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Da “Noi” di Alessandro Broggi

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[Presentiamo alcuni estratti da Noi di Alessandro Broggi (Tic Edizioni, 2021, https://ticedizioni.com/collections/ultrachapbooks/products/noi-broggi), un diario di viaggio finzionale e meta-narrativo.]

di Alessandro Broggi

Pensiamo troppo in termini di storia, sia essa personale o universale. I cambiamenti appartengono alla geografia, sono orientamenti, direzioni, entrate e uscite.

(G. Deleuze)

Fly Mode: Gabbia azzurrina

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La prospettiva del libro Fly Mode di Bernardo Pacini è assai singolare – non appartiene a un essere che definiremmo vivente nel senso più classico. A rivolgersi a noi è infatti un drone, che ha il vantaggio di poter ampliare la registrazione delle immagini, e lo svantaggio apparente di una mancata comprensione empatica della materia. L’occhio del drone allarga l’orizzonte, spaziando fra luoghi lontani ed esperienze private, riprese a distanza ravvicinata. Il suo abbraccio è cosmico e freddo, capace di portare conflitto, farsi strumento e osservatore di guerre come di restituire un evento intimo. Proprio la disumanità cognitiva del drone è la cifra più umana di questa poesia, come dimostra il poemetto scelto qui di seguito. Lo sguardo è pulito da ogni sentimentalismo, attraversa la nostra impossibilità a tradurci definitivamente in parole, ci rende gli autentici paradossi da cui siamo abitati: l’inconoscibile prossimità del tutto, il potere estraniante del dolore – duro, chiuso e integro nella sua presenza (FM).

di Bernardo Pacini

(in memoria di Ignazio Pacini)

and read her in a mother’s farewell gaze.
(H. Crane)

I

Se (quando) riuscirà ad andarsene da quella gabbia azzurrina
verranno subito dal paese a sincerarsi che stia bene.
Precisamente addestrato, potrà solo mostrare
con la stessa padronanza della guida museale
quanto il taglio sia stato netto, geometrico.

Quando stavo lì, dirà, mia madre mi chiedeva sempre
di soffiare / qualche nota nell’oboe.
Io obbedivo. Spalpebravo appena, e obbedivo…

II

Accadeva nel mese di agosto, quando a valle
sbraitavano fisarmoniche alla sagra del paese.
La madre gli imponeva di scendere nella notte.

Aveva precisa indicazione: far alzare “δραστηρ” i volumi
cosicché lei potesse sentire meglio
e dall’alto del colle, danzare.

Rincasava con sbreghi sui polpacci
e buchi sui calcagni  / per darle un dispiacere
le diceva «Sono felice di essere rimasto
per poco tempo
nello sguardo scomposto del tasso
che con me risaliva la macchia
di erica e lentisco.»

III

Non sa più contare le volte che è salita sul tetto
per vedere sognante la via delle martore in fuga.

Quando sente i passi della figlia sulla testa
il rumore delle tegole che cedono
si ferma qualsiasi cosa / stia facendo e osserva
vetrosa come una lampada spenta
lo spazio circostante.
Consulta l’oracolo di ciò che le capita davanti
sia esso un vaso o una testa d’alce
ancora integra nella sua custodia
di infelicità greca.

Non ha senso il suo impassibile disagio
ma è questo che ha insegnato a sua figlia
a osservare dall’alto ogni posto di gioia
a diffidare della morte, anche se sta
precisa in una scatola da scarpe.

IV

Dalle persiane socchiuse del finestrone
ricorda, intravvede la corte marcita della casa di sua madre
il fiocco azzurro scolorito
garrotato alla maniglia, la radio d’anteguerra
che trasmette per starnuti l’Erlkönig.
Er fasst ihn sicher, er hält ihn warm…

Ecco l’armadio, il piano verticale, indifferente
il tedio dell’Hanon mandato a memoria
acciaccatura
mancata per errore
terrore del-
la madre che urla da
dietro / la porta del bagno
invocazione inutile del nome:

morte del corpo / nel suo proprio corpo.
In seinen Armen das Kind war tot…
E bianca era la porta come / bianca era la morte.

V

Ecco, arriva il rombo quotidiano dei caccia
che spiana la valle
la fa traboccare.

Il maschio minore, per tutta risposta
chiude la faccia
immagina un fiume, ora che irrompe
bestiale la strage / sa bene che passa
se fissa in un punto lo sguardo
se lascia la mente si avvinca al cancello
le ossa degli occhi tritate e seccate nel muro.

Allenta la presa, è finita: riemerge.
C’è un fischio che sbosca il sentiero
il latrato dei cani si annida nel cavo uditivo
il vento si lancia demente sui lecci rachitici.

Ai tuoi occhi, mille anni sono come / il giorno di ieri che è passato…

Nel gelo, il mio ronzio
recide di netto
la salma inodore del cielo.

VI

Questa era la registrazione
della rinascita della rovina
di una donna
(dei suoi figli)
dei doppi vetri di una casa
sul fiume.

Che parlava del più
o parlava del meno, sapendo bene
che non era lo stesso. Ne parlava
spesso col muro, diceva che almeno
parlava con uno, al più
con nessuno. E se parlava del tempo
ne parlava col tempo
per non rinunciare
a un parere più esperto.

Quando si accorgeva di essere ripresa
parlava alla tenda
diceva / stai chiusa.

Testi tratti da: Bernardo Pacini, Fly Mode (Amos Edizioni, Collana A27, 2020)

Do you remember Ferlinghetti?

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Quando Lawrence Ferlinghetti tradusse Pier Paolo Pasolini per City Lights

di

Francesco Chianese

 

A pagina 203 della City Light Pocket Poets Anthology, pubblicata nel 2015 per celebrare la fondazione della celebre collana che riunisce volumi di poesia selezionati personalmente da Lawrence Ferlinghetti, troviamo un testo che comincia in questo modo:

 

Sex, consolation for misery!

The whore is queen, her throne a ruin,

her land a piece of shitty field,

her sceptre a purse of red patent leather:

she barks in the night,

dirty and ferocious as an ancient mother:

she defends her possessions and her life.[1]

 

L’antologia riprende il formato tascabile della celebre serie dei City Lights Pocket Poets da cui hanno avuto avvio le pubblicazioni dell’editore City Light, fondato da Ferlinghetti contestualmente alla celebre libreria di San Francisco che porta questo nome e che da decenni è destinazione di pellegrinaggio per gli appassionati della cultura beat. Si tratta di elegante un volumetto cartonato di circa 300 pagine che raccoglie un paio di contributi da ognuno dei sessanta libretti pubblicati dalla serie fino al 2015. Introdotta da Pictures of the Gone World di Ferlinghetti stesso, la collana ha smesso di pubblicare nuove edizioni nel 2017, con il numero 61, intitolato appropriatamente Heaven Is All Goodbyes, di Tongo Eisen-Martin. Nata su ispirazione della celebre Poètes d’aujourd’hui, che Ferlinghetti aveva scoperto vivendo a lungo a Parigi prima di ricollocarsi a San Francisco, quella dei Pocket Poets è diventata rapidamente una collana di culto, toccando l’apice di successo e scandalo con il volume numero 4, contenente Howl & Other Poems di Allen Ginsberg, pubblicato nel 1956, che aveva reso City Light il maggiore editore indipendente americano. Parallelamente, nella libreria di Ferlinghetti avevano luogo i leggendari happening poetici di Ginsberg che avrebbero ispirato l’intera cultura antagonista formatasi nei due decenni successivi. L’estratto di cui sopra, proveniente dal volumetto 41 della serie, tuttavia non è di Ferlinghetti, né di Ginsberg, né di Jack Kerouac, di Gregory Corso o Diane di Prima, i nomi più ricorrenti nella serie, dedicata principalmente alla poesia beat, neppure di altri poeti americani che vi hanno pubblicato pur non essendo strettamente parte del gruppo, come Jack Hirshman o William Carlos Williams. In questo caso, l’autore è l’italianissimo Pier Paolo Pasolini. Letti nella traduzione inglese curata da Ferlinghetti stesso insieme a Francesca Valente, questi versi risuonano delle atmosfere irrequiete degli anni Cinquanta americani, vissuti nell’eccesso e nel desiderio di coglierne la “disperata vitalità”. La poesia di Pasolini però parla di altri anni Cinquanta, di altre inquietudini e di altri vicoli sporchi e oscuri, da cercare non nella metropoli americana ma nascosti dietro i marmi dei monumenti di Roma, nelle borgate dove si rifugiava il nuovo proletariato suburbano della capitale, che Pasolini aveva tanto amato. L’originale infatti recita:

 

Sesso, consolazione della miseria!

La puttana è una regina, il suo trono

è un rudere, la sua terra un pezzo

di merdoso prato, il suo scettro

una borsetta di vernice rossa:

abbaia nella notte, sporca e feroce

come un’antica madre: difende

il suo possesso e la sua vita.[2]

 

Nell’introduzione all’antologia, Ferlinghetti si è soffermato sulla possibilità di fornire una definizione aggiornata della letteratura di avanguardia, sovrapponendo il proprio punto di vista di poeta, editore e libraio in un unico piccolo manifesto istantaneo: “Even though some say that an avant-garde literature no longer exist, the smaller independent publisher is itself still a ture avant-garde, its place still out there, scouting the unknwown” (XV). Sul sito di City Lights, Ferlinghetti aggiunge:

 

From the beginning […] I had in mind rather an international, dissident, insurgent ferment. What has proved most fascinating are the continuing cross-currents and cross-fertilizations between poets widely separated by language or geography, from France to Germany to Italy to America North and South, East and West, coalescing in a truly supra-national poetic voice.[3]

Al di là delle intenzioni, i poeti stranieri della collana in proporzione non sono moltissimi: di origine italiana si segnala solo Antonio Porta, e tra gli altri, Vladimir Majakovskij e Julio Cortazar, tutti molto vicini alla sensibilità dell’autore, come nel caso di Pasolini. Inoltre, Ferlinghetti non ha tradotto molti poeti della collana: l’unico altro volumetto a cui si è dedicato personalmente è quello dedicato a Jacques Prévert, dal francese che è la prima lingua che Ferlinghetti ha imparato, crescendo in Europa. L’aspetto di privilegiare una sensibilità affine ha guidato anche la selezione di Ferlinghetti delle poesie di Pasolini da privilegiare nella sua traduzione. “Sesso, consolazione della miseria” fu pubblicata originariamente su La religione del mio tempo nel 1961, in una sezione intitolata “La ricchezza” che raccoglie poesie scritte tra il 1955 e il 1959. La raccolta contiene dunque testi cronologicamente allineati con la fase iniziale dell’esperienza dei beat, che coincide con un periodo in cui i contatti politici, economici e culturali tra Italia e Stati Uniti si stringevano sotto l’ombrello del Piano Marshall. Inoltre, Ferlinghetti e Pasolini sono stati praticamente coetanei – il primo è nato nel 1919 a Yonkers, New York, l’altro a Bologna nel 1922 – e da un punto di vista molto vicino cronologicamente, seppure a un oceano di distanza, negli anni Settanta hanno affrontato nella loro poesia e nella loro attività di intellettuali i cambiamenti prodotti da quella che Pasolini aveva definito “mutazione antropologica”, che Ferlinghetti ha ricondotto ai processi che stavano guidando la gentrificazione scellerata di San Francisco, in cui la comunità italiana andava progressivamente scomparendo. Uno degli aspetti più interessanti della personalità di Ferlinghetti è il suo rapporto con il nostro paese, con cui ha cercato spesso il dialogo, una scelta confermata dalla decisione di recuperare il cognome italiano di suo padre, originario di Brescia. Come Pasolini nelle sue poesie romane, in testi quali “The Old Italians Dying” (1976) Ferlinghetti ha espresso il suo rammarico per i valori, i riti, le tradizioni delle comunità italiane negli Stati Uniti, che erano stati importati nelle prime fasi della “grande migrazione” e che si sono progressivamente smarriti nel passaggio tra la prima generazione di immigrati e quelle più recenti e sempre più distanti dalla cultura del nostro paese, oggi spesso pienamente americanizzate. Portavoce di mondi che sbiadiscono, Ferlinghetti ha provato a immortalare queste ultime testimonianze per opporsi al loro oblio con la stessa intensità con cui ha continuato a contestare le radicali e repentine trasformazioni che interessano North Beach, in cui è sempre più raro poter ascoltare voci che si esprimono in italiano, se non quelle chiassose e scomposte dei turisti che lo attraversano spostandosi dalla celebrata Little Italy al Fisherman’s Warf. Un chiacchiericcio scomposto che ha preso il posto del melodico vocio degli umili pescatori e lavoratori, appartenuto a un’epoca in cui San Francisco è stata una città di avventurieri e di artisti, poeti e scrittori, di cui Ferlinghetti ha tradotto pensieri e parole in poesia per decenni.

Anche l’altro brano di Pasolini presente nell’antologia, “Serata romana” (in traduzione, “Roman night”), è tratto da La religione del mio tempo e appartiene alla medesima sezione. Nel volume 41 della City Lights Pocket Poets Series, pubblicato nel 1986 con il titolo di Roman Poems, i due testi fanno parte di una breve, ma ricca, antologia pasoliniana di cui un numero cospicuo di poesie è tratto dalla raccolta del 1961, ben sedici su ventisette. I rimanenti testi sono tratti da una selezione piuttosto eterogenea, pubblicati con gli originali a fronte e alternati a fotografie che ritraggono Pasolini e a una selezione di suoi disegni. Ferlinghetti e Valente includono poesie più classiche, quali “Il pianto della scavatrice”, limitata alla sua parte I, e “Quadri friulani”, da Le ceneri di Gramsci (1957); la celebre “Supplica a mia madre”, insieme a “La ricerca di una casa” e a una delle “poesie mondane”, “Lavoro tutto il giorno come un monaco”, da Poesia in forma di rosa (1964); a completare il quadro, un paio di componimenti più tardi, da Trasumanar e organizzar (1971), e una coppia di poesie in dialetto friulano della prima fase, nella loro redazione finale pubblicata in La nuova gioventù (1975). La scelta più interessante è tuttavia quella delle due poesie che Ferlinghetti e Valente hanno collocato in apertura del loro volume, tratte da Roma 1950 Diario (1960), non esattamente una delle più famose dell’autore. Apre il volumetto infatti “Adulto? Mai – mai, come l’esistenza”, riportata come “Diario” e tradotta come “Diary”, che potrebbe essere considerata equamente una manifestazione di poetica di Ferlinghetti e di Pasolini:

 

Adulto? Mai – mai, come l’esistenza

che non matura – resta sempre acerba,

di splendido giorno in splendido giorno –

io non posso che restare fedele

alla stupenda monotonia del mistero.

Ecco perché, nella felicità,

non mi sono abbandonato – ecco

perché nell’ansia delle mie colpe

non ho mai toccato un rimorso vero.

Pari, sempre pari con l’inespresso,

all’origine di quello che io sono.[4]

 

L’altro è “Chiusa la festa”. La traduzione di Ferlinghetti e Valente in entrambi i casi appare piuttosto fedele:

 

Grown up? Never – never -! Like existence itself

which never matures staying always green

from splendid day to splendid day –

I can only stay true

to the stupendous monotony of the mystery.

Thats’s why I’ve never abandoned happiness,

that’s why in the anxiety of my sins

I’ve never been touched by real remorse.

Equal, always equal, to the inexpressible

at the very source of what I am.[5]

Si provi a confrontare questi versi con un originale di Ferlinghetti, scelti tra i testi del suo classico A Coney Island of the Mind, per verificare quanto la visione poetica dei due autori è affine, soprattutto durante la prima fase degli anni Cinquanta:

 

I have not lain with beauty all my life

and lied with it as well

telling over to myself

how beauty never dies

but lies apart

among the aborigines

of art

and far above the battlefields

of love[6]

 

L’edizione dei Roman Poems si apre con una pagina di Alberto Moravia in difesa dell’amico e della sua poesia. Moravia è un autore molto conosciuto negli Stati Uniti, che ha visitato per la prima volta negli anni Trenta, e l’introduzione riprende la celebre orazione funebre pronunciata ai funerali dell’amico di una vita, che è in sé una difesa della poesia. L’assassinio del poeta è visto come un momento di spartiacque che introduce una benjaminiana perdita d’aura che riallinea l’Italia con un mondo ormai ridotto a prosa, di cui peraltro Pasolini aveva già intravisto gli esiti nell’evoluzione dei romanzi, del teatro e del cinema. Sulla morte di Pasolini, Ferlinghetti era intervenuto anche in un’intervista per L’unità del 2012, in cui anche la celebre orazione di Moravia:

 

Pochi giorni fa, il 2 novembre, è stato l’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, secondo me il più grande poeta italiano del secondo Novecento, che ho avuto la fortuna di tradurre per City Lights, come il mio amico Jack Kerouac. Ricordo ancora il Festival di Castelporziano, nel 1979, a pochi metri dal luogo del delitto Pasolini. Credevamo di essere stati invitati a una riunione tra pochi intimi, e invece venimmo investiti da microfoni e telecamere che ci chiedevano della sua morte. Rispondemmo che era stato un delitto fascista, e Alberto Moravia, che pure era stato suo grande amico, come gli italiani ben sanno, in quell’occasione non ebbe lo stesso coraggio. Ecco, per me Pasolini è stato un poeta rivoluzionario e anarchico, nel senso che intendo.[7]

 

La City Lights Pocket Poets Anthology peraltro è uscita nel 2015, nello stesso periodo in cui si è celebrato il quarantesimo anniversario della morte di Pasolini, e la stessa antologia Roman Poems è stata rieditata nel 2005 per un’edizione che celebra il trentennio della morte dell’autore, in un periodo in cui Valente è stata direttore dell’Istituto di Cultura Italiana a Los Angeles, che ha contribuito alla riedizione del volume. In un’altra intervista, rilasciata a Massimo Gaggi per il Corriere della sera in occasione del suo centesimo compleanno, Ferlinghetti – dopo aver ribadito: “Don’t call me a Beat. I was never a Beat poet” – ha anche confermato la sua idea Pasolini come del più grande intellettuale del Ventesimo secolo.[8] La scomparsa di Ferlinghetti ci appare ancora più amara, sovrapponendola a quella tragica di Pasolini ma per contrasto anche all’atmosfera festosa che ha accolto la sovrapposizione tra l’uscita del suo ultimo romanzo Little Boy (2019) e la ricorrenza del suo centesimo compleanno. In quell’occasione mi ero trovato a scrivere un medaglione su di Ferlinghetti per la rivista Riviere, curata dal Centro Studi dedicato a Joseph Tusiani, che come Ferlinghetti ha descritto l’esperienza italoamericana in poesia, acquisendo entrambi lo status di Laureate Poet partendo da questo comune background. In tempi pre-pandemici, la città di San Francisco aveva organizzato numerosi eventi per festeggiare il suo poeta più amato e più rappresentativo. Ero tornato a San Francisco un paio di settimane prima del suo compleanno, e mi ero recato nella sua celebre libreria pregustando l’atmosfera: a North Beach non si parlava d’altro, tra i turisti del Caffè Trieste i pochi superstiti e vecchissimi frequentatori locali avevano subito pronta una storia sul loro vicino per chiunque volesse ascoltarli, magari pagando loro un espresso e un maritozzo alla crema. Oggi il poeta riceve l’estremo saluto del suo quartiere blindato dalle norme anti Covid-19 e con City Light che ripetutamente annuncia la possibilità di chiudere, come hanno già fatto alcune librerie americane celebri negli ultimi mesi. Sarebbe davvero una perdita inestimabile: anche se Ferlinghetti non era ormai coinvolto direttamente nella gestione della libreria da anni, la visione dei volumetti della Pocket Poet Series, distribuiti sugli scaffali, restituisce anche visivamente la vastità degli interessi dell’autore. Da studioso di Pasolini, alla mia prima visita di City Lights la presenza in bella vista del volume mi aveva molto sorpreso. È risaputo che Pasolini amava Ginsberg, che incontrò anche a New York e a Roma, e mi è venuto da chiedermi, chissà se si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi un giorno esposto negli stessi locali dove negli anni Cinquanta il più celebre idolo beat si esibiva nei primi readings che lo resero una leggenda. Non conoscevo invece di questo interesse di Ferlinghetti per Pasolini, finché non mi sono recato a San Francisco e mi sono trovato i Roman Poems tra le mani, né avevo idea che Ferlinghetti avesse deciso di tradurre Pasolini di suo pugno. Ancora più sorprendente è stato riscontrare un interesse per la poesia di Pasolini in America, dove è considerato quasi esclusivamente un regista cinematografico, per quanto sia risaputo l’amore di Ferlinghetti per Dante, per entrambi un riferimento costante in poesia e nella rappresentazione della realtà:

 

Not like Dante

discovering a commedia

upon the slopes of heaven

I would paint a different kind

of Paradiso

in which the people would be naked

as they always are

in scenes like that

because it is supposed to be

a painting of their souls

but there would be no anxious angels telling them

how heaven is

the perfect picture of

a monarchy

and there would be no fires burning

in the hellish holes below

in which I might have stepped

nor any altars in the sky except

fountains of imagination.[9]

 

Sempre in prima linea nella poesia, come nella promozione della cultura e nell’attivismo politico e sociale, a cento anni come a venti, Ferlinghetti da squisito poeta e intellettuale ha anche accostato Pasolini a Dante, cogliendo una certa tradizione critica diffusa soprattutto nei dipartimenti italiani all’estero, che vede Pasolini come l’autore contemporaneo che più di frequente è messo a confronto con l’eredità di poeta e intellettuale del primo e più grande poeta italiano.[10]

Proprio in Pasolini dunque Ferlinghetti è sembrato trovare un’anima affine che incarnasse lo spirito beat ma conservasse anche quel suo amore genuino per la poesia che abbracciava anche la sua dimensione più tradizionale, qualcuno che condividesse anche una simile visione della sua origine italiana. I Roman Poems appaiono dunque un piccolo capolavoro in cui la poesia diventa un linguaggio comune che unisce due paesi separati dall’Oceano e riunisce le due comunità italiane che si sono riconfigurate guardandosi da lontano negli anni, mettendo in dialogo attraverso la traduzione due autori che in vita non si sono mai conosciuti. L’importante lavoro di poeta, traduttore, editore e libraio di Ferlinghetti inoltre sottrae la poesia di Pasolini all’oblio della ricezione internazionale che ha derubricato l’intera produzione dell’autore che non sia passata sullo schermo. Forse la parte più interessante che di Ferlinghetti ci rimane è proprio la sua libreria, in cui avventurandosi è possibile sentire risuonare nella mente celebri sue affermazioni quali: “As long as there is poetry, there will be an unknown; as long as there is an unknown there will be poetry. The function of the independent press (besides being essentially dissident) is still to discover, to find the new voices and give voice to them.”[11]

[1] Pier Paolo Pasolini, “Sex, Consolation for Misery”, in Lawrence Ferlinghetti (a cura di), City Light Pocket Poets Anthology, City Lights, San Francisco 2015, 203.

[2]  Pier Paolo Pasolini, “Sesso, consolazione della miseria”, in Roman Poets, a cura di Ferlinghetti e Francesca Valente, City Lights, San Francisco 1986, 40.

[3] Dal sito dell’editore City Lights, in apertura al catalogo della collana Pocket Poets Series: http://www.citylights.com/collections/?Collection_ID=305

[4] Pier Paolo Pasolini, “Diario”, Roman Poets, cit., 2.

[5] Pier Paolo Pasolini, “Diary”, Roman Poets, cit., 3.

[6] Lawrence Ferlinghetti, “10”, A Coney Island of the Mind, New Direction, New York 1958, 23.

[7] Anonimo, “Morto Lawrence Ferlinghetti, simbolo della Beat Generation che tradusse le poesie di Pasolini”, 24 febbraio 2021, http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/notizie/morto-lawrence-ferlinghetti-leggenda-della-beat-generation-che-tradusse-in-inglese-le-poesie-di-pasolini/

[8] Massimo Gaggi, “Ferlinghetti: ‘Io mai stato Beat. Il più grande? Pasolini’”, https://www.corriere.it/19_marzo_16/lawrence-ferlinghetti-io-mai-stato-beat-piu-grande-pasolini-intervista-c473c5f4-4816-11e9-9178-69fe8668174c.shtml

[9] Lawrence Ferlinghetti, “13”, A Coney Island of the Mind, cit., 28.

[10] Il primo a occuparsi dell’eredità di Dante negli scrittori del Novecento italiano è Zygmunt Barański, “The Power of Influence. Aspects of Dante’s presence in Twentieth Century Italian Culture”, Strumenti critici, settembre 1986, pp. 343–76. Un discorso più ampio è in Manuele Gragnolati, Fabio Camilletti e Fabian Lampart (a cura di), Metamorphosing Dante: Appropriations, Manipulations and Rewritings in the Twentieth and Twentieth-First Centuries, Turia+Kant, Vienna e Berlino 2011. Per Dante e Pasolini, vedi Gragnolati, Amor che move: Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, Garzanti, Milano 2013; ed Emanuela Patti, Pasolini after Dante. The “Divine Mimesis” and the Politics of Representation, Legenda, Cambridge 2016.

[11] Dal sito di City Lights, in apertura al catalogo della collana Pocket Poets Series.

Versione in forma di favola di un innamoramento e del suo disincanto

1

 

di Andrea Breda Minello

 

Un giorno, un giovane falco- dalle sue alture inaccessibili- scorse una tartaruga in contemplazione del mondo. Passò due anni a scrutarla, a studiarla… Poi le si accostò e stette ad ascoltare i sogni e le utopie. La tartaruga, guardinga, temeva la presenza del falco, ma prevalse lo sguardo… Era stupita dalle attenzioni del giovane falco e attratta dalla sua connaturata malinconia, che sfociava in paura di affrontare l’esistenza.
La tartaruga, alla silente supplica del falco, decise di essere per lui un approdo sicuro. Un giorno, però, il falco dai picchi innevati, in cui dimorava, come se solo da lontano potesse davvero manifestare la verità, le sussurrò, le sussurrò, quasi bisbigliò: io ti amo… Sì, io ti amo, lo sai, non mi importa, potresti essere un bradipo, una foca, un’aquila, non mi importa, importi tu… La tartaruga- d’istinto- si ritrasse spaventata nel guscio… L’imprevisto la disorientava da sempre, da sempre aveva bisogno di tenere tutto sotto controllo. E ora? Un giovane falco aveva scardinato il suo mondo. Non osava mettere la testa fuori dal guscio, non osava guardarlo. Per la prima volta qualcuno le aveva dichiarato il suo amore. Sentì scricchiolare il carapace, indietro non si poteva tornare. Nulla sarebbe stato più uguale a prima. Una crepa, due… E la tartaruga lasciò che uno spiraglio accogliesse il falco. E il falco sostò e dimorò in lei. I due si amarono fino all’avvento della primavera.  

Poi, all’arrivo della primavera, il falco fu catturato e addomesticato da un padre padrone che lo addestrò a rifiutare ogni offerta d’amore.  

E la tartaruga rimase sola.  

Ora, ogni tanto, accade senza più lacrime che la vegliarda creatura osservi il cielo in attesa di un segnale; sa che il giovane falco imperscrutabile getta talvolta dal nido il suo sguardo verso la terra. Si sente talvolta oggetto di attenzione, ma non comprende se lo sguardo dell’amato sia malinconia e rimorso per ciò che è stato o studio preparatorio all’indifferenza del mondo.  

Pur non fidandosi più del suo prossimo, la tartaruga- non vista- allestisce una dimora per il suo ritorno.

 

La favola farà parte di un ciclo di venticinque racconti tematici sulla simbologia delle Rune. 
*fotografia di Sebastião Salgado

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

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di Antonella Bragagna

La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata
(Voltaire)

Isabella Salerno è una mia vicina di casa, apre la porta e mi fa passare. Tiene al suo aspetto, per incontrarmi si veste e si trucca, si accomoda i capelli. Sente forte il suo ruolo, è testimone di cose che ancora si respirano, polveri invisibili sull’arredo intarsiato e sui giochi di altri tempi, le boccette del profumo e la tappezzeria. I colori degli ambienti sono tenui, e i pavimenti tirati a cera formano cornici e geometrie. Cristalli, lampadari preziosi. Candelieri. Il pianoforte a coda primeggia nel luminoso salone dalle porte profilate, affacci che introducono ad altri vani e alle camere da letto.

Scrivere sul disastro

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di Bianca Notarianni

 

La chute de Babylone (tapisserie de l’Apocalypse) 


Si può scrivere del disastro? Si può scrivere
dopo il disastro – e, per farlo, come individuarne la fine, il prima e il poi che ne farebbero spartiacque? «Il disastro rovina tutto lasciando tutto immutato»[1], rifletteva Blanchot confrontandosi con la specificità della catastrofe: la frammentazione, una paradossale interruzione, sì, ma senza soluzione di continuità, che lascia anche la scrittura ad arrancare, nell’impossibilità di trovare un da qui in poi – hactenus – a cui agganciarsi, quasi a ripartire per mettere in ordine quel che il disastro ha sconvolto (o lasciato eguale). E il (nostro) disastro ancora accade, non cessa di accadere. Forse anche per questo “Riflessioni sulla pandemia” s’intitola l’ultimo numero di Aut Aut, la rivista filosofica fondata nel ’51 da Enzo Paci. Perché, se il disastro che è Covid-19 non può essere circoscritto, e se non può essere per questo inscritto, ce lo si può tuttavia raccontare l’un l’altro; le riflessioni, intersezioni, rifrazioni, saranno quali le facce di un cristallo, significando differenti modalità di lettura e interpretazione, gli urti di diverse sensibilità e ricezioni, o sempre nuove prospettive allergiche a una riduzione monologica: punti di vista anzi virtualmente inesauribili e inesausti – “questo numero è un primo tentativo di discutere le diverse dimensioni della pandemia” (p. 11), scrivono i curatori Dal Lago e Filippi, e “non mancheranno, anche su questa rivista, altre voci e altre diagnosi” (p. 12) -. Si rinuncia all’argine, come ad un raccordo, o all’accordo di toni in concerto: a dare pesante giudizio sull’odierna situazione, a padroneggiarne il pensiero, anche se questa urgentemente interroga proprio tutte quelle voci, diagnosi – riguarda tutti i punti di vista. Ancora con Blanchot, è «il disappunto del disastro: che non lascia fare il punto, l’appunto, al di fuori di ogni orientamento, nemmeno come disorientamento o semplice smarrimento»[2].

Eppure, se anche non ci è possibile fare il punto, cogliere un sunto, «abbiamo costantemente bisogno di dire (di pensare): mi è accaduto qualcosa (di molto importante)»[3]. L’imperativo di un confronto, la condivisa necessità della testimonianza: il disastro, ancora difficilmente valicabile nella sua estensione e nel suo impatto, va comunque raccontato. Da qui il bisogno di provare a dirlo,  pronunciarlo, incanarlo in narrazione – anche se il virus, come nota Cimatti, coincide con il processo dell’infezione, della proliferazione, ed è dunque tanto più alieno alla nostra parola che lo sostantivizza, lo costringe e lo isola rispetto alle relazioni intessute. O da qui il bisogno perché il virus, come nota Cimatti, coincide con il processo dell’infezione: la sua reduplicazione in storia e narrazione si conferma comunicazione efficace di corpo in corpo, è ancora trasmissione – quel divenire e puro fluire che la natura (natura virale, natura tout court), semplicemente è, quale luogo d’incontri moltiplicazioni e contingenze. Stiamo tutti vivendo questo evento, ne vogliamo e possiamo tutti parlare: anche perché il virus ci somiglia, ricorda Filippi sulla scorta di Paul Virilio (p. 16). È il nostro incidente tecnico specifico: nessun aereo potrebbe precipitare se il sistema di trasporto fosse basato su treni a vapore e diligenze, né nessun treno a vapore potrebbe deragliare in assenza di linee ferroviarie e motori a combustione esterna. E, prosegue Filippi, forse quell’incidente tecnico che è la diffusione su scala mondiale di Sars-Cov-2 (pandemia che, è bene ricordare, è una zoonosi), ad altro non risponde e corrisponde, se non all’epocale dispiegamento di tecniche volte all’imbrigliamento e all’appropriazione di uno sterminato numero di vite non-umane. Il colpo di coda di quel serbatoio patogeno che sono gli allevamenti intensivi (luogo dove le incalcolabili vite si dimostrano, oltre ogni attesa, tutt’altro che inermi), a loro volta non tanto distanti da quell’altrettanto prolifica fucina del contagio che è la megalopoli ad alta densità demografica.

Era ancora il 2016 quando Ghosh, ne La Grande cecità, raccontava la forza dirompente e spaesante del cambiamento climatico nel suo disordinato e violento dispiegamento, e una certa incapacità del pensiero razionale e logocentrico di starle al passo – e, ancor prima, di comprenderla come reale interlocutrice, o di prenderla in parola. Laddove l’uomo (occidentale, borghese) si raccontava il mondo come struttura ordinata, ripartito entro coordinate spaziali e temporali ben puntuali, discrete, definite, ecco Gaia, invadente e irriverente, a scombinare le carte in tavola e squadernare ogni possibile egemone narrazione impostale. Ecco una natura che procede, di contro a pianificazioni e auspicabili aspettative, per salti – inanellando eventi prodigiosi, sfidando il buonsenso contemporaneo e manifestando, con scorno di calcoli, grafici e previsioni, il proprio alto grado di improbabilità. Oggi, ecco il virus che scavalca «l’abisso tracciato tra l’Umano e tutto il resto (o tutti i resti)» (Filippi, p. 19), mostrando la vicinanza ineliminabile tra il sapiens e gli altri corpi animali, che egli credeva tanto lontani, tanto diversi – per meglio servirsene, per meglio nutrirsene, forse se ne credeva estraneo e immune? -. Virus che palesa, ancora, un differente riguardo per vite la cui sofferenza è riconosciuta ed è quindi anche soccorsa, e vite non compiante, relegate all’invisibilità e all’indifferenza, punto cieco del campo visivo dello Stato neo-liberale (Fassin), resto zero del suo calcolo di convenienza. Si diceva che il disastro rovina tutto, lasciando tutto immutato; e in questa direzione o cul-de-sac procede anche Volpe – «il disastro non è più la catastrofe né l’apocalisse: non rivela niente, non produce niente al di là della devastazione stessa, non innesca nessuna dialettica della verità e della sua (ri)appropriazione» (p. 91) -: la pandemia non è svelamento, non è escatologica annunciazione, e al suo fondo il male non trova alcuna redenzione. Ma l’emergenza rende forse trasparenti squilibri strutturali che prima era possibile (o quantomeno, lo sembrava?) occultare: dà voce al disastro già annunciato, eppure imprevisto. Non le appartiene dunque, non le si oppone, né trionfo né gloria – il suo declino non promette in nuce ascesa. Lascia immutata, piuttosto, la rovina che già (ci) soggiaceva.

I curatori possono così scrivere, nella Premessa in testa al volume, che la pandemia «era forse prevedibile, ma è stata del tutto imprevista» (p. 8): figlia del secolo, espressione tautegorica di quel mondo che è il nostro, e del nostro modo di abitare. Il Nuovo Leviatano potrà dunque tentare il sempiterno gioco di arginamento della natura scatenata (Kulesko), il tracciamento del cerchio magico a protezione dall’ignoto infuriante, il pattugliamento di confini, la sua tacitazione e imbrigliamento. Qui l’Uomo, qui l’Animale: più nessun salto di specie, nessun concesso contatto tra sani e malati – cessata la contaminazione. Rimane il rischio, autoevidente in questa pretesa visibilità totale e asettica, dell’autoimmunità. Perché quella attuale era, ci si può dire, e si dice, retrospettivamente, una situazione sì inaspettata e improbabile (una genealogia delle epidemie, e delle paure dell’epidemia, è qui ben tracciata da Cosmacini), ma l’improbabilità altro non è che «una flessione» della probabilità «un gradiente in un continuum»[4], uno spettro del possibile. E se il nostro mondo è, con Thacker, impensabile in quanto scomposto e ricomposto da disastri su scala planetaria, condizioni meteorologiche anomale, mari impregnati di petrolio, resta pur il nudo fatto che, malgrado le loro fattezze non-umane, tali eventualità sono comunque provocate dall’umana azione nel suo concerto. «Sono un misterioso prodotto delle nostre stesse mani che ora torna a minacciarci, in forme e fogge impensabili»[5].

Il micro-organismo virale, che si moltiplica oltre la legge (la legge per noi), disloca l’umano sistema, ridisegna spazi, dissesta l’umano potere di programmazione e significazione; colpisce indiscriminatamente – ci avvicina tutti, denominatore che sì dilata l’in-comune su scala universale -, e infettando neutralizza anche l’autorità di un sapere definitivo e padrone (che si definisca universale, appunto). È un’irregolarità, che non ultimo «restituisce al morire la sua caratteristica di non lasciarsi cogliere, di non poter essere preso in considerazione (…). Esso scompare dalla statistiche che pretendono di conteggiarlo»[6]. Eppure, come si ricorda a più altezze e a più voci, non sfugge neanch’esso alla fagocitazione. Fagocitazione da parte dei media e della propaganda (Giordano), fagocitazione da parte del pensiero, che ne fa proprio simbolo, e che ancora ha modo di apporre un confine: ennesima fine della Storia, a misura della dismisura – sconfinando oltre la monografia, si potrebbe citare l’intervento di Watkins, in cui l’arte del pastiche vede inseguirsi, fino a dissolversi, il testo imitato e il testo imitatore, e con essi il concetto “forte” di autore, di contro alla gioia del divenire. Torniamo dunque all’inizio, o semplicemente a poco sopra, invertendo quella temporalità tutta moderna e che è freccia lanciata in irreversibile salita, tesaurizzazione e capitale progresso. Lasciamo un attimo da parte la corsa, il decorso e il crepuscolo. Torniamo alla necessità e all’urgenza di una riflessione che sia realmente tale – o che sia, di più, una rifrazione, dispersione senza saldo precipitato: vedremo così che «la storia non finisce, per il semplice motivo che non è mai esistita, per il semplice motivo che sono sempre esistite, ancorché occultate e invisibilizzate, infinite storie di infiniti mondi di infiniti “altri noi”» (p. 29). Vedremo allora (vediamo ora) che il nostro metodo, lungi dall’essere l’unico auspicabile, non era nemmeno l’unico possibile: che il racconto principe era piuttosto fondato sulla tacitazione di innumerevoli altre, ritenute seconde, voci. Altre storie e altri profili, che è più difficile, nel levarsi vorticoso del turbinio, mantenere a lungo invisibili e mute – altre versioni dei fatti, altre facce del cristallo, zone passate in ombra e messe a sistema, che si ritrovano rimescolate e il sistema rimescolano. Il disastro rovina tutto, lasciando tutto immutato: non ultimo quell’interlocuzione non-umana, in grado d’intervenire nei nostri processi di pensiero, ora ridimensionando, ora avallando l’antropico operato, e che è sempre (stata) capace d’influenza. Che chiede di riconoscere una connessione che già c’era, che ora innegabilmente e indissolubilmente c’è – e di riflettere, forse, su nuove storie da intrecciare assieme.

 

NOTE

 

[1] M. Blanchot, La scrittura del disastro (1980), tr. it. F. Sossi, Il saggiatore 2021, p. 7.

[2] ibid., p. 65.

[3] ibid., p. 17.

[4] A. Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (2016), tr. it. A. Nadotti e N. Gobetti, Beat, 2020, p. 23.

[5] ibid., p. 40.

[6] M. Blanchot, La scrittura del disastro, op. cit., p. 109.

Se il plusmaterno ci rende cittadini-bambini: “Troppa famiglia fa male” di Laura Pigozzi

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Alberto Savinio - Annunciazione
Alberto Savinio – Annunciazione

 

di Daniele Ruini

Ma proprio in quell’America tanto imitata e doppiata,
se un giovane continua a vivere nella cuccia familiare come gli italiani,
tutti i vicini lo considerano un povero minorato
(A. Arbasino, L’Anonimo lombardo)

Non è da tutti coniare neologismi in grado di imporsi per la loro forza concettuale: dobbiamo pertanto essere grati a Laura Pigozzi che, ideando la nozione di plusmaterno, ci ha aperto gli occhi su una dinamica che interessa sempre di più le nostre società.

Ma che cos’è il plusmaterno? Secondo Pigozzi –psicanalista lacaniana, insegnante di canto e penetrante indagatrice dei mondi della genitorialità e dell’adolescenza– sempre più famiglie sarebbero oggi contraddistinte da una pulsione claustrofilica: una tendenza alla chiusura e all’autoreferenzialità che porta molti genitori a concepire il nucleo famigliare come alternativo al sociale. Tuttavia, lo capiamo bene, una famiglia che si sostituisce completamente al collettivo rappresenta un modello tossico: quale educazione all’autonomia e all’apprezzamento della differenza potrà infatti mai prodursi nei figli di madri e padri iperprotettivi e spesso fin troppo presenti?

Si tratta di tematiche messe a fuoco in Mio figlio mi adora (nottetempo, 20192 [prima edizione del 2016]), un libro che ha fatto parlare molto di sé, attirandosi anche le critiche feroci di gruppi di mamme che si sono sentite punte nel vivo. Affrontando il tema dello straripamento del ruolo genitoriale, Laura Pigozzi ha infatti denunciato alcune derive che forse a molti sarà capitato di osservare: dall’esibizione spudorata della maternità (per esempio sui social), all’idea che il figlio sia una “proprietà” dei genitori; da figli usati quasi come antidepressivi da parte di madri e padri che sacrificano devotamente sé stessi (soddisfacendo così il proprio godimento narcisista e alimentando un pericoloso legame di dipendenza), al mancato riconoscimento –se non alla denigrazione vera e propria– del legittimo desiderio di non-maternità delle donne che decidono di non avere figli.

Quando insomma la Madre si sostituisce alla madre –posto che il plusmaterno può essere incarnato anche da un padre–, ecco allora che si produce un eccesso di cura che baratta il dovere educativo con l’ansia di controllo e con la paura di non essere amati: ma un affetto genitoriale prolungato ben oltre la fase infantile finirà inevitabilmente per impedire ai figli di staccarsi dai genitori ed iniziare il loro percorso di vita. La conseguenza sarà quella di (non) crescere persone bloccate in un’eterna adolescenza: come ha sintetizzato l’autrice, oggigiorno «molti figli si sentono insensibili e ingrati se tentano l’unico vero compito che ogni figlio deve assumere: separarsi e iniziare una nuova vita» (Mio figlio mi adora, p. 73).

Tali questioni sono al centro anche dell’ultimo saggio di Laura Pigozzi, Troppa famiglia fa male (Rizzoli, 2020). In questo libro viene in particolare esplicitata la dimensione politica della battaglia culturale contro la clausura famigliare (una battaglia ancora più stringente dopo l’ultimo anno pandemico); soffocare la prole di premure applicando una costante “pedagogia della stampella” ha infatti delle conseguenze nefaste per la collettività tutta: non solo perché produce una svalutazione delle occasioni educative esterne alla famiglia (dalla scuola alle relazioni autonomamente scelte dai bambini), ma anche perché crea individui inabili alla sfera sociale, non allenati all’esercizio del pensiero critico e più facilmente preda dell’obbedienza passiva e della fascinazione per il pensiero unico[1].

Pigozzi mostra chiaramente tutti i rischi anti-democratici di un amore genitoriale incapace di limiti: se quest’atteggiamento non fa che replicare l’esiziale tendenza del capitalismo ad offrire compulsivamente l’immediata soddisfazione di ogni bisogno saturando il desiderio, esso è anche l’anticamera del fanatismo. Il plusmaterno non produce infatti solo generazioni passive non in grado di «curarsi del proprio desiderio» (p. 150) e di impegnarsi per il collettivo, ma rappresenta anche la strada più facile verso l’assoggettamento conformistico all’Uno. Dunque, da «tradire sé stessi» (p. 150), venendo meno a quella che per Lacan è la prima responsabilità di ogni essere umano, a sottomettersi al fascino di chi vuole comandarci annullandoci nell’indifferenziazione della massa, il passo è breve.

Ora, in Italia non sono certo mancate interpretazioni psicanalitiche della seduzione che il Fascismo ha saputo esercitare su un popolo a cui veniva offerto un appagamento narcisistico di bisogni infantili: due capolavori come Eros e Priapo (1967; ma scritto negli anni ’44-’45) di Carlo Emilio Gadda e Amarcord (1973) di Federico Fellini condividono precisamente questa interpretazione del Ventennio. Come dichiarato dal Maestro di Rimini:

Ho l’impressione che fascismo e adolescenza continuino ad essere in una certa misura stagioni storiche permanenti della nostra vita. L’adolescenza, della nostra vita individuale; il fascismo, di quella nazionale. Questo restare, cioè, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c’è qualcuno che pensa per te[2].

Alla tradizionale lettura di questa regressione come sottomissione alla figura fallica del Padre-padrone Laura Pigozzi ne sostituisce un’altra: a suo avviso, «il leader che pretende fedeltà non sta affatto nella posizione del padre regolatore, ma nell’assolutezza senza freni della plusmadre» (Troppa famiglia fa male, p. 174). L’incantesimo che, cullandoci, rischia di trascinare il singolo verso la posizione passiva dell’assoggettato assomiglia dunque all’abbraccio mefitico di una Madre soffocante:

Il totalitarismo, allora, più che conforme al patriarcato come si è soliti pensare, si rivela essere, anche sul piano inconscio e non solo su quello della storia contemporanea, la ripresentazione terrificante e fantasmatica dell’onnipotenza della madre originaria e primitiva. […] Il dittatore, dunque, non è una reincarnazione del padre cattivo, ma la riproposizione della potenza della madre primitiva, che decide della vita e della morte e che viene amata in modo assoluto, indipendentemente dai suoi meriti, anzi, nonostante possa presentare gravi demeriti» (Troppa famiglia fa male, p. 215)[3]

Se dietro ogni dittatore s’intravede una madre che «chiede obbedienza assoluta e assoluto amore» (Troppa famiglia fa male, p. 213), non possiamo non allarmarci per la deriva plusmaterna che Laura Pigozzi vede in opera in molte famiglie (non solo italiane). Così come non possiamo che accogliere l’invito all’assunzione di responsabilità da parte di adulti che spesso si sottraggono a quel Vuoto con cui ogni vita deve confrontarsi.

Se «il modo in cui ci si prende cura di un bambino in famiglia è politico» (p. 131), è chiaro che da lì passa la tenuta della nostra democrazia (la quale –ci ricorda ancora Pigozzi– «è faticosissima da tenere, mentre scivolare nel totalitarismo, nel populismo, nella fiduciosa obbedienza dell’infante, sembra facile, senza sforzo»: p. 224): chissà che, assumendo questa consapevolezza, non riusciremo anche a fare finalmente i conti con la nostra storia.

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[1] Sul legame tra una sempre più diffusa passività studentesca (purtroppo spesso favorita dalla scuola stessa) e il venir meno nelle generazioni più giovani di ogni forma di contestazione della famiglia di origine si vedano le interessanti riflessioni di Eleonora de Conciliis in Che cosa significa insegnare? (Cronopio, 2014). L’autrice sottolinea la difficoltà da parte dell’adolescente di oggi ad identificarsi «come soggetto autonomo al di là del nucleo familiare o in opposizione ai suoi valori», essendo incapace «di comprendere i limiti socioculturali di tale nucleo, vissuto anzi da molti come rifugio sociale» (p. 83).

[2] Il film «Amarcord» di Federico Fellini, a cura di G. Angelucci e L. Betti, Bologna, Cappelli, 1974., p. 102 (poi in F. Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p. 155). Significativamente in Amarcord la sequenza della visita del federale fascista e della parata viene subito dopo una scena adolescenziale di masturbazione collettiva.

[3] Parole simili sono state usate recentemente da Pietro Del Soldà (in una riflessione intorno a Il gesto di Caino di Massimo Recalcati, Einaudi, 2020): «il rapporto possessivo tra la madre e il figlio è in fondo l’archetipo d’ogni tentativo di declinare il rapporto d’amore come la fusione del due in uno. E più in generale di reagire al mondo minaccioso, sempre più incontrollabile e incomprensibile, chiudendosi a riccio. Questo cerchiamo di fare, sul piano dell’esperienza individuale, immergendoci nel sentimento amoroso quasi a cancellare ogni traccia dell’esterno. Ma questo, in fondo, è anche l’obiettivo dei progetti politici identitari, fondati sulla promessa di esercitare la piena sovranità e un controllo totale del “nostro” territorio, resistendo alla minacciosa invasione di chi incarna la differenza» (Pietro Del Soldà, Quando la fratellanza finisce nel sangue, «Domenica, IlSole24ore», 22/11/2020, p. XI).

Reading Natalia Ginzburg

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[La rivista “Reading in Translation” ha dedicato un numero speciale a Natalia Ginzburg, a cura di Stiliana Milkova. Con grande piacere pubblico l’introduzione e l’indice del numero. a.r.]

Editor’s Introduction

Stiliana Milkova

 

Natalia Ginzburg (1916-1991) was an Italian writer, translator, playwright, and essayist. She worked as an editor at Italy’s premier publishing house Einaudi, alongside authors such as Cesare Pavese and Italo Calvino. She was at the center of Italy’s flourishing post-war cultural industry, and in 1963 her novel Family Lexicon won the most prestigious Italian prize for literature, the Premio Strega. Her works include novels, collections of short stories and essays, plays, and literary criticism. She translated Flaubert and Proust.

Her life was difficult, but she sublimated hardship into superb writing. She grew up in Turin, the fifth child of the renowned Jewish professor Giuseppe Levi and his Catholic wife Lidia Tanzi. Natalia lived through the horrors of fascist Italy and the anti-racial laws. In 1940 she accompanied her husband, the anti-fascist political activist and the co-founder of Einaudi Leone Ginzburg on his internal exile. And in 1944, shortly after she followed him to Rome with their three children, Leone was tortured and murdered in a Roman prison. They had been married for six years.

She established herself as one of the most revered 20th-century writers, crafting a lucid, dispassionate voice that narrates war, exile, abandonment, disillusionment, resignation, apathy, and death through the intimate—and often oblique—perspectives of marginalized figures. She weaves autobiography, fiction, and non-fiction into new literary forms that defy the borders of genre. Today, thirty years after her death, her writing is more relevant than ever, as the geopolitics of war and violence and the hypervisibility of suffering, death, and disease are reshaping both literature and our relationship with reality.

This special issue “Reading Natalia Ginzburg” responds to the renewed interest in her writing in the Anglophone world and posits that Ginzburg’s texts capture many of our own struggles today. As Katrin Wehling-Giorgi comments it in her contribution:

Re-reading her works in the midst of this devastating pandemic, I can newly relate to the rawness that stands out amidst the everyday in her writings, to the acute presence of trauma in the face of personal and collective hardship, and to the material constraints of family commitments in the intellectual and practical life of women that she relates so compellingly.

Or, as Natalia Ginzburg puts it in her essay “Silence,” and as the global Covid-19 pandemic has shown, “Today, as never before, the fates of men are so intimately linked to one another that a disaster for one is a disaster for everybody.”

“Reading Natalia Ginzburg” introduces the general reader to Ginzburg’s life and writing; it explores the texts, voices, bodies, and spaces that define her style and subject matter; and highlights the work of her translators. It constructs an accessible scaffolding with multiple points of view and multiple points of entry.

Part I, “The Examined Life: Natalia Ginzburg’s Life and Works,” outlines the framework for approaching Ginzburg’s biography and literary production. Lynne Sharon Schwartz’s preface to her translation of Ginzburg’s collection of essays A Place to Live presents Ginzburg the essayist. The contributions that follow—by Andrew Martino and Chloe Garcia Roberts—dwell on Ginzburg’s essays and the lessons they teach us. Jeanne Bonner discusses the paradoxes of Ginzburg’s narratives and their representation of loneliness and loss. Concluding this part are two significant pieces: an excerpt from Sandra Petrignani’s recent biography of Natalia Ginzburg, La corsara, in Minna Zallman Proctor’s translation—an excerpt that depicts Natalia’s life around the time she met and married Leone; and an interview with Sandra Petrignani herself.

Part II, “A Poetics of the Real: Natalia Ginzburg’s Voices, Bodies, and Spaces,” explores in more depth Ginzburg’s unique style. Katrin Wehling-Giorgi discusses the forging of Ginzburg’s female voice out of real and existential exile, both as a Jew and as a woman operating in what was still a deeply patriarchal culture. Serena Todesco listens attentively to Natalia’s recorded voice whose aural presence lends a key to reading her works, offering an insight into her inner world and poetics, and constituting a means of resistance. Enrica Maria Ferrara’s contribution sheds light on Ginzburg’s representation of queer identity in the novella Valentino and argues for the text’s intersectional feminism avant la lettre. Italo Calvino’s essay “Natalia Ginzburg or the Possibilities of the Bourgeois Novel,” appearing in English for the first time, articulates crucial components of Ginzburg’s singular style. In the closing essay Roberto Carretta maps and then meditates on the topography underpinning Ginzburg’s gaze—Turin’s real and metaphysical cityscape.

Part III, “The Words Become New: Translators on Ginzburg / Ginzburg on Translation,” foregrounds the role of translators in making Ginzburg’s works accessible in the Anglophone world. In analyzing Voices in the Evening, Eric Gudas makes a compelling argument for the novel’s urgent re-translation. Minna Zallman Proctor reflects on translating Ginzburg’s novel Caro Michele while Jenny McPhee converses with Eric Gudas about translating Ginzburg’s humor and eccentricity in Family Lexicon. Natalia Ginzburg was a translator herself and thus Part III concludes with her remarkable translation manifesto published in English for the first time—her translator’s note to Madame Bovary. Minna Zallman Proctor’s skillful translation of Ginzburg on translation displays Ginzburg’s skills as an essayist and brings us back full circle to Part I.

The three parts of “Reading Natalia Ginzburg” that I have outlined here are in fact interconnected, each illuminating aspects of the other two, presenting a view at once panoramic and up-close.

This special issue would not have come into existence had it not been for Eric Gudas’s astute eye and profound knowledge of Natalia Ginzburg’s works. I am grateful to all the contributors for their time, immense expertise, and enthusiasm. “Reading Natalia Ginzburg” gives space to voices that are diverse and deep, moved by respect and passion.

Stiliana Milkova, Editor

L’Anno del Fuoco Segreto: Il Ciclo della Carne

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI

di Andrea Cassini

Il giorno prima di partire il ragazzo chiamato cerbiatto bevve il sangue dei padri, poiché lo avrebbe reso forte per il viaggio. I padri si strinsero il gomito con un laccio, si fecero un taglio sulla spalla con un coltello d’osso e lasciarono sgorgare il sangue in una ciotola d’argilla. Il ragazzo lo bevve una volta al mattino, una seconda volta al pomeriggio quand’era diventato come caglio di capra e una terza volta alla sera quand’era diventato come burro di capra. I padri staccarono il sangue dalla ciotola con il coltello e lui dovette masticarlo. Dopo che l’ebbe mandato giù i padri gli strinsero la gola, poiché se lo avesse vomitato non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Nella steppa faceva notte presto, il sole cadeva di colpo dietro le montagne in lontananza, e le montagne erano una corona chiusa sugli otto punti dell’orizzonte. Prima di rientrare nella tenda i padri si misero in fila davanti al ragazzo, si tolsero l’alto cappello e gli mostrarono i palchi di corna, affilati e muschiati. “Adesso, diventerai più che uomo” gli dissero. “E quando tornerai sarai più che uomo e più che donna. Avrai le tue corna, come noi, oppure sarai diventato parte del ciclo della carne e vivrai nella pancia dell’orso”. La madre era l’unica donna del villaggio. Parlò da una bocca senza denti che sembrava una delle tante rughe del suo viso asciutto, profonde come il letto di un ghiacciaio. “Vieni”, gli disse. I padri spogliarono il ragazzo, lo fecero sdraiare e gli afferrarono il pene per tenerlo dritto. In due lo tenevano per le spalle, in due lo tenevano per i piedi e uno gli offrì un panno da mordere, poiché se si fosse mosso durante il taglio non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Poi la madre prese un coltello di pietra, infilò la punta nell’occhio che è sulla testa del pene e allargò la fessura verso il basso. Dalla ferita sgorgò un liquido rosso, bianco, giallo e trasparente. I padri gli tolsero il panno dalla bocca e vi avvolsero il pene. La madre sotterrò il coltello tra la sabbia, raccolse un bastone più alto di lei e si strinse la testa nel velo. “Ora sei più che uomo” disse. “Io andrò a ovest della luna a cercare il pezzo che ancora manca alla tua anima. Tu andrai a est del sole a cercare il pezzo che ancora manca al tuo corpo”. E s’incamminò nella notte finché non scomparve a ovest sotto l’ombra gialla della luna piena, nella radura dove gli anziani andavano a morire per restituire il corpo a corvi e avvoltoi tornando nel ciclo della carne. Là c’erano anche le carcasse degli animali di ferro, ma nessuno tranne la madre osava toccarle perché il ciclo del ferro era diverso dal ciclo della carne. Il ragazzo chiamato cerbiatto entrò nella tenda. Quella notte non dormì e non sognò, ma bagnò di sudore e urina la lana di pecora e rivide i disegni quadrati sugli abiti dei padri che fiorivano e ruotavano come ottanta spirali di ottanta colori. Contò l’ululato di ogni lupo, il canto di ogni grillo, il fischio di ogni marmotta, il gemito di ogni padre che faceva l’amore. All’alba i padri gli rasarono la testa e con un pezzo di carbone ancora caldo gli disegnarono sulla nuca una seconda faccia, e poi una terza faccia dietro al ginocchio sinistro e una quarta faccia dietro al ginocchio destro. “Quando seguirai le tracce del lupo e dell’orso, il lupo e l’orso seguiranno le tue” gli dissero. “Adesso, sapranno che li stai guardando”. Poi gli legarono una cintura sul petto e in un occhiello al centro della cintura, all’altezza del cuore, sistemarono un pugnale che era prezioso e raro, poiché la madre l’aveva fatto con le carcasse degli animali di ferro sparse intorno al villaggio. “Quando incontrerai l’orso fra le montagne lo abbraccerai” gli dissero. “E così facendo lo ucciderai e lo porterai con te nel ciclo della carne”.
Il ragazzo chiamato cerbiatto partì verso est. Si voltò una sola volta verso il villaggio, e vide che le tende erano ondulate proprio come le colline di sabbia azzurra retrostanti, e proprio come le dune di nuvole nel cielo bianco. Non si voltò una seconda volta, poiché altrimenti non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Camminò verso est cantando una canzone triste.

Il primo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto seguì la bussola del vento che piegava i fili d’erba per trovare la strada nella steppa. Dopo che ebbe molto camminato, le cime delle montagne apparvero sopra la foschia. Il cielo, che era il maggiore dei suoi padri, le faceva scintillare bianche di neve sotto il sole del pomeriggio. La terra, che era l’unica sua madre, lo accompagnava sistemando salite e discese sotto i suoi sandali. Quando il vento smise di soffiare il ragazzo smarrì la strada, poiché le montagne adesso erano una corona ininterrotta sugli otto punti dell’orizzonte e lui era al centro del circo. Un branco di cavalli giunse galoppando. I forti steli d’erba si piegavano sotto gli zoccoli e poi si rialzavano. Un maschio dal manto bruno e dai crini neri drizzò il collo e la coda, fermò i compagni e gli venne vicino. Studiò con occhi attenti le quattro facce del ragazzo, i germogli di corna sulla testa, il panno odoroso avvolto intorno ai fianchi, il pugnale appuntato sul petto. “Conosco i tuoi padri” disse il cavallo. “Vieni con noi, così ti mostrerò la strada per le montagne”.
Il branco ripartì al galoppo e il ragazzo gli andò dietro. Corse più forte che poteva, in fondo alla carovana insieme ai puledri nervosi e alle severe giumente. Poi giunsero a un punto in cui l’erba era gialla, e più avanti i prati erano nudi. C’era un’alta torre all’orizzonte, più vicina delle montagne. “Oltre, noi non ci spingiamo” gli disse il cavallo bruno. “Ma ti lascerò una parte di me, poiché tu possa trovare da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente. Con questa potrai fiutare l’odore del vento. Bada però di resistere alle tentazioni: qui, più avanti, c’è la piramide dei saggi”. Detto questo, il cavallo gli lasciò strappare un ciuffo di crini dalla coda nera. Il ragazzo si tolse il panno dai fianchi e intinse i crini nel taglio sul pene, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi una coda di cavallo in fondo alla schiena. Nell’aria spenta del pomeriggio, ora poteva divaricare le narici e fiutare l’odore del vento. Proseguì verso est tra l’erba secca finché non fu notte.

Il secondo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò fino a un campo dove la terra era rossa e le radici delle piante morte gettavano la testa fuori. Aveva dormito sotto le stelle e conversato con la luna. All’alba il vento aveva smesso di soffiare. C’era una lingua di pietra, levigata e bordata da linee bianche, che correva dritta verso la piramide dei saggi, e la piramide dei saggi era in realtà un palo alto ottanta volte ottanta uomini. Aveva uno scheletro di ferro e tavole di specchio che riflettevano la luce del sole, e alcune di quelle tavole erano rotte come si rompevano talvolta i piatti d’argilla. Ai piedi della piramide il ragazzo non vide i saggi, ma ottanta uomini vestiti con abiti neri e stretti. Vide anche che quegli uomini non erano come i suoi padri, poiché non avevano corna di cervo. Tra le mani tenevano bastoni di ferro dalla lunga canna. Il ragazzo chiamato cerbiatto non andò alla piramide dei saggi e quando si voltò a est il vento tornò a soffiare e gli disse che quella era la direzione giusta. Più avanti c’era una boscaglia polverosa dove la terra era gialla e odorosa delle spighe delle tamerici. Non c’era altro sentiero che quello che il ragazzo disegnava con i sandali, e il sentiero saliva tra arbusti spinosi e unghie di roccia larghe come otto uomini. Il cielo era sceso sopra le montagne ed era diventato viola, e di tanto in tanto lampeggiava come se dietro al velo il sole e la luna stessero lottando. Quando caddero i fulmini il ragazzo capì che il padre cielo era furioso con lui perché si era attardato presso la piramide dei saggi, allora non si rannicchiò sotto gli arbusti della boscaglia per ripararsi dai fulmini e non si coprì le orecchie con le mani per non udire i tuoni. Quando venne la pioggia il ragazzo restò fermo e si lasciò bagnare, poi aprì la bocca poiché bevendo quell’acqua sarebbe stato perdonato. Quando finì la pioggia vide che il sentiero dei suoi sandali non c’era più, ma c’era tra la polvere una traccia d’acqua che come un piccolo fiume gli raccontava qual era la discesa e quale la salita. Lo seguì camminando a fianco di una colonna di formiche, finché le formiche non scesero da una porta nascosta sotto un sasso. In quel punto della boscaglia gli arbusti erano diventati più radi e le rocce più fitte. C’era un altro sentiero fatto da impronte di lupo e il ragazzo le seguì con passo di serpente fra i sassi e i cespugli, pensando che il lupo lo avrebbe sfamato condividendo con lui la preda come un fratello, poiché il lupo e l’uomo erano gli unici animali che pregavano il padre cielo. Drizzò la coda di cavallo, annusò l’odore della pioggia e delle bacche di caprifoglio e si strinse i sandali per non affondare nella terra bagnata. Quando il suolo si fece pietroso smarrì il sentiero delle impronte, allora cercò ramoscelli spezzati e ciuffi di pelo rubati dalle spine di rosa canina, e quando non vide più nemmeno quelli si chiese cosa avrebbe pensato il lupo a quel crocevia, quale fra le ottanta strade avrebbe scelto, e quando si fu risposto vide una coda sventolare come una bandiera e infilarsi sotto l’ombra di una macchia di pioppi, e la seguì. Aveva però smarrito l’est. Entrò nella macchia di pioppi che era giorno e vi uscì che era notte, toccò ogni tronco e scalzò ogni radice, ma non trovò il lupo. Girò tutto intorno al cerchio d’alberi ma nemmeno lì trovo il lupo. Quando il ragazzo alzò gli occhi a guardare la montagna che si sbriciolava a precipizio sulla boscaglia, il lupo uscì dalla macchia di pioppi con un fruscio. “Quando non riesci a trovare il lupo che stai cercando”, gli disse il lupo, “guardati alle spalle e lo troverai lì, poiché il cacciatore sa come nascondersi nella stessa pista di chi lo bracca. Ma tu, ragazzo cerbiatto, conosci uno strano sortilegio: credevo di averti sorpreso alle spalle, eppure ecco che mi guardi negli occhi con la tua seconda faccia sulla nuca, la terza faccia sul ginocchio destro e la quarta faccia sul ginocchio sinistro. Ti lascerò una parte di me, dunque, poiché ci siamo scoperti a vicenda. Con queste potrai udire il suono del vento e troverai da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente”. Detto questo il lupo gli donò le sue orecchie, lunghe e dritte. Il ragazzo si tolse il panno dai fianchi e vide che il taglio sul pene si era richiuso. Allora riaprì la crosta incidendola con il pugnale di ferro che portava sul petto, intinse le orecchie nella ferita, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi le orecchie di lupo ai lati della testa. Subito udì il respiro del sole che riposava sotto l’orizzonte, e le voci di ottanta e ancora ottanta uccelli che cantavano sulle colline, dietro il catino muto delle montagne di sabbia. Ora poteva udire il suono del vento. Quella notte il lupo e il ragazzo pregarono insieme il padre cielo, il lupo ululando e il ragazzo cantando una canzone triste.

Il terzo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò fino a un cimitero di ferro. C’erano carcasse come quelle abbandonate a ovest del suo villaggio, ma molte di più e annerite dal fuoco, e dietro quelle carcasse c’era un recinto anch’esso di ferro ma arrugginito, e dietro quel recinto un cubo di pietra grigia, liscia come la strada che portava alla piramide. Tra il recinto e le carcasse di ferro c’erano barili a forma di cilindro. Avevano tutti un disegno giallo con tre triangoli. Alcuni erano pesanti e stavano fermi, sdraiati o ritti in piedi. Altri erano vuoti e rotolavano al vento. Lì la pianura era incassata, come se la terra stesse sprofondando, e la terra era bruciata come se vi fosse piovuto un masso dal cielo. Dentro una di quelle carcasse di ferro il ragazzo vide due cuccioli di lupo che giocavano rincorrendosi la coda e mordendosi la collottola. Scambiò uno sguardo con i loro occhi gialli e piegò le sue nuove orecchie di lupo. Poi andò avanti. Il suono del vento gli diceva che l’est era proprio là, oltre la pianura morta e silenziosa, verso le montagne dove avrebbe trovato l’orso e guadagnato le corna da adulto.
La strada saliva erta e a fare da guardiani alle montagne c’erano colline verdi di tanti alberi di cui non conosceva il nome. Ciascun albero gli parlava con una voce diversa, ma la loro lingua era lenta e il ragazzo chiamato cerbiatto aveva fretta di diventare uomo. Seguì allora la voce del corvo, che volava sopra gli alberi e gli diceva: “Vieni! È qui la strada”. Il ragazzo si aprì un sentiero tra i rami bassi, sempre salendo, e dopo il suo passaggio le felci piegavano la testa a coprire di nuovo la via. L’aria era bagnata e scura, le pigne scricchiolavano sotto i suoi piedi e profumavano come balsamo. Ogni volta che il ragazzo alzava gli occhi vedeva la sagoma nera del corvo sul cielo giallo del pomeriggio, che ancora diceva: “Vieni, vieni! È qui la strada”. Il ragazzo lo ringraziò e proseguì, finché non udì il fruscio del predatore fra gli alberi. “Eccolo, eccolo!” disse il corvo, e il ragazzo ringraziò di nuovo il gentile corvo che lo avvisava del pericolo. Si guardò intorno ma il predatore fu più veloce. Era una tigre bianca e nera, dalle zampe forti e i lunghi baffi. Il ragazzo si lasciò cadere sul tappeto di foglie e quando la tigre lo abbracciò per mangiarlo, il pugnale che portava sopra il cuore, stretto alla cintura, la punse sul petto. La tigre balzò indietro e si accucciò tra le foglie, bagnando la terra con una pozza di sangue viola. “Tu sei la preda che uccide il predatore” gli disse, e aveva una voce roca e bassa. “Tuttavia ti lascerò una parte di me, perché mi hai battuto con astuzia. Io volevo mangiare il tuo cuore, ma il tuo cuore era più affilato dei miei denti. A te lascerò la mia pelliccia, affinché tu possa sentire sulla pelle la forma del vento. E al nobile corvo, che mi ha guidato fino a te, permetterò volentieri di mangiarmi, quando sarò morta, affinché io possa tornare nel ciclo della carne”.
Il ragazzo si rialzò e il corvo atterrò lì vicino. Attese che la tigre fosse morta, poi rannicchiò le ali e cominciò a beccarla sul cranio e dentro gli occhi finché non si fu scavato una via per il cervello. “Grazie, gentile corvo, per avermi guidato e avvertito del pericolo” disse il ragazzo, mentre il corvo pasteggiava. “Tu credevi che io ti guidassi e che ti abbia avvertito del pericolo” disse il corvo, “ma in verità indicavo alla tigre la strada migliore per raggiungerti e l’avvisavo che ti era giunta vicina, poiché io mangio ciò che avanza ai predatori. Questo è il mio posto nel ciclo della carne. Tu sei più che uomo ma non sei ancora più che donna, e ancora non hai un tuo posto nel ciclo della carne; lo vedo da quelle piccole corna da cerbiatto. Ti lascerò una parte di me, affinché tu possa trovare il tuo posto. Con queste potrai vedere il colore del vento e trovare da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente”. Detto questo, si strappò un mazzetto di penne nere dalla coda e le offrì al ragazzo tenendole nel becco. Il ragazzo chiamato cerbiatto le accettò, poi ringraziò la tigre e le tolse la pelliccia bianca e nera con il pugnale, che era macchiato del suo sangue e di quello della tigre.  Infine si tolse il panno dai fianchi e intinse le penne e la pelliccia nel taglio sul pene, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi il mazzetto di penne sulle braccia, come se fossero ali, e per tenersi la pelliccia stretta al corpo. Si arrampicò sull’albero più alto e quando fu in cima il giorno era già notte. Da lassù vide il colore del vento e sentì la sua forma. C’erano riccioli d’aria che si avvitavano e poi correvano a est, sembravano code di cometa nel cielo nero senza luna. Il ragazzo scese e proseguì il cammino in salita, fino al limite del bosco. Lì i riccioli di vento indicavano un sentiero a forma di serpente fra gradoni e torri di pietra, cascate di sassi franati, torrenti d’acqua tanto fredda da far male ai denti. Il ragazzo si strinse nella pelle di tigre perché l’aria era come ghiaccio. Poco più in alto, le cime delle montagne erano bianche di neve e luminose come una nuova luna.

Il quarto giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò sulla neve fresca che cedeva sotto i piedi, camminò sulla neve bagnata che somigliava a fango, camminò sulla neve ghiacciata che lo faceva scivolare, e ognuna era di un bianco diverso mentre il cielo era di un unico azzurro, e il sole vi brillava piccolo come la punta di uno spillo. Quando incontrò un lago di ghiaccio, ne spaccò la crosta per berne l’acqua e lavarsi il corpo. Nel chinarsi, nudo, si specchiò e vide il pene e la ferita simile al sesso di una donna, la pelle di tigre che gli teneva caldo, le orecchie di lupo, le penne di corvo e la coda di cavallo. Le corna da cerbiatto che aveva sulla testa erano cresciute ma non aveva ancora il palco grande e forte dei suoi padri. Avrebbe camminato verso est fino al giorno in cui avesse visto il sole sorgere a occidente, e lì avrebbe abbracciato, ucciso e mangiato l’orso: così gli avevano detto i padri, poiché altrimenti non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Sopra il lago di ghiaccio c’era un’altura, e sull’altura c’era silenzio poiché la vita era sepolta sotto la terra in attesa della primavera, oppure si nascondeva con pellicce dello stesso colore della neve, per non farsi vedere dalle aquile. C’era soltanto un boschetto di abeti, ma persino gli alberi risparmiavano la voce parlando con sussurri lenti. Il ragazzo chiamato cerbiatto strofinò le corna sui tronchi, lasciando a terra fiocchi di lanugine e scaglie di legno. Sotto la corteccia scoprì insetti che chiacchieravano fitto e si stringevano nei carapaci. Dall’altra parte dell’altura c’era il tetto delle montagne, l’estremo oriente della terra, e sulla strada per la vetta c’era una grotta. Fuori dalla grotta c’era un orso grande e scuro, seduto davanti all’entrata intorno al tappeto delle proprie impronte. L’orso osservava il cielo e il ragazzo osservò l’orso per molto tempo. Di tanto in tanto l’orso chiudeva gli occhi, si addormentava e sognava. Poi, appena sveglio, tornava ansioso a guardare il cielo. Il cielo diventò nero e poi azzurro e poi di nuovo nero per molti giorni e molte notti. “Perché non entra nella grotta?” si chiese il ragazzo. “Sono ben nascosto fra gli abeti” pensò. “Gli abeti mi sono amici, non svelerebbero mai all’orso che mi nascondo qui. Potrei fabbricare un arco e una freccia con il loro legno, e con arco e freccia colpire l’orso”. Ma poi si guardò alle spalle, vide il sentiero di orme che aveva lasciato per salire sull’altura e capì. L’orso attendeva che il cielo diventasse bianco come la terra e che la prima nevicata coprisse le sue impronte affinché nessun cacciatore fosse condotto alla grotta, e affinché in primavera, dopo che la neve avrebbe coperto il mondo con un nuovo strato di mondo, lui sarebbe potuto rinascere dalla grotta come dal ventre della sua madre orsa. Il ragazzo provò rispetto e attese. Non fabbricò né arco né freccia. Quando venne la neve l’orso entrò nella grotta e il ragazzo lo seguì. Era l’alba, e prima di scendere dall’altura guardò il sole, che aveva il colore della paglia dietro il telo di nuvole grigie. Ne guardò il riflesso sullo specchio del lago ghiacciato e pensò che lo specchio del lago ghiacciato fosse una linea lunga quanto gli otto punti dell’orizzonte, e nel riflesso il sole era sorto a ovest.
Dentro la grotta le rocce parlavano una lingua che il ragazzo non conosceva, ma l’orso si alzò su due zampe per salutarlo ed era alto come otto uomini. “Ti ringrazio per avere atteso la nuova neve, cacciatore” disse l’orso. “Qui è dove io riposo e rinasco, ma so che tu sei venuto a combattere e guadagnare le corna dei tuoi padri. Al termine di questa grotta saremo oltre il tetto delle montagne, a est del sole. Vieni con me. Lì combatteremo per il nostro posto nel ciclo della carne”. Detto questo l’orso tornò a quattro zampe e cominciò a correre verso il fondo della grotta, e il suo galoppo risuonava forte tra le rocce, e il ragazzo lo seguì colmo di angoscia e ammirazione. La grotta si apriva su un crepaccio e in fondo al crepaccio c’era un torrente vorticoso. “Vedi che abbiamo entrambi due braccia e un petto”, disse l’orso rialzandosi in piedi. “Combattiamo e abbracciamoci, dunque, cacciatore”. Il ragazzo chiamato cerbiatto saltò più alto che poteva e abbracciò l’orso. Il pugnale che portava davanti al cuore, legato all’occhiello della cintura, punse l’orso tra le costole. L’orso strinse il ragazzo tra le zampe e lo morse sulla spalla. Insieme caddero nel torrente e nuotarono fino a valle, e mentre nuotavano l’acqua diventò ghiaccio e poi tornò acqua per otto volte, e l’acqua e il ghiaccio erano neri di sangue. Uscirono dal torrente e si sdraiarono su un letto di sassi.
“Hai guadagnato le corna dei tuoi padri, cacciatore” disse l’orso. “Hai combattuto bene e bene mi hai abbracciato, perciò ti lascerò una parte di me. Ma adesso sei adulto, sei più che uomo e più che donna, perciò è necessario che anche tu mi lasci una parte di te in cambio. Questo è il nostro posto nel ciclo della carne”. E l’orso ripulì il morso sulla spalla del ragazzo mangiandone un boccone di carne, e il ragazzo sanò la ferita del pugnale succhiando il sangue dal cuore dell’orso.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Andrea Cassini, filologo medievale di formazione, è giornalista, consulente editoriale e traduttore; si occupa principalmente di cultura pop e letteratura fantastica. Scrive regolarmente per L’Indiscreto e ha pubblicato racconti su varie riviste e antologie, facendo inoltre parte del collettivo TINA (Storie della Grande Estinzione, 2020). Non tutto il male – Cronache della terra inabitabile (2021) è il suo primo romanzo.

da “Somiglianze di famiglia”

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di Matteo Pelliti

 

Essi

 

Essi, loro i pronomi della lontananza,
della distanza, della genealogia, della progenitura,
gli antenati, gli spettri evocabili,

Hagard

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di Lukas Bärfuss

(Per gentile concessione de L’Orma Editore, pubblichiamo un estratto, le prime pagine, da Hagard, romanzo di Lukas Bärfuss tradotto da Marco Federici Solari, e da pochi giorni in libreria. L’autore (1971), scrittore, saggista e drammaturgo svizzero, è tra le più importanti voci del panorama letterario di lingua tedesca. In seguito alla pubblicazione di Hagard è stato insignito del prestigioso premio Georg Büchner)

Da troppo tempo tento di comprendere la storia di Philip. Vorrei scoprire il mistero che nasconde. E per l’ennesima volta ho fallito, incapace di decifrare l’enigma delle immagini che mi perseguitano, immagini crudeli e comiche come in ogni racconto in cui desiderio e morte si incontrano.

So tutto, e non comprendo nulla. La successione degli eventi mi è chiara. So come inizia la storia, conosco il giorno, e conosco il luogo: il chioschetto dei brezel davanti ai grandi magazzini di piazza Bellevue. So quando finisce, ossia dopo trentasei ore, nel primo mattino di giovedì tredici marzo, su un balcone da qualche parte in periferia. Anche gli avvenimenti tra quell’inizio e quella fine sono stati appurati: la questione della pelliccia, la prima notte passata in macchina al freddo e al gelo, il portafoglio smarrito, la gazza, la scarpa perduta, la morte del matematico giapponese… tutto ciò è ormai chiaro come il sole. Le circostanze, però, le condizioni che hanno reso possibile quegli eventi restano celate. Quanto più mi riesce di precisare i dettagli, tanto più il mondo dove la storia si è svolta si fa spettrale. Si potrebbe pensare che mi capiti come a quel tipo che a furia di fissare gli alberi non vedeva più la foresta; solo che la foresta – su questo voglio insistere – è una pura ipotesi, un sistema astratto non riscontrabile nella realtà. La foresta si dissolve in singoli alberi proprio come il cielo si dissolve in singoli pianeti, stelle e meteore.

Dopo numerosi tentativi andati a vuoto di trovare un filo conduttore tra le immagini, sono giunto alla conclusione che non sia tanto la storia in sé a sfuggirmi. Il punto è il mio coinvolgimento; voglio scoprire cosa abbiano da dirmi quelle visioni in grado di affascinarmi, incantarmi e a volte condurmi sull’orlo della follia. Mi sono convinto che la mia esistenza sia appesa a questa storia, però, allo stesso tempo, sono consapevole di quanto sia ridicola questa idea; non ho nulla da temere: potrei accantonare gli eventi di quei giorni di marzo e non mi accadrebbe niente. La mia vita proseguirebbe come prima. A pensarci bene, per salvarmi mi basterebbe riuscire ad ammettere definitivamente il mio fallimento. Benché sembri semplicissima, la storia di Philip è troppo grande per me. È come se a ogni tentativo dimenticassi sempre qualcosa, un qualche dettaglio essenziale, come se mi sfuggisse l’indizio capace di mettermi sulla giusta traccia. Quante volte ho giurato di lasciar perdere, ingannando me stesso come l’ubriaco con l’ultimo bicchiere. Sono un giocatore che, a un passo dalla bancarotta, si fa dare di nuovo le carte… Voglio rischiare, tentare ancora un’altra volta, far risorgere gli eventi un’altra volta ancora, e poi che tutto resti pure così com’è.

Sì, la mia frenesia non mi ha dato pace. Anch’io ho le mie ossessioni, ovvio, e come tutti me le tengo volentieri per me. Non perché mi vergogni, alcune semplicemente stonano con l’immagine che ho di me stesso e che ormai, a metà della mia vita, coincide con quella che hanno i miei simili: un uomo con molte debolezze e ancor più principi. Ma l’eros non si cura dell’immagine che abbiamo di noi, al contrario spesso sembra quasi sforzarsi di contraddirla. Tutti hanno il loro lato oscuro, così almeno si dice, ma col tempo ho compreso quanto poco questa oscurità sia da intendersi in senso morale. Le tenebre non vanno associate con il male così come la luce non va legata al bene. La parte buia è quella in cui manca la luce, nient’altro; e mi ci è voluto del tempo per capire che di notte i gatti sono per davvero neri, non lo sembrano soltanto: sono proprio privi di colore. Come ci sono arrivato? Ah, sì, le mie ossessioni. Mi vengono in mente Le confessioni di Rousseau, che ho letto qualche anno fa. Se non ricordo male, l’autore comincia a scrivere un resoconto completo e del tutto sincero sulla propria persona, senza escludere nulla con intenzione: tralascerà di raccontare solo quello che ha dimenticato. Ricordo quanto poco mi fossi fidato di quel proposito, mi pareva una trovata da scrittore, erano «parole vuote», come si suol dire, e ho continuato a diffidare dell’autore fino al punto in cui narra delle sue preferenze sessuali. Non riesco a ricordare in che termini ne parli, so soltanto quanto mi abbiano colpito e come da quel momento in poi io abbia prestato fede alle sue affermazioni. Dovrei dunque rivelare anch’io le mie perversioni per rendere credibile questo racconto?

Alcuni aspetti della storia di Philip mi imbarazzano, e non sono i momenti bizzarri, osceni e malati che pure vi si trovano. Piuttosto non riesco a rassegnarmi alla futilità di certi dettagli. Sono molti gli elementi che paiono quasi insignificanti e del tutto banali. Ad esempio, per me sarebbe più facile se l’attenzione di Philip non fosse stata catturata da quelle ballerine color prugna, un paio di normalissime scarpe basse che da tempo non sono più appannaggio esclusivo delle danzatrici. Calzature acquistabili per pochi soldi, reperibili in qualunque negozio, nelle forme più diverse, cucite o incollate, con o senza fiocchetto, opache o laccate, in ogni tinta possibile e immaginabile. E che nel nostro caso fossero ben rifinite e di una pregiata pelle di vitello non cambia nulla rispetto al dato di fatto: all’inizio di questa storia c’è un paio di scarpe da donna.

L’inizio? Non è mica una cosa facile. Nessuno può sta­bilire con quale evento prenda avvio una storia. In principio Dio creò il cielo e la terra, così è scritto, ma prima che ha combinato? E qualunque cosa fosse, perché non fa parte del principio? I fisici, che sostituiscono Dio con il Big Bang, obietteranno che la domanda è assurda perché presuppone il tempo, e questo prima di Dio o del Big Bang non esisteva. I libri e i film pretendono di cominciare, ma nella realtà a partire da quel primo inizio non esiste più nessun altro inizio. E, per inciso, neppure alcuna fine, se può essere di una qualche consolazione. L’Uno fluisce nell’Altro; ma la maniera in cui la conclusione di una certa storia si colleghi al principio di un’altra rimane inaccessibile allo spirito umano. Chi vuole districare la trama della realtà finirà per rimanervi impigliato. Personalmente rifiuto questa tesi. Desidero risolvere l’enigma, ma non ho alcuna intenzione di impazzire.

Sono un testimone di quei giorni di marzo, e in quanto testimone li racconterò, senza omettere né risparmiare nulla. Alcuni elementi mi porranno in cattiva luce, ma non mi importa. Per risultare credibile potrei espungere qui qualcosa, inventare lì qualcos’altro, ma non voglio. La mia ossessione, dunque lo confesso, la mia ossessione è la veridicità. Insulse o meno che siano, sono state proprio delle ballerine color prugna a smuovere Philip. Perché le ha seguite? A ciò non so rispondere. Sarà stato un gioco, almeno al principio, un gioco innocente e innocuo, perché se Philip avesse intuito cosa sarebbe accaduto nelle ore successive avrebbe lasciato stare la donna all’istante. Non cercava la propria rovina, e tantomeno il pericolo, anche se poi, giunto il momento, quando ha compreso a quale filo fosse appesa la propria esistenza, ha affrontato quel pericolo senza esitare.

Quel che è certo: martedì undici marzo, alle quattro e un quarto, Philip, un uomo sulla quarantina inoltrata, massiccio e da qualche anno un po’ fuori forma, attendeva in un bar al limitare del centro storico un certo Hahnloser. Philip non lo conosceva, sapeva solo che di recente la sua impresa di tinteggiatura era fallita e l’uomo si vedeva costretto a cedere un lotto di terreno di proprietà della sua famiglia da generazioni, un fondo non edificato in una zona soprastante il lago. A Philip il luogo dell’appuntamento non andava a genio, avrebbe preferito la sala riunioni della sua ditta, ma fiutando un affare veloce che stimava potesse fruttargli, diciamo, trentamila, e poiché verso le sei doveva comunque raggiungere Belinda, che non abitava lontano da quel caffè, aveva accettato.

Il locale si trovava in un suntuoso palazzo signorile dell’Ottocento, un ex Grand Hotel dell’epoca della più intensa espansione urbanistica della città, quando vennero rasi al suolo i bastioni per gli artiglieri e innalzati gli argini del lago. Oro e velluto rosso dominavano l’ambiente, un’ampia scalinata conduceva a una terrazza dove madri con bambini sedevano a tavolini colmi di resti di dolciumi, bicchieri di sciroppo vuoti e tazze di caffè. Hahnloser si faceva aspettare, e Philip fu tentato di ordinare una fetta di torta in bella mostra in una vetrinetta, ma, poiché non voleva in nessun caso farsi sorprendere con la bocca piena e l’orario convenuto era passato da appena cinque minuti, si accontentò di un caffè in cui versò due bustine di zucchero. Di Hahnloser però non c’era traccia neppure dieci minuti più tardi, dieci minuti che sarebbero bastati e avanzati per ingollare quasi la metà di una torta. Philip provò a chiamarlo e a mandargli un messaggio: nessuna reazione. E, dopo essersi fatto confermare da Vera che il numero fosse giusto, scorse le ultime notizie riguardanti l’aereo della Malaysia Airlines, un Boeing 777, che la domenica precedente era scomparso da qualche parte all’altezza dei Quaranta ruggenti con a bordo duecentotrentanove anime, una tragedia che lo incuriosiva e lo inquietava. A Kuala Lumpur le autorità non avevano la più pallida idea di cosa fosse accaduto al velivolo. La ricerca, che di ora in ora veniva ampliata ad aree più vaste, rimaneva senza esiti. Oltre a cinesi e malesi, la lista dei passeggeri conteneva pure i nomi di due austriaci, che si erano rivelati poi essere degli iraniani saliti a bordo con passaporti falsi. Per alcune ore i due erano stati ritenuti terroristi, finché non era emerso che si trattava di immigrati clandestini e di conseguenza pure quell’ipotesi investigativa era sfumata. Rottami non ne erano stati trovati e le macchie di petrolio nello stretto di Malacca derivavano dal quotidiano traffico navale.

A un certo punto Philip decise di compiere una ricognizione del locale, ma non notò nessuno che corrispondesse alla descrizione di Hahnloser. Ritornato al proprio tavolino, lo trovò sparecchiato; una signora in carne con una cuffietta azzurra occupava il suo posto. Philip rimase per un attimo interdetto, indeciso sul da farsi, poi afferrò la propria ventiquattrore, pagò al bancone, prese il resto e uscì in strada.

Collegio di entomologia

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di Tommaso Lisa

La ricerca della preda vivente non è la ricerca frettolosa dell’ombra di cui si accontenta la pigrizia di spirito che si dà il nome di azione.

Georges Bataille

 

Passeggiando, sul sentiero, trovo sparsi frammenti di carabo. Qua e là delle zampe, qualche elitra, un pronoto. Sono probabilmente residui coagulati nelle feci di qualche predatore, volpe o cinghiale, che la pioggia ha sciolto e dilavato. Frammenti inerti, parti inanimate di una forma che aveva vita. Crea un sommovimento interiore pensare che quelle elitre spaiate, quella carcassa di pronoto, fino a pochi giorni prima erano parti organiche di una creatura attiva. Forme animate, hanno dato nutrimento da vive ad altre forme viventi che, se non venissero raccolte, catalogate e descritte, andrebbero perse, tornerebbero polvere senza storia. Fluttuo sospeso in un tempo metafisico osservando gli sparsi frammenti di carabi. È forse questo ciò che chiedo all’entomologia, uno shock percettivo legato alla memoria di forme archetipiche, un turbamento del pensiero che faccia deragliare la percezione abituale di me nell’esistenza.

Continuo a passeggiare e giungo vicino a una vecchia quercia colpita da un fulmine. Vagheggio da giorni, forse vagellando, la fondazione di un improbabile “Istituto di Entomologia Metafisica”. Meglio ancora, un “Collegio di Entomologia Patafisica”. Oppure una via di mezzo tra i due. Prenderei come riferimento l’iniziatico “Collège de sociologie” fondato dal filosofo e scrittore francese George Bataille, assieme alla rivista “Acéphale”. Forse, più che una congrega d’accoliti, seguaci d’una forma di “entomologia sacra”, dovrei essere l’unico partecipante a quest’attività solipsistica di meditazione. Secondo la “congiura sacra” ideata da Bataille, io, unico membro dell’associazione, dovrei abbandonare la società civilizzata e la sua luce per osservare segretamente il mondo umano fuori dalle coordinate convenzionali, per divenire tutt’altro da ciò che la società vuole, oppure cessare di esistere. Una parodia della metafisica, basata sulla scrupolosa osservazione delle “eccezioni” entomologiche.

Mi chino a terra, ai piedi del tronco, a meditare. L’esistenza non dovrebbe servire solo da testa e ragione. Nella misura in cui l’esistenza diventa razionalmente “necessaria” essa accetta un asservimento. Ma la vita, come testimoniano queste elitre, questi frammenti intrisi di sterco che tengo nel palmo della mano, eccede l’asservimento, la riduzionista ragione dell’utile. Mi avvicino ad un’altra dimensione quando, sul mio piccolo e sdrucito taccuino d’appunti entomologici, che continuo a preferire a un documento di Word o a un programma di registrazione vocale, redigo il “manifesto” con un mozzicone di lapis, da pubblicare nel primo numero di un ipotetico Bollettino:

LA CONGIURA ENTOMOLOGICA

Atti del collegio di entomologia metafisica

Ciò che noi abbiamo intrapreso non dev’essere confuso con nient’altro, non può essere limitato all’espressione di un pensiero e ancora meno a ciò che è considerato come arte.

L’avidità umana incontra il vuoto. Siamo ferocemente entomologi, di un’entomologia elevata a religione, nella misura in cui l’esistenza si ribella alla dittatura della necessità e dell’utile.

Ciò che intraprendiamo è una ricerca di un incognito, di una alterità imponderabile che si manifesta ogni volta che si entra nel bosco in cerca di insetti.

È tempo di abbandonare il mondo civilizzato e la sua luce. Misurare e conoscere tutto porta a un’esistenza senza attrattive. Segretamente o no, dopo aver attraversato gli strumenti della retorica, è necessario porsi in una disposizione d’animo verso l’ignoto, l’inatteso, l’imprevedibile. Ciò che non ha nome e non può essere misurato.

Noi amiamo l’insetto come una alterità assoluta e irriducibile. Lo sottoponiamo a un nome, a una ricerca, a una scomposizione anatomica ma infine, al di là di ogni analisi scientifica quale presupposto di esercizio ascetico, lo scopo è la resa. Arrendersi, esausti, innanzi all’evidenza che, nonostante ogni sforzo della ragione, il significato dell’insetto resta impossibile da comprendere.

Amare l’insetto significa arrendersi davanti a questa frustrazione. Dopo aver provato tutte le strade razionali della misura e della nominazione, l’arte combinatoria della razionalità, deporre le armi della ragione e porsi in semplice contemplazione. A mani tese, con gesto di prostrazione. Di fronte a una mancanza abissale che non è colmabile con nessuna parola.

Oltre la storia, oltre la civiltà. La vita si svolge in un ordine di grandezza che solo l’estasi e l’amore possono ammirare. Nella sua grandezza, nel suo irredimibile tumulto. Colui che, con fare scientifico, tiene ad ignorare o a misconoscere l’estasi è un essere incompleto il cui pensiero è ridotto all’analisi.

Occorre però prima aver attraversato la ricerca e il calcolo, essersi sfiniti nella sistematica, per raggiungere lo stato d’estasi. Tanto più lunga sarà la strada di analisi, quanto più pura sarà l’illuminazione. Bisogna procedere come se davvero la scienza possa spiegare qualcosa, segnare la via del percorso per l’estasi. Ma lo scopo resta la liberazione dalla necessità. La ricerca di un affrancamento dalla necessità.

Una ricerca asservita alla necessità porta alla cecità. Per vedere oltre, occorre sfuggire alla testa, farsi acefali, oppure gastrocefali, o stetocefali. Dopo aver provato con rigore scientifico le estenuanti forme della sistematica dovrebbe apparire evidente come l’insetto non sia del tutto incasellabile, restando un’alterità irriducibile e misteriosa.

Giunti al punto di questa specola, testimonianza di un piano naturale delle cose, il cosmo apparirebbe allora regolato da leggi universali, un ordine che il linguaggio umano non potrà arrivare a comprendere se non nella condizione acefalica.

Ciò che penso e che presento non l’ho pensato né rappresentato da solo. Scrivo nella campagna fiorentina, all’ombra di un una quercia colpita dal fulmine. In questo istante stesso, osservo al contempo ma non simultaneamente la realtà e la sua rappresentazione. Per non vivere come un ragioniere, con gli occhi cavati, che non si sanno più meravigliare di niente, contemplo nel disegno delle elitre di questo insetto il tumulto di infiniti che è la vita.

Chiudo il piccolo taccuino e lo ripongo nella tasca dei pantaloni, lasciando il mozzicone di lapis a fare da segnalibro. Durante la caccia sacra e il rituale di determinazione dell’insetto, divento io stesso insetto. Osservo ancora i frammenti del carabo nel palmo delle mani e dal fondo dell’occhio di Medusa, riflesso sulle elitre del carabo, ecco apparire lo stetocefalo, come in un blasone si specchia il mio stesso volto, in un’araldica mise en abyme.

Una costellazione di nomi si articolano sul territorio, nel labirintico dedalo di sentieri sotto al bosco di lecci, fino al culmine del monte Ceceri, alla radura sommitale, in un moto di ascesa e discesa segnato da varie tappe. Perdo la testa in questa ricerca senza fine di un rapporto più profondo di coesione con l’ambiente. Durante il rituale del ribaltare pietre in cerca del carabo, condotto con cocciuta ostinazione, capisco che l’attesa del carabo deve essere delusa. Dall’insufficienza non si sfugge né col caso, né col sogno. Sono consapevole che si è creato un incanto occasionale, e solo nella consapevolezza dell’incantamento (e non nel disincanto) la vita ha un valore. Perdo la testa in questo gioco potenzialmente infinito di ricordi e descrizioni dell’oggetto dei desideri. Da questa fin troppo dichiarata consapevolezza dell’incanto nascono i sedici racconti seguenti.

I limiti del racconto sono quello di questo stesso bosco che attraverso in silenzio, delineati in questa mappa:

Questo testo è apparso su numero 42 della rivista Liberazioni.

Radio days: Martina Bertoni

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Trasfigurazioni

in conversazione con Martina Bertoni

di Mirco Salvadori

Ricordo di aver chiuso gli occhi, forse per riposare o letteralmente sprofondare nel sonno da mesi rincorso, al pari di un veloce levriero che stremato si lancia comunque all’inseguimento di una finta lepre, troppo veloce per esser raggiunta. Ancora intontito dalla perdita di coscienza, il cuore che sfugge al proprio battito riapro gli occhi cercando di trovare l’equilibrio della memoria.

Dov’ero, cosa stavo cercando prima della perdita di coscienza. L’eco delle dimenticanze mi scivola addosso, fatico a focalizzare e solo il riverbero di un suono proveniente dalla finestra spalancata mi aiuta nel processo del ricordo.

Esco all’aria aperta e vengo travolto dal sordo rumore del sole accecante che penetra il viavai della vita, un’apparente semplice confusione dispersa tra le vie e trasformata dal calore della luce in sospeso istante di infinita attesa. Cammino instabile, seguo l’esile riverbero musicale che insiste e danza cercando la mia percezione e inizio a ricordare il nome di un locale. Ancora non so perchè lo ricordo e perché devo trovarlo.

Lo cerco mentre cammino lungo strade che non conosco, seguendo una linea immaginaria capace di unire tra loro distanze sconfinate. Potrei trovarmi a Pordenone come a Berlino, non ha importanza. Ciò che conta è il suono che ora inizio a udire chiaro, così come le altre informazioni che improvvise giungono a riconnetermi con il mondo che mi circonda. Sono preghiere quelle che sento, sono voci che parlano lingue straniere quelle che fluttuano nello spazio intriso di pesante e silente bisogno di una pausa liberatoria. Sono i versi di un poeta di strada che riesce a suonare dei nastri magnetici, testimoni di antiche registrazioni, il microfono ben inserito nel più recondito orifizio emotivo. E’ la voce di un antico strumento che sa adattare le sue corde vocali, comunicando nelle mille lingue che l’animo umano riesce a percepire.

Eccomi giunto, l’insegna di questo disadorno luogo risplende nella luce che via via va scemando, sono giunto fin qui per incontrare colei che forse potrà raccontarmi che significa inoltrarsi lungo la strada delle emozioni alla ricerca di una rinascita nella difficile e complicata ricerca di se stessi.

È da quando ti ascolto che sento il desiderio di farti una prima domanda. Con cosa entri in contatto quando le vibrazioni del tuo violoncello iniziano ad apparire danzando nelle tue visioni..

Domanda difficile, non lo so nemmeno io…di sicuro con le vibrazioni fisiche dello strumento. Una delle caratteristiche peculiari del violoncello è che viene suonato con tutto il corpo: le ossa, i muscoli, la cassa toracica entrano in risonanza. E’ un fatto fisico ed è una sensazione magnifica.

Come dialoga Martina Bertoni con il suo strumento, sei conscia della potenza che sa sviluppare e come la controlli, sempre tu voglia controllarla.

Sonare per me è un esercizio costante di controllo. Il violoncello richiama sempre ad una disciplina, la cui parte interessante sta nel forzare i propri limiti fisici e interpretativi verso l’espansione. C’è poi una particolare affinità mia personale con le frequenze più basse. Lo strumento con cui suono ora non è più un violoncello nel senso classico, si tratta di un pre-prototipo, su ispirazione dei violoncelli antichi a 5 corde, ma in carbonio e la corda in più è in basso.

Io credo sia importante per meglio conoscerti, ascoltare un riassunto del tuo percorso formativo ma anche geografico. Martina Bertoni può considerarsi un’anima errante, colei che viaggia ma non vaga. E’ questo forse il termine più appropriato, se rapportato alla tua storia?

Sempre stata in viaggio, fin da piccolissima. Mio padre era ferroviere e sono cresciuta trascorrendo molta della mia infanzia in treno. Viaggiare per molti anni è stata una necessità logistica, fino a che è diventata una costante nella mia vita. Sia come musicista che come individuo. Mi piaceva e mi piace tuttora stare in viaggio ed imparare a vivere in luoghi diversi. Ringrazio gli anni trascorsi da studente universitaria in perenne borsa di studio in Europa dell’Est, come ringrazio gli anni passati in tour in giro per il mondo. Sono cresciuta in provincia a Nord Est, un posto morbosamente morbido, in cui tutto è comodo ma non c’è quasi nulla da fare. Stare in giro mi ha sempre fatto stare meglio. Fino ad ora ho avuto un’esistenza fortunata e ricca di storie. Ora sono ferma qui in Germania.

Durante il cammino hai incontrato molti musicisti, alcuni di questi sono stati fondamentali per la tua crescita. Come hanno contribuito alla tua formazione.

Ho incontrato ed ho avuto a volte la fortuna di lavorare con un numero incredibile di musicisti ed artisti. Tutto sommato la mia storia musicale è facilmente visibile e rintracciabile per tutti. Sono incredibilmente grata per tutti gli incontri che hanno costellato il mio passato. Alcune di queste collaborazioni sono state lunghe e prolifiche, ed ovviamente hanno lasciato insegnamenti ed esperienze, com’è normale che sia.

La mia formazione è stata lunga, sparsa e diversificata ed è un processo ancora in corso.

Paradossalmente l’accademia è stata fondamentale nell’insegnarmi la disciplina, quanto sia determinante volere infrangere i propri limiti, ed il puro valore dello studio. I lavori più sperimentali mi hanno dimostrato quanto sia importante cercare ridisegnare le mappe.

La cosa curiosa è che tutte le mie collaborazioni ed incontri del passato sono legati al periodo in cui da violoncellista, suonavo con e per altri artisti, la musica era sempre di qualcun altro. Per me è un periodo concluso, quello che faccio ora non ha punti di contatto col passato. Quando ho cominciato a scrivere per me ho deciso che non avrei più suonato il violoncello con o per altri, almeno per un bel po’.

Che umanità incontri quando decidi di partire alla ricerca di te stessa, quale il salto che devi prepararti a fare per iniziare a capire che la strada è quella giusta.

Sono a mio agio quando sono presente nel presente, e per me è imperativo cercare di imparare quello che non so e non crogiolarmi troppo nel passato, nel comfort di ciò che so già fare. Ad esempio, mi piace l’idea di sedermi davanti ad un pezzo di hardware o un software e non avere la più pallida idea di come funzioni. Poi la parte per me più seducente è capire come mettere tutto in comunicazione con il mio strumento. Se c’è questo senso di sfida costante allora credo di essere sulla strada giusta, sperando poi che possa arrivare un risultato interessante. Non sempre succede. In questa fase ho davvero poca umanità intorno, tendo ad essere schiva.

Il musicista, al pari dello scrittore, riempie le sue pagine con una stesura capace di esprimere diversi stati d’animo che amplificano il loro messaggio anche grazie alla profondità espressa dal suo strumento. Partiamo dal primo capitolo: All Ghosts Are Gone uscito nel Gennaio dello scorso anno per l’etichetta islandese FALK, acronimo del provocatorio Fuck Art Let’s Kill. Prova sublime che rivolge lo sguardo dietro di sé, fissando le ombre che pian piano svaniscono. Parlacene.

All the ghosts are gone è stato il primo album. E’ stata una scrittura terapeutica, il culmine di un periodo di cambiamento, fatica e di transizione personale. Dovevo recuperare molte energie. Per la prima volta ho avuto del tempo a disposizione per prendermi cura di me e per scrivere musica in totale indipendenza ed isolamento. E’ stato laborioso capire dove volessi andare, stilisticamente parlando. Ho provato a trovare un modo per scrivere qualcosa che mi piacesse e mi convincesse. Il risultato è All the Ghosts Are Gone…sono stupita e felice per quanto bene sia stato accolto.

Esiste una componente letteraria ispirativa nel tuo lavoro di costruzione musicale, testi o autori che riescono in qualche modo a influenzare le tue composizioni?

In generale non direi. Alcuni dei lavori recenti hanno riferimenti testuali letterari (Edda, Kurt Vonnegut, Stanislaw Lem), nati per il desiderio di lavorare assieme a mio marito che viene dal teatro e possiede una visione per il perfomativo assolutamente fantastica. Se devo citare uno scrittore preferito dico David Foster Wallace sopra ogni cosa. Ciò che però mi ispira musicalmente parlando è più legato al senso della vista, alle immagini, reali o no che siano

Le tracce dei tuoi lavori trovo siano tossiche, quell’idea di tossicità legata a una cultura romantica, un fluire di sostanze che ti trascinano lentamente altrove, nella beatitudine o nella mestizia di luoghi altrimenti non raggiungibili. In questo album il mio sentire ha individuato due brani in particolare che contengono una dose maggiore di oppiacei: Blu, quasi un canto alla luna e Notes At The End Of The World, con il suo lento e costante progredire verso una rinascita che sola può giungere dopo una fine. Ti teniamo per mano Martina, accompagnaci dentro il tuo suono.

Sono gli unici due brani dove ho deciso di cominciare a scrivere dai beats. Ho provato a partire dalla parte opposta al mio strumento. In quel periodo ascoltavo Punctum, Vatican Shadow, Kangding Ray, Varg 2TM…diciamo che questi due brani in particolare sono i frutto distonico dei miei ascolti del periodo.

Per Blu avevo a disposizione delle tracce di violoncello molto liriche – l’elemento lirico del violoncello è la parte per me più controversa del mio strumento – e la direzione è stata quella di provare a farle marciare dentro una griglia ritmica per smorzare i tutto questo pathos. Notes at the End…è il primo esperimento non strumentale, nato in maniera quasi casuale con mio marito, Hinrik Thor. Abbiamo appoggiato il testo al primo tentativo, la prima take è risultata perfetta e senza troppo pensare è saltato fuori un perfetto ultimo brano per il disco, una specie di commiato asciutto.

Ciò che la tua musica esprime è anche il risultato di una ragionata e studiata commistione di pensiero musicale classico e moderno. Il suono del violoncello, espressione prettamente legata alla risonanza acustica, viene ‘contaminata’ dall’immissione di materia digitale e analogica sintetizzata, che ne aumenta particolarmente la capacità di penetrazione. Una scelta non scontata, anche se assai diffusa, per chi si è formato in conservatorio. Spiegaci.

ll violoncello è uno strumento antico il cui repertorio è legato al passato. Più ci si avvicina all’oggi è più diventa difficile rappresentare il presente con uno strumento così costretto e determinato da codici precisi. La mia scelta è frutto della necessità di potermi riconoscere nel mio presente, con gli strumenti e le conoscenze che ho e che posso potenzialmente implementare. Il conservatorio è un istituto museale, che si occupa di preservare una tradizione. Il presente va nella direzione del digitale, è sintesi, è realtà aumentata, dialogo con AI. La velocità è esponenziale e questi sono tutti aspetti per me molto affascinanti.

Nel Dicembre dello scorso anno ti ritrovi a Reykjavìk, ti capita di andare ad abitare in un appartamento completamente vuoto nei sobborghi della città. Nella completa solitudine di un Natale vissuto al Nord, chiusa in un appartamento del tutto disadorno, componi le tracce del tuo ultimo disco. Nasce così Music For Empty Flats uscito a Gennaio per la berlinese Karl Records. Cosa sei riuscita a scorgere in quelle stanze vuote, cosa ti ha suggerito il silenzio nordico, quale racconto scaturisce da questa, immagino profonda esperienza.

Il silenzio e un po’ di isolamento sono spesso per me necessari per produrre musica e per stare bene. Durante il Natale 2019 mentre ero a Reykjavik ho iniziato ad abbozzare quello che poi sarebbe diventato Music for Empty Flats. Avere tempo e spazio a disposizione è stata una grossa fortuna. Ho poi completato il disco qui a Berlino, durante i primi mesi della pandemia. Ancora, tempo e spazio a disposizione. Ho potuto concentrarmi su un processo di asciugatura del modo in cui scrivo musica. Meno tracce e molto più spazio acustico da sfruttare. Sono riuscita a trovare un modo diverso di scrivere e a liberarmi ancora di più dalla necessità melodica e armonica a cui il violoncello normalmente confina. Ora lo posso considerare al pari di tutti gli altri intetizzatori, come un semplice generatore di suono. Nel mentre è arrivata Karlrecords e tra pochissimo il disco esce.

Dal Nord Europa all’Italia, un paese nel quale conti di tornare?

Sono felice di tornare per vedere la mia famiglia, sarebbe bellissimo poter tornare anche per delle date ma i tempi al momento sono ancora confusi e molto incerti per tutti. Per il resto ora la mia vita è radicata qui.

 

All the ghosts are gone Martina, grazie.

Grazie a te Mirco!

Link utili:
 VIDEO TRACCIA ULTIMO LAVORO: https://www.youtube.com/watch?v=cDmYSZ00m2Q
 

Mots-clés__Sale

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Mimmo Paladino, "Montagna di sale", Napoli, 1995

 

Sale
di Giulia Scuro

Rino Gaetano, I tuoi occhi sono pieni di sale -> play

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Mimmo Paladino, “Montagna di sale”, Napoli, 1995

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Da Italo Calvino, Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2017

54. Bene come il sale (Bologna)
C’era una volta un Re che aveva tre figlie: una bruna, una castana e una bionda: la prima era bruttina, la seconda così e così e la più piccina era la più buona e bella. E le due maggiori erano invidiose di lei. Quel Re aveva tre troni: uno bianco, uno rosso e uno nero. Quando era contento andava sul bianco, quando era così così sul rosso, quand’era in collera sul nero.
Un giorno andò a sedersi sul trono nero, perché era arrabbiato con le due figlie più grandi. Esse presero a girargli intorno e a fargli moine. Gli disse la più grande: – Signor padre, ha riposato bene? È arrabbiato con me che la vedo sul trono nero?
– Sì, con te.
– Ma perché, signor padre?
– Perché non mi volete mica bene.
– Io? Io, signor padre, sì che le voglio bene.
– Bene come?
– Come il pane.
Il Re sbuffò un po’, ma non disse più nulla perché era tutto compiaciuto di quella risposta.
Venne la seconda. – Signor padre, ha riposato bene? Perché è sul trono nero? Non è mica in collera
con me?
– Sì, con te.
– Ma perché con me, signor padre? – Perché non mi volete mica bene. – Ma se io le voglio così bene…
– Bene come?
– Come il vino.
Il Re borbottò qualcosa tra i denti, ma si vedeva che era soddisfatto.
Venne la più piccola, tutta ridente. – O signor padre, ha riposato bene? Sul trono nero? Perché? L’ha con me, forse?
– Sì, con te, perché neanche tu mi vuoi bene. – Ma io sì che le voglio bene.
– Bene come?
– Come il sale.
A sentire quella risposta, il Re andò su tutte le furie. – Come il sale! Come il sale! Ah sciagurata! Via dai miei occhi che non ti voglio più vedere! – e diede ordine che la accompagnassero in un bosco e l’ammazzassero.
Sua madre la Regina, che le voleva davvero bene, quando seppe di quest’ordine del Re, si scervellò per trovare il modo di salvarla. Nella Reggia c’era un candeliere d’argento così grande, che Zizola – così si chiamava la figlia più piccina – ci poteva star dentro, e la Regina ce la nascose. – Va’ a vendere questo candeliere, – disse al suo servitore più fidato, – e quando ti domandano cosa costa, se è povera gente di’ molto, se è un gran signore di’ poco e daglielo -. Abbracciò la figlia, le fece mille raccomandazioni, e mise dentro al candeliere fichi secchi, cioccolata e biscottini.
Il servitore portò il candeliere in piazza e a quelli che gli domandavano quanto costava, se non gli andavano a genio domandava uno sproposito. Finalmente passò il figlio del Re di Torralta, esaminò il candeliere da tutte le parti, poi domandò quanto costava. Il servitore gli disse una sciocchezza e il Principe fece portare il candeliere al palazzo. Lo fece mettere in sala da pranzo e tutti quelli che vennero a pranzo fecero gran meraviglie.
Alla sera il Principe andava fuori a conversazione; siccome non voleva che nessuno stesse ad aspettarlo a casa, i servitori gli lasciavano la cena preparata e andavano a letto. Quando Zizola sentì che in sala non c’era più nessuno, saltò fuori dal candeliere, mangiò tutta la cena e tornò dentro. Arriva il Principe, non trova niente da mangiare, suona tutti i campanelli e comincia a strapazzare i servitori. Loro, a giurare che avevano lasciato la cena pronta, che doveva essersela mangiata il cane o il gatto.
– Se succede un’altra volta, vi licenzio tutti, – disse il Principe; si fece portare un’altra cena, mangiò e andò a dormire.
Alla sera dopo, benché fosse tutto chiuso a chiave, capitò lo stesso. Il Principe pareva facesse venir giù la casa dagli strilli; ma poi disse: – Vediamo un po’ domani sera.
Quando fu domani sera, cosa fece? Si nascose sotto la tavola che era coperta fino a terra da un tappeto. Vengono i servitori, mettono i piatti con tutte le pietanze, mandano fuori il cane e il gatto e chiudono la porta a chiave. Sono appena usciti, che s’apre il candeliere e ne esce fuori la bella Zizola. Va a tavola e giù a quattro palmenti. Salta fuori il Principe, la prende per un braccio, lei cerca di scappare ma lui la trattiene. Allora la Zizola gli si butta in ginocchio davanti e gli racconta da cima a fondo la sua storia. Il Principe ne era già innamorato cotto. La calmò, le disse: – Bene, già d’adesso vi dico che sarete la mia sposa. Ora tornate dentro il candeliere.
A letto, il Principe non poté chiudere occhio tutta la notte, tant’era innamorato; e al mattino ordinò che portassero il candeliere nella sua camera, perché era tanto bello che lo voleva vicino la notte. E poi diede ordine che gli portassero da mangiare in camera porzioni doppie, perché aveva fame. Così gli portarono il caffè, e poi la colazione alla forchetta, e il pranzo, tutto doppio. Appena gli avevano portato i vassoi, chiudeva l’uscio a chiave, faceva uscire la sua Zizola e mangiavano insieme con gran gioia.
La Regina, che restava sola a tavola, si mise a sospirare: – Ma cos’avrà mio figlio contro di me che non scende più a mangiare? Cosa gli avrò fatto?
Lui continuava a dire che avesse pazienza, che voleva star per conto suo; finché un bel giorno disse: – Voglio prendere moglie.
– E chi è la sposa? – fece la Regina tutta contenta.
E il Principe: – Voglio sposare il candeliere!
– Ohi, che mio figlio è diventato matto! – fece la Regina coprendosi gli occhi con le mani. Ma lui
diceva sul serio. La madre cercava di fargli intendere ragione, di fargli pensare a cosa avrebbe detto la gente, ma lui duro: diede ordine di preparare il matrimonio di lì a otto giorni.
Il giorno stabilito partì dal palazzo un gran corteo di carrozze e nella prima ci stava il Principe, con a fianco il candeliere. Arrivarono alla chiesa e il Principe fece trasportare il candeliere fin davanti all’altare.
Quando fu il momento giusto, aperse il candeliere e saltò fuori Zizola, vestita di broccato, con tante pietre preziose al collo e agli orecchi che risplendevano da tutte le parti. Celebrate le nozze e tornati al palazzo, raccontarono alla Regina tutta la storia. La Regina, che era una furbona, disse: – Lasciate fare a me che a questo padre gli voglio dare io una lezione.
Difatti, fecero il banchetto di nozze, e mandarono l’invito a tutti i Re dei dintorni, anche al padre di Zizola. E al padre di Zizola la Regina fece preparare un pranzo apposta, con tutti i piatti senza sale. La Regina disse agli invitati che la sposa non stava bene e non poteva venire al pranzo. Si misero a mangiare; ma quel Re aveva la minestra scipita e cominciò a brontolare tra sé: “Questo cuoco, questo cuoco, s’è dimenticato di salare la minestra”, e fu obbligato a lasciarla nel piatto.
Venne la pietanza, senza sale anche quella. Il Re posò la forchetta. – Perché non mangia, Maestà? Non le piace?
– Ma no, è buonissima, è buonissima.
– E perché non mangia?
– Mah, non mi sento tanto bene.
Provò a portarsi alla bocca una forchettata di carne, ma ruminava, ruminava senza poterla mandar giù. E allora gli venne in mente la risposta della sua figliola, che gli voleva bene come il sale, e gli prese un rimorso, un dolore, che a poco a poco ruppe in lagrime, dicendo: – O me sciagurato, cos’ho fatto!
La Regina gli domandò cos’aveva, e lui cominciò a raccontare tutta la storia di Zizola. Allora la Regina s’alzò e mandò a chiamare la sposina. Il padre ad abbracciarla, a piangere, a domandarle come mai era là, e gli pareva di risuscitare. Mandarono a chiamare anche la madre, rinnovarono le nozze, con una festa ogni giorno, che credo siano lì ancora che ballano.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Francesco Brancati: “che cosa resta nascosto nel sangue”

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di Francesco Brancati

 

 

I nomi (da L’assedio della gioia)

 

1. Hanno tutti un nome, gli individui

che conosce e che incontra ogni giorno;

le persone che non conosce

con cui condivide le strade, gli occhi,

i minimi contatti tra il suo corpo

e i corpi degli altri dentro i tunnel,

le strette di mano assicurate

dai perimetri delle abitazioni

e poi fuori, nei luoghi predisposti

alla socialità, allo sport, agli acquisti.

 

È ragionevole accordare

per breve tratto un’invasione

della propria area di esistenza

agli sconosciuti nelle piazze,

tra le vie del centro oppure, come

adesso, dopo aver preso posto

sul regionale. Secondo un’altra

configurazione del tempo sono

questi gli attimi che preparano

l’intuizione buia del massacro,

il passaporto ovvio della specie.

 

 

2. Per forse qualche istante pensa sia

possibile lasciare che il mondo

(tutto quel che vede, che lo riguarda

e che comprende) esista così come

esistono le cascate, gli insetti

nella terra, i sorrisi intimoriti

dietro le fontane, mentre lo sguardo

risale le molecole sul viso

e cerca un riparo dietro le spalle

nude e forti di tutte le ragazze.

 

Vede le figure precipitare

in un movimento troppo piccolo

perché possa fissarle in una zona

esatta di quella che, sulla base

di un elenco impreciso di libri

e discorsi, chiama la sua coscienza.

 

Dalla serie confusa di immagini

si sforza di ricavare una visuale,

un quadro di insieme che autorizzi

il passaggio dalla deduzione

di una qualsiasi differenza

a un’incolpevole e sicura

rivendicazione di individualità.

 

Eppure non riesce a ricomporre,

a trasformare un’intelligenza

dei sensi in emozione o materia

e, come la memoria o altre sciocchezze,

il frammento si perde e dilegua,

il suo impegno ritorna leggibile,

ritrovare lo zaino, raccogliere

tutto, portarsi di fretta all’uscita

preparato di nuovo a discendere.

 

 

3. L’ospedale è vicino ai quartieri

periferici della città, si può

raggiungere facilmente tramite

le apposite linee urbane

(il novantasei passa tutti i giorni,

il novantatré soltanto durante

i festivi). A guardarlo dal basso

sembra anche lui un individuo,

un gigante funzionale e assiepato

lì dove niente di altrimenti

importante poteva essere stato.

La disposizione degli interni,

le mura bianche dipinte da poco

sono un compromesso dimenticato,

un’innocenza smarrita nel ventre,

che cosa hai perso nelle arterie,

che cosa resta nascosto nel sangue.

 

Il nuovo reparto di chirurgia

generale e del pancreas si trova

al terzo piano, per accedervi

occorre prendere gli ascensori B.

 

Quando sale osserva due uomini

parlare mentre indossano un camice

e realizza di colpo che la pioggia

e la storia sono un altro ordine

di grandezza, che non lo riguarda.

Appunti su L’iris selvatico e Averno di Louise Glück

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di Francesca Matteoni

Ho incontrato per la prima volta le poesie di Louise Glück nell’antologia Nuovi poeti americani (Einaudi, 2006) curata da Elisa Biagini.  In seguito, grazie a piccoli editori, sono apparsi in italiano due libri: L’Iris selvatico (Giano, 2003); e Averno (Libreria ed Editrice Dante & Descartes, 2019). Entrambi ci arrivano  nella traduzione di Massimo Bacigalupo. Quando nell’autunno del 2020 vince il Nobel, il Saggiatore decide di riproporre i due libri già pubblicati e acquista i diritti per le altre sue opere.

Lo scritto che segue si compone di appunti sulle due opere disponibili in italiano, entrambe percorse dalle forze opposte di estraniamento e riconciliazione. Continuamente i protagonisti delle poesie sono estraniati da qualcosa di promesso o sfiorato in un’età indefinibile; continuamente viene tentata la riconciliazione fra l’ora e l’eterno, la terra e la mente, l’amore e la completezza. Ma anche queste categorie sono illusioni, che Louise Glück rivela mettendole in scena. La sua parola si affila senza compiacimento, colloquiale e assertiva.

Ne L’Iris selvatico, ci troviamo in un giardino, che è sia il giardino dove la poetessa, il marito e il figlio coltivano fiori e piante, sia una copia del Giardino da cui l’umanità è stata esiliata secondo il libro della Genesi.  Parlano i fiori, che sembrano capaci di scrutare nel tempo remoto e futuro. Da dove viene questo dono profetico, la loro parola fredda come acqua da una pietra?
Ci risponde la poesia di apertura:

È terribile sopravvivere
come coscienza
sepolta nella terra scura.
(“L’iris selvatico”)

Il bulbo è l’oscurità della terra, dove il ciclo vitale convive con il presentimento della fine, lo incarna, portandolo alla luce. I fiori sbocciano in bellezza perché la morte li sorveglia da vicino; la loro ignoranza è una sapienza più duratura di quella dell’umano che li coltiva o li estirpa, come un dio ordinante nel microcosmo. Così in “Viole” incontriamo l’anima in pochi versi chiari e lapidari:

in tutta la tua grandezza non sapendo
nulla della natura dell’anima,
che è di non morire mai: povero dio triste,
o non ne hai mai una
o non ne perdi mai una.

Mentre in “Zizzania” attraverso il tema del capro espiatorio si espongono le illusioni di potenza. La prospettiva della pianta rovescia quella del giardiniere che cerca di preservare quanto ama, stabilendo regole di sopravvivenza: meri capricci, guardati dal basso, dal silenzio dell’erba che ritrova sempre la via per tornare.

Non era fatta
per durare sempre nel mondo reale.
Ma perché ammetterlo quando puoi continuare
a fare come sempre fai,
dolerti e incolpare,
sempre le due cose insieme.

Non mi serve la tua lode
per sopravvivere. Ero qui prima,
prima che tu fossi qui, prima
che tu abbia mai piantato un giardino

La dignità fiori tuttavia non si oppone al linguaggio umano. Al contrario compie un’azione di pulizia, libera da pregiudizi e armature costruite negli anni, per restituire agli esseri umani un posto nel giardino. Come i fiori interrogano l’uomo e la donna che se ne prendono cura, così i due redivivi Adamo ed Eva, si rivolgono al giardiniere-dio, che li ha cacciati dal Giardino primordiale. All’alba e alla sera, nelle poesie che si ripetono in serie sotto i titoli di “Mattutino” e “Vespro”, si svolge il dialogo con il creatore, oscillando fra la preghiera e la sfida aperta. Al divino e alla pretesa del controllo risponde un cieco desiderio di essere al mondo, più che di ricevere, infine, giustizia.

Volevate nascere
Vi ho lasciato nascere
(“Fine dell’Inverno”).

Quel desiderio che spinge a cercare amore dove non si trova che precarietà.

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale  ̶  la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa  ̶  Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne  ̶
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.

La conversazione si dipana dai fiori all’umano a dio e di nuovo rimanda ai fiori, detentori di un segreto manifesto, mentre il divino viene spinto in un margine estraneo: esiste, ma non ha davvero a che vedere con noi. Esiste, ma non possiede le risposte alle nostre inquietudini.

Dubito
Tu abbia un cuore, nel senso che intendiamo
Noi.
(“Vespro”)

Così il giardino è testimone dell’incontro fra l’uomo e la donna, evento che li avvicina nella reciproca tensione affettiva, mentre li corrompe nel destino.

persino qui, persino all’inizio dell’amore,
la sua mano lasciando la faccia di lui si compone
un’immagine di separazione
e pensano
che sono liberi di ignorare
questa tristezza.
(“Il giardino”)

L’unità è consapevolezza di una continua separazione, di una ricerca frammentata in molte vite, dimenticanze, incomprensioni, illusioni di purezza e compimento. Eppure i fiori sollevano la testa, risplendono, se amiamo, ci consegniamo come bulbi l’una all’oscurità dell’altro. Il cerchio è chiuso.

Zitto, amore. Non mi importa
quante estati vivo per ritornare:
in quest’unica estate siamo entrati nell’eternità.
Ho sentito le tue due mani
Seppellirmi per sprigionare il suo splendore.
(“I gigli bianchi”)

Dal giardino ci spostiamo nella provincia di Napoli, presso le rive del lago vulcanico Averno, uno degli accessi al mondo infero, secondo la tradizione greco-romana. Averno significa assenza di uccelli. Si dice che essi non potessero abitare questo luogo a causa di esalazioni tossiche. Ma gli uccelli della poesia d’apertura, “Migrazioni notturne”, sono soprattutto l’anima che fugge altrove, si distacca dal corpo e dalla terra, diventa inconoscibile, quando la morte sopraggiunge. L’anima che scende nell’oltretomba  appartiene sia a una qualsiasi donna (o uomo), sia a Persefone (la fanciulla, la figlia, l’errante), rapita dal dio dell’inferno. Nelle poesie del libro Averno la narrazione mitica si mescola alle vicende quotidiane della protagonista: una donna che ricorda la ragazza che è stata, da cui è stata estraniata, ben prima che dal tempo, dall’anima.  Quell’anima che compie atti irreparabili, seguendo il divino nel fondo, perché si innamora – o viene rapita, fa lo stesso. O ancora, tradotto in termini più pratici, ha vissuto, accettando che quel vivere sia una violenza inflitta all’infanzia, al corpo che non sa niente di sé, alla mente che immagina. E immaginando entra nelle sfide, nei fallimenti, nella perdita, nella morte. Al principio dell’autunno Persefone abbandona la madre. Nel poemetto ottobrino si legge:

La violenza mi ha cambiato.
Il mio corpo è diventato freddo come i campi spogli;
ora c’è solo la mia mente, cauta e guardinga,
con la sensazione di essere messa alla prova.
(“Ottobre”)

Affacciarsi sul lago che è specchio e porta, corrisponde al passaggio dal risiedere in un posto sicuro al vagare di luogo in luogo, di persona in persona, perdendo a piccoli brani un’interezza che non c’è mai stata.

è la terra
«casa» per Persefone? Lei è a casa, plausibilmente,
nel letto del dio? È
a casa in nessun luogo?
E poco più avanti:

Dicono
Che c’è una spaccatura nell’anima umana
che non fu costruita per appartenere
interamente alla vita
(“Persefone l’errante”)

A chi appartiene l’anima? Si potrebbe rispondere alla soglia, dove le esistenze del mondo non si attardano mai troppo a lungo, trascorrono  in un colpo di vento.

Il mondo
è nel flusso, quindi
illeggibile, i venti che girano,
le placche terrestri che girano e scorrono invisibilmente –
(“Prisma”)

E perché non è possibile mantenere o raggiungere l’interezza? Si ricorderà che Persefone è dibattuta fra l’amore del dio e l’amore materno: dalla madre ha avuto tutto, dal dio è stata privata di tutto. Ma questa privazione significa l’esserne amata e scoprire di poter amare, accettando di avere identità instabili, essere materia sognante, in movimento.

Come uno scudiero che vuole
servire un grande guerriero, l’anima
voleva parteggiare per il corpo.

Si volse contro il buio,
contro le forme di morte
che riconosceva.

Da dove viene la voce
che dice supponiamo che la guerra
sia male, che dice

supponiamo che il corpo ci abbia fatto questo,
abbia creato in noi la paura dell’amore  ­­̶
(“Lago vulcanico”)

Forse l’amore che ci scuote è un passo più spedito verso la dissoluzione, un passo che supera soglie invernali, e nel farlo provoca fratture.

Il tempo passava, trasformando tutto in ghiaccio.
Sotto il ghiaccio, il futuro si agitava.
Se ci cadevi dentro eri morto.
(“Paesaggio”)

Il ghiaccio del lago si restringe a “intuizione raggelante” che in “Un mito di innocenza”, fa comprendere alla fanciulla Persefone il prezzo dell’amare: sentirsi incompleti e invasi dall’altro. Da quel momento non si può che seguire quel compagno temuto e desiderato, senza per questo acquisire saggezza. Al contrario l’innocenza è lo strano risultato dell’ignoranza, dell’immaginazione e della fede.

La ragazza che scompare dal lago
non ritornerà mai. Ritornerà una donna,
cercando la ragazza che era.

Si ferma presso il lago dicendo, di tanto in tanto,
sono stata rapita, ma suona
sbagliato per lei, niente come ciò che sentiva.
Poi dice, non sono stata rapita.
Poi dice, mi sono offerta, volevo
fuggire dal mio corpo. Anche, a volte,
l’ho voluto. Ma l’ignoranza
non può volere la conoscenza. L’ignoranza
vuole qualcosa di immaginato, che crede esista.

L’ignoranza è anche speranza che questa fede sia condivisa quale reciproca devozione. In una delle poesie più belle del libro, la Glück presenta le ragioni del dio, cioè dell’amore, travestito da morte. Fa risuonare magnificamente il sentimento in una verità che infrange ogni promessa felice.

Una luce soffusa si alza sopra la distesa del prato,
dietro il letto. Egli la prende tra le braccia.
Vorrebbe dire ti amo, niente può farti del male

ma pensa
questa è una bugia, quindi alla fine dice
sei morta, niente può farti del male
che gli sembra un inizio più promettente, più vero.
(“Un mito di devozione”)

Sappiamo dal mito che Persefone deve andare all’inferno per permettere il ciclo delle stagioni, interrompere l’inganno dell’eternità con la vita. Sappiamo anche che non decide: il fato e gli dei decidono per lei. La madre e l’amante si dividono una ragazza che scomparirà senza riuscire a crescere. O il suo crescere sarà un moltiplicarsi di sensi di colpa, inadeguatezza, un vago disagio per aver tradito qualcuno o qualcosa che la amava. Ma chi, di preciso? La casa infantile? La casa nuziale? Chi l’ha nutrita? Chi l’ha desiderata? E Persefone cosa desidera?
Forse desidera soltanto che gli uccelli volati via tornino, non come anime, come finzione, messa in scena mitica, ma come loro stessi. Desidera uno sguardo disincantato. Desidera che il volo non sia una fuga, ma una sospensione nel cielo. Una tregua.

Tordo

La neve cominciò a cadere, sulla superficie di tutta la terra.
Questo non può essere vero. Eppure sembrava vero,
cadeva sempre più fitta su tutto ciò che potevo vedere.
I pini divennero vitrei dal ghiaccio.

Questo è il luogo di cui ti ho detto,
dove ero solita andare di notte per vedere i merli dalle ali rosse,
che qui chiamano tordi,
barlume rosso della vita che scompare –

Ma per me – penso che il mio senso di colpa significhi
che non ho vissuto tanto bene.

Qualcuno come me non evade. Penso che per un po’ dormi,
poi scendi nel terrore della vita che verrà
solo che

l’anima assume qualche forma diversa,
più o meno cosciente di prima,
più o meno avida.

Dopo molte vite, forse qualcosa cambia.
Penso che alla fine quello che vuoi
sarai in grado di vederlo –

Allora non hai più bisogno
di morire e ritornare ancora.

Guardare per breve momento la grazia delle vite che non sono simbolo di nulla, che non incolpano di nulla né chiedono ragione. Prima di dimenticare, ancora, sulla terra fiorita o nel gelo dell’altromondo. Ricominciare il conflitto. Errare.

Salpa l’ancora ragazzo!

5

di Nicola Fanizza

Quando i filosofi si diedero la voce!

Fra quelli che fiutano il vento in Italia non troviamo solo i marinai, i giornalisti, i politici, ecc., ci sono anche i filosofi.

 

Sin dalla prima ora di filosofia ho saputo che nella mia vita non avrei fatto altro. Il mio professore di filosofia al Liceo ci affascinava con le sue affabulazioni e le sue conoscenze. Sapeva rispondere in modo esaustivo a tutte le nostre domande. Era davvero bravo! Durante le sue lezioni il prestigio derivante dalla sua immensa cultura diventava il fuoco dai cui si originava uno splendore numinoso che si irradiava sui nostri volti accecati dalla meraviglia. L’esercizio della filosofia e il suo insegnamento mi apparvero, allora, come rituali magici, capaci di aumentare la mia potenza e il mio sex appeal nei confronti delle ragazze. Va da sé che un approccio così ingenuo alla filosofia è esposto a tutti i contraccolpi che la durezza e la fatica dello studio provoca sull’immaginazione. Da qui la delusione che si sperimenta di fronte alle prime difficoltà: leggevo il manuale di filosofia, senza capirci molto; il mio primo docente di filosofia fu chiamato all’Università e, pertanto, rimasi senza il mio cattivo maestro.

Durante la frequenza del Corso di Laurea in Filosofia, le cose non sono cambiate. I docenti veicolavano certezze e mai dubbi; erano sussiegosi e supponenti. Guardavano con diffidenza gli studenti stravaganti e si circondavano di adulatori.

Tuttavia, sulla scorta di una lenta impazienza e di un lungo noviziato – mediato dal pathema e, insieme, dal mathema –, ho messo da parte il mio adolescenziale delirio di onnipotenza. Ho capito, finalmente, che chi insegna filosofia – allo stesso modo di chi insegna tutte le altre discipline – lo fa per essere amato.

I docenti di filosofia con cui ho avuto a che fare, negli anni Sessanta e Settanta – sia nell’Università sia nei Licei – erano per lo più dei nipotini di Geymonat. Uno dei topoi del loro immaginario era che per fare i filosofi ci voleva la laurea in Matematica. Di quelli che presero anche la laurea in Matematica, alcuni si ammalarono di scientismo, altri utilizzarono quel titolo come chiave d’accesso all’università, nessuno diventò filosofo!

Ah che tempi! Ed erano davvero bei tempi! Certo, si dice così perché erano i nostri tempi. E comunque ci conviene crederlo! Erano gli anni in cui il movimento del ‘68 si fece promotore di nuove forme di sociabilità e di nuove pratiche di liberazione che consentirono agli operai e agli studenti di prendere per la prima volta la parola.

A fronte della massificazione della scuola, gli insegnanti più motivati si misero in gioco nella prospettiva di creare una scuola critica, capace di formare cittadini sovrani. Gran parte dei docenti di filosofia erano, a quei tempi, per lo più organici ai partiti e per di più avevano una fiducia cieca nelle categorie della vulgata marxista, che sembravano dar conto dell’ordine o disordine presente nella società. Tale fiducia è venuta meno solo col movimento del ’77, che ha consentito, tuttavia, ai filosofi di ritornare a pensare.

A partire dalla fine degli anni Settanta – dopo gli arresti del 7 aprile –, quegli stessi docenti che negli anni precedenti facevano studiare Marx, Lenin e Mao in un baleno e in massa misero nei loro programmi il nazista Heidegger, il pastore dell’essere che voleva trasferire l’immaginario tragico nella Foresta nera, senza rendersi in alcun modo conto che il branco nazista con la sua cieca e feroce violenza non aveva nulla a che fare con la comunità ellenica. Erano convinti – sulla scorta del loro cattivo e maestro – che per pensare in filosofia bisogna farlo in tedesco. Da qui la fascinazione per una lingua «mistica» e, insieme, «magica», capace di trasformarli in filosofi della mutua in cura ascetica.

La filosofia egemone di quegli anni perde i suoi legami con la società, l’economia, la sociologia, la psicologia e diventa discorso consolatorio, rinuncia a cambiare il mondo; tende, pertanto, a disconoscere il conflitto.

Tale disconoscimento è diventato esplicito in questi ultimi anni, grazie agli epigoni della filosofia analitica. Di fatto, oggi, il discorso filosofico rischia di trasformarsi in un discorso squisitamente tecnico.

Non è inutile rilevare che i vescovi nell’età medievale non erano episcopi – ispettori –, poichè il loro compito era, invece, quello di valorizzare la luce che si manifestava nelle nuove forme di sociabilità, attivate dai movimenti che nascevano dal basso. L’homo religiosus (il filosofo di allora) riteneva che la peggiore disperazione era proprio quella di non avere nessuna disperazione; l’accesso alla verità era possibile solo attraverso la cura di sé; l’esperienza tradizionale (il pathema d’animo) aveva una valenza conoscitiva, la stessa  bellezza (l’arte) era legata alla verità. Insomma il soggetto si costituiva attraverso una molteplicità di discorsi che dicevano il vero; il discorso profetico, del saggio, del tecnico, dell’artista, del poeta e del parresiates.

Quando, invece, la filosofia diventa solo epistemologia o gnoseologia, finisce col perdere il suo legame con la vita. Si può accedere alla verità solo attraverso la cura di sé e degli altri, solo attraverso le pratiche sociali, solo addomesticando la distanza fra gli uomini. Insomma la filosofia non è solo amore della scienza ma anche scienza dell’amore. Di fatto, nell’economia della nostra vita, gli affetti sono importanti allo stesso modo dei concetti.

Ebbene i filosofi, oggi, – allo stesso modo dei vescovi di allora – sono chiamati a valorizzare le nuove pratiche di liberazione e, insieme, ad attivare nuovi percorsi di conoscenza. Una filosofia che non parli della nostra disperazione, della nostra collera, della nostra vita è una filosofia algida, una filosofia che non vale niente. Allo stesso modo una cultura che non sia capace di evitare la guerra – e noi siamo entrati in guerra contro l’Afghanistan e la Libia – non vale niente. «Salpa l’ancora ragazzo – diceva Epicuro –: e abbandona ogni retorica!».

( questo articolo in forma lievemente differente è apparso ne La poesia e lo spirito il 19/11/2012)

inversioni rupestri (# 2)

5

di Giacomo Sartori

Dite

dei tori
tutti i tori
(tutti tori!)
attorniati
da oranti
attoniti
(sui roccioni)

dite
li vedete
li temete
vi vegliano
vi vessano?

(convertiti al dio
Algoritmo
al dio Google

La propria lingua

1

Due prose di Alexandrina Scoferta

 

I.

A volte ho la sensazione di vedere le clienti di mia madre camminare fuori dalla libreria. Mi affretto ad uscire e gridare – Buongiorno Rosi! – ma non è una di quelle mattine in cui porto le brioche di Regina Adelaide a mia madre in negozio e di certo la signora Rosi non è su queste strade mediterranee che cammina con la spesa in mano. Prima di partire mi chiedevo cosa portare via con me. Alla fine non ho preso quasi nulla. Dopo un paio di giorni mi sono resa conto di non avere nemmeno vestiti. Le cose della stanza appartengono alla stanza. Le cose del lago appartengono al lago. Non ho mai sopportato le romanticherie simboliche. Un sasso del lago di Garda è solo un sasso, qui non mi avrebbe fatta sentire più vicina al lago.

Cenere

0

di Arianna Villani

Queste righe vogliono essere una testimonianza. Un’esperienza personale e come terapeuta.
Nei primi giorni di isolamento forzato ho ascoltato il silenzio, il buio, il cielo deserto dal traffico aereo, la natura che si  prepara al risveglio primaverile.
Ho veicolato il setting terapeutico a una modalità nuova e che, fino ad adesso, avevo relegato all’ultimo posto delle possibilità, sia per inattitudine al metodo online sia per pregiudizi circa il mezzo.
Mi sono adattata, mi sono posizionata di fronte a uno schermo e ho provato a liberarmi dai tabù, dai preconcetti che fino a ora mi guidavano e ho cercato e sto cercando di imparare da me e dai miei pazienti.

Un momento di crisi. Di profondo cambiamento. Di ricerca di senso e di significati.
Mi vengono in mente le parole di Racamier “non c’è altro modo di  uscire da un eccesso, qualunque esso sia, che attraversare una crisi”[1].
L’eccesso di tecnologia, l’eccesso del progresso, l’eccesso dei ritmi, l’eccesso di una società industrializzata e consumistica con lo scopo primario del produrre e del denaro, l’eccesso di tutto, che contemporaneamente mi richiama il suo opposto, eccesso di niente e che mi conducono alla dipendenza: tutto e niente, tutto e subito.
Credo che questa crisi sia un’occasione per rivalutare il senso del nostro vivere, per riflettere sui gesti distruttivi che solo l’uomo è capace di compiere con l’illusione di un fittizio benessere.

Ogni relazione terapeutica mira al cambiamento, quindi lavora nel quadro della possibilità del processo di crisi; inoltre, è probabile che tutte le crisi si risolvano partendo da un’accettazione di una certa ambiguità.
Bisogna accettare in certi momenti di non capire e credo che il terapeuta analitico dovrebbe subire l’indifferenziamento prima di capire e di differenziarsi.
Questa volta, però, l’ambiguità non è solo nel mondo del paziente ma abita anche dentro di me, “.. la capacità di tollerare e superare le crisi, di evolvere e anche di creare durante una crisi, mi sembra che consista nella capacità di tollerare l’ambiguità”[2].

Lo spazio del pensiero  richiede confini, così è possibile percepire quell’immagine, quel segno che ne deriva.
Penso a una scultura, a un quadro; ogni forma che emerge ha linee chiare che ne esaltano l’interno, che lo rendono tangibile, visibile, vivo.
Sono quasi due mesi che i confini si sono spostati, ribaltati, confusi, imbrigliati in canoni inversi dove occorre ricostruire un tempo nuovo.
Confini ristretti, relegati in spazi ridotti, dove le pareti delle case hanno la funzione raccapricciante di delimitare una libertà di movimento che fino a ieri era scontata, saldamente appartenente a ognuno di noi nella gestione di scelte, di azioni, di incontri,  di movimenti nel mondo.

La casa non ha più funzione di protezione ma  innalza barriere che assomigliano a sbarre di prigioni invisibili.
Anche la condizione più favorevole in questo tempo senza spazio ha le sembianze di una gabbia dorata.
Mi trovo a vivere in uno spaesamento del pensiero. Smarrita in un qui e ora che non ha passato né futuro.
Vivo la vita e sono vissuta dalla vita.

Ci sono parole che riecheggiano nella mente, come nei racconti dei sogni di alcuni pazienti.
Assenza, solitudine, vuoto, mancanza, tristezza.
Nei loro sogni case in bilico, invasioni, rappresentano lo scenario di instabilità emotiva e bisogno di ricreare confini, protezioni.

Assaporo l’odore penetrante della morte nel languido dondolio di un tempo  senza lancette orientative.
File di bare che avanzano  in una marcia immobile in cui l’ultimo saluto, delegato al rito, è negato.
L’unica presenza e la consistenza dell’assenza.
Si riapre il varco indelebile di una ferita, del trauma della perdita improvvisa; che l’atto suicidario, con la sua lama mortifera, ha tagliato la possibilità del respiro ansante alla vita.
Il tradimento della fiducia, riposta nella possibilità di riscatto attraverso risorse personali, avanza
con il suo passo ritmato.
Ascolto la tristezza del buio profondo che mi avvinghia in un abbraccio senza corpo.
Navigare nel magna emotivo rischia di mutarsi in un labirinto senza via di uscita.
Cercare di dipanare la nebbia che avvolge la mente appare necessario.
In questo esistere mi aggancio al lavoro. Attraverso lo schermo del computer accedo alla presenza dell’Altro. Ma sono presenze che incarnano l’assenza del corpo e l’assenza diviene una presenza bianca totalizzante che mi invade incessantemente.

Sono alla ricerca di senso.
Lo trovo nel calpestare la terra a piedi nudi. Lo trovo nell’accarezzare i giovani fili d’erba, lo trovo nel canto dei pettirossi al sorgere del sole, lo trovo nella purezza dei fiori del ciliegio selvatico, nella possente presenza di un bosco di cerro e castagno.
Lo trovo nel recupero della mia mortalità, nell’accettare che ogni cosa muta, cambia, che la vita è una perpetua trasformazione e che l’effimera ricerca di sicurezze non esime dall’ ineluttabile fine della vita.

Mi sono assolta dall’aver mancato di presenza? Questa è la domanda che mi nasce dall’eco dell’assenza. Non è tanto la morte, che ha evidenziato la perdita, ma la mia dipartita in vita nel contatto stretto con chi ha scelto di andarsene per sempre.

Due passi sotto casa.
Aprendo la casetta dedicata allo scambio di libri trovo al suo interno tre post-it gialli che attraggono la mia attenzione. Non so chi l’ha lasciati come messaggio da condividere con altri, alla prima lettura mi appare quasi la descrizione di  un sogno, poi rintraccio le parole di Primo Levi.
Niente accade per caso “…Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi…  Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo ..”

Vita e Morte.
Si possono riaprire le porte all’ambivalenza.
Penso all’ineludibilità del cammino della vita.
È come se avessi attraversato un esilio da me stessa passando da uno stato di estraniamento alla possibilità di assaporare una nuova linfa vitale.
La cenere nutre, non è solo l’essenza di qualcosa che non c’è più.
Testimonianza di trasformazione.
E adesso, tornare ad affrontare il cammino della propria esistenza, sopportando il peso della responsabilità delle proprie azioni e, a volte, dovendo reggere anche l’angoscia che ne deriva, rappresenta ciò che dobbiamo a noi stessi.

[1]Racamier P. C. 1993, Il genio delle origini, Raffaello Cortina Editore pag.116

[2]Racamier P.C. E Taccani S. 1986, Il lavoro del negativo, Edizioni del Cerro pag. 161

Testo tratto da: Rivista di Psicologia Analitica Nuova Serie, Volume 101/2020, n. 49

I cattivi maestri: Aldo Braibanti

1

 

di

Francesco Forlani

 

 

Dal 1 marzo i giurati voteranno la cinquina del David di Donatello. Su 150 opere, “Il caso Braibanti” di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese è stato selezionato tra i 10 documentari che concorrono a questa edizione del 2021. Sinceramente non so quanti di loro avranno l’occasione di leggere questa mia nota di certo non autorevole quanto le parole spese dai maggiori critici cinematografici italiani riportate in conclusione, ma ne sarei ben felice.

Opera dalla genealogia complessa, nata come spettacolo teatrale  all’interno della rassegna del Garofano Verde ideata e diretta da Rodolfo di Giammarco, il testo dello spettacolo è pubblicato nella collana Teatri di Carta dell’editore Caracò di Bologna, e ora in forma di docufilm. Conosco l’autore Massimiliano Palmese, drammaturgo e poeta, da molti anni e proprio qui su Nazione Indiana come traduttore dei sonetti di William Shakespeare. .

Questa premessa mi sembra necessaria per dire che quando ho assistito alla proiezione del Caso Braibanti, sapevo dal principio che soltanto un poeta, drammaturgo e soprattutto attivista come lui poteva al meglio cogliere il suono della voce di un intellettuale come Aldo Braibanti, entrare in risonanza con la sua vitalità non disperata. Con Carmen Giardina, Massimiliano Palmese ha creato uno specchio in grado di farci capire quanto disperato e non vitale fosse il mondo Italia prima del ’68. È una vicenda la sua che da una parte anticipa le conquiste che ci sarebbero state con le leggi sul divorzio e sull’aborto, la rivoluzione femminista e sessuale, e dall’altra le armi che quello stesso mondo avrebbe usato in seguito e sul piano politico con gli intellettuali “impegnati” bollandone i destini con l’infamante nomignolo di “cattivi maestri”. Un ruolo quello degli intellettuali che Elsa Morante rivendica con un j’accuse dalle pagine di Paese Sera:

Quanto a me che qui mi rivolgo alla Signorie Vostre (in proposito, devo ancora presentarmi: mi chiamo Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta), io ignoravo che il libero insegnamento delle proprie idee si configurasse, nella nostra Repubblica in un reato

 

Come scrive uno dei miei “maestri”, Valerio Caprara, sul Mattino, Il caso Braibanti è “Il primo referto completo sulla figura di Aldo Braibanti, partigiano, poeta e regista, omosessuale, diventato bersaglio e vittima di un pretestuoso processo per plagio, portato a termine a partire da un oratorio recitante dello stesso romanziere e traduttore Palmese con un ricco corredo di materiali di repertorio, interviste inedite e testimonianze autorevoli. Inequivocabile è l’emersione che ne consegue del rancido benpensantismo che ancora allignava nella mentalità e le azioni delle classi dirigenti.”

Ognuna di quelle testimonianze, su tutte quella di Piergiorgio Bellocchio, contribuisce a restituirci non solo il reperto andato perduto ma anche il senso e lo stile di un’archeologia del presente in grado di affrancare i fatti dall’oblio e di mettere in guardia le generazioni future dagli agguati che l’io sociale tende ai corpi liberi di uomini e donne del nostro tempo. Felici le inserzioni dello spettacolo teatrale in cui la passione da intendersi nel doppio senso, laico e religioso, domina la scena. Tra le immagini di repertorio o documentarie formidabile è il ritratto dello scienziato, studioso delle formiche – descrizioni del mondo minimo che mi hanno riportato alla mente le magnifiche pagine di Cacce sottili di Ernst Jünger- ed è un colpo al cuore la scena finale, una videopoesia con immagini girate dallo stesso Braibanti in cui dei cenci mobili di un Cristo velato si liberano nella corrente del mare.

 

trasvoliamo cornix
oltre questi anfratti domestici
verso colline turchesi oceani gialli sequenze verdi di primavera
trasvoliamo presto perche’ la vita mi sfugge tra le dita
e io non voglio spezzare la preziosa catena dei miei quotidiani risvegli
non voglio travalicare con mentite sapienze la lunga serie delle contraddizioni segrete
non voglio rinunciare al gesto che ricicla quello che gli altri buttano via
non voglio barattare i miei sassi colorati con l’ abbondanza dei loro frutti marciti
non voglio tradire la mia coerenza quando cambio col mondo che cambia
non voglio finire qui’ questo mio lungo frammento di paura e di desiderio
la porta resta spalancata fino allo spasimo
come la breccia nera da cui sei caduto tu mio dolce compagno di viaggio

 

Il film documentario  torna disponibile in streaming tra il 9 e il 14 marzo per la prima edizione di CineMaOltre / Palladium Film Festival (piattaforma MYmovies). Il film sarà programmato nella sezione CineMaOltre “i muri”
Il CASO BRAIBANTI (Italia, 2020)
un film di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese
con Ferruccio Braibanti, Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel,
Giuseppe Loteta, Dacia Maraini, Maria Monti, Elio Pecora, Stefano Raffo, Alessandra Vanzi, e Fabio Bussotti, Mauro Conte
musiche Pivio & Aldo De Scalzi
prodotto da Pivio Pischiutta per Creuza srl

 

 

Rassegna stampa

Un bel documentario contro l’omofobia.
A stupire è che non sia stato realizzato prima.
Anna Bandettini, la Repubblica

Ha suscitato grande emozione tra il pubblico, applaudito a lungo.
Nella precisione della scrittura, procede implacabile.
Silvana Silvestri, Alias – il manifesto

Aldo Braibanti, l’eretico, nell’Italia retriva del .68.
Un documentario appassionante racconta la sua odissea.
Fabio Ferzetti, L’Espresso

Il primo referto completo sulla figura di Aldo Braibanti.
Valerio Caprara, Il Mattino

Un processo che ricordava Oscar Wilde, ma che si è rivelato un processo politico.
Elena Stancanelli, La Stampa (poi Dagospia)

Vicende che i giovani hanno il diritto di conoscere.
Giancarlo Zappoli, MyMovies

Un’opera appassionata, dall’ideografia sconveniente e di bruciante attualità politica.
Roberto Silvestri, FilmTv

‘La prima cosa bella’ di sabato 12 settembre è il docufilm ‘Il caso Braibanti’, sul ‘nostro Oscar Wilde’.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica

Un’opera di grande valore civile.
Gino Delledonne, BookCiakMagazine

Un grido di denuncia contro l’omofobia, che ha risuonato con forza nei cuori degli spettatori.
Cristiana Paternò, Cinecittà News

La partitura è complessa, gli intenti nobili, il risultato di gran pregio.
Lorenzo Ciofani, Cinematografo

Nell’offuscata memoria del nostro Paese, al docufilm va il merito di non rendere vano il sacrificio di Aldo e Giovanni.
Diego Baldoni, NegZone

Coraggioso, preciso, potente.
Ettore Fobo, Lankenauta