Già il titolo di questo romanzo (Antonella Grandicelli, Il respiro dell’alba, Fratelli Frilli Editori, 2021) suggerisce al lettore in quale insidioso territorio si sta inoltrando. L’assunto di Manchette, ispirato alla prosa di Dashiell Hammett, che la scrittura del noir (o polar, da distinguere dal tranquillizzante e consolatorio policier) debba essere basica, di grado zero, nel tempo è andato a farsi benedire. Peraltro, a smentirlo ci aveva già pensato un certo Raymond Chandler, che con Hammett è stato il fondatore dell’hard-boyled americano.
Così in Europa, dopo la scrittura “oggettiva” di Simenon, abbiamo conosciuto la prosa altamente letteraria di Vázquez Montalbán e quella lirica di Jean-Claude Izzo.
Succede, quando i poeti si mettono a scrivere gialli.
È il caso di questo romanzo, che da Montalbán prende in prestito anche l’ossatura narrativa: una persona che il protagonista ha conosciuto nel passato viene uccisa e l’indagine ne ricostruisce il percorso e la fisionomia, così come si è evoluta nel tempo, grazie alle testimonianze di coloro che la hanno frequentata e conosciuta.
Lucia Senarego, figlia di una famiglia dell’alta borghesia genovese, viene trovata morta annegata nelle acque di Vernazzola. I due acciaccati protagonisti, il commissario Vassallo e il poeta (eccolo lì!) Luigi Martines, che con Lucia aveva trascorso indimenticabili vacanze estive in quel di Casella ai tempi dell’infanzia e dell’adolescenza, sono convinti che la donna sia stata uccisa, ma il Potere che emana dai Senarego fa di tutto perché questa ipotesi sia esclusa a priori, al punto che la ricerca della verità (per tacere della giustizia) diventa operazione illegale perfino per un tutore ufficiale della legge.
Della trama non direi altro, se non che è ben articolata in un intreccio che incolla il lettore alla pagina, con tutti gli artifici del caso, a cominciare dal cliffhanger, che lo lascia “appeso” ogni volta che si cambia prospettiva passando da una voce narrante all’altra (Vassallo/Martines); da rilevare come i personaggi emergano a tutto tondo e soprattutto il crescendo di empatia generata dal tragico destino della vittima, a cui, come deve essere, la letteratura restituisce dignità di personaggio misterioso e poliedrico e, in ultima analisi, mitico.
Insomma, un romanzo che non ci lascia mancare niente, compresa la conclusione, che ci rimanda di nuovo alla lezione di alcuni grandi, fra cui Dürrenmatt e ancora Montalbán, riguardo alla problematicità della verità a cui approdano le indagini di polizia.
Ma quello che qui ci preme sottolineare, come suggerisce il titolo, è la qualità della scrittura. Procediamo a brettio, con un florilegio di citazioni casuali che meglio di qualunque considerazione danno l’idea di che cosa stiamo parlando: “Il vetro mi rimandò i suoi lineamenti tesi negli occhi socchiusi, le labbra tirate, il corpo inquieto come l’aria prima della pioggia” (p. 33); “Nonostante suor Ludovica tentasse di apparire indifferente, il suo fastidio… emergeva come l’odore di stantio quando si apre un armadio chiuso da mesi” (p.137); “Fuori la sera aveva un colore bastardo, smarrito” (p. 163); “Sui gradini del portone, ingialliti come i denti di una vecchia” (p. 164); “La madre, un osso liscio, senza imperfezioni, bianco e cereo” (p. 167); “Al passaggio di un tiro secco di tramontana il silenzio si arruffava” (p. 169); “Il cielo era sereno e intenso, l’aria frizzante, quasi primaverile, se non fosse stato per quella patina di rassegnazione dorata che la luce d’ottobre posa sulle foglie degli alberi” (p. 182); “Lucia che aveva luce negli occhi, che aveva gambe e sogni lesti, che strappava l’erba per sentirne il profumo di vita” (p. 206); “Mi avviai, nel pomeriggio che aveva già con sé i colori della notte” (p. 208); “Ancora una volta Vittoria usava Lucia per tenere saldo lo steccato bianco che circondava la sua reputazione” (p. 222); “Le mie parole avevano il gusto amaro della ruggine” (p. 278); “Un sorriso gli tagliò la faccia” (p. 300).
È chiaro adesso? Altro che scrittura “oggettiva”!
Qualcuno si chiederà se questo genere di prosa sia “adatto” al genere; personalmente rovescio la domanda e mi chiedo che cosa possa ravvivare un genere così ubiquitariamente praticato (oggi chi viene trombato alle elezioni, va in pensione, litiga con il capoufficio, è mollato dalla moglie o dalla fidanzata, che cosa può fare di meglio che scrivere un giallo?) non abbia un disperato bisogno di letteratura, cioè di trarre il meglio in fatto di trame, situazioni drammatiche e scrittura, dalla grande letteratura (dai classici greci fino ai maestri del Novecento, noiristi e no).
L’autrice, che è una lettrice vorace e pratica per studi e per lavoro diverse lingue straniere, è per certo sulla buona strada. Consigli: lavorare sui dialoghi e sull’editing. Ma questo, si sa, è un processo che per ciascuno di noi non finisce mai.
QUANDO LA POESIA SI TINGE DI GIALLO
Ossitocina
di Giacomo Sartori
La mia nuova compagna, io dico fidanzata, ha molti meno anni di me, potrebbe essere mia figlia. E davvero ogni tanto qualcuno chiede se è mia figlia, il che è imbarazzante. Più frequentemente le persone capiscono alla prima occhiata come stanno le cose, e mi fissano come si guarda un vecchio libidinoso che si tira appresso una ragazzina, perché è pieno di soldi o perché esercita qualche forma di depravato dominio, o anche che senza saperlo si lascia intortare da una che ha scelto di indossare i panni dell’intortata. Manco a farlo apposta dimostra molti meno anni di quelli che ha, il che peggiora le cose. Fino a questo momento non mi ero mai reso conto di quanto siano nocivi gli occhi delle persone, quanto siano pericolosi. Sono sciabolate, tra le quali si deve sgusciare riuscendo a non farsi ferire.
Da quando sto con lei mi guardo allo specchio, e mi sembra che la decadenza del mio corpo sia ormai irrimediabile. O meglio, davanti allo specchio riesco in qualche modo a giocare con le angolazioni e l’illuminazione, o anche solo con la pietà nei confronti di me stesso, è quando vedo una mia immagine che rimango colpito da quanto il mio viso sia scomposto, inciso, devastato. Spesso ci facciamo dei selfie: lo vuole lei, io finora non avevo mai fatto dei selfie, e mai più avrei pensato che un giorno mi sarei ritrovato a farne. Le prime volte risultavo sempre davanti, parevo una maschera barocca, un teatrante grottesco. Ora cerco di defilarmi dietro a lei, in modo che le rughe e le borse della mia pelle siano meno impressionanti. Ma continuano pur sempre a imporsi e a concentrare l’attenzione su di loro: certe cose non si possono aggiustare solo con la volontà.
Cerco allora di tenermi in forma. Lo facevo anche prima, ma adesso non è più per contrastare i miei mali cronici, o insomma non è più solo per quello, ma per piacerle, o più precisamente per non disgustarla. Vado in piscina, cammino, mi stiro utilizzando le posizioni yoga che conosco. Certi giorni faccio addirittura dei piegamenti sulle braccia, che non ho mai fatto. Mi dico che è importante che il mio corpo non sia troppo cascante, mi pinzo con le dita per verificare le varie parti.
E cerco soprattutto di non avere peli nel naso e nelle orecchie: mi strappo con la pinzetta metallica quelli nelle narici, facendomi male, e delle orecchie, pinzandomi la pelle, e mi taglio con il rasoietto quelli sul collo. Cerco di fare del mio meglio, ma c’è sempre qualche pelo disordinato che resta: lei avvicina due dita fulminee e me lo strappa con un movimento deciso e per certi versi trionfante. Poi continua quello che stava facendo, senza commentare, ma insomma chi vuole capire capisce.
Un giorno mi ha confessato che ha paura che io muoia. Io le ho detto che sempre quando si ama si ha paura che la morte ci porti via la persona che amiamo. Lei allora mi ha chiesto se anch’io ho paura che lei muoia. Sei così giovane, le ho detto io, che con lei sono sempre sincero. La mia morte, che si impone adesso a me stesso, mi protegge dalla sua, mi sono accorto, dal timore della sua.
Se potessi con lei starei sempre in casa, o meglio ancora nell’intimità del letto. All’inizio non era tanto facile stare bene bene incollati, tra i nostri corpi rimanevano dei vuoti. Perché non potevo avvicinarmi troppo alle sue parti doloranti – a dispetto della giovinezza ha già parecchi acciacchi -, o insomma non avevo imparato a venircene fuori senza farle male, o anche solo i nostri angoli non si incastravano a dovere, facevano leva. Per quanto si facesse tra noi rimaneva spesso un braccio di cui non si sapeva cosa fare, come un bagaglio che non si sa dove mettere. I tentativi erano sforzati, e quasi sempre deludenti.
Adesso invece abbiamo imparato a fare aderire alla perfezione le nostre pelli: lei si stringe nel cavo del mio braccio appoggiata giù e giù al mio corpo, senza alcuna tasca di aria o di diffidenza, con i capelli che pigiano sul mio collo e i piedi che abbracciano i miei. O anche si schiaccia contro la mia schiena, risucchiandomi come una grande ventosa, e incollando le ginocchia nel cavo delle mie. O sono io che mi incollo alla sua schiena, con il braccio a fare pressione sul seno per ridurre a niente ogni distanza, per spremere fuori dai nostri corpi fino all’ultima molecola di ossitocina. Anche per incollarsi, per arrivare a farlo alla perfezione, ci è voluto del tempo, come per il resto.
(Parigi, 27 settembre 2018)
(l’immagine: Pierrette Bloch, “Sans Titre”, Encre sur papier, 76×57 cm, 2004, selvaggiamente fotografato)
COPRIS UMBILICATUS
di Tommaso Lisa
“Merdre!”
Alfred Jarry, Ubu Re
Cosa ci faccio da fin troppo tempo chinato su un grande secchio di plastica rossa al centro di uno spiazzo assolato prossimo ad una fonte?
Avrò avuto poco meno di tredici anni; è tarda primavera e mi trovo in campagna, alle pendici del monte della Calvana, sopra la città di Prato, ma potrebbe benissimo essere il frammento di un sogno, un falso ricordo o un’allucinazione. Eppure sono proprio io che mi specchio ormai da molti minuti consecutivi in questa grottesca opera di basso materialismo: un secchio che si va riempiendo d’acqua e di sterco ovino. Resto quasi accecato da un’iniziale forma di miopia, effettivamente diagnosticatami dall’oculista, che induce però una distorsione semantica dell’oggetto in funzione di una visione puramente scatologica. Posto di fronte a tale scena primaria, a quest’autentica trasgressione, il linguaggio quasi non ha più potere. Ma non c’è dubbio che i molteplici riflessi cangianti e oleosi, variegati dal verde, al marrone fino al blu di tale melma, dovuti ai composti chimici dei liquami, valgono per me quanto quelli di un diamante.
Qualcuno, che calza dei grandi stivali impermeabili marroni, continua a riempire fino al colmo il contenitore di bitorzoluti escrementi raccolti nei pascoli limitrofi, diluendoli in quell’acqua via via sempre più scura. Io, chinato, non distinguo altro che le lunghe gambe e i pantaloni di velluto di questa che resta nel ricordo una statua acefala. Devo evidentemente subire una profonda fascinazione incantatoria da questi cretti affioranti in superficie, eruzioni vulcaniche a corda, deiezioni di pecora che galleggiano sulla superficie divenuta nel frattempo perturbante come una combustione di Burri. Lo sterco ricopre tutto lo spazio navigabile tranne alcuni buchi, isolette di vuoto che rimandano ad un oltre, a un sotto ancor più scuro. Eppure da questo magma indifferenziato emergono dei segni brulicanti di vita, creature lucide, dotate di dure e zigrinate zampe fossorie. Immagini di fenditure geologiche ctonie profonde che preannunciano il senso della catastrofe, testimonianza di un’inesorabile assenza.
Mi sono formato così. Ho forgiato il mio carattere individuale e la mia estetica nella materia, su queste emozioni primigenie. Altro che calchi di Bruce Nauman, altro che le spirali di Robert Smithson o alle architetture dissezionate di Gordon Matta-Clark! In tale celebrazione dell’inarticolato, naturale e impossibile da regimentare nella vetrina di una galleria d’arte, ricordo per certo di aver avuto una lucida epifania del mondo, sostituendo al linguaggio una silenziosa contemplazione. Sono stato lì, muto, per diversi minuti, la bocca spalancata e gli occhi sgranati, a contemplare – in estasi, quasi in preghiera – la melma limacciosa di quel secchio divenuto sacro, in cerca di scarabei. Le opache venature cangianti del limo e i riflessi del cielo azzurro elettrico del maggio inoltrato facevano da specchio agli affioramenti di Aphodius ed Ontophagus di taglie infime, minuscole, sempre inferiori al mezzo centimetro. E più il tempo trascorreva e più nel secchio era un ribollire di vita, di escrescenze, poiché l’acqua scioglieva quelle feci di capre e pecore, schiudendo alla vista la miriade di Scarabeidi appartenenti ai più svariati generi, oltra a numerosi e variopinti Isteridi, a lunghi e serpentiformi Stafilini.
Con delle pinze d’acciaio cromato smisuratamente lunghe, clownesche, ho iniziato ad estrarre, dalla superficie stagnante di quel secchio sporco i minuscoli corpi zampettanti. Ero entomologo e questo spettacolo toccava in sorte alla mia vocazione. Quale fascino esercitasse su di me la ripugnante materialità dell’essenza vitale è difficile dire adesso senza mentire. Era dal mio stesso corpo, dal profondo delle viscere di terra che stavo accortamente estraendo singoli esemplari in parte rappresi in frammenti filamentosi simili ad alghe, il senso. E scopro per la prima volta quanto sia faticoso la meticolosa e prolungata azione di cavare dalla materia il significato, dire il non detto. Onthophagus vacca, fracticornis, verticicornis. Ecco un Aphodius fossor, nero e grosso, e poi scrutator, erraticus… Tutto ciò perché sapevo già alcuni dei loro nomi: il linguaggio era tornato ad esercitare il proprio potere sulla realtà, informandola, setacciando, scindendo e posizionando ogni cosa su una corrispettiva scala di valori. Ogni tanto affiorava anche qualche grande Copris dal grande corno. Bisognava prenderli tutti e stare attenti nel distinguere poi, in studio, se si trattasse di lunaris o del ben più raro endemismo chiamato umbilicatus. Eppure tutta quella massa informe aveva anche un alto valore d’uso, essendo un ottimo concime. Non avrebbe torto il contadino a lamentarne la sottrazione dal prato dove aveva portato gli armenti a pascolare. Un alto valore d’uso agricolo ed un grande valore simbolico, nel momento in cui vidi affiorare, come fosse una pagliuzza d’oro, il raro esemplare tipico del luogo, il genius loci del Copris umbilicatus descritto per la prima volta da Abeille de Perrin nel 1901. La specie si distingue dalle altre, più comuni, per un piccolo ombelico al centro della spina sternale.
Come la volta che scalai la Calvana fuori da ogni sentiero, molti anni più tardi, perdendomi in un inestricabile macchione di rovi. Il sole stava tramontando in quella fine inverno che da purgatoriale stava diventando senz’ombra di dubbio un vero inferno tanto che dovetti strisciare sotto un cespuglio inestricabile di rami, nelle gallerie dei cinghiali, una muraglia insormontabile di cespugli spinosi da tutti i lati in tutte le direzioni. Sopraffatto, stavo per chiamare i Carabinieri per farmi venire a soccorrere quando per terra ho visto uno scarabeo trottare tra le erbe e lo sterco di cinghiale. Non ci crederete ma quello scarabeo mi guidò fuori dal macchione e mi fece ritrovare il sentiero. Rimesto nel ricordo, in questa melma psichica intorno a questo paesaggio carsico di meati e di doline, e più mescolo, più vado a fondo. Sprofondo alla scoperta dell’inconscio. In quel secchio melmoso della mia adolescenza, sulle pendici della Calvana, navigava una città altrimenti giacente sepolta sotto lo sterco, invisibile agli occhi. Quei pallidi coleotteri cheratinosi, splendide forme sclerotizzate in corni vertiginosi, spine, elitre solcate e sterni carenati. Reliquie. Tra tutte loro emergeva, indimenticabile e grosso come un bottone di un vecchio capotto, il Copris umbilicatus. Ombelico del mondo, omphalos, tra betili di sterco che si ergevano attorno a me.
Nazione Indiana compie 18 anni e cambia… veste
a Mariasole Ariot
alle sue piume leggere e stilizzate
che sono volate lievi
nel logo di Nazione Indiana

[Pier Paolo Pasolini, Pascoli, “Passione e ideologia” p. 291, Milano, Garzanti]
di Orsola Puecher
Nazione Indiana ha raggiunto la maggiore età e cambia veste grafica. Sono passati già 18 anni dal lontano 2003, anno della sua fondazione. In questo lungo periodo di tempo si sono avvicendati moltissimi redattori e alcuni veterani, Andrea Inglese, Helena Janeczek, Gianni Biondillo, dal 2004, e Jan Reister, dal 2005, sono ancora qui.
Come è solito dire Gianni Biondillo “un indiano è per sempre”, come i diamanti, non so se sia vero per tutti, ma il passaggio indiano è stato una tappa importante, scritta nella storia del web e delle riviste web, scritta nel diventare via via sempre più preminente della dimensione virtuale e digitale del giornalismo, della letteratura, della critica letteraria.
Per moltissimi Nazione Indiana è stata un punto di partenza e un trampolino di lancio.
Questa ricorrenza marzolina e primaverile, il ⇨ COMPLEANNO DI NAZIONE INDIANA, è stata festeggiata per un po’ di anni, come se ci si sorprendesse, dopo la scissione iniziale, della sopravvivenza e della longevità del progetto, del “miracolo” del suo proseguire, poi non ci si è più pensato, come per certe signore che non ci tengono tanto a far sapere la loro età, o forse, piuttosto, per l’assimilata sicurezza di una continuità solida e in evoluzione.
da ⇨ CHI SIAMO
L’organizzazione di Nazione Indiana è decentrata, orizzontale, rizomatica. Non esiste una redazione centrale e fisica, non ci sono posizioni unanimi, ma singole autonomie individuali disseminate in luoghi e nazioni diverse, che interagiscono e collaborano in una particolare armonia, sconclusionata e magica, trovando a volte l’occasione di formulare progetti collettivi e di incontrarsi, non solo virtualmente, organizzando feste e convegni annuali.
Questa armonia, sconclusionata e magica attiene anche al restyling grafico del sito, che ancora una volta è arrivato a una conclusione dopo una gestazione complessa, intermittente, dilazionata nel tempo, lontana nello spazio, fra momenti di entusiasmo e di sconforto, di difficoltà tecniche e di progettazione.
Dallo scorso 21 marzo, dopo un periodo di necessario rodaggio, ora siamo a una versione stabile e definitiva.
Come sempre, qui, quando viene proposta un’idea, molti la discutono, ognuno manifesta le proprie esigenze, i propri dissensi, qualcun altro si eclissa, in pochi si collabora praticamente alla sua realizzazione. C’è chi ha conoscenze professionali della materia, chi si professa webmaster empirico e intuitivo, chi generoso di disponibilità, tempo ed energie sta sempre lì, sul pezzo, pungolando e stimolando.
Sono particolarmente felice e orgogliosa che questa progettazione collettiva del nuovo sito di Nazione Indiana sia avvenuta con successo proprio in questo anno così difficile per tutti, dove il lavoro artistico e culturale sembrano essere negletti e relegati in secondo piano dall’emergenza pandemica.
Guardando gli screenshot della homepage dall’inizio, dal 2003 in poi, si evidenzia il cambiamento non solo grafico ma sostanziale della veste tipografica e del template.
2003

2005

2007

Dal blogroll, il blog a rullo, con i contenuti impilati in verticale, più adatto a uno spazio personale, come infatti è nella storia della nascita del blog, strumento elettivo per mettere i propri contenuti individuali online in una successione temporale, siamo arrivati nel 2012 a una visione più adatta a una dimensione collettiva, da rivista, che potesse contenere in una schermata, in ogni scroll, più informazioni possibili.
Dalle prime versioni un po’ calviniste e iconoclaste, con rare piccole immagini francobollo, abbiamo sentito l’esigenza di dare alla parte iconografica maggior rilievo e organicità rispetto ai testi.
Se la homepage ha ristretto i singoli post in una griglia più fruibile e navigabile, la pagina degli articoli invece si è allargata a una migliore leggibilità dei contenuti dei testi, con uno spazio maggiore per gli aspetti visuali e multimediali.
2011

2012

2021
- Fra le novità di questa ultima trasformazione forse la più importante è la possibilità di valorizzare finalmente l’immenso archivio di Nazione Indiana, gli 11.900 e passa articoli, in crescita giornaliera, finora pubblicati, il corpus del lavoro degli attuali componenti della redazione insieme quello dei redattori del passato e degli ospiti, di cui siamo i custodi: con la rubrica dall’archivio, nel colonnino di destra, che cambia casualmente, ogni volta che si aggiorna la pagina, emergono a sorpresa post e autori dell’archeologia indiana, che altrimenti se ne starebbero sepolti negli strati geologici del retrobottega. Siamo il presente ma anche e sempre il passato da cui siamo germogliati.
- Le categorie in cui sono catalogati gli articoli sono state rese disponibili per una consultazione rapida.
- L’inchiesta La responsabilità dell’autore, del 2010, ma sempre importante e attuale, è stata rimessa in evidenza.
- Alcune rubriche molto belle e in progress come Mots-clés e cinéDIMANCHE, hanno trovato uno spazio grafico consono.
- Sta decollando anche una nuova rubrica di instant post, al volo, con articoli più brevi, segnalazioni, colpi d’occhio fulminanti.
- Abbiamo dismesso le antiche penne, ma non il loro significato di appartenza a una “nazione composta da molti popoli orgogliosamente diversi e liberi” e Mariasole Ariot ha distillato delle nuove piume per il nostro logo.
Che altro dire? Buona lettura a tutti e buon lavoro ai redattori di Nazione Indiana, che ancora tengono viva e vitale questa bellissima avventura.
Immagini dal passato da ⇨ WaybackMachine/WebArchive
Brexit _ di James Noël

Brexit è un poemetto di James Noël, pubblicato contemporaneamente in francese per Au Diable Vauvert e in italiano per le edizioni Cafoscarina, a cura di Giuseppe Sofo (2020). La traduzione è frutto di una cooperazione fra studenti e docente, che Sofo racconta in maniera dettagliata e brillante nel saggio posto in chiusura di volume, mostrando le potenzialità, le specificità e l’interesse della pratica collaborativa. Protagonisti di tale pratica sono stati, insieme a lui: Marco Boschetti, Angela Domazetoska, Anna Efremova, Michela Nessi, Valentina Piotto, Anna Schileo, Erica Vianello.
“Oggetto volante non identificato”, nelle parole dell’autore, Brexit è a metà “fra un pamphlet e un divertissement”, come descritto in quarta di copertina. Ne propongo qualche estratto; l’edizione pubblicata presenta il testo a fronte. [ot]
_
La Brexit mi eccita
È incredibile
È la prima volta
Che una nazione si butta dalla finestra
In pieno orgasmo
……………………………..
Schiavi della defenestrazione
*
Era la strada giusta per l’Inghilterra
E per la regina
E per l’autobus
…………………………..
La borsa saliva come il desiderio
E al culmine dell’eccitazione
Bingo
Ecco il break
*
La Brexit non è uno scivolo d’emergenza Né un’uscita di sicurezza Né una scala a chiocciola La Brexit non è un lungo tunnel Né un faro che brilla solitario nella notte La Brexit non è un tratto di strada Né un terminal che si ingozza di passi in ogni direzione La Brexit non è una culotte Né una coperta Né una bandiera Nemmeno un perizoma che pesa poco o niente
[…]
La Brexit è uno stato di trance Un passo nel vuoto Un salto nel letto Un’ovvietà Un fenomeno naturale Una sensazione Una dissonanza
*
È forse un open-bar
La Brexit
Perché
Questo bel mondo risvegliatosi intontito
Dall’altra parte
E questi corpi che galleggiano
Made in Mediterraneo
Hanno sbagliato festa
E paradisi
fiscali
Artificiali
E questi corpi che galleggiano
Hanno sbagliato impero
E paradisi
Artificiali
*
In che stato
Si trova il cuore
Quando non si riesce a lasciarsi
– Più grande del normale
– Più vivo che mai
– Impulsivo
– Adesivo
– Esplosivo
Ditemi
In che stato
È il cuore
Quando non si riesce a lasciarsi
Bisogna sotterrare l’ascia di guerra
O continuare senza senso
A constatare amichevolmente di amarsi
Come buoni vicini
Che si rispettano
E si guardano attraverso la chiusura lampo
Insaziabile
E in stato confusionale
È lo stato dell’Unione
– Ti verso da bere Miss Beautiful?
– Burk
Il verso libero non fa per me
– Prova da un’altra parte
Non ho tempo per chiacchierare al bancone
la seconda fregata

sento dalla radio stamani che la seconda fregata che vendiamo all’Egitto sta ormai navigando verso quel paese. Forse per compensare il fatto che l’Egitto, nella persona del suo dittatore Abdel Fattah Al-Sisi e della sua cricca, ci sta continuamente fregando. Dopo quello che hanno fatto a Giulio Regeni e quello che stanno facendo a Patrick Zaki, noi manteniamo un solido commercio, anche di armi, con questa gentaglia, addestriamo i loro poliziotti in Sardegna, insegniamo forse loro a torturare meglio? Il nostro ambasciatore al Cairo, ritirato per poco tempo, è ancora lì che mantiene cortesi e diplomatici rapporti? Cosa ne è della causa intentata dai genitori di Regeni allo stato italiano per la vendita di armi a un paese che non rispetta i diritti umani, violando così un’apposita legge dello stato di qualche anno fa? Il Draghi che è così tanto cattolico confonde forse, dato il suo passato, il Dio trino col dio quattrino?
L’Anno del Fuoco Segreto – La serpe
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.

di Elena Giorgiana Mirabelli
… e per un mese intero suonarono e ballarono
È mia madre ed è nel bosco.
Ci sono le primule viola, l’odore di fiori e di sterco, il suono dell’acqua sulle pietre, una lunga gonna bianca. C’è la luna e una brezza di terra, lei è scalza. I capelli sulle spalle, sciolti, ciocche mosse e lucide; lascia dietro di sé l’odore dei balsami alle erbe che usa. Gli occhi sono piccoli e chiari, le labbra sottili, il viso senza grazia.
Ilda, la donna dai capelli rossi, racconta una storia fatta di desideri e preghiere, di danze notturne e di rettili, di caviglie e gole blu. Quella storia arriva a me, al mio corpo di squame e al veleno che ho fra i denti. È la storia di mia madre che ha pregato ogni notte gli dèi del cielo e della terra, le nuvole e la luna: vedeva donne diventare madri, animali deporre uova, fiori riempire il giardino di profumi.
Indossava la sua veste bianca, e mentre mio padre dormiva, scendeva giù verso il giardino, prendeva il sentiero e andava verso la radura. Lì, a piedi scalzi, sedeva sul masso, il masso dei segreti, degli umori e dei sussurri. Si sdraiava a terra, respirava, copriva i seni di sassi. Ingoiava erbe, seguiva le luci, pregava. Nessuno sa, neanche mia madre, per quante notti andò lì, nel bosco, scalza.
Nacqui che ero senza ossa. Una serpe lucida e piena di squame.
Nella mia stanza c’erano velluti e cuscini, felci e alloro. In un angolo, la gabbia con i topi bianchi che squittivano alla luna e battevano sul metallo. Quando all’alba Ilda entrava per svegliarmi, si sedeva accanto a me, le leccavo le mani e le succhiavo i seni, scivolavo fra le sue spalle, mi attorcigliavo alle sue caviglie. E lei intrecciava i tessuti e le storie.
Ingoiavo le bacche rosse del biancospino e pensavo che altrove, a sud, un re serpe era ridiventato uomo.* Ilda diceva che anche per me l’incantesimo si sarebbe spezzato.
«Come?», le chiedevo.
«Devi solo sposarti. Lui si toglierà sette vesti e tu sette strati di pelle. E avrai le ossa e i capelli, avrai i seni e così dovrà accadere per tre notti».
Doveva, però, essere bello e ricco. Figlio di un imperatore o di un re. Se così non fosse stato avrei potuto affondare il mio veleno in quella gola di uomo. Come accadeva nella storia.
Passavano gli anni e le mute. Lasciavo gli involucri in giro, sui tappeti, sui miei cuscini, sulle pietre.
Una volta, al fiume, l’ho lasciata accanto ai talloni delle donne. Mia madre intrecciava i rami di salice. Ilda era seduta accanto a lei. Mio padre era via, chissà dove, lo vedevo sempre meno. Ricordo le sue spalle, la sua nuca, il suo viso no. Ilda diceva che lui non sopportava me e che viaggiava per tutte le terre conosciute e ignote alla ricerca di una soluzione al problema che ero. Quel giorno, Ilda bisbigliava perché non voleva che mia madre sentisse e soffrisse. Ma mia madre non soffriva. Intrecciava selci e masticava le bacche e poi si illuminava sempre quando Lui era presente. Lui, unico uomo che le donne ammettevano al fiume, era senza ciglia e capelli. Di solito, quando Lui arrivava, Ilda mi portava lontano da mia madre, diceva che era meglio così e che prima o poi avrei capito, quel giorno invece prese a bisbigliarmi la storia del serpente, dei sette strati di pelle e del grande ballo.
«Anche per te ci sarà un grande ballo. Tuo marito non danzerà, rifiuterà gli inviti di contesse e marchesi, di principesse vestite di organza e principi vestiti di lino. Poi arriverà una dama dal lungo abito d’oro: quella dama sei tu, ma nessuno lo saprà. Al secondo ballo sarai vestita di blu. Al terzo sarai coperta di velluto».
«E poi?» chiedevo.
«Ci sarà festa».
L’indomani, eravamo nella radura. C’erano le primule viola, l’odore di fiori e di sterco, il suono dell’acqua sulle pietre. C’era la luna e una brezza di terra, presi a guardare con più attenzione le donne. Le vesti erano trasparenti e chiare, le gambe erano scoperte, i talloni screpolati e duri. Non avevo mai notato quanto i polpacci possano essere pieni di vene e cicatrici, quanto siano i piedi a definire la fatica. Mia madre ha i piedi piccoli e senza graffi. I polpacci non sono gonfi, ha le caviglie sottili. Quando abbraccio le sue gambe sento l’odore delle creme e degli oli. Queste donne sono robuste, muscoli in tensione, nervi abituati allo sforzo. Le vesti che indossano sono macchiate di terra, umori e sudore. Hanno croste e calli. La pelle dei talloni è una ragnatela di crepe e tagli. Sono belle perché diverse. Alcune sono piccolissime e nerborute, altre immense e piene di carne, altre ancora hanno capelli radi, ciocche scomposte e stoppose. Mi accorgo di non averle mai guardate davvero.
Raccolgono malva e ortiche, striscio fra le loro caviglie, Ilda mangia more, mia madre è rimasta a casa con Lui.
Ilda beve e poi mi mostra la sua lingua, mostra la sua gola. È blu e ride. Anche le altre bevono e ridono. Cominciano a cantare una canzone fatta di sole consonanti, poi di vocali apertissime, ma non c’è nessun significato in quello che dicono. Intonano catene di suoni, variando il volume a seconda delle indicazioni di Ilda perché è lei che ha chiamato il rito. Si muove fra le donne, le sfiora, a volte bacia la fronte o la guancia. A volte scende giù fra le gambe. Quando lo fa, quando decide di scendere con la testa fra le gambe di qualcuna, il ritmo accelera e le altre battono i piedi così forte che sento la terra vibrare. E allora comincio a strisciare sempre più veloce per evitare che mi schiaccino. Sono sul masso dei segreti, degli umori e dei sussurri. E le vedo che si avvicinano e si allontanano, girano attorno a Ilda e girano girano girano ognuna attorno al proprio asse. I vestiti si gonfiano e poi aderiscono alle gambe e ai busti. I seni cominciano a mostrarsi.
Sono fiori che sbocciano, pianeti che orbitano, fiammelle che brillano.
E attorno tutto muta.
L’odore del bosco si mischia al selvatico delle loro ascelle. Le vesti sono a terra e vedo i corpi graffiati, pieni di croste, splendidi come solo alcune storture sanno esserlo. Vedo schiene dritte, ricurve, seni gonfi di latte e grasso, vedo una donna con una lunga cicatrice al posto di un seno, delle pance slabbrate, capelli che cominciano ad appiccicarsi su fronti sporche e sudate.
Una donna si accovaccia e sento salire l’odore acre dell’urina. E quell’odore è l’odore di vita, di sporco, è un odore che mi chiama.
Comincio a strisciare e a risalire su per le loro gambe e sento un odore ferino che cambia e cambia e cambia ancora. Ilda è l’odore del bosco dopo la pioggia.
Le salgo su per il corpo, Lei mi chiede di passarle fra le gambe, io le disegno una traiettoria lungo il fianco, fin su, fra le scapole e il collo. Le avvolgo la gola per tre volte. Lei comincia a danzare. A muovere i fianchi in modo morbido. Chiude gli occhi. Le sue mani sulle mie squame. Il ritmo di tutte è rallentato. Vedo lingue e braccia e seni e danze. Ilda vibra fra le mie spire.
E poi arriva Lui. Si avvicina a Ilda mentre le altre donne hanno iniziato a intrecciare i capelli con i fiori. Sono stanche, alcune sono sedute e poggiano la schiena sul masso, altre preferiscono rimanere sdraiate a terra. Hanno gli occhi chiusi, le braccia abbandonate. La donna senza il seno ride. Io avvolgo il collo di Ilda che mi tiene ferma perché non vuole che io mi allontani. Lui si accovaccia accanto, nel silenzio del bosco l’unico suono, ora, è il respiro di Ilda. Le accarezza la fronte. Accarezza me. Dice che non esistono formule giuste, ma esistono formule. Non esistono storie esatte, ma esistono storie piene di errori. Dice che mia madre ha solo bisogno di luce, e che non c’è alcun incantesimo da spezzare. In quel momento il respiro di Ilda è un grido che mi frantuma.
E accade.
Tutti i sette strati di pelle scivolano via, l’uno dopo l’altro senza che io l’abbia deciso. E sono carne e sangue. Ossa e pelle. E gli involucri sono abbandonati e Lui li mangia, uno dopo l’altro.
Quando va via, le altre si rivestono lasciando me e Ilda sdraiate lì, da sole. Non ci sono più le fiamme a illuminare la radura. Sono completamente nuda. Guardiamo verso l’alto, ho le mani sulla pancia. Ilda ha un braccio dietro la nuca e le gambe sopra le mie. Sente la consistenza delle mie ossa. Le sento anch’io. Le chiedo cosa accade al re dopo il terzo ballo. Mi dice che lui è vestito da monaco, che i sovrani suoi genitori hanno bastonato sua moglie perché non doveva danzare con degli sconosciuti. Mi dice che allora la donna svela che quel monaco è il re serpente, che con quelle bastonate hanno impedito che si trasformasse in uomo, per sempre. Ilda quando racconta fa le voci. Stridule per i sovrani, la voce della moglie è roca, quella del re serpente è piena di toni bassi.
Dice che dopo quelle bastonate, il re serpe si trasforma in un altro animale.
«Ora è un uccello che vola via. La moglie lo cerca e lo riconosce. Ma lui le mozza le mani e le cava gli occhi».
«Perché?»
«Per spezzare l’incantesimo».
E Ilda racconta che lei avrà di nuovo mani e occhi grazie all’intervento del divino. Le basta immergere i moncherini in una pozzanghera e passare le nuove mani sul viso. E con le nuove mani e i nuovi occhi costruirà un palazzo di fronte a quello del re. E alla fine i due si riconosceranno e danzeranno. E saranno felici.
Poi, il suo entusiasmo si smorza.
«Lui ha dovuto farlo. Ha dovuto mozzarle le mani, ha dovuto levarle gli occhi, perché solo così avrebbe rotto l’incantesimo e sarebbe rimasto uomo», mi dice.
«Io non voglio mozzare mani né cavare occhi». Sono finalmente calma.
Ilda si mette su un fianco e mi ascolta.
«Non voglio nessuno a cui mozzare mani, non voglio gole in cui affondare veleno. Non voglio togliere strati, non voglio nascondermi. Non voglio attendere che arrivi chi spezzi l’incantesimo».
«E allora, cosa vuoi?»
«Voglio solo danzare ogni notte».
*Il Re serpente, in Italo Calvino, Fiabe italiane, vol. II, Einaudi, Torino 1956.
Immagine di Francesco D’Isa.
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Elena Giorgiana Mirabelli, nata a Cosenza nel 1979, laureata in Filosofia, ha curato volumi per Carocci, Laterza e altri editori. Collabora con la rivista dedicata all’arte e alla letteratura erotica Queef Magazine. È redattrice della rivista Narrandom e dell’agenzia Arcadia b&s di Cosenza. Ha esordito a febbraio 2020 con il romanzo Configurazione Tundra (Tunué).
Grande Karma o il luogo dove il destino del Testo ha da compiersi
di Sonia Caporossi
L’ultimo romanzo di Alessandro Raveggi Grande Karma – vite di Carlo Coccioli (Bompiani 2020) fin dalle prime pagine sembra rispondere ad alcune linee ermeneutiche precise, al di là dei facili inquadramenti di genere e specie. Non è qui il caso di domandarsi, infatti, se il testo strutturalmente appartenga al modus ponendo ponens un po’ stucchevole della biofiction o alla definizione, meno in voga, della biografia romanzata. A nostro giudizio, esso riflette piuttosto, come sembra, la natura di un caleidoscopico e surreale gioco del doppio, in cui il tema portante è una battuta di caccia identitaria dove lo scambio continuo di forma e sostanza tra il protagonista/autore-che-dice-io e l’oggetto dell’indagine, il Grande Scrittore Outsider archetipico, diviene motivo di sviluppo narrativo e di riflessione sul senso stesso della scrittura.
L’oggetto di questa neomassimalista Ur-Ermittlung è Carlo Coccioli, scrittore dai mille volti come una divinità Indù, che esiste concretamente nelle peregrinazioni in cui si aggirò per mezzo mondo inseguendo i suoi demoni reali e finzionali, dall’Africa in cui nacque a Parma e poi a Fiume, a Napoli e a Firenze, fino a Parigi e al Messico più sperduto e conglobante, laddove disperdere opportunamente le tracce di un’esistenza in continuo fieri. Carlo Coccioli esiste davvero nei viaggi, nell’epistolario, nelle relazioni omosessuali e nelle frequentazioni letterarie (conflittuale quella con Curzio Malaparte, per dirne una; un inseguirsi e perseguirsi continuo). Ma quel Coccioli insiste nel suo esistere anche e soprattutto letterariamente nei propri scritti, continuamente perduti e ritrovati, alcuni nemmeno realmente essenti, altri solo ipotizzati, paventati, altri ancora di momentaneo successo ma che, attraverso un inusuale e straniante processo di distaccamento dalla fama, sono stati ben presto dimenticati colpevolmente in patria, fino a lasciare scarsa traccia mnemonica di un romanziere paragonato un tempo “ad Albert Camus e Marcel Proust” (p. 53). Una sorta di Gide già postmoderno e postumo a sé stesso, autore di opere difficilmente classificabili come Fabrizio Lupo (1952, in italiano nel 1978), Omeyotl, diario messicano (1962), Piccolo Karma (1987), Budda (1994) tanto per citarne alcune in mezzo alla sterminata produzione di questo grafomane tanto prolifico quanto interlocutoriamente evanescente.
Epperò, alla fine, anche se esiste o, per meglio dire, proprio visto che esiste, non importa poi tanto, nella sede del metaromanzo raveggiano di cui stiamo parlando, che Carlo Coccioli sia vissuto davvero: l’atmosfera che si respira tra le pagine di Grande Karma ha un che di misteriosofico, il testo è ricoperto a ogni pagina da una patina grassoccia di obnubilante nebbia cognitiva che avvolge non solo il personaggio Coccioli nel trascorso “analitico” del tema, ovvero sé stesso (laddove l’analisi è un tentativo continuo dell’io narrante di entrare in possesso o, quantomeno, in contatto con l’oggetto sfuggente dell’indagine stessa), quando l’auctor oggetto di ricerca e i personaggi in quanto tali, compresi quelli compresenti, di sfondo e di contorno. Coccioli è sintetizzato nel doppio, reduplica n-volte prismaticamente la narrazione e, per il tramite di essa, il senso stesso della parola detta oltre il quid della materia narrativa trattata.
In questo senso, Carlo Coccioli, ricercatore di una religione iper-rivelata proprio perché in ab-sentia, abituato a spostare indefessamente l’oggetto della propria ricerca cambiandole nome e volto in tutte le divinità pensabili che attraversano l’unico vero Dio per lui esistente, ovvero l’Io senza dentale sonora, è un esploratore dell’abisso del senso a cui Dio stesso si cela senza rimedio: “perché Dio ti nascondi sempre, se io ti bramo, innamorato pazzo?” esclama Raveggi/Coccioli con il corsivo dell’Erlebte Rede a p. 46, utilizzando il meccanismo steineriano del Doppelgänger che ritroveremo per tutto il romanzo, progressivamente usato e abusato come espediente attraverso cui rendere “quel suo andirivieni sempre compromesso tra vita e invenzione” (p. 50), nel tentativo di darsi forma e definizione: “Sono stravagante, un anormale, un mostro, un marziano, una creatura apocalittica? O forse, più semplicemente, un fuori di testa?, si chiedeva in uno dei suoi articoli” (p. 53).
L’autore che propugnò la prima cellula della Alcolisti Anonimi a Firenze, che si spostò come un girovago neobarocco in cerca della verità col lanternino sbeccato dell’Eremita dei Tarocchi, il mistico sensuale che della propria omosessualità non disdegnava l’anelito all’innamoramento assoluto (per un Dio, per un uomo, per un cane), potrebbe somigliare, chessò, a un Achab che avrebbe potuto benissimo accarezzare con amore la balena facendola rientrare nel suo Ashram come divinità degna di venerazione, a un Argo dai mille occhi, a un Erma bifronte a cui due soli volti starebbero stretti. La parola magica che amava ripetere era Passione, con una maiuscola non scelta a caso: “ho perso la bussola […] sono preso dalla Passione, venero degli Idoli, hai capito, Miguel? […] Ho definitivamente abbandonato le Divinità del monoteismo, perché, non trovi?, un Dio terribile non ha senso! Un dio che sacrifica il proprio figlio, come è possibile!…quando io nutro persino i topi che ho in casa?” (p. 93). Del resto, il misticismo panico di Coccioli, contraddittorio ma olistico, onnipervadente e metafisico nel senso religioso del termine, gli permetteva persino di vedere in Bhaktivedanta Swami Brabhupada, nella disciplina atarassica e asessuale degli Hare Krsna “una sorta di insegnamento pansessuale. Che coinvolgeva le piante, gli animali, in un erotismo per tutte le cose…” (p. 94).
Inseguire il Manoscritto archetipico nascosto in chissà quale anfratto della sua Casa Museo o custodito nel cassetto di chissà quale enigmatico amante/comparsa, cercare ogni dove i diari segreti occultati da chissà quale fantasmatico attore secondario della vita di questo Scrittore junghianamente Primigenio è la vera missione del protagonista che dice io, il quale si perde e si confonde nei meandri della ricerca stessa, sentendosi rubato dalla/alla letteratura come fosse disciolto in un gioco linguistico, in un dedalo wittgensteiniano dalle infinite regole riscritte infinite volte, immerso giocoforza e suo malgrado nell’imprinting borgesiano e bolañano di un atto letterario concepito come supremo fine proprio perché inevitabile fine. In questo contesto, anche il Messico diventa un non-luogo invischiante in cui disperdere i propri punti di riferimento identitari. C’è qualcosa a metà tra Lynch e Tarantino nelle descrizioni, nei luoghi, nei particolari, sempre spostati altrove, sempre descritti in altro, che rimangono lì, sospesi, senza dato definitorio e senza direzione.
In tutta questa dissipante dispersione, il segreto di Carlo Coccioli è uno e uno solo, identico a quello di qualsiasi narcisista patologico che si rispetti: voleva solo essere amato. Esattamente la medesima aspirazione di Enrico Capponi (è ora di svelare il nome fittizio del protagonista/doppio, anzi triplo, visto che dietro alla sua imago romanzata si nasconde, date le frequentazioni fiorentine, parigine, messicane e il physique du rôle, Raveggi stesso). La dispersione di energia, l’entropia cosmica della parola letteraria dissimulano dietro uno spesso strato di facili promesse di fama e di riscontri due/tre uomini che si inseguono in un gioco di specchi. E allora Enrico, già promesso sposo, si lascia sedurre prevedibilmente e facilmente da una ragazza messicana e coinvolgere da un cameriere parigino che lo conduce di fronte a sé stesso. Tanto è sfuggente e misterioso Carlo, nel suo caos preordinato di cui per tutto il romanzo si intuisce l’immanità, quanto Enrico è epimeteico e goffo: egli, Cappone di nome e di fatto, si lascia catturare e cucinare a puntino dall’animale stesso di cui va disperatamente a caccia.
È un immergersi carne e sangue in un percorso a ritroso con “al centro, un vuoto tremendo. Forse il vuoto dell’ubiquità di Coccioli, la ricerca della sua vita come nirvana pneumatico, un particolare mihrab di moschea, lo spazio architettonico dove tutti si rivolgono in preghiera. Vuoto” (p. 185). Nel romanzo ci troviamo più volte di fronte a un vorticoso essere-assente da riempire di senso, a un avvolgente effetto Morgana in cui dal miraggio emergono i fili e le p-brane di un’esistenza da ricomporre, quella dello Scrittore Archetipico; solo attraverso quella Enrico potrà costruire o rimettere insieme i pezzi della propria percorrendo “la doppiezza del viaggio” visto che “si va avanti tornando indietro, incatenati dove siamo stati sempre, senza mai esserci stati davvero” (p. 186).
È così che Enrico Capponi, andando avanti nella sua ricerca, si scopre essere “un filologo fallito nudo allo specchio, un scimmia testuale piena di desideri che si azzuffano tra loro” (p. 206), non ultimi quelli che lo dividono tra la figura di Lola, la ragazza messicana suicida a causa sua, che evoca il proprio atavico senso di colpa nei confronti dell’eterno femminino e Dina, la promessa sposa di una vita, per la quale non prova che un affetto di tipo sessual-fraterno come nel più tipico degli obblighi familiari, figura protettiva e confortante in cui rifugiarsi per trovare un ordine, un senso, una stabilità ormai troppo logorata e stretta nelle sue maglie autogiustificatorie per non sottintendere la presenza di una nevrosi desiderante. Pansessuale anch’essa, come quella di Coccioli, che lo conduce verso il proprio Grande Karma, passando attraverso “l’ombra intera di un’assenza” (p. 252), la sparizione, la dissipatio Humani Philologi, esattamente nel giorno paventato per le nozze, coup de théâtre in cui il Destino, quello di una vita che coincide col Testo, ha da compiersi. Del resto, il protagonista lo aveva detto fin dall’inizio: “Sarà che tutto ruota intorno a me, e io lo manovro, come fissi il perno di una ruota. O che, al contrario: sono io la trottola che gira a vuoto, e il mondo attorno è sempre lo stesso. Cambio le facce, o le facce cambiano me, con la velocità. Oppure ancora peggio: è tutta una specie d’altalena, un columpio, come direbbe lui” (p.). La vita non è una, ma tante: come le vite di Carlo Coccioli poste in sottotitolo, in esergo e in calce all’esistenza di Enrico, del lettore e, con loro, di chiunque sappia che la vita, pirandellianamente, “o si vive o si scrive”; ma anche entrambe.
Poesia e perdita. Un’intervista di Gilda Policastro a Franco Buffoni
L’intervista-dialogo che segue nasce da un incontro di poesia, tenuto presso la scuola Molly Bloom nel 2017.
Poesia e perdita: quando abbiamo concordato il titolo di questo incontro ho pensato ai versi di Eliot, a Fleba il fenicio che dimentica il grido dei gabbiani, il gorgo profondo del mare e il guadagno e la perdita (the profit and the loss). Qual è stato il tuo impulso?
Dovendo tornare alla Molly Bloom, dove avevo già parlato di traduzione, ho ripensato al precedente incontro che avevo chiuso con le parole di Robert Frost: «What is poetry? What gets lost in translation». Un binomio micidiale, poesia e perdita. E non posso non pensare ad Amelia Rosselli, a quei terribili versi di Documento (1976) in cui l’albero sulla strada diventa rosso perché la base della lampada da tavolo si riflette nel vetro. Lampada per la quale l’io poetico non vuole ricordare il luogo e le circostanze dove fu acquistata, «perché anch’essi pesano». Già nella prima parte del componimento si parla di peso e perdita:
C’è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.
La stanza invasa dal dolore e la finestra sono le stesse da cui vent’anni dopo Rosselli si sarebbe lasciata cadere, rendendo ancora più micidiale il binomio peso e perdita.
All’estremo opposto di Rosselli, Elizabeth Bishop, nella sua celebre L’arte di perdere tempera la disperazione per il suicidio di Lota de Macedo Soares, sua compagna per quindici anni, con l’ironia, prendendo il discorso alla lontana:
L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
E via con un elenco comprendente le case, l’orologio della madre, le chiavi, il tempo, un continente, due fiumi. Per concludere:
Ho perso persino te: la voce scherzosa, un gesto che ho amato.
Questa è la prova, evidente, che l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero – scrivilo! – disastro.
Quindi la perdita primaria è quella della fiducia nella vita, nella possibilità di goderne come se fosse un perenne incanto, che è poi l’idea dominante che si ha della poesia. La poesia è invece il referto di una perdita?
Cerco di rispondere inquadrando il tema della perdita in un’ottica filosofica e filologica, partendo dalla distinzione di Wittgenstein tra «parole sane» e «parole malate»: parole che significano quello che c’è e parole che muoiono in quello che non c’è e che non è mai esistito. La distinzione dipende da ciò che le parole richiamano. Se richiamano troppo o non richiamano più nulla, esse si ammalano. Esemplifico con un passaggio dal mio dramma Personae appena pubblicato, in cui il personaggio Narzis ricorda come le parole nascano «traviate»:
concrete al tempo di gioghi e genitali,
muoiono in quello di coniugazioni e genitivi.
Ricordo anche agli allievi quanto sia concreto – contadino, terragno – il giogo, lo strumento di legno che “aggioga” due buoi, da cui i “coniugi”, destinati e restare per il resto dei loro giorni sotto lo stesso giogo. E come si proceda verso l’astrazione coniugando i verbi e definendo genitivo un caso.
Dunque le parole stesse, anziché consistere in un guadagno, marcano una perdita?
In un intervento che risale al 1967 Auden disse: «Siccome gli uomini sono sia individui sociali sia persone, necessitano di un codice e al tempo stesso di un linguaggio, l’uno e l’altro fatti di parole. Ma tra l’uso delle parole come segnali e l’uso delle parole come linguaggio personale c’è un abisso insormontabile». Poiché sono convinto che se non si prende coscienza di questo fatto, non si può capire il perché dell’esistenza di un’arte letteraria come la poesia – e soprattutto non se ne può comprendere la funzione – non mi resta che riflettere sull’opera del poeta che più di tutti ha coniugato il binomio poesia e perdita. Premesso che non c’è bisogno di essere linguisti per sapere che la congiunzione è un elemento fondamentale, forse addirittura l’elemento fondamentale della costruzione linguistica, come definire la scrittura di Emily Dickinson, dove le parti connettive nel migliore dei casi sono abbreviate e più frequentemente espunte? La “e”, congiunzione principe – ancora più pesante e significativa nell’and inglese – in Dickinson non compare. Al suo posto appaiono barre, separazioni, intervalli. È la stessa cosa? No, non è la stessa cosa, non può essere la stessa cosa. Perché così barrato, intervallato, separato, il dettato dickinsoniano giunge al lettore in modo nervoso, isterico. Immediatamente si coglie un dato: quella poesia comunicherà sempre asprezza, ansietà, disagio.
C’è dunque un circolo che porta dal concreto della scrittura alla reazione emotiva, solitamente empatica del lettore. La perdita della congiunzione e dei nessi cos’altro implica sul piano dei significati relazionali? La nostra perdita riguarda solo chi scrive o anche chi legge, in qualche modo?
La lingua di Emily Dickinson è compressa, contratta, lacunare, perché procede from blank to blank. Proprio il procedimento da spazio bianco a spazio bianco la rende evanescente e infinitamente interpretabile, la rende unica. In pratica, con Dickinson, ci si trova quasi sempre ad avere a che fare con una mancanza “centrale”: una perdita. Da qui la necessità di ridurre le parole al minimo, di lasciare parlare gli spazi bianchi: appunto, i famosi blank, e le barre. Un procedimento sintetizzabile in due aggettivi tipicamente dickinsoniani: scant e slant. Il primo significa “secco”, “aspro”, il secondo “obliquo”: «Tell all the truth, but tell it slant», scriveva Emily, cerca di raccontare la verità, di dirla fino in fondo, ma dilla in modo obliquo, dilla “obliqua”. Se la dici chiaramente puoi offendere o uccidere. Come il sole a mezzogiorno, troppa luce può accecare, piuttosto che illuminare. In una notte di luna si vede meglio che non con il sole allo zenit. Ecco allora la necessità vitale dello slant, che potrebbe essere tradotto con la necessità di modulare il grido. Un’impresa ingaggiata da Emily con la forza della disperazione nei confronti della “parola”. Da qui la sua costante necessità di stordimento, di “estasi”. E di ricorso a un linguaggio ellittico. Dire la verità intera non si può, se non attraverso la narrazione di una serie di “estasi”. Emily Dickinson definisce questa serie di estasi “bollettini dell’immortalità”.
Perdita e distanza hanno a che fare solo con le persone, o con il compito stesso del poeta, ammesso che ce ne sia uno?
«My business is circumference»: ciò che mi concerne è la circonferenza, scrive Dickinson. Che cosa significa? Significa che io – poeta – miro al centro, bramo il centro, lo voglio raggiungere, colpire, trafiggere; il mio business è colmare questa distanza. Ma non posso farlo in altro modo se non continuando a spostarmi, scivolando sulla circonferenza, e da lì scagliando i miei dardi, i miei “strali”, verso il centro. Questi dardi, questi strali sono le millesettecento poesie che ci ha lasciato. Così, in questa poesia dickinsoniana della perdita, avviene che la particella più infinitesima («l’atomo opaco del male», scriveva Pascoli, che – se ci riflettiamo – è la vera Dickinson italiana), il punto infinitamente più piccolo, diventi un mito, un universo senza confini, tanto prossimo da poterlo toccare. E, per contro, può accadere che ciò che ci stava accanto, l’oggetto consueto, persino la persona cara, vengano proiettati a enorme distanza, tanto da non poterli più vedere né sfiorare. Dickinson è perfettamente consapevole dei limiti, delle insufficienze, della parola in genere e della parola poetica in particolare. E ne soffre perché la parola resta l’unico mezzo che ha a disposizione per mirare al centro. Certo, esiste la musica; magari – come scriveva John Keats – una «tuneless music», una musica senza suono, oppure la musica della natura, il ronzio dell’ape che – se estaticamente ascoltato – diviene più alto e armonioso della più complessa sinfonia. Ma Emily non è un musicista; Emily solo con le parole può “trattare”, quello è il suo business. E sempre nel timore per il Tempo che ci sfugge e ci impedisce di raggiungere il Centro da quella circonferenza su cui continuiamo a scivolare. Il Tempo irrimediabilmente passa, sulla Circonferenza si continua a scivolare. Ma forse non è il tempo che passa: siamo solo noi che passiamo; e forse siamo già al centro mentre crediamo di stare sulla circonferenza.
Veniamo infine all’altro tema su cui ti abbiamo sollecitato: la traduzione, di cui sei uno dei massimi esperti in Italia, non solo come traduttore (ad esempio dei Poeti romantici inglesi) e direttore della rivista “Testo a fronte”, ma anche come teorico. Cosa si perde nella traduzione?
Se siamo partiti dalla definizione di poesia di Robert Frost, possiamo citare ora quella di Josif Brodskij: «Poesia è traduzione. Traduzione di verità metafisiche in linguaggio terrestre». Esemplifico con una mia traduzione da un altro testo fondamentale di Dickinson, “To tell the Beauty would decrease”:
Raccontare la bellezza significa svilirla,
Definire l’incantesimo intaccarlo;
C’è un mare senza sillabe
Di cui bellezza e incanto sono segno.Con la volontà mi sforzo invano
Di ricreare la parola giusta,
Ma sempre poi me la rapiscono
Miniere di pensieri introspettivi…
Il mare senza sillabe è come la musica senza suono di Keats che citavi prima? I poeti romantici che hai tradotto nell’antologia uscita per Bompiani nel ’97 e poi ripubblicata negli Oscar nel 2005, come si confrontano col tema della perdita?
Riprendo proprio dalla citazione tratta dall’ Ode on a Grecian Urn di John Keats: «Heard melodies are sweet, but those unheard /Are sweeter»: se dolce è la melodia che s’ode, ancora più dolce è quella senza suono. I flauti sono incisi nel marmo: suoneranno per sempre la musica più dolce, così come i due amanti staranno per sempre sul punto di baciarsi e i rami degli alberi saranno per sempre fioriti. Aggiungo un riferimento all’altro grande romantico della seconda generazione, P.B. Shelley, che sintetizzò il concetto di perdita nell’imperativo Lift not the Painted Veil:
Non sollevare il velo dipinto:
Quelli che vivono lo chiamano vita,
Anche se mostra immagini irreali
E simula ciò che vorremmo credere
Con i colori sparsi a capriccio.
Dietro stanno in agguato i destini gemelli
Della Paura e della Speranza, a tessere
Le loro ombre sull’orrido mostruoso (…).
Gli allievi a questo punto vorranno sicuramente sapere come la perdita si sia fatta tema nella tua opera. Puoi leggerci qualche testo?
Posso citare un passaggio da Guerra – il libro è uscito nel 2005 – ricordando «le voci dei bambini / Separati dai padri / all’ingresso dei campi»:
[…] si può dire ciò che è bello
E ciò che è brutto
Si può dire anche ciò che è molto bello.
È il troppo brutto
Che non si riesce a dire
Perché esistono tutte le parole
Ma sono lunghe e finisce
Che assorbono
Dei pezzi di dolore.
Nei miei libri più recenti la perdita è l’indicibilità che rimane «lì sotto» (così in Jucci, del 2014); oppure ancora una volta storica, come «lo strappo sintattico» che restituisce «l’intraducibile» nella poesia tratta da La linea del cielo (Garzanti 2018), dedicata a Christine Koschel, poetessa e traduttrice nata a Breslavia nel 1936, attualmente a Roma.
L’autobus dei bambini morti
È quello che Christine Koschel
Vide a Berlino nel quarantacinque,
Alcuni ancora vivi, molti infanti
Tutti assolutamente soli
Abbandonati in una fuga dal nulla al nulla
Durante l’avanzata dei sovietici.
Da qui gli occhi per sempre
Che l’orrore hanno visto
Di Christine
Intraducibile se non
Nello strappo sintattico.
Le parole non esistono, dicevi prima, ma se mi consenti un gioco facile, da poeta sei addirittura diventato “paroliere”, di recente. Com’è successo?
Tutto parte da un testo che s’intitola “Perché so delle cose che so” (dalla raccolta I tre desideri, del 1984) e dice:
Perché so delle cose che so
E non ti posso spiegare
Perché non esistono tutte le parole
Ci sono solo le distanze e il tempo
Tra quello che io so
E tu dovrai
Si tratta di un testo (e un libro) che si chiudono così, senza punto o puntini di sospensione. Proprio a significare dickinsonianamente la perdita: recentemente la poesia è stata musicata e incisa dal cantautore romano Riccardo Sinigallia. Curiosa la storia: quando scrissi quella poesia, all’inizio degli anni Ottanta, la lessero due amici, Milo De Angelis e un giovanissimo Aldo Nove. Milo mi suggerì di togliere il «non», trasformando il terzo verso in «Perché esistono tutte le parole». Non lo feci, ma vent’anni dopo, nel testo di Guerra che ho citato poco fa, evidentemente recuperai il consiglio, se al quart’ultimo verso scrivo: «Perché esistono tutte le parole». Antonello (come si chiamava allora Aldo Nove) imparò a memoria quei versi, inventandosi una variante e con quella variante li citò trent’anni dopo a Riccardo Sinigallia, che se ne innamorò e volle musicarli. Così va il mondo, con la poesia e i suoi abitanti.
Testo tratto da: Franco Buffoni, Il triangolo immaginario (Secop Edizioni, 2021)
Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh # 2
di R. Umamaheshwari
R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima. Quella che segue è la seconda.
18 marzo, un morso di cane, il vaccino antirabbico e qualche consapevolezza.
Quella sera, in un villaggio particolarmente bello, dentro una casa nei pressi di un ruscello gorgogliante, il cane addomesticato della famiglia mi morse il dito del pollice all’improvviso. Il tranquillo villaggio dell’Himachal Pradesh ha bellezze in abbondanza, ma in situazioni di emergenza, non c’è nessun medico, ad eccezione di un RMP, ovverosia un Registered medical practitioner, iscritto all’albo dei medici, che gestisce anche una farmacia, a sei chilometri di distanza. Anche lui non aveva il vaccino antirabbico. Mi informò che il vaccino scarseggiava da mesi. Beninteso, tutti i centri sanitari pubblici dovrebbero tenere scorte di questo vaccino, specialmente in uno Stato famoso per i molti casi di morsi di scimmia (e anche di cane, una volta ogni tanto…). Persino il più vicino ospedale governativo (Theog), qualche chilometro più lontano, non aveva scorte.
Frattanto si cominciava a riferire di uno o due casi sospetti di Coronavirus a Himachal, negli ultimi giorni. Il coronavirus era ancora un evento lontano. Eppure lo Stato aveva allestito due reparti di isolamento per i malati affetti da Coronavirus, a Shimla (presso l’ospedale IGMC) e a Tanda. Ho fatto un’antitetanica dal farmacista, e dopo cena la famiglia mi ha accompagnato fino a Shimla, all’IGMC, a oltre due ore di macchina.
Anche quando arrivammo, alle dieci e mezza di sera, l’ospedale era affollato, e ci è voluto un bel po’ prima che il molto loquace dottore, un medico dell’esercito in pensione, che ora, ci disse, lavorava part-time qui, prescrivesse le iniezioni; la registrazione e l’iniezione sono state gratuite. E finalmente alle 23.30 la vaccinazione era giunta a termine.
Mi sono resa conto di cosa significhi per le persone che provengono da villaggi lontani venire a Shimla (con i mezzi pubblici, o, in situazioni di emergenza, in mancanza di ambulanze, noleggiando mezzi privati) e cosa significava per il personale sanitario qui presente gestire (molto bene) quel numero esorbitante di malati e feriti che arrivano in continuazione, cosicché alcuni devono aspettare nei lunghi corridoi fino a quando non è possibile predisporre alla bell’e meglio, con risorse e spazio limitati, un letto per il paziente. Una sezione separata di isolamento era stata rapidamente preparata in questo ospedale (lontano dai reparti destinati agli infortuni, dagli ambulatori e dal Pronto Soccorso), ma la gente sembrava ansiosa, e alcuni indossavano delle mascherine. Anche a me questo ha fatto paura.
Ma anche in mezzo a tutto quel caos, a notte fonda, trovai l’infermiera più gentile che avessi incontrato da molto tempo; una donna che si premurò di scusarsi con me per il dolore straziante che mi aveva provocato, facendomi piangere, quando aveva iniettato il siero nella ferita. Avrei completato le restanti iniezioni in un altro ospedale governativo, nei successivi cinque giorni. Gratis. Questo è l’ospedale pubblico, dove la maggioranza della gente riceve un trattamento gratuito o comunque sovvenzionato, ma che è trattato come un cugino povero degli ospedali privati super specialistici dell’India.
Prima di poter trovare una casa in cui vivere, l’isolamento è sceso sulla nazione. A volte sono grata a quel cane, Tukki, perché adesso ho l’occasione di vedere e osservare il mondo da questo mio punto di vista, relativamente vulnerabile, che altrimenti non sarebbe esistito per me, benché ancora mi rammarichi della punizione piuttosto dura che gli fu inferta per la sua bravata. Invano quella notte avevo chiesto che lo perdonassero. Ma in futuro, in tempi “normali”, spero di incontrare di nuovo il suo sé un po’ più calmo…
22 marzo 2020. Prime riflessioni su un virus.
Un profondo silenzio mi avvolge qui a Shimla. Le orde invasate dei soliti chiassosi turisti – alla ricerca del consumo a tutti i costi di ciò che deve essere consumato, secondo le indicazioni delle guide turistiche o dei blog di viaggio – non sono più la “normalità”, in quest’inizio della bella stagione. Alcune delle nazioni che vantavano una storia di successo fondata sull’economia di mercato, la privatizzazione dell’assistenza medica e il “turismo sanitario”, sembrano ora fare un passo indietro, e dichiarano, pur con scarsi risultati, di voler mettere in atto un piano di intervento medico statale. Un presidente come Donald Trump parla del sussidio di disoccupazione, e ad alcuni questo fa venire in mente le imminenti elezioni negli Stati Uniti alla fine di quest’anno.
Il mondo oggi sembra comprendere che un’equa assistenza sanitaria statale è una necessità inevitabile. Il mondo, o la maggior parte di esso, sta combattendo una guerra senza armi di distruzione, ma al contrario con strumenti che salvano vite umane. In un contesto di rigida religiosità e di religioni strutturate, che in tutto il mondo ha avuto una tradizione storica secolare, oggi troviamo quasi tutti i luoghi di culto chiusi e i rituali comunitari abbandonati, in un consenso mondiale senza precedenti. Chiusi anche i supermercati e i centri commerciali, per la maggior parte del tempo. Invece delle folli corse per raggiungere qualche posto o ritornarne, ventiquattr’ore su ventiquattro, con la polvere e la sporcizia che hanno avviluppato le nostre città metropolitane, ora sperimentiamo i silenzi e il minimalismo e la qualità di un’aria più pulita. Per molti oggi lo spazio più sicuro sembra essere ‘casa’: non importa quanti non possano ancora assaporare ciò che la ‘casa’ veramente è o dovrebbe significare, o che ‘casa’ dovrebbe significare qualcosa di diverso dalle immagini stereotipate di ‘famiglia’ (quasi sempre sorridente, felice) dentro mura di mattoni, isolata dal resto delle cose che ci circondano. In alcuni casi, come è stato più volte rilevato, le case non sono davvero quegli spazi sicuri e felici per donne, anziani e bambini.
Il “distanziamento sociale” – non uno dei momenti più gravi della storia indiana, a paragone del concetto di casta (ma si potrebbe dire lo stesso per il concetto di razza, e per altri tipi di discriminazione) – è diventato un comportamento “normale” e virtuoso: la cosa da fare, anzi.
Le proteste e il dissenso si sono quasi fermati: un vantaggio per tutti i governi del mondo, che in passato hanno dovuto affrontarli, affrontare le proteste divampate contro l’ingiustizia e l’oppressione, nei rispettivi Paesi, fino a questo momento storico. Per la prima volta dopo tanto tempo, le zone di crisi non sono la Siria o il Libano o la Palestina, o qualsiasi altra area di frizione geopolitica, ma territori usurpati da un virus. Di ritorno a casa, non sentiamo più parlare del CAA (Citizenship Amendment Act), di questioni di casta o di genere, di discorsi sulle migrazioni; persino i problemi economici non sembrano al momento così gravi o visibili. Gli Stati liberi stanno cercando di mantenere il controllo in molti modi. Si può dire che questo ha posto fine ai nazionalismi insulari a favore di un’alleanza globale, che combatte unita una malattia che colpisce la “specie” umana? Oppure l’epidemia ha aumentato gli ultranazionalismi, come se ad ognuno andasse bene anche che solo la propria nazione fosse risparmiata dalla malattia? E questo anche se i viaggi internazionali sono stati parte integrante del nostro mondo, e l’economia è multinazionale e globale, e non soltanto locale?
Un virus, la cui origine opinabile e discutibile si presta a disquisizioni di geopolitica e multinazionalismo, e a illazioni sulla guerra biologica; un virus che ha fatto di tutto: ha mosso nazioni grandi e piccole, simultaneamente. Eppure…
Il nazionalismo culturale e il razzismo non sono scomparsi, anzi, sono apparsi più frequentemente sui social media, come mai prima d’ora. Questo virus ha avuto il potere di costruire cameratismo e abbattere muri di rigidi nazionalismi, ma lo ha fatto davvero? Questo virus ha avuto il potere di ribadire i principi basilari del concetto di “specie” (in senso puramente scientifico), invitandoci a ripensare l’uomo come Homo sapiens, al di fuori del paradigma Stato-nazione. E ha ribadito come questa specie, in conseguenza della sua stessa intelligenza o del suo agire, continua a rendersi di tempo in tempo vulnerabile agli agenti patogeni. In un senso sociologico, il virus ci fa considerare la possibilità di guardare alle società umane nel loro insieme (naturalmente, in contesti culturali diversi, eppure, all’interno di quei contesti culturali molto diversi, con un’uguale insicurezza di fronte al virus, forse?), e di metterle a confronto nel loro complesso con altre società non umane. Eppure, sarà importante guardare al contesto sociale, culturale e politico in rapporto a questo virus: chiedersi chi è più vulnerabile, perché, e chi soccombe. O forse chi muore soccombe da solo, o a causa di altre variabili di cui non ci stiamo ancora occupando. Benché “co-morbilità” sia un termine che si sta diffondendo, negli ultimi giorni.
Oltre che per indicare cause mediche di morte tra loro concorrenti, infatti, mi chiedo se il termine “comorbilità” non possa essere visto anche in relazione a un contesto sociale o economico, in riferimento a persone che sono morte apparentemente a causa di questo virus. Per esempio, una concausa di morte, per alcuni, potrebbe essere la difficoltà di un accesso tempestivo ai servizi medici.
C’è anche una certa connotazione morale nel riferirsi al virus: il “demone”, il “cattivo”. Alla radio (All India Radio), nei giorni precedenti al primo lockdown, si parlava di un coprifuoco Janata (un coprifuoco della popolazione, anche se imposto dallo Stato), e abbiamo sentito messaggi che invitavano la gente a suonare le conchiglie, e le campane, ecc. alle 17.00 (il 22 marzo), in modo che le vibrazioni delle conchiglie e l’energia positiva cacciassero il virus demoniaco dal nostro paese. Messaggi che, naturalmente, non si sono più sentiti in seguito.
Un’altra caratteristica fondamentale di questo virus è associata ai viaggi, o al movimento: interregionale, internazionale, ecc. Le società umane e le idee hanno sempre viaggiato ‘attraverso’, ‘a’, ‘da’, ‘per’, ‘avanti’ e ‘indietro’. Attraverso il viaggio, culture, idee, e persino cucine, hanno viaggiato. E quel viaggio è stata una parte accettata della storia umana. Anche gli uccelli viaggiano, e senza polizia, e finora, per fortuna, sono stati accettati come visitatori graditi in luoghi dove costruiscono temporaneamente i loro nidi. Anche le creature nei mari e negli oceani viaggiano, ignari dell’idea di acque territoriali e controlli di polizia. Ma in questo momento, tornando all’ “umano” (culturale, o politico, o scientifico), come si presentano le conseguenze di questo virus? Ci costringeranno a porre confini e frontiere dove prima non esistevano (se e dove non esistevano già…)? Metteranno fine alla possibilità di una visita casuale di un amico a un altro amico, che non susciti domande o sospetti?
Per inciso, alla ricerca di una casa, l’anno scorso, in alcune “colonie recintate” di Hyderabad, ho trovato dei residenti costretti dai gestori dei complessi abitativi a scaricare un’applicazione sui loro telefoni e ad invitare a farlo anche i loro visitatori (che ovviamente dovrebbero essere quelli abituali, e non un amico che non si sente da tempo, o un parente che arriva improvvisamente a casa tua), per non parlare del giornalaio, del postino, ecc., al fine di un tracciamento all’ingresso di queste sacre colonie. Queste applicazioni diventeranno la nuova normalità? La vita sembrerà piuttosto pericolosa se ciò succederà davvero. La Cina, come riferito da un canale televisivo internazionale, è stata la prima a sviluppare un’applicazione che decideva, sulla base di alcuni algoritmi, se una persona era positiva al Coronavirus o no, e solo se il segnale era verde (indizio di negatività) si aveva il permesso di entrare in casa sua. A quanto pare, ci sono stati dei malfunzionamenti e presto l’applicazione è stata sospesa. Quanto è pericolosa la possibilità di esclusione basata su meri algoritmi progettati da uomini in laboratori tecnologici? Ci sarà un nuovo quadro legislativo per dirimere le questioni e sanare le ingiustizie derivanti da questi dispositivi e dal loro possibile malfunzionamento? Un’azienda potrebbe ad esempio essere citata in giudizio per aver causato un trauma fisico e mentale a causa del cattivo funzionamento della sua applicazione? E queste applicazioni non potrebbero essere state progettate anche per secondi fini? Perché accettarle tout court senza distinguo o domande?
Il potere di gran lunga più pericoloso di questo virus è questo: accettare come “assoluto” o “vero” ciò che vediamo e sentiamo sui vari media o i numeri delle statistiche governative, senza alcuna possibilità di accedere ad indicatori alternativi o strumenti di verifica di queste verità, o per lo meno strumenti di ricerca e di analisi della loro veridicità, sia che si tratti di ‘verità’ su un particolare tipo di test, su un dispositivo, o semplicemente sul numero di casi in ogni stato o distretto.
Da un lato, il virus può confinare, e creare confinamenti; ma allo stesso tempo può far sì che il confinamento stesso sembri di per sé “sano” e “sicuro”, mentre la natura di tale “sicurezza” finisce in realtà per distanziare le comunità umane tra loro (al loro interno, fra regione e regione, tra Stato e Stato e nei rapporti internazionali) e, quindi, rendere più semplice e in un modo più insidioso di prima, la nascita di nuovi totalitarismi.
Nel frattempo, questo virus ha il potere di imbrigliare il profitto sfrenato tanto nel campo delle multinazionali farmaceutiche quanto in quello delle prestazioni mediche, così da rendere le une e le altre più umane, e regolate da una sorta di patto internazionale fondato su un uguale accesso, per tutti e in tutto il mondo, a strutture mediche sofisticate per salvare vite umane?
Solo il tempo lo dirà. In India, alcuni laboratori e ospedali privati sono già stati autorizzati a procedere con i test e le terapie anti Covid. Ma ancora una volta, sapremo nei prossimi giorni quanto siano stati accessibili questi enti privati per i poveri e le persone svantaggiate, e quanto “corretti” (e quindi trasparenti e regolamentati) siano i loro parametri di prova e i loro indicatori di trattamento.
Per ora, molte cose sono state messe insieme in grande fretta per contenere il contagio, ed ecco perché ci occorrerà, nel prossimo futuro, un saldo quadro giuridico utile a prevenire eventuali pratiche illecite cui, anche in tempi normali, è risaputo che il settore medico privato ha già ampiamente fatto ricorso, almeno a giudicare dal gran numero di cause legali intentate dai pazienti e dalle loro famiglie agli ospedali privati in India. Inoltre, ci sono voluti anni di indagini per svelare la politica delle case farmaceutiche in tutto il mondo e la natura dei loro affari legati ai prezzi di farmaci salvavita essenziali nelle cosiddette economie in via di sviluppo. Nel caso si trovasse, com’è possibile, un nuovo vaccino per il Coronavirus, o, a seconda dei casi, un farmaco, stiamo pensando a nuovi e rigorosi quadri giuridici multilaterali che garantiscano un accesso equo e sovvenzionato al nuovo vaccino o al nuovo farmaco, quando sarà svelato? Questo virus cambierà la natura del commercio farmaceutico internazionale (rendendolo più equo) o lo renderà più competitivo e segreto?
Cos’altro ha fatto questo virus? Ci ha mostrato, o ci ha fatto vedere, più chiaramente, alcune verità fondamentali: le cose che possiamo o non possiamo controllare; il tempo in cui realizzare ciò che ancora non possediamo. Questa conoscenza non può essere ciò che già conosciamo: verità che apparentemente non cambieranno per secoli. Non esistono sistemi e verità antiche che funzioneranno per sempre. Dobbiamo accettare il nuovo (anche se ciò significa accettare nuovi modi di affrontare una pandemia); e il nuovo richiede, se necessario, modifiche e aggiustamenti del vecchio che possano includere nuove idee politiche, religiose o economiche. Può il modello economico, finora considerato come il modello da emulare (un modello iniquo, basato sul consumo, e pericoloso per l’ambiente), avere contribuito alle modalità di diffusione di questo virus? Dobbiamo almeno provare a capirlo. Non è un caso che il maggior numero di positivi al Coronavirus, in India, provenga dalle grandi aree urbane che si sono sviluppate in modo disordinato e dalle zone industriali, e da quei luoghi che hanno un indice globale di viaggi e spostamenti piuttosto importante, almeno in base a quanto indicato dalle statistiche attuali.
Resta da vedere se il nuovo virus aprirà nuove idee di umanità ed umanesimo, o creerà muri e spazi di autosegregazione intorno a ciascuno di noi. Un aspetto che il virus ha reso più evidente è l’iconografia dei nostri tempi: medici, infermieri e addetti alle pulizie completamente avviluppati in protezioni e mascherine, in particolare quelli che lavorano per il governo, o in aziende statali e strutture sanitarie. Nel contesto indiano, sappiamo già quanto questa gente si sia ammazzata di lavoro, e in condizioni di certo non invidiabili. Il numero di persone povere che affollano gli ospedali pubblici in India è davvero ingestibile.
Molti di questi operatori affrontano anche la brutalità e la violenza della gente, in caso di diagnosi errata o di morte del paziente. Eppure, in un tempo come questo, sono questi ospedali che diventano gli spazi più affidabili per le cure e l’assistenza, anche rispetto agli ospedali privati. Ci si rende conto, adesso, della necessità e dell’importanza della gestione pubblica dei sistemi sanitari (e di quanto sia importante non privatizzarli, anche parzialmente, anche se in alcuni Stati dell’India sono stati compiuti passi significativi in tal senso), e persino dell’utilità di espandere queste strutture, di fornire loro infrastrutture che funzionino bene durante le crisi, in modo da essere preparati con largo anticipo, piuttosto che apportare modifiche ad hoc incalzati dall’emergenza. Solo il tempo ci dirà se, quando un antidoto al nuovo virus arriverà, saranno gli ospedali privati che se ne impadroniranno, o la sua somministrazione sarà strettamente regolamentata e gestita solo tramite gli ospedali pubblici, in ambienti consoni e nel rispetto della dignità di tutti i pazienti. Il caso dell’Italia deve essere uno dei più difficili da affrontare per gli operatori sanitari, nel momento in cui, nonostante tutto, la morte sembra vincere ogni volta, e i cadaveri devono essere accatastati. Ciò che all’inizio deve essere iniziato come un normale esercizio di somministrazione quotidiana di farmaci e di calcolo di dosaggi, deve essere presto diventato un incubo in cui la monotona routine degli ospedali ha lasciato il posto ad una situazione drammatica, in cui i medici sembravano guardare impotenti ciò che accadeva sotto i loro occhi, e sono diventati, quasi, gentili amministratori della morte stessa. In effetti è stato solo quando l’Italia ha attraversato questo disastro che il mondo ha cominciato a prendere una maggiore consapevolezza di ciò che stava per accadere. Ci si chiedeva del trauma emotivo, affrontato dagli operatori sanitari in momenti come questi. Cosa dire dei Paesi con un numero limitato di operatori sanitari, ed in cui viene loro fornito un sostegno economico o politico inadeguato?
Cos’altro ha fatto questo virus? Per la prima volta nella storia indiana post-indipendenza, ha portato ad un brusco arresto dei treni passeggeri. Questa era la rete ferroviaria che, a fine marzo 2017, aveva trasportato più di 8 milioni di passeggeri, percorrendo un totale di 141,7 milioni di chilometri. Le ferrovie indiane, per inciso, hanno 7.349 stazioni ferroviarie, sparse per tutto il paese.
Stranamente, i servizi che il governo indiano in carica ha cercato di privatizzare (parzialmente o totalmente) – le ferrovie e la compagnia aerea nazionale, Air India – si sono rivelati i più utili in una crisi come quella attuale. I servizi ferroviari hanno continuato a trasportare merci essenziali, e la compagnia aerea nazionale ha lavorato anch’essa senza sosta per il trasporto di beni di prima necessità, comprese le forniture mediche, e ha persino riportato indietro diversi Indiani bloccati negli aeroporti di altri paesi del mondo.
Dal punto di vista economico, questa pandemia sta colpendo e colpirà per un lungo periodo la maggior parte della forza lavoro non organizzata e indipendente o freelance in India. Mentre quelli che svolgono lavori governativi – e questo include anche gli accademici che lavorano nelle università pubbliche federali o statali, oltre che nei college e nelle scuole pubbliche in tutto il paese – non sono altrettanto duramente colpiti, perché i loro stipendi sono protetti, e attualmente la maggior parte di loro è a casa. Sicuramente il virus ha colpito molto duramente coloro che non entrano nelle statistiche del governo. Un numero che comprende, fra gli altri, oltre ai lavoratori freelance (tra cui forse molti che fanno lavori ad hoc basati su contratti e consulenze, così come giornalisti non accreditati o stranieri, nei villaggi), artisti non ‘all’avanguardia’, i proprietari di quei minuscoli locali di cibo da strada, i venditori ambulanti di ogni tipo di merce, che di solito si vedono per le vie, in vari quartieri delle città.
Mentre in questo momento molti hanno perso il lavoro o non si aspettano di trovarlo, e altri hanno dovuto chiudere i negozi, nessuno può dire se e quando il periodo di isolamento finirà. E fino ad oggi non esiste un pacchetto di aiuti pubblici a lungo termine, ben pensato, né alcun meccanismo di facilitazione per una così grande forza lavoro informale.
Forse dovrei aggiungere qui come mi vedo in questa situazione. Perché la mia situazione, allo stesso modo, è intrinsecamente legata alla natura dell’economia che mi riguarda sia come donna single, e che vive da sola, sia come donna che non ha un lavoro regolare, regolarmente retribuito. E rivado ai tempi in cui si correva costantemente come un topo su un tapis roulant, per pagare la rata mensile di un mutuo per la casa. Non c’è mai stato un periodo di tregua. Durante la crisi economica le persone perdono la loro casa o finiscono per avere un rating di credito negativo. In tutto il mondo, questo ricorda la recessione economica globale del 2008.
Adesso la Reserve Bank of India sembra aver annunciato alcune misure, abbassando i tassi di interesse e riducendo così l’onere per la classe media nel rimborso dei mutui per la casa. Ma si sa che l’industria del debito non cancella mai i prestiti della gente comune, e questo significa anche un aumento della durata del mutuo per la casa. Inoltre significa che, ad un certo punto, quando le cose torneranno ad un nuovo tipo di “normalità”, i mutui per la casa diventeranno più cari e saranno di fatto aumentati di quel tanto necessario a salvare le banche, e non certo la classe media, la gente comune.
Il virus ha viaggiato in lungo e in largo sulle spalle di viaggiatori compulsivi: celebri oratori, uomini d’affari, artisti giramondo, vacanzieri di routine e altri (non invece sulle spalle degli strati economici inferiori della società, dato che il virus viaggiava essenzialmente sugli aerei), e ognuno aggiungeva le sue impronte di carbonio. Almeno qualcuna di queste persone oggi può fregiarsi di nuovi ‘distintivi’: essere positivo al Coronavirus o, almeno fino al blocco dei viaggi in aereo e di quelli in treno, di essere stato un potenziale portatore del virus.
Alcuni di loro, purtroppo, hanno dovuto affrontare il peso del pregiudizio, come anche l’intoccabilità. In quel momento i loro progetti di business, le loro idee, o semplicemente i viaggi di piacere (a meno che, naturalmente, alcuni di loro non abbiano viaggiato per partecipare a emergenze), non contavano tanto quanto l’essere portatori di un contagio di cui sono stati a volte accusati. Il pregiudizio sarebbe stata l’ultima cosa che si sarebbero aspettati di meritare all’arrivo in questo paese, mentre, al contrario, la gente ha cominciato a guardarli con sospetto e a dare la colpa di tutti i mali (come si fa regolarmente qui) alla persona che è tornata da fuori, o allo straniero: insomma, l’altro che “entrava” (altrimenti detto, ‘il turista’), e che fino ad oggi era di solito blandito e accolto a braccia aperte, a causa del denaro che lei o lui o il gruppo portava con sé; il virus, che viaggiava in lungo e in largo, senza alcuna distinzione di razza o cultura e senza alcun pregiudizio proprio, invece di riunire l’umanità contro le malattie, ha ribadito in alcuni paesi l’opposizione del “locale” versus lo “straniero”, l’ “altro”. Un virus ha fatto tutto! Ci vorrà un po’ di tempo, tuttavia, prima di ottenere un quadro completo, da fonti varie e affidabili, dell’esatta distribuzione sociale, demografica e geografica della popolazione colpita in tutto il mondo, e delle sue ragioni. L’ultima parola sul virus non è ancora stata detta.
Il vantaggio (che può anche essere uno svantaggio) di questo servizio della radio nazionale è ottenere l’accesso ai dati ufficiali sulla situazione quotidiana, e alle comunicazioni del governo sugli interventi medici e le strategie di contenimento. In assenza di canali televisivi di informazione, si tratta di un pacchetto di dati fondamentale per dare un senso alle cose, nel modo in cui si desidera; e tenendo presente che, dopo tutto, in fin dei conti, si tratta dello Stato, che ti fornisce le informazioni che ritiene necessario condividere. Per la maggior parte dell’India rurale, le notizie della radio sono l’unico modo per avere il polso della situazione del Paese, oltre che il mezzo cui affidarsi per le previsioni del tempo e, di solito per le comunità di pescatori, per gli allarmi di tempeste, cicloni e così via.
(traduzione di Rosario G. Scalia, foto di R. Umamaheshwari)
Dante in love
Se mi chiedessero di far tornare Dante da qualche parte su questa terra, mi piacerebbe fosse in Liguria, il luogo preciso non importa, ma basterebbe uno degli scorci nominati da lui.
“Tra Lerici e Turbia, la più diserta
la più romita via è una scala
verso di quella agevole ed aperta”.
È quando si ferma davanti alla montagna del Purgatorio, lo accompagna Virgilio. Farlo giungere in terra ligure a vedere le opere che ha ispirato, gli affreschi che rappresentano la bolgia infernale, con Ugolino che rode il cranio, nella chiesa di San Giorgio a Campochiesa di Albenga, o a Noli, dove Dante passò da esule. Insomma, un po’ immaginai questo, quando seppi che Giuseppe Conte, ligure come me, di Dante ne raccontava il ritorno. Ma non sarebbe andato bene per nulla, e non perché Conte non condivide la mia ossessione di ficcare la Liguria in ogni narrazione (ha decisamente un respiro ben più universale di quello dei miei microcosmi), ma perché far tornare Dante in un luogo che non sia Firenze sarebbe un nostos amputato.
Dante in love (Giunti, 2020) ha dunque la sua geografia perfetta e la sua avventura: chiedere al Sommo Poeta un percorso inverso, nessuna risalita dello scalone dalle fiamme alle azzurrità, ma la calata in una Firenze quando “Il sole è appena sceso dietro i tetti, le cupole, le torri della città. Come ogni volta. Il buio non è ancora fitto. Guarda, dilaga nell’aria tra le vie e le case come un’acqua cupa.”
Abituati così alla piena notte, o all’alba, al pieno giorno e al tramonto, non ci stupiamo mai abbastanza di un tempo poco frequentato dalle nostre narrazioni: oltre il tramonto, quando il buio non è ancora fitto, e c’è la pienezza della sera. Chissà perché piena sera non si dice mai. Forse è davvero il miglior tempo di Firenze quello che sceglie Conte, le immagini di una città trasformata nel tempo stesso, e l’esercizio, le capacità che ha l’ombra di assumere l’insolita luce lambita da nuovi ritagli, da nuovi segmenti, nella processione di improbabili andirivieni creati dal caso, e poi la mineralità del Battistero, i palazzi nobili, i semplici cornicioni, i tetti. Il passaggio davanti all’ombra di Dante di un’umanità, e tra essa quella della presenza che più lo emoziona, lo attrae, la donna.
Il romanzo racconta il motivo per cui ogni anno, da seicentonovantanove anni, a Dante è concessa la discesa, con le sue regole d’ingaggio, a Firenze. Dante è lui, l’esule e l’esiliato, ossia quel sentirsi qualcosa o il sentirselo addosso come una pelle. Libertà e costrizione. Anche se la più felice, quella che l’autore giustamente non scopre, come se toccasse al lettore la necessità di intuirla nelle ombre della notte, e prima ancora, in quella sera non ancora notte, è la figura del clandestino. Dante sa di esserlo e riesce a sopportarlo, è l’altro e nessuno lo saprà mai, anzi nessuno dovrà mai saperlo. Ma poi le regole d’ingaggio saltano, un amore, anche quello, sognato e immenso perché invisibile, lo mette in viaggio, attraverso il percorso orizzontale della città, e assieme a tutto questo torna prepotente il pensiero della sua donna amata, dell’amico caro, e la visione di questa città oscura, sicuramente non felice, in questi giorni…
Insomma, potrebbe essere una delle seicentonovantanove notti “guardate” quaggiù finora, destinata a finire all’alba. Ma stavolta Dante non ci sta, è come se stavolta glielo chiedesse il suo cuore clandestino, esule e trasparente, di trasgredire alla concessione del cielo. E allora, davanti alla possibilità, per concessione celeste, di esercitare la sua solita ginnastica dell’occhio, egli stavolta sceglie altro, il miracolo, si lascia trasportare dal desiderio, attraverso la città impaurita e mascherata. La meravigliosa trasgressione ha persino un nome, si chiama Grace. Non ci saranno colpe. Solo poesia. È il libro che condensa ed esalta le anime narrative di Giuseppe Conte, il romanzo storico, quello in qualche modo fantascientifico, e persino l’esistenziale, nutrendosi di mito.
Appunti al tempo del Covid 19
di Camilla Albini Bravo
Consigli per la lettura
Le pagine che seguono sono solo in apparenza una sequenza di 18 articoli, in realtà sono 18 voci soliste di un unico coro, essendo il risultato di un lavoro di aiuto reciproco che ha coinvolto una sessantina di colleghi, divisi in sei gruppi clinici, che si sono incontrati via Skype durante il difficile periodo del lockdown. Alle voci soliste va aggiunto il coro muto di quelli che non hanno scritto, ma che ci hanno aiutato a pensare. Ringrazio tutti, indistintamente, per l’aiuto reciproco, per la fiducia nella possibilità di sostenerci a vicenda, per la testimonianza che è il rapporto, sempre, che ci salva. Nessuno scritto ha la pretesa di teorizzare, il nostro intento era ed è quello di fissare i punti di un discorso che parte ora e cerca interlocutori. Buona lettura.

Giugno 2020
Da quasi due mesi il nostro lavoro di psicoterapeuti ha dovuto confrontarsi con delle limitazioni e dei cambiamenti che, all’inizio, sembravano solo formali. Ci siamo trovati, tutti, soli nello studio con un computer davanti, o un cellulare, nel tentativo di continuare, a distanza, un lavoro che prima avveniva in vicinanza.
Abbiamo sentito tutti l’urgenza di un confronto fra colleghi per capire quali potevano essere le implicazioni di un tale cambiamento. Le riflessioni che ci proponiamo qui di condividere sono emerse dal dialogo tra colleghi e sono in fieri, ma ci sembra opportuno o addirittura necessario fermarle in uno scritto.
La prima attenzione, ovviamente, si è soffermata sul mezzo di comunicazione, che ci è apparso subito paradossale: la chiamata in video-conferenza testimonia la nostra vicinanza e la nostra distanza. I volti in primo piano sono fin troppo vicini, gli spazi privati delle case dei nostri pazienti quasi violati, la distanza è nell’assenza dei nostri corpi che condividevano prima la stessa stanza. Sono i confini ad essere diventati fluttuanti, troppo vicini e troppo lontani e abitati dalla inquietante sensazione di poterci perdere nella lontananza e di poterci infettare nella vicinanza. Il mondo stesso, il nostro oggetto, sembra essere diventato molto ambiguo e collocato in uno spazio-tempo quasi indifferenziato. Le giornate non sono più scandite dall’uscire e l’entrare per il lavoro o la scuola, sembrano scivolare fuori dal tempo lineare in un tempo circolare in cui è difficile distinguere ieri, oggi e domani.
Un giovane ragazzo che in questa emergenza ha dovuto sospendere la frequenza della scuola e il confronto con i suoi compagni, descrive perfettamente la dimensione esistenziale in cui scivoliamo quando perdiamo il mondo e la misura che lo stesso ci sa dare. Dice infatti: “Il tempo in questo periodo mi sembra non scorrere, mi sembra di stare sempre nella stessa giornata (…) prima lo scorrere del tempo mi faceva pensare al futuro, ora è come essere in una bolla, è strano, vedere sempre le stesse persone mi dà la sensazione di essere fermo. Nel contatto con gli altri potevo vedere i miei miglioramenti. Ora non li posso verificare”.
Ma il mondo rimane là fuori e noi, uscendo dotati di mascherina e guanti, non riusciamo più a capire chi sia pericoloso per chi. Siamo noi che possiamo infettare gli altri o gli altri noi? Il mondo quindi si è trasformato in un oggetto ambiguo, abitato da un fantasma tremendo di morte e di malattia portata da un virus sconosciuto e non visibile che può essere in noi o negli altri e che induce in un’angoscia abbandonica ma anche persecutoria. Se ci isoliamo la seconda si attenua, ma la prima si alza a dei livelli insopportabili. Siamo soli e desideriamo un contatto che ci atterrisce e ci ricaccia nella solitudine.
L’oggetto ambiguo, il fantasma di pericolosità reciproca, l’angoscia di morte, sia per vicinanza che per lontananza, sembrano riportarci a una relazione con l’altro quando il nostro Io, ancora incapace di definirsi in uno spazio e in un tempo, non era ancora in grado di decodificare l’altro nel suo essere a tratti buono e a tratti cattivo e quindi siamo costretti, noi adulti, a immergerci in quelli stati originari del nostro essere dove le angosce erano senza nome, senza fine e senza tempo.
Da lì, da questi spazi in cui l’Io è costretto a immaginarsi, escono angosce e paure per ognuno diverse e pensate ormai lontane e un Io adulto che si credeva sufficientemente collocato nello spazio e nel tempo, si trova a confrontarsi con antiche paure spesso indicibili che prendono forma in lunghi sogni spaventosi.
Per quanto individuale sia la storia di ognuno di noi, comune nei nostri sogni è l’immagine ricorrente di allagamenti, di contatti perduti, di confusione. Un sogno di una collega sembra perfettamente rappresentare la pericolosità della situazione che stiamo vivendo e può essere utile accoglierlo come un tempo si accoglieva il sogno di un singolo come visione utile al gruppo. Per questo ringrazio la collega che lo ha sognato e raccontato perché diventasse prezioso per tutti.
Nel sogno si trovava con altre persone a nuotare in una pozza di acqua terrosa, anzi era proprio fango, acqua e terra così mescolate da non distinguerle. Allora, alzando gli occhi al cielo, lei lo vide della stessa sostanza e sentì, con terrore, che stava per collassare giù.
Ci ha fatto pensare, questo sogno, a come viene descritta l’origine del creato: prima il caos, lo spalancarsi, poi le acque si separano dalla terra, il cielo si differenzia e si alza. Il nostro esistere ha assoluto bisogno di questo doppio movimento che installa tre livelli del nostro essere nel mondo.
Dalla nostra liquidità, abitata dalla mescolanza, dalle ondate emotive, dall’assenza di spazi definiti emerge la terraferma, luogo dove poggiare saldamente i piedi, solida madre terra, corpo asciutto delimitato e distinto che ci permetta di avere un davanti, un dietro, un prima, un dopo, un orizzonte finito. Ma un terzo elemento necessario sarà una cesura fondamentale: il cielo e la terra si devono staccare. Se la madre terra, la nostra possibilità di sentirci un corpo, orientato nello spazio e nel tempo sono necessari, ancor più necessario sarà per noi umani l’elevarsi del cielo. Solo la visione dall’alto infatti ci permette di cogliere l’intero orizzonte, di dare un senso e un significato al nostro esistere, di vivere come individui e di pensare la nostra vita.
Nessuno di noi è in grado di accettare una vita senza darle un senso. Ce lo ricorda l’Ulisse dantesco quando incita i compagni verso la ricerca dell’altrove, ce lo ricordano le tremende depressioni di chi non riesce ad accedere a un senso che dia ragione della fatica dell’esistere. Per noi umani questo è il tremendo che ci divide dal regno animale, cui peraltro apparteniamo. Non ci basta la vita dobbiamo saperne le ragioni. Homo faber e homo philosophicus non si possono escludere l’un l’altro.
Nel sogno il pericolo sembra rappresentato dal ritorno ad un indifferenziato dei tre elementi: le nostre liquidità emotive e immaginali, la nostra base ferma su cui ergersi e dire: “Io”, e il nostro poterci pensare. È il ritorno nel mondo senza spazio e senza tempo, senza pensiero e senza senso, dell’ambiguità totale. Abbiamo pensato che lo sforzo da fare tra noi, colleghi, e tra noi terapeuti con i pazienti sia proprio quello di tenere alto, limpido e differenziato il cielo. Pensiamo che sia necessario pensare e che questo sia proprio il terrore, l’oggetto impensabile che ci può far scivolare in un orrore della perdita dell’aggancio al cielo, di quel vertice alto che, cogliendo il tutto, ne veda il senso.
Abbiamo detto tra di noi che il paziente non può pensare quello che noi non riusciamo a pensare e che mentre lo aiutiamo a ritrovare frammenti di terra emersa su cui poggiare i piedi mentre teme di scivolare nel fango, noi dobbiamo fortemente tenere alto il cielo sopra di noi anche quando i nostri piedi stessi sono già bagnati delle stesse acque che bagnano loro. Pensare insieme, pensare al senso di queste ore lente di quarantena, pensare al tempo, mantenere la luce che ci aiuta a distinguere le forme, saper riflettere tutti insieme.
Per fortuna l’inconscio in tutti noi sta cercando di capire e di vedere quello che accade e lo esprime in sogni incredibilmente intensi, riconosciuti dal sognatore come eventi/visioni speciali. Una giovane antropologa, che sta tenendo un diario dei sogni di questo periodo, ce ne offre due particolarmente intensi.
Nel primo si trova a camminare per una strada liminare tra il bosco e la città, con lei è la madre, arrivate a un bivio la strada a destra va verso il centro abitato, a sinistra nel bosco. Proseguono verso il bosco e arrivano a una radura al centro della quale vedono, con spavento, un irsuto cinghiale. Vincendo la paura la giovane gli si avvicina e lo vede ingigantirsi. Sulla schiena dell’animale ci sono tracce di ruote di macchina come cicatrici. Lei si rende conto che da questa tremenda dissacrazione può nascere una nuova possibilità. Nei commenti ci rendiamo conto che l’animale sacro della grande madre terra, il suo furore selvaggio porta i segni di una civiltà violenta che lo ha calpestato ma che non lo ha ancora distrutto a patto che se ne regga il furore e il terrore che ne deriva.
Nel secondo sogno si trova in una foresta amazzonica aggrappata ad un tronco d’albero che sta andando alla deriva in uno spazio d’acqua senza fine. L’albero sradicato non ha più l’aggancio con la terra e non è più in grado, come nelle tradizioni amazzoniche, di reggere il cielo. Ci rendiamo conto insieme che il tremendo è rappresentato proprio da questo, come se l’albero, nella sua funzione di axis mundi, capace di collegare acqua, terra e cielo, si fosse sradicato e scivolasse in una liquida deriva senza orizzonti.
Non crediamo sia necessario commentare queste tremende immagini che perfettamente descrivono il pericolo che su tutti noi incombe di diventare esseri alla deriva delle nostre emozioni, disorientati come naufraghi in un gigantesco infinito mare. Ma continuare a pensare, il tenerci forte all’albero ci permetterà di arrivare a un nuovo approdo in cui noi, diversi, consapevoli della follia di cui siamo capaci, quando titanicamente non rispettiamo più i limiti e i confini che la madre terra ci impone, ci chiederemo chi vogliamo essere ora.
Testo tratto da: Rivista di Psicologia Analitica Nuova Serie, Volume 101/2020, n. 49
Camilla Albini Bravo è Psicologa Analista, membro ordinario A.I.P.A. e I.A.A.P. con funzioni didattiche – Roma e Pistoia
Mots-clés__Attesa
Attesa
di Ornella Tajani
Lucienne Delyle, J’attendrai -> play
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Da Louis-René des Forêts, Les Mendiants, Gallimard, 1986, traduzione inedita di Camilla Diez
«Quando non ti amerò più, sarà il ritorno del caos», dice Otello, ma io dico che quando non lo amerò più sarà il ritorno alla serenità. Ha detto che sarebbe venuto alle due ed erano le due e dieci. Mi sono alzata, sono andata verso l’armadio e ho aperto le due ante, ho infilato la mano sotto la pila di biancheria morbida, ho toccato la pendola piatta e fredda e l’ho posata sullo scrittoio. Ho teso l’orecchio ma il rumore violento della fiera copriva i rumori familiari: i rintocchi, il cigolio della porta e i passi. Le donne salgono sui vagoncini e in cima a un ripido pendio si stringono l’una all’altra, avvertono un delizioso bruciore nel petto. Il vagoncino è lento, lentissimo, poi precipita; le viscere scendono nelle gambe, esplodono grida; la gente, a testa in su, da sotto le guarda ridendo. Mi sono rimessa a letto, le mani incrociate sotto la nuca. Quando credevo di sentire il cigolio della porta mi alzavo di scatto e tutta stordita mi guardavo allo specchio premendomi le tempie con il palmo delle mani e giravo per la stanza, non sapendo più che farne, delle mani: non è lui, non è lui, lo so che non è lui, ma rimanevo immobile, i muscoli dolorosamente contratti (mi dicevo che non era lui perché se mi fossi detta che era lui ogni speranza sarebbe sfumata: bisogna dire no ed è sì, o sì ed è no), e attraverso la parete ascoltavo i passi che si allontanavano nel corridoio e che venivano coperti dalla musichetta delle giostre, poi non sentii più nulla. Mi ha mentito di nuovo, e continuavo a dirmi che non sarebbe venuto. Non verrà e stavolta è finita davvero, ma al tempo stesso pensavo che forse il pranzo si era protratto, avevano bevuto e fumato sigari, non poteva andarsene o magari avevano iniziato tardi, aveva perso la nozione del tempo e non sapeva che erano già le due e un quarto (non verrà, non verrà, non verrà) e lo vedevo in mezzo a volti congestionati, rideva e parlava a vanvera come sempre gli uomini dopo un buon pasto (non verrà, non verrà). Quando ieri sera mi aveva detto che sarebbe venuto alle due avevo avuto la certezza che sarebbe venuto, la certezza che sarebbe venuto proprio alle due, ma erano le due e un quarto passate, forse il mio orologio va avanti di cinque minuti. E difatti l’orologio di Sainte-Anne batté il quarto, e fui sollevata: era una vittoria sul tempo. Così tornavamo tutti indietro di cinque minuti, e durante quei cinque minuti sono rimasta seduta senza muovermi, mi bruciavano le mani, gli occhi sorvegliavano la lancetta, la vedevo scendere, ero furiosa che fosse tanto rapida e tra poco avrebbe nascosto il IV. Già sapevo che non sarebbe venuto. Ma perché, quando mi stava davanti e mi ha detto, inclinando la testa e sollevando un cappello immaginario, che sarebbe venuto alle due, non ho insistito perché mi confermasse che sarebbe venuto proprio alle due in punto? Mi guardava con quegli occhi così vivaci che ero assolutamente sicura che avrebbe mantenuto la parola. Ora ero assolutamente sicura che non sarebbe venuto. La lancetta era scivolata sul IV e continuava il suo cammino silenzioso. La lunga cenere della sigaretta mi era caduta sulle ginocchia. Mi sono alzata e ho scrollato la cenere leggera dalla gonna. Mi ricordavo le sue parole: «Faccio quello che mi pare, ascolto il sangue nelle vene, io, mentre tu non saprai mai cos’è la vita perché stai sempre ferma ad aspettarla, invece di inseguirla», non ho osato dirgli che lo inseguivo notte e giorno, e quando sono sola nel mio letto penso: «Sta con l’altra», e vedo come si china su di lei, come le sorride e vedo come fossero sopra la mia testa i suoi occhi grigi attraversati da tutti i riflessi della passione. Eppure della passione non sapeva nulla, conosceva solo il piacere. Avrei voluto che fosse nel mio cuore un minuto soltanto per vederne le ferite. O forse l’amava? Se sapesse che lo inseguivo notte e giorno sarebbe così contento che mi ignorerebbe ancora di più, perché allora saprebbe che i miei sentimenti non si fermano di fronte a nulla.
Ero rimasta sdraiata, tranquilla, con gli occhi aperti, mentre il brusio della folla che saliva dal porto a ondate d’intensità variabile rendeva più dolorosa la mia solitudine. Poi non ho pensato più a nulla, non aspettavo più, non soffrivo più, e per molto tempo rimasi con la mente vuota. Di colpo, le vibrazioni dell’orologio: mi ronzarono le orecchie. Lentamente mi sono seduta; avevo i capelli appiccicati alle tempie, e lentamente ho ripreso i sensi; poi mi sono alzata: la stanza girava piano piano. Quando ho sentito Valencia biascicata senza slancio dall’organetto della giostra i miei occhi si sono riempiti di lacrime. Guardavo i miei piedi rosa, solcati da vene azzurre, con le dita strette nelle scarpe di camoscio e mi sono ricordata che era domenica. «Devi cercare e troverai», diceva, «ma tu resti immobile ad aspettare che la vita ti piova dal cielo. Non devi aver paura dei tuoi impulsi, rincorri ciò che può darti gioia, non è la gioia a venire da te, sei tu che devi andarle incontro, e più tardi dovrai correre, e più tardi ancora, quando non avrai più la forza di correre, almeno potrai dirti sorridendo: l’ho avuta quando ho potuto averla e cerco di averla ancora quando ormai non posso più; quindi sono ancora viva», ma lui parla così perché cerca una gioia qualunque; oppure è più fortunato degli altri. Perché forse l’ama e sta con lei, ecco perché non è venuto. E, di nuovo, lo vedevo chino su di lei, le accarezzava la mano, gli occhi la penetravano con un tiepido chiarore, eppure era sempre sdegnoso come se tutto gli fosse dovuto, e di nuovo ho sentito il desiderio di addormentarmi: non volevo più vedere quelle immagini, non volevo più sentire le sue parole che al mio orecchio, risalendo dal passato, si agitavano come mosche d’estate. Avrei voluto che fosse notte e sprofondare nel buio, nel buio, il buio, ma quando chiudevo gli occhi vedevo una distesa rossa che mi bruciava le palpebre e preferivo vedere la luce brutta e cruda. Lo cercavo notte e giorno: come era stato in mia presenza, gentile o ostinato, come aveva recitato, e tutti i suoi gesti, tutte le sue espressioni riprendevano vita a mezzanotte, quando nell’albergo regnava finalmente il silenzio e sentivo solo le fronde, il mare, i muggiti delle navi. Pesavo le sue parole più dolci e quelle più cattive, le più dolci mi sembravano spesso venirgli dal cuore e le più cattive elaborate dal cervello per nascondere quelle più dolci, per turbare la mia fiducia, perché è convinto che l’amore sia un gioco e per alimentare la fiamma si debba stuzzicare la gelosia. Era colpa mia: avrei dovuto amare un uomo che cerca il riposo. L’amore, una pianura tenera e malleabile (e al tempo stesso mi dicevo: «No, no, io amo solo la violenza, non so che farmene di quegli uomini mansueti che si fanno comandare a bacchetta; lui è un uomo, un uomo, un uomo»). Attraverso la camicia sentivo una frescura leggera e salina, un po’ umida; la fronte poggiava sulle braccia incrociate, la bocca sul copriletto madido di lacrime; sotto la pelle delle tempie si stringevano due tenaglie. Non verrà e sta con lei. «Il giorno in cui non ci sopporteremo più troncherò all’instante», diceva, «bisogna essere schietti, perché la libertà esige schiettezza.» – «Ma Grégoire, noi non ci lasceremo, non ci lasceremo mai.» Lui fischiettava e mi guardava con un’aria assorta, impietosita, intollerabile. Mi ero stretta a lui ed eravamo rimasti per un po’ senza parlare. Ciascuno va per la sua strada, ciascuno va per la sua strada, aveva canticchiato, e le strade non si incontrano; suppongo fosse una citazione (alle domande imbarazzanti lui risponde con delle citazioni); poi mi aveva abbracciata e aveva posato le labbra ardenti sulle mie e io avevo pensato, stupida che sono, che quella fosse la risposta migliore, ma ora so che era un insulto.
Mi sono girata, sbadigliando, e sono rimasta stesa sulla schiena, con gli occhi spalancati e le mani sotto la nuca lacerata da un dolore cocente, a guardare il soffitto chiazzato di macchie di ruggine tanto da somigliare a una mappa. Mi sembrava che il lungo gemito di una nave, le risate dei bambini, le spirali rapide e cristalline degli organetti e il baccano metallico del Scenic Railway mi martellassero forte la fronte, le tempie e la nuca, e mi gridassero che era finita, finita, finita, che la vita mi metteva alla porta: vattene, vattene, vattene; prendevano a calci un cadavere, vattene, vattene, vattene, non ce ne importa nulla di te, vattene, vattene, vattene, nulla di te, nulla di te. Mi sono tirata su di scatto: il sole che splendeva sotto le tapparelle abbassate faceva brillare il nichel della pendola, che segnava le tre meno un quarto; mi sentivo perduta, impotente, presa in trappola come una mosca nel ritmo monotono e vorticoso della giostra, e le sue grida acute squarciavano l’aria assonnata come grida di rivolta in un mondo pesante, dolciastro e opprimente. Mi sono alzata. Davanti allo specchio mi sono stropicciata gli occhi con il fazzoletto attorcigliato; ho acceso una sigaretta e mi sono affacciata alla finestra: la folla era ammassata contro le giostre che, viste dall’alto, parevano ombrellini; palloncini gialli, rossi, verdi e azzurri svolazzavano altissimi, uniti in un grappolo multicolore, trattenuti a terra da fili invisibili; un odore di scuderia, di torrone, di noccioline, di bambini e di folla saliva a ondate fino a me, e sulla piattaforma brulicavano le macchinine, minuscole macchie rosse che si scontravano in una specie di danza vana e scomposta tra le urla di gioia e gli spari del tiro al bersaglio. A fare da sfondo, rimorchi scuri, golette bianche e pesanti barconi carichi di carbone e sabbia rossa.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
Le “Nughette” di Canella: Wunderkammer di una civiltà idiota
[Presento qui alcuni testi tratti dal volume di prose Nughette ’17-’20 di Leonardo Canella, appena uscito per Affinità Elettive, seguito dal saggio che ho scritto come postfazione. A. I.]
di Leonardo Canella
1)
pensavo che potevi spararmi prima di leggere le tue poesie. Mentre la Polly chiama il centodiciotto che facciamo un bel pubblico letterario, e la Dimmy dirimpettaia che grida e Bruno Vespa che ride, in TV. E mentre leggi, ti ascolto. Tranquillo. Che felice penso che tanto ci sei tu chi mi hai già sparato. E leggi le tue poesie. Ed io rivedo la mia piantagrassa Selly divenuta cieca e le nuvole in alto. Bianche.
2)
tutti a dirmi che eri morto. Con una siringa nel braccio e un batuffolo di cotone rosso sull’erba. Tipo fiore sfiorito. E invece no. Adesso sei nero e fai il nigeriano ai giardinetti, mitico Ellis. E sorridi. Tutti a dirmi che eri morto. E Invece no. Sorridi tipo 1978. E tu sei lì, mitico Ellis, con la Dalmy sdentata e il Dirby stecchetto. Che adesso fanno i nigeriani neri pure loro, ai giardinetti. E sorridono tipo 1978 che il fiore sfiorito c’è pure per loro, sull’erba. La siringa e il batuffolo di cotone lo porto invece io.
3)
donna tenuta in freezer per 19 anni. Mitico Ciclope, leggo questo sul corrierepuntoit e penso alla tua isola che mi piacevano un sacco le capre. E le bacche, nere. E davanti alla TV c’eravamo noi, io tu e le capre. E il rumore del freezer. E stavamo la sera così, davanti alla TV, davanti al mare. Col rumore del freezer. A pensare, a fare poesia. Poi il freezer si è rotto e c’hanno trovato dentro una donna. Dopo 19 anni. E non so se sono stato io o sei stato tu che la Polly dice che sono un mostro quando in casa non ci do retta. E oggi quando l’ho rivista tornare coi sacchetti della spesa, ho pensato che anche lei era uscita di casa 19 anni fa. Sì, ora ricordo, era uscita di casa diciannove anni fa.
4)
Bubu migrante, tu sei lì. Io lo so. Tocco lo schermo, e tu sei lì. Infilo le dita, e sento la tua lingua. Non so, tipo spugnetta umida. E ci sono dieci centesimi, ma dipende. Se metto un euro, ce ne sono sessanta, di centesimi. Sulla lingua. A scuola dicono che parlo da solo ma non è vero: IO PARLO COL DISTRIBUTORE DEL CAFFÈ! E dentro al distributore del caffè ci sei tu, Bubu migrante. Io lo so. E sento la tua lingua, umida tipo spugnetta. E la tua voce. Che se parliamo di letteratura, tu mi dici ‘prendere il resto’. Ed io sono d’accordo.
5)
in fondo al mare c’è più plastica che vita. E ci sono i migranti. Con la plastica nello sterno e dentro il teschio, seduti in poltrona col telecomando. Che ti vedono con pantaloni a zampa di elefante calibro 38 e basette lunghe, mitico Ellys. Com’eri nel 1978, alla tv. Così ti ho invitato a cena trent’anni dopo in fondo al mare, mitico Ellys. Con pantaloni a zampa di elefante, calibro 38 e basette lunghe. E i migranti seduti in poltrona col telecomando. A parlare della plastica e del dolore. In cerchio, in fondo al mare. E sentire la vita e le previsioni del tempo.
6)
a Milano c’è il bosco della droga e ci sono gli zombi. E c’è anche un agglomerato di cemento armato e rifiuti, vicino. Vicino agli zombi. E Canella va lì, a leggere le nughette e a sentire l’eco fra i rami del bosco della droga. E l’arietta di primavera. Che la Polly dice che in casa sono uno zombi che non pulisci mai. E io vado fra i rami del bosco della droga per sentire l’eco delle mie nughette. Felice. E l’arietta di primavera. E gli zombi ridono sorrisi sdentati nel bosco della droga. A Milano. Con l’agglomerato di cementoarmatoerifiuti vicino. Felice pure lui.
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LE WUNDERKAMMER DI UNA CIVILTÀ IDIOTA
di Andrea Inglese
devo combattere la morte e i peli, dici mentre ti strappi i peli sul braccio.
Nughetta n° 47.
Nonostante la crisi che l’ha accompagnata nel corso di tutto il Novecento, la lirica, genere dominante delle scritture poetiche, è sopravvissuta al cambio di secolo, e coabita, con più o meno imbarazzo, con altre forme, più sperimentali, anti-liriche o post-liriche, che si dispongono comunque nei medesimi dintorni editoriali e di attenzione critica. Per altri versi, la poesia continua vivacemente a morire, come tutta la letteratura, nell’era della cultura di massa e digitale. Al di là delle innumerevoli diagnosi apocalittiche, è interessante vedere come questo genere si caratterizzi più di altri per un destino ambivalente: la poesia, da un lato, è vergognosa editorialmente, perché non ha compratori, e spettacolarmente, perché – in genere – ha pochi spettatori; dall’altro, però, gli si affibbia spesso e volentieri una nobilissima missione. Per molto tempo, soprattutto a partire dagli anni Zero, si è parlato della poesia come una zona di resistenza, ossia un’attività letteraria che sembra, pur nella sua marginalità riconosciuta, salvaguardare qualcosa di “umano”, “non mercificato”, “autentico”. La poesia, insomma, costituirebbe, nella narrazione apologetica che essa tende a fare di se stessa, l’ultimo bastione contro la disumanizzazione e la mercificazione universali promosse dalla barbarie capitalistica. In quest’ottica, persino i media generalisti sono propensi di tanto in tanto a tirar fuori qualche figura di poeta, colmo di umanità e saggezza, di pazienza artigianale e ritrosia ascetica. Oggi, poi, la poesia sembra addirittura profittare di una nuova ondata culturale, ossia la sensibilità ecologica. Fino a ieri, il poeta difendeva i valori dell’umanesimo, ma oggi, con la faccenda dell’antropocene e del riscaldamento climatico, la centralità dell’uomo è diventata un po’ sospetta. Quindi si è passati al filone poesia ed ecologia. E, ancora una volta, la periferica scrittura in versi può riacquistare, almeno fino alla prossima crisi, una nuova autorevolezza.
L’interesse che desta un autore come Leonardo Canella viene, innanzitutto, dalla postura generale che egli assume nei confronti del genere che pratica. Canella sembra aver fatto i conti fino in fondo con le narrazioni catastrofiche e apologetiche che circondano la poesia. E le conclusioni che tira, lo vedremo, vanno nella direzione di una grande vitalità accompagnata da un perfetto disincanto. I testi che egli raccoglie sotto il titolo di “nughette”, pur non assomigliando in prima battuta a delle poesie, vogliono inscriversi, seppure in forma ironica e autoparodica, nella tradizione della poesia occidentale. Lo notava già Renato Barilli, introducendo il primo libro dell’autore (Nughette, Guaraldi, 2014), e ricordando le nugae del Petrarca, ossia un genere adatto a componimenti di secondaria importanza, scritti in volgare. Prima ancora, il termine è utilizzato nella lirica latina da Catullo, con il significato di “bagatelle” o “inezie”, per definire testi poetici brevi e di soggetto leggero, ossia legato alla quotidianità e alla vita privata dell’autore, che si distinguono dai carmina docta, testi più lunghi e su temi gravi, legati all’epica e all’impegno civile.
Riesumando un genere antico della tradizione poetica occidentale e assolutizzandolo, ossia limitando a esso la poesia possibile del XXI secolo, Canella non solo gli riconosce di fatto un carattere minoritario – per altro incontestabile –, ma anche gli attribuisce di diritto un carattere di scrittura minore, ossia programmaticamente non edificante. Questa preliminare operazione, che si pone a livello d’istituzione letteraria, ossia di “genere”, ed è quindi rivolta innanzitutto verso il pubblico per orientarne la lettura, annuncia una consapevolezza forte, storica, dell’azione di produrre letteratura. Oggi, la poesia, per Canella, può esistere principalmente nella forma diminuita delle “nughette”: componimenti brevi, seriali, privi di verso, d’argomento quotidiano. Si tratta, insomma, di scegliersi il proprio pubblico, di disambiguarsi rispetto al contesto che, pur essendo assai fragile e periferico, non rinuncia ai propri sogni di centralità e grandezza. In Canella non si troveranno elogi degli alberi e delle erbe di campo, come non si troveranno meditazioni sul destino nuvoloso dell’umanità. Non saremo confrontati a un uso estremo, sofisticato, della parola. Non vi è nessun tentativo di riscattare il linguaggio dalla sua usura, né attraverso operazioni di “pulizia” del dettato né attraverso operazioni d’“ispessimento” espressionistico. La strategia di Canella guarda in tutt’altra direzione: bisogna indebolire e rilasciare enormemente i filtri, per fare entrare quanta più materia possibile, quante più “occasioni”, anche se esse si caratterizzano per un alto grado d’insignificanza. Le nughette sono pensate non come un baluardo formale, stilistico e retorico, contro il già-detto, la parola ordinaria, il flusso eterogeneo e destrutturato della comunicazione mediale, la piattezza delle situazioni connesse alla vita domestica e lavorativa. Esse funzionano, al contrario, come un formidabile e sensibilissimo strumento di captazione; tutto vi può entrare: le frasi fatte, i titoli di cronaca, i gesti più comuni e impoetici, come tagliarsi le unghie o farsi la ceretta. E vi è un insolente proposito di rovesciamento dei valori: la poesia, se ancora esiste, si fa con le inezie o, più precisamente, si fa con gli scarti dell’esperienza, ciò di cui vorremmo senza sosta liberarci: le idiosincrasie, il funzionamento testardo e animale del corpo, le narrazioni mediali, che costituiscono per noi, cittadini informati e intrattenuti, una sorta d’inquinamento “delle menti”, altrettanto evidente di quello realizzato sugli ecosistemi del pianeta. (Della violenza di questo inquinamento se ne è avuta una prova ulteriore e recente nei mesi di confinamento obbligato a causa della pandemia di Covid-19. Durante questo periodo anomalo, tra le cose estremamente gravi da cui bisognava difendersi – il virus, ovviamente, la perdita del proprio lavoro, il dolore e il caos psichico – quasi tutte le persone che conosco hanno citato l’informazione televisiva e giornalistica.)
Alle spalle di questo atteggiamento di Canella potremmo individuare eredità o analogie: la linea crepuscolare che va da Gozzano a Sanguinetti (soprattutto quello di Postkarten), ma anche l’objet trouvé e il collage dei dadaisti, e più recentemente l’Aldo Nove di Woobinda. Quello che più conta, però, è l’effetto globale che questo abbassamento dei valori produce sui suoi testi. Da un lato, assistiamo al gesto cinico-nichilista che dissacra ogni tema o figura dai possibili risvolti consolatori, dall’altro abbiamo la rilevazione, all’interno degli scenari più triti e triviali, di zone d’intensità impreviste. E queste zone sono spesso legate all’impoetica, anti-lirica, dimensione che Bachtin aveva definito il basso materiale e corporeo. Si legga la nughetta 31, che funziona anche da manifesto di poetica:
“mentre parli ¬ sei uno scrittore ¬ penso al verme che ho visto. L’ho visto sul cemento, pieno di vita. Al sole. Dici che tuo padre aveva i baffi. Negli anni Settanta. E io penso al verme che ho visto sul cemento. Pieno di vita, al sole. Non riesco a non pensarci, non so. Anche lui coi baffi, negli anni Settanta. E intanto parli di letteratura e io penso al verme che ho visto. L’ho visto sul cemento pieno di vita e al sole. Coi baffi, mentre parlava di letteratura anche lui, negli anni Settanta. Non riesco a non pensarci, non so. E questa è la mia idea di letteratura.”
Nulla è più basso, rasoterra, lontano dall’antropomorfismo e dall’antropocentrismo del “verme”, che però appare qui “sul cemento pieno di vita e al sole”. È quello che definisco una zona d’intensità, e che funziona grazie alla strategia globale della composizione, che si costruisce per contrasto con la zona debole “scrittore, anni Settanta, letteratura”. Questi termini generici che rinviano a un sistema d’identità e valori radicati nella storia umana si oppongono qui alla concretezza di una specifica situazione non umana: l’asse verme-vita-sole. In fondo, Canella fa qui quello che scrittori e artisti sono, a volte, in grado di fare, ossia si libera da quella “asfissiante cultura” – per riprendere il titolo di un celebre pamphlet di Jean Dubuffet – , che funziona, in realtà, come un sistema per ritardare e ostruire la visione, la presa d’atto della vita presente, delle cose come stanno. (Dubuffet, per altro, compare in un testo delle Nuove nughette, edite da Prufrock spa nel 2017. E, sia detto di passaggio, Canella è anche pittore e critico d’arte).
Bisogna, quindi, leggere il lavoro di Canella consapevoli della duplicità che manifesta: tanto più esso dismette ogni residuo sogno d’integrità lirica, ma anche d’emancipazione avanguardistica, tanto più organizza una macchina macrotestuale efficiente e articolata sul piano letterario. Egli, infatti, ha creato una chimera, un ibrido mostruoso, ossia un genere individuale, le nughette, appunto, come già fecero alcuni illustri predecessori novecenteschi, quali Francis Ponge (è l’oggetto della scrittura che crea il genere, non il contrario), ma anche suoi coetanei altrettanto ambiziosi, quali Vincenzo Ostuni con il suo Faldone.
La virtù delle nughette, lo abbiamo detto, consiste nella straordinaria capacità inclusiva che offre loro. Esse costituiscono un dispositivo onnivoro, che si nutre della straripante insignificanza e idiozia delle nostre vite. È opportuno, però, chiarire subito una cosa. Questa insignificanza e idiozia non è semplicemente l’effetto di un sistema storico per molti aspetti detestabile, come quello rappresentato dalle tarde società capitalistiche all’epoca dell’offensiva neoliberista e dello scontro tra tecnocrazia e populismo. La consapevolezza storica di Canella non offusca in lui una consapevolezza, diciamo, antropologica. Le nughette sono attraversate da cima a fonda da un’inesauribile sete di felicità, e di felicità esclusivamente terrena. E più questa sete è intensa, più colui che la patisce è confrontato al rischio dell’insensatezza. Canella fa affiorare, all’interno del nostro orizzonte storico, la fisionomia di un’umanità che ha preceduto il capitalismo e la modernità, e che è caratterizzata da una serie d’invarianti antropologiche: il cibo, l’eros, le narrazioni condivise, la morte. L’abbassamento di temi e registri linguistici è parte di una strategia più generale, che è quella di un denudamento o, se vogliamo, di una riduzione, alle attività più elementari dell’animale parlante. Ecco, allora, che i personaggi che compaiono nelle nughette sono costantemente alla prese con il cibo – dal barattolo di nutella al sugo al ragù – e se non stano mangiando, cucinano o pensano al cibo. È il corpo che lo vuole, non l’eterea coscienza. Allo stesso modo, il corpo è costantemente proteso al godimento sensoriale. Ma per soddisfarsi non ha bisogno di sofisticate esperienze no limits, turistiche, sportive o sessuali. Gli basta farsi scompigliare i capelli “dall’arietta di primavera”, “sentire il sole su in vena e la serotonina sparata a mille”, avere intorno “Polly tettinedorate” o sbirciare la Selly Dirimpettaia che se ne esce nuda dalla doccia. Vi è poi, ricorrente, il motivo del “cerchio” dei parlanti: “E ci siamo detti storie antiche”, “In cerchio tra i fiorellini colorati, sul prato”, “Intorno al fuoco. E raccontarci della vita, sul prato. Tutti in cerchio sulle bave, sotto la luna”… Uno dei momenti di felicità dell’animale parlante riguarda l’atto di parola non immediatamente strumentale, ossia il racconto condiviso e reciproco, che potrà avere tratti epici, di narrazione collettiva (“storie antiche”) o autobiografici, di narrazione individuale (“raccontarci della vita”). Poco importa che il “cerchio” si presenti come sogno, immagine irreale, esso ricorre puntualmente a mostrare l’insufficienza sia dell’apostrofe lirica, privata e confinata al tu, sia delle forme di narrazione elaborate dai media di massa (stampa, TV, internet). La morte, infine, interviene come leitmotiv “spettrale” ad affiancare, quasi a rafforzare, le certificazioni di presenza fornite dal corpo, che percepisce, si nutre, racconta. La morte circola innanzitutto nella forma del fatto di cronaca, ossia come morte violenta e/o insolita, che viene celebrata nei media per il suo carattere al contempo spaventoso e attraente. Varrà la pena di citare per intero la nughetta 22:
“tutti a dirmi che eri morto. Con una siringa nel braccio e un batuffolo di cotone rosso sull’erba. Tipo fiore sfiorito. E invece no. Adesso sei nero e fai il nigeriano ai giardinetti, mitico Ellis. E sorridi. Tutti a dirmi che eri morto. E Invece no. Sorridi tipo 1978. E tu sei lì, mitico Ellis, con la Dalmy sdentata e il Dirby stecchetto. Che adesso fanno i nigeriani neri pure loro, ai giardinetti. E sorridono tipo 1978 che il fiore sfiorito c’è pure per loro, sull’erba. La siringa e il batuffolo di cotone lo porto invece io.”
I morti popolano le nughette e sono spia non solo del destino comune, che nessuna orgia consumista e spettacolare potrà davvero esorcizzare, ma anche di una condizione “spettrale” che incombe su ogni tentativo di aderire vitalisticamente alla propria esperienza. La vitalità del verme, allora, o delle pulsioni elementari di cui il corpo è portatore, vengono costantemente controbilanciate da una fissità allucinatoria. Le nughette non registrano spaccati di vita, ma dei tableaux vivants, ossia delle ricostruzioni artificiali di situazioni. E in queste ricostruzioni intervengono, sulla stessa scena dei vivi, anche i morti. L’opzione figurativa di Canella è quindi decisamente antimimetica. Ad accentuare questo aspetto vi è poi quella che chiamerei la porosità delle identità individuali e delle coordinate spazio temporali. Il tossico di fine anni settanta, morto per overdose di eroina, si confonde con il nigeriano, forse spacciatore, e frequentatore in ogni caso dei giardinetti, e assieme ad essi altre figure marginali di consumatori di droga, Dalmy sdentata e Dirby stecchetto. Qui l’apostrofe lirica non è più indirizzata a un “tu” amoroso o intellettualmente e affettivamente affine (il lettore-ascoltatore), ma a un campione di marginali, che non si riesce però a espellere fuori dallo spettro dell’identità personale. Chi dice io nella nughetta 22, come in molte altre, è in realtà abitato da spettri, e poco importa se all’origine di questi spettri ci sia una scandalistica inchiesta sullo spaccio di droga vista in TV o un ricordo personale nato da un’esperienza diretta o trasmessa oralmente.
Questa spettralità anti-mimetica è all’opera in modo particolarmente evidente nella sezione intitolata Migranti. In questi anni, con tutte le buone intenzioni del mondo, ma non sempre con sufficiente consapevolezza letteraria e critica, i poeti e le poetesse hanno spesso preso la parola, nei loro testi, per esprimere e denunciare alcuni fenomeni legati alla cosiddetta crisi migratoria. L’idea diffusa dietro queste scelte poetiche è quella di “restituire voce a chi voce non ha”. Soprattutto si è sollecitati, attraverso strumenti letterari, a combattere contro gli stereotipi della stampa e della propaganda politica spesso intrecciate tra loro. Il problema, in tutta questa faccenda, è che si rischia di produrre inconsapevolmente un ulteriore stereotipo o di lavorare per variazioni su stereotipi esistenti. Affinché la poesia possa esprimere la voce dei senza voce (gli immigrati clandestini e fuggitivi), bisognerebbe innanzitutto che fosse fatto un lavoro di “raccolta voci”, e che, di conseguenza, e non in modo episodico, i migranti in questione abbiano già preso la parola. Ma questo implica un processo politico e conflittuale lungo e difficile da realizzarsi. In questo contesto, la poesia sembra proporre una scorciatoia che ha una finalità consolatoria. Canella opera qui ancora una volta un rovesciamento: allo stereotipo della narrazione massmediale non viene opposta una rappresentazione più complessa, umana e autentica (con il rischio di prolungare ulteriormente la portata della semplificazione e dell’occultamento). Lo stereotipo è preso e trattato come una figura “spettrale”, ossia accentuandone i tratti di meccanicità e di fissità disumanizzanti. Canella usa in modo parodico, in questo e altri casi, le formule di matrice omerica che accompagnano i nominativi. Abbiamo, allora, “Buby africano pesciolinoinbocca”, così come in altri testi “bavettalabiale Polly” o “la Daldy tettinesgonfievicinadicasa”.
Il prezzo che l’autore paga giocando in questo modo antimimetismo e spettralità si riscontra nel carattere programmatico, e per certi versi meccanico, della sua operazione. Nello stesso tempo la ripetizione delle formule, dei personaggi, di certe situazioni o scenari crea quella coerenza e forte identità macrotestuale, che collega non solo i vari componimenti tra di loro, ma anche le diverse raccolte di nughette. Si apre questo libro non per andare alla ricerca di qualche pensiero sublime o esperienza sfuggita alla spettacolarizzazione, ma per girovagare in una successione di “camere delle meraviglie”, dove sono allestite scorie ideologiche dell’epoca e pulsioni umane fondamentali. Non so dire se la passeggiata sia catartica, ma essa contribuisce in forma allegramente impietosa a riconoscere alcune componenti tossiche e dementi del nostro orizzonte individuale e collettivo. D’altra parte, ogni forma di felicità dovrà costruirsi attraverso di esse, traendone anche energia, non solo disgusto e scoramento.
Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh # 1
di R. Umamaheshwari
R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Questa la prima.
Elucubrazioni intorno a un virus. Prologo
(traduzione di Rosario G. Scalia)
Tutto andava secondo la stagione. A fine ottobre, nell’antico monastero buddista di Tabo, a Spiti nell’Himachal Pradesh, i bambini aspettavano con ansia le vacanze invernali del mese venturo, e anche se con qualche ritardo, le mele erano state raccolte nel vicino villaggio di Lari, da alcuni dei campi più piccoli. Gli ultimi sparuti turisti sciamavano per i monasteri di Spiti; i Bengalesi erano i più rumorosi, tutti ansiosi di capire cosa c’era da vedere dopo. Alcuni muratori stavano approntando una nuova casa vacanza per la prossima stagione turistica. La gente era impegnata nella propria vita e si preparava per il nuovo anno, ormai imminente, mentre io qui riempivo il mio cuore di rimorso, e di nostalgia del mio ultimo viaggio con il mio cane e compagno di viaggio, Malli. Qualche settimana più tardi, nel villaggio Mudh, nella Vallata di Pin, poche donne, tra cui la suora buddista Chomo Tchering, stavano sistemando la strada, e condividevano con me il loro pranzo, a base di pane, tè e risate.
Lentamente, a fine dicembre, la neve aveva coperto quasi tutto. Era giunto il tempo di stare a casa intorno ai caminetti e guardare l’anno che se ne andava, e il nuovo che arrivava. In un Capodanno particolarmente freddo e nevoso, a Kibber, il giovane Sonam, sua madre ed io, condividevamo lacrime di gioia e dolore, e il nostro chang di orzo fermentato, rannicchiati intorno al camino, nella loro casa di fango e mattoni. Il primo giorno del 2020 cominciò qui, con trionfanti raggi del Sole che scintillavano sui tetti di questo minuscolo villaggio. Quell’inverno era come tutti gli altri inverni, almeno fino a quel momento. Di là a pochi giorni, tutto sarebbe stato più duro. Circolava la notizia di un leopardo delle nevi che aveva ucciso uno stambecco, e allora gli ultimi Suv provenienti dalle città trasbordavano la gente per una foto veloce con il leopardo. Poi ripartivano, appena in tempo.
Tre cuccioli giocavano lungo il fiume Pin, e ci si chiedeva se sarebbero sopravvissuti ai prossimi tre mesi di quel rigido inverno (e purtroppo, non ci sarebbero riusciti), ed io ero alle prese con il dilemma di decidere se adottarne uno o no. Recentemente un cane era già morto di fame e di freddo, e il suo corpo giaceva sul fiume gelato, sotto il ponte. La volpe rossa si aggirava nei dintorni, pressoché indisturbata, e alcuni stambecchi pascolavano fuori. Era per loro il momento di sentirsi liberi. Tutto, d’altronde, andava nella maniera in cui era sempre andato. I rifugi sarebbero stati presto chiusi e gli ultimi yak, mentre i campi venivano messi a maggese per il periodo della neve, si sarebbero spinti a cercare pascoli lontano nella foresta.
Da sempre la gente fa le stesse cose in questa stagione, e gli yak sarebbero ritornati a casa presto, appena i rigori dell’inverno si fossero attenuati. Per loro questo è il momento di pascolare liberi a temperature pressoché normali. Foraggio e legna a sufficienza sono stati immagazzinati a casa per i mesi invernali, quando le temperature varieranno da meno trenta a meno trentacinque gradi; le mucche, così come le pecore, rimarranno con le famiglie nel recinto sotto casa. Le lanterne solari vengono caricate approfittando di qualunque raggio di sole comparisse di giorno. I lunghi mesi invernali sono una sfida anche per chi vive in queste regioni da diverse generazioni. Ma l’atteggiamento è sempre quello di guardare all’estate che verrà.
Più tardi, fin circa la metà di marzo di questo 2020, Shimla è stata piena di traffico e di turisti, e le solite attrazioni, Mall Road e l’edificio coloniale della Viceregal Lodge, conosciuta anche come Rashtrapati Niwas, che oggi ospita l’Istituto di Studi Superiori, dedicato dal secondo presidente dell’India, Dr. S. Radhakrishnan, al Paese, come primo istituto autonomo di studi avanzati, brulicavano di persone che si godevano l’estate nella stazione collinare. La gente si ammassava intorno ai piccoli ristoranti sulle strade, come sempre. La vita andava avanti al suo ritmo normale, anche se le notizie del nuovo virus in Cina, lontano da qualche parte, era ovunque l’argomento principale di conversazione.
Il Buddha una volta aveva osservato che la permanenza è nulla (o, per dirla in modo più affermativo, che tutto è transeunte). Eppure io ero venuta qui per porre su queste montagne una base permanente, piuttosto che essere nomade. In fondo lo sono stata per anni. La prima volta che arrivai a Himachal Pradesh, oltre vent’anni fa, fu una specie di serendipità: condividere con tre donne qualche canzone e la cena preparata con verdure fresche colte dai campi di fiori di sesamo gialli, in un meraviglioso, piccolo villaggio, chiamato Deot. Anni dopo ci sarei ritornata in un contesto diverso, eppure vi avrei condiviso lo stesso calore, con altra gente, nel quartiere di questo Istituto, nei villaggi tra le valli e le alte montagne, con il mio cane e compagno di viaggio Malli. Talora sono i legami tra le persone, più che i paesaggi semplicemente divini, che diventano l’idea di casa. Il sentirsi a casa, anche se non sei nata lì. Talora invece è l’altro che arriva da terre lontane, che trova una strada “dentro” a significati che chi è dentro da sempre non vede. Tu arrivi sempre da fuori. Il Buddha trovò la sua verità interiore da fuori, e trovò case in regioni lontane da dove era nato, attraverso i paesaggi. E allora ti chiedi se potrebbero esserci luoghi simultanei per arrivare a casa. O se invece finisci per appartenere a questo solo posto. Fra un fiume e una montagna, come fai a decidere dell’uno o dell’altro? Cosa sai della gente che vive qui e là, e di quelli che vivono a metà strada?
Così tu aspetti di arrivare in un certo posto, dopo tutti i tuoi viaggi. Come fanno gli yak, dopo tutto il loro vagabondare per la foresta, lontano da casa, in tempo per l’estate, per andare al lavoro. Come ho fatto io, dopo alcuni anni di vagabondaggio, per trovare infine il mio spazio tra questi luoghi, anche se stavolta senza Malli. Ma l’anti-climax è accaduta. E la vita è cambiata, non solo per me, ma per altri nel mondo. Per alcuni, nel bel mezzo dei loro viaggi, e prima dell’arrivo.
Scrivo da un luogo e da una situazione particolare, quindi quello che scrivo qui è condizionato da entrambe le cose: il luogo e la situazione attuale. La situazione, naturalmente, è comune a molte persone in tutto il mondo, confinate in qualche spazio, sotto un blocco totale o parziale. Scrivo da dentro i limiti e i confini del mio presente spazio, una donna solitaria, in una minuscola stanza di una pensione dell’istituto cui una volta appartenevo, a Shimla, Himachal Pradesh. E si dà il caso che le uniche persone con cui sono in contatto provengano da diverse vocazioni, classi e caste (tra gli altri un postino, un contadino, un pastore, un fioraio, un venditore di frutta, un guidatore di risciò e un tassista, un addetto alle pulizie), con i quali talora ho avuto rapporti più lunghi o, semplicemente, legami di vicinato, o robuste catene forgiate nel corso degli anni di viaggio e di soggiorno in diverse regioni. Guardo il mondo che mi circonda, mentre li ascolto parlare a loro volta del loro mondo, e mi rendo conto di quanto siano diversi i mondi di molte persone, nonostante il globale isolamento e la comune reclusione. Una linea telefonica regolare, quando e dove funziona, diventa un grande strumento per rafforzare alcune di queste connessioni, concedendo in qualche modo un’incursione “nel mondo”, e permettendo di condividere ansie, paure ed esperienze. In passato mi è capitato di essere una giornalista free-lance e una storica, ed era così che mi piaceva pensarmi. E mi rendo conto adesso che il mio sostentamento è stato alimentato in larga misura dalla cosiddetta “economia informale”. Da dove mi trovo oggi, sarebbe quasi impossibile essere quella giornalista o quella storica (di qualsiasi tipo); è senz’altro più difficile adesso accedere alle voci delle persone, o alle loro storie nei modi in cui lo facevo allora, sul campo. Molte cose sono cambiate nell’ultimo anno e mezzo, e in particolare negli ultimi due mesi. Una volta avevo una casa che chiamavo casa, e un “indirizzo permanente” nelle città gemelle di Hyderabad-Secunderabad e ora non ce l’ho più. Ora mi appare importante parlare di questa parte “personale” di me, così legata all’economia; una situazione che lo stato attuale di lockdown rende ancor più indicativa della relazione di ciascuno con il mondo e del senso di esclusione che talora si prova nel non riuscire pienamente a farne parte. Incapace di gestire rate mensili, la mia eterna lotta contro il tempo che mi collega a molti in tutto il mondo, non avendo un reddito regolare permanente, ho venduto l’appartamento e ho perso, insieme ad esso, il mio indirizzo permanente.
Finché non ero una donna sola, e avevo un compagno in questi viaggi (il mio cane, Malli), è stato più facile affrontare l’idea di non avere un recapito. Ma dopo averlo perso, mi interrogo su cosa veramente sia “casa”, e dove. Cosa significa “possedere” una casa? Ed è così essenziale per la sopravvivenza? Oggi, mentre rifletto sul mondo che mi circonda, e sul futuro dell’economia con cui presto dovremo confrontarci, mi chiedo se questa prigionia globale nell’industria del debito sia stata migliore della “libertà” dell’attuale incertezza e della speranza di una casa in cui vivere che non produca debiti. Forse molti si pongono una domanda simile sull’isolamento: se essere fuori al lavoro sia meglio che essere confinati, benché questo confinamento dovrebbe permetterci di liberarci dal virus; e che cosa accadrà se l’economia continua a rimanere chiusa in alcuni settori, e il denaro diminuisce di giorno in giorno senza un afflusso costante di reddito (stranamente, per una volta la questione della generazione di reddito oggi tocca anche i paesi più ricchi, a causa del virus). Ho riflettuto sullo stato attuale dal punto di vista dei differenti contesti economici dei molti che ho sentito al telefono. La situazione attuale, l’economia, sfida me e molti altri. O diciamo che gli Stati, in tutto il mondo, sembrano sfidare le persone a sopportare il peso delle perdite attuali, nella speranza di un futuro migliore. Ho camminato a lungo nel miraggio del settore delle case cosiddette “a prezzi accessibili” (l’unico settore per il quale ero “eleggibile”), e ho visto il modo in cui cambia il modo di fare dei promotori o degli agenti immobiliari nel momento in cui dici loro il tuo “budget”, e come cercano di farti capire quali sono le tipologie di spazi alla tua portata), riflettendo per mesi sull’idea di “casa”. Nel contesto odierno, anche se ora capisco perfettamente l’ansia di molti di “andare a casa” o “tornare a casa”, continuo a chiedermi a cosa serva una casa.
Può esserci un’idea universalmente condivisa di “casa” attraverso tutte le culture, le regioni e le storie? E che dire dell’idea di casa per le comunità tradizionalmente itineranti? C’è anche un’idea “concettuale” e “reale” di casa, distinte l’una dall’altra? Se dovessi considerare me stessa come un soggetto della mia indagine, direi che mi sento ‘a casa’ qui tra le montagne. Eppure non sono nata qui (come alcuni di quelli che sono nati nell’Himachal si sentono ‘a casa’ altrove, in campagna o fuori); la città dove avevo il mio cosiddetto ‘indirizzo permanente’ non mi ha fatto sentire a casa e nella cosiddetta “città massima” in cui sono nata, non sono mai stata a casa mia, se escludo il tempo dell’infanzia, quanto una bambina percepisce i suoi genitori come l’unica idea di sicurezza / casa. Ma se si dovesse parlare in termini più specifici, a volte la sensazione “a casa” non viene da una struttura a quattro mura (e dipende dalle persone, dalla natura, da ciò che ti ispira un senso di appartenenza e di intimità); eppure ancora, molte volte, quando si parla di casa si pensa a una struttura, un riparo e un tetto sopra la testa (soprattutto un tetto e un riparo che dia dignità alle persone che ci vivono dentro), dove ci si sente sicuri e protetti. Quindi, i milioni di lavoratori migranti che ogni giorno tornavano a piedi ai loro villaggi da una città lo facevano perché la città e la sua popolazione non estendevano a loro quello spazio di dignità.
Gli spazi in cui vivevano sembravano quasi irridere l’idea stessa di umanità e dignità. Molte di queste persone devono aver deciso di spostarsi dai villaggi alle grandi città per sfuggire ai contesti restrittivi delle loro vite: l’oppressione delle caste, la mancanza di terra, la disoccupazione, la scarsa opportunità di istruzione, la perdita di dignità e di autostima. Nella loro idea di futuro, forse, speravano che gli spazi della città potessero fornire loro non solo un sostegno monetario ma anche un sostentamento non basato sul pregiudizio di casta, o comunque per quanto possibile non connotato dalla casta, nella misura in cui era possibile? Un tetto e un rifugio dignitoso, non una semplice carta d’identità con un indirizzo e un numero designato, oltre alla sicurezza economica, a volte conta come “casa”. Molti prendono la decisione di lasciare quella che chiamiamo ‘casa’ verso una prospettiva migliore. E fanno ‘case’ altrove. Questa scelta dell’altrove deve essere senza dubbio considerato come uno degli aspetti cruciali delle storie umane.
Questo tetto e questo rifugio che ho in questo momento temporaneo mi fanno sentire sicura, mentre, ma allo stesso tempo, essendo uno spazio condizionato (condizionato alla misericordia dell’istituto che li “possiede”, e al tempo e al contesto) procura un’ansia di “essere a casa” da qualche parte.
Per tanti, in tutto il mondo, il virus può essere causa di trauma: la perdita di una persona amata, la perdita del lavoro, l’incertezza del futuro. Gli Stati che distribuiscono indennità di disoccupazione per la gente affrontano almeno una parte del problema. Ma che dire degli Stati dove non c’è un welfare generalizzato?
Ho viaggiato a lungo per trovare una casa tra le montagne, ma poi, quando forse stavo per concedermi un nuovo indirizzo ‘permanente’, il virus ha colpito. Mi chiedo quanto ancora sia lungo il cammino verso una vita che si potrebbe definire “normale”, guidato dalla speranza della “libertà” (libertà dai limiti, ma anche libertà di scegliere dove andare e come sostenermi, e infine libertà di dissenso: la scelta di dire “no” e “sì”). Quella libertà che dovrebbe essere normale per le persone di tutto il mondo.
Una nota più positiva è che questa stanza della guest house si trova in un Istituto immerso tra alberi di cedro e querce argentate, che concedono lunghi momenti di silenzio, in cui è possibile percepire ogni minuscola forma di vita. La mia esistenza è molto meglio della desolazione di molti altri fuori. Il presente è precario; in questo momento incontrare persone, vivere con loro, scrivere le loro storie non è possibile. Quindi, come tutti gli altri qui, obbedisco alle regole del lockdown: uscire durante gli orari consentiti per andare a prendere il latte e le cose da mangiare (a volte seguita da un cane). La maggior parte delle altre ore del giorno, al chiuso, è facile cadere preda della depressione, anche se oggi faccio parte di una comunità più grande di persone che combattono la stessa battaglia.
Ricordo la mia penna, il mio taccuino e questo presente: un momento storico troppo importante per perderlo. Così mi viene in mente, a volte, che ogni casa è impermanente come il resto del tutto. In questa prigionia, non posso scrivere nel modo in cui scrivevo una volta (indipendentemente dal fatto che qualcuno abbia letto o meno quello che ho scritto finora; ma anche questa preoccupazione del ‘chi leggerà’, così come la questione della morte, non mi preoccupa più). So solo che posso condividere l’unica cosa che conosco: la mia attuale verità. I miei sentimenti, come anche ciò che ascolto da tutte quelle persone con cui in qualche modo, da qualche parte, ho condiviso la vita quotidiana. E posso solo scrivere di come cerco di dare un senso al virus. Sono anche collegata al mondo esterno attraverso la radio tascabile a transistor di mio padre, un pezzo d’antiquariato che Satyanarayana (l’anziano elettricista di una vecchia via di Secunderabad) ha rimesso in funzione per me l’anno scorso. Penso a Satyanarayana e solo ora vengo a sapere da lui che era solito viaggiare ogni mattina (da quarantacinque minuti a un’ora) con un treno passeggeri da Yadadri, a diversi chilometri da Hyderabad, per poi raggiungere il suo negozio in autobus poco dopo mezzogiorno. Riparava i modelli più vecchi di registratori a nastro, televisori e radio, fino alle 17 circa, quando usciva per tornare a casa. Oggi il suo negozio è chiuso: anche lui è confinato in casa, nel suo villaggio.
Chissà se e quando tornerà alla sua specializzazione, che ha da decenni. Per fortuna il mondo esterno e le persone continuano ad entrare in questa stanza attraverso il telefono. Ricordo il tempo in cui riattaccavo, “spegnendo” le persone dal mio mondo, immersa com’ero nelle bozze dei miei manoscritti. Oggi, benché mi limiti ad aspettare che il telefono squilli, non vedo l’ora di sapere come sta qualcuno: tutte quelle persone il cui quotidiano si era per caso legato al mio durante un viaggio o per qualche altra circostanza occasionale. E mi rendo conto che c’è qualcosa di nuovo; che questo è l’effetto del presente su di loro. Non mi faccio illusioni su di me o su ciò che percepisco. Sono profondamente confinata e limitata. E penso a quelli che vanno a raccogliere storie, mentre io mi limito a scrivere di un mondo limitato all’interno della mia cerchia di contatti.
Per fortuna, la riflessione su se stessi e sul mondo è ancora libera, accessibile e immensamente possibile. Così rifletto, pur con molti dubbi. Queste sono le mie osservazioni, riflessioni basate su informazioni sentite e viste che per ora posso solo attingere dallo spazio in cui vivo e da una distanza imposta dalle circostanze. Ma lontana, non lo sono; e disimpegnata, non ancora. Ogni giorno è un nuovo osservare; il risultato di ciò che vado sentendo alla radio o guardando alla televisione; ogni giorno porta con sé qualcosa che prima non c’era. Nel complesso, questo momento storico sta arrivando in contemporanea con un sostanziale intento politico globale, che i comuni mortali come me non riescono a comprendere. E in questo momento di certo io non sto giocando il ruolo del corona-eroe o del corona-guerriero, ma mi sento una donna come tante, seppur immensamente consapevole e grata di essere relativamente più vicino di tante alla natura, al calore di quartieri familiari, alla gentilezza di molte persone comuni; una pura e semplice benedizione, nonostante io sia condizionata dallo spazio di una stanza, in una guest house.
Ascoltare la radio ogni giorno, per un tempo prestabilito, tre volte al giorno (con la semplice estensione di banda delle onde medie), e in particolare la programmazione dell’Akashvani Shimla Kendra, significa ascoltare un’ampia gamma di programmi folk, canzoni di ogni regione linguistica dello stato dell’Himachal Pradesh. Rispetto ai programmi radiofonici di altri stati dove ho vissuto, non mi sono mai imbattuta in una stazione che dedica così tanto spazio alla musica e ai musicisti folk (alcuni programmi hanno addirittura uno speaker che parla nella lingua/dialetto di quella particolare regione). E questo non è un fenomeno nuovo. Continua da anni. L’Akashvani Shimla Kendra possiede alcune rare registrazioni di musicisti folk, uomini e donne, di molti anni fa. È una stazione radio molto antica, che ha cominciato a trasmettere il 16 giugno 1955/56, ancor prima della formazione dello stato dell’Himachal Pradesh – almeno così mi dice un loro dipendente. In un certo senso, custodisce la tradizione delle diverse lingue parlate in questo stato, e delle espressioni dialettali che ricorrono nelle canzoni, specialmente ora che l’hindi è diventata la lingua universalmente utilizzata per gli usi ufficiali e per i principali scopi comunicativi.
Nel frattempo, la radio pubblica nazionale (All India Radio), con le sue numerose stazioni in tutto il paese, ha accompagnato le giornate di persone di ogni casta, classe, sesso e religione.
Agricoltori sul campo, camionisti sulla strada, sarti nel più piccolo angolo di ogni villaggio, le donne a casa, quegli uomini che stirano al bordo delle strade (un’usanza ancora praticata nei bylanes di ogni città dell’India, per chi si annoia a stirare i propri vestiti), ortolani e fruttivendoli. Anche in tempi come questi la radio nazionale si preoccupa di stabilire delle fasce orarie “tematiche” per l’allevamento, la zootecnia, il pollame, l’orticoltura, donne e bambini. Già all’indomani dell’indipendenza, vari governi hanno cominciato ad utilizzare la radio a loro vantaggio, e ancora oggi la radio è l’unico mezzo di diffusione delle notizie nei villaggi più remoti. Nonostante il numero dei telespettatori sia in costante aumento, la popolarità della radio non è diminuita.
Ferlinghetti io vorrei
di Gian Piero Fiorillo
Ferlinghetti, io vorrei
Che tu e Corso e Ginsberg
E Jack e tutti gli altri
Possiate non avere pace
Se pace è la coscienza stanca dei morti
Possiate rivoltarvi nella tomba
Irrequieta sentendo il vostro nome
E i versi
Sulla bocca degli adolescenti
Aspettando – sempre aspettiamo qualcosa
Che il prato partorisca altri fiori
Altre margherite
Altre canzoni e speranze
Vorrei sentire ancora la vostra voce
Sirene familiari e pericolose
Perché ci avete insegnato l’inquietudine
E che soltanto l’inquietudine è vita
E avete affondato i vostri denti
Nella nostra carne
Ferite dolci di miele e veleno
Strappandoci alle illusioni
Di esistenze annebbiate
E mute maschere sottomesse
Ferlinghetti ti maledico e ti abbraccio
Per avere strappato le calde
Pesanti tende di velluto e di corda
Che nascondono il retrobottega
Per avere scoperchiato i vasi
E bombardato gli idoli
Dal ghigno rassicurante
Sempre in cerca sempre in attesa
Come vagabondi cacciatori nel dharma
Come prede paranoiche
Chine a dissetarsi ai ruscelli sovversivi
Di versi sincopati e monchi
Di promesse rinnovellate
Di scadenze e rinvii
Sentendo sempre il terrore
Venire dall’ombra
E le nostre ombre
Nutrirsi di terrore
E di gioia
Anche la maschera è nuda
Adesso, Ferlinghetti
Il tempo la sa molto lunga
E noi siamo diventati conchiglie
Disperse su spiagge roventi
Innamorate del teschio di un cane
Dello scheletro di una barca
Della carcassa bianca
Della balena
Di una foglia ballerina nel vento
E sulle onde
Mentre poco più in là sulle dune
Le erbacce e il rosmarino
Contendono pochi centimetri
D’anima alla sabbia ospitale
Come l’eterno movimento
Del caso.
***
La Heimat è una cosa da matti? Intervista a Maddalena Fingerle
di Giovanni Accardo

“Lingua madre” è il romanzo d’esordio di Maddalena Fingerle, bolzanina trapiantata a Monaco di Baviera, dove ha studiato germanistica e sta svolgendo un dottorato di ricerca in italianistica, pubblicato da Italo Svevo e con cui ha vinto l’ultima edizione del Premio Calvino, il più importante premio letterario italiano per esordienti. La vicenda è quasi interamente ambientata a Bolzano, con una parte a Berlino, e in qualche modo è una dissacrante riflessione su talune ossessioni che caratterizzano l’Alto Adige/Südtirol, soprattutto ossessioni linguistiche e identitarie. Un romanzo fortemente comico, specie nella prima metà, di grande maturità stilistica e di notevole freschezza.
Nell’intervista che segue proviamo a farci raccontare qualcosa in più dall’autrice, che i lettori di Nazione Indiana conoscono bene, visto che proprio qui ha pubblicato alcuni suoi racconti.
Paolo Prescher, anagramma di parole sporche, non sopporta le parole sporche, appunto, cioè quelle segnate dalla falsità, dall’ipocrisia. Ci fai qualche esempio?
Giuliana, la madre, utilizza espressioni politicamente corrette ma in maniera totalmente ipocrita, dice per esempio “sudtirolese di madrelingua tedesca” e “persona di colore”. Paolo odia la falsità con la quale lo dice e preferirebbe un atteggiamento sincero che per lui si rispecchia in espressioni come “tedesco” o “negro”.
Pur vivendo a Bolzano, anzi, forse proprio per questo, non crede nel bilinguismo. Perché?
Cresce in una famiglia italiana senza parlare il tedesco. Non crede nel bilinguismo altoatesino perché è qualcosa che sente nominare a livello politico ma di cui non trova riscontro nel quotidiano, tanto che il tedesco lo impara da solo con i libri e lo migliora poi a Berlino.
Il protagonista si accorge che non basta conoscere il tedesco per sentirsi davvero figlio della sua terra, l’Alto Adige/Südtirol, anche perché, ragiona, la vera lingua è il dialetto sudtirolese, inaccessibile agli italiani, che proprio di un dialetto sono orfani.
Per Paolo, ossessionato dalle parole, la mancanza di un dialetto è qualcosa di molto sofferto e che invidia, per esempio, all’amico napoletano che conosce a Berlino, ma in realtà anche a Jan, amico d’infanzia, che parla dialetto sudtirolese. Vorrebbe anche lui una lingua della famiglia, una parlata marcata, forte, decisa. Nei confronti del dialetto prova (in)sofferenza, legata all’essere cresciuto in un luogo di cui conosce una sola lingua. Personalmente non credo che il dialetto sia inaccessibile, penso però sia difficile da imparare in età adulta senza che faccia effetto scimmiottamento.
E ritiene la Heimat una cosa da matti.
La Heimat è una cosa da matti. Lo pensa da ragazzino, poi però rivaluta il concetto di Heimat una volta arrivato a Berlino, quando, solo, si accorge che una specie di Heimat, legata alla figura del padre, ce l’ha avuta e l’ha persa insieme a lui: “L’unica cosa brutta di Berlino è che mi sento un po’ solo perché non ho amici e non parlo praticamente con nessuno. Anche a Bolzano non avevo amici e non parlavo praticamente con nessuno, ma finché c’era papà io non mi sentivo così. Forse era quella la mia Heimat, non sentirmi solo.”
Per Maddalena Fingerle il rapporto con la sua terra d’origine può essere solo conflittuale? Dipende dall’essere italiani? Credi che per un tedesco, anzi un sudtirolese di madrelingua tedesca (sic!), sia diverso?
Sul piano della realtà non lo credo, no, penso però che ci sia ancora una forte divisione tra i mondi di madrelingua italiana e tedesca. E che ci siano molti pregiudizi. E diffidenza. A volte mi stupisco pensando che si possa vivere anni in un luogo senza conoscere una delle due lingue che lì vengono parlate. Mi sembra assurdo, possibile che non ci sia un minimo di curiosità, almeno? In linea generale è vero che le persone di madrelingua tedesca tendenzialmente sanno l’italiano, mentre le persone di madrelingua italiana raramente sanno il tedesco e, ancora più raramente, il dialetto; ma ci sono eccezioni, ovviamente. Il mondo sudtirolese di lingua tedesca l’ho conosciuto solo l’anno scorso, dopo il Calvino, quando sono stata accolta alla biblioteca Teßmann. Avevo paura di non capire e invece ho avuto una sensazione simile a quella che ho provato in Puglia al Festival Armonia: mi sono sentita a casa, che è molto raro, per me.
È solo trasferendosi a Berlino che Paolo finalmente scopre le parole pulite e trova un luogo dove si sente a casa. Pensi che per amare la propria terra sia necessario andar via, cioè prenderne le distanze?
Paolo si sente a casa soprattutto quando conosce Mira, di cui si innamora. Lei gli pulisce le parole ed è grazie a lei che Paolo riesce ad amare Bolzano, riscoprendola: ciò che prima gli faceva orrore, insieme a Mira diventa improvvisamente meraviglioso perché lo è per lei e lui lo guarda attraverso il suo sguardo. Paolo da piccolo odia così tanto la città che ha bisogno di allontanarsi per poterla poi amare. In generale, nella realtà, non lo so. Io, che vivo a Monaco e sto costruendo casa in Allgäu, sicuramente inizio a sentirne nostalgia. Ma è più per le persone e per la radio italiana in sottofondo, che per il luogo; forse dipende anche dal fatto che non ci si può spostare a causa della pandemia.
Vero protagonista del tuo romanzo è la lingua, anzi, le parole. Le cose non esistono, ci vuole dire Paolo Prescher, finché non le nominiamo, solo dopo acquistano la loro identità, evocano emozioni, hanno odori?
Assolutamente sì! La parola per Paolo è la cosa, ha un rapporto sinestetico e ossessivo con la lingua e con le letture e la ripetizione. Ci sono parole sporche e pulite, ma anche parole in grado di sfamarlo, parole (e voci) che lo spaventano e parole che lo tranquillizzano.
A partire dalla terza parte assistiamo a una progressiva normalizzazione dello stile e anche del protagonista, come mai?
Il linguaggio segue le fasi della vita di Paolo in una sorta di climax in tre atti. Nella prima parte, a Bolzano, la voce è quella di un ragazzino, è la sua naturale di quando è a casa ed è insofferente e addolorato; nella seconda parte, ambientata a Berlino, il linguaggio, attraverso l’innamoramento, diventa positivo e si calma, Paolo stesso è come anestetizzato, ciò che prima lo infastidiva ora lo riscopre grazie a Mira. Nella terza e ultima parte, in cui Paolo perde il contatto con il reale, le parole si svuotano invece di senso, il mondo si ovatta e si allontana, lasciando così spazio al delirio finale.
Le prime due parti, molto pirotecniche linguisticamente, sono fortemente dissacranti e derisorie, è la lingua più che la storia a decidere il registro di un romanzo?
Non credo che ci sia una divisione dicotomica tra lingua e storia che vanno invece di pari passo. L’esperimento linguistico è nella terza parte, dove italiano e tedesco si mescolano, le parti dissacranti sono legate al fastidio che prova Paolo nei confronti dell’ipocrisia bolzanina, nella parte e nell’ultima parte. È vero però che una storia priva di una voce adatta tendenzialmente non mi affascina e, quando leggo, cerco un registro che sia deciso, come Paolo con i dialetti.
Paolo ha un giudizio molto duro sui suoi insegnanti di Bolzano, dice che s’interessano solo di radici e territorio, di beghe sui monumenti e sui nomi delle vie, mentre sono disinteressati agli scrittori che arrivano da fuori. Condividi?
Non ha importanza se condivido o meno perché sono due piani differenti, questo è il filtro di Paolo, all’interno della finzione letteraria e non la realtà. Lui si innervosisce per il provincialismo e la megalomania dei suoi insegnanti che, se non organizzano loro gli incontri con gli scrittori, se ne disinteressano.
Come pensi che sarà accolto il tuo libro dai lettori di Bolzano e dell’Alto Adige? Come vorresti che fosse letto?
Vorrei che venisse letto come una storia di finizione che racconta di un giovane uomo ossessionato dalle parole e non solo come una storia su Bolzano. Certamente Paolo non avrebbe le ossessioni che ha se fosse cresciuto, per esempio, a Roma: ne avrebbe avute altre e la storia sarebbe stata diversa. Ma sono proprio le ossessioni che mi interessano. È il filtro di Paolo, il suo modo di vedere e sentire le parole è ciò che ho voluto raccontare, partendo dall’idea che fosse l’esasperazione di idiosincrasie che possiamo avere tutti, evitando di etichettare le sue stranezze come malattia mentale.
Possiamo rivelare un segreto ai lettori? Il tuo incontro con il premio Calvino risale al 2009, quando eri ancora una studentessa di liceo, ed è merito di Giorgio Vasta, la cui lingua, tra l’altro, è da te estremamente apprezzata.
Certo, e solo a pensarci mi emoziono perché quel ciclo di incontri, organizzato da te (sveliamone un altro di segreto!) me lo ricordo ancora. Mi ricordo soprattutto Giorgio Vasta che parlava del Calvino e delle schede di lettura e pensai per la prima volta: parla pulito. Per me quell’espressione designava una precisione di linguaggio, un rispetto e una correttezza che non avevo mai percepito così. Ritrovai tutto ciò nel romanzo Il tempo materiale.
Un’ultima domanda sugli scrittori italiani che ti hanno formata e in un certo senso dato una lingua.
A nove anni mi coprivo di ridicolo vantandomi di aver letto Il Gattopardo, recitavo le battute di Angelica a memoria, probabilmente senza nemmeno capirle. Allo stesso modo leggevo la poesia italiana del Novecento, mi trascinavo quei volumi Einaudi ovunque e giocavo a cercare le ricorrenze. Quando leggevo Bernhard non avevo bisogno di mangiare perché mi sfamava e mi faceva ridere e mi faceva piangere. Ho pensato mi scoppiasse il cuore quando ho letto Bassotuba non c’è perché Nori è così bravo – mi dicevo, terrorizzata dalla velocità del battito – ma così bravo che sembra morto. L’Adone è il mio nuovo tormentone (da quattro anni, ormai), il modo in cui Marino riesce a giocare con i riferimenti intertestuali mi diverte e mi affascina così tanto che mi viene voglia di urlare. Bisognerebbe leggerlo a scuola! E non le parti noiose…
Pasolineggiando
di Romano A. Fiocchi
Autori vari, Nuvole corsare, 2020, Caffèorchidea Editore.
Anno di antologie, il 2020. Solo per citarne un paio: la Piccola antologia della peste curata da Francesco Permunian (Nazione Indiana ne parla qui) e appunto questa, Nuvole corsare. Ma ne sono uscite molte altre, su carta e in e-book, soprattutto legate al tema dell’epidemia. Come se questo periodo di destabilizzazione sociale avesse spinto gli scrittori (e i poeti) a coalizzarsi contro un nemico comune. Che non è la pagina bianca generata dalla depressione e dal conseguente blocco della creatività, bensì l’isolamento in sé, l’interruzione del rapporto con i propri simili. Lo scrittore inventa storie (così come il poeta inventa immagini) per condividerle nel mondo in cui vive. È impossibile scrivere su un’isola deserta sapendo che ciò che si scrive non raggiungerà mai nessun altro lettore al di fuori di sé stessi. Lo scrittore è un animale sociale. E Pier Paolo Pasolini lo era molto più di altri. Non per nulla, a quasi mezzo secolo dalla sua scomparsa, sopravvive attraverso testi che continuano ad essere stampati e letti, che si insinuano nella scrittura delle nuove generazioni di autori come se il controverso narratore-poeta-saggista-regista-drammaturgo continuasse a scrivere per loro tramite.
Nuvole corsare è dunque un esperimento di questo tipo. I curatori, Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, devono aver pensato di misurare la presenza spirituale di Pasolini invitando quindici narratori, molto diversi tra loro per visione letteraria ed età anagrafica (all’incirca dai trenta ai cinquant’anni), a scrivere un “racconto pasoliniano”. Non si è chiesto di copiarne lo stile, o i temi, o le ambientazioni, ma semplicemente di ispirarsi a lui. Quindici autori più uno, perché un’iniziativa di questo tipo, progettata da un editore attento all’originalità della veste grafica come Caffèorchidea, non poteva se non coinvolgere anche l’illustratore. Quello che Stefano Marra realizza in copertina è a mio avviso il primo “racconto pasoliniano” dell’antologia: un ritratto posterizzato dello scrittore riconoscibile nei suoi tratti essenziali, con le nuvole corsare che gli attraversano il volto. Ed è con questa immagine quasi subliminale che Pasolini permea ogni racconto, dando vita a voci narranti – parte in prima persona, parte in terza – che alimentano una vera e propria polifonia pasoliniana.
Potere e violenza, provocazione e scandalo, personaggi di periferia simili ai sottoproletari delle borgate romane, amori omosessuali, situazioni sadiane, questa la materia alla base dei racconti. Impossibile dire chi più abbia centrato lo spirito dell’antologia, ogni lettore troverà la chiave per la propria valutazione. Ci sono citazione velate di testi e di film, da Petrolio a Salò (ad esempio in Bertelli e Policastro), visioni distopiche (Mirabelli e Sorrentino) o visioni ucroniche (bellissima quella di Zaccuri, autore tra l’altro presente anche nella Piccola antologia della peste), gioiellini di impeccabile fattura com’è nello stile di Sinigaglia (che in questi ultimi anni sta pubblicando libri di alto livello letterario), racconti che scavano nella psicologia dei femminicidi come in Serena Penni (che scrive quasi un seguito del suo Il vuoto, uscito due anni fa), oppure ancora storie delicate di relazioni omosessuali, come quella “foscoliana” tra un professore e un giovane allievo narrata da Di Liberto (scrittore tra l’altro attivissimo nella promozione della lettura con il gruppo su Facebook Billy, il vizio di leggere), o semplici storie di malavita come in Simone Innocenti.
Merita due parole l’origine del titolo scelto per l’antologia, per quanto intuibile da parte degli appassionati pasoliniani: Nuvole corsare è il risultato del connubio tra il Pasolini poetico e struggente del cortometraggio Che cosa sono le nuvole (uno dei sei episodi del film Capriccio all’italiana, 1968) e il Pasolini agguerrito e provocatorio di Scritti corsari, la raccolta di articoli uscita postuma l’anno stesso della morte, nel 1975. Estrema sintesi, in fondo, dello spirito di uno dei più originali e discussi artisti italiani della seconda metà del Novecento.
Di seguito, gli autori dei quindici racconti presenti nell’antologia: Diego Bertelli, Giorgio Biferali, Angelo Di Liberto, Ilaria Gaspari, Simone Innocenti, Elena Giorgiana Mirabelli, Jacopo Narros, Serena Penni, Gilda Policastro. Ivano Porpora, Fabio Rocchi, Ezio Sinigaglia, Piero Sorrentino, Giorgia Tribuiani, Alessandro Zaccuri.
L’Anno del Fuoco Segreto: Barbablù_1
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.

di Francesco D’Isa
– Questa storia non ha senso.
– Lo so.
– Ma quando è iniziata?
– Appena ho aperto il suo computer.
– Cioè?
– Ora ti spiego, non guardarmi così.
– Scusa, è che sono preoccupata. Ti guardo così perché sono preoccupata. È una roba strana, secondo me devi andare da qualcuno.
– Ci sono stata, che credi, poi ti dico. Voglio raccontarti tutto, dammi tempo. Lo so che mi serve aiuto.
– Ok ti ascolto, scusa.
– Insomma, tempo fa sono entrata nel suo studio all’improvviso. Non lo faccio mai, però boh, è capitato. Appena mi ha visto ha chiuso il computer di scatto e si è rigirato come non ha mai fatto, mi ha chiesto che cosa volevo, che stava lavorando… io sono uscita subito.
– Magari guardava un porno.
– L’ho pensato anch’io, infatti non ho dato importanza alla cosa. Tanto più che poco dopo è uscito e si è scusato.
– Porno sicuro.
– Il fatto è che dopo mi ha detto una cosa strana.
– Cosa?
– Mi ha detto che potevo fare tutto, che non aveva segreti per me, che teneva il telefono senza password eccetera eccetera, ma che non dovevo mai e poi mai aprire il suo computer senza di lui. Ho chiesto perché è mi ha detto che era una questione di fiducia.
– Una specie di prova?
– È quel che ho chiesto, ma è stato evasivo.
– Boh. Comunque anche a me darebbe noia, il computer è una roba privata.
– Sì, certo. È che mi ha fatto strano che me l’abbia detto. Perché sottolineare l’ovvio? Così sembra che nascondi qualcosa.
– Vero. E quindi?
– E quindi niente, il giorno dopo quando è uscito ho aperto il computer.
– Ovvio. E..?
– E nulla, c’era la password. Ne ho provate due o tre, poi ho rinunciato.
– Ma cosa c’entra questo con…?
– Ora ci arrivo. Un giorno, tipo un mese dopo, mi è tornata in mente una vecchia favola, non so nemmeno perché, hai presente la storia di Barbablù?
– Il tipo che ammazza le mogli?
– Esatto. Barbablù ha una stanza segreta e dice di non aprirla, anche se dà la chiave alla moglie. Lei ovviamente la apre e trova tutte le ex mogli assassinate, eccetera.
– Sì sì ricordo, ma…?
– Insomma, ho aperto il computer e ho provato come password “barbablù”
– Tu sei scema.
– Non ha funzionato.
– Ma dai.
– Poi però ho messo Barbablù_1, con maiuscola, carattere speciale e numero, ed ha funzionato.
– Merda.
– Esatto, merda. E sai cosa c’era dentro il computer?
– Cosa?
– Nulla. Nulla di nulla. Le sue robe di lavoro, punto.
– Vabbé…
– Che scherzo di merda, ho pensato.
– Già.
– Però non ho detto nulla. Alla fine ero io nel torto, il computer è suo e anche a me darebbe fastidio se frugasse nel mio. Non che nasconda nulla, per carità, è più, boh…
– …una questione di privacy.
– Esatto. Fatto sta che da allora è cominciata. La prima volta non ci ho fatto molto caso, è durato solo un istante, ho pensato di essere stanca o cose così. Poi però è risuccesso e ho cominciato a preoccuparmi.
– Ma uguale?
– Non proprio, ma simile. La durata sì.
– E poi?
– Poi è accaduto ancora, e ancora, e ancora. Tipo una volta ogni dieci giorni, ma senza regolarità, poteva accadere anche due giorni di fila e poi nulla per due settimane.
– Per quanto tempo?
– Sempre per poco ma sempre di più, direi da uno a cinque secondi.
– Cinque secondi sono tanti.
– È quel che ho pensato.
– Ma glielo hai detto?
– Mai.
– E non sei andata da un medico?
– Subito, mi sono fatta consigliare uno psichiatra da Laura e ci sono andata.
– E che ha ti detto?
– Ha detto che le cause potevano essere molte e mi ha fatto fare molti controlli, dai quali non è riuscito a capire nulla. Alla fine mi ha detto che poteva essere lo stress – la risposta che dai quando non si capisce nulla. Mi ha dato un po’ di Trilafon.
– E..?
– Ho seguito la cura ma niente, i glitch continuavano. Non solo, stavo persino peggio. Così niente, ho chiuso con lo psichiatra.
– Non so che dire, hai provato anche altri medici?
– Ho fatto anche una visita neurologica approfondita, una tac, mille analisi del sangue, ma al momento è tutto regolare. Niente anomalie, niente tumori, niente di niente.
– Meno male.
– Sì, ma anche no. Fa quasi più paura. Il problema è che peggiora.
– Cosa ti succede di preciso?
– All’inizio vedevo il suo viso tremolare, come se ci fosse un disturbo di ricezione televisiva, hai presente? Una specie di fruscio, poi si metteva di nuovo in fase.
– Cristo.
– Ed è peggiorata. Non solo nella durata, ma anche nella qualità. Il suo viso, che prima si limitava a vibrare e tornare al suo posto, ha cominciato a cambiare anche nelle forme e nei colori. Una roba un po’ fosforescente, verdina e blu. Nulla di chiaramente riconoscibile ma nemmeno di completamente alieno. Non saprei descriverlo. Hai presente quelle immagini create dalle reti neurali dei computer in cui sembra ci siano degli oggetti e invece non c’è nulla?
– Ovviamente no, non faccio il tuo lavoro.
– Vabbè, è tipo una deformazione, ma nel farlo lascia i confini vaghi, indefiniti. Non è un viso che diventa mostruoso, ma come se apparisse attraverso un filtro… non so, hai presente i papi di Francis Bacon? Una roba così, una specie di filtro orrorifico sulla realtà.
– Non ci sto capendo nulla.
– Tu sei miope no?
– Lo sai.
– Ecco, immagina una cosa tipo l’ammasso sfocato che percepisci quando sei senza occhiali e non riesci a capire che cosa stai vedendo, se fosse perfettamente a fuoco.
– Davvero: boh. Ma sempre il viso?
– No, ora accade con quasi tutto il corpo.
– Merda.
– Già. Inoltre non è più solo una cosa visiva: mi capita di sentire anche la sua voce come se provenisse da una vecchia radio…
– Questa storia è allucinante.
– Letteralmente. Dura sempre poco, anche se è un poco relativo. Tre secondi sono abbastanza per morire di paura ed essere certi di vedere quel che si vede, ma non per capirci qualcosa. Le prime volte mi spaventavo, gridavo, lui non capiva e inventavo delle scuse. Si è insospettito e preoccupato, anche per questo era d’accordo con lo psichiatra. Ormai ci ho fatto l’abitudine e non mi spavento nemmeno più di tanto, tranne…
– Ma non gli hai detto nulla? Forse dovresti.
– Ci ho pensato. Se non ci fosse stata quella storia di Barbablù ci avrei parlato subito. Ma così, non so, qualcosa mi ferma. Ho paura.
– Ci credo che hai paura.
– Il fatto è che ora…
– Dai non fare così…
– È che non so più che fare.
– Lo so, ti capisco. Ma vedrai che ne veniamo a capo.
– È una roba tremenda, capisci? T r e m e n d a. Ieri io…
– Aspetta ti prendo un fazzoletto.
– Non importa faccio con questo.
– Vuoi un po’ d’acqua?
– Lascia fare, mi riprendo, scusa.
– Scusa di che? Sei stata anche fin troppo forte – e stupida – dovevi parlarmene prima.
– Insomma ieri mi ha baciato e mentre lo faceva è successo. Anche col tatto. Anche col tatto, capisci?
– Ma cosa?
– Ma che ne so, era tipo come toccare un fantasma.
– Mai toccato uno.
– Appunto.
– Non so che dirti, davvero.
– Sono disperata, anche per questo ti ho chiesto aiuto.
– Come nella favola.
– Cosa?
– La moglie di Barbablù viene aiutata dalla sorella.
– Ah già. Ma che faccio adesso, asptto i cavalieri?
– Purtroppo non abbiamo fratelli, dobbiamo cavarcela senza uomini.
– Meglio. Ma non so come.
– Ti succede solo con lui?_
– Sì.
– Lascialo allora. Lo ami?
– Io? Sì certo… insomma, questa storia mi ha messo alla prova ma…
– Così non puoi andare avanti. Se non trovi una soluzione forse dovresti lasciarlo.
– Non credi che il problema sia mio? Che potrebbe ripresentarsi?
– Se non lo sanno i medici figurati io. PeRò no, non è un problema tuo, è vostro. Se ti succede solo con lui è vostro, anche se lo percepisci solo tu.
– In un certo senso è vero.
– Parlaci, diglielo. Vedi come reagisce. Raccontagli tutto e in base alla reazione scopri il da farsi. Che ne sai, forse scompare tutto appena ci parli, così com’è successo all’inizio.
– Forse hai ragione.
– Non vedo alternative, dovete parlarne.
– È che non so come potrebbe reagire.
– Dio santo, si preoccuperà, è ovvio, ma se ti ama cercherà di aiutarti, che deve fare?
– Capirà, per quel che si può capire.
– Non so come potrebbe prenderla.
– State insieme da quanto, dodici anni? Un po’ lo conosci, no?
– In realtà non si conosce una persona neanche dopo cent’anni. Non sai quanto di quel che vedi è una tua proiezione. Le persone non sono un regalo da indovinare prima di scartarlo, non c’è un’essenza definita da scoprire una volta per tutte. Sono più un processo… a dirla tutta questo vale per qualunque cosa_.
– Ora passi da Barbablù al Sofista.
– Dico davvero: non c’è un Alessandro che conosco o non conosco, c’è solo Alessandro più Rosa, o alessandro attraverso Rosa.
– Ok, e ora che questo Alessandro+Rosa è diventato un mostro, come la mettiamo?
– Non è diventato un mostro. C’è come un’interrferenza, qualcosa che si frappone nel passaggio tra Alessandro e Rosa e rende la lettura impossibile.
– Non è che ti sei presa qualcosa di strano ultimamente’
– Niente più in là di una birra. Dai per scontato che quel che vedo sia un’allucinazione: perché è una roba strana, perché lo vedo solo io, perché in qualche modo dura poco… ma non sai con certezza quale delle mie percezioni è corretta, nesusno lo sa.. Se ci pensi tutto è cominciato proprio quando ho messo in dubbio la mia conoscenza, con quella storia della stanza segreta.
– Stanza segreta?
– Sì, il computer, penSavo ancora a Barbablù.
– Basta con questa storia, Alessandro non ha ucciso nessuna ex moglie. Nemmeno ce l’ha una ex. Sei la sua pppdf e unica moglie.
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Immagine di Francesco D’Isa
Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, ha esposto internazionalmente in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo saggio è in Trilogia della Catastrofe (effequ, 2020) mentre il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017). Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.
















