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Quando Alberto perse il signor Gilberto e si mise a cercarlo

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di Davide Orecchio

(Piccola storia per l’anno che va e per l’anno che viene)

Alberto e il signor Gilberto vivono assieme e si prendono cura l’uno dell’altro. Quando se lo ricorda, il signor Gilberto fa la spesa e cucina, paga le bollette, bada a che in casa non manchi nulla. La pensione del signor Gilberto basta appena perché i due ne possano vivere, e Alberto ricambia col suo affetto e calore. Il corpo di Alberto è caldo e accudisce più di qualsiasi coperta o cappotto. La sera, quando nel condominio i termosifoni si spengono e dalle mura umide, e sotto agli infissi negletti, entra il freddo dell’inverno, al signor Gilberto non resta che il tepore di Alberto, e nelle sue coccole sente anche il suo cuore che batte. Un cuore che batte riscalda più di qualsiasi coperta o cappotto, pensa il signor Gilberto seduto sul divano, mentre nelle sue gambe stanche torna a scorrere il sangue. Alberto lo guarda, poi chiude gli occhi. Il signor Gilberto ha bisogno di calore e riposo, perché ha ottant’anni d’età. Alberto, che sonnecchia sulle sue cosce, invece ne ha compiuti nove da poco, è nel fiore maturo della propria vita. Ma sono mai stati problemi, questi, tra un gatto e un essere umano? No, è la risposta. Gatti e uomini possono andare d’accordo a tutte le età, e Alberto e il signor Gilberto ne sono la prova.

*

In città avviene qualcosa di strano. La città è cambiata. Dal davanzale Alberto scruta la strada e la vede deserta. Nessuno cammina sui marciapiedi. Non passano né bambini né adulti degli esseri umani. Di rado, qualche automobile più veloce del solito. Il cielo è colmo di gabbiani che lo popolano anche quando cala la notte, e lo riempiono di bianco, di grigio e di strida. Alberto miagola verso il signor Gilberto, gli chiede cosa ne sappia ma l’uomo – e questo non accade mai – non gli dà retta, sta lì sul divano e sembra più stanco del solito, respira male, tossisce, si lamenta, dice che è la volta che muore, ripete che è davvero la volta che muore. Con le forze che gli restano il signor Gilberto prende il telefono per chiedere aiuto, poi si lascia cadere sul divano ansimando. Alberto si avvicina, miagola ancora, cosa può fare per lui?, gli serve calore?, vuole che salga e si accucci sulla sua pancia? Ma il signor Gilberto non gli dà retta. E questo non accade mai.

Qualcuno scardina la porta, entra in casa. Che frastuono. Che paura. Alberto si nasconde sotto al divano. Vede a malapena i piedi degli infermieri, e le ruote e le aste di alluminio della barella. Sente le loro parole, il silenzio del signor Gilberto e il suo respiro pesante. Cosa fanno? Lo portano via? Alberto, preoccupato, esce dal rifugio e trova il signor Gilberto legato sopra al lettino, una maschera di gomma sul naso e la bocca. Gli infermieri, protetti dalla testa ai piedi con caschi, tute e visiere, spingono fuori il signor Gilberto e Alberto li segue. Gli infermieri chiudono la porta di casa e scendono le scale, per fortuna solo mezza rampa, e Alberto li segue. Gli infermieri caricano il signor Gilberto sull’ambulanza e partono con la sirena. Alberto corre dietro al signor Gilberto. Vuole sapere dove lo portano. Vuole andarci anche lui. Alberto è un gatto sano e forte, nel fiore maturo degli anni, va veloce sulla strada deserta, schiva tombini e pneumatici. L’ambulanza frena, curva, svolta, va di qua e va di là, e Alberto la segue, non la perde di vista. Ma, quando raggiunge una strada più grande, rettilinea e interminabile, l’ambulanza accelera, si fa più lontana e più piccola finché Alberto non la vede più e, esausto, si ferma con la lingua di fuori. Addio signor Gilberto. Anzi arrivederci. Non smetterò di cercarti.

Ma qui cosa succede? Perché non c’è nessuno? E dove mi trovo? Non ero mai arrivato così lontano, in un posto così largo e pauroso. Qui è troppo aperto e non ci si può nascondere. Qui non va bene per niente.

Immagine di Mabel Amber da Pixabay

Alberto vaga per la città. Sale e scende dai marciapiedi. Si acquatta sotto le auto. Non sa più dove stia andando. Non sa se debba proseguire o tornare. Ma non saprebbe tornare, perché ha perso la strada di casa. Si ritrova in una piazza troppo grande per le sue abitudini. Al centro, gli angeli di pietra di una fontana gettano acqua dalle bocche e dai nasi, e sorridono eternamente. Sui loro capi, sulle ali e sulle braccia riposano decine di gabbiani reali. Anche sui bordi della fontana, al di qua della vasca dove brulica l’acqua, riposano decine di altri gabbiani. Alberto li osserva e riflette. Forse non stanno riposando. Forse controllano. Forse aspettano prede. Decine e decine di gabbiani in silenzio. Alberto, che non può tornare indietro perché ha perso la strada di casa, può solo avanzare e decide di farlo. Pensa che, nero com’è, nel buio i gabbiani non lo vedranno.

Inizia a attraversare la piazza, piega le gambe e con la pancia sfiora l’asfalto. Com’è bravo. Com’è scaltro e elegante. Ma è difficile battere i gabbiani in scaltrezza. I gabbiani non si distraggono da te. I gabbiani ti vedono sempre. Alberto è arrivato solo a metà del suo attraversare e quelli sono già in volo e stridono, decine di gabbiani, tutti contro di lui, tutti verso di lui. Alberto, che è un gatto forte, nel fiore dei suoi anni maturi, fugge e scantona, si volta sulla schiena e soffia ai gabbiani. Più veloce del tuono o del fulmine, Alberto estrae le unghie e graffia i gabbiani che gli picchiano addosso. Ancora scappa sotto alle auto e fra la spazzatura. Salta su dalle buste, combatte i gabbiani, geme versi terribili. Alberto è diventato un guerriero, lotta per la propria vita. I gabbiani, però, sono troppi. Decine di gabbiani affamati. Lo circondano in volo. Scendono, risalgono, non gli danno tregua. Alberto ora è stanco. Non può difendersi da tanti gabbiani. Tra poco uno di loro lo trafiggerà e sarà tutto finito. Signor Gilberto, era addio e non arrivederci, non ce l’ho fatta a trovarti. Mi dispiace, signor Gilberto. Spero che tu guarisca e stia bene. Adesso mi arrendo. Adesso io chiudo gli occhi e… 

Chi urla così forte? A chi appartiene questo grido di guerra? A una creatura grande, dagli occhi gialli. Abbaia e tuona. Si scaglia contro i gabbiani. Li attacca, ne morde uno e poi un altro. Li mette in fuga. I gabbiani si alzano da terra impauriti. È un cane alto e terribile. Ha salvato Alberto e lo guarda. Presto, seguimi in quel vicolo, per un po’ gli uccelli ci lasciano in pace, ma solo per poco. E Alberto lo segue.

La viuzza dove si rifugiano è un culo di sacco. Termina in una parete di mattoni alta. Da qui non si esce che per una strada, il ritorno alla piazza dove i gabbiani hanno il covo. 

Riposiamo un momento. Ritardiamo la guerra. Tu, cane, io ti ringrazio, ma chi sei? 

Io, gatto, sono il più coraggioso, il più forte cane corso della città. Io sono Antonio. Ti sei perso? Non ti ho mai visto quaggiù. 

Mi sono perso e non so più tornare né proseguire. Correvo dietro al signor Gilberto, mio essere umano, che s’è improvvisamente ammalato, non respirava più bene, l’hanno portato via ma non so dove ed eccomi qui. 

Da qualche tempo gli esseri umani si ammalano tutti. Anche il mio si è ammalato. Anche l’essere umano di Lisa si è ammalato e lei ora lo cerca. 

Lisa chi è? 

Sono io, Lisa.

Dalla costa di un bidone affiora un muso bianco. Nel buio del vicolo. Una gatta bianca, priva di macchie. Avanza timida, poi con poco più di certezza. Ha il pelo umido della propria lingua. Si è leccata ferite finora? Anche lei preda dei gabbiani e colpita? Lisa guarda Alberto negli occhi. Nessuno dei due, creature smarrite, dimenticherà mai questi sguardi.

Lei anche l’ho salvata dai gabbiani, rievoca Antonio, oggi non salvo che gatti, un paladino, questo sono diventato, cos’altro aggiungere?

Ti ascoltavo, dice Lisa a Alberto, hai perso il tuo essere umano e io, come te, ho perso la signora Bianca, mio essere umano. L’hanno portata via, respirava poco e dolorosamente, li ho seguiti finché ho potuto e poi li ho persi sulla strada grande, qualcuno sa dove portano gli esseri umani ammalati?

Antonio lo sa. Il posto si chiama ospedale. L’essere umano di Antonio l’hanno portato laggiù e Antonio li ha seguiti sino alla fine. Antonio ha visto dove tengono gli esseri umani e mostra il percorso ai due gatti: la strada grande, il fiume, un ponte da varcare e si è arrivati, ma bisogna passare per la piazza dove i gabbiani hanno il covo, non c’è alternativa. Davvero vogliono andare e rischiare la morte? Non preferiscono restare qui nel rifugio e aspettare che i gabbiani volino via? 

No, rispondono Alberto e Lisa, non vogliamo restare, vogliamo ritrovare i nostri compagni di vita. 

Perché si ammalano tutti, gli esseri umani?, chiede Lisa e Antonio china la testa, proprio non lo so, un giorno stanno bene e il giorno dopo crollano esausti, è un grande mistero. Alberto, nel ricordare la tosse del signor Gilberto, ripete col cane corso che sì, la malattia degli esseri umani è un grande mistero.

Ora Antonio spiega che dovranno correre forte dentro e oltre la piazza, Lisa al suo fianco destro e Alberto a sinistra. Al di là della piazza troveranno il ponte e salvezza, perché laggiù vive una tribù folta di corvi e i gabbiani non vi si avventurano. Siete pronti?, al mio via?, e i gatti annuiscono. Antonio si dà lo slancio piegando le zampe posteriori e flettendo quelle davanti, spalanca gli occhi gialli verso la piazza e la guarda con odio. I gabbiani riposano sulla fontana, macchie grigie e bianche che sporcano il buio. Il cane dice adesso e si lancia. Lisa e Alberto lo seguono subito. Occhi gialli e occhi verdi contro i gabbiani. Occhi risoluti, musi come frecce e trabucchi. Sboccano nella piazza, il cane e i due gatti, con la forza che non ha retroguardia né ritirata. I gabbiani li avvistano, si sollevano in coro, urlano in coro. Quante strida. Che affronto. Mammiferi insulsi. Dove correte? Volete la guerra? E guerra sia. Si precipitano su di loro alla pesca. Vogliono sangue, carne, ossa da spolpare, bulbi da succhiare. Versi assordanti. Decine di gabbiani, assordanti e proietti. Loro, un cane e due gatti, corrono fissando gli uccelli che scendono, uno abbaia e due soffiano. Un gabbiano plana verso Lisa, prova a ghermirla ma la gatta gli graffia l’addome, e quello urla e si ferma. Due gabbiani sigillano i becchi per trafiggere Lisa, ma Antonio li prende entrambi in due morsi, spezza il collo del primo,  sbrana un’ala al secondo e lo getta per terra. Alberto salta verso un gabbiano, salta più di due metri, con le unghie stacca un occhio al nemico. Antonio li esorta, correte!, resistete!, adesso non fermatevi più!, e loro veloci saettano al di là della piazza, e raggiungono l’imbocco del ponte, sopra di loro i gabbiani reali, decine di gabbiani arrabbiati e affamati, una coperta di piume e di becchi che cade dal cielo. 

Ma l’occasione dei gabbiani è perduta. Qui, dove il ponte inizia, ci sono già i corvi. Centinaia di corvi appollaiati sulle ringhiere e sui cavi, sui lampioni e sui parapetti. Non hanno bisogno di scomodarsi nel volo, alla guerra. Si volgono ai gabbiani e li fissano, se possedessero sorrisi di scherno li esprimerebbero, già il loro silenzio è una beffa e ha deterrenza, non occorre lo sforzo di un solo gracchiare. I gabbiani al contrario urlano versi violenti e sconfitti, si fermano prima del ponte, lasciano che trascorra un minuto, il tempo dell’odio e dell’appuntamento, ci rivedremo, torneremo a combattere, poi volano indietro alla piazza. 

Il cane e i due gatti varcano il ponte. Nella condiscendenza dei corvi che restano fermi. Adesso il loro silenzio è forse un rispetto. Il cane corso fa strada, un passo indietro i due gatti, la bianca a destra e il nero a sinistra. Sotto scorre un fiume deserto e noioso quanto la città. Nessun battello lo solca. Nessuna luce gioca sui riflessi dell’acqua. Antonio, con Alberto e Lisa al suo fianco, raggiunge la sponda di là, attraversa una strada e poi un’altra, poi un’altra ancora tra palazzi che non irradiano luci, dove non vive nessuno, ed ecco che ne appare uno luminosissimo invece, indaffarato di ambulanze che entrano ed escono, ed è l’ospedale, e Antonio fa cenno ai due di seguirlo, sa come entrare senza che nessuno li veda.

Attraversano corridoi e sotterranei, salgono lungo rampe di scale. Entrano in un reparto pieno di luce. Camminano. Nella luce. Non sono invisibili. Un cane corso e due gatti. Ma nessun essere umano si accorge di loro. 

Questo è un altro mistero, osserva Alberto, dovrebbero vederci ma non ci vedono. 

Hanno molto da fare, risponde Antonio, qui è dove curano la malattia nuova, forse non hanno occhi né tempo per noi. Ora salite sulla mia schiena e affacciatevi su questa parete di vetro. Se il signor Gilberto e la signora Bianca sono qui, li vedrete.

Tu, chiede Lisa, resti sotto?, non cerchi il tuo essere umano?

Il mio essere umano non è più qui e non è a casa, non so dove l’hanno portato, risponde Antonio e si piega.

Alberto e Lisa salgono sulla schiena del cane, si alzano sulle due zampe, appoggiano le altre due contro il vetro, avvicinano i musi e scrutano dentro. C’è una corsia di esseri umani nei letti. Indossano scafandri di plastica trafitti da tubi. Sembrano tristi, però sono vivi.

Ora Lisa grida, ecco lì la signora Bianca!, e Bianca dal suo letto la vede, una gatta bianca eretta sui piedi, i polpastrelli schiacciati sul vetro, gli occhi sgranati che non si chiudono mai. Dopo lo stupore, la signora Bianca alza un braccio per salutare la gatta e sorride.

Ora Alberto grida, ecco laggiù il signor Gilberto!, ma il signor Gilberto non può vederlo perché ha gli occhi chiusi e riposa, sembra sereno, pensa Alberto, sembra che si stia riprendendo, non tossisce e non si lamenta, coraggio signor Gilberto, io sono qui, ti ho ritrovato, non ti abbandonerò mai.

Le ore passano e viene la notte, quando suonano le campane e qualche botto detona. Forse un anno umano è finito, forse ne inizia uno nuovo. Ma ai due gatti, ritti sul dorso di Antonio, non interessa granché. Il loro calendario non è il calendario degli uomini. Lisa e Alberto non hanno fretta, non hanno pazienza, non hanno speranza né nostalgia. Ma non si levano dalla parete di vetro. È valsa la pena di correre fuori, rischiare la vita e fare la guerra. Sulla schiena del cane, i due gatti vegliano i signori Bianca e Gilberto finché saranno guariti.

Presto torniamo a casa.

Ma non torniamo senza di voi.

Immagine di copertina di kropekk_pl da Pixabay 

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

“Dal momento che l’uomo bianco, il vostro “amico”, vi ha privato del vostro linguaggio sin dai tempi della schiavitù, l’unico linguaggio che conoscete è il suo linguaggio. Intendo, il linguaggio del vostro “amico”. Infatti invocate Dio con lo stesso termine con cui anch’egli lo invoca. Sicché, quando il bianco vi mette il cappio al collo, voi implorate Dio, ed anch’egli implora lo stesso Dio. Provate ad immaginare perché quello che implorate voi non risponde mai.”

Malcolm X, 14 febbraio 1965, Detroit, Michigan.

  1. LE PRIME LUCI DELL’ALBA

Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. Una caldissima ed afosa giornata risplende tra i palazzi moderni che si affacciano sul porto vecchio. A pochi minuti di distanza, dentro l’edificio che qui chiamano semplicemente Garden, costruito ad immagine e somiglianza del Madison Square Garden di New York, è una bolgia infernale. Dall’alto, sopra le teste dei giocatori, sfilano i 16 stendardi con trifoglio irlandese che ricordano gli altrettanti titoli nazionali vinti dalla squadra di casa, i campioni in carica dei Boston Celtics. Ad introdurre l’entrata degli avversari solo i buu della folla inferocita. Non è affatto una sorpresa. Si tratta dei Detroit Pistons, aka Bad boys, la franchigia più odiata della lega, che si è fatta strada fino alla finale della East Conference a suon di falli, risse, multe ed una difesa dura, rocciosa, cattiva.

Silenzio. Dagli altoparlanti si diffonde nell’arena l’inno americano:

“O say can you see, by the dawn’s early light,

What so proudly we hail’d at the twilight’s last gleaming?”

(Di’, puoi vedere alle prime luci dell’alba

ciò che abbiamo salutato fieri all’ultimo raggio del crepuscolo?)

Il crepuscolo. Chissà che cosa passa per la testa al mingherlino, nella pallacanestro dei giganti, Isiah Thomas. Sarà questa partita la fine di tutte le frustrazioni e l’inizio di una nuova alba? La mente torna indietro nel tempo, una notte d’estate del 1966.

West Side, il quartiere più povero e decadente di Chicago. La famiglia Thomas vive al primo piano di un edificio in Congress Street, proprio dirimpetto alla superstrada. Papà Isiah Senior se ne è andato da tempo; mamma Mary si arrangia come può, lavora alla mensa presso la basilica di Santa Maria Addolorata, sul West Jackson Boulevard. I problemi non mancano. È un’impresa crescere da sola nove bambini nella zona più degradata della città. Isiah, il più piccolo, ha solo cinque anni, ma è già così bravo con la palla a spicchi da riuscire a portare a casa qualche dollaro esibendosi con acrobazie, palleggi a velocità supersonica e canestri dalla distanza durante gli intervalli delle partite del campionato parrocchiale. Sempre che quei soldi non vengano requisiti dai fratelli più grandi, per poi, da lì, finire direttamente nelle tasche degli spacciatori di eroina che infestano il quartiere. Per la verità, c’è un uomo che sta cercando di combattere tutto questo degrado: il suo nome, Fred Hampton, ad Isiah è familiare perché è il portavoce delle Black Panthers, di cui sua madre fa parte. Nei controversi e sovversivi anni ‘60, pur appartenendo ad un gruppo, le Pantere Nere, che i media continuano a descrivere come il corrispondente nero dei suprematisti bianchi, Fred è convinto che se il razzismo fosse inquadrato in una discussione politica, piuttosto che etichettato come mera ignoranza, allora ci sarebbe margine per creare, nella povera e dimenticata West Side, una coalizione di persone, esseri umani, che non si distinguono per il colore della pelle, piuttosto per la mancanza di rappresentazione politica e tutela legale. Proprio per queste idee “sovversive”, a cui Fred ha trovato un nome, Rainbow Coalition, ed un seguito perfino nelle gang locali che infestano la città, radunando attorno a se neri, brownies, perfino whites abbandonati da una società che non concede nulla a chi non si adegua alla dura e tremenda legge del dollaro, Hampton verrà ucciso il 4 dicembre 1969 in una retata della polizia che oggi sappiamo essere stata organizzata dall’FBI con lo scopo di mettere a tacere una delle menti più brillanti dell’attivismo afro-americano.

Ma in questa sera d’estate del 1966, il piccolo Isiah, che ha solo cinque anni, non sa nulla di politica, capisce solo il linguaggio della fame, la pulsazione intermittente che gli lacera lo stomaco. Bussano alla porta. Mamma Mary apre. Di fronte si trova un’intera sezione dei Vice Lords, la famigerata banda criminale che conta più di 30 mila affiliati per le strade di Chicago. Collane d’oro, pistole e fucili luccicano sotto i lampioni della strada. È giorno di reclutamento. “Draft Day”, così lo chiamano nel ghetto.

“Vogliamo i tuoi ragazzi,” esclama il capo. “Non possono gironzolare qui intorno senza appartenere ad alcuna banda.”

Mary è una donna risoluta: dopo nove parti, la fuga del marito, e tutte le dannate manganellate della polizia durante le manifestazioni per i diritti civili, non si fa certo intimorire facilmente. Guarda il criminale fisso negli occhi, per un istante infinito: “C’è solo una banda da queste parti, si chiama la banda dei Thomas, e la comando io.”

Il capo dei Vice Lords si gira verso i compagni, scoppia a ridere. Poi, aggressivo, incalza di nuovo: “Se non ci porti tu i ragazzi, ce li pigliamo noi per la strada.”

Potete sentire il battito frenetico, il respiro affannato, la paura di un bimbo di cinque anni? Ed il terrore di una madre a cui stanno minacciando di portare via i propri figli?

Mary sbatte la porta. I criminali non desistono, cercano di abbatterla a calci. Lei attraversa il soggiorno, dove i bambini si sono stretti in cerchio spaventati. Isiah la guarda attonito mentre la madre entra nella stanza da letto. Poi la vede uscire con un oggetto con una lunga canna in ferro, ripercorrere la stanza fino all porta d’entrata, spalancarla rapidamente, il tempo di puntare l’arma contro la fronte del pezzo di… : “Sparisci dalla mia vista o spalmo le tue cervella sulla strada.”

Isiah ascolta le parole di sua madre in silenzio. Un silenzio confuso, frastornato da pensieri troppo voluminosi per un bambino della sua età. Qualsiasi cosa succeda, nulla potrà mai essere lo stesso. Poi, tutto ciò che sente è il rombo delle moto che si accendono e spariscono nella notte. Quel suono, e quelle pulsazioni, si confondono oggi con l’assordante rumore degli inferociti tifosi avversari intorno. Non è la stessa cosa. Nulla è stato più, da quel giorno, la stessa cosa.

È tempo per Isiah di aprire gli occhi, l’arbitro sta richiamando i giocatori dei quintetti base in campo. Tra pochi istanti lancerà la palla al cielo e… Isiah lo sa, è un confronto senza storia, i Celtics non perdono in casa contro i Pistons da 18 partite.

  1. PERVASIVO

Che anno, il 1987! Lo scandalo della rivelazione di un network occulto, operato dalla CIA, che ha venduto armi all’Iran degli Ayatollah per finanziare gruppi paramilitari controrivoluzionari in Nicaragua, minaccia la credibilità del governo del presidente-attore Ronald Reagan. Dall’altra parte della cortina di ferro, il prestigio dell’Unione Sovietica vacilla inerme sotto le ripercussioni dell’esplosione, nell’aprile dell’anno precedente, del reattore RBMK 1000 della centrale nucleare di Chernobyl; ma anche grazie ad un aviatore amatoriale tedesco che, in cerca d’attenzione mediatica, nel maggio di questo pazzo 1987, viola indisturbato l’ultra-impenetrabile muro di difesa aerea sovietico spingendosi fino ad atterrare, incolume, sulla piazza Rossa, di fronte al Cremlino. Il mondo intero, inoltre, è devastato dal virus dell’immunodeficienza (HIV), il quale, apparso all’inizio del decennio, è diventato, per via della trasmissibilità attraverso rapporti sessuali ed ematici, motivo di rinnovate stigmatizzazioni di genere. Tant’è che subito dopo la visita nel settembre del 1987 del Papa Giovanni Paolo II a San Francisco, durante la quale il pontefice, secondo un copione creato ad arte, compie lo storico gesto di prendere in braccio un bambino “infetto”, il prefetto della Congregazione per la dottrina cattolica, Joseph Ratzinger, si affretta a rilasciare una lettera in cui etichetta l’omosessualità come “patologia oggettiva” e l’uso dei preservativi come “strumento di facilitazione del diavolo.”

Ma il 1987 è anche l’anno di “Platoon” di Oliver Stone, che si aggiudica quattro Academy Awards; dell’iconico “Bad” di Michael Jackson; del leggendario “Who’s That Girl Tour” di Madonna, a cui fa seguito un famoso video album dal titolo tricolore “Ciao Italia: Live in Italy”; e di un altrettanto teatrale discorso pronunciato a Berlino dal presidente americano Ronald Reagan, in cerca di riscatto dopo lo scandalo Iran-Contra: “President Gorbachev, tear down this wall; Presidente Gorbachev, tiri giù questo muro,” riferendosi all’infame muro che divideva allora la città simbolo della Guerra Fredda.

Il 1 gennaio 1987, però, le prime pagine dei giornali americani sono dedicate a tutt’altro che i festeggiamenti per lo storico ed emozionante anno a venire.

Siamo ancora nel 1986, mancano 11 giorni alla fine dell’anno e tre giovani, Michael Griffith, 23 anni, Cedric Sandaford, 36 anni, e Timothy Grimes, 20 anni, stanno camminando nei pressi di Howard Beach, una zona del Queens, New York, abitata per lo più da italo-americani. Si trovano di fronte alla New Park Pizzeria, stanno ordinando un trancio di pizza, quando un gruppo di bianchi li circonda. Partono battute infime, versacci derisori, insulti razzisti. Michael protesta, parte il linciaggio. I tre fuggono. Una macchina scura li insegue. Timothy riesce a fuggire, ma Cedric e Michael rimangono bloccati in un vicolo, fino a quando li raggiunge la folla. Michael si dimena, Cedric tenta di difendersi dopo che un mazza da baseball gli ha fracassato il bulbo oculare. Non è come un film, dove ogni frame può essere congelato all’infinito. Ogni istante significa sopravvivenza. Michael riesce a sottrarsi alla presa dei suoi avventori; scappa, attraversa il cavalcavia che si affaccia sulla tangenziale, una macchina blu scura lo investe, muore sul colpo. Il guidatore, Dominick Blum, bianco, si dà alla fuga. Un’ora dopo ritorna sulla scena dell’incidente. Giura di avere pensato d’avere tirato sotto un animale: per questo non si è fermato. I residenti della zona, accorsi incuriositi dalle sirene, ridono. Qualcuno fa il verso della scimmia. C’è chi dice che quella macchina blu scura alla cui guida si trovava Dominick “sembra proprio essere la stessa auto blu scura che inseguiva i tre n-”. Lo annota anche un poliziotto. Cedric, che non vede più nulla e gronda di sangue, viene condotto presso il locale 106° distretto di polizia. Si lamenta, chiede di essere portato all’ospedale, l’ufficiale di sevizio grugnisce: gli urla di stare zitto, non riesce a sentire la radiocronaca della partita di football americano tra i New York Giants ed i Green Bay Packers. Non è un’invenzione degli avvocati di Cedric; le imprecazioni del poliziotto vengono registrate dai circuiti di sorveglianza.

Colonna centrale della prima pagina del New York Times, data primo gennaio 1987: “23 black leaders and Koch – allora sindaco di New York – attack the pervasive racism.”

“Pervasive racism.” Il razzismo pervasivo. Dal Treccani, “pervasivo, che tende a diffondersi ovunque: odore; che pervade, che prende l’animo o la mente in modo completo: sentimento.”

Odore, sentimento. Qualcosa di biologico, qualcosa di affettivo, inesorabilmente umano. Una banale sottigliezza semantica che nasconde una questione di enorme rilevanza: è il razzismo pervasivo, una forza irresistibile che si insinua in maniera subdola ed inconscia? Oppure è sistemico, è l’espressione e lo strumento violento per l’attuazione di un piano di potere che basa la sua legittimazione sulla reiterazione di orribili e criminose logiche schiaviste e colonialiste del passato — e, da non sottovalutare, trova la scusante della sua aberrante dialettica in una vaga ed imprecisata irrazionalità della natura umana? Ma chi, allora, è colpevole di questa pervasiva irrazionalità? Chi la attua, chi la giustifica, o chi ne trae vantaggio e silenziosamente ne minimizza le conseguenze?

Il sindaco Koch è allibito. “New York non è il profondo sud,” dichiara esterrefatto in conferenza stampa. Assicura che giustizia sarà fatta, ma la polizia ed il procuratore John J. Santucci sostengono che non ci sono prove sostanziali. Portano Cedric, che, ricordate, ha perso la vista per le botte subite, di fronte a una fila di uomini bianchi, chiedendo di riconoscere gli assalitori. Il poveretto non vede, non riconoscerebbe neppure sua madre. Nessuno viene ancora arrestato.

È qui che sale alla ribalta della cronaca un uomo che rivoluzionerà la scena dell’attivismo newyorkese dei successivi trent’anni. Lo definiscono il Martin Luther King del Nord, ma del Dr. King non ha l’impeccabile pazienza e flemma, anche se ne ha assimilato la retorica ed il dono della parola evocatrice. Non ha neppure il fascino ed il carisma di Malcolm X, ma è cresciuto a New York, e della Grande Mela ha la sfrontatezza e modernità. È piuttosto grasso, indossa una colorata tuta da ginnastica, ed ha una capigliatura alla James Brown, in ricordo dei 10 anni passati come tour manager del padrino della soul music. Si chiama Alvin Sharpton, reverendo Al Sharpton, ed è lo stesso uomo che, 50 kg in meno, reciterà l’omelia al funerale di George Floyd, soffocato a morte da un poliziotto il 25 maggio 2020 a Minneapolis.

In quel primo gennaio del 1987, il sindaco Koch organizza una riunione con i leader delle associazioni per i diritti civili, i quali gli garantiscono sostegno nella lotta a questo razzismo “pervasivo” ed epidemico, nonostante il fallimento delle indagini sul caso Griffith. Sharpton denuncia la riunione come una “pagliacciata”. Koch ride, di fronte ai media gli affibbia il nomignolo di “Al Ciarlatano”.

Sharpton non è un ciarlatano, piuttosto uno che va dritto al dunque. Il razzismo non è un’epidemia, non casca dal nulla; è un sistema di preservazione del potere. Non sono razzisti solo i ragazzi bianchi che hanno assalito Michael, Cedric e Timothy. Razzisti sono i poliziotti giunti sulla scena dell’incidente che “dimenticano” di arrestare l’autista della vettura per omissione di soccorso; razzista è il poliziotto che lascia Cedric, sanguinante, ad aspettare nella sala d’attesa del distretto di polizia, perché deve finire di ascoltare la partita alla radio. Razzista è la folla che chiama “n-“ i manifestanti accorsi da tutta New York per protestare. Razzista è l’amministrazione della Grande Mela ed il procuratore Santucci nel momento in cui balbettano assurde scusanti per giustificare il mancato arresto dei colpevoli. Che cosa dire poi di Benjamin Ward, il primo capo della polizia di New York afro-americano, eletto da Koch giusto un paio d’anni prima proprio a seguito dell’uccisione di un altro nero, l’artista Michael Stewart, 25 anni, massacrato mentre in custodia della polizia? “Ward is our color, but he is not our kind,” risponde Sharpton. Ha il nostro colore, ma non è del nostro genere. Ognuno di questi personaggi è un attore nello schema di preservazione del potere bianco. Chiunque partecipi, consapevolmente od inconsapevolmente, all’affermazione di un potere basato sul pregiudizio razziale, è razzista. Nessuno escluso.

  1. NERO CONTRO BIANCO, BIANCO CONTRO NERO

Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. Boston Celtics contro Detroit Pistons. Gara sette della finale della East Conference, l’ultimo gradino prima della sfida finale per aggiudicarsi il titolo di World Champions. La partita procede punto a punto. Alla fine del primo quarto Detroit è in vantaggio di 7 punti, a metà tempo di uno solo, 56 a 55; alla fine del terzo quarto, le parti si invertono, Boston è avanti di uno. Isiah Thomas, la star di Detroit, ce la mette tutta, ma i Celtics hanno dalla loro esperienza, mentalità, ed una squadra ricca di eccellenti talenti, tra cui un biondo dagli occhi azzurri che in questo momento sembra imbattibile: Larry Bird, ribattezzato, da queste parti, “the great white hope”, la grande speranza bianca.

Bird non corrisponde affatto all’immagine che i media ed i tifosi gli affibbiano. Fuori dal campo non parla molto, quasi per nulla. Viene da una famiglia poverissima, ed il padre, un reduce della guerra in Corea, si è suicidato quando Larry aveva 18 anni.

Fin da ragazzino è un giocatore straordinario. Appena maggiorenne, il leggendario allenatore dell’Indiana University Bobby Knight lo recluta per la sua squadra di basket con una borsa studi completa. Nessuno, nella famiglia Bird, era mai andato al college. Ventiquattro giorni dopo Larry fugge dal campus e ritorna a casa. Trova lavoro come tagliaerba, poi come netturbino. L’ambiente del college lo disturba. I bianchi dell’università non sanno giocare a basket, per lo meno non alla pallacanestro che piace a lui. Sono educati, si lamentano per ogni contatto, non hanno la grinta degli afro-americani. E l’allenatore, Knight, non è compatibile con l’introverso Larry. Per Knight lo sport è disciplina: per Larry il basket è l’unico dannato modo per togliersi dalla testa l’immagine del volto di suo padre sfigurato dal proiettile con cui si è tolto la vita. Il basket che ama è quello che gioca al campetto nel dopolavoro con un gruppo di colleghi neri di una decina di anni più grandi. Con loro condivide la rabbia interiore di un’esistenza in cui nulla va per il verso giusto.

Sul campo, il timido Larry è una parlantina continua, una provocazione dopo l’altra. È cattiveria e spietatezza allo stato puro. Un maestro nell’arte del trash talking, ovvero insultare l’avversario fino a quando questi non perde la pazienza… e la concentrazione. Il tizio di fronte si prepara per il tiro, Larry gli ricorda che non ha fatto ancora un canestro, quello s’innervosisce, sbaglia, la palla finisce nelle sue mani, che, boom, la infila di nuovo. Un classico che si ripeterà negli anni a venire.

Alla fine, grazie all’insistenza della madre, finisce per accettare l’offerta dei Sycamores dell’Indiana State University, una squadra universitaria minore che non ha mai vinto nulla. Con Larry, i Sycamores vincono 33 partite di fila ed approdano alla finale nazionale. Ad attenderli, in quella che ancora oggi è la partita di basket universitaria con il più alto sharing televisivo di sempre, i Michigan State Spartans di un altro formidabile giocatore, destinato a condividere con Bird la platea dell’Olimpo del basket per il decennio successivo: Earvin Magic Johnson. È la sfida del decennio: questi due, benché sbarbati ventenni che giocano in una lega amatoriale – i giocatori universitari non possono essere pagati negli Stati Uniti -, hanno già accumulato più copertine ed interviste di tutte le star professioniste di tutti gli altri sport messi insieme. Al di là del talento speciale, c’è un motivo ben preciso. Quel 26 marzo del 1979 l’America crede di potersi riappacificare con i soprusi razziali perpetrati per oltre tre secoli spostando la contesa sui campi da basket: bianco contro nero, Larry Bird versus Magic Johnson. Per la cronaca, la prima va a Magic, che con i suoi Spartans domina la finale per 75 a 64.

Nel giugno del 2019 l’attore Samuel Jackson, introducendo sul palco Larry Bird e Magic Johnson per l’assegnazione del prestigioso Life Achievement Award, equamente attribuito ad entrambi, chiuderà il discorso con queste parole: “Prima di questi due, il basket era un bellissimo sport; con loro è diventato una religione.”

Niente di più vero. Quando Larry ed Earvin entrano nel mondo professionistico, la National Basketball Association (NBA) è sull’orlo della bancarotta. Il bilancio della maggior parte delle squadre è in rosso, si vocifera che negli spogliatoi giri tanta cocaina, le tribune sono mezze vuote, e gli sponsor non se la sentono di investire in uno sport giocato prevalentemente da afroamericani.

Bird e Magic, che sono stati ingaggiati da due team agli estremi opposti del continente, rispettivamente i Boston Celtics ed i Los Angeles Lakers, dominano la competizione, aggiudicandosi quasi ininterrottamente durante la decade successiva tutti i maggiori trofei individuali e di squadra. In questi anni Ottanta, sono lo yin e yang della NBA, ma anche dello sport mondiale; la loro rivalità diventa uno spettacolo mediatico senza precedenti, che, velato da un fasullo spirito di competizione decubertiano, va dritto al nocciolo della questione razziale. La Converse ne fa addirittura uno spot pubblicitario: una limousine arriva nella piccola cittadina di French Lick, cala il finestrino posteriore ed appare il volto sorridente di Magic che sfida Bird e le sue Converse Weapon nere contro le nuove Converse Weapon giallo-viola del giocatore dei Lakers. I colori si confondono, ma il significato rimane sempre lo stesso: nero contro bianco, bianco contro nero. In realtà lo spot diventa l’occasione per un’incredibile amicizia, ma questo è il backstage, di cui nessuno è a conoscenza, perché, sul campo, i due continuano a fare finta di odiarsi. E proprio questa rivalità, nata sul filone narrativo della tensione razziale, anche in Europa sempre più preponderante a seguito dei nuovi flussi migratori dal continente africano, diventa il marchio d’esportazione della NBA, che, in pochi anni, da lega sportiva nazionale, si trasforma in circo mediatico globale con introiti multimiliardari. Gadget, felpe e giubbetti con i loghi dei Celtics e dei Lakers invadono i negozi sportivi di tutto il mondo, dall’Asia all’Europa. Vent’anni prima del digitale satellitare, la NBA è già uno show trasmesso in diretta sui canali televisivi di tutto il pianeta. Il volto rotondo e sorridente di Magic contro quello tagliente e serioso di Bird contagiano anche l’Italia, dove la pallacanestro ha più acchito che negli altri Paesi dell’Europa Occidentale. L’Italia, infatti, è la destinazione preferita di alcuni ottimi ex giocatori NBA che decidono di concludere qui la propria carriera, incentivati da un discreto livello di competizione e dalla presenza di un eccentrico e fenomenale allenatore con un iconico accento americano che la notte si ricicla come commentatore televisivo delle partite NBA trasmesse sui nuovi canali televisivi del gruppo Mediaset: “Mamma, butta la pasta, qui il vostro Dan Peterson da…” E davanti alla televisione, in una calda ed afosa Reggio Calabria di quest’estate del 1987, c’è anche un bambino, originario di Philadelphia, giunto da un paio d’anni al seguito del padre, che dopo una mediocre carriera nella NBA, ha deciso di provare l’avventura cestista italiana. Il nome di questo bambino è Kobe Bryant; il suo destino è quello di continuare l’eredità di Magic ai Los Angeles Lakers e diventare il volto più noto della NBA nel millennio a venire.

Essere un bambino italiano, bianco, fanatico di basket, negli anni ottanta, è stata un’esperienza confusa. Non posso nemmeno immaginare ciò che abbia significato per un bambino afro-americano in Italia.

Tutti i miei eroi erano neri. Sì, certo, c’erano alcuni buoni giocatori bianchi, ma non erano dominanti come gli afro-americani. Poi c’era Bird, ma, ovviamente, i mie amici tifavano i Celtics e Bird, quindi io mi sentivo in dovere di tifare i Lakers e Magic. Poi, di Magic, mi affascinavano le giocate brillanti, la capacità di passare la palla negli spazi più stretti, l’intelligenza geniale. Tuttavia, erano anche gli anni in cui alle scritte “via i terroni”, che coprivano i muri lungo la strada verso la scuola media, si aggiungevano le parole “via i n-”. E quando chiedevo chi fossero i n-, la risposta era “bestie che vengono da sotto la Terronia.”

Erano questi “n-” gli stessi che giocavano allo sport che più amavo? Perché, a guardarli, mi sembravano tutti uguali. Tra l’altro, uno di questi, Hakeem Olajuwon, la star degli Houston Rockets, veniva proprio da quei territori “sotto la Terronia”, lo avevo letto su Superbasket. Quindi, se erano uguali, perché tutto questo odio, quando, nell’unica cosa che contava in quel momento della mia vita, ovvero giocare a pallacanestro, erano di gran lunga superiori a qualunque bianco?

Ero un bambino, mentirei se sostenessi che già allora avevo una coscienza antirazzista. Anche perché sui quotidiani ed al telegiornale non si accennava affatto ai linciaggi, ai pestaggi, al lancio nel vuoto dalla finestra di una palazzina in costruzione del giovane Fouad Khaimarouni, alle fiamme che avevano bruciato vivo Ahmed Ali Ghana, colpevole di sporcare con la sua pelle il marciapiede dove dormiva; sebbene di padre italiano, poche righe pure per Giacomo Valent, assassinato da due compagni di classe con 63 coltellate. Piuttosto, la cronaca era piena di questi energumeni assassini, borseggiatori e spacciatori venuti dal continente nero per derubare il bravo ed onesto cittadino italiano. In Italia, mi avevano insegnato, “il razzismo non esiste; o, se esiste, è un fenomeno superficiale, passeggero, non ha radici profonde come negli Stati Uniti.”

Ciò che mi lasciava perplesso, e non capivo, era perché, allora, Magic che, si sapeva, era piuttosto lento, ma compensava con eccezionale lucidità tattica, incredibile visione di gioco ed intelligenza sopraffina, veniva descritto nei nostri quotidiani come un animale selvaggio ed irrazionale, mentre Bird, provocatore, testa calda e noto per la sua fisicalità, diventava un fine calcolatore? Forse i giornalisti sportivi italiani non capivano nulla di basket?

Da “la Repubblica”, 28 giugno 1987, un giorno prima della sfida tra i Detroit Pistons ed i Boston Celtics: “Larry Bird e Magic Johnson sono i Coppi e Bartali del basket professionistico americano. Simboleggiano due differenti stili di gioco, due personalità diverse, due modi di essere campionissimi. Dividono a metà i tifosi, tra chi si identifica nel calcolo razionale, nella perfezione computerizzata di Bird, e chi preferisce lo splendore irrazionale, la magia funambolica (“Il mio gioco è selvaggio e pazzo,” dice lui) di Johnson.”

[parte 1 di 4 – segue] Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

Inno a Lagioia ( seconda parte )

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di

effeffe

Qui la prima parte.

Ne La città dei vivi, la questione dell’identità sociale, ovvero voler essere come ci siamo costruiti agli occhi del mondo, non mi sembra l’unico paradigma in grado di stabilire una genealogia di quel terribile fatto di cronaca.

I fatti di cronaca

Un tema secondo me interessante e per nulla banale riguarda il sempre maggiore interesse del pubblico dei lettori e degli scrittori verso i fatti di cronaca. In francese si definiscono faits divers e sappiamo  da un’inchiesta pubblicata su Le Monde che già qualche anno fa lo spazio dedicato a questo tipo d’informazione nei telegiornali era aumentata del 73 % » .

Roland Barthes vi ha dedicato un saggio molto interessante nei suoi Essais critiques, formulando alcune possibili risposte a quella strana curiosità morbosa che ci spinge ad attardarci sulle pagine di cronaca come quando si rallenta in autostrada davanti a una scena d’incidente. Scrive Barthes:

L’assassinio politico è dunque sempre, per definizione, un’informazione parziale; il fatto di cronaca, al contrario, è una informazione totale, o più precisamente, immanente; contiene in sé tutto il suo sapere : non c’è bisogno di sapere nulla del mondo per consumare un fatto di cronaca; non rimanda formalmente a nient’altro che a se stesso; naturalmente, il suo contenuto non è estraneo al mondo: disastri, omicidi, rapimenti, aggressioni, incidenti, furti, stranezze, tutto rimanda  all’uomo, alla sua storia, alla sua alienazione, alle sue fantasie, ai suoi sogni , alle sue paure: un’ ideologia e una psicoanalisi dei fatti di cronaca sono possibili, ma qui si tratta di  un mondo  la cui conoscenza non può essere che intellettuale, analitica, elaborata a un grado secondo da colui che parla del fatto di cronaca, non per  quello che lo consuma; a livello della lettura, tutto è dato in una notizia; le circostanze, le cause, il passato, l’esito; senza durata e senza contesto, costituisce un essere immediato, totale, che non rimanda, almeno formalmente, a nulla d’ implicito; è in questo  che si apparenta al racconto o alla favola, piuttosto che al romanzo. È la sua immanenza che definisce il fatto di cronaca.

Qualche giorno fa, parlando con un’amica che fa una tesi sulla storia del genere giallo in Italia, a un certo punto, un po’ scherzando un po’ no, le ho detto che tutte le grandi e medie case editrici coinvolte nel successo del noir avrebbero dovuto versare un obolo alle vittime dei grandi fatti di cronaca italiana del decennio che va dalla fine degli anni novanta, a cominciare dal caso di Annamaria Franzoni passando per Erba e Novi Ligure fino ai nostri giorni. L’idea che mi sono fatto e che un giorno mi piacerebbe approfondire è infatti che l’esplosione del genere in Italia deve in parte la propria fortuna ai milioni di spettatori di quelle vicende che non trovando una logica in quei fatti, nemmeno alla fine degli iter processuali, hanno dato fuoco alle polveri rifugiandosi nella narrativa per soddisfare la propria sete di verità e razionalità, trovare un ordine al caos.

Per quanto riguarda il testo di Roland Barthes mi concentrerei invece sull’ultimo passaggio per chiedermi: La città dei vivi, di Nicola Lagioia va letto come un romanzo? A differenza di quanto è stato scritto e detto dell’affiliazione di quest’opera a due grandi prove romanesque, A sangue freddo di Truman Capote e L’adversaire di Emmanuel Carrére, direi che invece sia più giusto inserirlo in quella corrente inaugurata da Gomorra e infelicemente raccontata dai Wu-ming del New Italian Epic. Dico infelicemente perché se il paradigma usato dal collettivo bolognese degli Oggetti narrativi non identificati (anche chiamati UNO: Unidentified Narrative Objects) mi era sembrato allora e ancora oggi un’intuizione piuttosto “felice” e preziosa, dall’altra trovai poco esaustiva la catalogazione delle opere proposte, come del resto Carla Benedetti aveva già fatto notare con un bellissimo articolo uscito sull’ Espresso e in versione integrale su Primo amore.

La città dei vivi, a mio avviso risponde ad ognuna delle qualità evocate dal pamphlet dei Wu-Ming, con un elemento in più, secondo me, legato essenzialmente alla mutazione del paesaggio generale avvenuta in quest’ultimo decennio e principalmente del mondo dei social.

Del resto, in una sorta di quasi decalogo (undici raccomandazioni) che in una lettera ai genitori Marco Prato scrive prima del tentativo di suicidio, leggiamo al punto 6:

Buttate il mio telefono e distruggetelo insieme ai 2 computer. Nascondono i miei lati brutti.

A differenza delle intercettazioni, articoli di giornale, dichiarazioni, sentenze, la parte del leone, seppure da tastiera, nella ricerca delle fonti, qui la giocano gli sms, i thread su facebook, tutto quel materiale immateriale che definisce oggi quello che siamo e soprattutto quello che non vorremmo essere. Ecco che il motore di tutto il libro, la ricerca della verità di una vicenda che sfugge al nesso di causalità centrale in un delitto, ovvero il suo movente, gira a vuoto creando un rumore di fondo assordante. Ripercorrendo le pagine di una narrazione sapientemente costruita, nella successione di coro e protagonisti di quella triste vicenda ho ripensato a un altro efferato delitto, quello di Marta Russo del 1997, di fatto rimasto sospeso alle imprecise sentenze, noto alle cronache come Omicidio della Sapienza.

Ad accomunare i due “casi”, l’opacità del movente, “futili motivi”, e il processo mediatico intentato dalla pubblica opinione. Nei due casi gli assassini erano figli di borghesi, nel secondo caso con l’aggravante di essere degli intellettuali, e le vittime persone semplici. “Un povero ragazzo ucciso barbaramente da due porci schifosi assassini nullafacenti figli di papà. Commento facebook“.

Les fouilles de Rome

Il PM incaricato del caso seguito da Lagioia si chiama Scavo. Gli scavi in francese sono les fouilles. Fouiller significa rovistare tra detriti per trovare monili, i resti di una civiltà, le tracce della storia, rovine significative. Roma è un cantiere permanente, un pozzo in cui tutto sprofonda, sembra suggerirci Nicola Lagioia. Scrive l’autore a un certo punto, “la gente rovistava nei cassonetti” mettendo in relazione tre azioni distinte dello stesso corpo sociale, guidate dallo stesso istinto, sapere: la verità, la storia e cosa si mangerà se qualcosa è rimasto.

Proprio in questa “obliquità” della narrazione di Lagioia, per riprendere una delle categorie del NIE, (New Italian Epic), tra le varie vicende e destini evocati, ne emerge una Capitale ormai ridotta al suo teatro più sanguinoso, il Colosseo dominato da topi e gabbiani, e dove i barbari sono i provinciali, come l’autore, me e anche te, caro lettore.

La crudelà del milieu frequentato da Manuel Foffo e  Marco Prato, raccontata  da Lagioia è spaventosa al punto di farci pensare che i veri mostri sono qui, fuori come quando leggiamo i dialoghi che l’autore riesce a scambiare con quei sedicenti amici, provinciali insediati a Roma e al libro paga di genitori rimasti al “paesiello”.

Ecco perché quando ritroviamo l’umanità del colonnello Donnarumma, che come un Virgilio guida l’autore nell’inferno dei faits divers, tiriamo un sospiro di sollievo per degli scampoli di controcanto al rumore di fondo, al coro ( il terzo capitolo porta proprio questo titolo) di una tragedia dove non c’è più tragico. Un altro momento particolarmente forte è l’incontro tra Manuel e Roberto suo fratello perché sembra dirci che quello è il momento di tregua che il diabolico, il luciferino, concede agli umani. Come scrive Lagioia:

l’omicidio getta su carnefice e vittima la sua luce ed è sempre una luce parziale, una luce perversa, l’omicidio è il male e il male è narratore della storia.

Nulla sembra portarci fuori dal mistero dell’animo umano se non il mistero stesso? ci chiediamo allora con Nicola Lagioia.

Per tentare una risposta a tale interrogativo vorrei concludere questa mia lettura con un ritorno al punto da cui eravamo partiti, ovvero dal bellissimo saggio Loin de moi, Etude sur l’identité di Clément Rosset. Saggio che, vale la pena ricordarlo, si conclude con un vero e proprio inno alla Gioia come anticipato nel titolo di queste note.

A un certo punto Rosset ci racconta di come il conduttore di una trasmissione su France Musique dedicata al grande compositore Maurice Ravel si raccomandasse di non illudersi di rivelare il segreto dell’autore del Bolero, perché “il n’avait d’autre secret que le secret de son génie”. Per spiegare meglio la cosa s’era servito di un aneddoto che un amico gli aveva raccontato. Alla morte del padre tipografo, nel fare l’inventario dei beni presenti, si imbatté su una busta corposa, con su scritto a mano dal padre: si prega di non aprire. Per quanto morisse dalla curiosità di controllare cosa vi fosse all’interno, per molti anni era riuscito a rispettare quella che ai suoi occhi risultava essere la volontà paterna fino al giorno in cui, cedendo alla tentazione aveva aperto la busta scoprendo che all’interno v’erano decine di etichette con la dicitura: si prega di non aprire.

 

Legal Alien, postcards #albania

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di Julian Zhara

#covid #2020

Stanno morendo uno dopo l’altro; / buttare la terra sopra le bare / sta diventando un gesto abituale / come buttare il sale sul cibo in cottura. Prima strofa della poesia Si affrettano a morire, di Luljeta Lleshanaku.

#albania #shqipëria

Chiamare qualcosa è darle un posto nel mondo. Chiamare Albania uno stato che si definisce Shqipëria è provocarle una nevrosi: la percezione di sé – anche linguistica – vs. la percezione che il mondo ne ha. Nessun altro paese si riferisce all’Albania come l’Albania si riferisce a se stessa, col nome che evoca l’aquila – shqipe in albanese, significa proprio quello: aquila. Di mio, ammetto che non ho mai visto un’aquila in Albania. Forse perché, a pensarci adesso, mentre stendo queste righe, guardo poco il cielo. Il corpo si espone come cabaret dell’inconscio.

#paradiselost

Un paradiso abitato da diavoli – una frase che mira a descrivere altro (chi vuole, può googlare per scoprirne l’origine) ma che può calzare perfettamente il rapporto paesaggio/uomo in Albania.
I diavoli poi, come ben sappiamo, non sono entità inattive. Agiscono – e i diavoli albanesi, i dreq, gli shejtàn, traducono il paesaggio circostante, un testo in lingua originale, con un alfabeto di cemento e una lingua dove l’armonia, l’eleganza, non si trova a proprio agio. Il mondotesto originale, quel paesaggio albanese che senza nessuna remora iperbolica si può definire paradiso, riporta le pupille allo stato di Adamo. L’incanto è un aggiornamento dei filtri fotografici.

#selfie #selfportrait #unmesedopo

Un mese dopo: il mio albanese si è raffinato, inciampa meno – meno goffo di quando arrivato, zigzaga comunque per arrivare a dire. Nei discorsi con intellettuali e scrittori, discorsi eseguiti in albanese, discorsi che appartengono alla lingua letteraria, e che per me sono paesaggio linguistico italiano, cerco di orientarmi accendendo una luce tricolore dove il buio diventa rossonero. Come un atleta abituato alla maratona, devo reiventarmi nella corsa ad ostacoli, nelle continue barriere architettoniche: dall’atletica al parkour.

#passato #zana #nostalgia

Il passato torna a farmi visita spesso, senza avvisare. Apro e lo faccio sedere. Accompagnato dal bambino che ero. Vado in giro sempre con un grumo di caramelle Zana; se vedo il bambino che ero, gliene offro un paio. Sono ormai introvabili – ho scoperto solo un posto a Durazzo che le vende ancora. Quando ero piccolo le scartavamo, mangiavamo l’interno e usavamo la pellicola rossa come lente per guardare gli altri, o come segnalibri. A casa erano sempre nello scaffale più alto, così non le potevamo raggiungere. Quando bussa il passato, lo accolgo come si accoglievano un tempo gli ospiti: caramelle Zana e liquore di garofano. Likër karafili. Il raki artigianale lo lascio a quando il passato arriva con sconforto, nostalgia. La nostalgia è una forma di lotta – capisco; il rimpianto: un tribunale. Avvocato d’accusa, avvocato difensore, giudice: sempre un pronome, prima persona singolare: io (in minuscolo). Ovunque io vada, non sono altro che / un pezzo di paesaggio del posto a cui appartengo – scriveva Fatos Arapi in Addio.

#mercatodidurazzo #visitalbania

Il mercato di Durazzo è l’Oriente esotico che si sviluppa inaspettato, senza considerare l’occhio del turista. Non si piega alla standardizzazione – esiste nonostante. Fuori dall’immaginario da cartolina, pullula di vitalità – si può dire: esagerata, di urla da una parte all’altra della strada, battute, sorrisi, prezzi contrattati, slogan buffi per attirare la clientela. Visitato dalla gioia, è quanto immaginiamo dell’Oriente dei bazar (in albanese: pazar). Il mercato di Durazzo, quando sei triste, ti risveglia il buonumore, come un quadro di Pontormo dopo le nature morte di Morandi. Dio è il seme di papavero più piccolo al mondo / scoppia di grandezza, scriveva Zagajewski. E Dio qua lo si trova nelle mani di una signora che fila la lana, nel sorriso di un’anziana che vende pannocchie sul ciglio di una strada, nel ciuffo di ҫaj mali (thé di montagna albanese), nel pomodoro cuore di bue aperto a metà, nelle olive di Berat, formaggio di Argirocastro, generosità delle portate.

#italiano #anninovanta #letteraturaitaliana

Negli anni Novanta, l’Albania ha sognato un sogno collettivo, decifrato negli schermi (ekrani) televisivi che trasmettevano film in italiano, cartoni in italiano, programmi tv in italiano. Gli albanesi tifano anche per una squadra di calcio italiana. Chi ha più di trent’anni, l’italiano per lo meno lo capisce; di solito lo mastica – anche abbastanza bene. I primi insegnanti di italiano di chi ha oggi tra i trenta e i quarant’anni, sono stati piccoli problemi di cuore, Sailor Moon, Holly & Benji, è quasi magia Johnny; Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo. Celentano accompagna, con le sue hit, ancora molti pranzi e quasi quotidianamente si sente da qualche parte che la felicità è un bicchiere di vino, con un panino – la felicità. Di contro, la letteratura italiana degli ultimi quarant’anni è quasi totalmente assente, nei suoi apici stilistici. Si traduce Moravia. Manganelli, Parise, Mari, Busi, Trevisan, Siti ecc: lost in translation. Dell’italiano, in Albania, sopravvive lo scarto televisivo, l’assenza della complessità dialettale; il passo, la marcia – non la danza.

#berat #visitalbania

Berat è un Argo dai mille occhi a forma di finestra. Patrimonio Unesco dal 2008 e città museo dal 1961. L’azione della storia, nella sua sedimentazione secolare, millenaria, provoca delle leggere vertigini al visitatore. Oggi conserva lo stesso fascino di un labirinto o del ritrovamento di un mammifero preistorico, che si pensava estinto. La strada per arrivare da Lushnje a Berat è una costellazione di ulivi e infinite sfumature di verde, che voglio immaginare – nel dialetto del posto – abbiano tutte un nome, come il bianco per gli eschimesi. Se le campagne circostanti rilassano gli occhi, l’arrivo in città è un sussulto. Non ci si aspetta tanta bellezza e quando la bellezza arriva così, all’improvviso, può sembrare arrogante. Parcheggio nella parte nuova e tornando a piedi, inizio a familiarizzare con questa creatura-città. Capisco che no, Berat non possiede una bellezza arrogante; semplicemente si è impreparati ad accoglierla. Dirompente sì, ma con grazia, ironia. Pare dirti: non pensavi esistessi, eh? E si gira. La si misura coi piedi, ci si inoltra per le viuzze, la sensazione più prossima che riconosco è la prima fase dell’ebbrezza allegra. Poi gioia. Berat si visita con gioia. Di Berat ci si innamora come un adolescente nelle prime vacanze da solo.

#berat #patrimoniounesco #igersberat #comevenezia           

Rispetto ad altri centri storici (Argirocastro, ad esempio) Berat si può fruire da più prospettive. Entrando nelle viuzze storiche, col lastricato di pietra, dove le finestre famose si vedono da vicino; dall’alto: la vista dalla collina o dal castello ti offre una panoramica più completa; lungo il fiume, che poi è quanto di Berat si vede di più in foto, google immagini, o cartoline, le due facciate con le famose mille finestre o finestre una sull’altra.

*

Come Venezia si può fruire perdendosi tra le calli o sedendosi alle zattere, alla Giudecca, in Riva degli Schiavoni, dove la scenografia dei palazzi di fronte o a lato – pare di essere in un teatro magico, irreale.

#berat #zhara

Mentre attraverso il ponte di Gorica, ripenso a un ragazzo, poco più che adolescente, figlio di un sarto e nipote di un prete ortodosso, che nel ’43 lascia questa cittadina e parte per le montagne, col sogno di liberare l’Albania dagli oppressori. In mezzo alle montagne conosce una ragazzina minuta, bellissima, castana e occhi azzurri, che dopo pochi anni sposa, e con cui fa cinque figli. Fine della guerra, la carriera militare, si stabilizza a Durazzo, conduce una vita felice, una morte serena, non senza essere diventato il campione di backgammon, tra i pensionati nel quartiere. Quel ragazzo è mio nonno, Vangjel (Evangelio) Zhara, partigiano, marito di una partigiana. Disfarsi del nome: accantonare Julian per Zhara.

Radiodays: intervista a Gianni Maroccolo

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Photo © Marco Olivotto
Photo © Marco Olivotto

Suoni di frontiera scorrono lungo antichi canali

in conversazione con Gianni Maroccolo

di Mirco Salvadori

 

Il temibile grand tour nel passato: quando “l’eroe della nuova onda” tutt’ora combattente, viene a contatto con il microfono del giornalista di turno che inizia a vagare all’infinito nel suo trascorso artistico, quasi a dover ancora e nuovamente sottolineare una tenacia che, nel caso di Marok, non ha più bisogno di essere documentata.

 

Memorie – Vincenzo Consolo

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Memoria, memorie

Introduzione di Claudio Masetta Milone

al libro “Memorie” di Vincenzo Consolo (Dante & Descartes, 2020)

Avrei potuto, o potrei, giunto alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile, piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere.” (V. Consolo, “Memorie”, da La mia isola è Las Vegas, Mondadori, Milano, 2012, pag.)

 

La memoria. Le memorie. Patrimonio del singolo e della comunità, presupposti per l’edificazione di un’identità collettiva.

Che la memoria sia sempre stata centrale nella tessitura del discorso letterario di Vincenzo Consolo lo testimonia l’ansia di alimentarla che il maestro manifestava ogni volta che scendeva a Sant’Agata da Milano.

Memoria significava per lui fermarsi ad ascoltare. Ma ad ascoltare che cosa? La lingua delle origini, prima di tutto, quel dialetto santagatese che lui non praticava, fatta eccezione per qualche parola che gli sfuggiva di bocca soprattutto quando era arrabbiato. Quel dialetto, quel lessico familiare, quei suoni antichi facevano riemergere in lui il desiderio inarrestabile di ricongiungersi al paese abbandonato anni prima per migrare al nord, gli rendevano indispensabile informarsi su tutti gli accadimenti intercorsi tra le sue visite. Chiedeva di sapere, Vincenzo, di sapere della gente del borgo e delle sue vicissitudini, delle contrade vicine, della corona dei Nebrodi che abbraccia Sant’Agata e la divide dalla Sicilia dell’entroterra e poi dalla Sicilia ribollente delle zolfare agrigentine. Ma sapeva disegnare un arco ben più ampio di questo: da Sant’Agata ai Nebrodi, alla Sicilia tutta, all’Italia nella sua dimensione mediterranea, al mondo.

Chiedeva informazioni, Vincenzo. E aveva un cruccio, che riproponeva tutte le volte che domandava del paese: ha riaperto la libreria? c’è ancora la biblioteca?

Se si fa memoria non si può prescindere dalla letteratura, dalla narrazione, e libreria e biblioteca sono il cuore di questa dimensione. Fare memoria significa essenzialmente narrare e il maestro seduto ad ascoltare i racconti di Sant’Agata ne è l’immagine emblematica. L’ascolto dei fatti santagatesi era lo scoglio da cui, ogni volta, la narrazione spiccava il volo, nello spazio e nel tempo. Da Sant’Agata alla Sicilia tutta, all’Italia, al Mediterraneo e oltre, si diceva. Ma anche dal presente al passato – o sarebbe meglio dire ai passati – dell’isola. L’esercizio della memoria come narrazione, infatti, non poteva prescindere per un siciliano dal ripercorrere l’intreccio di fili etnici e culturali che in Sicilia si sono magnificamente aggrovigliati. Il filo greco, però, nella dimensione narrativa e culturale di Vincenzo Consolo, risultava dominante. “C’è più arte greca in Sicilia che in Grecia!”, amava ricordare.

Sì, amava parlare dei Greci, il maestro. E della cultura mediterranea che, diceva, si è sempre sviluppata sotto il segno dell’accoglienza. I fatti di cronaca odierna, l’innalzamento di barriere laddove un tempo c’erano spiagge d’approdo di innumerevoli naufraghi che, una volta a terra, nella sua Sicilia, potevano dirsi sicuri di trovare accoglienza, lo avrebbero fatto urlare di sdegno e vergogna.

Amava cercare i segni di questa antichissima tradizione di accoglienza siciliana. Si entusiasmava di fronte alle prove dell’avvenuta integrazione, su suolo siciliano, di culture e tradizioni diverse.

Una di queste storie era quella della Madonna di Tindari. Spiaggiata dalle onde del mare sulle coste messinesi, custodita dentro una scatola di legno, è stata accolta, – lei, Madonna nera – dai fedeli dell’isola, che le hanno innalzato un santuario. Una Madonna nera, accolta e venerata nel cuore del Mediterraneo. Aveva una collezione di santi neri, Vincenzo. Amava quella collezione come simbolo di felice integrazione.

Fu profetico su questi temi: aveva ampiamente previsto la deriva d’odio a cui stiamo assistendo. Presagiva un nuovo innalzarsi di muri, laddove c’erano un tempo quelle spiagge d’approdo e d’accoglienza per i naufraghi scampati alla furia del Mediterraneo.

La memoria, infine, la memoria attraverso la narrazione era per lui fatto da condividere. In modo particolare con i giovani, a cui si rivolgeva, verso i quali amava riversare il racconto della Sicilia, della storia, ma soprattutto della letteratura.

Avrei potuto riempire pagine e pagine di ricordi, scrive il maestro, e comporre così una mia personale recherche. Lo ha fatto, direi: le tracce di questa composizione sono disseminate lungo tutto il suo percorso narrativo.


Claudio Masetta Milone  (Sant’Agata di Militello 1957). Ha collaborato con Vincenzo Consolo e con la moglie Caterina Pilenga (a cui era legato da affettuosa amicizia). È curatore del sito VincenzoConsolo.it e della pagina facebook dedicata allo scrittore siciliano. È socio fondatore dell’Associazione amici di Vincenzo Consolo. Ha curato le seguenti pubblicazioni: la prima raccolta di poesie di Vincenzo Consolo Accordi  (Zuccarello Editore 2015),  Vincenzo Consolo Una poesia (Edizioni Pulcino Elefante 2020), Memorie  Storie in trentaduesimo (Libreria Dante & Descartes 2020).  Nel 2012 ha vinto la Prima edizione del concorso nazionale “Doppio d’autore -La poesia incontra l’arte” (Associazione culturale The artship).

Settembre 1943 e altre poesie

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di Umberto Piersanti
(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo tre poesie da Campi d’ostinato amore di Umberto Piersanti, La nave di Teseo 2020)

***

Settembre 1943

era ieri l’otto settembre,
sotto lo stesso cielo
di questo mese azzurro
un tenente cammina
per lo Spineto,
la ragazza accanto,
tenera la sua veste
sparsa di fiori
e la grande cintura
stretta alla vita?
e nuotano i ragazzi
alla Borzaga
in quella gorga limpida
e assassina?
cerchiano le rondini
come da sempre
la verde cupola
del Duomo?

e tu a tre anni
guardi i settembrini
o solo t’acqueti
e perdi nello sguardo
del padre che t’abbraccia
senza la divisa?

dalla marina salgono
i signori del ferro
e del fuoco
con gli elmi calati,
tu fuori della Storia
nell’abbraccio del padre
solo e felice

settembre 2017

***

Febbraio 1941

forse nevicava quel giorno
come adesso,
stroncava i gialli
impazienti favagelli
e nevicava forte nei Balcani
dove il padre soldato
nel suo lungo cappotto si rannicchia,
autarchico e gelato,
gelata la discesa
giù per il Monte,
lì passa la tua lettiga
madre,
in quattro la sorreggono
per l’ospedale

tu scalci,
hai fretta
d’uscire in mezzo al gelo,
sai che la vita
è oltre quel tepore,
altro non sai
e altro non ricordi,
inquieto come i favagelli
che la neve cela
dentro il bianco

e la sorella grande
col gelo della sciarpa
e sulla bocca
segue quella lettiga
all’ospedale,
l’altra prepara
la minestra con dentro
il pane,
la famiglia è di cinque
il numero più giusto,
la madre
ed anche il padre
hanno quei nomi immensi (1)
del Vangelo

dalla bianca pineta
i corvi neri
scendono alle torri
che il bianco cerchia,
un aereo vola
così lontano,
lontano com’è ancora
la guerra in quelle ore

scende un soldato piano
dalle Cesane,
ha governato le bestie
la sera prima
e quell’acqua l’attende
sconfinata-appena
s’intravede e fa paura-
dove la morte piomba
da sopra o dal fondo,
e sabbia e fuoco
sono là
se arriva

tu non sai
le vicende e le figure,
solo suoni e colori
non li ricordi,
non sai se la madre
s’appresta a consolarti
dell’esser nato
o se la vita saluti
e bevi a sorsi lunghi
dopo quel limbo caldo,
ma vicino,
così vicino
al Vuoto che tutto
precede

e nella stessa ora
l’altra sorella
libera dalla neve
un favagello

febbraio 2018
(1) Il nome di mio padre Giuseppe, di mia madre Maria

***

L’età breve

c’è stato un tempo
in cui ci credemmo
immortali,
alti sull’Appennino
ventoso,
fermi nelle strade
d’Europa,
la rosa dei venti
spalancata a nord
e sud e est
e ovest,
senza il pensiero
del ritorno,
senza idea
di sosta,
senza limite
d’ora
o luogo,
le macchine riempivano
le strade,
la gente affollava
le piazze,
dal camion
tu li osservi (1)
così fermi
e assoluti
come il tuo sguardo

l’età breve
trascorre
in un cielo chiaro
e senza tempo

Ottobre 2019
(1) nella mia adolescenza viaggiavo a lungo con l’autostop

 

Volpe e Lepre

1

Siamo alla vigilia di Natale, una festa che sarà diversa dal solito a causa della pandemia. Per me, fin da piccola, le feste invernali sono sempre state un momento elettivo di immersione nel fiabesco e in altri mondi, attraverso libri e film, specialmente film di animazione. Un momento per sospendere il tempo, dedicarsi per ore ai sogni, come animali che riposano nelle tane. Così mi piace condividere La volpe e la lepre, l’esordio di Jurij Norštejn nel 1973, di cui già qualche anno fa, Mariasole Ariot aveva pubblicato il capolavoro, Il Riccio nella Nebbia, qui. Una favola classica, dove accade poco eppure accade tutto. Una Madama Volpe che ruba la piccola casa confortevole al povero Lepre. Grandi e saggi animali cercheranno di aiutarlo: Lupo, Toro, Orso… fino all’arrivo di un Gallo bizzarro, pieno di intraprendenza. Buona visione e buone feste.

Sull’antologia “Nuova poesia americana II”

4
©Renee Stout - "Pretty poison"
©Renee Stout – “Pretty poison”

 

di Ornella Tajani

 

Sono sei i poeti statunitensi inclusi nel secondo volume di Nuova poesia americana, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, con traduzione di Abeni: in ordine di apparizione, Kim Addonizio, Garrett Hongo, Lawrence Joseph, Kay Ryan, Aracelis Girmay, Kevin Young.

Un’antologia poetica plurale, che appare senza testo a fronte, è un’operazione culturale di considerevole portata: sia per la selezione di voci operata (i cui criteri sono riassunti qui dal traduttore), sia per la restituzione dei testi nella sola lingua d’arrivo, il che rimette ogni responsabilità nella diffusione delle opere a chi traduce. Il pubblico italiano leggerà questi/e autori e autrici attraverso gli occhi di Abeni, imparerà a conoscerli nelle sue parole.

Proprio per questo una antologia di tal tipo è un oggetto poetico affascinante, che ha sì a che vedere con la mediazione culturale, ma è anche – come ogni traduzione – una operazione apertamente creativa:

Io rivendico drasticamente il diritto di chiamare poesie le mie traduzioni. Distaccandomi nettamente dall’ambiguo enunciato di Umberto Eco, “Dire quasi la stessa cosa”, asserisco l’unicità e la radicale originalità di un nuovo oggetto che scaturisce da una forma data e da un significato ineludibile,

spiega Abeni in un articolo, che funge da racconto della propria esperienza traduttiva complessiva; resta un po’ di rammarico per l’assenza di una vera e propria nota nel volume. Si può dunque invitare a leggere Nuova poesia americana II riflettendo – repetita iuvant – sull’importanza del ruolo di chi traduce, sulla portata del suo lavoro.

Alla fine della bella introduzione, di cui pubblico i primi tre paragrafi, ricordando la presentazione del primo volume di questa antologia, Freeman scrive:

Ricordo che mentre ascoltavo le parole di Robert Hass, Natalie Diaz, Robin Coste Lewis, la cui produzione copre un lasso di tempo di quarant’anni, e sentivo la poesia respirare in una lingua nuova, ho pensato a quanto può essere solida una poesia ben tradotta. A quanto nobiliti la distanza che ci separa. Una poesia ben tradotta può rammentarci che siamo soli, ma se è una buona poesia, ci ricorderà anche che siamo soli insieme. Che conforto è questo, perfino in tempi bui.

Una poesia ben tradotta nobilita la distanza che intercorre fra due testi, due culture, due soggetti: è una prospettiva ampiamente condivisibile, che getta luce su come la distanza non possa essere cancellata (il che condurrebbe a ciò che Henri Meschonnic definiva annessione), ma implica un’operazione di decentramento, come ho già ricordato altre volte, ad esempio qui. Freeman sottolinea non solo che questa distanza non va nascosta, ma anche ch’essa costituisce in fondo l’essenza della bellezza della traduzione.

Pubblico dunque una parte dell’introduzione e, a seguire, tre poesie.

___

dall’introduzione di John Freeman

Non conosco luogo capace di farti sentire più solo dell’America. I suoi paesaggi, così maestosi, austeri, brutali, così giganteschi nelle proporzioni, possono farti sentire piccolo, ma a esser piccoli non è detto che ci si senta soli. Sentirsi soli significa percepire troppo chiaramente i propri confini, i propri limiti. E gli Stati Uniti sono speciali in questo. Da noi puoi sentirti solo in mezzo a una folla, in città, o in famiglia, a un ricevimento di matrimonio, a una festicciola casalinga. Lo stile di vita americano esala solitudine come fumo da una ciminiera. Il punto è che ci hanno detto di essere individui, i nostri miti popolari ce lo ribadiscono in continuazione. Canta di te stesso, esorta il nostro grande poeta Walt Whitman.
Questo «io» minuziosamente plasmato e interpretato sta proprio alla base dell’innovazione e dell’impertinenza della poesia americana. Ma nel tempo ha prodotto isolamento. Uno che parla di sé, d’altro canto, è uno che non ascolta, immerso com’è in se stesso. La nostra liberazione, in questo senso, può costituire una prigione, mentale quanto spirituale. In un arco temporale di due secoli si potrebbe tirare una linea e unire Whitman a Twitter, Facebook, Instagram, tutte tecnologie che pur mettendoci in contatto ci hanno isolato più che mai. Per non parlare dei cosiddetti «fatti alternativi» e delle fake news che continuano a diffondere. Il famoso verso di Whitman «Io celebro me stesso, / e canto me stesso» che compare in Foglie d’erba è annegato nel mare della pandemia insieme a duecentomila persone, per poi riemergere sotto forma della più grande menzogna mai pronunciata dal nostro attuale presidente: I alone can fix it, Solo io posso sistemare le cose.
Invece non può, ma la buona notizia è che la poesia è un’ottima candidata a ricucire il tessuto strappato della nostra collettività. Se l’isolamento è il prodotto più diabolico della società americana, la poesia è il suo formidabile antidoto. Leggere buona poesia in America oggi è sentirsi meno soli nella propria disperazione, nel proprio desiderio, nella rabbia e nel dolore […].

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Garrett Hongo, La leggenda

A Chicago nevica piano
e un uomo ha appena fatto il bucato della settimana.
Esce nella penombra della sera incipiente
con una borsa di plastica sgualcita
piena di indumenti ben piegati,
e, per un attimo, gusta la sensazione
di tepore del bucato e della carta spiegazzata,
come di flanella sulla mano non guantata.
C’è un lucore rembrandtiano sul suo volto,
un triangolo arancione nel cavo della guancia
mentre un’estrema vampa di tramonto
incendia le facciate dei negozi e le finestre accese sulla strada.

È asiatico, tailandese o vietnamita,
magrissimo, vestito poveramente
con pantaloni stropicciati e un impermeabile scozzese,
sporco e troppo grande.
Cammina con cautela sul lustro del ghiaccio
sul marciapiedi accanto alla sua auto,
apre la portiera posteriore della Fairlane,
si china per sistemarci il bucato
e si volta, per un istante,
verso la raffica di passi
e le grida dei pedoni
mentre un ragazzo – altro non era –
esce camminando all’indietro dal negozio di liquori sull’angolo
sparando con una pistola, facendo fuoco,
un solo colpo, all’uomo attonito
che cade in avanti
portando le mani al petto.

Suoni gli fuoriescono dalla bocca,
un farfuglio che nessuno capisce
mentre la gente gli accorre attorno
sbigottita da quel suo discorso.
I rumori che emette non significano nulla per loro.
Il ragazzo è sparito, perso
nella sparsa schiera del traffico pedonale
che screzia la neve di impronte nuove.

Stasera leggo del grande coraggio
di Cartesio nel dubitare tutto
tranne la propria esistenza miracolosa
e mi sento così distinto
dall’uomo ferito che giaceva sul cemento
che ne provo vergogna.

Lasciamo che il cielo notturno lo ricopra nello spirare.
Lasciamo che la fanciulla tessitrice attraversi il ponte del paradiso
e gli stringa le gelide mani.

___

Kay Ryan, Nuove stanze

La mente deve
riadattarsi
ovunque va
e sarebbe
comodissimo
imporre le sue
vecchie stanze – basterebbe
picchettarle
come una tenda
interiore. Oh, ma
i nuovi fori
non stanno dove
prima c’erano
le finestre.

___

Kevin Young, Lettere dalla Stella Polare

Cara, le luci qui non chiedono
niente, il bianco cade
attorno alle mie lettere muto,
inarrestabile. Ti scrivo
dalla pancia vuota del sonno

dove niente tranne il freddo
si chiede dove vai;
nessuno qui scuoia teste aspre
e da poco come limoni, e solo
l’auto canta AM tutta

notte. In città
ho visto bimbi mezzo-
morsi dal vento. Perfino i treni
arrivano senza un’anima
che li accolga; le cose qui

non hanno bisogno di me, questo mondo
balla da solo. Solo i ponti
mi implorano di renderli
famosi, di imparare quello
che mi ero quasi dimenticato del volare,

del librarsi liberi, verso sud,
giù. Ciao. Baci e abbracci.

 

Miguel Torga: “Il diario”

1

[Esce per Mimesis, “La vita inedita”, che presenta per la prima volta in Italia il Diario (1933-1993) di Miguel Torga, una delle più importanti figure della letteratura portoghese del XX secolo. Torga è poeta, romanziere, saggista e drammaturgo. L’edizione è a cura di Massimo Rizzante, di cui pubblichiamo il saggio introduttivo, seguito da alcuni estratti del diario. Di Torga NI si è già occupata, dedicandogli un volumetto: “L’universale è il locale, meno i muri” (collana Murene).]

 

Massimo Rizzante

L’arte di Miguel Torga

Ma com’è bello andare in Vespa ( titolo che non c’entra un cazzo con l’articolo che parla di libri e mercato)

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Il libro di Bruno Vespa e la “mucca sacra” dal latte avvelenato

di Pasquale Palmieri

 

A volte pensiamo erroneamente ai libri come prodotti che stanno ai margini del grande mercato globale. Oggetti per pochi, insomma. Forse anche per questo gli attribuiamo un valore intrinsecamente positivo. Le prime attività commerciali a riaprire dopo la prima ondata di Covid furono le librerie, lo ricordiamo tutti. Con quel gesto, il governo riconosceva il loro ruolo per la collettività, quasi come se fossero pacate custodi della nostra coscienza civica.

 

Poi ci troviamo annualmente ad affrontare il supplizio della pubblicazione prenatalizia di prodotti firmati da Bruno Vespa. E siamo quasi costretti a ribadire, in maniera evidentemente velleitaria, che quei testi sono pura immondizia, costruiti su una micidiale miscela di presunzione, ipocrisia e ostentata ignoranza, finalizzati a confermare pregiudizi dilaganti più che a metterli in discussione. Rimane il fatto che hanno un mercato. Il rito si ripete per una ragione semplice: esiste un pubblico che desidera leggere, o talvolta semplicemente possedere, pagine che propongono quei contenuti. Facciamo anche di più: produciamo e condividiamo vignette satiriche su Vespa, puntiamo il dito contro i suoi lettori, ci avventuriamo in ardite dissertazioni sulle sue grossolane apologie del fascismo. Ci sorprendiamo perfino a pensare che sarebbe meglio chiuderle le librerie, se devono vendere la roba di Vespa.

 

Negli ultimi decenni, gli studi sulla storia dell’editoria e della comunicazione hanno contribuito a complicare lo scenario, aiutandoci a comprendere come la fruizione degli scritti a stampa non debba essere necessariamente considerata come un fattore di emancipazione sociale, tanto nel passato quanto nel presente. Limitandoci all’analisi dello scenario europeo, siamo oggi in grado di osservare che la svolta tecnologica inaugurata da Gutenberg ebbe effetti discontinui e contradditori. La possibilità di riprodurre e diffondere in serie i testi contribuì, infatti, ad abbattere drasticamente i costi e coinvolgere una schiera di lettori molto più ampia. Ne conseguì un potenziamento del comune senso critico e una più intensa partecipazione ai dibattitti intorno a eventi sensazionali o a fenomeni di pubblico interesse, che in alcuni periodi si manifestò in maniera intermittente e in altri in maniera più costante (sul tema si veda il libro di Peter Burke e Asa Briggs, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Il Mulino). Tuttavia, quella stessa capacità di penetrare in maniera ramificata il corpo sociale riuscì anche a stimolare nuove forme di adeguamento ai dettami delle autorità secolari o ecclesiastiche, dei potentati nobiliari, o degli interessi economici dei ceti dominanti. La stampa aveva quindi i suoi padroni e – seguendo le esigenze dei committenti o le logiche del profitto – riusciva anche a diventare una potente catalizzatrice di conformismo: in altre parole, suggeriva alle persone come comportarsi, cosa pensare, cosa comprare, di cosa fidarsi, di cosa aver paura (su questo versante, sono utili le considerazioni di Mario Infelise, I padroni dei libri, Laterza, e Sandro Landi, Stampa, censura e opinione pubblica in età moderna, Il Mulino).

 

Le indagini storiche ci permettono di osservare in una prospettiva diversa anche la situazione odierna. Commettiamo infatti un enorme errore nel pensare che i libri siano ai margini del mercato globale. I libri – in tutte le loro forme, dal digitale al cartaceo – sono al contrario una delle forze propulsive del nostro sistema economico. Potremmo dire di più: essi detengono le chiavi dell’ecosistema comunicativo che connette i consumatori ai prodotti. Ad esempio, offrono a un’azienda come Amazon l’opportunità di entrare in punta di piedi nel nostro mondo. Attraverso i libri che acquistiamo, consentiamo al colosso di Bezos di comprendere una parte importante di quello che desideriamo, quali luoghi vorremmo visitare, cosa vorremmo guardare in tv o sulle piattaforme digitali, che musica amiamo ascoltare, per chi votiamo, quanto possiamo spendere, quanto preferiamo risparmiare, quanto tempo libero abbiamo, cosa consideriamo necessario, e persino quello a cui siamo disposti a rinunciare.

 

I libri coprono una fetta piccola dei profitti possibili, ma aprono indirettamente le porte a un universo infinito di consumi e suggerimenti pubblicitari. Con i nostri ordini o le sottolineature del nostro kindle, condividiamo parti di noi che sarebbero destinate a rimanere chiuse in un cassetto. Come ha scritto di recente Martin Angioni (Amazon dietro le quinte, Raffaello Cortina Editore), i libri sono la “mucca sacra” del gigante dell’e-commerce. E Bruno Vespa è lì, pronto a invadere ogni anno il nostro piccolo mondo prenatalizio, e a riproporci la triste evidenza del libro come incentivo all’appiattimento e al conformismo, avvalendosi anche dei processi idealizzazione degli oggetti a stampa che continuano a crescere indisturbati nella nostra cultura, inventando gerarchie inesistenti nella complessa realtà dei paesaggi mediatici. È lì forse anche per ricordarci una dinamica tanto banale quanto sfuggente: quella “mucca sacra” produce anche latte avvelenato.

 

Il tono del risentimento. Il romanzo umoristico di Sergio La Chiusa

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[Questo articolo è apparso su “Alias”, supplemento del “Manifesto”, il 13/12/20, con un titolo redazionale.]

di Andrea Inglese

 

La violazione della verosimiglianza, in ambito narrativo, è considerata oggi una duplice offesa, che si perdona a pochissimi e gallonati scrittori, di preferenza già morti. È un’offesa nei confronti di un intreccio ben costruito, che non malmena le attese del lettore, e lo è ancor più nei confronti di quel vero, o di quel reale allo “stato puro”, che una certa narrativa insegue tenacemente, utilizzando le vie della cronaca nera, della storia con molte maiuscole o dell’esplorazione dell’io, che l’autofiction fornisce di contorni molto elastici.

La natura urbana

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di Gianni Biondillo

Perdonate se faccio una lunga digressione storica. La cultura europea occidentale è una cultura solidamente urbana, vede nella città una promessa e un destino. Spesso ha avuto periodi di antiurbanesimo ma le forme che ha elaborato sul territorio sono la testimonianza fisica dell’idea di identità che oggi chiamiamo europea. La storia spesso si muove come una sinusoide. Dopo il crollo dell’impero romano, si impose un antiurbanesimo cristiano che frantumò i territori, distrusse la rete viaria, dimenticò le città, spesso sovra dimensionate, per una vita agricola. Eppure non bastarono 500 anni di cultura antiurbana: le città risorsero attorno all’anno mille. I Comuni del medioevo, cercando autonomia dall’imperatore, e dinamismo economico, crearono una maglia di realtà urbane. La città diventa così l’habitat naturale dell’uomo. La città rende liberi mentre la natura spaventa, deve essere addomesticata, col lavoro dei campi, oppure tenuta fuori dallo sguardo. È il luogo del selvaggio, delle leggende, il bosco delle fiabe, che non deve essere attraversato se non si vuole essere mangiati dal lupo. La nostra è una estetica urbana che da sempre cerca di esorcizzare il paesaggio selvatico, il paesaggio della paura.

È nel Settecento che nasce il mito del ritorno alla natura come madre generosa e buona. Perché proprio in questo periodo cambia la nostra idea di paesaggio naturale? Perché stavano cambiando le città, in modo repentino e massivo; è il passaggio epocale prodotto dall’illuminismo e dalla rivoluzione industriale. Nasce la città moderna. Una nuova urbanità, mai vista prima. Il XX secolo è stato il secolo della civiltà delle automobili, e le infrastrutture viabilistiche ne sono l’unica vera eredità. Infrastrutture che omologano il linguaggio delle forme creando città sempre più simili. La città è vista come meccanismo non come organismo, dove occorre regolare i flussi di traffico. La città del Novecento conosce via via sempre più la dispersione e lo sprawl. La città ormai non ha più un disegno unitario riconoscibile. Oggi questo paesaggio antropizzato – che per millenni ha saputo trovare un equilibrio fra le esigenze di chi lo abitava e il rispetto per il ciclo delle stagioni – ha subito nell’ultimo secolo troppi shock, troppi strappi sulla tela.

Siamo di fronte a un bivio che non permette più ripensamenti. Non sarà la pandemia a farci tornare indietro. Fra dieci anni due terzi della popolazione mondiale vivrà in un contesto metropolitano che, già oggi senza tregua continua a rubare terreno, impoverire il suolo, abbattere il patrimonio arboreo, aumentare a dismisura la produzione di CO2. Il cambiamento climatico già in atto da decenni ne è la prova inconfutabile. Ecco il bivio: le città da problema devono diventare una soluzione. Quindi energia sostenibile, riciclo, cubatura zero, mobilità condivisa, e su tutto, forestazione urbana.

Trovare, insomma un nuovo rapporto fra artificiale e naturale fin nel cuore delle nostre metropoli. Una nuova narrazione che veda nella Natura né una madre generosa né una nemica spaventosa. Gli esempi non mancano. Il più famoso, addirittura paradigmatico non solo in Italia, è stato l’esperienza del Bosco Verticale. Boeri, Barreca e La Varra (i tre progettisti) in fondo non hanno fatto altro che, con raffinato gusto filologico, riproporre architetture per nulla nuove a Milano (penso a un capolavoro come quello di via Quadronno degli architetti Mangiarotti e Morassutti). Ma se l’esperienza si fosse fermata lì avremmo solo due edifici a disposizione di ricchi abitanti meneghini. Il Bosco Verticale, nei fatti, è invece un manifesto. Ha una forza simbolica che supera quella estetica. Le città possono convivere con la natura. Anzi: la natura deve diventare, per la pura e semplice sopravvivenza della specie, elemento centrale di ogni progettazione urbana.

Si apre così un nuovo modo di concepire l’urbanistica: restituire permeabilità al suolo (ci sono esperimenti già in atto di de-asfaltizzazione delle strade parigine), progettare la mobilità dolce attraverso corridoi verdi che collegano parchi e giardini esistenti. Idearne di nuovi: parchi che non hanno solo la funzione di luoghi di svago, ma, come propugno da anni, che siano spazi di produzione alimentare a chilometro zero (parchi edibili). Abbattere le isole di calore urbane rendendo i tetti coltivabili e trasformando le barriere infrastrutturali in facciate verdi. E su tutto impiantare milioni di alberi. Milioni, sì. Non più parchi ma foreste. Che dovranno essere gestite così come si gestivano nel medioevo (quindi anche capaci di essere produttive in termini di materie prime), ma anche luoghi dove la biodiversità possa esprimersi, mitigando la dannosa presenza umana e qualificando la resilienza dell’ecosistema.

Un programma di ridefinizione del paesaggio che deve coinvolgere l’umanità ad ogni scala della catena decisionale. Il cambiamento climatico porta con sé carestie, povertà, migrazioni bibliche. Non basta riforestare le ricche metropoli occidentali, occorre interrompere la desertificazione inesorabile che sta colpendo come un maglio i paesi più poveri della terra. E dobbiamo farlo noi. E subito. Molto egoisticamente perché ci conviene, pena la nostra stessa estinzione.

(precedentemente pubblicato su L’Ordine del 22 novembre 2020. Le pessime fotografie sono del sottoscritto)

Prosa in prosa (Inglese, Zaffarano, Giovenale, Broggi)

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Le edizioni Tic hanno recentemente ripubblicato Prosa in prosa, originariamente uscito nel 2009 per la collana fuoriformato de Le Lettere.

Ospito qui alcuni estratti di Andrea Inglese, Michele ZaffaranoMarco Giovenale e Alessandro Broggi, insieme alla bandella originale del libro, firmata da Andrea Cortellessa.

 

 

ANDREA CORTELLESSA

Bandella di Prosa in prosa (2009)

 

L’abitudine che ci fa usare la dizione da manuale, poesia in prosa, può far dimenticare come essa, in realtà, segni un paradosso. Ma – ha spiegato il suo maggiore studioso italiano, Paolo Giovannetti – proprio tale «ambiguità esibita» è il suo «carattere fondante». Posizione ambigua, dunque, e anche scomoda: troppo «asciugata» dal poetico per i lettori di poesia (almeno per chi si riconosce nel poetese, più che nel poetico); troppo autoreferenziale e «lavorata» – troppo «poetica», insomma – per coloro che della prosa ammettono un’unica specializzazione merceologica, quella della narrazione (e diciamo, anzi, direttamente la fiction).

Eppure la prosa come forma del limite è stata una delle poche vie di fuga che abbiano consentito alla nostra scrittura poetica, negli ultimi decenni, di non rinchiudersi nel repertorio di se stessa. Negli anni Settanta autori come Giampiero Neri, Cosimo Ortesta e Cesare Greppi hanno messo a frutto la lezione dei maestri francesi di un secolo prima; mentre è del 1989 un episodio isolato ma significativo come la silloge Viceverso, curata da Michelangelo Coviello. Né sorprende che oggi i trenta-quarantenni di Prosa in prosa guardino di nuovo Oltralpe (e Oltreoceano), mutuando il loro stesso titolo da Jean-Marie Gleize.

Quanto meno subliminalmente, l’espressione poesia in prosa rinvia poi al concetto di traduzione: un «contenuto», in sé poetico, che verrebbe «trasposto» in prosa. Ma se il «contenuto» è già prosastico, qui, che cosa viene in effetti «tradotto»? La prosa in prosa, risponde Antonio Loreto, ha qualcosa del ready-made: senza sovraccaricare la scrittura di effetti speciali (la «prosa d’arte» dalla quale i Sei si guardano bene) è mediante il suo isolamento (in lasse, blocchi, serie variamente ordinate) che se ne muta sottilmente il senso. Basta incorniciare l’oggetto, come ha insegnato appunto D­uchamp, per fargli dire qualcosa di diverso – e inatteso. Qui piuttosto lo si «inquadra»: e non stupiranno, allora, i frequenti riferimenti all’universo dei media visivi, dalla fotografia allo schermo del computer.

Così facendo si segnalano, nella prosa del mondo, una serie di mutamenti inavvertiti. Come in un certo gioco enigmistico, ci accorgiamo d’improvviso di dettagli incongrui, particolari inquietanti. E finiamo per capire, insomma, come qualcosa nelle nostre vite sia da tempo mutato: a un livello microscopico, magari, ma con conseguenze non meno che catastrofiche.

 

ANDREA INGLESE

Prato n° 102 (collage e stucchi)

 

Praticello con pescheria (e dadi di tonno rosso mattone nella cunetta di ghiaccio, da cui affiora un orlo di prezzemolo), stivali di gomma blu, vasche di polistirolo, e pompa arrotolata (e mercato del pesce di Tokyo, tonni segati in due, sequenza a rallentatore di Bill Viola). Praticello con pulegge, stoviglie lavate, e orme fresche. Praticello tipo Sierra Nevada senza avvoltoi. Praticello in cui il bisogno di un padre buono, onnipotente e amoroso viene soddisfatto da una poltroncina mobile, elegante e dallo schienale ampiamente flessibile. Praticello con alcune bestie che parlano, non per esigenze spirituali ma a causa di impulsi elettrici (ed altre bestie mute, addestrate ad inviare impulsi, e addestratori umani incapaci di tutto, salvo di addestrare). Praticello con gradevole luce, su forcone appeso al muro, e colata di vernice. Praticello delle sei e mezza di pomeriggio (d’estate, e personaggi vari che a quell’ora provano angoscia immotivata). Praticello da cui uscire solo morti o amputati (infrequentabile). Praticello con uomo dai molteplici delitti, un cuore putrido, poteri paranormali, e una fortuna sfacciata alle corse dei cavalli. Praticello in cui mi ricordo di tutti i seni indovinati dietro una stoffa leggera, e dei piedi nudi femminili, nei periodi di riscaldamento climatico. Praticello in disuso, con grandi ammassi di pneumatici in fiamme, e materassi sventrati o fradici, e gatti finiti nelle tagliole, o in brodo. Praticello di poca luce, con fontana, e fagiani al suolo, immobili, probabilmente impalati. Praticello borghese, fine novecento, con tubuli, maschere, bombole, quadranti, per respirazioni prudenti, rarefatte, e bistecche al sangue, rognoni, roast beef, per masticazioni frenetiche, perenni. Praticello per allievi impudenti, studentesse feroci, giochi di mortificazione fisica e mentale. Praticello dei cannibali, tutti quanti essendolo diventati, dopo aver ognuno attraversato un certo numero di difficoltà alimentari. Praticello della musica, da fare all’improvviso quando ci si passa. Praticello in cui è impossibile masturbarsi, mancando foto, video, disegni, persino ogni materiale psichico (e sorgono ricordi invece d’equazioni, di sequenze numeriche, di documentari zoologici). Praticello in cui l’alcolismo è un metodo tra i migliori per rispondere all’assenza di un padre buono, onnipotente e amoroso. Praticello con ministro della pace, ufficiale delle Schutz-Staffeln, profeta, e lucido da scarpe (e un solo paio di stivali, un solo slogan per dirigere la gioventù, e meno di quattro capri espiatori disponibili). Praticello come vero, in cui si fa l’amore e si dorme, si beve e ci si carezza (e non mancano i viveri), e ci si muove con cautela, si parla a bassa voce, per non interrompere il sogno o modificarne l’intreccio. Praticello dove chi scrive, conosce bene le arti marziali del pensiero, e anche di tutti i cinque sensi, e delle zone erogene, e di ogni poro (e guarda a lungo la luce dentro un bicchiere d’acqua). Praticello ad alta tecnologia, ma pulita e produttiva, dove ogni pensiero del canguro, ed il suo fiato, e la pressione arteriosa, e i tic nervosi, e le unghie, il manto, i denti, sono assolutamente registrati, copiati, riprodotti, trasformati, resi utili, in tempo reale, a tutti i possibili clienti, anche nelle zone remote, dal clima difficile, e dalla politica energetica incerta. Praticello delle droghe belle, con un codazzo di dementi, che non sanno comporre una frase di commiato, e si intrappolano sempre più a vicenda, sempre più ridendo, assieme.

 

 

 

 

MICHELE ZAFFARANO

Venti & ventinove

da Wunderkammer, ovvero Come ho imparato a leggere

 

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L’autentico. Oppure il libro che non sarebbe mai stato scritto se le parole non avessero assunto questa forma particolare di bêtise. Il lavoro, gli aneddoti raccontati. Nessun dubbio che ciò che viene letto possa finire per restare impresso. Nello stesso tempo, l’ascolto percorre i suoi sentieri, inganna chi resta all’interno dell’ambito. Se ancora, in casa, c’è un ambito, se ancora ci sono le categorie di interesse, i manichini non convenzionali, la possibilità di un racconto pensato per lamentarsi. Nel corso di queste righe, non c’è alcuna intenzione di rivelare fatti intimi, alcun desiderio di esibirsi in modo sconcertante. Di questo parleremo in seguito. Intanto: togliere di mezzo, ripulire con cura, non scrivere nulla per nulla, offrire le stesse astute bêtises del quotidiano, farle durare, sentirle esistere, resistere, e poi eliminarle, parlare, parlare. Spesso capita che dalla scrittura il dubbio su ciò che viene letto sia posto addirittura dagli invitati. Qualcosa di autentico avanza comunque, si rivela.

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Lentamente si modificano i campi visivi e comincio allora a tastare il terreno, a cavalcioni, o seduto di fianco, alla maniera delle donne. È piena di lordura la distanza più breve tra un punto e l’altro, ha inghiottito gli ostacoli. Non viaggio, descrivo linee a cerchio. Sta scritto: «ka multo vendarete kara questa fatiga et l’altre ke son per natura loro fatigate mollemente, et sunt gravate de infirmitate». Lentamente il tempo scivola e si scioglie e si dilata, profondamente solitario, installato in piena fantasmagoria e consonanza e clarità. L’altra è perduta, la mia è ferma e senza tempo, mi fugge sotto falsi nomi lungo la teoria dei meandri e contemplo allora spettacolo, mi sembra il cuore mi si spezzi, e il tempo e la speranza, la vita, i ritmi. Il fenomeno è volto a finalità immaginarie, index sui et falsi. Io sono l’immagine della pietra. È a cavallo che passo la vita, «en celo coronato cum la Vergene Maria». Desiderose, pendolari, alterne nei movimenti, le leggi della matematica razionale sono come una tempesta sul mare. Un grave percorre la sua orbita intorno al globo, era tutto un gridare di orbite intorno al globo, ma il movimento era fisso e teso, decelerato. I deliri sono provocati dalla sardonica integrità delle strade percorse, i sensi rispondono a chiunque entri, provocando uno stato speciale. «Tute quante lo sostengate», s’intenda: le cavalcature, ma anche: la quiete della morte, che sarà atto di giustizia. «In pace ka cascuna sarà regina». La strada da prendere è la stessa, l’uscita all’entrare, sempre addormentata. Qui mangio restando piegato sul collo degli alberi. Qui la voce che ho scritto fascia per un tempo troppo breve l’azione: gli adulti sono in fuga, la vita è altrove.

 

 

 

MARCO GIOVENALE

2 da corpus iuris

da giornale del viaggio in italia

 

I

anche il cieco può adottare o essere adottato, poiché taluno fu istituito erede per l’intero, intanto non può attaccare d’inofficioso, perché ha la falcidia, ma se si ottenne la vittoria, quando il principio di questa legge parla d’universalità, poiché è assai più comodo astringere l’avversario a sobbarcarsi ai pesi propri di un attore, stando altri in possesso in nome altrui, che può tagliare la selva cedua, il salceto, i pali della selva, o del canneto, dell’alluvione, finché non si numeri il prezzo, la sentenza di giuliano è più umana, dopo perduto, se locò le opere sue, istituì un servo, togliendo tutto, indeterminatamente, il muro per sostenere il peso stia così, in perpetuo, alla stessa maniera, perché non gli si può concedere condurre l’acqua, frapponendosi il fiume pubblico, la servitù della via, o se si può passare a guazzo, od abbia un ponte, è diverso se sia passato su pontoni, così la va, se il fiume corre pel fondo di un solo, indi venga il fiume, ma vediamo se la disposizione sia la stessa, se fossero comuni le case, se comprerò da te il permesso di immettere lo stillicidio dalle mie case sulle tue, e poscia, a tua saputa, ve l’abbia immesso a titolo di compra, onde si tolga ciò che illegalmente fu fatto, poiché quel che il pupillo ha è quotidiano, se corse l’acqua, nella condizione in cui era, dell’impeto del fiume, e della ruina.

[…]

 

III

in riguardo agli animali irragionevoli, se mai per effervescenza, spavento, o per ferocia abbiano cagionato un danno, in nome di altri, ci si vieta avere il cane, il porco selvatico, il cignale, l’orso, il leone lì dove ordinariamente si passi, nei gradi delle cognizioni, ristretti in nostra custodia, con animo di profittarne, delle cose che sospette sieno, il fondo cogli attrezzi, la duplicazione elide le replicazioni, è grande poi la differenza delle cose, sono in luogo di naturali, questa si chiama volgare, perché si numerano i giorni continui

 

 

ALESSANDRO BROGGI

Daily Planet

 

Nessuno ha mai avuto in mente la maggior parte di ciò che accade.
John Cage

Per vendicarsi, una prostituta violentata da un gruppo di sbandati fa quasi massacrare l’unico che l’aveva difesa. Per poter vivere l’amore che provano l’uno per l’altra, Pedro e Cati dovrebbero superare il loro attaccamento morboso. Rapito dai ribelli del Blood Brotherhood, Orked è addestrato alla guerra, drogato, indottrinato e spinto a compiere crimini orribili. Durante la dittatura di Augusto Pinochet, un movimento indipendente di fotografi cileni documenta la repressione militare e la resistenza della popolazione fotografando quello che i media ufficiali nascondono. Da oltre vent’anni l’associazione Special Olympics lavora per integrare gli handicappati mentali nella società per mezzo dello sport. In Ghana esiste un fenomeno chiamato Ayan, o “drum poetry”, dove il tamburo parla ed è considerato un vero e proprio linguaggio. Batad è una località incantevole sulle montagne terrazzate delle Filippine, dichiarata luogo a rischio della terra dal World Heritage Committee. Theo vive con un unico sogno: diventare un modello di fama e affermarsi nella società del marketing e della pubblicità. Bunny chow è una specie di pane ripieno di carne e verdure che si mangia in compagnia. Dana vive con la nonna, la madre e il fratellino, il padre è partito in cerca di lavoro e non è più tornato. Autista e narratore di storie, Abdelrazzak trasporta le persone sul suo pullmino verso un luogo nel deserto dove officia una famosa guaritrice. Chen, killer professionista, riceve le sue commissioni via Internet. Sei ragazze di Porto Said condividono un appartamento al Cairo come studentesse. Christoph lascia la moglie, la famiglia e il lavoro di avvocato per vivere in modo solitario e anonimo in un quartiere popolare di Anversa. Il giorno del suo compleanno Jeanne scopre dalla madre di avere un padre indiano. Benicio si asciuga lo sperma prima di addormentarsi sul divano. Durante il battesimo, Edo vede gli arcangeli pulire il volto di Cristo dalle ferite della sofferenza umana. Stoffer si comporta normalmente. Le donne di Haenyo, Corea, per vivere si immergono 20 metri sotto il mare e trattengono il respiro per 2-3 minuti raccogliendo frutti di mare, alghe e altri prodotti marini. Per sfuggire alla miseria e soddisfare i bisogni famigliari Mocktar decide di lavorare in una miniera d’oro del Burkina Faso. William incontra Sara in un bar chiamato “Bitter End”. Sebbene divorziata da tempo, Carla litiga di continuo con l’ex marito sotto gli occhi dei figli. La relazione con Naima conduce Sydney da un una proposta di matrimonio a una situazione di estrema indigenza. Un giorno Rebecca viene avvicinata da un uomo che la segue e le offre un passaggio. Sergej scopre di avere un male terribile, che lo porta a fare i conti con se stesso. I Samburu sono un popolo pastorale semi-nomade, con una vibrante tradizione orale e una forma di costruzione della memoria associata a oggetti, addobbi fisici e canzoni. Una famiglia – padre, madre e tre figli – è riunita per la colazione. Camminando in alta montagna Arild incontra per caso il padre di un vecchio compagno di scuola che non vede da vent’anni. Samia chiede a un ragazzo di curare il figlio mentre va a fare una nuotata. Il giovane Wolfgang Amadeus a soli cinque anni ha già una forte passione per la composizione e una vivida immaginazione. Abner e Amira attraversano in auto la periferia di Riga. Seduto di fronte al medico Dragan Ledeux non ha più dubbi: non potrà avere figli. Marco è affascinato dal mito della vecchia mafia. Un battaglione di tiratori scelti giunge nel campo di transito di Verneuil-sur-Avre, dove li attende la smobilitazione. Quique attraversa il confine e arriva negli Stati Uniti. Il pittore Rembrandt accetta con riluttanza di dipingere la milizia civica di Amsterdam in un ritratto di gruppo. Cole è un giovane americano a Parigi che si guadagna da vivere come sosia di Michael Jackson. Il rito della riesumazione dei morti è diffuso in tutto il Madagascar. Noriko da piccola non ha mai capito perché tutti parlassero d’amore, ora lavora di notte come prostituta. Aya vanga un pezzo di terra negli aridi paesaggi del massiccio dell’Aures. George W. è alle prese con la calamità dell’uragano Katrina. Norma e Kika confessano la loro relazione in un diario a quattro mani. Jamie arriva a Vancouver per far visita a un’amica che però non riesce a rintracciare. Un centro commerciale di New York in rovina è sede di un mercato delle pulci. Lotte è stata licenziata dal delfinario. Wendo Kolosoy è una leggenda della rumba congolese. Un uomo e una donna vengono sottoposti a un esperimento terrificante.

 

“… ma questo intreccio di percorsi ci preparerà, noi speriamo, a perderci tra la folla.”

(M. de Certeau)

 

 

 

Poesia e ragionevolezza

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di Franco Buffoni

C’è una scena dell’Amleto di Laforgue che mi viene sempre in mente quando si tratta di definire che cosa sia per me «poesia». Amleto si rivolge a Orazio, l’amico assoluto, e lo prega di precederlo, per dire in sua vece, entrando, quelle parole «che lo uccidono».
Poesia come ancora di salvezza, dunque, in primis per chi la compone. Poesia mai stanca di ripetere quelle due o tre cose essenziali concernenti l’etica e l’estetica che magari non si ha più la forza o il coraggio di dire ad alta voce. Poesia come portavoce delle intermittenze del cuore attraverso gli anni.
Ma poesia anche come privilegio, grazie alla possibilità di parlarne agli studenti nei corsi di letteratura, e di tradurla (con la giustificazione a sé stessi di star lavorando), così da tenere sempre in esercizio – come ben tese corde di violino – le facoltà essenziali del poiêin.
«Fu una faccenda di piogge, di laghi, e di discorsi in un gran parco verdissimo», scrive Luciano Anceschi circa la genesi della poetica di «linea lombarda» nei primi anni Cinquanta. Una poetica nella quale, pur con gli inevitabili aggiustamenti e le necessarie trasformazioni, continuo a riconoscere una delle tre matrici essenziali del mio fare poetico: particolarmente nella pratica dell’understatement, nel rifiuto del vittimismo, in una misura etica individuale e sobria, in una linea “analitica” di ragionevolezza piuttosto che continentale di razionalismo.
L’altra matrice – geograficamente più ampia – e forse più significativa per la mia formazione (perché assorbita negli anni dell’adolescenza) credo di poter individuare nella tradizione otto-novecentesca italiana che lega Pascoli a Gozzano; infine, appartiene agli anni della formazione universitaria, la terza – e ben più vasta – matrice che mi riconosco, e che vede la frequentazione delle grandi letterature europee sia di area romanza sia di area germanica in un rapporto linguistico e filologico diretto.
Volendo richiamare quali sono state le principali matrici stilistiche – e proprio di «elaborazione» – che mi sono trovato a perseguire, posso empiricamente suddividere l’insieme dei miei componimenti poetici in quattro principali gruppi:

– testi di lenta stratificazione;
– testi associativi;
– testi-dono-degli-dei;
– racconti in versi.

Per testi di lenta stratificazione, intendo composizioni che sono andate con lentezza strutturandosi attorno a un’idea-cardine: un’idea che, volendo, avrei potuto sviluppare anche in prosa, ma che percepii più naturale per me di esporre in versi.
Il testo intitolato Come un polittico, per esempio, nasce dalla necessità di esprimere la consapevolezza ormai acquisita di non essere più in grado di abbracciare contemporaneamente (in un unico ricordo, in un’unica grande immagine come avviene da ragazzi) la propria esistenza. Ormai – capivo, sulla soglia dei trent’anni – cominciavo anch’io a procedere per frammenti, isole, tranche de vie. Da qui la similitudine con il polittico che custodisce in sé la grande storia a colori sgargianti, ma non la mostra: all’esterno appaiono solo alcuni frammenti della storia a colori smorzati.
La differenza di procedimento compositivo con quelli che descriverò come i componimenti del secondo gruppo sta nel fatto che qui l’idea non venne osservando un polittico in una chiesa di Spagna. L’idea esisteva già, e si sarebbe comunque concretizzata in poesia, magari tramite un’altra similitudine. Il termine di raffronto – dunque – non mosse nulla: venne scelto a freddo perché ritenuto oggettivamente più efficace di altri. In questa poesia delle logopeia (avrebbe detto Pound) dovevo insomma fare un ragionamento: si trattava di rivestirlo nel modo esteticamente più valido.

Come un polittico che si apre
E dentro c’è la storia
Ma si apre ogni tanto
Solo nelle occasioni,
Fuori invece è monocromo
Grigio per tutti i giorni,
La sensazione di non essere più in grado,
Di non sapere più ricordare
Contemporaneamente
Tutta la sua esistenza,
Come la storia che c’è dentro il polittico
E non si vede,
Gli dava l’affanno del non-essere stato
Quando invece sapeva era stato,
Del non avere letto o mai avuto.
La sensazione insomma di star per cominciare
A non ricordare più tutto come prima,
Mentre il vento capriccioso
Corteggiava come amante
I pioppi giovani
Fino a farli fremere.

Circa il secondo gruppo di composizioni, definite «associative», Mario Luzi in Vicissitudine e forma ha scritto che il grande momento poetico, concentrato talvolta anche solo in pochi versi all’interno di una poesia, può essere visto come una sintesi tra due concetti, due sentimenti, due ordini di percezione o «universi di discorso» che non erano mai stati posti in relazione tra loro in precedenza. In pratica – secondo Luzi – poesia avviene solo quando si trovano a coincidere («in modo assolutamente misterioso»), da un lato «uno stato emotivo e una capacità artistica» del poeta, e dall’altro un particolare momento («quello e non un altro») dell’essere universale. Perché il fatto saliente dell’avvenimento poetico è il ritrovamento – momentaneo magari, fugace – della coincidenza dell’esistenza con l’essenza vitale. Il lavoro poetico, infine, non è che la ricerca di questa coincidenza.
Più banalmente posso esemplificare la differenza con le composizioni del primo gruppo sostenendo che qui non preesiste nessuna idea da trasformare in poesia: esiste – fortissima – soltanto la «coincidenza». Per esempio in “Grande Germania”, un testo datato gennaio 1990, scritto a poche settimane dalla caduta del Muro di Berlino.

E mi si fanno vicine
La poesia di Sereni su Amsterdam
Del cinquantasette
E quella di De Libero
“Settembre tedesco” del quarantatré.

Claudio bambino odoroso di pelle nuova
Che non si addice al mattino tedesco
Ucciso perché ride non si allontana
Senza gli avanzi del rancio.
E a Sereni l’olandese che ammette
Sono tornati come turisti li accogliamo
E diamo loro anche informazioni
Ma non una parola di più.

Ancora con riferimento alle composizioni del secondo gruppo, non necessariamente il momento esterno deve essere particolare (tanto da appartenere alla coscienza e poi alla memoria collettive): può essere anche qualcosa di meno appariscente, un dettaglio che solitamente sfugge. Nella poesia “Il circuito di Pergusa”, la coincidenza avvenne tra lo studio che andavo compiendo in quel periodo sul racconto del Mercante nei Canterbury Tales (dove tra i personaggi appaiono Plutone e Proserpina) e la telecronaca di una gara di «formula tre» (da qui i nomi reali dei piloti Moreno e Martini). Sta di fatto che l’antro da cui – secondo la leggenda – emerse Plutone per rapire Proserpina si trova in Sicilia nei pressi del lago di Pergusa. Un lago particolare che, per i riflessi delle alghe sul fondo, sovente assume una colorazione rossa. Come le auto dei corridori. Come le loro tute e le insegne. Perché il circuito automobilistico è stato costruito attorno a quel lago. Il telecronista diceva «… qui dal lago di Pergusa». Non capii subito che il nome che avevo lasciato sui libri nello studio mi aveva seguito in cucina tra l’acqua minerale e il riso in bianco.

Martini fa da freno agli avversari
E il distacco di Moreno sta aumentando:
Nell’ora dei dolci motori
Inanellati giovanotti di latta
Risuonano come narcisi
Nel rosso
Il brasiliano ha la macchina ben bilanciata,
Proserpina come Moreno
Brasiliano piloto del sole
Plutone Plutone
Sale.

Per i testi definiti «dono degli dei» credo che l’espressione sereniana sia quanto mai esplicita. Sereni tuttavia la riferiva (citando Valéry) al primo verso, lasciando intendere quanto invece «il resto» fosse opera di bulino. Per esperienza posso estendere la definizione a certe brevi composizioni (quattro-cinque versi in tutto) scritte di getto nei momenti più svariati e passate indenni attraverso le successive e severe recollections in tranquillity. Il breve testo “L’aspide” potrebbe costituire un buon esempio per questi testi della fanopeia (per ricorrere nuovamente alle categorie poundiane).

L’odore di resina e c’era
Tra le fessure di roccia i fili d’erba
Rosso il capino dell’aspide.
Un garofanino di montagna.

Sta di fatto che versi aventi questo tipo di matrice compositiva possono ritrovarsi anche in testi più complessi. Per esempio il finale melopeico (per chiudere con le categorie poundiane) del già citato componimento “Come un polittico” («Mentre il vento capriccioso corteggiava come amante / i pioppi giovani. / Fino a farli fremere») o i versi iniziali della poesia “Lafcadio”:

La chiesa vaticana a riguardo
Segreto secreto dalle sue labbra oscure
Ripropone bromuro
Dato per secoli a’ soldati suoi cavalli e collegiali (…)

Naturalmente all’espressione «dono-degli-dèi» potrebbe ben più verosimilmente sostituirsi un’oggettiva riflessione su inconscio, conscio e pre-conscio, in virtù della quale gli dei farebbero il dono a chi se lo merita; anzi, non sarebbe affatto un dono, ma il naturale output di quanto seminato precedentemente in decenni di letture e rinunzie e vita appartata (input onnicomprensivo). Ma tutto sommato mi sembra più espressivo continuare ad usare l’espressione di Sereni e Valéry.
Più complessa da esemplificare la genesi dei racconti in versi, i quali – a loro volta – possono essere di tipo palesemente narrativo, oppure più sfumati, più lirici. A questo secondo gruppo di racconti in versi appartengono la storia di Jucci – apparsa nel 2014 nello Specchio – e Monte Athos, Pelle intrecciata di verde, Spiga di grano matto. Tra i racconti in versi più esplicitamente narrativi posso citare Aeroporto contadino, Cinema rosa e Suora carmelitana. Questi racconti, raccolti sotto il titolo Suora carmelitana e altri racconti in versi, dopo ventidue anni sono stati ristampati nel 2019 da Guanda nei Tascabili.

Testo tratto da: Franco Buffoni, Gli strumenti della poesia (Interlinea, 2020)

Motel

0

di Monica Pezzella

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Binari, romanzo d’esordio di Monica Pezzella, TerraRossa Edizioni 2020)

La prima lettera dell’insegna nel vicolo si è spenta. Non si sente niente ma è come se il ronzio del neon in embolia riuscisse a trascinarsi fin lì nonostante la morte che se lo tira dietro. Fino all’angolo, sul balcone che gira e da cui si può spiare. Il dubbio è arrivato in quel momento, quando questa Voce ha sentito il rantolo. Era hotel o motel? Dopo averlo guardato per vent’anni, questa Voce adesso non lo sa. Il neon che diceva? Dev’essere motel, perché faceva venire in mente le puttane o qualcosa che ha a che fare con le puttane. Piccole cose evocative di un uomo che in teoria non va a puttane ma in pratica potrebbe esserci andato, una due anche tre volte pure trenta e già a quattordici anni.

È un motel. Da vent’anni almeno. La luce viola dell’ingresso che si inabissa in gradini bordati di un azzurro opalescente verso divani e pouf di maschi e femmine coi cocktail per aria e i soldi di carta che slinguano da taschini e mutande. Giù in fondo qualcosa di più intimo, letti accartocciati rotti dai listelli delle persiane in controluce. E dunque, la m delle puttane è morta. Senza sovrastrutture e sipari e veli consci né fondamenta e paracadute e materassini inconsci, questa Voce ha pensato: Se ci fosse un posto in cui entrare e dire Ammazzatemi con dentro qualcuno che ti risponde Come le pare e che poi ti garantisce che al novanta percento il tutto si riduce a Dormirai… lo faccio. Lo ha pensato in pace. Razionalmente. Né più né meno che un va bene. Lo faccio mi va bene. Leva il dolore fisico, magari una fitta elettrica nel cuore la puoi prevedere, ma leva la paura folle del se dovesse durare tanto. Che può importare invece nella vita una mera questione di tempo in più tempo in meno?

La sigaretta – c’è molto di vivo nella cenere infuocata quando cade e si sgretola nel buio lungo la linea verticale del palazzo che diventa obliqua e spezzata nel punto in cui incrocia la luce del faretto sul cancello – non ha sapore.

Non ha sapore.

Ci si immagina di tutto. Tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si vive. Non ci sarà più. È stato questo a cambiare le coordinate dello spazio e del tempo e le categorie della mente. Ma se sei sette giorni fa al massimo F. ha domandato Voi cosa non fareste mai? e questa stessa Voce ha risposto… Ha risposto: Ammazzarmi. Quella brutta stufa finta che rovinava il tappeto egiziano e B. che spingeva le carte con un dito solo, bianco e tirato, e faceva frinire il vetro umido del tavolino e quando le carte si appiccicavano le bottiglie dei liquori sul ripiano sotto tintinnavano e i bicchieri vomitavano e S. era già ubriaca quando F. l’aveva domandato e infatti lei non aveva risposto. In parecchi altri avevano risposto oltre a questa Voce che diceva secca come un colpo di fioretto Ammazzarmi. Ma quanti stavano lì nel salone e quanti ancora in cucina? Erano passati oltre.

Non ci sarà più lui. La prospettiva di non essere più lui, da qui alla fine del tempo, ha mortificato il tempo. Ci si dimentica di tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si lascia passare. Lui rispondeva abbassando la testa e le palpebre vibranti e si inumidiva il labbro inferiore o quello superiore e mai possibile che questa Voce cominci già a dimenticare ed era un gesto così delicato che non ti veniva di pensare alla lingua e buttava fuori un po’ di fiato mentre si girava dall’altra parte e poi, ancora ancora, l’immagine sta salendo: teneva la sigaretta con le prime tre dita come teneva la penna, no, il portamine con la clip in acciaio che agganciava alla millimetrata, i rotoli di millimetrata con le planimetrie nel portaombrelli di legno dietro la scrivania e dietro il planisfero color sabbia che sembra caffè rovesciato e dietro ancora la finestra l’abusata finestra banalissima musa delle suggestioni e sopra la scrivania l’avvilente disordine di un uomo che in teoria è maniaco dell’assetto, della riga, del millimetro ma in pratica tutte le sue cose sono nel caos e fuori dalla finestra la città che in teoria è l’emblema dell’ordine, dell’assetto, dell’armonia ma in pratica è il comune caos umano che si dibatte in milioni di buchi pure se squadrati nei muri di mattoni in stile georgiano e davanti alla finestra al portaombrelli alla scrivania la porta e dietro la porta lui, il sesso si buttava nell’uscio e quand’era chiuso si insinuava nella serratura e non serviva chiudere a chiave se tanto sperava sempre che entrasse in qualche modo, bussasse piano forte o da ira di dio, insistesse, gridasse, ridesse, piangesse, seducesse, implorasse, impazzisse, in qualche modo a modo suo, e teneva le mani buttate nelle tasche quando si girava a fingere di non volerlo ché non lo stava mica aspettando e neppure l’aveva sentito e invece aveva sentito persino quel suo profumo che metteva quando si andava a vendere alle vecchie e per quanto negasse a sé stesso proprio quel profumo e proprio i vestiti che aveva di nuovo addosso dopo che di dosso chissà chi glieli aveva levati o strappati lo riducevano a uno squilibrato che dà di matto perde il controllo quella combattutissima e poi sempre totale e redentrice perdita di controllo quell’estremo peccato che lo purificava e gli toglieva i dolori dal corpo quel corpo di un uomo di una normalità perfetta e questa Voce sa di più sa molto molto di più vuole continuare a sapere com’è fatto e come reagisce e cosa vuole e cosa disprezza e cosa esige e cosa lo eccita e cosa lo spegne ma sente il male pungere e arretra e i particolari si annacquano, affondano. Affogano.

La m delle puttane è morta.

Piccole cose evocative di un uomo che in teoria non andava a puttane ma in pratica desiderava quella puttana come un animale, un poco di più ma a volte persino meno di un animale. La prospettiva di non sentire quell’esatto tipo di desiderio da qui alla fine del tempo. Non esiste, per questo l’ha pensato. Non potrà più essere lui, questa Voce, anche se l’ha sempre solo immaginato, anche se ha vissuto tutta la vita nella mente e proprio perché ha veramente vissuto, è veramente stato, questo è morire. E c’è di peggio. C’è vederlo in altri in altro modo e non poterlo più sentire. E c’è di peggio ancora. C’è ricordarlo.

Dimenticherò anche la cosa più piccola anche quel fastidio di essere sfiorato quel piacere di scoparti quando non ti dovrei scopare la rabbia per non averlo fatto la rabbia per averlo fatto l’abbandono dimenticherò l’amore.

E allora l’aveva pensato. Razionalmente. Come si mettono i pesi sui piatti della bilancia e si vede pendere il braccio da una parte ed è quella sbagliata ma che ci puoi fare sta pendendo veramente di là. Contro ogni previsione, contro ogni aspettativa, contro ogni speranza, contro tutti i buoni propositi e la testardaggine di quando questa Voce aveva risposto Ammazzarmi. Io, mai.

Post in translation: Abdalhadi Alijla

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photo-Iskandar Sidari Franco

Fine del gioco
di Abdalhadi Alijla

traduzione dall’inglese di Fabiana Bartuccelli

Ho aperto gli occhi al mondo in una città in cui non c’era vita per l’infanzia. Ho aperto gli occhi in un campo di battaglia. Nessuno mi aveva detto chi fossero i soldati, o cosa fosse l’occupazione.
Sono cresciuto pensando l’anormalità come normale, pensando che quelle persone che incutono paura, sempre e ovunque vadano, non ci appartenessero.
Quando ho aperto gli occhi al mondo, pensavo che quei giovani adulti e i ragazzi che fuggivano dai soldati stessero giocando a nascondino o forse praticando il loro hobby della pesca.
Mi sbagliavo.
Col passare dei giorni, delle settimane, di mesi e forse anni, ho iniziato a capire che quegli uomini armati sono il nemico, l’occupazione, e che non hanno altro intento che quello di uccidere.
La prima volta che me li sono trovati davvero vicino, è stato quando con mia madre andavamo per la strada principale verso il mercato. Avevo tre anni.
I veicoli arrivavano da lontano e la gente ha cominciato a correre.
Mia madre mi ha tirato improvvisamente più vicino a sé, mi ha preso in braccio e camminando mi teneva stretto mentre osservava le tre jeep militari che passavano.
Sentivo i suoi battiti cardiaci in quella stretta. Quando mi ha rimesso giù, ho avuto una ventata di sollievo seguita da una vampata di confusione.
In quel momento, ho capito che qualcosa non andava. Non mi ha mai più portato con lei al mercato.
Il mio primo gioco con i coetanei del quartiere, si chiamava “Ebrei e Arabi”. Le prime volte, non ho rifutato l’idea di fare l’ebreo, che qui voleva dire l’esercito, “Al Jaish”.

photo-Iskandar Sidari Franco

Un giorno, ci siamo riuniti nel quartiere per giocare a “Ebrei e Arabi’, avevo quattro anni. Essendo il più giovane del gruppo, mi dissero che sarei stato io il “Jaish”.
– “No. Io voglio essere arabo”, ho detto.
– “No, noi siamo gli arabi, tu sei un ebreo, tu stai con loro”, ha sottolineato al gruppo uno dei bambini più grandi.
Non ero contento di questa cosa e ho detto:
-“Io non voglio essere un ragazzo cattivo. Non sarò un soldato”.
Mi sono sentito preso d’assalto e arrabbiato, così sono andato a sedermi su uno dei blocchi di cemento vicino al muro dei nostri vicini a guardarli giocare. Gli arabi lanciavano pietre e insultavano gli “ebrei”, mentre i ragazzi che interpretavano i soldati facevano finta di sparare, riproducendo il suono dello sparo con le labbra. Quando finivamo di giocare, di solito andavamo a installare un posto di blocco tra le rocce e i rami degli alberi, costringendo i veicoli a rallentare, mentre impugnavamo i nostri bastoni di legno, simulando pistole.

photo-Iskandar Sidari Franco

I conducenti avrebbero avuto reazioni diverse. Alcuni ci avrebbero lodato chiamandoci “eroi” e aggiungendo un po’ di gioia mostrandoci la loro carta d’identità. Altre volte, avremmo trovato delle teste dure che iniziavano a insultarci ancora prima di arrivare, annunciando così la fine del gioco.
Un giorno, i miei occhi sono stati attirati da un giornale che qualcuno aveva gettato in strada. Ho sempre avuto una certa passione per le foto dei giornali. Mi sono avvicinato lentamente, coi piedi scalzi e coperti di polvere per aver corso e camminato così nelle vie, ho preso il giornale e l’ho portato a lato della strada, andandomi a sedere all’entrata di casa nostra. Ho cominciato a sfogliarne le pagine, una dopo l’altra, imitando mio padre nella posa della lettura, ma guardavo solo le foto. Di colpo, i miei occhi si fissarono su una pagina piena di immagini. Erano immagini a colori. Nelle foto si vedevano donne in lacrime, corpi, sangue, bambini morti e soldati con le pistole.
Mi ritrovai in ginocchio, chino sul giornale, strizzando gli occhi, tentando di esaminare i corpi dei bambini.
“Perché non hanno gridato”, quella voce risuonò nelle mie orecchie. Più tardi, dopo molti anni, ho appreso che la voce dei bambini non la si sente nei grandi massacri, solo il suono di proiettili e pistole.
Ho passato più di mezz’ora a scandagliare le immagini. Una per una. Improvvisamente, fui preso dalla rabbia, presi il giornale e andai da mia sorella maggiore.
– “Butta via quella spazzatura”, urlò mia madre da lontano, riferendosi al giornale.
– “Tuo padre te ne procurerà di nuovi domani”, disse.
Non le ho dato ascolto, ho aperto la pagina dove c’erano le foto e ho chiesto a mia sorella:
– “Chi li ha uccisi?”
Mi ha guardato, poi ha guardato il giornale e ha letto per qualche istante, finché mi ha detto: “l’esercito”, Al Jaish.
-“Perché?”, ho chiesto.
Si trattenne un attimo, poi disse: “Perché sono come noi, palestinesi”.
– “Uccideranno anche noi?”, ho chiesto.
– “No, tutto questo è in Libano, Sabra e Shatila, è accaduto tanto tempo fa”, alzando la mano all’altezza del viso e facendo movimenti all’indietro, e dicendo: “Zamaaaaan, Zamaaan”, che significa che è stato molto tempo fa, per farmi calmare e per dissipare le mie paure.
Avrà capito che le mie parole mostravano una profonda paura.
Da quel momento, Sabra e Shatila non hanno mai lasciato la mia mente e non ho mai dimenticato il massacro. Come nessun bambino avrebbe mai dimenticato la prima volta in cui è salito su una nave, io non ho mai dimenticato la prima volta che ho preso un giornale che mi ha dato il benvenuto con un inizio tanto brutale.

photo-Iskandar Sidari Franco

Ma da quel giorno mi sono proprio attaccato ai giornali. Una volta, mio padre mi trovò a raccogliere giornali per strada, tutto preso ad osservarne le foto.
– “Buttalo via. È sporco”, ha gridato.
– “Voglio vedere le foto”, ho risposto.
– Mi ha detto: “Va bene. Te ne porterò di nuovi, domani”, ordinandomi di rientrare.
Poco tempo dopo, durante quella settimana, ho trovato un tesoro. Era nella stanza di mio fratello, sotto il materasso di uno degli ampi letti matrimoniali di casa.
C’erano una decina di riviste a colori. Il nome della rivista era “Abir”, si trattava di una rivista nazionalista con molte immagini a colori di “Fidayeen” e “Moutaradeen”, cioè di combattenti della Resistenza e combattenti ricercati. Ho passato molti giorni così, a svegliarmi per prendere una rivista, e sempre immerso a guardare le immagini non essendo in grado di leggere una riga.
Quella settimana, mio ​​padre iniziò a portarmi il quotidiano Al-Quds ogni giorno, al rientro dal lavoro. L’ha comprato ogni giorno fino a quando non è andato in pensione. Aspettavo tutti i giorni il suo ritorno. Appena lo vedevo apparire in strada, era corrergli incontro, scalzo, per prendere ogni cosa di quel che portava, frutta o verdura, e il giornale.
Una delle mie sorelle maggiori, che leggeva i giornali, me lo sfilava dandomi gli allegati culturali e sportivi finché non finiva di leggerlo. Contenevano più foto, così mi ritenevo soddisfatto. Quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina tornò in Palestina, altri due giornali si aggiunsero ad Al-Quds, “al-Hayah” e “al-Ayyam”. Io e le mie tre sorelle maggiori facevamo a gara a chi li avrebbe letti per prima.
Da adulto, ho cercato di immaginare la mia infanzia senza i giornali, senza le riviste, senza le immagini, senza le parole e l’odore dei giornali. Senza di essi, il mondo sarebbe crollato. Sarebbe stato più caotico. Per me, i giornali e le immagini erano il mondo che mi teneva altrove dal gioco “ebrei e arabi”. Erano la mia lotta quotidiana per rinnovare il mio mondo e porre domande per un dopo, a cui non ho smesso di rispondere fino ad oggi, dopo più di trent’anni.

Abdalhadi Alijla è un sociologo, politologo e scrittore palestinese. Membro della Global Young Academy e co-fondatore della Palestine Young Academy, è autore del libro « Trust in Divided Societies » (Bloomsbury Academics and I. B. Tauris UK). Ricercatore associato all’Università di Gothenburg e socio del Post-Conflict Research Center di Sarajevo, ha pubblicato numerosi articoli in diverse riviste internazionali. Di prossima uscita un romanzo autobiografico.

 

Lagioia e il male

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ph. Mimmo Jodice - Roma, 2006
ph. Mimmo Jodice – Roma, 2006

di Lorenzo Ciarrocchi

Una città dove il sangue dei ratti cola sulle biglietterie del Colosseo; dove la mancanza di un sindaco trova una risposta asimmetrica nella presenza di due papi; dove le dinamiche cittadine sembrano rispecchiare il caos totale di una città coperta da una coltre di fascino e spazzatura; una metropoli che, per usare Rilke, «esala un fetore di patatine fritte e angoscia»: questa è Roma, conditio sine qua non della vicenda narrata da Lagioia in La città dei vivi (Einaudi, 2020), l’omicidio di Luca Varani avvenuto nel marzo 2016. Un romanzo che non si ferma al reportage di una vicenda di cronaca nera ma che elabora un’intensa riflessione sul rapporto collettivamente represso nei confronti del male.

Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?

In La città dei vivi il male viene riportato alla sua condizione razionale; la figura del mostro immaginata come un’esistenza concreta, distante, altra, viene costantemente frantumata e redistribuita. Questa frantumazione avviene nei momenti in cui l’essere umano si aggrega in non-luoghi, in eterotopie dove, percependo di essere parte della massa, chi si sente attaccato dal mostro coglie l’occasione per sottolinearne la propria distanza. La ricchezza di informazioni del romanzo mostra infatti, oltre agli aspetti più tecnici dell’indagine, anche la vox populi della vicenda:

«Se chiedessi la pena di morte per questi maledetti mostri, la cosiddetta intellighenzia mi darebbe addosso. Bene, fatelo tutti, perché io questa volta la pena di morte la vorrei. Fortissimamente la vorrei». (Rita dalla Chiesa)
Luca Varani ucciso da gay pervertiti.
Froci demmerda #lucavarani
Chi usa gli strumenti del demonio si illude di acquisire poteri che altri non hanno.
Maledetti, esseri spregevoli, seguaci di Satana.

Quando si tratta di analizzare le reazioni sui social a fatti di cronaca nera dove lo sciacallaggio dei media e il feticismo per il macabro hanno la meglio, è fin troppo facile vedere quanto sia immediata l’inversione dei ruoli tra vittime e carnefici, dove l’irrazionalità della massa, almeno a parole, non farebbe fatica a macchiarsi del sangue dell’assassino. Tuttavia, la profondità del ragionamento di Lagioia trascende la portata della reazione “a caldo” evidenziando ogni nervo scoperto della vicenda, e rendendo chiunque inevitabilmente partecipe. È qui che, dopo la frantumazione del male, si innesta la sua redistribuzione.

«Facile la discesa all’Averno», così Virgilio introduce la quarta parte del romanzo. Lo stesso Lagioia, interrompendo la narrazione dei fatti dell’omicidio Varani, confessa quale sia stata la sua vicenda personale che lo ha legato così fortemente al caso che sta seguendo; un accadimento della sua gioventù, apparentemente marginale, che non ha nulla a che vedere con l’efferatezza del caso Varani: ma proprio qui si sofferma lo scrittore, chiarendo come spesso la discesa verso l’abisso possa essere un semplice inciampo che, approfittando di complessi personali e situazioni irrisolte, fa rotolare in maniera incontrollata nella perdita più totale di sé. Una volta sprofondati, dove maggiore è la repressione più pericolosa sarà la reazione. La risalita avviene solo tramite delle «sregolatezze» e il segno indelebile che queste lasciano sulla nostra pelle: tuttavia, esiste chi la tragedia riesce solamente a sfiorarla e chi invece, mancante di appigli a cui aggrapparsi, abituato al buio, si trova a esserne protagonista, come Manuel Foffo e Marco Prato. Traumi e abissi che esplodono con estrema violenza dopo essere stati sublimati per anni, e che prescindono dalla condizione sociale di ciascun individuo, la cui trasversalità caratterizza tutta la vicenda. Tre classi sociali diverse, tre contesti familiari diversi e tre rapporti con la propria identità sessuale diversi. Un solo comun denominatore: vuoti affettivi. Mancanze familiari nascoste per anni che trovano il loro sfogo in una vicenda che viene assimilata a un omicidio rituale. Nessuno di quelli che si sono approcciati al caso Varani ne è uscito indifferente: poche vicende come queste, se approfondite, portano a galla una parte di noi che chiunque vorrebbe soffocare ma che si è costretti ad accettare e che non appartiene a una componente irrazionale e incomprensibile. Il male viene perciò restituito da Lagioia a ciascuno di noi rendendoci partecipi dell’orrore supremo, l’omicidio efferato, la cui indecifrabilità affonda le sue radici in un passato di cui tutti facciamo parte, di cui tutti riconosciamo il segno, la scheggia del male frantumato.

Presenza necessaria che percorre silenziosamente tutto il romanzo è la città che fa da sfondo alla vicenda: la Roma del 2016, intossicata dai rifiuti ed eternamente contraddittoria; la città del cinismo, dove nessuno è destinato a lasciare il segno. Monumenti eterni dell’antichità che, oltre a essere un terreno di lotta per ratti e gabbiani, fungono da monito per i viventi: l’unica cosa eterna è la transitorietà.

Ci sono le città dei vivi, popolate da morti. E poi ci sono le città dei morti, le uniche dove la vita abbia ancora un senso.

Una città che crea dipendenza per la sua mancanza d’ordine, per il suo afflato vitale che si traduce in una costante precarietà. Lagioia ne elenca i posti e dialoga con essi, chiedendosi se ne sia ancora degno e descrivendo come la parte più remota della borgata possa incrociarsi e guardarsi in faccia con la parte più benestante della città, dove tutto crolla da sempre ma tutto rimane al suo posto.

 

Le ultime cose – Manuel Maria Perrone

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Le ultime cose

 

La morte a cui ci hanno convocato

E che ci aspetta ignara da qualche parte nella vita

Avrà l’odore di quello che abbiamo realmente vissuto

O sarà il ricordo di quello che avevamo dimenticato?

 

 

Gisella era stata la prima a morire, mentre la morte iniziava ad essere presente tra di noi.

Era morta come muoiono i giovani, sorprendendoci, rovinandoci il programma di una felicità illimitata.

Era morta mentre io ero altrove, festeggiando i miei primi 25 anni, con amici casuali.

Al mese aveva deciso di morire anche mio nonno. L’aveva deciso un collasso cardiaco per lui, un collasso che l’aveva tenuto gli ultimi 2 mesi in un letto, costretto a meditare notte e giorno sulla morte.

Avevo deciso di andare a trovarlo, per riuscire a vincolarmi al movimento della morte (Gisella rimaneva astratta, per me, non sapevo bene dove) far entrare per sempre in me forse una consapevolezza, forse un ricordo o una sensazione.

Mio nonno mi aveva guardato mentre usciva paura dai suoi occhi, uno strano sorriso gli disegnava la bocca e il corpo, in sciopero, costringeva al silenzio il suo discorso.

Né saggio, né idiota: moribondo.

Quando l’avevo visto, avevo parlato per primo: “ti sei seduto per terra e non ti alzi più!”, facendo eco alla minaccia che aveva disciplinato i nostri incontri quando io ero bambino: “Guarda che se non la smetti mi siedo per terra e non mi alzo più!”.

Gli credevo e obbedivo, temendo l’inesorabile che scaturiva da quella minaccia.

“si- mi rispose e lasciò di nuovo spazio al silenzio della flebo- e da quaggiù mi sono messo a pensare”

avevo chiuso gli occhi, per guardarlo come lo volevo vedere: veramente seduto per terra, nell’angolo di un patio, nudo, calvo, ciccione, con i suoi baffi e i suoi occhiali di sempre. Guardandolo come se io fossi altissimo, vedendolo restringersi e scomparire nel suolo.

Riaprii gli occhi e mi stava guardando: “E tu chi sei?”

In Africa quando muore un vecchio, i bambini si mettono i suoi vestiti e vanno in giro imitandolo.

La gente ride e così si accompagna lo spirito della persona a diventare un ricordo.

Corsi in giro per la stanza, come un giullare arrabbiato, aprii cassetti, mi infilai nervoso i suoi vestiti, mi imbottii con cuscini, infilai le sue scarpe e i suoi occhiali di ricambio e completato questo rituale carnevalesco, mi fermai e sorridendo, gli dissi:

“Don Italo Incauto, per servirla” e dopo avergli rubato il nome gli rubai le abitudini, imitandolo nelle varie parti grottesche del suo carattere. Mi mostrai permaloso, vittimista, mangione, ciarlatano, buffone, mentre lui mi guardava incredulo e irritato.

Quell’anno morirono in molti, marcando un prima e un dopo.

Alfonso e Filippo, maggio e agosto, Laura, ottobre, Andrea e Dafne, novembre e dicembre.

Morti, come cicatrici nel calendario.

 

Di Gisella mi ricordo il nostro primo incontro.

Erano i tempi delle feste del coprifuoco. Ci si incontrava tutti in una casa, mezz’ora prima del coprifuoco e la festa durava forzatamente fino alla mattina dopo. Ballavamo nella stanza della casa più lontana dalla strada, per occultare la vita domestica in quelle ore proibite. Per questo spesso si stava in una lavanderia o nella stanza di un bambino, premurosamente traslocato altrove.

La conobbi ballando e ridendo.

La intuii parlando con lei.

La svestii guardandole gli occhi.

Facemmo l’amore nascosti .

Nell’impeto che sussurra l’orgasmo aveva gridato e si era scostata:

“Ahia, ma sei scemo?”

ero rimasto incredulo e spaventato, non riconoscendo da dove veniva quel cambio, ignorando l’errore che avevo dovuto commettere.

Mi aveva guardato severa per un buon momento, poi era scoppiata a ridere e mi aveva detto :

“mi piace, mi eccita tantissimo questo cambio improvviso tra due emozioni cosi opposte: la faccia che fa l’uomo quando si sentiva un eroe e un attimo dopo, senza sapere perché, si sente una merda. Scusa, lo faccio sempre: mi piace tantissimo!”

E aveva iniziato a riempirmi di baci su per il collo, mentre io restavo immobile, congelato dalla situazione e da quelle parole.

“L’uomo….lo faccio sempre…”

vedendo che non recuperavo entusiasmo si staccò, mi prese i vestiti e fece per scappare.

La guardai : capii che dovevo accettare le sue regole, il suo gioco e solo cosi potevo divertirmi con lei.

Presi il tubo della doccia e lo puntai come una pistola, guardandola con un giocoso disprezzo: “Non so chi sei, come ti chiami, cosa fai, so solo che sei sul mio cammino”

“Gisella”, mi disse timida mentre io aprivo la doccia, senza scrupolo, sacrificando lei e i miei vestiti al gioco. Dopo un po’, continuando a dirigere lo spruzzo, mi resi conto che stava nel suolo, e non si muoveva. Spensi l’acqua, vidi che boccheggiava, senza riuscire a respirare. Mi avvicinai, la guardai e invece di baciarla le tolsi una ciocca di capelli che le scivolavano tra le labbra.

Mi indicò con la mano la sua borsa. Corsi a prenderla, estrasse un Ventolin e iniziò a farsi respirare da quello strano oggetto. Non avevo mai visto un oggetto simile e, credendolo una droga, mi allontanai di qualche passo. Quando si riprese mi guardò, sorrise timida : “mi chiamo Gisella e soffro d’asma, ogni tanto”.

Ci amammo per vari anni, soprattutto attraverso lunghe lettere, perché uno e l’altro vivemmo altrove.

Morì tra una lettera e un’altra, in una di quelle pause necessariamente lunghe nella nostra conversazione. Mi chiamò un giorno sua madre, me lo disse, senza fronzoli. Lo accettai come un fatto, senza domande.

Dieci giorni dopo ricevetti una sua ultima lettera, che mi aveva raggiunto oltre la morte: allegra, idealista, spensierata, macchinando progetti e aggrovigliando idee.

Ignara che era già morta, al momento di ascoltarla scritta. Venne quella lettera a rendermi più astratta la morte.

Anche gli altri morirono astratti, senza lasciarmi guardare, né capire.

Tornando a casa dall’ultimo funerale di quell’anno imbarazzante, mi sentii l’odore addosso.

Mi svegliai la mattina dopo e avevo i capelli bianchi: il mio corpo aveva intuito prima di me la frattura, aveva capito che si diventa vecchi, semplicemente perché è arrivato il momento. Io ci misi molto più tempo ad accettarlo e, giustamente come un vecchio, mi tinsi i capelli.

Non mi mancavano le persone: mi mancava la forza per ridurre tutto in ricordo.

Mi sentii solo non perché non c’erano, ma perché avevo la responsabilità di non dimenticare.

Capii che le persone, quando muoiono lasciano il proprio corpo, per andare ad appoggiarsi su chi le ricorda: ne aumentano il peso e moltiplicano i dialoghi che si sussurrano nelle loro menti.

Non potevo più pensare solo a me stesso: dovevo pensare anche a loro, adesso.

E non ne avevo voglia.


 

Manuel Maria Perrone. Artista. Svizzero. Più neutro del formaggio, più puntuale del cioccolato.

Contro Maradona

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Nicla Vassallo

di Nicla Vassallo

Nicla Vassallo

Nicla Vassallo (https://niclavassallo.net/), saggista, poeta e professore ordinario di Filosofia Teoretica, ha rilasciato qualche intervista su questo nostro bislacco e stravagante andazzo. Qui, di seguito, si esprime su Maradona.

25 novembre 2020?

Nicla Vassallo: Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (https://www.youtube.com/watch?v=sBIi_-3IfJk). Muore Diego Armando Maradona. Ironia della sorte. Meglio, una vera e propria beffa. Si è parlato ben più di Maradona che di violenze contro le donne. Un’assurdità. E di Maradona si continua a parlare (al bar e soprattutto sui media), mentre delle violenze contro le donne, relegate ormai nella cronaca nera, ci si interesserà “seriamente” il prossimo 25 novembre, ovvero nel 2021. I media ci stanno inondando di Covid e Maradona.

Diario d’autunno. Poesie, alberi, animali

3

di Francesca Matteoni

Jackie Morris, Hare

Nel mese di agosto ho cambiato casa e vita. Le prime settimane sono state occupate dal trasloco e dall’abituare Ariel, il mio gatto, al nuovo ambiente. Dalla fine di settembre ho cominciato a sentire il peso del distacco. Un lento trauma inevitabile, che viene con la scelta. Come chi si trovasse d’improvviso nello spazio aperto, dopo essere stata rinchiusa in un micro-mondo che credeva perfetto. L’aria fresca punge e rafforza, ma porta anche smarrimento. Volti, gatti, anni che sfumano dall’altra parte della città e nella pandemia. Li rivedrò, certo, come rivedrò la gente del paese-famiglia, non appena sarà sicuro muoversi, senza la paura di portare o ricevere contagio. Ariel è con me. Arrivato minuscolo nell’estate del 2018 dopo due brutte perdite di felini amati, l’ho forse viziato troppo, siamo quasi simbiotici. Cammina seguendomi nella boscaglia. Mi aspetta, perché ha paura delle persone che non conosce e dei cani. Mi sento colpevole, ma ho bisogno di lui. Lui ha bisogno di me. E poi le letture. In questi mesi a volte leggere è stato difficile, ma ciò non vale per la poesia, che ha la funzione di un talismano: posso aprire il libro e ritrovare versi familiari, che mi scuotono e schiariscono la visione delle cose.

Nel primo autunno mi hanno accompagnato bei testi di poesia di recente pubblicazione. Esco al mattino e vado a sedermi sulla sedia che ho sistemato nell’erba, accanto alla macchia boschiva. Ariel si aggira, prendendo confidenza, tenendomi d’occhio. Io apro il libro. È Noi, di Laura Pugno (Collana A27, Amos), un poema in più sezioni che sembrano emanate da due corpi in una storia d’amore.

luce corvina del corpo che ti è accanto

Non è per amore, sebbene con la sua luce che ricorda l’ombra, che ho scelto? La luce di chi ho accanto ricorda il buio eppure contiene il sole: l’amore ci avvicina alla nostra radice mortale. Non ci sono solo due amanti, qui. C’è la casa che si frantuma, c’è il bosco che la ricompone. Cosa vuol dire essere ricomposti dal bosco, mi chiedo, mentre alle mie spalle l’incolto è quasi impenetrabile, ho dovuto spezzare i rami per raggiungere Ariel nelle sue esplorazioni.

vedrai allora la casa, da dentro
di nuovo visibile, bosco, foresta

Segno la mia appartenenza perdendomi ogni volta. Segno l’amore con un patto di coraggio. Lascio entrare le parole nell’aria e poi all’interno – come se frusciando le pareti fossero tutte le case che ho abitato, e soprattutto i corpi di chi con me le ha rese vive. Ma i corpi sono come il bosco, per questo fanno e distruggono la casa. Resistono sotto ogni illusione di stabilità, ci portano via mentre ci abbracciano.

non avrai casa, è ora di andare,
sarà sempre, la stessa ora fino all’ultima

Seguo gli amanti che si dicono la verità, spezzano il mondo. Che si liberano dall’angoscia di possedere qualcosa o qualcuno. Si dicono di lasciare entrare il bosco, che vuol dire crescita incontrollata, ricchezza del sottosuolo, ostilità prima della bellezza. Che vuol dire accettare che non ci sia un io, ma un noi, una coralità in continua resa. L’altro fa luce dove non lo si può toccare, anche se ramifica nella memoria e nel sogno. Mi ritrovo qui:

verso una casa mai vista,
che lo stesso
è casa, non c’è altra,
è casa e il bosco
è entrato dentro, non c’è fuori,

non sarà mai
più solo, l’alba
viene di nuovo
perché tu la vedi,

col corpo prima che con gli occhi

Le cose accadono prima della loro comprensione: lasciarsi andare al dialogo significa imparare a tacere, mentre l’altro parla. Anche se parla di assenza.

Jackie Morris, Egret

Rientro nella mia abitazione, composta di due locali e un bagno. Nei libri la lingua si moltiplica, recupero molte me stesse in un alfabeto che disegna i corpi fra i secoli. Nel Settecento il filosofo inglese David Hartley scrisse di un unico “filamento vivente” da cui si sono sviluppati tutti gli animali a sangue caldo. Il nonno di Darwin riprese questo concetto nei suoi studi naturalistici che influenzarono la teoria dell’evoluzione del nipote Charles. Un filamento di materia, così facile da rompere o aggrovigliare. Forse quel filamento è la parola quando viaggia scarna da una voce all’altra. Filamenti (Einaudi) è il titolo dell’ultimo libro di poesia di Elisa Biagini, che si apre così:

Avvicinati allo specchio dello scrivere:
mordere terra, mangiare ombra

Scrivere come vedersi nella nostra parte più dura e comunque impalpabile (terra, ombra). Scrivere per avvicinarsi a ciò che è vero: non padroneggiarlo, ma registrare quel processo di ricerca che non è poi tanto diverso dal ritrovarsi senza la casa che credevamo di abitare.

Qui si va scalzi,
dicono, non le
calze promesse o
le pantofole andate
al calcagno: deve
risalirti quell’aria
al polmone, quella
che soffia nei cassetti
della terra.

Il dialogo avviene con due figure del passato, la cui voce rinasce nell’invenzione poetica. Uno è il fisico serbo Nikola Tesla, il padre dell’elettricità e dunque della luce che rischiara le nostre case, ora che i giorni si accorciano, che le piogge riversano lampi come scariche potenti dal cielo.

la luce che ci
asciuga fa questa
carne elettrica

L’altra è Mary Shelley, che ci parla da un diario personale, ovvero dall’opera-ombra dietro la scrittura. Il mostro di Frankenstein diventa il tentativo di rianimare la madre Mary Wollstonecraft, morta pochi giorni dopo averla partorita. O forse, mi chiedo, vuole resuscitare un ibrido fra la madre e l’amato? La scrittrice infatti prese il cognome dal marito Percy Bisshe Shelley, il “mio” poeta del vento, che da adolescente sognavo di incontrare fuori dal tempo. Morì in un naufragio nel Mar Tirreno quasi trentenne. Quando amiamo accettiamo di essere mortali, ho scritto. Quando amiamo riportiamo indietro qualcosa dalla morte, qualcosa che ci rende prossimi, solidali. Con dolore.

Ti ascolto, hai il respiro pesante. Rivivi le scosse del tuo tornare in vita. Un orecchio alla parola e uno al silenzio.

Riporto me stessa in un mondo, lasciandone un altro. I filamenti sono punti di sutura. Cosa sto imparando? Ottobre trascorre come la nostalgia di un periodo incantato, precluso. Con la paura della pandemia che cresce, ci restituisce la nostra originaria fragilità, ci mostra il lato selvaggio del mondo, lo stesso che è anche in noi e non ha nulla a che vedere con corse e grida su spiagge incontaminate. Quante volte la sensazione di ripartire da capo? Quante volte l’impressione che questo ulteriore inizio non sia che uno strato di pelle morta che cede, alimentando un fuoco dei miei resti? Sfoglio Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie), un’antologia poetica della canadese Margaret Atwood, tradotta in italiano da Renata Morresi. Ho libri di poesia della Atwood in originale e in traduzione. Il primo libro di poesia che lessi, in un’altra casa a Londra, era suo: The Door. Qui, inciampo in “Partenza dalla terra selvaggia”. Eccola

Io ero stata cancellata
dal fuoco, sono stata invasa
dal verde strisciante
(come
è lucida la stagione)

Col tempo gli animali
sono arrivati ad abitarmi

prima uno per
uno, di nascosto
(le loro tracce abituali
bruciate); poi
marcati i nuovi territori
sono tornati, più
convinti, anno
dopo anno, due
a due

ma inquieti: non ero pronta
affatto a quel trasloco in me

Loro capivano che ero
troppo pesante; rischiavo
di rovesciarmi;

avevo paura
dei loro occhi (verdi
o ambra) che mi brillavano dentro

non ero compiuta; di notte
non riuscivo a vedere senza una fiamma.

Lui scrisse, Stiamo partendo. Io dissi
non ho neanche un vestito
rimasto da indossare

Venne la neve. La slitta fu un sollievo;
il suo binario si allungava dietro
spingendomi verso la città

e dopo la prima collina fui
(all’istante)
svissuta: loro non c’erano più.

C’era qualcosa che mi avevano quasi insegnato
Venni via senza imparare.

Ogni poesia mi conduce altrove, mentre accetto ciò che ho scelto. Nella scelta sappiamo le ragioni, ma non sappiamo come reagiremo. Per questo, penso, a volte è più facile restare dove si è, anche se stiamo rinunciando a toglierci uno strato morto di pelle. Ma io non voglio il facile. Io voglio vivere. Così semplice ed enorme, questo fatto.

Jackie Morris, Otters

Qua vicino, dall’altra parte della strada, c’è un campo con una quercia. Decido che io e la quercia faremo amicizia, perché ho bisogno di un albero. Olivi, querce, storie antiche. La passeggiata alla quercia è breve,  poi siedo a guardare le montagne che da sempre sono le vere mura della casa. Loro mi dimenticano continuamente. Continuamente mi fanno da madre. Grandi schiene che ci portano addosso come bambini inuit. Ho con me lo stesso libro, da giorni. È di Robert Macfarlane, lo scrittore naturalista e dell’artista Jackie Morris. Sono poesie dette dagli animali e dalle piante. The Lost Spells (Hamish Hamilton Books), gli incantesimi perduti, seguito ideale di un libro dal formato gigante, The Lost Words, composto da poesie e immagini per mostrare ai bambini le vite che rischiano di non conoscere mai. Ripenso a quando, in una libreria a Green Park, chiesi al commesso Tarka, la lontra di Henry Williamson: Tarka, the Otter. Il commesso era un ragazzo. Mi guardò: What is an otter? Pensai che fosse colpa della mia pronuncia, così glielo scrissi. Non lo sapeva davvero. Io non ho mai visto una lontra, ma so chi è. Penso che abitare in un mondo dove i bambini non sanno chi sono le lontre deve essere terribile. O i barbagianni. O le trote argentate. O le falene dai tanti nomi che devo ancora scoprire.

Leggo una poesia ogni tanto, centellino le immagini perché l’incantesimo duri più a lungo. Quando mi smarrisco sono gli animali a dirmi che va tutto bene anche se tutto va male. Il loro esistere oltre la mia lingua. Per molti anni ho trovato rifugio nella betulla della casa materna, poi si è ammalata senza rimedio e infine ha nutrito il fuoco di un camino. Una volta, nell’Inghilterra del sud, presa dall’angoscia, mi riparai per qualche ora presso un olmo, in un campo.

I castagni, i faggi, gli ontani dei luoghi dove sono cresciuta oppure ho abitato. Gli olivi così frequenti che quasi me li dimentico, come si dimenticano le vite millenarie. E qui: corbezzolo, un cipresso, biancospino delle fate, querce, questa quercia. “Impara a stare ferma”, mi consiglia. Non c’è altro modo per far pace col tempo.