, ancora inedito in italiano: i primi riguardano gli anni della formazione, i secondi sono dedicati al rapporto dell’artista con il blu.

___

18 luglio

[…]

Stava fiorendo in lei la pittura, insieme ad altro. Parigi era occupata…

Quando sono entrata alla scuola di arti decorative ho preso la carta dell’UNEF, che era un movimento molto attivo. Cercavo di fare qualcosa contro gli invasori. Con i miei compagni e i nostri mezzi. Stavamo male nel vedere i tedeschi. Ne abbiamo sofferto. Prima, nel maggio 1940, per non vederli ci eravamo messi in viaggio per Saint-Georges-de-Didonne, dove il mio patrigno aveva una casa. Ci andavamo a piedi o in camionetta, mentre gli aerei ci mitragliavano; ci accampavamo dove capitava. La gente scappava; gli ebrei tentavano di raggiungere la Spagna. Facendo un passo indietro bisogna dire che non avevamo accettato di vedere la Francia sconfitta, i soldati francesi allo sbaraglio e senza nessuno al comando. Fu in quel momento, credo, che sentii il desiderio di agire: mi ero sentita umiliata. D’altronde non arrivammo a Saint-Georges. La casa era stata occupata dalla Kommandantur tedesca e fummo cacciati… A Parigi eravamo privati di tutto, ovviamente, e facevamo code interminabili per un pezzo di pane, coi piedi nella neve.

«Horizon», 2007, huile sur toile

 

Aveva contatti con dei pittori?

A scuola vedevo alcuni artisti, come il pittore Messagier o Courtin, l’incisore. Anche degli architetti. Stranamente i maschi stavano da una parte, le femmine dall’altra. Ci incrociavamo all’uscita. I corsi di anatomia, di urbanismo mi sono serviti molto. Grazie a quegli insegnamenti ho realizzato in seguito alcuni progetti, dei bozzetti per tappeti, e tappezzerie, vetrate.

Aveva iniziato a dipingere?

Sì, facevo dei quadri non molto grandi. Li presentavo al Salon riservato ai minori di trent’anni; nella giuria c’erano pittori come Braque, Villon o altri. I mercanti d’arte ci venivano a caccia di nuovi artisti. Ma io non avevo uno studio; lavoravo in un piccolo ufficio, non riscaldato, che apparteneva alle edizioni Delalain. Le prime tele furono dei paesaggi, e soprattutto nature morte. Poi, nei caffè di Montparnasse, conobbi un gruppo di giovani pittori; mi invitarono a condividere il loro studio, in rue de la Grande-Chaumière; per entrarci bisognava usare una scala a pioli. Così il gruppo scelse di chiamarsi L’Échelle. Lo studio somigliava a una soffitta con degli alti lucernari. Facevamo venire i modelli, ognuno contribuiva alle spese di carbone per la stufa o altro.

Nature morte aux pots, c. 1950, huile sur toile

 

Ha fatto parte di questo gruppo?

Condividevo il loro spirito e ci frequentavamo nei caffè. Ma non mi sono integrata davvero e non ho partecipato alle loro mostre. Restavo in disparte; qualcosa mi tratteneva. Sono sempre stata ai margini.

È un destino?

Il gusto della libertà. Sono sempre stata libera, libera da tutto, sia nella vita in famiglia, privata, sia nella mia vita di pittrice. Libera nelle mie idee, quali che fossero. In realtà ero andata allo studio dell’Échelle perché Othon Friesz me l’aveva consigliato. Si preparavano nature morte che ognuno interpretava a modo suo. Io, in un angolo, facevo altro usando delle scatole: costruivo il mio mondo, mi lasciavano tranquilla. Ogni artista ci andava quando voleva; io ero molto assidua. Nel quartiere capitava di incontrare Zadkine, André Marchand, Tal-Coat e la moglie Broncia, Grüber ecc., c’erano varie gallerie. Lavoravo e andavo dappertutto.

C’era un pittore che ammirava in modo particolare?

Ammiravo moltissimi artisti che non erano necessariamente contemporanei. In maniera inconscia forse ne seguivo uno, perché quando ho iniziato tenevo nel portafogli la riproduzione del vaso blu di Cézanne.

“Ouverture de la nuit”, 1973

 

Era naturale, per lei, essere una artista donna?

Non ho mai pensato che ci fossero artisti e artiste. Non mi sono mai occupata di questo. Io dipingevo e basta. Tutto lì. Sapevo di essere un’artista molto prima di entrare alla scuola di arti decorative.

[…]

Geneviève Asse, «Écriture», 1991, Huile sur toile

 

20 agosto

È giunta l’ora di evocare il colore che circola intorno a noi oggi, sull’Île aux Moines, e che lei ha catturato nei suoi pennelli. Il blu, naturalmente…

Il blu è venuto a me in maniera spontanea. Ce n’è sempre stato nei miei dipinti, ma è aumentato a partire dagli anni ‘70. È venuto a cercarmi, poi si è diffuso in modo graduale. Inizialmente si è trattato di blu d’ogni tipo, poi d’un blu ben preciso che credo mi appartenga davvero. Ho trovato poco a poco il mio blu. Avevo utilizzato blu scuri così come blu chiarissimi, prima di arrivare a questo blu personale, che mescola grigi e altri blu.

«Rivage», 2008, huile sur toile

 

È stato battezzato il blu Asse…

Ma in realtà continua a trasformarsi. A volte torno verso tonalità cupe o chiare, ma la base del mio blu resta.

Non riesce più a separarsene…

Viaggio con i miei blu, in cui ritrovo la trasparenza. Ci sono blu cristallini, madreperlacei, e dei blu veri e propri: oltremare, cobalto. Sono gamme che mi piace maneggiare. Mi sento tutt’uno con questo colore.

Al suo interno ha trovato il centro dello spazio.

In qualche modo sì. Gli antichi trovarono il loro blu nell’arte della vetrata, della ceramica. Io l’ho trovato nella pittura. È un sentimento di profondità e speranza riunite, è le due cose insieme. Non è solo un colore o un sentimento. È un linguaggio.

«Trace stellaire», 2001, Huile sur toile

 

Da quando ha scelto di dedicarsi al blu mi sembra che dipinga in maniera ancora più sottile e densa, che la sua pienezza abbia preso tutto.

C’è una sorta di pace. I blu si armonizzano con il gesto e la materia. Il colore mi guida; si spande e il mio lavoro si sviluppa di conseguenza. Con il blu supero i formati. Non raggiungo il cielo, ma una dimensione più vasta.

Spirituale?

C’è anche questo, sì. Ma parliamo sempre di pittura. È la pittura che domina, aiutata da ciò che abbiamo dentro. Una volta qualcuno mi ha detto: «Lei dipinge l’anima». La cosa mi colpì.

[…]

«Verticale lumière», 2002, huile sur toile

Umanesimo e engagement ( Riflessioni su un aforisma di Julia Hartwig)

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di Lorenzo Pompeo

È ridicolo parlare quando tutto crolla
il mondo sotto la minaccia di esplosione si restringe
intorpidendosi
e il mito universale ha perso il suo smalto come non mai.
Siamo tornati alle tribù e alle guerre di religione.
O ridicolo umanista, che lacrime di coccodrillo
versi sulla perdita della memoria.
Eppure ti dico che non ci sono nuove ricette
e che ciò che è più grande di noi – è sempre stato
quello che rende vita la vita.
Se deve essere degna di questo nome.”(1 )

L’aforisma in questione è tratto da una raccolta del 2002. All’epoca la poetessa, che nel 1996 aveva perso il suo amatissimo marito, il letterato Artur Międzyrzecki, anche per superare questo grave lutto, si era dedicata in modo sempre più intenso alla scrittura poetica e alle proprie memorie. Nelle raccolte di questi ultimi anni, la Hartwig concepì un nuovo approccio al testo poetico, esplorando forme di scrittura a metà strada tra la prosa e la poesia (come, per l’appunto, i Lampi dell’omonima raccolta, da cui abbiamo tratto l’aforisma). Czeslaw Miłosz, (premio Nobel nel 1980 scomparso nel 2004), fu tra i primi a notare e apprezzare, in un breve scritto del 2001, lo stile laconico raggiunto dalla poetessa attraverso un processo di “chiarificazione” che l’aveva portata al raggiungimento di una forma “pura” (2).

Proprio mentre mi accingo a scrivere, un partito sovranista ha ottenuto in Polonia un chiaro successo nelle elezioni politiche. Pochi giorni prima una scrittrice polacca, Olga Tokarczuk, apertamente schierata con l’opposizione, ha ricevuto il premio Nobel. Dalla pubblicazione del testo della Hartwig sono passati diciotto anni, un arco di tempo nel quale il fenomeno del cosiddetto “sovranismo” si è imposto nella politica e nei media. Evidentemente è un intero paradigma, un modello culturale a essere messo in discussione: l’umanesimo eurocentrico e l’engagement della letteratura. L’umanista, nella sua pretesa di offrire risposte alle sfide del mondo contemporaneo attraverso il culto della memoria e del passato, secondo quanto scrive la Hartwig, ormai appare come una figura ridicola e a dichiararlo è una persona che aveva assistito agli orrori dell’occupazione tedesca (nella sua Lublino, che nel 1932 contava 112.000 abitanti, fu creato già a partire dal 1939, uno dei più grandi ghetti della Polonia, nel quale furono concentrati circa 40.000 ebrei, successivamente inviati nei campi di sterminio, tra cui quello di Majdanek, a pochi chilometri dalla città).

“Il mito universale ha perso smalto come non mai”.

È la mancanza di punti di riferimento comuni, di un orizzonte ideale condiviso. Mancanza che le “belle lettere” non possono colmare. È il senso stesso del poetare a essere messo in discussione:

È ridicolo parlare quando tutto crolla
il mondo sotto la minaccia di esplosione si restringe
intorpidendosi.

Questa diagnosi, dalle forti implicazioni politiche, può essere considerata il punto di arrivo di una riflessione sul ruolo del poeta e sul senso della poesia che attraversa tutta la letteratura polacca dall’immediato dopoguerra fino ai giorni nostri.

Nata a Lublino nel 1921, durante gli anni della guerra la Hartwig fece la staffetta della resistenza. Nel 1940 si trasferì a Varsavia, dove frequentò l’università clandestina. Alla fine della guerra, si iscrisse prima alla facoltà di romanistica dell’Università cattolica di Lublino e poi a quella di Varsavia, che in quegli anni aveva traslocato a Cracovia, divenuto il centro della vita intellettuale del paese. Abitò nella celebre Casa dei letterati di Via Krupnicza (dove visse anche Wisława Szymborska tra il 1948 e il 1963). Qui conobbe anche Czesław Miłosz (che fu suo un amico ed estimatore, mentre lei, da parte sua, lo considerò sempre il suo punto di riferimento ideale), il quale vi era giunto dopo aver assistito alla distruzione di Varsavia – cui il futuro premio Nobel dedicò una famosa poesia:

 

Che fai, poeta, sulle macerie
Della cattedrale di San Giovanni
In questo giorno di primavera?

Che pensi qui, dove il vento
Che soffia dalla Vistola sparge
La rossa polvere delle rovine?

Giurasti che mai saresti stato
Una prefica.
Giurasti che mai avresti toccato
Le piaghe del tuo popolo,
Per non trasformarle in santità.
La maledetta santità che perseguita
Nei secoli seguenti i posteri.

Ma questo pianto di Antigone,
Che cerca il fratello
Vince davvero la misura
Della sopportazione. E il cuore
È una pietra, e come un insetto
Vi è racchiuso l’amore oscuro
Per la più infelice delle terre. (..)”(3)

 

Alla figura di Antigone Miłosz dedicò anche un omonimo frammento poetico scritto a Washington D. C. ma successivamente dedicato “Alla memoria degli operai, degli studenti e dei soldati ungheresi”, nel quale l’autore immagina un dialogo tra la protagonista e sua sorella Ismene. È un atto di accusa indirizzato contro il regime comunista, (dal quale l’autore aveva definitivamente preso le distanze) accusato di avere infangato e perseguitato i partigiani dell’Armia Krajowa (la maggiore organizzazione della resistenza polacca che aveva organizzato la sfortunata Rivolta del 1944 a Varsavia e che fu ferocemente avversata dal neonato regime comunista). Alle accuse di Antigone, Ismene così replica: “Si può arroventare con le parole il dolore nella fiamma, / chi tace non soffre meno, forse di più”.  Cui Antigone risponde: “Non solo parole, Ismene, non solo/ Creonte non costruirà il suo stato / sulle nostre tombe. Non consoliderà / Qui il suo ordine con la forza della spada. / Grande è il potere dei morti. Nessuno / Ne è al riparo. Se anche si attorniasse / D’una torma di spie e di un milione di guardie, / Essi lo raggiungeranno. Attendono l’ora”. (4) Ma si tratta di un atto di accusa che assume un significato più vasto, se messo in relazione al contesto storico. Si tratta di un testo che risale al 1949 ma pubblicato molto più tardi. Un frammento poetico coerente con la presa di posizione dell’autore nella Prefazione alla raccolta Ocalenie (5) (in it. “Salvezza”), scritta sempre a Cracovia nel 1945, nella quale Miłosz si chiedeva:

 

“Cos’è la poesia che non salva
I popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
Una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola.

Una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
Questo, e solo questo è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
Per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.
Depongo qui questo libro per te, o trascorso,
Perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci. (6)”

 

La figura di Antigone rievocata da Miłosz aveva una valenza non solo in relazione alla tragica Rivolta di Varsavia. Indirettamente prendeva di mira anche la versione  dell’umanesimo sovietico, concepito come antitesi alla “barbarie nazifascista”, che trovò un’immediata traduzione in quel particolare stile architettonico “neoclassico monumentale” con cui vennero ricostruite le capitali degli stati entrati nell’orbita del Patto di Varsavia, con le sue colonne di marmo, i capitelli e i fregi marmorei nei quali sono ritratti operai, contadini e minatori al lavoro.

Negli Stati Uniti, dove Czesław Miłosz insegnò nelle università di Harvard e Berkeley, la sua poesia cambia radicalmente:

 

Ars poetica?

“L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile restare la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave,
e ospiti invisibili entrano ed escono.

Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia.
Perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.(7)

 

I morti che si contendevano la sua penna hanno lasciato il posto a un daimon:

“Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse
sbattiamo gli occhi come se fosse balzata fuori una tigre
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon (8)”

Daimon che, malgrado le apparenze, appare assai più mite e meno esigente dei morti di Varsavia.

Nel mondo diviso della Guerra fredda, il poeta aveva fatto la sua scelta, che aveva pagato con l’esilio e il bando dal proprio paese (dove la censura vietò persino il suo nome). Il poeta polacco esule, così come lo furono i grandi del romanticismo, ha però avuto almeno la possibilità di tornare al proprio passato con un certo ironico distacco (in Sovrano d’Albania, nel 1972, scrisse “ Il mio debito forse è già stato pagato / E ho fatto quanto potevo per la mia lingua / Sapendo che ne avrei avuto in cambio silenzio? / Piccolo, sempre più piccolo. Pigmeo, sempre più pigmeo. / Divenni il gran poeta del reame d’Albania / E il sorriso della dama di corte, la benevolenza del reggente / Sarebbero oggi, ahimè, un premio tardivo (9)” .

Ma per chi aveva scelto di rimanere in patria le cose erano andate in modo molto diverso. Qualche mese dopo il celebre discorso segreto di Nikita Chruščëv al XX congresso del PCUS (febbraio 1956) nel quale venne denunciato il “culto della personalità” di Stalin, cominciò la stagione del disgelo. Grazie alle timide aperture riformiste si affacciò sulla scena letteraria una nuova generazione di poeti, di cui fece parte la stessa Julia Hartwig (che debuttò proprio in quell’anno con la raccolta Pożegnania – in it. “gli adii”(10)), anche se sicuramente il più celebre, la figura più carismatica di questa generazione, fu Zbigniew Herbert (nel frattempo Wisława Szymborska, nel 1957 pubblica Wołanie do Yeti, – in it. “Appello allo yeti”11 – il suo primo tomo estraneo al realismo socialista).

L’invasione della Cecoslovacchia dell’agosto ‘68 segnò la fine della stagione del disgelo in tutti i paesi del Patto di Varsavia. I giovani poeti polacchi avevano dato vita in quegli anni a un raggruppamento informale, la Nowa fala, nel quale la protesta nei confronti del regime comunista, l’impegno nel denunciarne gli abusi e le false premesse sociali e ideologiche, divennero i temi principali. Uno dei leader di questo raggruppamento, Ryszard Krynicki, dedicò a Zbigniew Herbert una poesia:

Lingua, carne selvatica:

Lingua, carne selvatica che cresce in una ferita,
nell’aperta ferita di una bocca nutrita di una verità bugiarda,
lingua, cuore denudato che pulsa all’esterno, nuda lama
che è arma inerme, bavaglio che soffoca
vinte insurrezioni di parole, belva ogni giorno domata
con denti umani, inumanità che dentro ci cresce e
ci soverchia, belva nutrita con la tossica carne del corpo,
sdoppiamento accerchiante, vera menzogna che adesca,

bambino che imparando il vero, davvero mente.(12)

 Il poeta si fa portavoce della rabbia di una generazione di giovani che non avevano vissuto direttamente gli orrori della guerra e che non sentivano più alcun debito nei confronti di quella tragedia, e avevano trovato nella militanza contro il regime comunista la ragione fondativa della loro poesia.

Nella sua celebre risposta, la Lettera a Ryszard Krynicki, Herbert si chiedeva:

“Ci siamo caricati sulle magre spalle i problemi pubblici
la lotta contro tirannia menzongna le trascrizioni della sofferenza
con avversari – ammettilo – miserabili e meschini
valeva la pena di abbassare la sacra lingua
al bla-bla della tribuna alla nera schiuma dei giornali?

Nessuno di noi ha saputo destare la driade del pioppo
leggere la grafia delle nuvole
perciò l’unicorno non seguirà le nostre orme (13)”.

I frequenti riferimenti al rinascimento italiano e più in generale ai valori dell’umanesimo furono per Herbert non solo una via di fuga verso un mondo precluso al suo paese dagli accordi di Yalta, ma anche un modello ideale contrapposto in modo radicale all’umanesimo sovietico (a cui ormai in Polonia da tempo non credeva più nessuno). Ridurre il mondo poetico di Herbert a una scelta di campo ideologica è mortificante e limitativo, tuttavia è un dato di fatto che l’Occidente umanista e razionalista, il modello a cui il poeta guardava, si trovava al di là della Cortina di ferro.

Punto di svolta nel rapporto tra gli intellettuali e il regime fu la List 59, la lettera di protesta redatta a Varsavia nel 1975 negli ambienti dell’opposizione democratica – nella quale si rivendicavano libertà religiose, di parola e di opinione. Tra i firmatari, oltre a Herbert e ai poeti della Nowa fala, vi era anche la Szymborska e la Hartwig, che era appena tornata in Polonia da un lungo soggiorno negli Stati Uniti (tra il 1971 e il 1975 aveva insegnato presso la Drake Univestity, nell’Iowa).

Con l’89 cambia tutto.

Nel 1993 Miłosz tornò definitivamente in Polonia e si stabilì a Cracovia. Nel 1996 venne assegnato il premio Nobel a Wisława Szymborska. La quale dichiarò che, se fosse stato in suo potere, lei lo avrebbe assegnato a Zbiegniew Herbert. Tutto sembra risolto per il meglio: a Cracovia risiedono due premi Nobel, la Polonia è ammessa nella NATO nel 1999 e dal 2004 nell’Unione Europea. Questo è il contesto nel quale è stato scritto l’aforisma dal quale siamo partiti. Se messo in relazione a tale contesto, appare come un vero e proprio “fulmine a ciel sereno”, che proietta una luce sinistra sul decennio successivo, annunciando la fine di del paradigma culturale dell’engagement umanista (non quello di marca sovietica, bensì quello di marca “occidentale”) che aveva rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per l’intellighenzia polacca.

Cosa rimane dopo il tramonto dell’umanesimo? La chiusura dell’aforisma non offre risposte rassicuranti, ma quantomeno offre un’indicazione che apre un qualche spiraglio:

Eppure ti dico che non ci sono nuove ricette
e che ciò che è più grande di noi – è sempre stato
quello che che rende vita la vita.

Il senso della vita consiste proprio nel tuffarsi in questo tempo inafferrabile, che sembra scivolare via proprio perché privo di punti d’appoggio e ideali maniglie a cui afferrarsi, cercando di guardare con i nostri occhi, orfani di maestri ormai sepolti, attraverso la trama e l’ordito della nostra epoca.

1 Lampi, pubblicata in Italia da Scheiwiller nel 2008, p. 125 (la traduzione è di Francesco Groggia per la collana diretta da Alfonso Berardinelli).

2Si veda in proposito l’introduzione a Lampi Parlando non solo a sé stessa. Nota su Julia Hartwig, di Francesco Groggia, a p. 8.

3  Trad. di Pietro Marchesani, in Czesław Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano 1983, pp. 39-40.

4 Citazioni tratte da: Ibidem, pp. 141-144.

5 Czesława Miłosz, Ocalenie, Spółdzielnia Wydawnicza Czytelnik, Varsavia 1945.

6 Czesław Miłosz, Poesie, Op. cit., p. 41.

7 Ibidem, p. 119.

8 Ibidem, p. 118.

9 Ibidem, p. 133.

10 Julia Hartwig, Pożegnania, Czytelnik, Varsavia 1956.

11 Wisława Szymborska,  Wołanie do Yeti, Wydawnictwo literackie, Cracovia 1957.

12  In: «Nowa fala» Nuovi poeti polacchi, a cura di Giorgio Origlia, Guanda, Milano 1981, p. 107.

13Tratta da: Zbigniew Herbert, Rapporto dalla città assediata, traduzione e cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1993, p. 184-185.

L’unica lezione che la vita mi ha insegnato

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di Martino Costa

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo Trash di Martino Costa, Pessime idee edizioni 2021, finalista al Premio Calvino 2020).

***

È una sensazione davvero strana e non sono sicuro che sia così per tutti, eppure credo non sia molto diverso, o no? La vita, dico. Non è così un po’ per ciascuno di noi, che ci sei tu e poi c’è la vita? E non è che sia la stessa cosa, proprio per niente. Quando mi iniettavo l’eroina per esempio, questo concetto era così chiaro che non c’era bisogno di alcuna spiegazione. È quando sono lucido che le cose si complicano, i contorni non sono più così netti, tutto si confonde e non capisco più nemmeno dove finisce il dolore degli altri e dove comincia il mio. Presto mi manca il respiro persino, come se l’aria dovessi litigarmela con tutto l’universo e non ce ne fosse abbastanza per tutti. Devo inspirare con urgenza, quasi con violenza, per non farmela strappare. Come nelle riunioni del sindacato. Sembra una cosa idiota, a dirla tutta. Siamo lì a tirare con forza per i nostri diritti, che in fondo sono come l’ossigeno, e dall’altra parte della fune c’è il resto del mondo. E mi chiedo ancora una volta: dove finisce il nostro dolore, e dove comincia quello degli altri? E so bene che la colpa è di quella cagna bastarda che mi accompagna da mattina a sera. È lei che mi tira fuori con foga da casa e mi fa andare a un passo molto più svelto di quel che vorrei. È lei che mi sprona ad alzarmi, a confrontarmi, che mi fa sbattere contro cose e persone. A me in fondo basterebbe così poco: quel tanto di ossigeno, di acqua e di calorie a tenermi in vita; una coperta per le notti gelide, i miei occhi per osservare e una buona droga a farmi compagnia. Sarebbe così semplice. Mica andavo in giro a disturbare nessuno, no no. E invece, sai come si dice: i fatti della vita, appunto. Che se uno si limita a farsi gli affari suoi tutto fila liscio come l’olio. È quando ti tirano in mezzo a mille cose che non avresti nemmeno voluto sentir nominare che tutto si mescola e si complica.

Io alla fine, mi son ripulito. Adesso prendo cose legali: una ricetta medica, un salto in farmacia, e son tutti contenti. Però non è più come prima. Solo mi son detto: a far dentro e fuori dalla galera non mi va.

Dentro si sta uno schifo: prima ti arrivano le botte, poi ti arriva la rota e alla fine, quando credi che in fondo ci potresti pure vivere lì, ti risbattono fuori con un calcio nel culo. E di nuovo sei in strada, di nuovo a cercare chiarezza e semplicità. Ma niente, proprio niente è chiaro e semplice in questo mondo. Ecco forse questa è l’unica lezione che la vita mi ha insegnato. Sarà che ho la testa dura. In fondo deve essere per quello che mi scrivo le parole che non conosco su un taccuino. Così almeno apprendo ogni giorno qualche cosa di nuovo, e mi si aprono nuovi orizzonti. Faccio bene? Mah, non lo so. Ieri ho imparato la parola “vorace”. A quarantotto anni. Che miseria. La cosa buffa è che io non ho mai fame e mangio perché è ora, mica per altro, forse è per quello che non ne conoscevo il significato. Eppure non mi pare che a imparare cose nuove la vita si arricchisca, direi anzi il contrario: si restringe fino ad appiccicarmisi addosso come un goldone. Io do la colpa al Lexotan, che non è abbastanza forte. È una mezza sega di droga, a essere sinceri. Così alla sera non è più un cane cencioso che lascio fuori sullo zerbino, ma la mia stessa pelle, che appendo a un gancio e per qualche istante rimango a fissarla immobile, mentre ciondola lentamente e sgocciola. Ne provo ribrezzo. Rientro di fretta tra le mie quattro mura, accendo la televisione e un poco mi assopisco in quell’atteggiamento di ricezione passiva e indolore. Bevo il mio tè ed è un piacere sentire il calore scendere per la gola e depositarsi nello stomaco. Mi disturba solo il fatto di dover pisciare subito dopo. Avevo persino pensato a delle soluzioni da ottuagenario per evitarmi la scocciatura di alzarmi e raggiungere il gabinetto. Poi ho desistito perché trovavo la cosa indecorosa, il che mi ha stupito, e di nuovo ho dato la colpa al Lexotan, o meglio ai suoi deboli principi attivi.

Per il resto non posso lamentarmi troppo. Ho una casa di trenta metri quadri tutta per me, fin troppo. Ho uno stipendio che sarebbe da fame, se avessi qualcuno da mantenerci, oltre me.

Le mie esigenze sono contenute. Sono pelle e ossa, non bevo e non mi drogo più. Il Lexotan me lo passa lo Stato e io sto una bellezza. Mangio come un criceto, e mi compro magliette da mezzo euro al mercato dei sudamericani. Solo non riesco a far pace con la mia vita. Sta lì mi guarda, ammicca a volte e sembra portarmi per strade che mai avrei voluto percorrere, verso luoghi che mai avrei voluto visitare.

La pienezza di una storia, la fragilità di una vita. Su Le stelle vicine di Massimo Gezzi.

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di Marco Nicastro

Quando sulla quarta di copertina, sulle fascette promozionali, in estratti da recensioni leggo, relativamente ad un libro, frasi del tipo “non lascia scampo”, “tocca corde profonde”, “autore che come nessun altro” e simili, non posso non approcciarmi alla lettura con un pregiudizio negativo. Non mi piacciono infatti quasi mai le espressioni assolute, men che meno quando riguardano l’ambito dell’arte, ancora di più se si riferiscono ad opere di autori giovani o, perché no, tuttora viventi. Con questo tipo di pregiudizio, poiché espressioni analoghe riportate sulla quarta di copertina del libro, mi sono avvicinato alla lettura di Le stelle vicine, prima raccolta di racconti di Massimo Gezzi edita nel 2021 da Boringhieri.

Massimo Gezzi, alcuni lo sapranno, è un poeta e in poesia, nonostante la giovane età, credo abbia già detto qualcosa e con uno stile riconoscibile. Ora con questi dodici brevi racconti fa il suo felice esordio anche in narrativa, genere che del resto era nelle sue corde come si poteva evincere fin dagli inizi dal suo percorso poetico.

Ciò che più spicca in questo libro sono, a mio avviso, due elementi.

Il primo è che i nuclei delle storie sono sempre capaci di suscitare interesse nel lettore: alcune sono molto attuali, molte invece ambientate in un’epoca che non sembra ancora toccata dall’esplosione della tecnologia, forse vicina a quella dell’adolescenza dell’autore (potremmo dire gli anni 90), un’epoca in cui i ragazzi per incontrarsi e conoscersi dovevano ancora vedersi fisicamente fuori e calpestare le strade del loro quartiere o della loro città. Le vicende narrate sono quasi sempre drammatiche: si parla di malattia, morte, tradimenti, follia, solitudine, emarginazione, angoscia, insoddisfazione, e in generale della fragilità delle nostre esistenze e del ruolo più o meno salvifico che in esse giocano le illusioni. Tutti i personaggi infatti, ognuno a modo proprio, vivono già o prendono gradualmente contatto con una sensazione di fragilità, di esposizione alle intemperie della vita e del tempo, facendo tentativi più o meno incerti di tuffarsi in un’illusione salvifica, in uno sguardo che vada oltre. Particolarmente interessanti sono, almeno dal mio punto di vista incline a fermarsi sulle questioni della solitudine esistenziale e della fragilità psichica, i protagonisti dei racconti L’ultimo saluto di Cattivik e Il malcaduto; ma di rilievo sono anche gli adolescenti di Cinghiale, Un rettangolo di sole, Il salto del pesce spada. Anzi, direi che per il numero di storie che riguardano proprio i giovanissimi (sei su dodici), e per la significatività delle vicende che li vedono protagonisti – aspetto che testimonia l’attenzione e l’interesse dell’autore per quella fascia di età – il libro potrebbe essere una buona proposta di lettura per i ragazzi delle scuole superiori, che vi troverebbero utili spunti di confronto con i propri docenti, anche relativamente al rapporto mondo giovanile-mondo adulto.

Le storie sono narrate spesso in prima persona e chi narra parla veramente dall’interno della storia, cioè da una prospettiva soggettiva credibile, anche quando piuttosto distante dall’autore per sesso, età, estrazione sociale o condizione esistenziale. Gezzi introduce il lettore nel mondo interiore dei personaggi facendogli percorrere gradualmente i loro dubbi, le loro paure, i loro intricati percorsi mentali – spesso senza soluzione – con estrema naturalezza. È abile inoltre a creare la giusta quantità di tensione che sostiene bene la curiosità del lettore fino alla fine di ogni vicenda.

Il secondo aspetto rilevante dei testi è la capacità dell’autore di usare la lingua più adatta al personaggio che narra la propria vicenda, così come coerente col protagonisti e l’ambiente in cui vivono è la loro angoscia o i problema esistenziali in cui si dibattono. Si tratta di elementi che rendono i personaggi e le loro storie sempre molto credibili e che testimoniano la grande capacità empatica o di immedesimazione dell’autore. Emerge cioè un interesse autentico per gli esseri umani, anche per le condizioni esistenziali più marginali e aliene, accompagnato da una grande precisione nell’analisi psicologica. In questo processo descrittivo non si nota mai nulla di costruito, di artificioso e fortunatamente nessun cliché. Questa capacità si rileva non solo relativamente ai protagonisti delle storie, ma anche ai personaggi secondari, che pur comparendo solo per poco rimangono spesso impressi in chi legge. Aggiunge ulteriore realismo uno stile molto asciutto, vicino al parlato quotidiano, direi quasi da cronaca giornalistica, che aiuta nella creazione di quella tensione, o ritmo narrativo, di cui si diceva prima.

Ma la caratteristica forse ancora più rilevante del libro è la capacità dell’autore di creare storie che dicono tutto ciò che devono dire pur non concludendosi, pur rimanendo ognuna solo una piccola parte, un fotogramma di una vicenda che si intuisce più grande, ma al contempo restando capaci di lasciare il lettore soddisfatto, emotivamente pieno del messaggio sottostante alle vicende narrate ma anche incuriosito, stimolato intellettualmente.

E questo non credo sia poco. Anzi, è proprio ciò che dovrebbe fare un buon racconto.

Un pensiero della luce

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di David Watkins

Opera grafica di Andrea Balietti

 

Esistono luci pesanti. Luminosissime e pesanti. Tanto luminose da sbiadire. Di una pesantezza incorporea. Una curva della luce che avvolge strade mari e città entro un lenzuolo di fantasma. Domeniche spiovute in mezzo alla settimana. Di un’inconsistenza difficile da respirare. Come bagnate da un lamento, una nenia implicita, una lagnanza madornale. Luci pregne di tutto ciò che è quasi esistito. Luci possibili. Indifferenti alle stagioni, estranee all’alternativa del caldo e del freddo, senza una latitudine propria, sprovviste di un dove o di un quando che si addica al mix d’ovatta e sicumera in cui prende forma il loro immenso sbadiglio. Una biacca eterna e, dunque, fuori luogo.

Più che a una luce, assomigliano a un pensiero della luce. Eppure accadono. Entrano nelle case, mettono tutto tra parantesi, violano una a una le possibilità del buio, iniettano nei rifugi più angusti miriadi di lontananze, facendole passare ovunque, tapparelle aperte o semichiuse, poco importa.

Tutti i mondi che parevano non esistere, relegati nel non più, nel non ancora, inghiottiti in un’idea di distruzione, tutti i mondi scartati per un pelo trovano un asilo nel gravame di queste luci, un riverbero che li fa insistere nel mondo.

Esse si fanno carico di tutto quanto si credeva estinto.

È per scrollarsi di dosso questa luce di troppo che a volte le mani si agitano come senza motivo, si lascia cadere tutto, si esce finalmente a passeggiare.

Messaggio di Moni Ovadia sul conflitto israelo-palestinese

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Moni Ovadia in occasione di una manifestazione a Savona a sostegno del popolo Palestinese ha inviato questa dichiarazione di totale supporto: mi sembra molto esplicita e senza ambiguità.

Assialità dei legami : fotografie di Isabelle Boccon-Gibod

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di Lisa Ginzburg

Ho conosciuto Isabelle Boccon-Gibod qualche anno fa, perché un’amica la portò a cena da me (ancora si cenava insieme, con quegli “aggiungi un posto a tavola” a movimentare convivialità che è difficile e anche doloroso ricordare nel presente di adesso). Isabelle aveva appena perso sua madre (“appena”, letteralmente): una fine annunciata, ma il dolore le invadeva lo sguardo nel mentre fu nel corso della serata di una levità, profondità e verità che mi colpirono molto. Non cito l’episodio per superficiale irriguardo, ma perché della personalità di Boccon-Gibod è impregnato il suo lavoro, e quella stessa autenticità asciutta, rigorosa, torna in mente e trova particolare conferma nelle sue ultime produzioni.

Structure è un libro fotografico che esce ora in Francia con prefazione di Daniel Mendelsohn (autore de Gli scomparsi) (https://hemeria.com/produit/structure-isabelle-boccon-gibod/). Structure è un libro permeato dalla qualità della misura: lo stesso contenimento umanissimo che avevo osservato in Isabelle Boccon-Gibod quella sera a casa mia, la percezione di un’intensità, l’autorevolezza di un’estetica che trova ragione anzitutto nel saper contenere, imbrigliare, addomesticare: e cosí poter condividere.

Con un passato recente di ruoli di alta dirigenzialità nell’imprenditoria della carta (una nemesi: il suo nonno materno era Georges Fridemann, fondatore della sociologia del lavoro industriale), Isabelle Boccon-Gibod in parallelo percorre da anni una strada creativa in cui convergono traiettorie diversificate, tutte afferenti allo stesso sguardo acceso da curiosità specifiche, chirurgiche.  Un talento di fotografa pensato e vissuto come costante, lento, nitido avvicinarsi a temi distinti ma che sempre trovano struttura nella stessa linea di confine: quel crinale che separa distanza e implicazione, nitore dello sguardo e obiettività da un lato, dall’altro la densità assoluta del coinvolgimento.

Structure si compone di una serie di ritratti di famiglia: scatti in posa, in bianco e nero, dei quali colpisce immediatamente la simmetria e geometria delle inquadrature. Scatti in cui nuclei famigliari diversi e vari per composizione – numerosi o più ristretti, più e meno misti quanto a provenienze – invitati nello studio di Isabelle Boccon-Gibod si concedono al suo sguardo fotografico. Lo studio è un loft a Parigi, dalle parti di Port Royal, un immenso spazio inondato di luce grazie a una gigantesca finestra affacciata sul cielo. Lì i suoi soggetti, obbedienti ma liberi, si sono di volta in volta adeguati a quanto da lei richiesto per esigenza narrativa. Per prima cosa si è trattato per loro di scegliere come disporsi nello spazio, ma lungo griglie invariabilmente fisse, geometriche. In un secondo tempo, in virtù di quell’alchimia specialissima che può essere di un set fotografico, è stato chiesto loro di esprimersi così, nell’obbedienza allo schema prossemico: lasciar trapelare il loro rapporto con il nucleo e con la natura di ciascun legame interno alla struttura. Ogni membro delle famiglie ritratte in Strucuture racconta attraverso postura ed espressione cosa lo leghi sia agli altri, sia al “nucleo famiglia” inteso come struttura di cui lui/lei/loro sono parte. Il risultato è una griglia di linee assiali, segmentate da dinamismi interni tutti ispirati alla linearità.  Geometria come solida sponda di contenimento alle passioni e ragioni dei protagonisti dei ritratti – passioni compresse, che proprio perché compresse lasciano emanare la loro forza. Arabeschi di rapporti dove le emozioni si dispongono e parlano secondo le stesse traiettorie che sono delle posture e disposizioni nello spazio di ciascuno.

Lo scopo estetico resta invariato: sgombrare il campo da ogni orpello, svincolare la raffigurazione da qualsiasi dettaglio o particolare che possa generare qualsivoglia forma di teoria. “Nessun interrogativo sociale da parte mia”, mi racconta Isabelle. Non c’erano domande di partenza; piuttosto la necessità artistica di raffigurare il nesso tra il minuscolo (il singolo soggetto) e il Maiuscolo (il nucleo, la struttura famigliare). Cercare “l’immensità di ciascuno e il suo posto in un sistema genealogico”.  Erigere a criterio narrativo solo e  soltanto la prossemica, il disporsi nello spazio tracciando arabeschi di distanze che a propria volta disegnino traiettorie, linee assiali. Contro il mistero e l’elusività dell’auto-rappresentazione, la verità inoppugnabile delle relazioni, intersezioni involontarie nella cornice di uno scatto in posa.

Structure ha una lunga gestazione, con significative rimodulazioni a segnare un percorso denso e molto riflettuto; per tre anni Isabelle Boccon-Gibod ha lavorato a ritratti di famiglia dove a scattare erano, a rotazione, i componenti di ogni nucleo. Solo dopo quel lungo esperimento ha deciso di capovolgere lo schema, essere lei la fotografa, lei a dover trovare il proprio posto. Spettatrice di relazioni, mai però in senso psicologico. Dalle sue sessioni di fotografia ogni volta Isabelle Boccon-Gibod esce prostrata: il suo collocarsi è fatica, fatica fisica, come altrettanta fatica è sgombrare lo spazio da ridondanze mentali, lasciare che sia la geometria della realtà a parlare. Contenimento, anche lì, nel senso di equilibrio nei rapporti di forza: “né il soggetto mi schiaccia, né io lui ,” puntualizza; “perché è la foto in sé a dover agire da regolatore di empatia. La stessa geometria delle linee deve poter funzionare da contenitore di dramma”. Insiste su quella stanchezza fisica, mai mentale; fisica perché “il grande sforzo è trovare un equilibrio in termini di presenza, in cui nessuno predomina, o fa ombra all’altro”.

Qualcosa si sprigiona dal rigore formale che Isabelle Boccon-Gibod impone ai suoi soggetti (genitori e figli, madre e figlia, coppie), e che fa sviscerando dinamiche, permettendo contiguità o invece distanze. Quanto ai soggetti, molte volte s’è imbattuta in loro per caso, persone adocchiate a una fermata di autobus, stranieri a Parigi o cittadini parigini, come che sia ogni volta puntualmente da lei convinti a posare, persuasi spiegando loro in pochi minuti il suo progetto lineare e ambiziosissimo insieme. Raccontare la famiglia ma senza proiezioni,  secondo un’unica ottica entomologica, raffreddata dall’assenza della freddezza delle teorie. Dissezionare personalità e legami facendolo però nella cornice di uno sguardo sempre lucido, cartesiano. Lavorare di sottrazione, togliere e ancora togliere, finanche il “brusìo visuale”, così che “il ritratto s’imponga al di là di ogni interferenza”. Una visione che a tutti i costi vuol essere neutra, per nulla romantica, in nessun senso enfatica.

La sfida è vinta: famiglia diventa “struttura” perché luogo di costruzione e di distruzione attraverso un disporsi assiale nello spazio che corrisponde a una neutralità di rapporto con il tempo e quindi con lo stratificarsi della vita famigliare (la genealogia). Assialità dell’incanalare un magma di passioni senza supporti di ragioni. Una visione scabra, volutamente orfana di sfumature sentimentali; immagini che fanno pensare come intesa in senso di concetto, di condizione sociale normativa – applicando quel genere di teorizzazione che le foto di Boccon-Gibod non intendono generare – la famiglia smotti, deflagri e si scomponga, riducendosi a figura , a griglia di assi intersecati secondo criteri invisibili e decisivi. “Figura” austera in senso quasi spietato, a dire la ferocia di legami le cui nervature sono capillari, disegnano mosaici. Entità liriche proprio perché refrattarie a ogni forma di poesia.

Non stupisce che Daniel Mendelsohn abbia trovato nelle foto di Structure una chiave di lettura preziosa per rivisitare il proprio stesso lavoro, quelle memoria genealogica della diaspora identitaria che attraversa il suo bellissimo Gli scomparsi (Neri Pozza 2007). Nel rigore formale e nell’assialità delle relazioni famigliari delle foto di Isabelle Boccon-Gibod, lui a ragione rinviene una prospettiva liberatoria, una soluzione diversa di oggettivazione dello stesso concetto di legami e di “passato di famiglia”. Distanziamento, di questo si tratta: mise en abyme, ma senza l’abyme. Punti di vista che in nessun modo attutiscono l’urgenza di interrogativi  psicologici e antropologici su identità individuali e collettive; che non azzerano il dolore e la centripeticità di ogni esilio e trasmigrazione genealogica. Piuttosto, dispositivi in grado di “sistemare” le cose nell’apparenza dello spazio per moltiplicarne la portata lungo la curva del tempo.

L’Anno del Fuoco Segreto – Il camicino da morto

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.

di Loredana Lipperini

Il camicino da morto non era una vera e propria camicia: era una maglietta bianca di lana fine con un paio di ghette in tinta, sempre candide come capelli di demone. La zia di Camilla l’aveva preso grande, 3-6 mesi e non 0-3, perché, diceva, ai bambini i vestiti sfuggono, neanche il tempo di metterglielo una volta e già non entra più. Dovrai, diceva, rimboccargli le maniche e rigirare in vita l’elastico delle ghette, ma vedrai che lo sfrutterà. E’ roba buona, diceva ancora, una bella lana morbida, che non irrita la pelle.
Camilla aveva passato la mano sulla lana: effettivamente era morbida, effettivamente era di qualità, ma le sue dita sopra quel bianco sembravano di cera, e dovette chiedere scusa e sedersi. “Mi manca l’aria”, aveva sorriso. La zia aveva sorriso a sua volta: “Eppure sei nel trimestre migliore. Il sesto mese è il più bello: meno disturbi, tanto appetito, bei sonni filati. Approfittane”. Camilla avrebbe voluto alzarsi, prendere il coltello per il pane che sporgeva dalla brocca blu e piantarlo nella gola della zia. Il camicino da morto non sarebbe stato più bianco ma rosso scuro e il suo bambino si sarebbe salvato. Perché è questo che aveva visto nella maglietta e nelle ghette: un neonato livido in una bara bianca, con le piccole mani chiuse a pugno sul petto, gli occhi serrati, vestito con quell’orribile regalo che sicuramente era dovuto a buone intenzioni, perché tutti hanno sempre buone intenzioni quando vanno a trovare una donna incinta e portano regali, che poi i regali non si dovrebbero fare prima della nascita, Camilla aveva un cassettone pieno di camicine della fortuna scarlatte, tute gialle e verdi e azzurre, scarpine, magliette così piccole che la riempivano di costernazione.
Come avrebbe potuto tenere in braccio una creatura minuscola come quella che stava per venire al mondo? Lei non era capace di far nulla, o quasi, non sapeva girare una chiave nella serratura senza il terrore di non riuscire a compiere il giro, e l’avrebbe sicuramente spezzata e sarebbe arrivato un fabbro brontolone che l’avrebbe guardata malissimo (e non avrebbe, allo stesso modo, spezzato il bambino?). Era arrivata a trent’anni pencolando in un corpo che non sapeva manovrare, e infatti a lungo l’aveva trattato malissimo, quel corpo, affamandolo fino allo sfinimento e rifiutando altro che non fosse uno spicchio mela a pranzo e uno a cena. Poi però se l’era ripreso, il corpo, anche se ancora oggi, quando invitavano amici a cena, continuava a dimenticare le portate. Serviva un vassoio di mozzarella fresca e pomodori (la pasta no, la pasta mai) e doveva alzarsi per prendere l’olio, e di nuovo per portare a tavola il sale, e poi ancora il basilico che pure aveva colto e lavato con cura, ma che misteriosamente era rimasto in cucina. La testa funzionava, quello sì, funzionava benissimo, due lauree, una in filosofia e una in psicologia, che non riusciva a mettere a frutto, se non scrivendo saggi poco accademici e molto onirici che nessuno pubblicava, ma serviva a tenersi occupata, quell’attività inconcludente, fin quando, così diceva Marco, sarebbe arrivato il bambino, e tutto sarebbe andato a posto, la testa congiunta al corpo, saldata, finalmente, dopo tutti quegli anni in cui fluttuavano ognuno in reami separati.
Da quando era rimasta incinta, in effetti, aveva vinto il corpo. Era stato un sollievo. Aveva dormito e mangiato e fatto tutto quello che non si era permessa di fare per anni (persino divorare una pizza a giorni alterni) e aveva cominciato a pensare che finalmente aveva trovato quel che cercava da quando era nata.
Finché non era arrivata la zia, col camicino da morto. Il camicino da morto era, in origine, una fiaba dei fratelli Grimm che le aveva sempre fatto paura: c’era questo morticino, un bambino bello e buono di sette anni, che continuava ad apparire in giardino, in casa, ovunque, perché la madre continuava a piangere e il camicino si inzuppava e lui non poteva dormire, e finalmente la madre smette e il bambino muore del tutto, e la Camilla bambina non se ne capacitava. Piangere doveva, quella madre, per tenere il bambino fantasma nel giardino, in cucina, dovunque volesse restare, invece di lasciarlo andare nella terra per l’eternità. Quindi, davanti al regalo della zia aveva avuto quello che si chiama presagio, e adesso, lo sapeva, il presagio si sarebbe avverato, e naturalmente sarebbe morta anche lei, subito dopo, perché a nulla sarebbe servito avere un corpo a quel punto. Una strega, la zia. Lo aveva sempre pensato, con quella faccia grassa e gentile, tutti i grassi e gentili nascondono cose orribili. Dunque, quel coltello. Dicevamo.
***
Non c’erano quando la casa è stata costruita. Sono arrivati sul colle piuttosto tardi, all’inizio della pensione, che li ha colti di sorpresa perché si sentivano ancora i ragazzi che erano stati quando si erano conosciuti, o i giovani genitori nervosi in cui si erano trasformati, e invece si trovavano a studiarsi, le caviglie gonfie di lui, i colpi di tosse da fumatrice di lei, e a rimproverarsi finché non si innervosivano a vicenda, e quello che prendeva il rimprovero più forte usciva di casa per non litigare. E’ stato proprio per smettere di uscire di casa e di litigare che una mattina – la tosse di lei era più cavernosa e le caviglie di lui violacee – , si sono seduti al tavolo della cucina, davanti a una tazza di caffè. Ha preso lei l’iniziativa.
Dovremmo andarcene, ha detto. Lui l’ha guardata subito, attento, mentre abitualmente doveva ripetergli la frase due o tre volte perché era distratto, lo era sempre stato ma ultimamente di più, quindi significava che stava pensando la stessa cosa e non aveva ancora trovato il modo di dirglielo. Si è sentita incoraggiata, e l’ha incalzato. La casa è troppo piccola. Abbiamo fatto bene a traslocare qui e a lasciare quella grande a nostra figlia. Adesso però ci diamo sui nervi a vicenda. Siamo quasi in pensione. Amiamo la montagna, ci andiamo tutte le estati, trasferiamoci.
Era cominciata così, poi era diventata un’occupazione divertente, simile a quando, da sposi giovani, sceglievano i mobili per le loro prime case. Lei immaginava una cosa, lui un’altra. Lui disegnava piantine precise, lei assemblava nella sua testa colori, tessuti, velluti incompatibili con la praticità. Avevano deciso subito la regione: dovevano essere le Marche, dove erano sempre andati, le Marche delle colline, fresche d’estate, secche e nevose d’inverno, con curve dolci e sentieri da percorrere, e anche città dove andare in cerca di una libreria o di un cinema, se ne avessero sentito il bisogno.
Partirono a fine marzo, passarono per Castelluccio di Norcia, addolorandosi per il paese ancora in rovina dopo il terremoto e per la brutta struttura che ospitava i ristoranti. Si fermarono a mangiare un panino pensando che stavano consegnando la vecchiaia a una terra che tremava ogni dieci, vent’anni. Pazienza, si era detta lei. E poi si chiese da dove nascesse il desiderio di sentirsi al sicuro. Facevano parte di una generazione che aveva avanzato controvento, era solo l’età? No, non lo era. Condividevano tutti la stessa incertezza. Lo stesso terrore, diciamolo pure. Ma sul terrore non si costruisce nulla.
Arrivarono nel piccolo borgo sopra Vallescura per comprare ricotta fresca e una forma di formaggio da riportare a casa. La pecoraia disse che c’erano due case in vendita, non molto lontano. Una era, disse, spettacolare, l’altra era una villetta comoda, con un piccolo giardino, non lontano dall’altra. Ma dovete vedere la prima, disse. L’ha costruita un famoso architetto spagnolo negli anni Settanta. Non c’è niente di simile qui. E’ tenuta su da enormi sostegni di cemento armato, sembra la casa delle streghe. E non viene giù neanche a cannonate. Il terremoto non le fa niente, a quella là.
Era bellissima, è vero. Ma finirono per comprare la villetta comoda, perché qualcosa nella casa spettacolare la rendeva inquieta, come se da quei tiranti giganteschi potesse emergere qualcosa che aveva dimenticato. Era proprio una casa stregata: una casa di spettri, ma senza spettri, piuttosto uno specchio riflettente del passato, aveva pensato, che per curve insondabili ti riporta indietro anche quando vuoi dimenticarlo. Marco era comunque contento. E lei pensava addirittura che avrebbe ritrovato quella serenità torpida che aveva provato durante la gravidanza del loro primo figlio e che era finita per sempre dopo la sua morte, trasformandosi in accettazione. Oh, certo, erano andati avanti, lei non era morta e non era impazzita, anche se nel primo anno aveva sviluppato una dipendenza da Valium che era stata difficile da vincere. Però era passata, e aveva trovato uno strano equilibro, una conversione alla normalità che sembrava impossibile per la creatura terrorizzata e nervosa, ma a suo modo geniale, che era stata in giovinezza. Si era trasformata, come gli animali che mutano il pelo, o le crisalidi, o semplicemente come gli umani, che cambiano perché non possono fare altro. E pensare che era stata a un passo dal rimanere com’era. Se avesse davvero preso il coltello, tanti anni fa, e avesse ucciso la zia. Se si fosse uccisa, quando il bambino era nato e dopo pochi giorni era morto ed era stato davvero sepolto con la maglietta e le ghette bianche. Non era avvenuto, e non aveva neanche pianto.
Non voleva piangere, questa era la verità. Aveva paura che piangendo il bambino le sarebbe tornato davanti, correndo con piedini leggeri come polvere nella stanza che aveva preparato per lui, e che le sarebbe salito in braccio mentre sedeva a leggere, e lei non se ne sarebbe accorta perché in quanto spettro non aveva peso, ma a un certo punto una piccola mano fredda le avrebbe accarezzato la guancia. Per vivere, non doveva avere fantasmi intorno. Neanche quello di suo figlio.
Un anno dopo il trasloco, decise di arrivare fino alla casa misteriosa. I tiranti in cemento armato spiovevano diagonalmente, rendendola simile a una baita interrata per metà nel terreno, in cima alla collina. Era ancora vuota. Venivano a vederla, questo sì, ma poi non se la sentivano di prendere un impegno troppo grande, in un punto così isolato. Ma lei sapeva cosa respingeva i visitatori, invece. L’aveva saputo fin dall’inizio, e forse era per questo che, dopo aver tossito tutta la notte e aver sentito nelle ossa i dolori di quella che non poteva che essere vecchiaia, aveva deciso di andare.
Sapeva anche dove, mentre saliva lentamente, ansimando quando la salita si faceva più ripida. Appena sotto la porta d’ingresso, chiusa da anni, c’erano strani, piccoli tumuli di terra. Come tombe. Le talpe, le avevano detto quando erano andati a visitare la casa. Non erano talpe, pensava. E’ che ognuno di quei tumuli aspettava il visitatore giusto. Avrebbe riconosciuto il suo.
Era quello più lontano dalla porta, infatti, e più minuscolo ancora degli altri. Si inginocchiò a terra, scavò con le mani, nulla di difficile, la terra sembrava persino fresca. La trovò quasi subito: non era neanche troppo sporca, la maglia bianca di lana fine, e neppure le ghette candide che erano subito sotto. Se la portò al viso, cercando l’odore dolce del latte che per quel bambino non c’era stato.
“Non hai mai pianto”, disse una voce, ed era una voce di uomo, dietro lei. “Non una sola lacrima”.
Camilla scosse la testa e poi, come era giusto, si sdraiò e chiuse gli occhi.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Loredana Lipperini è una scrittrice e conduttrice radiofonica (Fahrenheit su Radio3). Tiene corsi di letteratura fantastica e fa parte del comitato editoriale del Salone del Libro di Torino. Gli ultimi libri pubblicati sono L’arrivo di Saturno, Magia nera e La notte si avvicina (Bompiani). Il suo blog si chiama Lipperatura.

 

Il “Buch der Freunde” di Domenico Mennillo

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ph. Gianfranco Irlanda - 2007

di Ornella Tajani

È uscita per le edizioni morra/e-m arts la pubblicazione dal titolo Buch der Freunde di Domenico Mennillo, che raccoglie gli scritti relativi al lavoro ventennale di lunGrabbe, duo artistico formato dallo stesso Mennillo e da Rosaria Castiglione.
Pubblico in anteprima la prima parte del testo che Ferdinando Tricarico ha dedicato a “Andromaca. Opera neoplatonica in IV stanze ricreative”.

“Andromaca. Opera neoplatonica in IV stanze ricreative” di Domenico Mennillo/lunGrabbe, Palazzo dello Spagnuolo-Fondazione Morra, 2007 – ph. Gianfranco Irlanda

 

Il lavoro artistico di Domenico Mennillo, sviluppatosi nell’arco di un decennio col gruppo lunGrabbe, mostra le caratteristiche di una vera e propria architettura contemporanea, di un solido progetto culturale e non di una mera sequenza di eventi e scritture sperimentali. Architetture apparentemente fuori dal perimetro delle mura storiche della città di Napoli, ma che, a guardar bene nelle fondamenta dell’opera mennilliana, si collocano dentro e fuori la tradizione neoespressionistica partenopea. Tanti, anche intorno alla galleria di Peppe Morra, negli anni, hanno innovato la cultura locale contaminandola con le realtà internazionali più emancipate e, rifiutando coazioni autoreferenziali, (di una Napoli o euforicamente ombelicale, oppure lagnosamente in crisi d’identità), ne hanno disvelato un’anima più profonda ed universale. Ed è proprio nella dinamica intra ed extra moenia il fascino di lunGrabbe, la sua natura mutante, ampia, aperta: non solo per la costante multidisciplinarità espressiva (il teatro, l’arte, la poesia, la musica, il cinema), ma anche e soprattutto per le genìe filosofico-poetiche delle messe in scena, così rigorosamente discontinue, non lineari e plurime. In questi dieci anni, Mennillo, ha favorito l’incrociarsi di storie e mondi differenti, trovandone sintesi transitorie, verità parziali, in un laboratorio permanente qual è la vita stessa (l’artevita di matrice futurista?); da animatore-regista del gruppo lunGrabbe è stato capace di aggregare tanti soggetti per mescidazioni e di esprimere la sua forza artistica nella proposta collettiva (anche qui deludendo i sacri individualisti della napoletanitudine). A me è stato affidato il compito di leggere tra le righe del suo bel lavoro filmato, ispirato all’Andromaca nella versione di Racine, che fece una lettura della tragedia assai più materialistica e corale rispetto all’archetipo omerico. Si tratta di quattro video che, tra le tante suggestioni, ci spingono a riflettere sulle possibili caratteristiche di un’estetica del tragicomico: siamo al cospetto infatti di sequenze misterico-grottesche che annunciano l’imminenza di qualcosa che non accadrà mai, che propongono giochi puntualmente fallimentari in un crescendo d’impotenza espressiva. Ed ecco, a mio avviso, suggeriti alcuni interrogativi dell’Andromaca mennilliana sull’est/etica; la tradizione filosofico-estetica ci ha dato le categorie per smezzare alla grossa gli oggetti artistici razionali da quelli irrazionali: l’apollineo per classificare armonia, equilibrio e misura, il dionisiaco per assumere dentro di sé, il distonico, l’asimmetrico, l’abnorme. E se, invece, ci spingessimo nella terra di nessuno dove lunGrabbe sembra volerci condurre, in quel territorio sospeso tra l’apollineo ed il dionisiaco e ci chiedessimo quale espediente espressivo può tenere insieme conoscenza razionale e pulsione istintuale, quale rappresentabilità può avere una realtà percepita nella sua complessità critica? Le tecnostrutture new mass mediatiche, oggi, predeterminano il gusto, più che “l’oggetto poietico” creano il soggetto impoetico dimidiandone la percezione estetica nettamente: si sovraproducono, perciò, o merci culturali divertenti, d’intrattenimento, confortevoli, oppure si pensa di scuotere il fruitore massificato con l’eccesso irrazionale, la crudezza dell’istinto, l’angoscia dell’incontrollato […].

[Ferdinando Tricarico]

Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh # 4

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di R. Umamaheshwari [foto di Sushant]

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima, qui la seconda, qui la terza. Quella che segue è la quarta.

 

1 Aprile 2020. Che fine fa la donna single?

Che fine fa la donna single, che vive da sola, lontano dalla sua casa (se ne ha una, cioè ammesso che ne abbia una), o dalla sua città, nel mantra che recita “Resta a casa, stai al sicuro” concentrato esclusivamente sull’idolatria della famiglia e sull’idea che ad ogni casa corrisponda una famiglia? Lei non appartiene a nessun luogo.

Comunque, l’idea che la famiglia sia necessariamente quella dove sei nata è piuttosto riduttiva. Quanto a me, io sento di avere famiglie fatte non di parenti di sangue, ma di persone che hanno saputo aprirmi le loro case quando attraversavo i loro villaggi e  città, come viaggiatrice, o come ricercatrice, o come giornalista, o semplicemente come una donna single e sola. E in ogni caso, cosa produrrà questa paura del virus? Porterà via quell’apertura di cuore della gente in giro per il mio Paese e per il mondo, chiuderà le porte e renderà univoca la definizione di famiglia, come singola unità in cui uno è nato? Sarebbe un mondo abbastanza chiuso per una persona come me. Essere senza casa è ancora abbastanza gestibile, ma essere privata dell’accesso alle molte famiglie che incontro, e alle loro case e ai loro cuori sarebbe un durissimo colpo. Sarebbe pura solitudine e morte.

Ma può la basilare esigenza umana di vivere in società e in relazione, e di stringere legami, cambiare così tanto a causa di una nuova malattia? Specialmente quando queste nuove malattie hanno incrociato il nostro cammino solo per pochi anni, dopo secoli? Cosa si intende per “casa”? Io vivo letteralmente in una terra di nessuno, in molti sensi: una minuscola guest house di meno di dieci metri quadrati. Che strano! Solo fino ad un mese fa, avrei potuto sistemarmi in uno spazio di più di cinquanta metri quadri che avrei potuto cominciare a chiamare casa in un prossimo futuro. E adesso, invece, questo spazio che a stento arriva a dieci metri quadri mi sembra un segno di buona sorte. Un rifugio da non sottovalutare, specialmente se considero i molti che sui loro piedi, per strada, camminano verso le loro case, altrove.

Le case sono sempre “altrove”, per qualche ragione: un posto in cui andare, perché il posto da cui si lavora non si chiama mai “casa”. I lavoratori rimangono “migranti” anche se vivono per anni in una città, in piccole case popolari. Sembra che non raggiungano mai lo status o la dignità di “residente”. La residenza è temporanea e improvvisata, come per la maggior parte dei luoghi di soggiorno: molte volte, in baracche o bidonville, con tetti di amianto o ancor più provvisori, fatti con qualsiasi materiale di scarto che chi le abita riesce a trovare nelle città che sta costruendo o per le quali sta lavorando.

Se c’è qualcosa che è accaduto, è che improvvisamente il “lavoratore migrante” esiste nella narrazione dei media, presentato di nuovo come una vittima e non come il lavoratore con dignità di residenza in una città che idealmente lui o lei avrebbe dovuto percepire come “casa”. Lui o lei sono improvvisamente diventati i potenziali vettori di un virus, per una pura questione di percezione e non in base ad un’evidenza basata su parametri scientifici. Così ci si chiede se è la paura del lavoratore migrante portatore del virus che mette questa categoria di persone al centro del discorso, o la pietà e una sorta di condiscendenza verso i poveri. Dovrebbe essere solo uno specchio da mettere davanti alla popolazione del Paese, che ci potrebbe vedere un grande tema: mentre “stare a casa, stare al sicuro” può sembrare una cosa meravigliosa da fare per una certa parte della società, il luogo in cui i lavoratori si guadagnano da vivere diventa realmente “casa”. Ed è veramente una casa sicura?

 

E una domanda ancora più importante: cos’è “casa”?

 

La programmazione televisiva (radio e televisione) è piena di stereotipi sulla famiglia indiana. E sul “tempo della famiglia”, di cui si fa persino un uso eccessivo. La “famiglia” è sempre mostrata, in qualche modo, come la migliore e ideale unità sociale, e universalmente buona per tutto, nonostante i problemi di abuso e discriminazione al suo interno. La donna di casa, durante il lockdown, diventa contemporaneamente la madre, la cuoca, la badante, il sorriso che dà sollievo, colei che porta tutti i pesi del mondo, in modo che i suoi figli, suo marito e forse i suoceri o i genitori possano vivere felicemente, dimentichi di tutte le preoccupazioni del mondo.

I programmi radiofonici per donne (di solito pomeridiani, in ossequio all’assunto che sia questo il tempo che le donne possono dedicare a se stesse), danno ricette e idee che possano servire alle donne per compiacere le proprie famiglie e impegnare i propri figli. Un attore del cinema Hindi tradizionale degli anni passati suggerisce con un gran sorriso quanto divertimento produca lo stare a casa ad ascoltare le storie degli anziani, aiutare i figli a fare i compiti, guardarli giocare, etc. Lo stare a casa è presentato come la più felice cosa da fare. E mi chiedo come si collochi, rispetto a queste immagini, chi è lontano da casa. Specialmente chi non ha uno stipendio sul suo conto a fine mese, e non è così fortunato da “lavorare da casa” per un’azienda o per il governo, e da ricevere alla fine del mese uno stipendio – non importa quanto – sul suo conto in banca. E poi quel che è peggio è sentire che gli stipendiati, i professori universitari, i burocrati, gli insegnanti si lamentano perché lavorano da casa. Persone alle quali lo stipendio e tutte le provviste (grazie alla consegna a domicilio in alcune città) arrivano direttamente a casa e sui loro conti in banca, senza che ci sia alcuna necessità di uscire.

 

 

Spazi Covid-free e alcune altre domande.

 

Che cosa dire degli spazi che non hanno registrato neanche un caso di Coronavirus in India? Ho sentito dello Srikakulam, nella parte nord dell’Andhra Pradesh; o di quella parte dello Srikakulam che conta un numero relativamente più ampio di piccoli agricoltori, o delle regioni abitate per lo più da adivasi o comunità indigene. C’è anche l’esempio di Spiti, nell’Himachal Pradesh, e forse di molti altri villaggi che sono fortunatamente sfuggiti al contagio. Dovremmo anche chiederci perché. Può non essere una coincidenza che queste aree siano relativamente più verdi di altre e contino meno attività commercialmente distruttive e altamente competitive dal punto di vista economico (a parte il turismo, naturalmente).

È anche una pura coincidenza che a Spiti, in questo momento, la natura sia stata d’aiuto. Le strade sono state bloccate dalla neve fino ai primi di Marzo. Così gli abitanti, per alcuni mesi ogni anno, godono di un relativo isolamento, che lascia la gente della regione alle sue attività invernali. Concentrati sulla vita urbana, spesso non ci accorgiamo dell’aspetto più splendente di questi spazi eminentemente rurali, che possono esistere ovunque nel mondo. E l’attenzione che dedichiamo ai disastri nelle città e nei paesi del mondo, che sono stati così distruttivi e travolgenti, produce certe decisioni politiche che condizionano tutti, prese solo per mitigare i danni e calmare l’opinione pubblica.

Provvedimenti che, in futuro, possono creare situazioni avverse dove oggi non ce ne sono. Perché ai non-disastri non viene data uguale visibilità sui giornali? E perché, nel mondo, le non disastrate-zone dovrebbero subire gli stessi interventi di mitigazione delle zone disastrate? Il fatto che questa sia stata dichiarata una pandemia significa anche che essa elude ogni tipo di interrogazione o ricorso legale cui di solito il popolo può accedere nei confronti dei provvedimenti presi dal decisore politico senza consultare tutti i settori. Solo recentemente in India è stato dato respiro ad alcune attività agricole e a pochi altri settori, cui è stato permesso di riaprire anche durante il lockdown.

 

Migranti e esodo.

 

L’esodo di massa di lavoratori migranti dalle grandi metropoli indiane – che era essenzialmente connesso (non tutti sembrano comprenderlo) al ciclo agricolo nelle aree rurali, nelle quali molti di coloro che vivono in città sono impegnati – ha dimostrato la mancanza di una vera consultazione della politica con gli altri settori del Paese prima dell’adozione del lockdown. Molti lavoratori nel campo dell’edilizia provengono dalle aree rurali, che rimangono il loro campo-base, dato che essi incrementano il loro reddito con i lavori agricoli e talora anche tramite la conduzione di piccole fattorie. Molti hanno delle “carte di razionamento” (che garantiscono loro una minima fornitura di grano sovvenzionato) nei loro villaggi, delle quali si servono anche quando lavorano nelle città. Questa gente rimane legata al proprio villaggio anche se vive nelle città e là educa i propri figli nelle scuole private e pubbliche. Sono tutte verità risapute da tempo.

I loro spazi vitali nelle città sono tra i meno invidiabili. Molti costruiscono case per altre persone, ma non possono permettersi di viverci. In una situazione altalenante, in qualche caso, a Hyderabad, alcuni lavoratori dell’edilizia, che costruiscono appartamenti di media grandezza, o anche più piccoli, diventano i portieri del palazzo e quindi ottengono una stanzetta gratis nello stesso complesso. Queste persone diventano lentamente residenti permanenti della città e i loro figli vengono messi in scuole private. Molti di loro si guadagnano da vivere attraverso varie attività in grado di produrre reddito, grazie all’alloggio gratuito ricevuto. In molte città, la gente lavora negli alberghi, o anche in negozietti, come commesso. Ma se durante le crisi, se non hanno un tetto e un riparo, come sta diventando evidente adesso, queste persone preferiscono ritornare ai loro villaggi – anche se all’inizio i loro villaggi (e le crisi agricole) li avevano costretti ad emigrare nelle città.

 

Tempo per fermarsi, guardarsi dentro, disfare, rifare.

 

Indulgenza per i viaggi aerei? Perché la gente si concede viaggi aerei anche non essenziali? Qual è l’impatto ecologico del traffico aereo globale? Che effetto hanno avuto l’aviazione commerciale e i viaggi aerei non essenziali sull’ambiente? E oggi che il traffico aereo è quasi dimezzato, è stato calcolato il vantaggio ecologico? E cosa dire dei viaggi in treno, in uno Stato come l’India? Qual è il vantaggio ecologico dell’attuale lockdown? Ogni momento storico dovrebbe essere valutato soltanto in base all’impatto presumibilmente negativo sull’economia? Non dovrebbe ogni epoca storica essere valutata anche in base al relativo vantaggio ecologico? Il virus sta solo uccidendo, necessariamente, o è il modo in cui il virus è gestito dallo Stato che lo fa? Chi dovrà rispondere di queste morti? Non dovremmo forse guardare più in profondità nella natura dello Stato (e, di conseguenza, anche allo stato di natura), nell’assistenza sanitaria, nell’accesso delle persone svantaggiate alla sicurezza sociale, politica ed economica?

 

Controllo totale dello Stato?

 

Sulla scia del lockdown sorgono alcune domande che molti di noi nel mondo stanno fronteggiando oggi. Mentre il Covid 19 si è preso il centro della scena del dibattito in ogni Stato – nascondendo sotto il tappeto ogni altra questione pertinente – e mentre noi siamo costretti a piegarci a nuovi tipi di app e a nuovi metodi di sorveglianza, nascono alcune domande: che succederà ai diritti civili e alle libertà, durante i tempi dell’emergenza medica come questo? Emergerà in tutto il mondo un meccanismo che attraversi le nazioni e gli organismi internazionali di modo che una pandemia non significhi nel complesso anche la fine delle libertà e, cosa ancora più importante, non renda certe popolazioni o comunità più vulnerabili alla discriminazione e agli attacchi?

E inoltre, le applicazioni tecnologiche saranno tutte ugualmente e rigorosamente testate (proprio come si fa con vaccini e medicinali), prima di costringere o forzare la gente a usarle in nome della protezione e della prevenzione? C’è un urgente bisogno di un meccanismo globale di controllo della realtà fondato sull’interesse dei cittadini, di modo che una pandemia non finisca per favorire la nascita di severi regimi autocratici, che mettano le persone l’una contro l’altra attraverso la creazione di paura e sospetto. Ci saranno meccanismi (se necessario legalmente vincolanti per lo Stato) per proteggere la dignità e il rispetto dei più vulnerabili, specialmente durante periodi di emergenza come questo, piuttosto che vederli fuggire nella paura, incapaci di credere che i loro interessi saranno presi in carico, e rischiando le loro proprie vite in questo processo?

 

Ricordando Joy, e pochi altri.

 

Alla fine dell’anno scorso l’ho incontrata, in un angolo tranquillo. Stava in piedi, non lontano da un piccolo ristorante, con il suo carretto traballante. Aveva tre pentolini, una larga padella, e un vassoio un po’ più largo della padella. In quanto donna single, non particolarmente interessata alla cucina, ho molte volte benedetto questi venditori coi carretti, dove compravo il mio pasto serale da single. Quando infatti il mio cane Malli è stato male per un mese intero, e dopo che lei è morta, questi carretti e altri curry point sono stati la mia salvezza.

Hyderabad ha molti di questi punti di street food, con una sola persona (maschio o femmina) o una coppia che vendono i loro curry (di solito stufati speziati a base di pollo o vegetali) e chapatis (pani spianati di farina di grano, arrostiti su una padella asciutta). Molti lavoratori (specialmente operai celibi) li comprano. Sono a buon mercato e di solito freschi, e possono essere impacchettati in piccole quantità, e portati via, a casa.

Joy, la donna del carretto, inizia verso le sei del pomeriggio, stando in piedi tutto il tempo, e spianando le sue chapatis fino alle dieci. Aveva piccole porzioni di curry e la sua clientela era piccolissima. Doveva aver previsto di poter smettere da lì a pochi mesi. Era un piccolo investimento, per un piccolo ma sicuro guadagno mensile; meglio che candidarsi per lavori che non eri sicuro di poter ottenere.

Numerose località a Hyderabad hanno questi punti di ristoro ai lati della strada, di solito messi in piedi da giovani uomini e donne che dubitano di potersi assicurare un lavoro d’ufficio. Un punto curry assicura sempre una certa clientela di habitué e una rendita dignitosa in fin dei conti. E poi c’erano le donne del Telangana rurale, che sedute sui percorsi delle località abitate dalla middle class, preparavano i jonna rotti (pane fatto di farina di sorgo, una specialità della regione del Telangana), specialmente durante i mesi invernali. Ogni rotti costa dieci rupie, e le donne stanno sedute lì ogni sera, per una clientela affezionata, semplicemente con una padella di ferro, riscaldata da piccoli fasci di rami di tenera acacia (abbattuti regolarmente dal dipartimento dell’elettricità del Telangana in base al loro programma di taglio degli alberi).

Sto pensando anche al bajji taatha, il vecchio uomo che preparava deliziose patatine fritte con le verdure, che si vendono come tortine calde ogni sera in un’altra località a Secunderabad. Il vecchio era accompagnato da suo figlio. Durante l’esperimento della demonetizzazione in India, nel 2016, mi sono resa conto che quel vecchio era uno dei tanti che era totalmente dipendente dall’economia in denaro contante, mentre il governo insisteva nel suo piano di digitalizzazione. Fortunatamente, alcuni di questi lavori basati sull’economia in contante sono sopravvissuti alla digitalizzazione, anche perché il governo ha capito che era il caso che questo accadesse. Ma oggi il Coronavirus ha offerto un altro pretesto per magnificare i vantaggi dei pagamenti digitali.

Ed io oggi sto pensando a Karthik, che vendeva fiori di stagione e ghirlande di fiori, accanto al grande tempio di Secunderabad. Karthik aveva appena dodici anni quando stabilì il suo carretto accanto al tempio, insieme con sua madre. È cresciuto in fretta, considerando che ben presto si è preso sulle spalle il peso di tutta la famiglia, compresa la madre e le due sorelle. Stava lì, alto e dignitoso, per ore, ogni mattina (dalle sei e mezza alle undici o alle dodici) e la sera dalle cinque e mezza/sei alle nove. Tutti i giorni della settimana, tutti i mesi dell’anno. E pian piano riuscì a far sposare la sorella maggiore. Forse aveva preso in prestito un po’ di denaro, che forse ha già restituito, o forse no. Karthik, e molti come lui, non era riuscito a completare la scuola. Mentre molti erano venuti in città con i genitori, facendola finita con l’insostenibile prospettiva dell’agricoltura (i piccoli fattori erano pochi, mentre la maggior parte erano contadini senza terra), alcuni di loro erano nati a Hyderabad e si sentivano essenzialmente figli della città.

Phoolmani, suo marito e i due figli – Jyuti and Dipika – avevano una minuscola baracca da tè accanto alla casa dove io e Malli vivevamo, a Guwahati, alcuni anni fa ormai. Phoolmani era una donna che lavorava sodo, e sapeva gestire la baracca del tè praticamente da sola, anche se suo fratello maggiore Kakaideo (come alcuni lo chiamavano, inclusa me) faceva delle commissioni per mantenere la scorta di soprammobili, miscele salate, biscotti da tè, pacchetti da beedi e sigarette, sempre pronte. Non guadagnavano molto seduti lì, in quella minuscola baracca di fortuna (difficile intuirne la struttura), fuori dalle mura del complesso di appartamenti a Kharguli, sulla strada che si affaccia sul possente fiume Brahmaputra (nei mesi invernali avvolto in una nebbia surreale). Ma erano sempre là, sorridenti. Malli era la loro più gradita cliente, e ogni giorno doveva sedersi lì come un ninnolo, mentre Phoolmani invitava persone per il tè e la mostrava ai clienti, dandole in pasto qualche snack. Molte volte Malli restava lì finché le veniva data la sua parte di quella mistura, che mangiava soltanto dalle mani di Phoolmani. Piuttosto che stare a casa, Malli preferiva ascoltare i pettegolezzi e guardare i clienti all’angolo del tè. I clienti erano per lo più operai dell’edilizia e tiratori di risciò del quartiere. Phoolmani e la sua famiglia vivevano in un minuscolo monolocale: una casa popolare, buia, accanto al nostro complesso di appartamenti. Malli ed io le facevamo spesso visita, talora condividendo un pasto (riso e pesce) con la famiglia. Il fiume Brahmaputra e l’angolo del tè di Phoolmani erano parte di un quadro più grande: quella non-struttura si stagliava con quieta dignità – anima generosa e compassionevole – contro le lussuose case e i complessi di appartamenti che stavano su quel terreno collinare. Penso a lei, e allo spazio oggi privo del suo angolo del tè, e mi chiedo come il destino di quella famiglia debba essere cambiato senza il loro solo mezzo di sussistenza.

Poi c’è Madhavi, che era nato a Hyderabad. Prima accompagnava sua madre, che vendeva fiori messi in un cesto di canna appollaiato su uno sgabello di plastica all’angolo della strada, in una località di Secunderabad. Madhavi non ha un conto in banca. E neanche ha ricavato mai abbastanza dal suo business. Anche pagare l’affitto mensile non le era facile, e alcuni dei suoi clienti abituali la aiutavano di tanto in tanto. L’abbondante e inebriante fragranza dei malle poollu (gelsomino bianco) creava un netto contrasto con le loro vite.

Ognuna di queste persone che si sono fatte da sé sono Dalits. La loro resilienza è di ispirazione per tutti, ma allo stesso tempo è doloroso renderla esotica. La città sembrava dar loro una qualche speranza e opportunità di guadagnarsi la vita. Penso a tutte queste persone durante il lockdown. Penso anche ai carretti qui a Shimla, in alcuni importanti luoghi turistici. Per esempio, vicino all’Indian Institute of Advanced Study. Qualcuno preparava zuppa e noodles e i momos, verdure cotte al vapore, che erano le più vendute ogni sera.

Sono persone che hanno affrontato la città e i loro propri destini con coraggio, e hanno messo su qualcosa di proprio, ricavandone un guadagno piccolo, ma dignitoso e rispettabile. Oggi durante il lockdown mi chiedo come se la passino. Come sarà la vita per loro una volta che “riapriremo”? Loro non fanno parte delle immagini dominanti delle famiglie felici, “che mantengono la distanza sociale” (loro non possono, probabilmente, nel monolocale in cui vivono) nelle loro case. Loro non possono essere felici di “lavorare da casa” – semplicemente non possono – e di ricevere un salario – semplicemente non ne hanno.

La cosa peggiore è che la maggioranza di queste persone non hanno conti in banca. I loro commerci insignificanti erano totalmente dipendenti dal contante e di certo non quel tipo di contante che in banca chiamano “risparmi”. È di solito un’esistenza basata sul passaparola. Una qualunque emergenza medica, come quella che noi oggi chiamiamo Covid 19, colpisce questa gente come disagio economico, prima ancora che come infermità fisiologica.

Non sappiamo cosa accadrà quando la vita tornerà “normale”. Sospinti così indietro fin dal tempo in cui il lockdown è cominciato, saranno in grado queste persone di tornare a rialzarsi e ricominciare da dove erano rimasti? I settori organizzati, anche nell’agricoltura, possono ancora avere incentivi governativi per essere sostenuti durante le crisi, ma cosa accadrà di queste persone, che sono letteralmente ai margini dell’economia, e di cui nessuno si occupa?

 

Una pentola a pressione, un piano a induzione e una padella (e un bollitore da tè)

 

Vorrei aggiungere a questo elenco quattro tazzine col piattino, quattro bicchieri, due cucchiai da tè, nella stanza di una piccola guest house. Quando un tempo io avevo uno spazio di cucina adeguato (e adeguati utensili, per lo più di mia madre e di mia sorella), in una casa che teoricamente possedevo, dove entravano i primi raggi del Sole – uno spazio suggestivo – non cucinavo mai abbastanza. O comunque non ne godevo tanto quanto Malli, se e quando cucinavo un buon pasto (repertorio limitato) per me stessa o per un’amica occasionale, o un parente.

Oggi provo a cucinare in una cucina decorosa e a desiderare qualcos’altro rispetto al riso e lenticchie di ogni giorno. Ma penso anche ad alcuni dei lavoratori migranti qui a Shimla, che non hanno una cucina e sono sfamati nei langars (cucine comuni) da organizzazioni di volontariato, e da privati in alcune aree. Io non dovrei desiderare nulla. E seguo per caso alla radio un programma “per donne” che parla di ricette “per madri”, ansiose di tenere allegri figli, mariti e parenti durante il lockdown. E penso ora che una cucina non significherà la stessa cosa per me quando le cose ritorneranno alla normalità. O almeno alla recente normalità che conoscevo. Per adesso so di quanto poco ognuno di noi abbia bisogno in realtà, e come sia invece possibile accontentarsi di cucinare un umile pasto e, ancor di più, semplicemente di cucinare. La tentazione di non mangiare è grande quando qualcuno è lasciato solo al mondo inaspettatamente, a causa di una morte o di una separazione, o, forse, di un lockdown simile. Ma alla fine, un bel giorno, la fame prende il sopravvento, e tu devi mangiare.

E bisogna ringraziare i produttori di cibo, i numerosi commercianti, gli autisti dei camion, i trasportatori di beni, i negozianti dei piccoli negozi di quartiere per gli acquisti di base, che galleggiano sopra il presente. Che sopravvivono e ci fanno sopravvivere. La sopravvivenza sembra la comune metafora, anche in momenti in cui la gente cammina per migliaia di chilometri, dai loro luoghi di lavoro in città alle loro case nei villaggi. E tu cominci a sentirti orgogliosa, ma anche colpevole della tua buona sorte e della pentola a pressione, del piano a induzione e della padella, e del bollitore.

Per non parlare della generosità di poche persone, nel vicinato “esteso”, che ti regalano patate, cipolle e lenticchie, e talora sottaceti per speziare un po’ il cibo, come fa Sunita, la mamma della piccola Bhumika, chiedendomi di non dire a nessuno che lo ha fatto, così che a volte sono costretta a portare il cibo fuori di nascosto.

 

(traduzione di Rosario G. Scalia)