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Alberi maestri

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di Franca Mancinelli

Betulla Bianca di Sebastiano Guerrera

ogni giorno per il taglio utile
ricominciare, e mai giungere
a se stessi –spezzata la custodia
della nascita, niente
altro che filamenti buoni al fuoco.

***

ho visto gli occhi degli alberi

nel folto una scossa
di chiarore rimasto –a vegliarci
come fitta pioggia che aspetta.

***

era inerte l’aria, percorsa da tremori e scosse. Bisognava ritrarsi, mettere in serbo la vita, sospingerla verso zone dove si aprivano sacche di quiete. Così sono cresciuto in questa forma amputata. La strada accanto puoi vedere in me come brucia.

***

non è stato intagliato
non è ancora dentro un viso.
Quando prende parola
la sua presenza trema.

***

ho iniziato a curvarmi, a prendere la strada del ritorno. Vado incontro ai fratelli che premono –mie biforcazioni notturne.
La superficie si infrange nascendo –la sfioro. Il cielo ha l’odore della mia linfa. Ho circoscritto me stesso. La mia maestosa statura.

***

dai rami della specie
la nuca, una cima
in ascolto tentenna

tutto l’andare è tornare,
un fascio di legna raccolta.
La sua fiamma mi schiuderà le mani.

***

da qui partivano vie
respirando crescevo

nel crollo, qualcosa di dolce
un incavo del tempo

tutti gli occhi che ho aperto
sono i rami che ho perso.

***

entro nella pioggia come in un bosco
–ali fittamente intessute
aperte e richiuse sotto la scorza.
Cammino, la nuca protetta
dai miei custodi, liberato lo sguardo
dalla gabbia degli occhi.

 

testi da: Franca Mancinelli, Tutti gli occhi che ho aperto, Marcos y Marcos 2020

Piccola antologia della peste

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(Il 22 ottobre è in uscita, per Ronzani Editore, Piccola antologia della peste volume ideato e curato da Francesco Permunian che raccoglie i testi di trentaquattro autori, tra poeti e narratori, corredato dai disegni di Roberto Abbiati. Il brano che segue è l’introduzione al libro del curatore che qui ringraziamo. G.B.)

di Francesco Permunian

Il battito d’ali di una farfalla

«Mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l’universo e il suo ordine di valori, separato il bene e il male e dato un senso a ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo, che, in assenza del giudice supremo, gli apparve all’improvviso d’una spaventosa ambiguità; l’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative che gli uomini si divisero tra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello» – queste le parole di Milan Kundera, tratte da un suo breve saggio (La denigrata eredità di Cervantes) confluito poi in L’arte del romanzo.

Ed è appunto a tali parole – e alla conseguente immagine di un vecchio mondo finito in frantumi sotto i colpi di un virus letale – che s’ispira il progetto di questa antologia costituita dalle varie voci di una realtà improvvisamente implosa e ‘scomposta’ in mille schegge impazzite. Nella speranza di poter ricomporre, attraverso il collante della scrittura, gli infiniti frammenti di un unico affresco nazionale; o perlomeno di riuscire a tracciare i tratti salienti di quella cartografia dell’angoscia e della speranza in cui si rispecchia il volto dell’Italia di oggi.

I volti, per dirla con Fabio Pusterla, di quegli individui che si levano dal disastro contemporaneo e guardano verso l’alto «nell’ascolto dell’eco di un canto forse impossibile a cui non possiamo rinunciare». Ma anche i volti, aggiungo io, di coloro che guardano più prosaicamente verso il basso, nell’ascolto di un’arte nata come eco di quella risata di Dio che è il romanzo moderno.

Prosa e poesia s’intrecciano infatti in questa sorta di originale prosimetro privo di qualsiasi pretesa antologica, simile piuttosto ad un’opera aperta che sta tra l’indagine socioculturale e un inesausto work in progress. Insomma, un ritratto in divenire dell’Italia alle prese col coronavirus affidato alla penna di una trentina di narratori e poeti appartenenti a differenti generazioni, alcuni al loro esordio, altri nella piena maturità artistica. Taluni più noti al pubblico dei lettori, altri invece più laterali o di nicchia, con la presenza non secondaria di una pattuglia di giovani autori che operano e scrivono soprattutto sul web.

E, ciò che più conta, tutti provenienti dagli angoli più diversi del Belpaese, a conferma di una comune Patria letteraria fatta di tante piccole patrie locali, secondo la felice e feconda intuizione di Carlo Dionisotti. Una nazione, in sostanza, intessuta di svariate e molteplici parlate regionali, e perfino comunali: per dire, dal dialetto di una lontana contrada di Marsala – la contrada Cutusìu del poeta Nino De Vita – fino a quella ‘lingua di confine’, impastata di incroci ed esclusioni, che appartiene alla Lugano in cui vive e opera un altro poeta, Fabio Pusterla.

Scendendo perciò da quel confine italo-elvetico, ecco che si giunge di lì a un po’ su quel lago d’Orta in cui risuona il timbro della voce narrante di Laura Pariani per arrivare infine, dopo un bel salto a volo d’uccello, sulle coste dell’Adriatico con la Venezia di Pasquale Di Palmo, la campagna trevigiana di Luciano Cecchinel e di Nicola De Cilia, nonché il Friuli più schivo e remoto di Anna Vallerugo. Compiendo con ciò un itinerario che passa inevitabilmente attraverso il suo centro nevralgico, ossia la Milano di Cristina Battocletti, Pierluigi Panza, Italo Testa, Franco Buffoni, Romano Augusto Fiocchi, Alessandro Zaccuri. Ma anche di Francesco Savio, direi, quotidianamente diviso tra il bancone di una libreria milanese e un quartiere di Brescia, in buona compagnia tra l’altro con Giuseppe Piotti e la sua terribile peste di Salò.

Il tutto (tutto siffatto Nord letterario) storicamente e simbioticamente immerso in quel ribollente crogiuolo linguistico che è la Pianura Padana, humus da cui germogliano inquieti i fantasmi e i vampiri di Roberto Barbolini, arguto e brillante interprete di quella vena terragna e visionaria fiorita lungo il corso del Po e nelle zone adiacenti.

Zone fatte di terra e di acqua dove si muovono, altrettanto inquieti e intrepidi, autori quali Giuliano Gallini (Ferrara), Alice Pisu (Parma), Andrea Cisi (Cremona), Francesca Bonafini (Bologna), per non parlare di Renato Poletti che rumina e rimugina le sue ombre nell’estremo lembo del Polesine di Rovigo.

Proseguendo quindi lungo la dorsale appenninica ci si imbatte in Adrián N. Bravi, uno scrittore italo-argentino che da anni vive tra Recanati e Macerata e la cui prosa, guarda caso, dona l’impressione di essere misteriosamente sospesa tra le sottili invenzioni della sua lingua madre – lo spagnolo – e lo spettacolo melodrammatico della commedia all’italiana. In quanto, per dirla con le sue stesse parole, «possiamo scrivere, pensare e sognare in altre lingue, ma non potremmo mai fare a meno della maternità che la nostra lingua madre rivendica su di noi, perché la maternità di una lingua non ci insegna solo a parlare, ma ci dona uno sguardo e un modo di essere. Parliamo la nostra lingua madre in tante altre lingue».

E oltrepassate le Marche di Adrián Bravi, siamo già alle porte di Roma. Sulla soglia di quell’Urbe eterna che, assieme a Milano, conta il maggior numero di adesioni e contributi a questa Piccola antologia: da Dacia Maraini a Paolo Mauri, da Valerio Magrelli a Elio Pecora e altri valenti poeti e narratori quali Andrea Di Consoli, Gabriele Ottaviani, Leonardo G. Luccone, Fabio Donalisio, Gianni Garrera, Andrea Cafarella. E infine, a conclusione del nostro viaggio immaginario sulle ali di un virus, dopo Roma non resta che tuffarci nel multiforme mondo partenopeo. In certi suoi gironi infernali, qui rappresentati dalla lingua cristallina di Silvio Perrella oppure da quella – in puro barocco napoletano – dell’esordiente Mimma Rapicano.

Postilla

Nella premessa a Nuova teoria del caos («In matematica e in fisica, il cosiddetto ‘effetto farfalla’, causato dal semplice battito delle sue ali, esprime l’idea che minime variazioni nelle condizioni iniziali producano massime variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema») Valerio Magrelli suggerisce l’esistenza di una parentela non solo tra la poesia e la fisica matematica – vedi il suo Millenium poetry – ma altresì tra la chimica e la poesia, convinto com’è che quest’ultima sia innanzitutto una sorta di forma-pensiero, pensiero fatto forma, forma fatta pensiero, chimica non soltanto di parole, bensì di sillabe, lettere, spazi.

Autori vari, Piccola antologia della peste, 2020, Ronzani Editore.

Il mistero del violinista Raffaele Nobile

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di Kika Bohr
Sto cercando di scrivere qualcosa su un simpatico personaggio pieno di vita che incontravo ogni tanto per le vie e nelle inaugurazioni di mostre a Milano, era sempre accompagnato dal suo violino e ogni tanto da una ragazza che si mascherava da gatto. Era lui il “Gatto Teofilo” che risultava dal suo indirizzo di posta elettronica o era la sua ragazza, il “gatto”? e “Teofilo”?

Un giorno, in uno di questi incontri casuali mi aveva raccontato che aveva dato lezioni di violino a mia sorella alla scuola popolare di musica di via Santa Marta. Lei non ricorda di averlo avuto come maestro, comunque aveva suonato per un po’ il violino e aveva frequentato via Santa Marta… Realtà e fantasia si incrociavano nei suoi racconti come per i migliori cantastorie e lo si ascoltava sempre con gran piacere, come una vecchia conoscenza che si è sicuri di ritrovare improvvisamente girando l’angolo, con la felicità di sentirsi improvvisamente portati fuori dai crucci quotidiani. Perché da tutta la sua persona rubiconda, barba e capelli lunghi, corporatura tondeggiante, emanava una grande allegria e c’era ogni volta una felicità dell’incontro, rari al giorno d’oggi. Un giorno mi ha parlato del suo orto, Raffaele viveva fuori Milano, ma non in periferia, in campagna, forse. (Ultimamente ho saputo che era di Voghera, quindi a una sessantina di chilometri da Milano). Lo immaginavo allora mentre suonava “donna lombarda” (v. ad esempio qui) uno dei suoi pezzi forti, magari all’ombra di una pergola o danzando tra le insalate e i cavoli cappucci: qualcosa di panico si sprigionava dalla sua persona. La vita quotidiana per lui si mischiava spontaneamente alla cultura. Lo trovavo spesso alla Galleria Ostrakon di via Pastrengo a Milano. Lì, c’erano letture di poesia, mostre, presentazioni di libri in un piccolo spazio che offriva sempre novità interessanti. A volte Dorino Iemmi lo invitava a suonare, altre volte Raffaele passava semplicemente a bere un bicchierino e a fare quattro chiacchiere. Stupiva la sua capacità di mischiare cultura “alta” e popolare senza apparenti inibizioni. Ora ho scoperto che già nell’ ‘81 aveva scritto “L’albero del canto” e recentemente aveva pubblicato “Il testamento dell’avvelenato” un’altra piccola raccolta di canti popolari delle “quattro province” – un territorio dell’Appennino tra le province di Genova, Pavia, Alessandria e Piacenza. In realtà di queste misteriose “quattro province” parlava spesso nelle sue – a volte brevi altre lunghissime e piene di aneddoti – introduzioni che lui faceva prima di imbracciare il suo strumento.

Quando suonava però, nell’estasi musicale e nella danza – perché lui sembrava ballare mentre suonava – nella sua verve e con quel suono del violino allo stesso tempo sapiente e popolare, mi ricordava i violinisti di Chagall che ti portano come niente fosse sopra un tetto o in giro per il firmamento.
La sua “musica dei folletti” come la definiva a volte, (e come aveva scritto nell’astuccio dello strumento quando vendeva i suoi cd autoprodotti), non era una cosa da Walt Disney.

Ero sicura di avere qualche video o immagine di lui e ho cercato nei miei confusi archivi di tutti gli ultimi anni. Mi sono accorta che non ne avevo neanche una. Come è possibile? Forse perché quando c’era la sua presenza non si pensava a niente, ci si lasciava trascinare e incantare dal suono del suo violino, della sua voce e dai suoi lazzi, troppo felici di ridiventare bambini.

È scomparso improvvisamente un anno fa e mi sono resa conto di quanto poco si sa delle vite degli altri, anche di persone che ci sono sembrate così vicine….

Su Youtube si trovano parecchi video su di lui: ad esempio qui

Canto del maiale

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di Renata Morresi

Tra le poesie di Margaret Atwood che più mi sono divertita a tradurre ci sono i monologhi degli animali. Non si pensi tanto alla tradizione letteraria che li accoglie come simboli e allegorie: non sono le personificazioni della brava gente di campagna di Beatrix Potter, o i correlativi oggettivi dei modernisti, come il pesce dalle molte vite di Elizabeth Bishop o il pangolino di Marianne Moore con la sua corazza. Qualcosa delle creature di Atwood parla certo attraverso l’invito all’identificazione che porta a una rivelazione altrimenti preclusa. C’è, tuttavia, anche dell’altro: prendere le distanze dall’antica storia della superiorità umana.

 

In questi testi leggiamo, sì, la protesta degli animali che allegramente sfruttiamo e mangiamo, ma essa risuona di una più ampia protesta contro la nostra modalità di consumare il pianeta, e di consumare i soggetti subalterni attraverso rapporti di forza precaricanti. Non è una posizione politica nuova, né recente. Penso a Gandhi, che divenne vegetariano a Londra, dov’era andato per studiare da avvocato. Col tempo il rifiuto della carne, che in India aveva tranquillamente consumato da ragazzo, divenne una espressione dell’anti-imperialismo: gli inglesi si vantavano di consumare carne in gran quantità, lo vedevano come un punto di forza, come un tratto di buona salute, come la misura della loro efficienza imperiale. Il giovane attivista cominciò dal disinnescare il legame tra l’essere padroni di sé e l’essere carnivori. Con il vecchio Tolstoj si scambiarono lettere appassionate su questi temi, compreso il massacro degli animali in nome del desiderio e della sopraffazione.

 

Forse occorre una piccola premessa: il paradosso dell’uscire da una concezione antropocentrica, dall’autocompiacimento umano nel dominare la rappresentazione, restando umani, attraverso la nostra umanissima scrittura, è scontato e inevitabile. L’attività linguistica, la serie di riflessioni, il processo di conoscenza che elaborano questa richiesta a scansarsi dall’ossessione umana non sono tutti fenomeni umani in fondo?  Il non sequitur è solo apparente: se non possiamo uscire dalle nostre menti, possiamo, delicatamente, decentrarle, come voleva Robinson Jeffers, o almeno metterci un poco al lato, come suggeriva W.C. Williams. Ammettiamo, dunque, che la mente abbia confini meno certi di quanto un accanimento definitorio presuma. Che animali e umani siano una comunità. Non proprio benevola, evidentemente. Che siano un sistema, dunque, antichissimo, e con una enorme varietà di relazioni possibili anche oggi che maiali e galline non dormono più sotto i nostri tetti coibentati e zeppi di ripetitori.

 

Si tratta di relazioni complesse, che vanno dalla nostra invadente presenza sul pianeta, che compromette la biodiversità e a cui la biosfera reagisce, ai rapporti viscerali, veri e propri rapporti famigliari, tra umani e animali domestici, dal legame emotivo profondo con il consumo di carne, che si intreccia con la costruzione dell’identità nazionale e della mascolinità, alla sperimentazione scientifica, dalla terapia per i bisogni speciali alle nostre proiezioni di innocenza e libertà. Non c’è simmetria, chiaramente, e far sì che un animale prenda la parola non può vantare pretese di ‘comprensione’ di un mondo radicalmente diverso. Tuttavia, assumere la radicale diversità dell’animale nella scrittura richiede che chi scrive indaghi la propria. E’ un altro modo per investigare l’impensabile, per esempio l’estinzione (anche umana), la riduzione in schiavitù (anche degli esseri umani), la ribellione allo sfruttamento (anche umano).

 

Atwood pubblica le sue “Songs of The Transformed” in una raccolta del 1974, You Are Happy. E’ una sezione che include vari ‘canti’ di animali: il canto del maiale, del ratto, della volpe e così via, fino al canto del cadavere. Un’ex umana, questo cadavere, che si mescola bene con le altre bestie perseguitate e uccise, generando un ‘essere’ che ha molto a che spartire con gli altri viventi. Senza enfasi su personalità e identità, su astrazioni e metafisiche, il suo puro non esserci più ci riporta a capo del fragile, alla comune terrestrità. Certo che in una prospettiva purista non si può parlare a nome di un animale (né a nome di nessun altro, se è per questo). Ma la scrittura è un’altra forma di testimonianza: non c’è solo l’eye-witness, la persona a cui l’esperienza è accaduta, dice Atwood stessa, c’è anche l’I-witness, colei che rende l’esperienza personale per chi non c’è stato. Susan Gubar nel suo libro sulla poesia dopo Auschwitz parlava di “witness by proxy”, una testimonianza fatta su procura, da qualcun altro abbastanza prossimo da sapere, capire ed essere interessato a riportare.

 

Mentre Atwood scriveva i suoi canti degli animali – che spesso parlano mentre sono rinchiusi, perseguitati, inseguiti per essere sventrati, scuoiati, ridotti in prodotti da banco, coi colli zampillanti di sangue, le interiora scavate, il grasso gelatinoso ben redditizio – in molti stati del Centro e Sud America dilagavano gli squadroni della morte, spesso addestrati dai nord-americani. Dice la testa di gallina, spezzata dal corpo:

 

Si accomodino,
io contemplo la Parola,
io superflua e calma.
La Parola è una O,
un urlo della testa inutile,
puro spazio, vuoto e netto,
l’ultima parola che ho detto.
La parola NO.

 

Penso a Victor Jara, il cantautore cileno a cui furono spaccate le dita delle mani: pare che i suoi torturatori lo sfidassero a suonare la chitarra in quelle condizioni, lui, invece, cominciò a cantare una canzone di protesta, Venceremos. Morì con altre migliaia di vittime del colpo di stato per un colpo alla testa, il corpo martoriato da decine di proiettili. Non c’è nessun legame diretto tra Jara e le poesie di Atwood. Se non forse, a posteriori, la politicizzazione dell’autrice, avvenuta anche attraverso il coinvolgimento nell’attivismo contro le feroci politiche estere statunitensi e i regimi sud-americani. Se non l’eco di quel NO.

 

 

 

*

 

Canto del maiale

 

Ecco cos’avete fatto di me:
una verdura pallida occhietti
sporgenti da chiocciola, color
rosa culetto, pappa tipo rapa a fine stagione,

un sacco di pelle che gonfiate per nutrirvi
a vostra volta, una fetida verruca
di carne, grosso tubero
di sangue, coi cicci belli
gonfi. Bene, bene. Nel mentre

io ho il cielo, sbarrato solo per metà,
ho i miei angolini d’erba,
mi faccio le mie cose cantando
un canzone di bulbo e di grugno,

il mio canto dello sterco. Signora,
questi canti vi offendono, come questi grugniti
che voi trovate così pesantemente ammiccanti
scambiando il vorace per voglioso.

Son tutto vostro. Se mi darete immondizia
canterò il canto dell’immondizia.
Questo è già un inno.

 

 

*

 

Da Margaret Atwood, Brevi scene di lupi, a cura di Renata Morresi, Ponte alle Grazie, Milano, 2020.

Clone 1.0

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di Vincenzo Della Mea

Dalla sezione “Clone”:

L’infinito mondo
è un fiume ribaltato sulla roccia;
solo una resistenza cercata
dipende dalla mia volontà.
La natura gira le cose,
l’amore torna alla fine per contatto.

L’universo è un solo intreccio di mani
e mappe per il mondo.
La verità è una stilla
che si apre alle cose, alla luce
che lentamente si cela.

In un dono la mia voce tutta breve,
come s’incurva ancora,
dove il tempo riposa
gli incolori della morte:
anche questo svanire
nella luce luminosa,
questa parola che lascia.

Non è difficile pensare che le cose
si fossero stratificate dal traslare,
un cielo e una vista nel cuore di tutti:
Piccola misera follia
nata in questa mia vita gentile.

Fermo, non un nome:
l’acqua che si scioglie
in quella nebbia d’aria,
dove il mondo è vivo come la pioggia,
e per noi c’è sempre più odio,
perché il mondo vive di sogni.

***

Dalla sezione “Il Clone secondo il Clone”:

Il Clone – II

Il clone
non è l’Altro che in sé racchiude
e neppure la parola spezza il suo mistero,
ma il fatto stesso.

 

Io sono il clone – III

Io sono il clone,
mio unico clone
che non è mai stato.
Ti chiedo una volta sola: sono io e tu
il burattino di cui sei l’artefice.

 

Generare poesie – III

Generare poesie,
imbrigliare l’anima
senza sapere bene a che lancette è il cuore della poesia.
Dare un nome alla storia:
con quel sorriso da cartone animato,
scrivere versi d’amore.

 

La mia rete – V

La mia rete neurale
ha già dato un nome all’infinito,
non serve più l’uomo il suo simulacro.

 

Nota Tecnica

I testi di Clone 1.0 sono stati generati con reti neurali addestrate dall’Autore su un corpus di poesie italiane. L’Autore ha poi filtrato gli esiti prima di tutto con altro software appositamente sviluppato, ed infine ha selezionato a suo gusto i testi ritenuti più significativi.
Le poesie di questa selezione sono state prodotte con un software basato sull’architettura GPT-2 di OpenAI (aitextgen), partendo da un modello pre-addestrato sulla lingua italiana da L.De Mattei et al., poi riaddestrato su un corpus di poesie.
Il corpus è stato costituito in parte in modo automatico, da collezioni di poesie su CD o testi presenti su Internet, ma con cura manuale per rimuovere porzioni di testo spurie (dediche, esergo, ecc.). La cura manuale non è stata perfetta. Il numero complessivo di poesie utilizzate nei vari esperimenti è circa 12000.
I testi della sezione Clone sono stati generati senza imporre vincoli sul contenuto. Il Clone secondo il Clone è stata invece generata fornendo degli incipit a tema autoreferenziale, che sono diventati i titoli delle sequenze di testi che compongono la sezione, di cui si vedono alcuni esempi.
I testi sono stati presi in blocco come venivano prodotti, senza rimuovere versi, per ridurre ulteriormente l’apporto dell’Autore umano. La selezione è avvenuta in parte automaticamente, con software sviluppato dall’Autore, per eliminare testi con errori ortografici, con pochi o troppi versi, e con citazioni troppo dirette a testi del corpus. Anche questo software ha lo scopo di ridurre l’apporto diretto dell’Autore umano, o meglio, di spostarne l’apporto nel programma. L’ultima fase invece è del tutto umana e mirata sia a riconoscere i testi in italiano (escludendo per esempio quelli che contengono errori di concordanza di genere, numero o tempo, difficili da riconoscere automaticamente), con un ulteriore passaggio per scegliere testi poetici secondo il gusto dell’Autore.

L’umanità delle migrazioni: Titanic africani di Abu Bakr Khaal

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di Giuseppe Acconcia

Abu Bakr Khaal, in Titanic africani (Atmosphere libri, 14 euro, 122 pp, traduzione di Barbara Benini) umanizza i viaggi dei migranti africani verso l’Europa. L’autore eritreo che ora vive in Danimarca ha combattuto contro l’occupazione etiope nel suo paese, ha passato anni in Libia e in un campo profughi tunisino, in questo romanzo racconta la vicenda del migrante eritreo Abdar che dal Sudan cerca di attraversare il Mediterraneo. Il primo viaggio è da Omdurman a Khartoum. E così dalle prime pagine traspaiono subito racconti fantastici di personaggi incredibili che Abdar incontra nel suo viaggio. Il romanzo diventa quindi subito corale, ospitando esperienze, aneddoti e racconti di viaggio di decine e decine di compagni di viaggio passati, presenti e futuri che hanno condiviso sorti diverse tra loro. Eppure, nonostante l’autore non lesini nomi stravaganti di trafficanti (come Wanaas l’adulatore o Wad al-Layl, il figlio della notte, o Multham, il velato) e profondi racconti di vita nel deserto, la migrazione non viene mai idealizzata, anzi è un virus, un’infezione che si impadronisce di chi è costretto a percorrere quel viaggio infernale. A tal punto che la traversata verso l’Europa, a bordo di barche, i Titanic del titolo, più che un andare verso un mondo nuovo è un ritornare al proprio (nostos) per Abdar e la sua compagna di viaggio Terhas che alla fine del romanzo fanno rientro in patria prendendo un volo dalla Libia. Ma non per tutti vale lo stesso. È il caso del musicista e poeta liberiano Maluk che Abdar incontra nel suo viaggio verso la Libia e che finirà i suoi giorni nel naufragio del suo Titanic che dalle coste tunisine lo portava verso l’Italia. E così se il deserto è un diavolo, costellato di morti per mancanza di acqua e per la crudeltà dei trafficanti, il mare è un demone di cui nessuno può fidarsi. Perché il viaggio attraverso il Nord Africa è già di per sé un arrivo per i tanti che non vedranno il futuro a cui aspiravano, come Asgedom, che, un giorno giovane e forte, si trovò poco dopo a morire di sete nonostante le ultime gocce della sua urina che gli aveva porto Terhas. Nonostante la vita degradante a cui sono costretti i migranti nei lager libici, Abdar non si abbandonerà mai allo sconforto della privazione o all’approssimazione, vivrà il suo amore per Terhas pienamente, informandosi tra voci, giornali e telegiornali sul modo migliore per raggiungere l’Italia decidendo così di non affidarsi ai trafficanti libici ma di puntare a partire da Tunisi. Attraversato il confine inconsapevolmente proprio durante la festa del golpe del 7 novembre, Abdar, Maluk e Terhas, scambiati per mauritani dalla polizia tunisina, si rifugiarono nell’ostello al-Halfa dove inizialmente nessuno chiese loro i documenti. Purtroppo è qui che le strade dei tre compagni di viaggio si separano per sempre, Abdar e Terhas verranno arrestati e rimpatriati in Libia mentre Maluk morirà nella traversata. Non senza lasciare l’ultima delle sue bellissime poesie, che diventa una sorta di manifesto dei Titanic africani, e un ricordo indelebile nella mente di Abdar: Privo di amuleti/Varcai cancelli sorvegliati/strisciando come un verme/attraverso il filo spinato/Fui inghiottito da acquitrini salmastri/Circondato da cani del deserto/E fuggii/tra piante maligne/che mi strappavano i vestiti/mentre la pioggia mi sferzava/vidi le mie gambe/sprofondare in fosse di fango/che si trasformavano in torrenti/E tuttavia li attraversai/Ora, però/Voglio un amuleto/Per attraversare/Stretti di fuoco/Verso continenti di ghiaccio.

In nomine Patris

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La mort d’un Père de famille, regretté par ses enfants - Greuze
La mort d’un Père de famille, regretté par ses enfants – Greuze

di Anna Giuba

21 maggio, casa di Giovanna e papà, ore 15,30

 

–        Dài, su, vedrai che passeremo ancora dei bei momenti insieme… – dice stringendomi la mano.

No, papà, non ci sarà più nessun momento bello insieme. Tu non lo sai, ma una rondine ha fatto il nido nel tuo cranio e fa pure i piccoli, questa rondine testarda. Siedi sul divano del salotto e mi guardi con un sorriso. Tu non lo sai perché non ricordi più le cose, perché nessuno di noi ha parlato (lasciatelo tranquillo), perché se tu lo sapessi che la rondine c’è ed è più viva che mai, forse ti getteresti dal balcone. C’è qualcosa che non quadra, certo la rua ironia è rimasta la stessa (la vita, che ciulata!), ma perdi brandelli di memoria, (non me lo ricordo, quello che volevo dire…), la tua memoria, il tuo tesoro più grande di ottantatreenne che ne ha viste di tutti i colori, ecco, ora la vita non ha più colore, è un lento spossarsi di giorni.

–        Giovanna, fai qualche fotografia a me e mio padre? –

Qui, adesso, sul balcone con i vasi di un maggio lieve, io con la mascherina anticovid e i guanti di lattice, lui, niente, nudo nel viso come nell’anima, e i capelli folti e bianchissimi, ricordo di una bellezza antica ma pervicace. E la sua innata eleganza, che spicca nel movimento tenue vestito di una lacoste bianca. Ridiamo per qualcosa su Woody Allen, poi clic, un bacio con la mascherina, clic, una posa caravaggesca dove mi appoggio a lui come ad un Cristo, poi il mio capo sulla sua spalla alta, e lui come sorride, come in un sogno troppo breve.

 

21 luglio, capolinea della navetta dell’ospedale per terminali, ore 14,47, 40 gradi centigradi

Non voglio essere qui. Stamattina ho fatto la doccia e mi sono asciugata con il suo accappatoio. È quasi un residuato bellico, avrà vent’anni. È un accappatoio verde smeraldo, ancora sanissimo, e ci sto dentro tre volte, come in un suo abbraccio. Non voglio essere qui. Darei qualsiasi cosa per essere da un’altra parte. Forse su un lento fiume africano, dove il rosa delle piume dei fenicotteri scintilla nel vasto, e gli steli delle zampe ravanano nel fango per trarne bellezza. L’ospedale per i terminali è sulla collina di Torino, ora densissima di un verde che esplode estate. No, non voglio essere qui. Sto seduta sul gradino di una pizzeria chiusa, nell’ombra afosa di una preghiera appena sussurrata tra le labbra, la mascherina abbassata per fumare.

Mi riconosci ancora, papà, ieri mi hai sorriso e carezzata, hai detto il mio nome con la bocca riarsa. Non posso darti acqua, anche se me la chiedi, posso darti l’acquagel, che è una gelatina melmosa e idratante. Ti imbocco come facevo con il cucciolo di quaglia che nonno aveva portato da caccia in un’estate lontanissima d’infanzia, un uccellino che stava nella mano di bambina. La nutrii per una notte intera, al calore di una lampadina, in un nido di cotone, con uno stuzzicadenti. Chissà se lo ricordi, ora che la tua mente sembra essere in un’altra dimensione, così lontana dalla realtà marcia che tu affrontavi con forza di toro.

 

10 agosto, stanza numero sedici, ospedale dei terminali, ore 15,30

Ora non mi riconosci (papà! Papà! Sono io!). Appena un vibrare di ciglia. Ti accarezzo i capelli. Ti tengo una mano bianchissima. Sei trapunto di aghi e tubicini. Ma la realtà è un’alta, la tua magrezza di uomo alto e sportivo. Quelle braccia e quelle gambe d’osso puro le ho viste solo a Dachau, e Treblinka, e Auschwitz Birkenau. Non sono le tue braccia che mi stringevano forte. Sono braccia e gambe in bianco e nero, dietro fili spinati lerci d’elettricità. Tu non sei più mio, non sei più qui. Lasciatelo tranquillo, dicono, non cercate di stimolarlo, dicono. Ma come faccio. C’è troppa morte nei tuoi arti, e un dolore che sfianca i miei.

Io lo so. Potrebbe succedere un miracolo, potresti alzare il capo e dirmi, ma che giorno è? Dove siamo? Portami a casa. Sì, potrebbe succedere. Di certo c’è solo una cosa, che stanotte dormirò raggomitolata nel tuo accappatoio, nonostante il caldo, nonostante tutto. Forse.

 

Anna Giuba, 22 agosto 2020

Fine di una lotta

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di Amparo Dàvila

Stava comprando il giornale della sera quando si vide passare in compagnia di una bionda. Rimase immobile, perplesso. Era proprio lui, non c’erano dubbi. Non era un gemello o una persona che gli assomigliava; era lui l’uomo che era appena passato. Indossava il completo di cachemire inglese e la cravatta a righe che gli aveva regalato sua moglie a Natale. «Ecco il suo resto» disse l’edicolante. Lui prese le monete e le ripose nella tasca della giacca quasi senza rendersene conto. L’uomo e la bionda erano già all’angolo. Si affrettò ad andargli dietro. Aveva bisogno di parlargli, di sapere chi fosse l’altro e dove vivesse. Aveva bisogno di capire quale dei due fosse quello vero. Se lui, Durán, fosse l’autentico proprietario del corpo e quello che era passato la sua ombra vivente, o se l’altro fosse quello vero e lui semplicemente la sua ombra.
I due camminavano tenendosi a braccetto e sembravano felici. Durán non riusciva a raggiungerli. A quell’ora le strade erano piene di gente ed era difficile camminare di buon passo. Quando girò l’angolo non li vide più. Pensò di averli persi e provò allora quell’angosciosa sensazione che spesso lo assaliva, un misto di timore e ansia. Rimase lì a guardarsi intorno, senza saper cosa fare né dove andare. Capì allora che era lui a essersi perso, non loro. In quel momento li vide salire su un tram. Riuscì a salirvi appena in tempo, con la bocca asciutta e quasi senza fiato, cercando di individuarli in mezzo a quell’assembramento umano. Si trovavano verso la metà della carrozza, vicino alla porta d’uscita, imprigionati come lui, senza potersi muovere. Non era riuscito a vedere bene la donna. Quando i due erano passati per strada gli era sembrata bella. Una bella bionda, ben vestita, a braccetto con lui? Non vedeva l’ora che scendessero dal tram per poterli avvicinare. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo in quella situazione. Li guardò incamminarsi verso la porta e scendere. Provò a seguirli, ma quando riuscì a saltare giù dal tram, loro erano scomparsi. Li cercò inutilmente, per ore, nelle strade vicine, entrava in tutti i locali, si affacciava nelle finestre delle case, si fermava a lungo a ogni angolo. Niente; non li trovò.
Abbattuto, sconcertato, prese il tram di ritorno. Quell’incontro infausto non aveva fatto altro che alimentare la sua solita insicurezza, al punto che non sapeva più se fosse un uomo o un’ombra. Si infilò in un bar, non quello dove era solito andare a bere con gli amici, un altro, dove nessuno lo conosceva. Non voleva parlare con nessuno. Aveva bisogno di stare solo, di ritrovarsi. Bevve diversi bicchieri, ma non riuscì a dimenticare quell’incontro. La moglie lo aspettava per cena, come ogni sera. Non toccò cibo. La sensazione di ansia e vuoto gli aveva preso anche lo stomaco. Quella notte non riuscì ad avvicinarsi a sua moglie, quando lei gli si stese accanto, né quella notte né le seguenti. Non poteva ingannarla. Era pieno di rimorsi, disgustato da se stesso. Forse proprio in quel momento lui stava possedendo la bella bionda…

Dal pomeriggio in cui si era visto passare in compagnia di quella bionda, Durán aveva iniziato a sentirsi male. Commetteva errori sempre più frequenti sul lavoro, in banca. Era sempre nervoso, irritabile. Passava poco tempo a casa.
Si sentiva in colpa, non meritava di avere Flora accanto. Non riusciva a smettere di pensare a quell’incontro. Per diversi giorni era tornato all’angolo di strada dove li aveva visti e passava ore intere ad aspettarli. Aveva bisogno di sapere la verità. Di scoprire se era un uomo in carne e ossa, o una semplice ombra.
Un giorno i due riapparvero. Lui indossava quel vecchio abito marrone che era stato suo compagno fedele per anni. Lo riconobbe all’istante; se l’era messo tante di quelle volte… Gli suscitò d’un tratto molti ricordi. Camminava abbastanza vicino a loro. Era proprio il suo corpo, non c’erano dubbi. Lo stesso sorriso velato, i capelli sul punto di incanutire, il modo di camminare e consumare sempre il tacco destro, le tasche piene di cose, il giornale sotto il braccio… Era lui. Li seguì sul tram. Percepì la scia del profumo di lei… lo conosceva, Sortilège di Le Galion. Era il profumo preferito di Lilia, lo stesso che un giorno lui le aveva regalato, sacrificando tutti i suoi risparmi. Lilia l’aveva rimproverato perché non le faceva mai regali. Lui l’aveva amata per anni, quando non era che un povero studente morto di fame e d’amore per lei. Lei lo disprezzava perché non poteva darle tutto ciò che desiderava. Amava il lusso, i locali costosi, i regali. Usciva con diversi uomini, con lui quasi mai… Era entrato timidamente nel negozio, contando i soldi per essere sicuro che bastassero. «Sortilège è una splendida fragranza» disse la ragazza al bancone «alla sua fidanzata piacerà senz’altro». Lilia non era a casa quando lui andò a portarle il profumo. L’aspettò per ore… Quando glielo diede, Lilia ricevette il regalo senza entusiasmo, non lo aprì nemmeno. Lui provò un’enorme delusione. Quel profumo era tutto e più di quello che poteva darle e a lei non importava. Lilia era bella e fredda. Dava ordini. Lui non poteva compiacerla… I due scesero dal tram. Durán li seguì da vicino. Aveva deciso che non li avrebbe abbordati per strada. Camminarono a lungo. Alla fine entrarono in una casa grigia. Vivevano lì, senza dubbio. Al numero 279. Lì viveva con Lilia. Non poteva andare avanti così. Doveva parlare con loro, sapere tutto. Farla finita con quella doppia vita. Non voleva continuare a vivere con sua moglie e con Lilia allo stesso tempo. Amava Flora in un modo tranquillo, sereno. Aveva amato Lilia con disperazione, con agonia, sentendosi sempre umiliato da lei. Le aveva entrambe, le accarezzava, le possedeva allo stesso tempo. E solo una di loro aveva davvero lui; l’altra viveva con un’ombra. Suonò il campanello. Suonò di nuovo… Era stato molto paziente, convinto che alla lunga l’avrebbe conquistata. Aspettava Lilia sotto casa, si accontentava di vederla. Di accompagnarla dovunque fosse diretta, ogni tanto, quando lei glielo permetteva. Poi se ne tornava tranquillo alla pensione; l’aveva vista, le aveva parlato… Suonò di nuovo il campanello. In quel momento sentì Lilia gridare. Gridava disperata, come se la stessero picchiando. Ed era lui stesso a picchiarla, in modo crudele e selvaggio. Ma lui non aveva mai avuto il coraggio di farlo, pur avendolo desiderato molte volte… Lilia era bellissima nel suo vestito di raso blu, e lo guardava freddamente mentre diceva: «Sto andando a teatro con il mio amico, non posso fermarmi». Lui aveva con sé il diploma che gli era stato consegnato quel pomeriggio, voleva che fosse la prima a vederlo. Aveva pensato che lei si sarebbe congratulata alla notizia che aveva concluso gli studi con il massimo dei voti. Aveva detto a tutti i suoi compagni che sarebbe andato al ballo di fine anno con lei. «Aspetta un momento, Lilia, volevo solo chiederti…». Un’auto si era fermata di fronte alla casa. E Lilia non sentiva più quel che le stava dicendo. L’aveva afferrata per un braccio cercando di trattenerla solo il tempo necessario a invitarla al ballo. Lei si era divincolata dalla presa ed era corsa verso l’automobile. L’aveva vista sedersi molto vicino all’uomo che era passato a prenderla, l’aveva vista mentre lo baciava, mentre rideva con lui. Aveva sentito il sangue salirgli alla testa e per la prima volta aveva desiderato tenerla tra le braccia e farla finita con lei, farla a pezzi. Quella sera, per la prima volta, aveva bevuto fino a perdere i sensi… Suonò di nuovo il campanello, nessuno rispondeva. Continuava a sentire Lilia gridare. Allora cominciò a dare colpi sulla porta. Non poteva lasciarla morire per sua stessa mano. Doveva salvarla… «Devi lasciarmi in pace, non voglio vederti mai più» aveva detto Lilia quella sera, l’ultima volta che l’aveva vista. L’aveva aspettata per dirle addio. Non poteva continuare a vivere nello stesso posto, e patire giorno dopo giorno i suoi sgarbi e le sue umiliazioni. Doveva andarsene, allontanarsi per sempre. Lilia era scesa dall’auto sbattendo la portiera con furia. Un uomo era sceso dietro di lei, l’aveva raggiunta e aveva cominciato a picchiarla. Lui era accorso in suo aiuto. Quando l’amico di Lilia se ne fu andato in auto, Lilia scoppiò a piangere. L’aveva abbracciata teneramente, proteggendola; allora lei si era allontanata bruscamente e aveva detto che non voleva vederlo mai più. Tutto dentro di lui si ribellò.
Si pentì di averla salvata dalle percosse, di averle mostrato la sua tenerezza. Se quel tizio l’avesse uccisa, sarebbe stata la sua salvezza. Il giorno dopo se n’era andato dalla città. Doveva fuggire da Lilia e liberarsi per sempre di quell’amore che lo rimpiccioliva e lo umiliava. Non era stato facile dimenticarla. La vedeva in ogni donna. Credeva di incontrarla sul tram, al cinema, nei caffè. A volte seguiva una donna per strada, a lungo, salvo poi scoprire che non era Lilia. Sentiva la sua voce, la sua risata. Ricordava il suo modo di parlare, di vestire, di camminare, il calore del suo corpo, così flessuoso, che poche volte aveva tenuto tra le braccia, e il profumo del suo corpo mischiato al Sortilège. Era povero e la cosa lo affliggeva, si disperava spesso pensando che se fosse stato più ricco Lilia l’avrebbe amato. Per anni aveva vissuto di quel ricordo. Un giorno era apparsa Flora. Lui si era lasciato trascinare senza entusiasmo. Pensava che l’unico modo di dimenticare Lilia fosse avere un’altra donna accanto. Si era sposato senza passione. Flora era buona, dolce, comprensiva. Aveva rispettato il suo riserbo, il suo altro mondo. A volte si svegliava di notte con la sensazione che fosse Lilia a dormirgli accanto, toccava il corpo di Flora e sentiva qualcosa lacerarsi dentro di lui. Un giorno Lilia scomparve, l’aveva dimenticata.
Cominciò ad abituarsi a Flora e ad amarla. Passarono gli anni… Le grida di Lilia si sentivano appena, erano molto deboli, spente, come se… Buttò giù la porta ed entrò. La casa era immersa nel buio.
La lotta fu lunga e sorda, terribile. Più volte, cadendo, si scontrò con il corpo inerte di Lilia. Era morta prima che lui arrivasse a salvarla. Tastò il sangue ancora tiepido, appiccicoso.
I capelli gli si impigliarono varie volte fra le mani. Continuò a battersi in quella lotta oscura. Doveva resistere fino alla fine, finché non sarebbe rimasto solo Durán, o l’altro…

Era quasi mezzanotte quando Durán uscì dalla casa grigia. Era ferito, zoppicava. Guardava con sospetto in ogni direzione, come chi teme di essere scoperto e arrestato.

Testo tratto da: Amparo Dàvila, L’ospite e altri racconti, Safarà 2020

Pandemic Ballade: il fu GiusCo

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Cinque poesie in lingua inglese di Giuseppe Cornacchia,

versione italiana di Angelo Rendo, Settembre 2020

BALLATA PANDEMICA
Copia il modello più veloce ed economico,
se vuoi numeri elevati. Arrivato al limite,
gioco finito. Duro sgobbare.
Dyson fa lo spocchioso, uovo con due rossi.
Segui gli influencers più famosi o chi ti piace,
la pandemia ha fatto fuori un terzo dei seguaci.
Che cinismo e alcun senno di poi! Piango.

Mots-clés__Sirene

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Joan Miró, La sirène, 1927

Sirene
di Serena Cacchioli

Lluis Llach, Abril 74 -> play

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Joan Miró, La sirène, 1927

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Franz Kafka, Il silenzio delle sirene [Da Tutti i racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, 1970]

Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza.
Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene.
Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatto all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi – benché non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Dimitri Milleri: “E se anche non chiedessi niente”

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Ospito qui alcuni estratti dalla raccolta Sistemi di Dimitri Milleri, pubblicata da Interno Poesia, insieme ad un frammento della prefazione di Maria Borio.

 

SISTEMI

 

«[…] Il libro ha un titolo importante: una parola che rimanda alla fisica e alla metafisica; fa intuire che la raccolta si vorrebbe proporre come un’esplorazione fisica e metafisica della vita. Diviso in tre parti – Detentivi, Complessi e Chiusi – il libro è articolato come una specie di planetario con la forma di un’ellisse. Seguirne il percorso assomiglia al fenomeno di una reazione a rilascio prolungato, con punti contratti e distesi che rappresentano i fuochi dell’ellisse e innescano una serie di rispecchiamenti: tra coscienza e incoscienza a livello metafisico, tra mondo interno e esterno a livello fisico, tra doppie serie di contrappunto a livello musicale. Una chiave di lettura per entrare nella dinamica ellittica di Sistemi è, infatti, proprio la musica. La composizione e il ritmo, dati da fratture e ricuciture, richiamano quei brani che studiano una trama dove si allacciano lo spezzato e il flusso: Folk songs di Luciano Berio, Lo spazio inverso di Salvatore Sciarrino, In the Bleak Midwinter di Jacob Collier, Fratres di Arvo Pärt. Come ci rappresentano questi sistemi, in cui il flusso dell’esistenza si articola a uno spezzato, in cui il vivere è intramezzato da momenti di coscienza del vivere? […]»

Maria Borio

 

 

da DETENTIVI

 

La gerarchia delle valute, il trust, le transazioni

e il decumano, e i buoni e il cardo illimpidiscono

nel fitto della spiaggia.

Non è erroneo nei nomi dei lidi l’ammiccamento

all’Est citato male: qui il nirvana

muove da un vuoto proposizionale, cambia segno,

vuole il rituale rigido, il gesto muto, cerca

l’estuario della specie.

Diventa fede discreta: sbriciola sul volto

di chi la dice,

fonda reliquie misere:

la cassa, il tanga, il flyer, la prevendita

col santo e la risata composta.

Ci entrano dentro come l’olio nell’acqua, cercando

l’andatura più esatta, un volto buono, ma le cause,

la relazione e il senso a forza si ritraggono

coi gasteropodi nei pyrex.

 

 

da COMPLESSI

 

IV

 

O era un figlio invece quel reagente?

Se così fosse quel che è bene

è far calare la sordina:

farà da solo il feltro, ogni rimorso

si oscurerà così che il bimbo possa

lanciare calmo i missili, spargere il sale

sul crisma per sempre, come la grazia

di chi ha lavato via da sé ogni scrupolo.

 

 

da CHIUSI

 

Tavole nere, un’araldica

fissa sul segno meno, un giustapporsi

di cuspidi contrarie, come sai.

Geni monotoni, che poi significa

magre combinazioni.

E se anche non chiedessi niente, il corpo

abbarbicato in dure geometrie,

sarebbe già messaggio —

e quanto costi trovare i pigmenti

in questo nero davvero non so

se tu lo sappia o meno,

né so cosa sperare

“ho imparato

come i pronomi si confondano in un rito

che non si dà deviare”.

 

(la frase mulinata per sentire

se l’ansia di servirti non coincida

col peso da fugare)

 

***

 

Ne siamo usciti male solo questo

vorrebbero scambiarsi e non lo fanno.

Lo sanno e non lo dicono il fantasma

di aver potuto essere, cambiare:

sanno che passa, raramente appare

come un Saturno, un astro innominato.

 

In ogni modo l’hanno preservato

dai moti centrifughi della lingua

posticipando morti, collisioni

già consumate altrove, mentre sotto

come una velatura, mollemente

nidificava il parassita, l’evidenza

 

che alcune volte non puoi fare niente.

Invisibilità e autorialità a proposito di Elena Ferrante

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di Viviana Scarinci

 
Il 29 agosto scorso in occasione dell’uscita de La vita bugiarda degli adulti in trentacinque Paesi, Elena Ferrante su Robinson rilascia una delle più lunghe e singolari interviste di sempre. Ferrante risponde alle domande provenienti da alcuni Paesi coinvolti dall’uscita del libro. Dal Brasile alla Danimarca, da Shangai al Portogallo passando per Formia, traduttori, editor e librai hanno posto all’autrice domande che entrano nello specifico non solo della sua opera ma anche di alcuni aspetti inerenti all’autorialità come fondamentale presupposto del suo profilo pubblico.

Il piccolo (grande) teatro filosofico di Aldo Masullo

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PROLOGO

di Lucio Saviani

Oggi si parla molto di dialogo, in ogni dove. Ne parlano in tanti. E anche troppo. Soprattutto i politici, quelli della burattinata politica televisiva, fatta di smorfie in camera, di voce grossa e di par condicio. Parlo io, poi parli tu, stessi minuti, stessi secondi. Ma quello, si sa, non è dialogo, è un parlare da soli a turno, senza nemmeno ascoltarsi.

Aldo Masullo ci ha insegnato che dialogo, prima ancora che parlare in due, è pensare in due, pensare insieme.

Quel pensare insieme che è come un viaggio verso qualcosa che da soli non si conosce e che da soli non si raggiunge.

Il dialogo è fatto naturalmente di parola; ma, prima ancora, di ascolto. E dunque di silenzio. Ma per dialogare non basta stare in silenzio: c’è bisogno di attenzione, apertura, e cioè ospitalità, accoglienza di un’altra visone delle cose. C’è bisogno della forza misteriosa – come per lo schiavo della caverna platonica – di chi si scioglie, di chi abbassa le difese e apre la porta di casa. Necessaria è una disposizione all’apertura, all’ospitalità, all’accoglienza dell’altro. Ma soprattutto significa disporsi ad accettare l’eventualità di cambiare, non solo idea, ma di sentirsi diverso, anche diventare un altro. Proprio per questo è così difficile fare davvero esperienza del dialogo, e invece così facile ritrovarselo così, come in maschera.

Dialogare insomma è la forza di mettersi in gioco, di accettare la possibilità di ritrovarsi diverso da prima che ci si aprisse al dialogo. In cerca di quella verità che o è un bene comune o non è. Per questo, Aldo Masullo ci ha insegnato che la filosofia nasce con la democrazia, due facce di una stessa medaglia: la filosofia con la sua vocazione agoretica, vocazione alla piazza, all’agorà, alla piazza degli scambi di merci e di opinioni.

Il dialogo perciò è esperienza. Masullo ricordava sempre la parola di Hegel: la vera esperienza è quella che modifica colui che la fa. Dopo un’esperienza non si è più gli stessi di prima. E così anche con il dialogo. E con il viaggio: dopo un vero viaggio non si torna mai uguali a come si era alla partenza.

Il Patico, termine e concetto così centrali nel cammino di pensiero di Masullo, hanno origine proprio in questo: esperire, esperienza vissuta, un passare, un attraversare, passare una prova, un provare, quel vissuto che non appartiene al piano della comunicazione dei concetti e dei significati.

Nel libro Paticità e indifferenza Masullo si chiede quale può essere ancora il ruolo della filosofia. La filosofia, risponde, è «saper assaporare i sapori della vita, gustare a fondo i sensi vissuti, …è la “sapienza del patico” ovvero, se si ricalca interamente l’etimo greco, è la “patosofia”».

Nei suoi lavori ricorre spesso il verbo greco páskein, che significa sì ‘‘vivere”, ma indica il ‘‘vivere” in senso transitivo. Indica cioè la vita come capacità di provare, avvertire, vivere l’esperienza: «Paticità è vivere provando, vivere assaporando».

È il senso, diceva Masullo.

E lo diceva con il senso che ha il dialogo: che è soprattutto attenzione, ascolto, apertura, (curiositas, come dicevano gli antichi), cura di sé, degli altri e anche delle parole: questo lo comprendono bene tutti quelli che ricordano, di Aldo Masullo, la costruzione, la sempre felice ricerca della giusta parola, l’esposizione del pensiero durante le sue lezioni, i suoi discorsi, le conferenze. E anche i suoi dialoghi.

Cura delle parole come cura di sé e degli altri. Attenzione e ascolto: per te, ma anche per le persone a te care, che per lui era come la stessa cosa; mi chiedeva di Luna, parlando del suo amore per i cani, e non ricordo una volta, nemmeno una, che non mi abbia chiesto di Ruzenka e lasciato i saluti per lei, fino a quell’ultima telefonata che ho fatto a lui per il suo compleanno, che era anche il giorno di Pasqua.

La filosofia, ci ricordava Masullo, è l’esercizio che ogni uomo è chiamato a fare dalla sua umanità per comprendere meglio non solo se stesso, ma il rapporto tra sé e il mondo, tra sé e gli altri. Insomma: “Conosci te stesso”. Ma Masullo ebbe modo di chiarire una interpretazione meno nota del motto di Delfi. E cioè: conosci te stesso perché solo così puoi sapere quale è la domanda più giusta da fare al dio Apollo. Lo scrisse ne La libertà e le occasioni. Lo chiamai subito dopo aver letto quel capitolo, ne parlammo a lungo. E io lo chiamavo proprio da Delfi, dove mi ero portato il suo libro. Ma questo glielo dissi solo alla fine.

Aldo Masullo ci lascia risposte che sono poi, come il lascito socratico, quelle che, contro la morte, danno vita: e cioè danno vita a tante domande.

È proprio in questo senso che possiamo dire che esistere è un essere in dialogo.

Un dialogo che continua anche chi non è più in vita: Aldo Masullo di risposte ne ha date tante, fino a quelle date ai giornali che gli chiedevano una riflessione sulla pandemia; ha dato tante risposte con le sue opere, con la sua opera: la sua vita, la sua vitalità, la sua esistenza.

Una lezione che è rimasta sempre inquietudine teoretica, pratica di libertà e di filosofia come libertà.

Ricordo i pomeriggi trascorsi insieme nel suo studio, verso la metà degli anni ’90, perché curavo la bibliografia da aggiornare dopo quasi vent’anni per la nuova edizione del suo fondamentale libro Metafisica, che avevo letto da studente e che sarebbe diventato un libro di riferimento per i miei studenti per molti anni. Masullo ha sempre seguito con passione i destini della scuola italiana: ancora mi ricordo la sua espressione di sconcerto, di divertita amarezza, quando qualche tempo fa ebbi a dirgli che oggi spesso nei documenti ufficiali i docenti sono chiamati “fornitori di docenza” e gli studenti sono chiamati “utenti”.

Aldo Masullo è stato per decenni un maestro e una guida per diverse generazioni di studenti, professori, filosofi e un esempio prezioso della vita civile, della politica più nobile e della cultura del nostro Paese.

Ne sono ricca e sempre presente testimonianza i suoi lavori degli anni sessanta e settanta sulla “intersoggettività” e sul “fondamento” e gli studi sul “tempo”, sul “senso” e sulla “paticità” degli anni ottanta e novanta.

Agli inizi degli anni novanta, Masullo aveva rappresentato un momento di grande speranza, di forza di rinnovamento, anzi di discontinuità nel panorama della politica nazionale italiana. Lo ricordiamo tutti protagonista delle “Assise di Palazzo Marigliano” e poi della inedita esperienza della “giunta del sindaco”, primo caso in assoluto in Italia. Poco tempo fa ebbe a dirmi che Napoli ama mettersi in maschera… E allora io mi ricordai di quella volta a Parigi. Alla fine di quel decennio di speranze e prime delusioni organizzai a Parigi, presso l’Istituto Italiano di Cultura, un convegno su Napoli dal titolo “Poros”. Al convegno di Parigi invitai filosofi, scrittori e artisti partenopei. A chiudere i lavori del convegno, invitai naturalmente Aldo Masullo.

Lui pronunciò un discorso di grande sensibilità politica e di autentica speranza per la città, per la cultura e per il futuro di Napoli. Ma soprattutto lasciò stupito il pubblico italiano e parigino iniziando così:

“E per dare a voi tutti, per lo meno ai non napoletani, un’immagine direi pre-filosofica dell’essere napoletano, dell’esistenza napoletana, vorrei evocare una figura che in genere nelle accademie filosofiche non trova posto: la straordinaria maschera di Pulcinella. (…)

“Si è fatto scuro, Lucio, ci ritiriamo?”, diceva spesso così, alla fine delle passeggiate che facevamo tra Pantheon, S. Eustachio e Piazza Navona negli anni del suo ultimo mandato da parlamentare, parlando di quella sua esperienza, tra vecchia passione e giovani delusioni. E io, a sentirlo parlare di crepuscolo mi ricordavo allora la salita delle rampe che mi portavano, da studente, al Cortile del Salvatore. Primi anni ’80, dopo il terremoto, in una Napoli che si avviava con un disastro a vivere un decennio disastroso. In quel cortile, nella penombra di una grande aula, cominciava di mattina presto la lezione di Masullo. Lui diceva che la filosofia vive sempre nella penombra. Io in quella penombra mattutina ho imparato ad amare la filosofia. A me ora piace pensare che quelle lezioni di Masullo siano continuate e arrivate fino a questa bella piazza e al nostro dialogo di questa sera.

“Il Parco in Maschera” – Rassegna a cura del Parco Archeologico dei Campi Flegrei

 

CASTEL DI BAIA

Martedì 4 agosto 2020, h. 19.00

PICCOLO TEATRO FILOSOFICO

In memoria di Aldo Masullo

 

Un prologo e un dialogo di e con

PASQUALE PANELLA e LUCIO SAVIANI

 

 

Del fraintendimento: Gruppo 93 e avanguardie

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di Bianca Coluccio

Nel maggio del 2003 l’Alma Mater di Bologna predisponeva una serie di tavole rotonde organizzate nell’ambito dell’iniziativa “Gruppo 63 – Quarant’anni dopo”. Sul magazine dell’Università si legge che l’intento principale è quello di “dimostrare che i lavori del Gruppo 63 avevano una potenzialità di sviluppo ulteriore”.[1] Che l’avessero è indubbio, ma che i lavori del Gruppo 93 potessero ritenersi uno sviluppo della neoavanguardia aveva bisogno di una puntualizzazione precisa, che sciogliesse l’equivoco che era andato tessendosi. Già Biagio Cepollaro, nell’intervento “La compresenza conflittuale”, uscito su Baldus nel 1991,[2] metteva in chiaro come ritenere il Gruppo 93 un’avanguardia, alla stregua del Gruppo ’63, non fosse che uno dei quattro equivoci che toccavano il gruppo.

Nello stesso senso si snoda l’intervento di Lello Voce a Bologna. In questa occasione Voce introduce una nuova forma di avanguardia, che non è più “quella storica, quella neo, quella neo-neo. […] esiste poi un tipo di avanguardia particolare, che io purtroppo conosco molto bene, che è l’avanguardia mio malgrado”.[3] L’equivoco quindi ritorna, anche a distanza di anni, e continua ad avere bisogno di chiarificazioni precise. Prima delle teorizzazioni fatte sopra i lavori del Gruppo, ci sono gli stessi autori che nella consapevolezza delle proprie posizioni non hanno mai voluto o creduto di essere un movimento d’avanguardia.

Lo stesso argomento aprirà, nel 2016, la conversazione svolta a Milano tra Angelo Petrella e alcuni poeti del Gruppo 93.[4] Si richiama ancora in gioco la questione dell’avanguardia: non solo Petrella si domanda se questa esperienza non possa venire considerata come “l’estremo canto del cigno della possibilità di fare avanguardia”, ma se questa considerazione non sia più che altro necessaria a inquadrare un fenomeno storico ponendolo a un estremo di due polarità.

In ognuna di queste occasioni è stato ribadito che i rapporti in termini di scopi ultimi e modalità del loro raggiungimento non sono sovrapponibili rispetto a quello dell’avanguardia, non se ne traggono le mosse. Posto che l’avanguardia sia impossibile a reiterarsi, ciò a cui si tende è più che altro un dialogo, poiché le condizioni che hanno favorito l’avanguardia, “storica, neo, neo-neo”,[5] sono ormai esaurite e irreplicabili.

Come si spiega, dunque, questo fraintendimento? E fino a che punto è normale che si verifichi l’equivoco? Ritenere avanguardia il Gruppo 93 significherebbe allo stesso tempo dover riconsiderare alcuni dei caratteri imprescindibili che cooperano alla formazione di uno statuto d’avanguardia: una condizione storico-politica favorevole, una opposizione antagonista rispetto alla tradizione tout court, un unico scopo ultimo perseguito secondo le medesime modalità.

Riguardo l’impossibilità di riprodurre le condizioni teoriche e storiche tipiche dell’avanguardia, Luperini prospetta l’esistenza di tre cerchi di azione concentrici.[6] C’è un primo cerchio nutrito da un certo numero di autori non armonizzati che compongono una resistenza sperimentale; di qui il secondo in cui tutti coloro che hanno dimostrato interesse nei confronti del Gruppo 93 hanno anche desiderato che il gruppo si tramutasse in una forma d’avanguardia, per conservare delle avanguardie il carattere oppositivo e agonistico. Un terzo cerchio, infine, è quello in cui lo stesso Luperini si inserisce. In quest’ultimo si riconosce l’impossibilità per un’avanguardia di ricostituirsi e si agisce sugli spazi liminari ed estremi ancora concessi dalla postmodernità. In questo senso si potrebbe allora configurare una possibile risposta alla dinamica postmoderna. Spostare la propria attenzione nelle zone periferiche, operare nel segno della lateralità per rispondere alle propensioni di parificazione che connotano il postmoderno.

 

La postura assunta dal Gruppo 93 è evidentemente discosta rispetto a quella tipica delle avanguardie. L’antagonismo, il nichilismo, il rivoluzionarismo e il terrorismo, l’autopropaganda violenta e autopubblicitaria e la prevalenza della poetica sull’opera: queste sono alcune delle caratteristiche che Renato Poggioli ritiene essere peculiari di ogni movimento d’avanguardia.[7]

Quale avanguardia, perciò, senza antagonismo? Esiste un’avanguardia che non abbia un terminus contra quem, che non mantenga un atteggiamento oppositivo, che non prenda le proprie difese? Già in questo senso, il Gruppo 93 non può essere considerato un’avanguardia. Il tempo delle opposizioni binarie e delle polarità contrastanti è del tutto terminato. Il contesto in cui avviene la produzione culturale è adesso votato alla velocità, della stessa velocità di cui risente il linguaggio, una piega dell’estetizzazione che deve tutto alla comunicazione massmediatica contemporanea: ritenere possibile una difesa ferma e a spada tratta come quella a cui ha abituato l’avanguardia non è neppure più auspicabile.
La modernità dilagante e fluida sancisce una saturazione impossibile da far retrocedere. È la saturazione dell’età moderna ad aver segnato il termine dell’avanguardia. Quello che hanno rappresentato le grandi avanguardie novecentesche non può più venire adoperato come paradigma. Ritenere possibile nella società postmoderna un qualsiasi movimento avanguardistico significherebbe tentare di sostenere un “velleitarismo patetico”.[8]

Tuttavia, quella che si potrebbe considerare alla stregua di un’abiura va ripensata nei termini di una presa d’atto: l’esperienza avanguardistica, storicizzata e conclusa, non può fare a meno di inserire sé stessa nella tradizione. Rispetto all’avanguardia e al suo periodo, quella dialettica contraddittoria che rimaneva alla base del rapporto arte-museo è diventata sterile e impossibile a realizzarsi. L’impasse neoavanguardistico si verificava laddove, pur ricercando un prodotto artistico che fosse incontaminato e atemporale, lo scontro con la solita logica borghese e di mercato era inevitabile: il prodotto artistico era un prodotto, appunto, che per carica innovativa, distruttiva, audacia, era in grado di superare gli altri e di batterli sul piano della concorrenza. L’avanguardia desiderava produrre un’arte imbattibile e imbattuta e che allo stesso tempo non rimanesse impigliata nelle dinamiche di un certo stringente algoritmo.

Diversamente, invece, il Gruppo 93 né mira a produzioni incontaminate e atemporali, né intrattiene questo rapporto contraddittorio col mercato. Anzi, alla nascita del Gruppo, il termine dell’esperienza è già stato deciso ed è il nome stesso che il Gruppo si dà, a indicare quando arriverà lo scioglimento.
Ecco quindi che non si può parlare di avanguardia, almeno poiché non c’è alcun “assestamento dell’arte all’epoca della tecnica”.[9] Per il Gruppo 93, considerate le premesse “temporali”, la possibilità di assestamento non è contemplata. Più che l’epoca della tecnica, si fanno i conti con l’epoca della comunicazione “televisiva” e massmediatica, nutrita di una velocità che non può non interessare anche la dimensione estetica.

In quest’ottica si capisce meglio come la tradizione rigettata dalle avanguardie sempre a fronte di uno sperimentalismo estenuato non soltanto viene riconsiderata ma assume la postura di chi la fa propria, di chi la adopera ai fini della propria arte. Questo spiega come nel Gruppo 93 il dialogo con la tradizione avvenga in un confronto di voci diverse e in qualche maniera rifunzionalizzate. Mentre Lello Voce annovera nel proprio canone Zanzotto, Leonetti, o “addirittura un certo Fortini ‘politico’” ,[10] per Biagio Cepollaro è la lingua del Duecento a costituire il perno e il riferimento principale.

Si legge nell’intervista di Enzo Rega a Biagio Cepollaro:

Jacopone da Todi e il Dante più infernale sono i miei veri maestri. Da loro ho capito come una parola, ogni singola parola può essere a tal punto “riscaldata” da diventare incandescente. Ho capito “l’eccessivo” che si annida nelle consonanti, la materialità della parola, la sua capacità di attrito e di resistenza alla banalità del “poetese” e dello standard. Da maestri del genere si capisce come la poesia medioevale, letta in un certo modo, si avvicini quasi all’ultima poesia sonora, come la cosiddetta “tradizione” sia in realtà – se grande – un serbatoio infinito di possibili innovazioni e ricerche.[11]

Il terreno comunque del Gruppo 93 è la tradizione non tutta e non canonica, ma ripensata e rifunzionalizzata alla luce di una propria soggettività. Posto questo come punto di partenza, le possibilità di declinazione sono molteplici e diversificate. Inoltre, la fluidità e la soggettività di cui si connotano i canoni, sono iscritte all’interno di un intento preciso, di una scrupolosa volontà di contaminazione. Senza questa idea di tradizione fin qui descritta, non ci sarebbe alcuna possibilità di contaminazione.

 

Come si è detto, il quadro attuale non permette più una separazione netta e oppositiva neanche tra lingua ordinaria e lingua poetica, tra lingua alta e bassa, altezza del linguaggio lirico e statuto periferico della parola dialettale. La contaminazione vorrebbe agire in questo senso come una ibridazione. Ciò che si vuole raggiungere è un momento infine creolo in cui allo scambio è seguita una successiva fusione, secondo un movimento che abbandona ogni pretesa di alterità e affermazione per giungere a un risultato polifonico, un’armonia mancata che parte dal suo apparente difetto per riorganizzarsi in un coro di voci e un coacervo di orecchi tesi. Contaminare ha quindi una “pronuncia plurale” e “produce una terza identità che non è equivalente a nessuna delle due che concorrono a formarla”.[12] Affinché un simile processo di contaminazione possa rendersi possibile, il rapporto con la tradizione deve necessariamente essere opposto a quello che si proponeva l’avanguardia. Mentre le avanguardie, infatti, hanno sempre operato un taglio orizzontale di separazione netta e definitiva col passato, quello che fa il Gruppo 93 è, sì, operare un taglio, ma stavolta verticale, aprire una fessura, provocare la fuoriuscita dei propri riferimenti, far collimare tra loro universi svariati e disomogenei.

Quando su Le Figaro apparve nel 1909 il Fondation et Manifeste du Futurisme di Marinetti, la posizione era frontale e inequivocabile. Nessuna bellezza per le opere che non possiedono un carattere aggressivo: ciò che non si configura come scontro e come sommossa allora non riguarda né più l’arte né la bellezza. Non serve a niente girarsi a guardare il passato per l’uomo che si trovi “sul promontorio estremo dei secoli”. Dichiarata la guerra ad accademie, biblioteche, musei: uno spreco di tempo rivolgersi indietro, giacché “il Tempo e lo Spazio morirono ieri” e per loro non c’è posto nell’“eterna velocità onnipresente”. Ma nessuna tra queste velleità incendiare apparterrà poi al Gruppo 93. E ancora: se l’avanguardia storica è senza passato, la neoavanguardia non sa, nel presente, destreggiarsi tra la logica piccolo borghese alla quale vorrebbe sfuggire e che invece la inghiotte. Il Gruppo 93 un po’ per propria volontà e per contingenza storica, riesce a porsi al di là di ognuna di queste posizioni. È agli antipodi, infatti, rispetto al rigetto della tradizione a cui guardava l’avanguardia storica. Ha superato il vicolo cieco in cui borghesia e museo costringevano la neoavanguardia, per approdare su un nuovo terreno di comunicazione e dialogo. Terminate violenze e antagonismi avanguardistici, lo scopo a questo punto diventa sviluppare nuove possibilità di creazione di senso, rifunzionalizzare certi elementi assodati per arrivare a una letteratura creola e quindi inedita.

Dialetto, idioletto, pastiche

Una delle strategie tramite cui si determina la contaminazione è l’utilizzo del dialetto. Di nuovo, le motivazioni sottostanti la scelta di un linguaggio dialettale non sono di natura nostalgica, né viene caricato in alcun modo di valenza regressiva o ancora mitica. Nell’assenza di cariche oppositive e contrastanti, le polarità interne alla lingua si trovano scariche e inefficaci, comportando una “equivalenza neutralizzante peraltro ampiamente supportata dagli interessi economico-tecnologici che presiedono alla produzione artistica di sempre più numerose tipologie di prodotti”.[13] La scelta del dialetto non è dettata quindi da alcuna inclinazione purista e da nessun sentimento nostalgico, quanto dalla volontà di creare uno spazio letterario, poetico, che possa essere uno spazio di creazione di nuovi sensi. Ciò che prima si trovava ai due estremi di una divaricazione viene reso incontro proficuo, generatore di significati, terreno fertile. Non solo: la riduzione progressiva dei parlanti dialettofoni ha comportato l’evoluzione del poeta dialettale in poeta neodialettale. Vale a dire che il contenitore da cui si attinge per creare il proprio universo linguistico non è più reale, ma virtuale. In una situazione simile, la dimensione territoriale, caratteristica della poesia dialettale, è inevitabilmente spinta a riconsiderare i rapporti tra il centro e il confine della lingua.[14]

Niente da imputare, insomma, né a un atteggiamento elegiaco né a una torsione verso l’infanzia linguistica. La lingua si deve muovere verso una scrittura “anti-istituzionale, anticlassica, anti-simbolista, nemica dell’io lirico gonfio dei privilegi usurpati, la quale intenda stabilire reti di relazioni piuttosto che immedesimazioni, vuol dire viaggiare in una scrittura non garantita che ha bisogno, per poter vivere, di un atteggiamento continuamente autocritico da parte dell’autore”.[15]

Si è detto di come all’interno del Gruppo non vi fossero esattamente orizzonti comuni, quanto piuttosto spazi condivisi, e di quanto su questi spazi i vari esponenti si muovessero liberamente. Il diverso utilizzo del dialetto da parte di Lello Voce e Biagio Cepollaro si può iscrivere all’interno di questo libero movimento. Cepollaro, rifacendosi a Jameson, sostiene che il deperimento del pastiche, inteso come una delle strategie di contaminazione, sia da imputare all’interazione mancata cui vengono sottoposti i materiali. La giustapposizione degli elementi non realizza, secondo lui, alcun apporto di senso. Diversamente, quando la fusione è pressoché completa e a stento si riconoscono le parti che di cui si compone l’idioletto, allora lì si verifica un nuovo apporto di senso. Alla funzione parodica del pastiche si sostituisce una funzione “modellizzante”: il luogo della periferia e del confine si pongono come centro di tutta la strategia compositiva”.[16] Il pastiche idiolettico di Cepollaro conduce a un testo le cui ragioni sono nella compressione e nella presenza interattiva di linguaggi diversi.

Di contro, Voce, stabilisce la sua idea di pastiche a partire dalla volontà di creare un attrito nella poesia: gli elementi che la compongono, le citazioni che ne creano l’ossatura, non agiscono al di sotto del testo ma sono manifeste e identificabili. In questo contesto la citazione è un modo di contaminare e dunque un momento di riflessione. E non solo la contaminazione linguistica non può essere esente dalla contaminazione stilistica, ma contaminare gli stili significa minare la consueta distinzione tra i generi di cui si rende necessario un ripensamento. Diversamente a quanto ritiene Cepollaro, Voce prende le distanze dalla posizione di Jameson:

Il pastiche fonda la sua identità (la sua individualità) non sulla perdita di riconoscibilità (di individualità) di ogni suo singolo elemento, come se per una sorta di abbassamento di luminosità tutto si omogeneizzasse nella “sintesi” di una stessa, opaca, patina-tonalità […]. La stroncatura feroce che Jameson riserva al pastiche sembra frutto, quanto meno, di un travisamento sineddochico che condanna il tutto per la parte, che deplora la valenza polifonica per colpire, in realtà, i suoi usi, per così dire, retrogradi.[17]

 

Processi allegorici, produzione di significati

Il momento in cui si sviluppa la riflessione sull’allegoria coincide necessariamente con quella di riflessione sul cambiamento della condizione e dell’intellettuale e dello scrittore.[18] Gramscianamente, l’intellettuale non può attendersi di avere un gruppo sociale di riferimento, che sarà invece di volta in volta differente sulla scorta di quale gruppo si trovi al potere. Va da sé che anche la produzione in questo contesto diventa vittima di processi di standardizzazione e appiattimento, in un modo che rende quantomai manifesto il legame di reciproca dipendenza che lega l’intellettuale – e quindi lo scrittore – alla società. Dunque, la condizione intellettuale muta indifferibilmente al mutare della realtà che lo circonda. I processi di reificazione, in questo momento, non sono reversibili.

Questo ha determinato un esaurimento delle possibilità, per il simbolo, di rendersi produttore di significati. Posta una definizione di simbolo come rappresentazione di un valore sul supporto di un corpo transeunte, è nel simbolo che il poeta poteva vedere l’universale sopra il particolare. Nella realtà ridefinita dalle logiche moderne, il poeta deve invece cercare il particolare in relazione all’universale.

Cioè a dire che si è creata una opposizione tra l’atteggiamento del vedere e l’atteggiamento più attivo del cercare, oltre che un rovesciamento del processo metonimico. Il simbolo dimostra l’universale adoperando sé stesso. Cosa si sostituisce al simbolo? L’allegoria, che, al contrario, trae le proprie forze da una volontà di indagine e riflessione. Così il simbolo offre una verità data e iscritta nel corpo dell’oggetto, mentre l’allegoria accusa una distanza da colmare tra universale e particolare. Al mutare del simbolo in allegoria muta anche la narrazione, anzi scalzata dalla descrizione. L’impadronirsi di una pratica allegoria è allora da ricondurre all’interno di un programma di ricerca poetica. Abbandonati i lirismi e messe al bando le mere nostalgie, preso atto di un postmoderno che depotenzia ogni conflitto possibile in favore di una generale neutralizzazione, la letteratura diviene essa stessa allegoria, poiché costituita di una rete di scambi e interrelazioni a partire dalle quali si determinano sensi diversi. Per dire meglio, i significati di un testo letterario diventano sempre relativi agli scambi interni che per allegoria, per dialetto, idioletto o pastiche, producono un senso che rende attivissimo il testo.

 

In conclusione, un progetto di stampo avanguardistico, stanti tutte le premesse di cui si è discusso, è di fatto impossibile a verificarsi. I presupposti che costituivano le basi per la nascita e la durata di un’avanguardia sono scomparsi: non c’è più alcun agonismo da esercitare nei confronti d’una certa tradizione, poiché l’avanguardia stessa è entrata a pieno titolo a far parte di quella tradizione che ripudiava – l’avanguardia è diventata un’arte da museo. Quei conflitti che rendevano fervente il discorso intorno all’avanguardia e al suo interno sono stati livellati dall’avvento del postmoderno, da non intendersi più come ideologia ma come momento storico dato. Laddove le avanguardie hanno sempre tentato un rovesciamento della tradizione, il Gruppo 93 ha superato la dialettica che le riguardava: piuttosto che trascinare sfibrando un discorso che in verità non ha più possibilità di durare, si avanza seguendo un movimento che parte dalla periferia della lingua, dai margini. In questo modo “A un’opposizione dialettica interna al centro si oppone una conflittualità fondata sullo spostamento; all’antagonismo frontale delle avanguardie segue una letteratura della lateralità, giocata sullo scarto, che sottolinea […] uno sforzo di non appartenenza”.[19]

Se questi sono i presupposti che hanno governato il Gruppo 93, la possibilità che si trattasse di una nuova e ultima avanguardia può dirsi inconsistente. Ciascuna delle poetiche che nasce sulla base di tali premesse, trova poi, nel proprio autore, un suo modo unico di declinazione. Quello che si presenta come un gruppo, di fatto, non funziona esattamente come un gruppo: non fa fronte comune e non trova la propria forza in una coesione interna e viscerale. L’idea è più quella di un laboratorio o di una rete, di un organismo che funziona nella cooperazione, ovvero di una letteratura che funziona nella contaminazione.

A conclusione riporto alcune parole del Luperini di Un confronto tra posizioni diverse, significative e chiarificatrici rispetto allo scopo del discorso affrontato fin qui, contenute nell’antologia “Gruppo 93 la recente avventura”.

Ricordava ieri Sanguineti com’è nata la letteratura: non diceva come competenza opposta ad altre competenze, non come la competenza di chi lavora il ferro è opposta alla competenza di chi lavora la seta, è nata invece come competenza opposta all’incompetenza, come sapere e potere separati. Nel ritorno alle origini, e spesso non manca la O maiuscola, c’è il ritorno anche a questa origine. […] Se niente è letteratura non vuol dire che è finita la letteratura, ma che forse è possibile solo una letteratura di secondo grado, sonda il vuoto e il nulla che la circonda e di cui essa fa parte. […] La letteratura di secondo grado è un’allegoria della ricerca di senso.[20]

 


[1] https://magazine.unibo.it/calendario/2003/05/08/gruppo63?d=2003-05-08.

[2] Biagio Cepollaro, La compresenza conflittuale. Quattro equivoci sintomatici sulle vicende del Gruppo 93, in «Baldus», anno II, n. 1, agosto 1991.

[3] Lello Voce, Il postmoderno è nostro: giù le mani!, http://www.lellovoce.it/Il-Postmoderno-e-nostro-giu-le. Il testo è la trascrizione di Voce del proprio intervento al convegno di Bologna. Gli atti del convegno sono contenuti in AA.VV., Il Gruppo 63 quarant’anni dopo, a c. di Renato Barilli, Fausto Curi, Patrizia Cuzzani e Niva Lorenzini, Bologna, Pendragon, 2005.

[4] La conversazione tra Angelo Petrella e alcuni poeti del Gruppo 93 svoltasi nell’ambito di Tu se sai dire dillo (2016) è reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=VBQsVi36reo&t=2925s.

[5] Lello Voce, il postmoderno è nostro: giù le mani!, cit.

[6] Romanzo Luperini, Un confronto tra posizioni diverse, in «Alfabeta», n. 69, 1985.

[7] Renato Poggioli, Teoria dell’arte d’avanguardia, Bologna, il Mulino, 1962. Quello citato non è l’elenco completo che Poggioli stila. Di fatto, poiché alcune tra le caratteristiche individuate potrebbero essere opinabili (si parla ad esempio di gratuità del fine, che tuttavia non è compatibile con l’avanguardismo russo), solo quelle insindacabili sono state citate in questo testo.

[8] Remo Ceserani, Trent’anni dopo, una convitata di pietra di nome Avanguardia, in il manifesto, 1993. Il documento è disponibile online all’indirizzo:

http://www.cepollaro.it/rastam2.htm#Remo%20Cesarani,%20Trentanni%20dopo,%20una%20convitata%20di%20pietra%20di%20nome%20Avanguardia,%20Il.

[9] Franco Fortini, Verifica dei poteri: scritti di critica e di istituzioni letterarie, vol. 354, Torino, Einaudi, 1989.

[10] Lello Voce, Il postmoderno è nostro…, cit.

[11] Enzo Rega, dall’intervista a Biagio Cepollaro Oltre il postmodernismo: la parola come esperienza del caos, in «Quaderni Radicali», anno XVI, nn. 33/34, aprile-settembre 1992.

[12] Lello Voce, Appunti di dinamica dell’ibrido, «Baldus», anno II, n. 1, 1991. Il documento è disponibile all’indirizzo http://www.lellovoce.it/Appunti-di-dinamica-dell-ibrido.

[13] Biagio Cepollaro, La conoscenza del poeta: metamorfosi del realismo, «Baldus», anno II, n. 1, 1991. Il documento è disponibile all’indirizzo http://www.cepollaro.it/nuova_pagina_50.htm.

[14] Cfr. Biagio Cepollaro, Idioletto, in Perché i poeti?, disponibile al link http://www.cepollaro.it/new_page_2.htm pp. 14-16.

[15] Cfr. Mariano Baino, Biagio Cepollaro, Lello Voce, A proposito delle Tesi di Lecce, «Baldus», n. 0, 1990, consultabile online all’indirizzo http://www.absolutepoetry.org/L-editoriale-del-n-o-0-e-i.

[16] Biagio Cepollaro, La conoscenza del poeta…, cit.

[17] Lello Voce, Appunti di dinamica dell’ibrido, cit.

[18] Per questa breve ricognizione sull’allegoria e il Gruppo 93 mi rifaccio in particolare al capitolo V del lavoro di Angelo Petrella Avanguardia, postmoderno e allegoria: teoria e poesia nell’esperienza del Gruppo ’93, Edizioni Biagio Cepollaro, 2007.

[19] AA. VV., Gruppo ’93: la recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia, a cura di Filippo Bettini e Francesco Muzzioli, Lecce, Piero Manni, 1990, p. 13.

[20] Romano Luperini, Un confronto tra posizioni diverse, in AA. VV. Gruppo ’93: la recente avventura… cit., 1990, pp. 38-39.

Angelo Ferracuti: “Mario, non ci resta che l’amore”

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«”Non è che a me le persone interessino per fotografarle,

mi interessano perché esistono. Diversamente, il fotogiornalismo

sarebbe soltanto una sequenza di scatti senz’anima”, diceva… »

 

Mario, non ci resta che l’amore di  Angelo Ferracuti -dedicato alla figura di Mario Dondero è il nono libro dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a un estratto dal testo. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce. Il ritratto fotografico è un contributo di Marco Cruciani.

 

Un giorno eravamo insieme a Milano per incontrare Giovanni Pesce, l’eroe della resistenza italiana nella sua casa di Piazza Bonomelli. Era una giornata molto afosa in una Milano semideserta. Mario era arrivato con una bottiglia di prosecco e una vaschetta di gelato, le macchine fotografiche in spalla, e proprio il giorno dopo sarebbe partito per la Russia per realizzare un reportage con il giornalista Astrit Dakli sul post-comunismo, “I rifugi di Lenin”. Ci aveva accolto «la compagna Sandra», ovvero sua moglie Onorina, in questo appartamento buio dove avevamo conversato per un paio d’ore. Volevo da Pesce una testimonianza su Giuseppe Di Vittorio, Nicoletti, per il libro che stavo facendo con Mario, “Di Vittorio a memoria”, commissionatoci dalla Cgil, che incontrò prima a Guadalajara e poi a Ventotene. Mi aspettavo un racconto vivido, pieno di aneddoti, come piacciono a me. Quelle piccole storie che messe tutte insieme fanno la Storia. Invece lo trovai stanco, quasi senza più voglia di raccontare, si limitava a rispondere l’essenziale, poche frasi significative ma brevi.

Mario, dopo averli riempiti di attenzione e di affetto, mostrando loro le sue foto scattate proprio in Spagna, una delle sue ripetute ossessioni, chiese se potesse fotografarli. Eravamo in un tinello buio, la poca luce arrivava dalla portafinestra che dava sul balcone, faceva molto caldo, e loro due si misero uno accanto all’altro in attesa che scattasse, come una coppia di anziani qualunque nel tinello di un appartamento.

Pensavo venisse fuori una foto troppo scura, e temevo per il nostro libro che avrebbe perso una voce importante. Invece, quando dopo qualche mese Mario mi mostrò la foto m’impressionò moltissimo quel ritratto, e anche oggi continua a colpirmi. Lui aveva visto in macchina quello che io non ero riuscito a vedere, e che tutto quel tempo empatico era riuscito a creare, cioè la bellezza nuda di due persone giuste della storia, illuminate da una luce che le rendeva umanissime.

 

 

Angelo Ferracuti è nato nel 1960. Ha pubblicato Attenti al cane (Guanda, 2000), Le risorse umane (Feltrinelli, 2006, Premio “Sandro Onofri”), Viaggi da Fermo (2009), Il costo della vita (Einaudi, 2013, Premio “Lo Straniero”), Andare, camminare, lavorare (Feltrinelli, 2015), Addio (Chiarelettere, 2016). Scrive su “il manifesto”, “La Lettura” del “Corriere della Sera”, “Il Venerdì” di Repubblica, e collabora con Radio Tre.

Da Scurau

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di Giuseppe Nibali

Ultima voce chiama il sangue.

Campo cruento gli uomini, altro sangue per le donne
è il giorno. Tutti sono convocati, vecchi e nuovi
viventi aspettano un gesto per sbranarsi. Il rivolo
aspettano, verticale sullo sterno, il morituri stabilito
dalla nascita, nella nascita futura rivelato. È tempo
adesso per il sesso tra gli attori, gambe nude, lividi,
dai piedi fino all’ano serpi, piaghe fili lo sfondo fuori
anche case, molte, come in cerca vergognosa della luce.
Altro mai, nemmeno nella voce, nella voce ultima

**

due mesi, niente. La città è andata avanti
verso il mondo universo. Vi colpisce fino
ai buchi dentro i nervi fino ai chiodi tra le
costole. La città ha dato germe. Resistete
non muovete il braccio: respirare restare
come gli uomini che sono uomini due volte,
una per l’origine l’altra per il tempo.

**

Corpi cavi enormi, gonne e questi figli come squarcio.
Crolla la religione, Meroè, di chi conosce il tormento
di giocare fino al buco dell’abisso; lo sgravo che ricordi
gli spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala
appena lavati macelli, vene scure, osiamo dire:

Cattedrale vuota l’ulivo schiacciato contro il greto
i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza
materna sul petto. Matriarcato dei giochi l’ikea
i segni, questi, del nuovo potere; parola della madre.

Sì, siamo la madre. La morte la morte. La morte.

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Dal lato filtra l’acquenere nel cemento, passa rifugi antiaerei, tracce di ferrovia. Ai liquami arriva, alle ossa degli antichi. Di qua un nuovo cimitero: cavi molti, un prato. Per lo scopo i piedi premono sul vetro, le mani stanno in preghiera. Mio e comune il giorno in cui ho pisciato via dalla fica il flare, il colpo del sole sulle labbra. Un silenzio primitivo, il viso è morto, non vedi? Le strade, anche le strade, le gallerie come arterie di donna, le vedi? Le sorveglia un’altra volontà. Allora nulla si è sfatto da quanto siamo, non hai da cercare, né manca in TV di guardare i fiati sfiniti degli amanti, il collo che si curva di un airone. Così è fino alla matrice, allorché del maschio e della femmina farete un unico essere sicché non vi sia più né maschio né femmina. Così è fino alla matrice, alla prima carne strappata da uno stomaco.

**

Che bestia sei. Che bestia mentre aspetti col muso l’acqua
battere sul dorso e le zampe arrivare alla nuca, mentre latri
all’erba che spacca in giardino il pezzo vicino di cemento.
Dalle foglie ritorna il grecale, la pioggia passa dalla feritoia
nella casa, dai tendoni che coprono i raggi. Questo e di come
ci siamo dimenticati, di come è successo in fretta. Tenendoti
tu ai miei fianchi io alla maglia stesa accanto. Ora è la mossa.
Fermo. La Bugonia. Solleva le mani dai fianchi, la mossa che
faccio col culo. Svella piano la carcassa mia dalle labbra,
la carcassa qui esplosa, il suo fegato emerso dalle piume.

**

Vi seguirà il male dietro l’edera, e di sopra,
sul balcone in lamiera che avete per rifugio.
Non è il tempo delle corse alla ringhiera
mentre lo sfondo si disossa, e passa dall’arco delle vie
per la montagna. È morto anche il vecchio prete
di Ragalna, per la fine del suo giorno una domenica.

Chissà che luce vi assale lì dai tetti, dove il sole si
inurba coi pastori fra i negozi e che fatica morire
anche voi nella chiesa col barrito alto della fiera.
Qui nel lontano la nebbia muove la pianura
sopra i ponti, dalla miseria di colline, altre volte
fuori alla finestra si alza lo scheletro di un albero.

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Sgruma tutto l’osso, spolpa le parti del petto non ti fermare
nei calli; tu scheggia gli incisivi sull’osso. Questo amore
con la carne ci ha fatti bestiame umano di denti e radice
di pianta tutta antica tutta crudo inverno. Sgruma l’osso
anzi ascolta: un fischio convoca all’oggi i cadaveri nati
sotto l’orrore delle dita.

Anche la donna, Vera, che pare tua figlia, la donna che guarda
non un punto ma le case, è carne putrefatta già nell’atomo
nel ribosio è carne di rovina, carne rischiarata dai fotoni
al virginale. Non le mani guarda ma la felce cresciuta
sul buio, che il buio tormenta col suo verde. Sui tasti supera
comuni di uomini in trofallassi. Crea suono.

La moltiplicazione del Signor Distruggere

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di Helena Janeczek
Abbiamo un problema, un problema culturale e politico.
L’onnipresenza del linguaggio misogino (misogino e non più solo maschilista) che nello spazio dei media (social e tradizionali) è diventato da tempo la norma della violenza verbale.
Normale il tweet di Massimiliano Parente – l’ennesimo – che usa come sinonimo di “minchia” il cognome di Michela Murgia, mentre a lei pare cosa di un altro mondo che una rivista americana la difenda da un troll fascistoide. O Marco Gervasoni che, qualche settimana prima, commentava la copertina dedicata a Elly Schlein con “ma questa è n’omo?”
Lo “scandalo” della modella Armine Harutyunyan scoppiato a un anno dalla sfilata di Gucci e divampato solo in Italia. Le valanghe di veleno su Greta Thunberg, ricorrenti come le anomalie meteorologiche causate dal cambiamento climatico.

Le forme dell’amore

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di Matteo Quaglia

 

Mamma diceva sempre che non esiste solitudine, per chi non apprezza la compagnia. Secondo lei, per soffrire davvero, era necessario conoscere le alternative.

Papà era un tipo più pragmatico. Un campione dell’evoluzionismo darwiniano. Non solo perché ha modificato la propria caratura umana in modo direttamente proporzionale al lievitare della sua influenza nell’Apparato, ma anche perché è venuto a patti con lo stravolgimento di una vita, pianificata, fino a quel momento, al minimo dettaglio. Questo non significa che sia stato un cattivo padre. Non uno di quelli a cui si chiede di leggerti la storia della buonanotte. Non uno di quelli che ti accompagnano al corso di danza, o al cinema. Il suo pragmatismo lo ha guidato lungo le nostre vite con l’ostinazione del sordo. Ha chiuso gli occhi ed è andato avanti per la sua strada.

L’ultimo ricordo che ho, di lui in vita, è di questa mattina. Un uomo con la cornetta in mano e le gambe di burro. Quando hanno telefonato per dirci che mamma era morta, la faccia di papà ha assunto l’espressione di certi quadri di Courbet. Non ha versato una lacrima e non ha detto una parola. Si è chiuso nel suo studio e da quel momento, per lui, ho smesso di esistere.

Sebbene fossimo preparati alla notizia, la scomparsa di qualcuno che ami è sempre un pugno su per il culo.

Papà si è impiccato senza lasciare nemmeno una lettera, o un’altra forma di addio. L’ennesima dimostrazione dell’economicità di un certo funzionalismo.

Quando ho bussato e non ho ricevuto risposta, ho inspirato e ho chiuso gli occhi. Ho aperto la porta del suo studio ed era lì, appeso, con una specie di ghigno che ricordava un sorriso. L’ho tirato giù e l’ho adagiato sul tappeto. Mio padre era un uomo compatto, ma non avrei mai detto che pesasse così tanto. Era così compatto che, se mi ha voluto bene, è solo perché amava mamma. Il suo sentimento, nei miei confronti, una forma di rispetto per la donna che amava così tanto.

 

Così, in un colpo solo, ho perso mamma e papà. Ho sempre creduto che questo genere di coincidenze capitassero solo nei b movies, o in seguito a qualche cataclisma. La verità è che la vita sa essere più grottesca di ogni finzione o evento naturale. La verità è che papà non mi ha mai voluto e, dopo la pensione, mamma era il suo unico motivo di vita. Quando ti dicono che si può imparare a voler bene alle persone, be’, è una grande cazzata. Imparare non è da tutti. Voler bene non è da tutti. Dicono che si possa imparare dai propri sbagli, ma non è sempre vero. Ho capito che mio padre si era sempre adattato a tutto, perché non era in grado di adeguarsi a niente.

Dopo aver tirato giù papà e avergli dato quel minimo di compostezza cui aveva sempre aspirato in vita, ho chiamato il portavoce dell’Apparato per dargli la notizia. Gli ho detto che papà era morto d’infarto. Gli ho detto che avrei utilizzato la Macchina, quel giorno stesso, perché avevo una cosa da fare. Il portavoce dell’Apparato ha risposto indicandomi un indirizzo e un’ora precisa. Ha detto che mi avrebbero aspettato lì, con la Macchina e le condoglianze.

 

Mamma mi raccontava sempre che, quando ha scoperto di essere in attesa, ha trascorso un pomeriggio pensando al nome da darmi. Papà non le è stato molto d’aiuto. Più per questione di volontà, che per mancanza di immaginazione. Se avesse conosciuto le conseguenze che il parto avrebbe avuto sulla salute di mamma, papà l’avrebbe costretta ad abortire. Non voglio dire che, così facendo, avrebbe risolto due problemi in uno, ma insomma.

Il punto è che papà amava mamma e ha accettato la sua volontà di diventare madre e di consacrare quell’errore in una forma di amore. Ha accettato la mia nascita come un moscerino che ti si infila nell’occhio.

Mamma mi ha più volte detto che non sono stata proprio il frutto di uno sbaglio, perché non è mai proprio così. Ha ripetuto che, se anche sono stata uno sbaglio, sono lo sbaglio che l’ha resa più felice. Il nome che mamma ha deciso di darmi, quando sono nata, è Mia.

Ho raggiunto l’indirizzo all’ora indicata e ho trovato gli uomini dell’Apparato ad attendermi, i volti scuri di chi si sforza di dimostrare dolore e comprensione. Ci sono state strette di mano e parole di circostanza. Mi hanno chiesto se sapessi come utilizzare la Macchina. Ho detto di sì. Mi hanno detto che non ci sarebbe stato bisogno di riportare la Macchina indietro, perché la Macchina è sempre ovunque.

 

Così sono arrivata in quell’altro indirizzo preciso, a quell’ora precisa di diciannove anni fa. Mamma mi ha raccontato che lei e papà si sono conosciuti un pomeriggio piovoso, in un vecchio caffè. A mamma era caduto il libro che stava leggendo all’epoca, papà l’aveva raccolto e da lì era nato tutto quanto. Da lì ero nata io.

Vedo mamma. È giovane, una ragazza con la spensieratezza di chi ama le giornate di maggio. Il libro sotto il braccio. Mi hanno sempre detto che sono mia madre da giovane, ora ne ho la prova. Forse è questo il motivo per cui, papà, non ha mai utilizzato la Macchina per cambiare il corso degli eventi. Per cancellarmi dalla storia. Forse, questa è la stata la sua personalissima forma di amore.

Ora è il mio turno per fare ciò che va fatto.

 

Si dice che si impara dai propri sbagli, ma a volte anche gli sbagli imparano. Ed è per questo che siamo tutti e tre dentro il caffè e fuori pioviggina e siamo tre sconosciuti dal destino intrecciato. Da giovane, papà sembra meno duro, meno intagliato nel legno. Forse, è diventato ciò che è diventato in seguito alla mia nascita. A vederlo, ora, pare impossibile che tra diciannove anni si appenderà per il collo.

Mi avvicino a mamma. Lei non mi nota. È appoggiata al banco del bar. È bellissima. Papà è poco distante. Anche papà si avvicina, per ordinare da bere. Mamma si volta verso di me e il libro le scivola da sotto il braccio e cade al suolo, sollevando un piccolo sbuffo di polvere. Mi chino e raccolgo il libro. Lo porgo a mamma, che mi sorride. Papà nota la scena e mi sorride. Poi abbassa gli occhi sul giornale che sta leggendo.

Mi guardo le mani. Sto iniziando a scomparire, come Marty McFly in Ritorno al Futuro. Certe volte la vita è davvero come un film, a quanto pare.

Ho la testa ovattata, tanto che posso sentire i battiti del mio cuore farsi sempre più leggeri, mentre un raggio di sole bianchissimo attraversa i vetri impolverati del bar e  mi bagna di luce. Mentre scompaio per sempre, nel pomeriggio, ripenso a quella frase di mamma, secondo cui, per soffrire davvero, è necessario conoscere le alternative. Mi chiedo se papà soffrirà. O se, senza di me, la sua vita sarà più felice. Mamma non mi avrà, ma mi ha già avuta, in un’altra vita. E vissero tutti felici e contenti, in un modo o nell’altro, senza di me e con me.

I miei occhi incrociano di nuovo quelli di mamma e le labbra di mamma si aprono e mamma sembra sapere chi sono e mi dice qualcosa, che non riesco a capire, e in un attimo sono solo un ricordo, un’altra forma dell’amore, e scompaio con uno sbuffo negli angoli più reconditi della vita futura di mamma e papà.

Livraisons

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photo by Robert Mack
photo by Robert Mack

Una libreria in inglese

 

Di Angelo Vannini

 

 

A Phyllis Cohen,

e alla sua libreria di sogni

 

Non sono mai stato la persona adatta a questo, pensai una volta arrivato davanti alla porta, benché io a volte sia capace di fare quello che altri non possono fare in un lasso così breve di tempo, è evidente che non sono mai stato adatto, a questo come a ogni altra cosa del resto, perché tutto quello che ho intrapreso in vita mia è sempre capitato mio malgrado, anche se per idea mia, anche se profondamente voluto da me, come questa idea assurda e terribile di lasciare Perpignano per andare a vivere ad Aix-en-Provence, una cosa che certamente ho voluto io ma che è andata, fin da subito, contro me stesso, perché era evidente, e lo era fin dall’inizio, che mai sarei stato all’altezza di fare quello che ad Aix-en-Provence mi era chiesto di fare, scrivere seicento pagine, solo a me poteva venire in mente di lanciarmi in un’impresa del genere, dato che non avevo tempo la mattina, né il pomeriggio e tantomeno la sera, e poi anche con tutto il tempo del mondo era perfettamente chiaro che non sarei potuto riuscire a scrivere seicento pagine tutte in francese, perché io non sono adatto a queste cose, anche se a volte preferisco mentirmi e non voglio riconoscerlo, anche se la gente non vede la mia inadeguatezza per quella che è, la mia insufficienza rispetto alle idee che si fanno di me, o delle mie capacità, che sono del tutto errate.

Sono idee del tutto errate, come errato è questo progetto, pensai davanti alla porta, un progetto per cui io divento un anello assolutamente indispensabile, e che farò certamente fallire, se soltanto questa cosa fosse vera, ma vera, voglio augurarmi, non è, e allora con l’aiuto della sorte, perché di sfighe ne ho avute tante, una dietro l’altra, sempre, da quindici anni a questa parte, ininterrottamente, tantoché mi dico che prima o poi questa lunga discesa, per quanto evidentemente senza fondo, come sono tutte le discese quando sono vere discese, e non finte, dovrà incontrare qualche soprassalto, uno o due, una cosa tra mille che va per il verso giusto, almeno una volta, cristo, una dico, forse con una manna dal cielo ce la farò, e ci sarà una cosa che riesce come dovrebbe riuscire, pensavo davanti alla porta, almeno una e per cui saranno contenti del mio operato, e penseranno che sia anche merito mio se sono riusciti a raggiungere un obiettivo, come appariva allora, tra i più difficili, anche se è e rimane del tutto improbabile, ma qui è tutto nero, pensavo, non c’è nemmeno una lucina eppure non possono essere se non qua dentro, almeno così mi hanno detto, pensai appena vidi tutto chiuso e sbarrato, l’interno preso dal buio, ma la serranda non era abbassata e in vetrina ancora si vedevano libri come se non fosse chiuso, libri ovunque, da ogni parte, libri come se piovessero, eppure la porta non si apriva, maledettamente, cominciai a pensare, era chiaro che non si sarebbe aperta con la scalogna maledetta che mi porto dietro, e come faccio ora che loro non mi vedono né possono sentire dato che io non posso urlare, non devo attirare l’attenzione proprio ora, pensavo, dato che qui sul marciapiede la mia situazione è irrimediabilmente illegale, di sicuro mi capiterà qualcosa se rimango ancora in questa strada, le volanti non passavano mai nella rue Delavigne, mi avevano detto loro, ma io di queste cose non mi sono mai fidato in vita mia perché non so quante volte sono stato controllato in situazioni completamente improbabili, come quella volta ad Ancona mentre passeggiavo con un amico, tranquillamente, nella maniera più tranquilla del mondo un piede dopo l’altro sul marciapiede della Via Nazionale, quando appena svoltati a sinistra davanti a un bar tre carabinieri col mitra, pareva che aspettassero proprio noi quei diavoletti, mezz’ora per controllare la carta d’identità via radio mentre ci tenevano sotto tiro col mitra come fossimo banditi usciti da una rapina, ed eravamo pure vestiti bene quella volta, camicette abbottonate e appena stirate, un primo pomeriggio d’estate, che cazzo ci facevano lì col mitra in un pomeriggio d’estate, pensai mentre ero davanti alla porta, con la sfiga che mi ritrovo passerà sicuramente una volante dei gendarmi stanotte, passerà proprio qui se non mi sbrigo ad entrare, ma loro non rispondono, anche quando comincio a bussare, non c’è nessuno dentro porco cane, m’hanno lasciato qui nella merda, era prevedibile, era assolutamente prevedibile che sarebbe stato un viaggio fatto completamente a vuoto e che mi sarebbe costato caro, avevo pensato mentre nessuno da dentro rispondeva, esposto nel mezzo della notte ad ogni tipo di ispezione, multa, prelevamento e incarceramento, tutto questo era chiaro che sarebbe successo, se all’improvviso, dopo non so quanto tempo, non mi avessero aperto. Io non ero adatto a quelle cose, a tutte quelle cose voglio dire, quello che facevo ad Aix-en-Provence come quello che avrei dovuto fare lì a Parigi, non ci sarei mai riuscito, per non parlare poi di quello che avevo fatto a Perpignano e per cui, quasi, ero morto di fatica e follia, con la schiena a pezzi e otto chili in più che non riuscivo a smaltire, per quanto corressi, per anni, tutta colpa del mio metabolismo, anche con quello sono stato sfigato, una che ne andasse dritta non c’era né ci sarà mai, la merda surgelata, parevo avanzando, se soltanto qualcuno mi avesse guardato accuratamente se ne sarebbe accorto, era evidente, ma nessuno mi guardava accuratamente e la cosa non mi sorprende, perché io stesso avrei fatto di tutto per tenermi lontano dalla mia vista, se solo avessi potuto, invece non potevo e mi toccava essere di nuovo lì con me stesso nel mezzo della notte aspettando che mi aprissero, e anche dopo che mi avevano aperto ero rimasto solo con me stesso, in mezzo a tutti gli altri che a poco a poco si erano alzati e visibilmente non erano per niente contenti del mio arrivo, e come biasimarli del resto, dato che neanche io ero contento, quella volta come ogni volta, dell’arrivo, che evidentemente non ero capace di fare e che fallivo miserabilmente in modi sempre più disastrosi e avvilenti.

A Perpignano, almeno, ero potuto sparire, anche se solo per un lasso limitato di tempo, a Perpignano avevo potuto far finta di non esistere e questo aveva potuto confortarmi, per un po’, e soltanto relativamente, ma poi da Perpignano decisi di andarmene per tentare questa follia di Aix-en-Provence che pagherò certamente caro, e presto, non appena la mia impossibilità di adempiere il contratto che ho firmato cinque mesi fa diverrà chiara a tutti, tempo un anno o due al massimo, pensai una volta entrato nella libreria, che non so perché ma non pareva una libreria anche se era piena di libri, e quella cosa non era certo di buon augurio, pensai, e subito pensai a non pensarlo, non più per tutto il resto del viaggio, tempo un anno o due e si accorgeranno dell’errore madornale che hanno fatto con me, sarò espulso dal centro di matematica applicata e mi toccherà fuggire da Aix-en-Provence e probabilmente tornare a Perpignano, anche se a Perpignano non ho più niente da fare, ma almeno da Perpignano potrei andare facilmente, si fa per dire, a lavorare in Catalogna, fare avanti e indietro tra la Spagna e la Francia per insegnare a scuola, finché, pensai, non mi sarebbe esplosa la testa.

A Perpignano sarebbe stato possibile, mentre ad Aix no, ma io in quel momento mi trovavo ad Aix, dove tutto sarebbe, un giorno all’altro, precipitato, anzi no, non ero più ad Aix, ero appena arrivato a Parigi senza sapere neanche il perché, imbarcato in un progetto completamente folle per cui non ero certamente all’altezza, mi trovo completamente allo sbando, pensai una volta entrato, è un miracolo che non mi abbiano già arrestato e chissà come farò, a festa finita, per ritornare a casa, a festa finita avevo pensato, anche se era chiaro che non era una festa la ragione per cui mi avevano voluto lì, una ragione di estrema ed impressionante urgenza, mi aveva detto Éléonore per telefono, fiondati ti prego, aveva detto e subito mi ero fiondato, come se avessero avuto davvero bisogno di me quando era del tutto evidente che io ero e sarei rimasto in ogni senso superfluo, e non si capiva perché continuassero a chiamare me, dato che non ero certamente il migliore in questo mestiere, che tra l’altro non era un mestiere perché non poteva darmi da vivere dal momento che facevo di tutto per restare nella legalità, e io non volevo essere uno illegale, assolutamente, mai avrei accettato di esserlo, e quindi mi toccava farmi assumere di anno in anno dai dipartimenti più svariati delle più svariate università per avere di cosa pagare l’affitto e comprare il pane, io non ero ricco e anche su questo ero stato sfortunato, perché c’è chi nasce senza problemi di soldi e senza problemi di soldi finirà per morire, ma io non facevo parte di questa categoria, i miei erano poveri cristi nati e cresciuti a Vaccarile dove pure io ero nato e cresciuto, prima di finire ad Urbino assieme ad altri poveri cristi, quanti crocifissi, mio dio, pensai una volta finito dentro alla libreria, quanti ne ho visti in tutto e quanti ne sarò ancora condannato a vedere. E questi qua pure erano poveri cristi, pensai, quello là da Buenos Aires è dovuto fuggire e da anni si nasconde a Parigi sotto falso nome, questa che da Chicago è venuta a ripercorrere le orme della Resistenza francese, quell’altro che si spaccia per greco ma in verità è apolide, dove cazzo sono finito, pensai, e soprattutto perché, per quale dannata ragione mi sono imbarcato in questa impresa chiaramente destinata a fallire, e per di più in un momento come questo, in cui sarei dovuto rimanere ad Aix-en-Provence a fare quello che stavo facendo, cioè niente, perché niente ero in grado di fare ad Aix-en-Provence dal momento che anche lì mi ero imbarcato in un’impresa impossibile, seicento pagine di formule, e per di più in francese, formule che mai sarei riuscito a scrivere, dovendo lavorare mattina pomeriggio e sera soltanto per tirare a campare, questo mondo è un mondo di santi, pensai una volta tolto il giaccone, tutto un sacrificio e nessuna redenzione, almeno non in questa parte della vita, e io non credevo all’altra parte, non sono uno che crede facilmente, pensai, non ho mai creduto alla befana per esempio, o a babbo natale, quando nonna e nonno ci venivano a trovare dicendo questo te lo manda babbo natale io sparavo già allora una pernacchia, e correvo via, perché capivo, se non vedo non credo, ma quello che vedo credo, e vedevo tutti i santi, i sacrificati, i matti, le bollette da pagare e le madonne da tirare, e chissenefrega, dicevo al prete ogni volta che mi pronosticava l’inferno, e avevo ragione io, perché l’inferno è in questa terra, non in quella. Togliti la merda dalle ossa, vedi se puzza ancora, dicevo ogni volta a mia sorella, se puzza ancora è perché tutto è dentro, rogna pure nel sangue, aveva fatto bene lei a lasciare l’Europa per rifugiarsi in Vietnam, e mi dicevo spesso che anche io avrei dovuto raggiungerla, mettere una croce sopra a tutto quanto e partire, ma poi quando andai in estate mi resi conto che non era meglio, la vita lì era uno scatafascio esattamente come qua, esattamente come qua si tribolava per le stesse ragioni per cui tribolavamo qua, cosa ho fatto di male io, pensavo allora da mia sorella, che neanche qui posso stare in pace due minuti, è proprio vero che è nel sangue, mi dicevo, e già ero tornato via, ero a Perpignano ancora prima di essere tornato a Perpignano, e una volta tornato davvero a Perpignano ci misi poco per andare ad Aix-en-Provence senza esserci ancora andato, pensai mentre guardavo i libri che erano ovunque, per terra e sugli scaffali, tutti in inglese cristo santo, neanche un testo in francese in una libreria del sesto arrondissement, manco fossimo davvero a Berkeley, mi dissi, perché noi viaggiamo con la mente prima del corpo, e solo dopo il corpo segue, ma a volte è il corpo che va e la mente che tiene, non si muove, e allora chissà se mai mi sono mosso da Vaccarile, pensai davanti agli scaffali tutti in inglese, a Perpignano forse non ci ero mai arrivato e me ne rendevo conto in quel momento stesso, mentre mi preparavo a essere nuovamente inutile per me e per tutti in una faccenda, come disse Éléonore, della massima urgenza, che certamente non avrei saputo affrontare nella maniera adeguata, ammesso che una maniera adeguata potesse mai esistere in un mondo come quello in cui siamo stati condannati a vivere.

Ma porca, vociferavo, porca, sempre dentro di me, mentre quelli si muovevano tutti in coro per sistemarmi, era quasi commovente tutto quel giostrare all’unisono attorno al mio materiale, devono tenerci davvero, pensai, se in piena notte ancora non mi hanno mandato a cagare, io mi sarei mandato a cagare molto spesso, se avessi potuto, pensai, e soprattutto per esser piombato dal nulla con così tanto ritardo, ma cosa mi è saltato in mente, partire da Aix-en-Provence in una situazione di emergenza sanitaria assoluta per andare illegalmente a Parigi, al fine di compiere un’operazione che mai sarei riuscito a compiere, in pieno lockdown, e questo avrebbe dovuto essere sotto gli occhi di tutti, ma loro probabilmente fingevano di non vedere, era davvero improbabile che pensassero si potesse realizzare grazie a me quello che volevano realizzare, anche per una combriccola di svitati come erano loro, non era verisimile che ci credessero davvero, pensavo mentre mi sistemavo, in ogni caso non sarei mai riuscito a dormire quella notte, questo era evidente, e anche le seguenti, sarebbe stato impossibile dormire in una situazione come quella, in un posto come quello e con tutto quello che stava succedendo fuori, una città fantasma, mi era sembrata, mi accorsi in quel momento, Parigi al mio arrivo, e probabilmente non sarei mai riuscito ad arrivare in quella libreria senza risvegliare almeno un fantasma. L’unica cosa bella, pensai mentre attaccavo i computer alla corrente, è che a quella gente importa di me, almeno apparentemente, mi hanno sempre detto le cose come stanno, che fanno quello che fanno non per soldi, perché non li hanno e mai li avranno, ma per giustizia, per giustizia fanno quello che fanno perché quando il mondo è rotto c’è chi pensa ancora che bisogna aggiustarlo, e questo era per me l’unica cosa bella che però non poteva darmi sollievo perché io non ero all’altezza, non avrei mai potuto far parte del loro gruppo in pianta stabile senza morire, un giorno o l’altro, di fame, e non capivo come facevano loro, a non morire di fame, uno con meno lavoro dell’altro, chissà quale era il segreto, chi gli spesava l’affitto, dato che, ne ero sicuro, non era il commercio perché non vendevano, non era il Centro di Mediazione Anticoloniale perché ancora non esisteva, ancora quel centro non era un centro, dato che sarebbero divenuti loro il centro, ognuno di loro e tutti assieme, un passeraio, non avevano neanche un ufficio se non quel buco di libreria in cui si rifugiavano di tanto in tanto da qualche mese, a quanto Éléonore al telefono mi aveva detto, ma come si fa, pensai, a essere in una situazione come questa, in un posto come questo, cacciato qui senza nessuna possibilità di successo, niente, a Parigi non riesco, ad Aix sarà un fallimento, Perpignano ormai per me non esiste più, come mi sono ridotto, tra l’altro non si sa nemmeno se ad Aix riuscirò a tornare senza farmi arrestare, solo a me poteva capitare una situazione così, per cui l’unico posto sicuro è questo qui, una libreria in inglese, chissà come ci sono finiti gli altri, pensai, il quartiere dell’Odéon, dico, roba da matti, voler guarire il mondo a partire da qui, come fosse un sogno o un bisogno, una fisima da bel lunedì.

 

Antropocene fantastico

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In questi giorni è uscito nelle librerie Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, il nuovo pamphlet di Matteo Meschiari, pubblicato da Armillaria.

Ne ospito qui un estratto in anteprima, tratto dal capitolo Kairocene.

 

KAIROCENE – RIFONDARE IL TEMPO

 

Quale passato si annida nel futuro? In che cosa Paleolitico e Antropocene si somigliano? La parola Antropocene è irritante, un’irritazione che viene essenzialmente dalla sua proteiforme adattabilità ai contesti, dalla sua eccessiva carica di seduzione e facilità d’uso. Ma, concettualmente, quello che non convince è la sua perenne atmosfera alla Blade Runner, il suo sapore di futuro a tinte fosche, reale ma banale, come una quinta teatrale fissa, scontata. L’esperienza di Covid-19 ha smentito ogni visione distopica: l’Antropocene è qui senza mutare la percezione del presente. Anzi. Nei comportamenti e nelle atmosfere il presente è venato più di preistoria che di fantascienza. Filosofi oscurantisti e virologi impotenti ci fanno sentire più in un passato immaginato che in futuro promesso. È inquietante, certo, ma si apre una possibilità inedita all’immaginario del dopo: un Antropocene dagli attributi diversi, più debitore a J.R.R. Tolkien che a Philip K. Dick. E Tolkien per me è il vero scrittore-guida in questo momento storico, perché se un Antropocene Fantastico è possibile è solo tornando alla radice di chi ha riflettuto sul fantastico in modo ineguagliato. Come dicevo in precedenza, Tolkien non è il Fantasy, perché lo scarto è tutto tra i due mondi è tutto nell’idea di studio, nella filologia della parola e dello sguardo, e soprattutto nella credenza: Tolkien ci ha lasciato delle istruzioni per l’uso, a una guida mitopoietica del presente e del dopo che ci attende. Fiaba, subcreazione, storytelling fantastico non sono cose da conoscere sulla carta, non sono il destino di un singolo autore, ma sono pratiche sociali, collettive, performative, che hanno il potere di aiutarci a reimmaginare la realtà: «Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro, di quanto l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, all’uomo caduto a noi noto».

 

La citazione chiude un testo in cui all’inizio si pongono le basi: Feeria «è un reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, oltre a gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo». Il tono apparentemente discorsivo, a tratti bonario, del saggio Sulle fiabe, non deve distrarci con la sua apparente semplicità. Tolkien sta leggendo una conferenza (una Andrew Lang Lecture tenutasi all’università di St Andrews l’8 marzo 1939) in bilico tra filologia e autopoetica. Proprio la sua natura ambigua, duplice, rende difficile estrapolare delle coordinate “utili” a ottant’anni di distanza, ma quello che si dice qui è soprattutto un invito ad aggiustare lo sguardo, una cosa difficile da proporre e da apprendere. Tolkien ci avverte: Feeria non è solo storie di fate o storie di umani tra le fate, Feeria è un luogo, e non dobbiamo smettere di pensare che in quanto luogo è fatta anche di cose “comuni”, “normali”, che in realtà comuni e normali non sono. Su posizioni non troppo lontane da quelle di Viktor Šklovskij sullo straniamento, Tolkien sta dicendo che abbiamo perso la vocazione a guardare il mondo “primario” con attitudine meravigliata. Come recuperare allora lo stupore verso un sasso o una foglia uscendo «dalla tediosa opacità del banale o del familiare»?

La strada non è semplice perché bisognerebbe comprendere e accettare una frase densissima che il filologo e il linguista storico cala nel suo saggio come un fendente: «le lingue, soprattutto le europee moderne, sono una malattia della mitologia». Tolkien, contrariamente a chi dice di eliminarli, elogia la funzione poietica degli aggettivi: «La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l’immobile roccia in acqua veloce». Questo atto di subcreazione è lo stesso che ritroviamo negli inventori del mito: la mitopoiesi è un atto linguistico primario molto più articolato di una mera architettura allegorica. Il mito non è il tuono che diventa un dio o un irascibile contadino dalla barba rossa elevato a rango divino, il mito è la zona di coesistenza di tuono, Thor e contadino, un luogo di simultaneità narrativa e ontologica che Tolkien chiama appunto Feeria. Feeria è allora la co-possibilità. E dove la co-possibilità dei piani si interrompe, per stanchezza creativa, per cinismo, per disordine cognitivo, per usura, allora ci troviamo di fronte a una specie di “malattia del mito”, una sfiducia della lingua per cui subcreazione e sospensione dell’incredulità sono solo giochi temporanei, fittizi, senza la “credenza” profonda di poter “fare mito” anche nel quotidiano. Il problema, ovviamente, non è solo un nodo epistemologico del mondo contemporaneo. Sono e saranno sempre molto pochi i portatori di parola disposti a credere in un commercio diretto tra mito e tempo presente, in un reale scambio di fluidi tra Feeria e il mondo primario.

 

 

Ora, che ci piaccia o meno la parola, siamo entrati nell’Antropocene. Possiamo vedere quest’epoca di transizione e la futura prossima come un’ennesima declinazione distopica, come una serie Netflix da guardare a distanza stando seduti sul divano, oppure possiamo intercettare nell’Antropocene i grandi flussi mitici che, come accade a ogni epoca, lo attraversano e lo alimentano. Tolkien lo dice così: «Costruire un Mondo secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica. Pochi si cimentano in compiti così ardui; ma quando li si affronta e li si attua in misura maggiore o minore, si ottiene un risultato artistico senza pari: arte narrativa, insomma, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante». È chiaro che chiedersi come sarà la “letteratura del dopo” ha più a che fare con questo, con un sole verde, che non con potenziali e anodini romanzi su Covid-19, distanziamento sociale, contenzione domestica e mascherine a passeggio. Nel collasso e nella Pandemia, e forse proprio per questo, dovremmo ricordarci di quelle che Tolkien chiamava «le cose più permanenti e fondamentali».

Tolkien concepisce il Silmarillon nel 1917. Suo figlio Christopher lo pubblica postumo nel 1977. Christopher aveva 53 anni e Guy Gavriel Kay, tra il 1974-75, ne aveva appena 20. Kay, canadese a Oxford, aiutò Christopher nella riscrittura delle parti più tardive. Il libro, che Tolkien voleva pubblicare assieme al Signore degli anelli, ha avuto una genesi di 60 anni. E nonostante la riscrittura postuma resta un incompiuto. Al suo interno ci sono tempi narrativi e tempi redazionali che formano un intrico così complesso da aver immobilizzato il loro stesso autore. Per noi invece sono un invito a riflettere non sul worldbuilding ma sull’etica della parola: dalla cronaca alla cronologia, dalle agenzie stampa agli annali. Un cambio di prospettiva che potrebbe aiutare a stendere un balsamo calmante sulla fretta di correre a registrare tendenze intellettuali e mode sulle testate on line. Il futuro è crollato. Abbiamo tutto il tempo adesso. Tolkien era sintonizzato su Kairos non su Kronos. Noi certamente non siamo Tolkien, ma siamo lettori e scrittori davanti a una scelta. E questa scelta è di vita o di morte.

 

 

Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini – recensione

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di Silvia Morotti 

 

Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini (Robin, 2020)

 

“A Vincenzo Consolo, maestro di voce, maestro di memoria”: Chiara Pellegrini esordisce con un romanzo, Storia di farfalle e altre metamorfosi, che si apre nel segno di un’educazione letteraria e morale. Un libro polifonico e stilisticamente curato, con una lingua limpida, incisiva e al tempo stesso capace di abbandonarsi al “messaggio celeste” (p.9) della natura, di scendere in profondità, anzi, come scrive lo stesso Consolo, di “verticalizzare il linguaggio, spostarlo verso la zona della poesia”. Il romanzo inizia con una data fortemente simbolica: 8 marzo mattino. Si tratta di una lettera, la prima di un lungo carteggio: l’autrice è una delicatissima adolescente che ricorda Katherine Mansfield nel nome e, soprattutto, nel sentire, nel suo trovare da subito, più o meno consapevolmente, la propria religione e il proprio mondo nella scrittura. 8 marzo mattino: di quale anno? Non importa. Il tempo del romanzo si dilata: l’adolescente scrive alla se stessa che sarà, domanda alla donna se potrà finalmente, un giorno, “riempire fino in fondo ogni spazio” o se resterà per sempre “un angolo di vuoto” (p.7). Ed ecco che la donna risponde: non vuole illudere, non vuole nascondere alla se stessa del passato le ferite “che gocciano per molto tempo” (p.17), vuole che la ragazza impari ad appartenere, a “rimanere diversa” (p. 23).

La ragazza di ieri e la donna di oggi appaiono al lettore racchiuse in una stanza ideale, riunite in un miracoloso dialogo, ma il romanzo non è privo di un aggancio con l’esterno: possiamo immaginare che nella stanza ci sia una grande finestra, una di quelle finestre che tanto amava anche un’altra adolescente, Emma Bovary; lo sguardo delle due donne si posa quindi fuori: non è solo uno sguardo sognante, è anche lo sguardo di chi contempla il mondo, un mondo che si lascia cogliere nel momento in cui la primavera si schiude, fino a quando matura, alle soglie dell’estate. Una primavera e un’estate di qualsiasi anno, una primavera e un’estate di una vita che fiorisce e si trasforma, come ogni vita in ogni tempo.

La metamorfosi è talvolta espiazione e percorso di salvezza: “si resta diversi”, si deve attraversare il dolore, perdere il sé per poi riconoscersi (o almeno ricomporre qualche frammento). Tra i tanti riferimenti letterari possibili, l’immagine della farfalla non può che ricordare Guido Gozzano, l’entomologo, chiuso nel suo eremo, dove silenziose e in attesa dormono le crisalidi. Nel romanzo di Chiara Pellegrini, l’attesa è sicuramente un tema chiave, come è naturale in pagine scritte in gran parte da un’adolescente; l’adolescenza è l’età dell’attesa ed anche l’età in cui la vita ti si offre come un ventaglio di infinite possibilità: attesa, quindi, ma anche scelta. Storia di farfalle e altre metamorfosi non è un romanzo crepuscolare: è più forte, alla fine, la voglia di bruciare nella luce, dopo aver passato la vita a evitare di scegliere. Quando la metamorfosi avviene, quando Caterina si scopre farfalla, porta impresso, come l’Acherontia di Gozzano, un segno spaventoso, qualcosa a cui non è riuscita a dar nome per molto tempo, un trauma che ha condizionato, sotterraneo e prepotente, tutta la sua esistenza. Se le voci maschili sono evanescenti – l’amore non goduto della giovinezza o l’amore della maturità- c’è invece personaggio maschile che, pur restando sullo sfondo, domina l’intera esistenza di Caterina: è la vera ferita, il dolore rimosso, l’incarnazione del male che non ha voce ma ha “mani”, “mani calde”, odiose e brutali, il cui ricordo ossessiona Caterina. Il trauma avviene quando Caterina sta per sbocciare. La farà sentire “fuori posto” (p.7) nella sua primavera e nella sua estate. Le renderà indispensabile trovare una strada per “restare diversa”, per fiorire, nonostante tutto. Un varco per Caterina sono le piante e i fiori che lei ama. Le piante non possono muoversi, non possono parlare. Le piante le somigliano ancora di più dopo quel trauma che l’ha inchiodata e le ha tolto la voce. Eppure, lei continua a fiorire, consapevole di quanto dolore richieda il mutare forma. “Fiorire non è uno scherzo”, scrive Caterina adulta (cfr. lettera del 23 marzo, notte di stelle):

 

Fiorire non è uno scherzo. È necessario spaccarsi ed è doloroso. La gemma riposa nella fibra del ramo tutto l’inverno. Quando primavera entra e, come sappiamo, non bussa e ha passo sicuro, la gemma erompe dalla scorza ed è una spaccatura. Le fibre si sono tese allo spasimo dentro il ramo per far posto all’ingrossarsi di quel grumo composito e duro di vita e quando questo è gonfio abbastanza, ecco che la sua eruzione lacera e apre il varco. Primavera entra e non bussa e ha passo sicuro. Ieri il verde non c’era, oggi vibra a ogni soffio sulle punte dei rami. Ma questa esplosione, che sembra avvenuta stanotte, chiamata dal silenzio delle stelle, ha impiegato mesi per aggregarsi, comporsi, strutturarsi, e lo ha fatto a spese delle fibre dell’albero, piegate, ritorte, compresse e infine strappate, lo ha fatto succhiando, mungendo, spremendo linfe e umori vitali alla pianta tutta. Tutto quel che cresce fa male a tutto ciò che racchiude. Tutto ciò che cresce lacera tutto ciò che lo vorrebbe avvolgere e contenere. Crescere e racchiudere, coraggio e paura. Il movimento della vita. La vita e la morte. Coraggio e paura.

 

Anche la letteratura, come la natura, è cosa viva. In un universo frammentato e sfuggente, l’io si perde in un gioco di specchi: Caterina si ritrova nel mondo vegetale e nei libri, in altre voci di donne, poetesse, scrittrici o protagoniste di pagine narrative. Tra le molte storie citate, nel romanzo si ricorda il racconto Rose rosse, della siciliana Maria Messina, una storia dura e violenta: “sostieni anche tu, se ne hai coraggio, che è la solita scrittura femminea”, afferma la voce narrante, parlando a se stessa, ma rivolgendosi in realtà a un uditorio più vasto, al pubblico che ancora dibatte sull’annosa questione se esista o meno una scrittura femminile. A tale riguardo, l’autrice di Farfalle e altre metamorfosi rivendica l’esistenza di quello che Sandra Petrignani (Laterza, 2019) chiama “lessico femminile”: una lingua diversa, espressione di un “pensiero naturalmente autocritico” e spesso “inascoltato” (ibidem, p.7), una lingua che sa trattare con leggerezza temi pesanti, proprio come avviene per Maria Messina e per la stessa Pellegrini.

Caterina diviene farfalla e, in parte, si libera e si riconosce; non smette di confrontarsi con il dolore che l’ha resa quello che è, ma trova una strategia per “restare diversa”. Come Marcel, alla fine della Recherche, si scopre scrittore, così Caterina comprende che ciò che l’aspetta, da sempre, è “un volo di parole” (p. 217). Le due donne, la ragazzina e la donna matura, trovano un varco e balzano fuori, fuggono, in un luogo dove non è necessario scegliere. E passare quel varco “è rimanere diversi”, “trasfigurare” (cfr. p. 21):

 

No, non è una contraddizione: rimanere diversi è un trasfigurare. Sei ancora tu, ma indossi una veste nuova, come dopo una risurrezione, una volta che la pietra del sepolcro è rotolata di lato e si esce dalla tomba come dal grembo materno, scintillanti di luce e rinati.

 

Scrivere non imprigiona, scrivere è “restare diversi”: Caterina, come Katherine, trova nella scrittura la sua religione, il suo mondo, la sua vita.

 

Silvia Morotti