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Rainer Maria Rilke nella traduzione di Raffaela Fazio

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Nota di Michael Dallapiazza

Rainer Maria Rilke: Silenzio e tempesta. Poesie d’amore. Introduzione, selezione e traduzione di Raffaela Fazio, Marco Saya Edizioni 2019.

Già il titolo incuriosisce. Poesie d’amore? Rilke, in realtà, non è noto come un autore di poesie d’amore. Questo lo accomuna a Brecht, che poi, a un esame più attento, si scopre aver scritto numerosi testi del genere, fino alla poesia “pornografica”. Ma cosa significa in fondo poesia d’amore? Espressione di un’esperienza personale? Riflessione lirica sui concetti dell’amore? Il darsi, il perdere se stesso? O anche desiderio di autoconservazione, e preoccupazione, timore davanti alla supremazia dell’amore? Tutto ciò può essere rintracciato in questa ampia e curata selezione di poesie appartenenti a (quasi) tutti i periodi creativi di Rilke, a partire dalle poesie di Advent (1897) dell’allora poeta ventiduenne, risalenti all’anno in cui incontrò Lou Andreas-Salomé. La scelta di testi effettuata da Raffaela Fazio mostra Rilke in una luce che forse è nota solo agli intimi frequentatori della sua opera, e ciò che la traduttrice si augura nella prefazione è vero: più il lettore si addentrerà nella poetica rilkiana, più scoprirà un’atmosfera particolare – e strana – di sospensione tra luce e oscurità, desiderio di possesso e libertà. E chi già conosceva lo Stundenbuch, composto tra il 1899 e il 1903, iniziato nel periodo di stretta vicinanza a Lou Andreas-Salomé e terminato dopo la separazione da lei e il matrimonio con Clara Westhoff – diventato poi una raccolta di poesie rivolte da un monaco a Dio – ora forse lo percepirà in modo diverso. Il linguaggio religioso è allo stesso tempo il linguaggio dell’amore, un po’ come nel “Minnesang”, e, se compreso in questa ambiguità, risuona quasi provocatorio, perché in alcuni testi il “tu” è riconoscibile nel suo riferirsi a Dio, ma potrebbe anche essere rivolto a una donna. Raffaela Fazio traspone le poesie di Rilke con una speciale sensibilità alla musicalità dell’originale. La poesia, in particolare quella di Rilke, è in realtà intraducibile, dal momento che è pressoché impossibile esprimere in un’altra lingua caratteristiche formali specifiche quali rima, metrica, assonanze e addirittura frequenti allitterazioni. Tentare di farlo ad ogni costo distruggerebbe la poesia, ma tentare di farlo con audacia e senza forzature, nei limiti del possibile, è il dovere del bravo traduttore. Questo è quanto mette in atto la presente raccolta, in modo insolitamente convincente. Raffaela Fazio riesce a rendere giustizia alla forma molto diversa che caratterizza i vari componimenti rilkiani, dai testi che presentano una struttura più rigorosa a quelli che fluiscono quasi come prosa poetica. E ciò non può essere certamente detto di tutte le traduzioni di poesia tedesca, che negli anni si sono susseguite.

Una selezione di poesie dal libro:

Das Land ist licht und dunkel ist die Laube,
und du sprichst leise und ein Wunder naht.
Und jedes deiner Worte stellt mein Glaube
als Betbild auf an meinen stillen Pfad.

Ich liebe dich. Du liegst im Gartenstuhle,
und deine Hände schlafen weiß im Schooß.
Mein Leben ruht wie eine Silberspule
in ihrer Macht. Lös meinen Faden los.

La campagna è chiara, il pergolato scuro.
Tu parli piano e un miracolo è imminente.
La mia fede dispone ogni tua parola
come sacra icona sul viottolo silente.

Ti amo. Sulla sdraio del giardino sei distesa;
dormono in grembo, bianche, le tue mani.
Spola d’argento, la mia vita riposa
in loro potere. Fa’ che il filo si dipani!

***

So milde wie Erinnerung
duften im Zimmer die Mimosen.
Doch unser Glaube steht in Rosen,
und unser großes Glück ist jung.

Sind wir denn schon vom Glück umglänzt?
Nein, uns gehört erst dieses Rufen,
dies Stillestehn auf weißen Stufen,
an die der tiefe Tempel grenzt.

Das Warten an dem Rand des Heut.
Bis uns der Gott der reifen Keime
aus seinem hohen Säulenheime
die Rosen, rot, entgegenstreut.

Delicato come la memoria,
nella stanza il profumo di mimose.
Ma la nostra fede è nelle rose,
la grande gioia giovane ancora.

Il suo splendore già ci circonda?
No, a noi spetta questo chiamare,
sostare immobili sui bianchi scalini
con cui confina il tempio profondo.

Ai bordi dell’Oggi ci spetta l’attesa
fino a che il dio dei semi maturi
dal colonnato dell’alta dimora
ci sparga davanti, rosse, le rose.

***

Der Abend ist mein Buch. Ihm prangen
die Deckel purpurn in Damast;
ich löse seine goldnen Spangen
mit kühlen Händen, ohne Hast.

Und lese seine erste Seite,
beglückt durch den vertrauten Ton, –
und lese leiser seine zweite,
und seine dritte träum ich schon.

La sera è il mio libro. Un vermiglio
bagliore di damasco la riveste;
ne disserro i dorati fermagli
senza fretta, con mani fresche.

Leggo la prima pagina scoprendo,
lieto, il suo tono familiare,
più sottovoce leggo la seconda,
la terza l’inizio già a sognare.

***

Liebeslied

Wie soll ich meine Seele halten, daß
sie nicht an deine rührt? Wie soll ich sie
hinheben über dich zu andern Dingen?
Ach gerne möcht ich sie bei irgendwas
Verlorenem im Dunkel unterbringen
an einer fremden stillen Stelle, die
nicht weiterschwingt, wenn deine Tiefen schwingen.
Doch alles, was uns anrührt, dich und mich,
nimmt uns zusammen wie ein Bogenstrich,
der aus zwei Saiten eine Stimme zieht.
Auf welches Instrument sind wir gespannt?
Und welcher Geiger hat uns in der Hand?
O süßes Lied.

Canto d’amore

La mia anima come trattenerla,
che la tua non sfiori? Come elevarla,
sopra di te, ad altro? Ah quanto vorrei celarla
in qualcosa che si è perso nell’oscurità,
in un luogo estraneo, silenzioso
che non seguiti a vibrare, al vibrare
delle tue profondità.
Ma tutto quello che ci tocca, insieme
ci prende come un arco che produce
da due corde una sola voce.
E noi siamo tesi su quale strumento?
Quale violinista ci tiene nella mano?
O dolce canto!

***

Der Tod der Geliebten

Er wußte nur vom Tod was alle wissen:
daß er uns nimmt und in das Stumme stößt.
Als aber sie, nicht von ihm fortgerissen,
nein, leis aus seinen Augen ausgelöst,

hinüberglitt zu unbekannten Schatten,
und als er fühlte, daß sie drüben nun
wie einen Mond ihr Mädchenlächeln hatten
und ihre Weise wohlzutun:

da wurden ihm die Toten so bekannt,
als wäre er durch sie mit einem jeden
ganz nah verwandt; er ließ die andern reden

und glaubte nicht und nannte jenes Land
das gutgelegene, das immersüße –
Und tastete es ab für ihre Füße.

La morte dell’amata

Sapeva della morte ciò che è noto a tutti:
che ci afferra e scaglia nel silenzio muto.
Ma quando lei, non strappatagli d’un tratto,
no, piano dal suo sguardo allontanata,

scivolò via verso ombre forestiere,
e in quelle lui avvertì, come una luna,
il sorriso di ragazza e la maniera
che lei aveva di fare il bene,

gli divennero i morti familiari,
come se fosse ognuno suo congiunto
grazie a lei; lasciò che parlasse la gente,

non credette, chiamò quel paese buono,
di eterna dolcezza. E tastandone il suolo
vi andò cercando dell’amata le impronte.

***

Leda

Als ihn der Gott in seiner Not betrat,
erschrak er fast, den Schwan so schön zu finden;
er ließ sich ganz verwirrt in ihm verschwinden.
Schon aber trug ihn sein Betrug zur Tat,

bevor er noch des unerprobten Seins
Gefühle prüfte. Und die Aufgetane
erkannte schon den Kommenden im Schwane
und wußte schon: er bat um Eins,

das sie, verwirrt in ihrem Widerstand,
nicht mehr verbergen konnte. Er kam nieder
und halsend durch die immer schwächre Hand

ließ sich der Gott in die Geliebte los.
Dann erst empfand er glücklich sein Gefieder
und wurde wirklich Schwan in ihrem Schooß.

Leda

Tanto era bello, che il dio provò quasi spavento
quando entrò nel cigno, preso dall’affanno;
turbato in lui scomparve. Ma già l’inganno
lo spingeva all’atto, prima di saggiare il sentimento

di quel sé, ancora inesplorato. E lei, dischiusa,
nel cigno riconobbe colui che a lei veniva.
Seppe all’istante quello che chiedeva:
il dio chiedeva una sola cosa

la stessa che lei più non poté celare, confusa
nella propria reticenza. Egli discese e, premuto
il collo sulla mano di lei sempre più arresa,

si lasciò andare nell’amata. Solo allora
si accorse delle piume e ne fu lieto.
Nel grembo suo, si fece cigno il dio, davvero.

[Michael Dallapiazza, nato a Frankfurt am Main nel 1954 e stabilitosi in Italia negli anni ottanta, dal 2014 è professore associato confermato di Letteratura Tedesca all’Università di Bologna. Precedentemente ha insegnato Filologia Germanica presso le Università di Trieste e di Urbino. I suoi temi di ricerca: letteratura tedesca del 900; letteratura interculturale; Mittelalterrezeption; letteratura cortese; teorie letterarie; deutsch-italienische Literaturbeziehungen; Boccaccio in Germania. Al suo attivo ha numerose pubblicazioni e monografie.

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, risiede a Roma dove lavora come traduttrice. Ha trascorso dieci anni in vari paesi europei, laureandosi in lingue e politiche europee all’Università di Grenoble, e specializzandosi presso la Scuola di Interpreti e Traduttori di Ginevra. Rientrata in Italia, ha conseguito un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato: Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images (2011). È autrice di vari libri di poesia. Tra gli ultimi: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015) con prefazione di Paolo Ruffilli; Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017); L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018) con prefazione di Francesco Dalessandro; Midbar (Raffaelli Editore, 2019) con prefazione di Massimo Morasso; Tropaion (Puntocapo Editrice, 2020) con prefazione di Gianfranco Lauretano e postfazione di Sonia Caporossi; A grandezza naturale. 2008-2018 (Arcipelago Itaca, 2020) con prefazione di Daniele Barbieri. Si è occupata di Rainer Maria Rilke, selezionando, traducendo e raccogliendo una parte delle sue poesie d’amore in Silenzio e Tempesta (Marco Saya Edizioni, 2019).]

Gramsci e il metodo della libertà

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Una conversazione con Christian Raimo

a cura di Adriano Ercolani

 

 

La casa editrice Euridice si è presentata al mondo editoriale con un catalogo di tutto rispetto: nata durante il lockdown, sotto la direzione di Laura Ceccacci, si pone come intento il “lavoro di repêchage di classici più o meno dimenticati, di idee che non hanno raggiunto il grande pubblico, di autori poco letti, poco valorizzati, o fraintesi, ripresentati attraverso un linguaggio editoriale nuovo ed espressivo”, finora in formato esclusivamente digitale.

Uno dei titoli più interessanti finora pubblicati è un’antologia di scritti di Antonio Gramsci, intitolata Il metodo della libertà. Scritti sulla democrazia, il fascismo, la rivoluzione.

Si tratta di testi scritti durante gli anni dell’avvento del fascismo, dalla fine della prima guerra mondiale fino a prima della sua carcerazione del 1927.

I temi trattati, con la notoria lucidità, dal pensatore sardo, spaziano dal riformismo borghese al colonialismo, dalla critica al giolittismo all’analisi del sovversivismo reazionario, dalla lotta agraria alle origini del governo mussoliniano, dalla questione sarda alle società segrete.

Oltre a essere un formidabile strumento di analisi delle origini del Fascismo, molte delle riflessioni presenti in questi scritti rivelano una innegabile, e inquietante, attualità.

Come scrive Christian Raimo nella prefazione: “Il grande problema della ricezione pubblica di Gramsci è che non è solo un testimone, ma è soprattutto un interprete e la sua rilevanza dal punto di vista dell’elaborazione teorica sovrasta persino la sua estrema testimonianza esistenziale”.

Molto interessante è la postfazione di Guido Liguori, Gramsci: gli anni della libertà, che ricostruisce con precisione le vicende esistenziali e intellettuali del pensatore, sgombrando il campo da ingannevoli manipolazioni recenti, soprattutto sottolineando la “lotta contro il fascismo, che il comunista e marxista sardo avrebbe combattuto con lo studio e la forza delle idee, scrivendo i Quaderni del carcere, grazie ai quali è oggi il saggista italiano più conosciuto, studiato, tradotto nel mondo dai tempi di Machiavelli.”.

Con un paradosso tipicamente nostrano, il saggista italiano più studiato nel mondo in Italia non è nemmeno inserito nel canone scolastico.

Anche da questo nasce l’esigenza di questa riproposta editoriale.

Ne abbiamo parlato con il curatore Christian Raimo.

 

Qual è stato il criterio di selezione degli scritti?

 

L’origine è un’antologia di scritti gramsciani pubblicata da Editori Riuniti, negli anni’70, che si chiamava Sul Fascismo, una selezione di interventi sia precedenti che successivi all’arresto da parte del regime, curata da Ezio Santarelli.

Ho sempre pensato che quel libro mancasse nel dibattito attuale su Gramsci in Italia, considerata anche la recente cooptazione del suo pensiero da parte rossobruna.

Andando a rivedere il volume, ho pensato che, di quella selezione originale, fosse più interessante ripubblicare i saggi precedenti all’affermazione del regime, ovvero quelli pubblicati fino all’inizio degli anni ’20.

Questo proprio perché credo sia interessante capire quale fosse il clima in quel preciso momento, quando il Fascismo ancora non aveva individuato in Gramsci un suo nemico, dunque c’era anche da parte sua una differente fluidità nella riflessione.

Il titolo, Il metodo della libertà, è proprio un’espressione gramsciana, lo abbiamo scelto poiché non si tratta solo di scritti sul Fascismo, ma anche sulla Rivoluzione bolscevica e, più in generale, sulla lotta di classe.

 

Al di là dell’urgente necessità di strappare Gramsci alle grossolane forzature della propaganda rossobruna, è innegabile la validità delle sue riflessioni per interpretare dinamiche contemporanee. Penso a frasi come l’”angusto di terrore e vendetta che caratterizza la borghesia attuale”, il “sentimento di paura folle” che ne anima la propaganda, i nazionalisti visti come “riformatori della borghesia”…

 

In questo senso, è molto interessante un brano su Il problema di Milano, sulla borghesia bottegaia e reazionaria di una città all’avanguardia solo dal punto di vista industriale.

Certo, dobbiamo renderci conto che Gramsci va storicizzato, quindi va letto nel contesto dei suoi anni. Non vogliamo certo un farne un guru profetico.

Però, allo stesso modo è errato contestualizzarlo per poi porlo in una prospettiva rossobruna, è davvero fargli un grave torto.

Non mi definisco uno studioso ma un lettore, informato e appassionato, di Gramsci.

Per questo motivo ho voluto che un esperto come Guido Liguori scrivesse una postfazione, proprio per fare pulizia di tutte le incrostazioni che negli anni si sono accumulate sul suo pensiero.

Mentre la mia prefazione è un invito a leggere Gramsci come autore popolare, da inserire nel canone scolastico, il testo di Liguori entra in maniera molto diretta nel dibattito attuale.

Il suo contributo inserisce con chiarezza questa edizione nel contesto dell’attuale “Gramsci Renaissance”.

Negli ultimi anni, infatti, Gramsci è tornato ad essere un pensatore centrale in varie tradizioni disciplinari: dagli studi letterari a quelli politici, da quelli storici a quelli pedagogici.

Questo da un lato rivela la sua importanza come interprete dei suoi anni, ma d’altra parte non bisogna dimenticare il suo ruolo di testimone: la difesa delle sue idee e quello che, di fatto, è stato il suo martirio lo rendono uno dei più cristallini testimoni della stagione antifascista.

Per questo, fare proprio del suo pensiero una lettura a proprio uso e consumo è profondamente scorretto.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un goffo tentativo di demarxistizzazione di Gramsci, come se fosse un generico pensatore antiliberista e non un martire dell’antifascismo.

Questo è infamante.

 

Il paradosso è proprio vedere un martire dell’antifascismo, che in anticipo aveva previsto le dinamiche perverse del regime, essere usato come grimaldello dialettico da gente che scrive su blog “sovranisti”. Ogni riferimento a Diego Fusaro su Il Primato Nazionale è puramente voluto.

 

Ma infatti questo tentativo a Fusaro non è riuscito. L’operazione tentata nei suoi libri, che nelle ricostruzioni storiche hanno anche parti dignitose, di sottrarre Gramsci alla sua storia e alla sua interpretazione del marxismo è fallimentare.

D’altra parte, negare la forza della sua testimonianza antifascista è infamia.

Su quello non c’è campo di discussione, ma solo di battaglia.

 

Da anni è in atto quest’opera di appropriazione di icone della Sinistra storica da parte dell’Estrema Destra. A volte si tratta di fraintendimenti, a volte di forzature, a volte proprio di volgari provocazioni.

 

Per questo, penso ci sia bisogno di ritornare a leggere Gramsci come autore popolare, non quello in voga ultimamente, quello di “Odio gli indifferenti” e “Odio il Capodanno”,  che è certo utile ma viene ridotto a un uso da maglietta.

Anni fa, ad esempio, Einaudi fece una serie di pubblicazioni antologiche in formato tascabile molto accurate e interessanti.

La nostra edizione mette nuovamente a disposizione dei testi importanti, anche se non semplici.

Sebbene Gramsci scrivesse molto bene, si tratta sempre di articoli scritti cento anni fa.

Eppure, ciò non costituisce un ostacolo alla lettura, infatti non abbiamo predisposto delle note critiche o esplicative.

Abbiamo affidato al lettore interessato il compito di ricostruire, facilmente, i passaggi e le coordinate storiche.

I due paratesti che corredano l’antologia, come detto, indicano la centralità dell’autore e la necessità di inserirlo nel canone scolastico.

Nonostante sia uno dei più importanti filosofi italiani, nei licei viene dedicato solo qualche minuto a Gramsci. Si tratta di proporre anche una riflessione anche sui parametri stessi del canone: pensiamo a un autore come Rosmini, negli anni precedenti molto presente nei programmi scolastici, e poi improvvisamente scomparso.

Gramsci è, di fatto, l’unico pensatore italiano del Novecento che ha una caratura internazionale.

Non è possibile andare all’università e incontrare, in qualsiasi disciplina umanistica, le categorie da lui coniate per la prima volta.

Categorie come quella di “egemonia”, il concetto di “nazionalpopolare”, la distinzione tra “riformisti” e “rivoluzionari” sono imprenscindibili quanto quelle coniate da Freud o Dewey.

Lo studio di Gramsci non può essere un’opzione.

Si può benissimo non essere un militante di sinistra, ma non si può prescindere dall’idea gramsciana di “egemonia”, ad esempio.

Non ci si può iscrivere all’università senza sapere queste cose.

 

Parlando di “egemonia culturale”, pare evidente che a sinistra si siano scordati cosa sia.

Secondo te è stata una miope assenza di strategia delle forze di sinistra o, al contrario, è stata più astuta e lungimirante l’Estrema Destra nel comprendere, ad esempio, le immense potenzialità della propaganda sui social network?

 

Credo che i social network siano un elemento che entra in gioco solo in un secondo momento.

Mi spiego.

Il cambio di paradigma nel contesto culturale è dato dal velenosissimo combinato disposto tra il disinvestimento decennale su scuola e università e l’operazione parallela sulla televisione pubblica, che ha lasciato completamente il campo all’ascesa di quella commerciale.

Per vent’anni l’educazione di massa è avvenuta attraverso una telelvisione spesso sciattissima, assurdamente antipedagogica.

In questo senso, è avvenuto un travaso di tempo: le ore che uno poteva immaginare in un contesto di accesso alla conoscenza, sotto varie forme (l’ascolto di un disco, la lettura di un libro, la frequentazione di un centro giovanile o di una biblioteca popolare) sono state passate davanti alla televisione.

I social network ricevono e sfruttano un contesto di consocenza che in Italia è stato preparato da vent’anni d’educazione televisiva.

 

Quindi, dopo venti anni di Uomini e Donne non si è più in grado di comprendere che il meme con le dichiarazioni antiitaliane di Laura Boldrini o Samuel L.. Jackson come immigrato che fa la bella vita sono evidenti menzogne, poiché si sono smarriti gli strumenti critici.

 

Quello è un aspetto importante ma è altrettanto importante notare che per venti anni almeno l’italiano medio per informarsi si politica si è rivolto alla televisione.

I social network, nella maggior parte dei casi, non producono conteuti ma veicolano e rilanciano contenuti mainstream prodotti in tv.

I meme che vediamo sono spesso estratti da trasmissione televisive, gli argomenti sono imposti dalla tv.

Un contenuto per divenire virale sui social network deve passare per la televisione.

Senza dubbio, ora sta cambiando qualcosa.

Cè una prima generazione di persone che non vedono la tv (magari ne fruiscono in altro modo, tramite YouTube) e quindi ne subiscono meno l’influenza.

Però è la prima generazione, siamo all’inizio del cambiamento.

La stragrande maggioranza degli italiani si informa ancora tramite la tv.

Anche qui, come vedi, serve l’intelligenza di Gramsci per comprendere profondamente cosa significa “nazionalpopolare”.

Overbooking: Luciana Frezza

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ph. Dino Ignani


Elogio della discrezione

di

Alida Airaghi

“Una presenza discreta nella poesia italiana del secondo Novecento”.

Così Roberto Deidier ha definito in un suo articolo la persona e l’opera di Luciana Frezza.

Ottima e stimata traduttrice, Luciana Frezza si è occupata soprattutto della poesia simbolista e decadente francese dell’800-900: Mallarmé, Laforgue, Nouveau, Verlaine, Baudelaire, Fargue, Baron, Apollinaire, Proust, resi in versioni sapienti e intelligentemente personalizzate per i più importanti editori italiani.

Da questa empatica, vitale e costante applicazione “ha ricavato miracolosamente con un suo setaccio d’argento un tesoro di abilità”, secondo l’acuta lettura di Luigi De Nardis. Intrecciata alla straordinaria competenza di traduttrice, Frezza ha seguito una propria attitudine all’espressione poetica, messa in evidenza da numerose e apprezzate pubblicazioni.

Sul suo duplice e correlato impegno di poetessa e traduttrice, così si esprimeva: “È una sfida che mobilita la creatività … e altre virtù come la pazienza e la vigilanza… Il pericolo per cui bisogna prestare una costante attenzione è costituito dalle possibili intrusioni dell’Io…; occorre tenerlo fuori ma non eliminarlo del tutto, perché il suo contributo di esperienza vissuta può talvolta giovare, come giovano la fortuna e il caso, elementi da mettere in conto”.

Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e del noto anglista Agostino Lombardo, hanno voluto giustamente riunire in un unico corposo volume (uscito nel 2013 dagli Editori Internazionali Riuniti) tutta la produzione in versi e prosa della madre, scandita in diverse raccolte (Cefalù -1958, La farfalla e la rosa -1962, Cara Milano -1967, Un tempo di speranza -1971, La tartaruga magica -1984, 24 pezzi facili -1988, Parabola sub -1990, Agenda -1994, i racconti de Il disegno -1996), sparsa in riviste o del tutto inedita.

È stata appunto la figlia Natalia, giornalista e pittrice, a firmare sia l’illustrazione di copertina sia le puntuali e commosse note biografiche in apertura dell’antologia. Da cui desumiamo che Luciana Frezza, nata a Roma nel 1926, da padre romano agente di cambio e madre siciliana, si laurea alla Sapienza nel 1946 discutendo con Giuseppe Ungaretti una tesi su Eugenio Montale, e iniziando già dagli anni universitari a comporre versi e a collaborare con prestigiose riviste letterarie.

In seguito si dedica con generosità e impegno sia alla famiglia sia allo studio e alla traduzione degli amati poeti francesi, coltivando nello stesso tempo amicizie importanti nel mondo intellettuale (Luigi De Nardis, Giovanni Macchia, Vittorio Sereni, Vittorio Bodini…). Alterna momenti di crisi e insoddisfazione personale ad altri di entusiastica apertura a esperienze partecipative nei movimenti politici e femministi degli anni ’70 e ’80. Sofferente di gravi e invalidanti disturbi alla vista, continua tuttavia a pubblicare libri di poesia, ottenendo ottimi riscontri critici; partecipa a letture pubbliche di versi, insieme a un folto gruppo di amici scrittori romani, e collabora con il Terzo programma di Radio Rai.

All’alba del 30 giugno del 1992, afflitta dal timore di un’incombente cecità e da una profonda depressione, “tragicamente per chi rimane, pensa forse di riprendersi la libertà”, conclude con malinconico pudore Natalia.

Comunione con il fuoco, questa fondamentale e completa rassegna della scrittura di Luciana Frezza, si apre con l’empatico saggio introduttivo di Elio Pecora, e presenta altri approfonditi interventi critici di Patrizia Lanzalaco, Filippo Bettini, Luigi De Nardis, Walter Pedullà, Jacqueline Risset, Angela Giannitrapani, accompagnati dagli affettuosi ricordi privati della figlia primogenita Giovanna Lombardo.

ph. Dino Ignani

I vari libri di versi, pubblicati secondo una scansione cronologica, mettono in luce il percorso umano e letterario dell’autrice, che in tutta la sua produzione rimane legata sentimentalmente a temi ricorrenti di matrice privata: l’infanzia, le figure parentali, i luoghi abitati (Sicilia, Milano, Roma), l’amore nelle sue duttili sfumature. Ma la sua scrittura non è mai circoscritta a un interesse puramente ambientale, di confidenza confessionale, di nostalgico lirismo: ha invece il rigore necessitante di una ricerca severa della propria interiorità, anche nelle inquietudini e negli umori contrastanti, nella ribellione e nelle paure. Elio Pecora presentandone gli sviluppi formali e contenutistici, sottolinea l’esigenza testimoniale di “valicare il proprio io per intelligenza del mondo”, insieme a “un senso estetico vigilato fino alla spietatezza”: “Sento mutarsi il battito del tempo / come fa il treno se lascia / la rassegnata pianura / dove inavvertito / lungamente strisciò / ormai nebbiosa e strana / memoria mentre divora / oggi domani fatti rocce e ombre”, “Un’altra infanzia mi perdo / un’altra vena s’asciuga. / Ho perduto / il filo dei sentieri / e gemo, animale fermato / dalla tagliola, nel caldo / dei crepuscoli abbandonato…”.

Se nelle prime prove di Luciana Frezza è evidente l’eredità del nostro ’800 e ’900 (da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale), in seguito sarà il rapporto con il surrealismo francese a incidere maggiormente nei suoi versi, con l’irrompere del fantastico e dell’onirico all’interno del fino ad allora privilegiato realismo: “Chissà in quale / canneto di carta o verde / fantasma errante coorte / falciata alla radice / al di là di quali porte / nell’andito scuro di botteghe / in disuso dietro quale / muro di eluso rione / giace il piccolo corpo / di Amore dopo l’ordita / esecuzione”, “Non crederli gigli appassiti / mi conforta anzi scintillanti / ancora i tuoi bicchieri alzati / voglia di gioia negata / impuntatura librata / per forza propria ape e fiore nell’aria / dove ancora salgono e il brutto / muso di lutto pret a porter che detestavi cade / come buccia dal frutto”.

Anche l’ironia si concede alcuni spazi, soprattutto nel lucido esame del ruolo che il destino biologico di donna ha giocato nel determinare le scelte esistenziali della poetessa. Il rapporto non facile e non sempre idilliaco con il marito, la fatica dell’impegno domestico (la conserva andata a male, gli inutili ninnoli costruiti con la creta, la lista della spesa…) vengono avvertiti come limitanti o deludenti, provocando frustrazione e sensi di colpa: “E io che così sola ho spostato / i massi più pesanti. Tutto succedeva perché ero donna / ma questo l’ho sempre saputo”, “Vivere bene è spostarsi / per far posto a qualcosa e a qualcuno”, “una caviglia fasciata / una cantina allagata / e uno strofinaccio torto / ecco vi presento i miei / avvocati / roba da far venir la / pelle d’oca / a un morto”, “– Ah, una piccola cosa – / a bassa voce / – miei cari, attenti a non chiudermi / in una scatola di sardine”, “Quanto fa male amore / tardiva carezza / sulla nuca infestata / di pidocchi neri. / Marito / non capito / vendicativo senza / farmi capire / inevitabile divergenza / io l’incrociato sorriso / volevo – ricordo due dita / un giorno sulla gota per caso / sotto l’arco del salotto quasi / una cresima / tu partecipazione / al tuo lavoro io / che non ne davo troppa / neanche al mio / Parlare volevo magari / non troppo non troppo spesso / di noi”, “La madre poeta / non va”.

Attraverso la riflessione sulle relazioni interpersonali e familiari, Luciana Frezza riusciva a recuperare l’eco fascinoso di miti archetipici, ritrovando nelle vicende di Iside e Osiride, Demetra e Persefone, Orfeo ed Euridice le radici di ogni attuale sentire e soffrire.

Proprio alla sofferenza degli ultimi anni si riferiscono i versi dolentemente allusivi che precedono la sua scomparsa: “Mi restringo alla pista / pericolante dei miei passi. / Solo vorrei afferrare / una cosa, / nascondervi il volto. // E poi pianamente un sussulto / e le lampade e tutto fluisce”, “Scrivere questi poveri // frammenti / significava ancora amare un // poco il mondo”, “Spreco questi ultimi secondi / dei tempi supplementari / a gustare le poche sensazioni / piacevoli”, “Agostino viene alla messa / delle 9 poi il cappuccino / Tutti mi amano / più di quanto io ami / Io non amo nessuno eppure / evito di sfiorarli col pensiero / i piccoli e le figlie e questo / noli los tangere forse / è una specie d’amore”, “Scatta il lucchetto, presto signori si chiude”.

Un’esplorazione ininterrotta, talvolta tormentante, intorno al significato della vita e della poesia ha contrassegnato ogni aspetto dell’esistenza fisica e letteraria di Luciana Frezza.

Come ha scritto il critico Filippo Bettini, in lei “la ricerca del ‘senso della vita’ si identifica con quella del ‘senso della poesia’; ed ogni scampolo, epitome o ritaglio, anche il più piccolo o marginale, diventa il pretesto necessario di una più ampia trasfigurazione poetica di essenze interiori, psicologiche e ideali”.

 

 

Letteratura e mistica

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di Francesca Caraceni

 

  1. Se c’è un termine che si sta riaffacciando sullo scenario collettivo, nel mezzo di tecnicismi medico-scientifici e statistico-numerici, quello è “mistico”. Variamente declinato in sedi e da intelletti diversi, come aggettivo o sostantivo, sembra che “mistico” sia stato rieletto a dispositivo culturale in grado di contenere, traducendolo nel presente, quanto di residuale fuoriesca dal computo e dall’analisi dei dati, o dalle dinamiche mutazionali di un RNA. E se c’è un termine davvero appropriato per delimitare l’incomprensibile orizzonte culturale che ci si para davanti, quello è proprio “mistico” perché, spogliato degli strati storico-semantici teologici e religiosi, il lemma trae origine da myein, “chiudere”, manifestandosi poi come aggettivo sinonimo di “nascosto”, “misterioso”, “invisibile”. Ben si capisce dunque come il termine qualifichi in essenza quel che istituzionalmente è definito il nostro “nemico” attuale, il virus; ancor più interessante è come questa invisibile presenza si sia manifestata, visibilmente, in forma di coatta invisibilità umana: un ritiro, un necessario permanere al chiuso, appunto. E necessariamente, se non altro per basilare proprietà transitiva, se non altro come conseguenza dell’autolettura del sintomo corporeo, questo tempo trascorso intra moenia potrebbe condurre la coscienza collettiva a rientrare dentro di sé e a tracciare nuovi percorsi di senso a partire da ogni individuale topografia interiore. L’individuazione di questi nuovi percorsi di senso, quando demandata giustamente alle scienze filosofica, antropologica, linguistica, non può certamente escludere le metodologie e gli approcci in causa alle scienze letterarie le quali sono, specialmente in questo momento e grazie alla dimensione interdisciplinare e storicistica che le contraddistingue, uno strumento fondamentale e necessario per una lettura critica del dato di realtà. Bisognerà allora iniziare dalla banale constatazione che, pur proliferando il discorso tecnicistico e pur risorgendo quello spirituale e religioso come logica sua controparte, l’alveo metaforico nel quale s’inscrivono di prassi questi nostri strani giorni sia quello della guerra; guerra mondiale del ventesimo secolo, s’intende, ma questa nostra è una strana guerra globale che con quelle passate condivide unicamente il paradigma del cambiamento di scenario e della rottura di equilibri. Proprio tale paradigma è, secondo Michel De Certeau, un ricorso storico che manifesta e rafforza il discorso mistico, volto com’è alla ricomposizione di un Io frammentato nel Tutto divino, specie in “regioni e categorie in via di recessione socio-economica, sfavorite dai cambiamenti, marginalizzate dal progresso o rovinate dalle guerre” (Sulla Mistica, Morcelliana, Brescia 2010, p. 50). Varrà la pena, allora, imbastire un percorso di senso che dal Novecento arrivi fino a oggi, osservando come pure le arti cosiddette “moderniste” abbiano fatto ricorso, sullo sfondo di una scena dominata dalla visibilità dell’orrore bellico, a pratiche e stilemi volti alla rappresentazione del reale inteso come invisibile universale.
  2. La basilare proprietà transitiva per la quale ogni fenomeno invisibile trova una sua manifestazione nel sensibile è stata detta da San John Henry Newman (1801-1890) “sistema sacramentale”. Il teologo, filosofo e letterato inglese, convertitosi dal culto anglicano a quello cattolico nel 1845, derivò quest’idea dagli scritti del Reverendo Joseph Bulter (1692-1752), e in particolare dall’Analogia della religione (1736): dichiarò Newman nella sua autobiografia spirituale (Apologia Pro Vita Sua, 1864) che la lettura di quell’opera in giovane età lo condusse a sviluppare le fondamenta della propria teologia, la quale si articola sull’idea che il mondo sensibile non sia altro che un “carattere (type) e strumento delle vere cose invisibili (real things unseen)”. Sensibile come sinonimo di visibile, e visibile come carattere tipografico, dunque: e in effetti Newman, che nella vesti di Rettore dell’Università Cattolica di Dublino non trascurò di sottolineare con forza il ruolo fondamentale che lo studio delle lettere ha nella formazione scientifica, scrisse molto di letteratura e poesia assimilando, per mezzo dell’analogia butleriana, l’uso umano delle lettere all’uso divino della Parola come strumento di Rivelazione. Non sorprende allora che il pensiero di Newman stia al centro esatto delle elaborazioni di metodologia artistica di uno dei giganti del Novecento, James Joyce (1882-1941), il quale lo definì “il più grande prosatore in lingua inglese”. Da Newman arrivano a Joyce certe rielaborazioni dell’estetica platonica che vogliono l’arte come personale messa in forma del principio trascendente; da Newman arriva a Joyce un’originale interpretazione, in chiave cattolica e davvero mistica sensu proprio, della soggettività della fede intesa come dialogo e affezione interpersonale fra credente e Dio (Myself and my creator, dice Newman nell’Apologia); dunque da Newman arriva a Joyce un fondamentale principio di religiosità dell’arte, e della creazione artistica come conseguenza della rivelazione mistica. Joyce essendo uno dei principali punti centrifughi ad aver rivoluzionato la letteratura dello scorso secolo, propongo di leggere certi stilemi di destrutturazione e ricomposizione formale propri dell’arte, plastica e letteraria, del primo Novecento come espressioni di una ricerca, non sistematica e sistematicamente trasversale, che può essere definita “mistica” la quale, a cavallo fra i due conflitti mondiali, ha teso a riconvertire il naturalismo fenomenico ottocentesco in un potenziamento del realismo, questa volta di stampo noumenico, rivolgendo lo strumento rappresentativo all’interno dell’uomo, nelle pieghe invisibili della sua mente quando si rapporta alla manifestazione trascendente.
  3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[…] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua […]. La sua è poesia, parole non langue […] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva. Si capisce dunque che il ragionamento escluda facili suggestioni tipografiche: oggetto dell’indagine è la radice del pensiero non articolato, quello spazio residuale, davvero filosofico e fuori dal tempo, che esiste tra forma e sostanza, tra parola scritta o detta e pensiero, tra contingenza e trascendenza. Si tratta di indagare la parola come elemento ritmico-mnemonico e, quindi, rituale-poetico. Si tratta, cioè, di recuperare la radice rituale della composizione letteraria perché, ci ricorda Stella, “Tutta l’arte ha un’origine rituale” (p. 95). Aver rintracciato e ri-codificato questa radice consente allo studioso di disincagliare Ulysses, ad esempio, dalle maglie di un pensiero critico che lo vuole da sempre “un caso eccellente di ‘metodo mitico’ sub specie eliotiana” (p. 86) e, soprattutto e finalmente, da una lettura dell’opera ancorata alla miope e parziale decodificazione morfologico-sintattica della parola scritta. “Non è retorico, non è formale, non è letterato il gioco di Stephen con il suono, con il soffio della parola e con le visioni che essa proietta. C’è piuttosto un’illetteratezza che ha a che fare con la forza della vitalità. […] la parola di Stephen […] entra nella Forma solo parzialmente […] sospesa tra il prima e il dopo […] della scrittura. In questo senso Stephen può dire: Rhythm begins, you see. I hear” (pp. 78-9). Per questo, in Joyce il mito è piuttosto il residuo testuale della memoria collettiva, una litter-a sulla quale aprire “un’epocale domanda sull’energia generativa della parola poetica. Una domanda autentica, sganciata dal tempo storico, e riannodata al movimento ritmico della creazione. Prova ne è quella sua scrittura che non è più scritta” (p. 83). Eppure questo, con le dovute modulazioni concettuali, è anche lo sforzo dei mistici tradizionalmente intesi: riportare nel visibile l’esperienza dell’invisibile, articolando la tradizione in “un linguaggio nuovo […], il linguaggio mistico è quello del tempo spirituale”. E questo tempo spirituale, corrispondendo al folgorante momento estetico dell’esperienza, davvero fuoriesce dalla storia e pretende che il linguaggio ne dica il senso adattandosi a esso: cioè, operando il proprio sacrificio: “Ogni esperienza […] comporta questi momenti. ‘Estasi’ personale, se si vuole, o esperienza collettiva di un gruppo sorpreso da ciò che accade in se stesso, illuminazione intellettuale in certi casi, brusca intuizione che sposta (senza che si sappia troppo ancora il come) l’organizzazione di una vita e il tipo di relazioni che si hanno con gli altri. Si è prodotta una breccia. Una irruzione apre una breccia. Tutto d’un colpo, è cambiato il paesaggio, con nostra sorpresa. Questo, è un luogo. Nell’esperienza individuale, come nella storia, vi sono momenti che fanno dire: ‘Dio è là’” (De Certeau, Sulla mistica, pp. 94 e 101-2).

 

  1. Qui, dove l’argomentazione di Stella vira sapientemente verso l’identificazione di questo spazio residuale con il principio femminile incarnato in Molly/Penelope e nella parola stessa, vorrei mantenere e approfondire il punto illuminandolo da un’altra prospettiva, e cioè guardare allo spazio ritmico e illetterato della scrittura joyciana come a una prassi, derivante da una metodologia figlia di una tradizione culturale e religiosa ben precisa che trova nella mistica la sua espressione letteraria più alta. Il passo di Ulysses citato da Stella è l’apertura del terzo episodio, quando il flusso di coscienza di Stephen Dedalus conduce il lettore in una vertiginosa meditazione sulla percezione del sensibile: quando l’“ineluttabile modalità del visibile” è dall’uomo esclusa (Shut your eyes and see, dice Stephen), appare ai sensi l’“ineluttabile modalità dell’udibile” nella forma del ritmo del mondo (A catalectic tetrameter of iambs marching). Stephen, lo stesso alter-ego joyciano che nel Portrait definirà l’arte nei termini di un rito, e l’artista nei termini di un “prete” (a priest of the eternal imagination); lo stesso che metterà a sistema il fondamento dell’arte nella percezione estetica del Bello (a spiritual state very like to that cardiac condition which the Italian physiologist Luigi Galvani […] called the enchantment of the heart); Stephen, dunque, in quel passo intende trascendere il sensibile per arrivare a quel “piacere estetico” (aesthetic pleasure, sempre nel Portrait) che sopraggiunge solo quando i sensi sono stati condotti alla quiete: that is why mystic monks. […] Gaze into your omphalos; e Stephen vuole trascendere e arrivare a quel piacere estetico, che in vulgata si conosce come “epifania”, poiché è quello che accende la creazione artistica. L’epifania joyciana, meglio definita, manifesta sì il divino nel sensibile, eppure non nella forma, non nel linguaggio: entrambi sono mezzi attraverso i quali l’artista riproduce l’ineffabilità rivelatrice di una Condition of the Heart che non necessita di un’articolazione intellettuale poiché appunto appartiene al cuore e, come giustamente nota Stella, al quel primo ritmo creatore sempre rimanda. Compito dell’artista è proprio quello di agire sulla forma e sul linguaggio, disarticolandone le strutture ordinatrici, per fare in modo che questo ritmo mistico, nascosto dall’ineluttabile velo sensoriale, si riveli agli occhi di chi guarda, alle orecchie di chi ascolta. Perciò la lettera, il type newmaniano di cui sopra, in Joyce diventa dato sensibile e materia plastica analoga al canonico tòpos costituente il canonizzatissimo materialismo joyciano: il corpo. Ma la tradizione mistica vuole proprio il corpo come luogo primario ove l’entità a-soggettiva si rivela, senza mai identificarsi, senza mai rivelare il proprio nome, attraverso segni, ferite, accensioni del cuore: “Non basta riferirsi al corpo sociale del linguaggio. Il senso ha per scrittura la lettera e il simbolo del corpo. Il mistico riceve dal proprio corpo la legge, il luogo e il limite della propria esperienza” (De Certeau, Sulla mistica, p. 64). Da qui proviene l’altissimo grado di scomposizione linguistico-formale proprio dell’arte letteraria joyciana, e non solo: si pensi alle manipolazioni plastiche del linguaggio comuni a molti modernisti tutte intente a manifestare, ad esempio, l’immagine poundiana, il luminous halo woolfiano, i fragments e le ruins eliotiani. Sono modalità espressive che, a ben vedere, indicano nella scomposizione della forma le feritoie che aprono alla manifestazione trascendente; costante e comune a ogni esperimento è l’intenzione di rivelare l’ineffabile, ciò che è oltre il linguaggio: oppure ciò che lo precede e che, quindi, non é. In certa misura, e mi si perdonerà l’ardire, è possibile affermare che gran parte dell’arte contemporanea dal modernismo procede e del modernismo è conseguenza: a partire da quel post-, prefisso che a partire dal dopoguerra non autodetermina alcunché ma pretende di spiegare se stesso in relazione a ciò che è stato, le feritoie sul senso aperte da Joyce, che del modernismo può ben dirsi essere il gran maestro, si sono rizomaticamente moltiplicate in una sequenza sincronica e diacronica di sperimentazioni formali i cui esiti spingono fino al presente più prossimo. Joyce, che infine volle restituire la voce alla muta epoca tipografica e per questo scrisse Finnegans Wake, da molti è indicato come il progenitore assoluto di qualsiasi esperimento multimediale nelle arti, dai Novissimi fino alla resurrezione popolare della poesia recitata a viva voce nel poetry slam: ma con ciò non s’intende che la sua opera concorra alle colpe per l’attuale ancillarità del testo scritto rispetto all’immediata vocalità del mezzo digitale. Piuttosto, la sua fu una preconizzazione, fu l’indicazione di una direzione da molti intrapresa e da altri, purtroppo, largamente fraintesa. Fulgido genio, e perciò da sempre soggetto a iperletture intellettualistiche che lo vogliono aderente a qualsivoglia ideologia faccia più comodo al presente storico in cui è letto, Joyce l’irlandese fu il figlio spirituale e prediletto di un cardinale cattolico inglese e di una solida formazione gesuita: la sua mistica dell’arte, da questi padri derivante, è deflagrata in un tempo bellico e oscuro, fra la conta dei morti, a far dire a Leopold Bloom che la forza, l’odio, la storia, gli insulti e tutto il resto non erano la vita adatta a donne e uomini. E a chi gli chiedeva cosa fosse allora la vita: Love, says Bloom.

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Immagine: Giacomo Sandron, Landscape, 2017.

 

Tarkos, l’animale parlante è nella pastaparola

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di Andrea Inglese

[Questo articolo è apparso su “alias” del 5/7/20. Di Tarkos, che considero un autore chiave della poesia contemporanea, ho già scritto in qualche occasione. Ma sopratutto disponiamo, oggi, della traduzione di uno dei suoi libri migliori – “Anacronismo” – grazie al lavoro di Michele Zaffarano, il suo più assiduo traduttore, e di TIC edizioni di Roma. In coda, alcuni link. a. i.]

In una storia parallela della poesia francese e della poesia italiana, l’anno 1979 avrebbe un’uguale importanza, ma un significato opposto.

“Soleil grigri” (4/4): da “Salut, voilà”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil grigri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla quarta sezione del libro, Salut, voilà. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, Cardine Kinski e La primavera torna indietro].

Cammino nella metà della luce

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di Gianluca D’Andrea

I. Risveglio

 

Dentro la storia dei bulbi noi andammo e volevamo alzarci e andare liberi tra gli stracci arborei e le tundre, tra le entità astratte e le belve, nel fulgore delle selve, negli anditi tra i bagolari e le curve dei sassi. Perché il mondo è un astro astratto dondolante e attraversare le sue linee cunicolari fu scelto nottetempo da un convoglio sintetico riunito su ceppi ramati. Eppure, tra gli strani mostri antichi, emersero parole tonitruanti

e cascate d’immagini e l’onnipotenza circolare delle forme. La notizia iniziò a circolare stentata per i sentieri di un mondo senza miti se non gioiosi e senza forza. Afriche e meridioni insormontabili in cronache oculari di sempre ulteriori coloni. Quindi partimmo sulle tracce minime lasciate dai luoghi, in ascesa sui crinali dei vecchi venti condizionati. Tremanti per la fame cominciammo, udimmo la voce lontana e gli odori acerbi del nostro incerto risveglio.

 

 

 

II. L’ente scimmia

 

I suoi arti scoordinati e fumosi, il pelo impolverato, fulvo e fragile. L’altro ente, quello da lui rinato, ha tutte le forme che gli ha dato, in tutti gli spazi in cui ha provato a nascondere il suo brutto muso, per sciogliere da sé, sé. Ora vaga senza legami in cerca di qualcosa che si ostina a scivolare come sabbia tra le pigre ondulazioni del cervello. No, non è mai stato bello e neppure intelligente da quando acchiappando il primo pasto non ha intuito la macchinazione dentro la manipolazione – almeno così dicono. Si sforma di continuo e si trasforma e scorda il dolore di non essere nient’altro che l’altro dentro sé, quella forma appena liscia di cui ha sfiorato il senso. Quasi acqua tra le mani sono io, sono oblio e il mio manto e il mio grugno.

 

 

 

III. Superamento e sostituzione

 

Secondo il saggio che ne ha fatto esperienza, «l’uomo comincia a superare infinitamente l’uomo», manifesta la sua presenza-assenza e viceversa. Non esiste un termine per descrivere l’essere: essere e custodire uno slancio, una nube di energia. «Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?», persona della mia persona che parli un po’ prima di questa noia insinuata tra le nature della mia natura. «Io non ci sono già più», non ho più un odore, tante forme dettate dalle cavità del corpo termitaio. Ora che la morte profuma lontanamente di dolore, l’aria è la forma di un’origine fraintesa.

 

 

 

IV. Nell’umore

 

Dal tendaggio trafitto barlumi lasciavano trapelare i colori, nel verde trivellato di melma continuava a cadere l’acqua. La pioggia distribuiva forme nuove, gli arti filiformi oscillavano dai rami di un castagno. Dalle forre partivano rigagnoli acerbi che penetravano la terra, piccoli e vigorosi rimodellavano le superfici. Il buio nel profondo attendeva quella luce umida per mondare e levigare l’oro delle zolle. Intravedeva figure tra le strisce che rigavano gli occhi, un coro riemerso dai muschi, dal respiro verde, da radure remote.

 

 

 

V. Tecnologie della morte

 

In lontananza fori nella nebbia, un destino che coinvolge nel travaglio l’oggetto gettato. Doveva pur vivere, mangiare, imborsare le risorse, i colori, le turbe regressive e proteiche dei prodotti. Ma non era nulla, eclissi dell’uomo, un’ascissa che si sarebbe frantumata in un punto, la sua vocazione alla morte. Dopo il naufragio verticale aveva concluso che avrebbe potuto permettersi un’unica concessione. Una dannazione laica e materiale, mentre ogni sera avrebbe fatto ritorno alla sua casa rudimentale. Tremava dopo aver trascorso giorni interi in luoghi remoti, in compagnia dei soli alberi superstiti, in assenza di zone temperate. Forse i pesci e le alghe avevano ragione coi loro silenzi minerali e il loro vagare liquido. Come il vento che spinge il suo corpo oltre il mare e le zattere plastiche nel cielo e nel mare confusi, aromi mescolati di agrumi e conifere fuori dalla coda dell’occhio, dietro borchie di fumi, fori sfavillanti tra i meandri.

 

 

 

VI. Il colono

 

La strada era una polveriera. Sulla terra deperibile l’avvento di singolarità e raid esponenziali. L’accampamento fu smantellato e allora accadde: l’oro spento nelle fosse voraci, annientatrici di galassie. Nel dopo già scia assiale, il dopo inerte dei corpi siderei, assiderati, in contatto con la fine. Ma non era certo quando fosse avvenuto, adagiato nella calma profonda, in profonda assimilazione di comfort e grandi dati. Intrattenuto nei sogni di pitosfori e sfere fluttuanti, di capsule e stagni grigi, di semenze ingannatrici e specchi che avevano dietro moltissimo nero. E la ghirlanda s’insinuava impalpabile nella natura oscura di un nuovo dio.

 

 

 

VII. Orpheus II

 

E allora si voltò, l’89 remoto di vecchie e nuove età. Era la commozione arcaica che lo trascinava tra le bacche i rami secchi, tra i boschi a succhiare e trasfondersi.

 

Solo immagini per trarre colori sommersi, col blu altrove, con digital nomads e baracche a materializzare il paesaggio. C’erano rocce lì e un cuore commosso e un suono d’uccello outsourcer. Il cuore del bosco era dentro una nuvola vaporosa, come una catena di cristalli circondati dall’effimero.

 

E tutto appariva sparpagliato e accessibile, ardente come il suo essere solo, inghiottito. Un dio di trasformazioni si espandeva come nebbia e desiderio, per questo si voltò e lo raggiunse un vento moderato antimoderno, un archivio-agglomerato a imprigionarlo.

 

Nel lock-in che generava una nuova appartenenza si sentiva appagato, tenero, nascente come un uomo raccolto nel suo attimo di rivelazione, nella sua notte del passato. Nell’avvenire. Così trasfuso nell’apparizione del mondo nell’ora più solitaria del suo cuore solitario.

 

 

Mots-clés__Paranoia

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Paranoia
di Paolo Trama

Peter Gabriel, Games without Frontiers -> play

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Sarà l’avvenire a decidere se la mia teoria contiene più delirio di quanto io non vorrei, o se il delirio di Schreber contiene più verità di quanto altri oggi non siano disposti a credere.

da: S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber) (1910), in Opere, Vol. 6, trad. Renata Colorni e Pietro Veltri, p. 403

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].

Il mio corpo a Carofiglio

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di Gian Balsamo

Palo Alto, 15 giugno 2020

Io non sono gay ma ci sono uomini con cui andrei a letto. Placido Domingo, ad esempio. Lui neppure è gay ma io mi farei volentieri avanti, se potesse aiutarlo a sostituire le donne cui ha fatto troppi complimenti o troppi sgarbi. Con me andrebbe sul sicuro e potrebbe tornare a cantare senza remore. Ogni suo do di petto crea una curvatura irreversibile (che ci piaccia o no) nelle falde dell’universo.
Oppure, sempre per fare un esempio, Joyce e Proust.
Sento Armanda che esclama dall’altra stanza: “Ti ha dato di volta il cervello, Gian? Adesso vuoi ‘dare via’ il tuo corpo! Chi ti credi di essere, Antonin Artaud?”
L’altro giorno ho scritto a Andrea Inglese su Nazione Indiana, in caratteri a stampatello: LA FORMULAZIONE DELLA FRASE È UNA SCELTA ETICA.
Proprio così. Non mi sono ancora ripreso dall’averlo detto, una buona volta.
Ma torniamo a Joyce e Proust.
Con Joyce, devo farmi perdonare una cosa: l’ho sacrificato alla carriera accademica. Lo amavo SPERTICATAMENTE, da ragazzo. Ci ho scritto su dei libri, troppi, e ho partecipato a letali conferenze (troppo poche, direbbero i miei ex-colleghi, ma ehi, sono io quello che ha rotto con l’accademia per unirmi al mio amico e lettore Satoshi Nakamoto, mica loro), e insomma, adesso i libri di Joyce sono diventati Kryptonite per me. Ho un debito da scontare, James, e sono pronto, se ti garba.
Con Proust, è vero l’opposto: per tutta la durata dei miei decenni accademici, ho tenuto segreto il mio amore per Proust. Una volta lasciata l’accademia, sono uscito allo scoperto con la mia dichiarazione d’amore (leggi: il mio libro su di lui). Il nostro amore, Marcel, è intatto. Non, je ne regrette rien…
Se ricordi, Armanda, fu nel 1976 che comprammo il primo volume della Ricerca del tempo perduto. A Ginevra. Paperback Gallimard, illustrazione di Van Dongen. Le pagine sono peggio che ingiallite, sono quasi marrone ormai, e naturalmente si scollano dal dorso. Ma quel libro ce l’abbiamo ancora. Da quel giorno in libreria (ricordo che brillava un bel sole d’inizio settembre sul lago Lemàno), non è passato anno senza che io sfogliassi le pagine di Proust. Tu lo sai bene.
Sfogliassi è decisamente un eufemismo. A Proust, lo insulti se ti fermi dopo cento o duecento pagine.
Quando dico che sarei disposto a andare a letto con Joyce oppure con Proust, dovete capire che decisamente mi sbilancio. (Soffro della stessa sensibilità olfattiva di certi personaggi di Gianrico Carofiglio, ci sono giorni che mi scoppiano i seni paranasali.) Gli alcolizzati come Joyce e gli ipocondriaci come Proust puzzano! Ma mi tapperei volentieri il naso, se servisse a farli sentire meglio.
Joyce e Proust: due grandi artisti con cui e per cui, causa mera, brutale gratitudine, farei qualsiasi cosa.
Andrei volentieri anche a letto con Gianrico Carofiglio. Conoscendo la sua opera, e non solo il suo Guido Guerrieri, ci sarebbe da aspettarsi che questa dichiarazione mi valga, a dir poco, una testata sul naso o una ginocchiata sui testicoli. Ma lo dico per la stessa ragione di prima: mera, brutale gratitudine di un amante della letteratura italiana. Se servisse a consolarlo in un momento difficile, rassicurarlo sui suoi meriti di autore, proteggerlo dai malpensanti (o dalle donne mozzafiato che fanno la posta al suo Guerrieri), sarei lieto di mettermi a disposizione. Here I am.
Magari parlo come parlo perché vivo all’estero. Negli anni ’70, leggevo le recensioni cinematografiche di Moravia sull’Espresso e mi dicevo: Tutto qui? Potrei scriverle anch’io, tali e quali, e allora perché toccano a lui? (Naturalmente, Armanda, noi ce lo siamo letto tutto quanto entro il 1975, Moravia – salvo Io e lui, che ti aveva sconvolto da bambina, e poi non credo sia un granché come libro.) Persino con Pasolini, quando sembrò diventare parte integrante del suo odiato Palazzo, uno si sentiva offeso dai troppi articoli di fondo, le troppe rubriche. Naturalmente, ADORARE Pasolini mi sembrava ancora troppo poco, dato il talento, e ho mostrato i suoi film ai miei studenti negli USA fino a ritrovarmi alle soglie del licenziamento. (In Egitto, alla American University, rischiavo molto di peggio del licenziamento.) Ma a un certo punto si aveva l’impressione che parlasse solo più lui, Pasolini, che fosse l’unico ad avere pieno diritto di parola in Italia. Impressione erronea, naturalmente.
Ma chi non soccombe a certe malevolenze italiche? Mi sa, infatti, che qualche italiano che conosco sia sospettoso di Carofiglio perché dopotutto anche lo scrittore barese è ormai divenuto cittadino del Palazzo. O così potrebbe sembrare. (Anche perché nel frattempo il Palazzo è diventato l’establishment, la creatura più vasta, onnivora, che tutti, da destra a sinistra, vorremmo abbattere, ma non sappiamo come, né cosa sostituirgli.) Invece, dal mio punto di vista estero, non ho difficoltà a comprendere e affermare che Carofiglio è un artista e un essere umano ammirevole. Basta leggerlo con attenzione.
Io l’ho letto tutto.
Caveat lector! Oh my, oh my! Ho fatto in questo momento un Google search per scoprire che Carofiglio è candidato al Premio Strega, che viene assegnato fra sei giorni! E dieci minuti fa, il poeta Jacopo Ramonda mi ha rivelato su WhatsApp di uno scandalo riguardante Carofiglio e un certo Vincenzo Ostuni risalente allo Strega del 2012. Sono andato a controllare. Càspita, Nazione Indiana è eloquente al proposito. Mostro quel dibattito a Armanda nell’altra stanza.
Lei dà una scorsa. “Gian, sei davvero sicuro che stai preparando questo pezzo per Giacomo Sartori di Nazione Indiana? Quelli ti bruciano vivo.”
Il sorriso che le rivolgo non è troppo spavaldo, lo sento.
A proposito, tu, Armanda, eri ancora minorenne quando prendemmo insieme un treno da Torino diretto a Catania, da lì un altro treno per Siracusa, e poi ci addentrammo a piedi in Ortigia, in pellegrinaggio alla casa nativa di Elio Vittorini. Anche con Vittorini sarei andato a letto, come sai, se fosse servito. E devi considerare che nemmeno quella sarebbe stata un’esperienza olfattiva facile. Ai tempi del grande Vittorini di Einaudi, gli italiani odoravano forte! Fingiamo di essercene dimenticati, ma allora, e anche dopo, durante la mia gioventù, all’ingresso in una stanza ogni italiano era annunciato e preceduto dal proprio odore. Le cose stavano così.
E poi, in fondo, chi lo dice che quel revisionista di Vittorini avesse bisogno di consolazioni?
La casa di Vittorini è ancora lì, lapide e tutto. C’era due anni fa, voglio dire.
Io amo profondamente Carofiglio. Ho letto quasi tutti i suoi libri – l’ho già detto. Ho trascorso ore ed ore a ascoltare la sua bella voce leggere certuni dei suoi libri. Pure gli altri libri li ho ascoltati, perché Armanda ed io ce li leggiamo a alta voce, la sera. Dopo aver letto le prime pagine del Bordo vertiginoso delle cose, ho subito pensato a Vittorini. Conversazione in Sicilia = Conversazione in Puglia? Stesso esordio… Ai tempi di Vittorini, un grande scrittore scriveva capolavori. Un giovane entusiasta come me interiorizzava la memoria di ogni grande libro come se fosse scolpita su un blocco di granito. Ai tempi di Carofiglio, invece, un grande scrittore confeziona best-seller per contratto.
Un segno dei tempi. Ma anche questo è un dettaglio toccante, non trovate? La pecca, appunto, o il rammarico, che sono pronto a attenuare col dono del mio corpo, se dovesse aiutare.
Parla Armanda: “Gian, vieni a sapere che Carofiglio è candidato allo Strega per un certo libro che hai letto e conosci bene, ed ecco che scrivi il tuo brano su un altro libro, di cui nessuno si ricorda magari più. Non ti smentisci mai!”
Ars gratia artis.
Lei ed io non abbiamo ancora finito di leggere Il bordo vertiginoso delle cose. A voce alta si va più a rilento. Ma sono super-curioso di sapere come va a finire. Salvatore il terrorista è già morto, ma il personaggio di Celeste non è ancora rientrato in scena. Celeste dovrebbe essere la Musa Redentrice del protagonista. Magari mi sbaglio. Per un momento, ho pensato e sperato che durante la sua supplenza in filosofia al liceo del protagonista Enrico, Celeste fosse segretamente fidanzata con Salvatore e complice del suo attivismo di ultrasinistra. Ora sono quasi a metà del romanzo e immagino che le cose non siano andate così, per quei due. Lo saprò presto. Sono aperto a ogni sorpresa, e ogni giorno non vedo l’ora che venga il dopocena per saperne di più.
Gianrico, se stai leggendo questa pagina, per favore, tappati la bocca. Lo credo che lo sai bene come va a finire; l’hai scritto tu, quel romanzo! Non voglio anticipazioni di sorta.
In un certo senso, Gianrico, se sono super-curioso è perché non sto leggendo un tuo grande libro, sto leggendo un tuo best-seller. Cosa che trovo toccante, l’ho già detto: la maniera in cui un grande talento come il tuo si piega, salta e fa le acrobazie, al fine di allestire materiali da best-seller. Nel caso del Bordo vertiginoso delle cose, me ne sono accorto, sai? Spremi a fondo tutte le tue vecchie formule collaudate, da quelle marginali a quelle che ti contraddistinguono di più: il culto del libro e la visita, sovente notturna, in libreria; l’incontro terapeutico con uno sconosciuto, uomo o donna, di una certa età; la condizione di mediocrità che sconfina nell’eccellenza; l’incontro con due turiste straniere un po’ troppo intraprendenti; l’amicizia col ragazzo più vecchio e molto dotato, ma antisociale; il fallimento nella vita di coppia appaiato all’incontro con la Donna Musa; la citazione emblematica (vuoi da Fitzgerald o Hanna Arendt); l’addestramento segreto allo scontro a mani nude e a mano armata; la scazzottata con un manigoldo. Guarda, non mi dilungo in questa lista perché ho il sospetto che qualche critico ostile l’abbia già completata a fini diversi dai miei. Nel bordo vertiginoso delle cose, però, novità assoluta per te (o almeno credo), sei andato a rispolverare la narrazione in seconda persona singolare, un reperto risalente ai tempi di Bright Lights, Big City, quando il mondo occidentale scopriva la scrittura creativa all’americana.
Se non fossi anch’io uno scrittore italiano, ex-docente di creative writing, ti risparmierei la seguente digressione: Ormai l’Italia ha pienamente assimilato quel modello di creative writing (Thanks for nothing, Baricco), tanto che le “grandi” agenzie letterarie italiane ne hanno fatto un business per fessi. Al proposito, la mia crudeltà ha qualcosa di inspiegabile che rasenta l’idiozia. Ho cercato di spiegarlo a Giacomo Sartori quando è passato da queste parti. Io ho pagato il pizzo di certe “grandi” agenzie letterarie perché volevo vedere quanto in basso potessero scendere con le loro “valutazioni.” Ed è molto, molto più in basso di quanto potresti immaginare, credimi. Mandano per strada questi giocatori di bussolotti. Tu metti giù il pizzo. Loro ti ruotano i tre bussolotti sotto il naso. Tu ne sollevi uno e ti becchi la pallina nera.
Anyway, tutti dobbiamo campare, non solo i giocatori di bussolotti, e tu, Carofiglio, scegli di intrattenerci al di sotto delle tue virtù letterarie scrivendo un trascinante bestseller. SACRIFICHI LE VIRTÙ PER SFRUTTARE PIÙ A FONDO LE DOTI.
Perché dovrei nascondertelo: sta qui, in stampatello, il nocciolo, la scelta etica del mio brano.
Ma potrei sbagliarmi. Se ho visto giusto, Gianrico, non posso e non voglio darti torto. Come dice Modiano, quando si ama veramente, non si giudica: si comprende. Io, per me, come lettore, reclamo solo il privilegio dell’affetto e della riconoscenza.
(Abbiamo parlato del lupo. Tanto vale ramazzare questa pedana a colpi di coda. Insomma, Armanda vede “troppi” paralleli tra Carofiglio e Modiano. Io lo conosco come le mie tasche, Modiano, e non sono d’accordo. Solo tu puoi dirci come stanno veramente le cose.)
A ogni buon conto, hai fatto un rinnegato di questo amante inveterato della Sicilia, Gianrico. Ormai, non vedo l’ora di visitare la tua Bari, capoluogo della “cooliest region in Italy” (cito a memoria le tue due intraprendenti turiste scandinave). Ma bada bene, non ci verrei, o verrò, per reclamare un ingiustificato credito sodomitico. Se Armanda proprio non potesse accompagnarmi, fa un fischio a quelle due scandinave e siamo a cavallo.
Ieri ho rivolto questa domanda ad Armanda: È meglio essere un eccellente scrittore di Sellerio oppure un ricco scrittore di Rizzoli? Lei ha risposto senza battere ciglio: un ricco scrittore di Rizzoli. Tanti anni insieme non sono acqua. Tutto diventa aforisma.

 

l’immagine:Yves Klein, “Anthropométrie” (ANT 49)

Un estratto inedito da “Memoir”

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di Francesco Borrasso

 
 

La depressione è una terra continuamente esposta, è un luogo bagnato, umido, è portare una croce senza un gesto che possa farti capire che prima o poi ci sarà la quiete; la depressione è stata come una colata di cemento dentro i muscoli, sopra le ossa, è stata guardarmi allo specchio e vedere una faccia estranea, osservarmi nel riflesso e non riuscire a riconoscermi e piangere e disperarmi; è stata guardare i volti di persone familiari e vedere volti sconosciuti, è stato depersonalizzarmi, morire lentamente di una morte che colpisce la parte emotiva, la corteccia solida del sorriso. Che fossi depresso l’ho dovuto capire un po’ per volta. Un male buio che mi aveva abbracciato perché non potevo uscire di casa, non potevo lavorare, perché ero diventato un fallimento, ero un pazzo che non vedeva la salvezza, perché la salvezza aveva un suono che io non riuscivo a sentire, perché le lettere delle parole che mi hanno sempre aiutato a capire sono diventate mute. La malattia è come un veleno, lentamente ti si infila sotto la pelle, e all’inizio appare quasi come un’amica, per non farti rinvenire ti coccola, ti tiene al caldo e pian piano, senza che tu te ne accorga, inizia a cambiare tutto quello che hai sempre vissuto; cambia le tue coordinate, cambia le tue percezione, spegne tutte le lampadine e azzera ogni tipo di piacere. I sapori scompaiono, come scompaiono gli odori, i posti familiari diventano di metallo, diventano freddi al contatto, le persone della tua vita sono manichini, sono plastica, un silenzio profondo striscia sulle corde vocali fino a farti perdere la voglia di spiegare.
Mi convinco che le gocce di EN possano aiutarmi, mi convinco di un potere miracoloso e cerco di uscire, i primi giorni le cose sembrano migliorare, la sera e la mattina mi imbottisco di delorazepam e provo ad affrontare il mondo. Ma ho sempre la testa troppo leggera, faccio fatica a concentrarmi, non riesco a leggere. Sono sempre qualcosa che non so riconoscere.

Da “Monoideale”

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dav

di Vasile Leac

traduzione dal romeno di Clara Mitola

 

La zona dei distrutti

Che facciamo noi, quelli senza ambizione a cui piacciono

i monologhi interiori irrazionali?

Noi, che non sappiamo di essere colti in meschinità e stanchezza,

e ogni cosa ci sembra impossibile e lontana?

La balena 52 Hertz e altre storie

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di Evelina De Signoribus

Una cosa che mi piace fare nella vita è ascoltare o osservare gli animali, a volte solo immaginarli. Capita che attraverso la poesia prendano loro la parola, tra fatti atroci realmente accaduti e altri più belli al limite della fantasia.
Ringrazio Marco Petrella che spesso mi accompagna con i suoi disegni.

Immagine di Marco Petrella

La balena 52 Hertz 

C’è stato un inizio nell’oceano
dove ogni singola goccia batteva in me.
Ho ascoltato attentamente
l’acqua che ribolliva di rancore
l’acqua che schiumava di naufragio
l’acqua placata dai raggi di sole.
Ho imparato a cantare con le onde

ma nessuno mi sentiva e allora
ho fatto ciò che non si può
ho aperto un varco con la voce
in mare aperto.
Ora navigo di vibrazioni
e risalgo gli abissi.
Sono io, sola, il mistero di tanto blu.

 

La balena 52-hertz sembra essere l’unico esemplare che canta emettendo suoni alla frequenza di 52 Hz e, per questo motivo, non è udibile dalle altre specie di balena. Viene così chiamata “la balena più solitaria del mondo”. Ringrazio Elisa per avermene parlato.

 

Orsa KJ2

Mi ha dato luce il tempo
come un bocciolo appena schiuso
nel chiaroscuro del bosco

sotto lo sguardo attento di una madre
inseguo una foglia
mi spavento per una biscia.

Cresciuta, si alza la mia voce
e mi assimilano alle tenebre
ma non chiamo il buio, richiamo il figlio.

Lo riparo ancora mentre ormai lontana
la lingua del fuoco acceso dall’uomo
sancisce una tregua

l’abbandono a un sogno più umano.
In questa frazione è il suo disarmo che è pace,
la mia consolazione.

 

“Troppo pericolosa per gli uomini”. Per questo l’orsa KJ2 è stata uccisa dagli agenti del Corpo forestale della Provincia autonoma di Trento. Aveva aggredito un uomo, aveva i piccoli con sé. In molti abbiamo sperato fino all’ultimo che ciò non accadesse.

 

Costanza floreale

Senza vento, nel torpore
silenzio dell’estate, sono l’ape
in equilibrio sospesa
apparentemente innaturale.

Costante, leggera, orizzontale
aspetto un fiore, quel fiore solo
per riprendere a volare.

 

L’ape  è “fedele” ad una specie di fiore scelto dall’inizio alla fine della fioritura. Questo fenomeno dal nome bellissimo, si chiama “costanza floreale”.

 

L’ inseparabile

Insieme eravamo un solo nome
ma spenta la tua voce,
ti chiamo ancora, senza pace:
un sentiero di versi pungenti
cercano spazio
in questa mia piccola gola.

Se non rispondi  non sono,
se non canti qui dove mi trovo
altro non sento e di nuovo
rimango al buio.

 

Gli inseparabili, sono dei pappagallini colorati che devono il loro nome al fatto che formano coppie stabili che passano molto tempo vicine, lisciandosi le piume a vicenda. Si dice che non possono vivere senza la compagna o il compagno che hanno scelto per la vita.

 

Gli stambecchi

Oltre il limite del bosco
dove gli stambecchi hanno riposo
nel cielo si staglia una roccia

sotto, il cupo dirupo

tutto è spoglio e
il vento non può portare il fuoco

lì è già origine
dove tutto è sempre

e ti sento oltre
la gravità dell’aria

o in una musica, altrove.

 

Non ho mai visto uno stambecco dal vivo e mi sono sempre chiesta dove avessero riposo. Verso il cielo forse, in equilibrio, dove possono ascoltare le voci che noi, a volte, crediamo svanite. A Ilaria.

 

La trota

Levigo il corpo nella corrente
come un sasso d’acqua dolce
liscia lucente sono un pesce.
Risalgo la corrente, torno dove non ero
all’uovo deposto, al suono del bosco.

Durante la notte più di un grido.
Fa una pausa la curva dell’infinito
nessun suono ora,  nessun lamento
un pianeta in silenzio color argento.

 

A Foce di Monte Monaco, territorio dei monti Sibillini, si narra che per mano dell’uomo un laghetto artificiale si prosciugò in una sola sera. Gli abitanti sentirono per tutta la notte grida e urla e solo la mattina capirono l’accaduto, davanti a una distesa di trote ormai morte.

 

L’Elefantessa

Straziata dal dolore e dal perché
scendo al fiume per un sollievo
e per darlo a te, ancora non nato
nello stupore del ventre

voglio  lasciarti in tempo
nel tempo dell’acqua materna
come un pesce colorato,
via nella corrente, via dal male

via dalla terra senza sale.

 

L’ultima brutale notizia di pochi giorni fa: ad un’elefantessa viene offerto del cibo imbottito di petardi. Si dirige verso il fiume per trovare sollievo, dove morirà con il suo piccolo in grembo.</em

Greta Thunberg e il mondo che verrà

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di Roberta Salardi

Un’asceta che in altri tempi sarebbe stata considerata una piccola santa? San Francesco in versione laica e moderna?

Una novella Antigone che si appella a leggi non scritte le cui radici affondano in un sentimento di empatia e rispetto verso tutti gli esseri viventi?

Greta si discosta molto dal modello di attivista politico sessantottino, il quale mirava allo sdoganamento di comportamenti repressi e di nuove libertà individuali. “Vietato vietare” era uno dei motti liberatori dell’epoca.

Il modo di porsi di Greta pare modellato su un altro tipo di morale. Si percepisce motivato da un forte legame con la natura, che i popoli nordici coltivano da sempre, come pure da una tradizione culturale e religiosa protestante, che responsabilizza molto i singoli, che richiede fermamente coerenza e rigore. Perché parlo di una tradizione religiosa? La sua attenzione è rivolta al pianeta vivente, non unicamente alla società. Greta è anche vegana, per esempio, probabilmente non solo per motivi strettamente ecologisti. Questi in molti casi puntano a una semplice riduzione del consumo di carne e non necessariamente a una rinuncia completa (vedi Greenpeace e altre associazioni). Greta è una figura ascetica che potrebbe sembrare d’altri tempi. Ma riproponendo l’antica questione del limite, dell’autocontrollo, particolarmente avversata dalle società iperproduttive in cui viviamo, riporta sulla scena abitudini improntate alla parsimonia che evidentemente non si possono dimenticare o trascurare, in quanto favoriscono gli equilibri dell’ecosistema.

Per non compromettere il già difficile rapporto uomo-natura, il suo impegno è esteso a tutto campo. Dice come è attenta nell’alimentazione, nei viaggi, negli acquisti. La coerenza è una parte fondamentale della sua immagine e del suo carisma: è grazie a questa coerenza inflessibile che riesce così convincente.

 

L’altro lato della medaglia, l’intransigenza, viene lasciato un po’ più nell’ombra poiché probabilmente non così gradito agli occidentali viziati dal consumismo, mentre si preferisce enfatizzare il richiamo ai potenti. Forte delle sue virtù inattaccabili, infatti, è nella posizione giusta per lanciare strali ai potenti di tutto il mondo. Non manca di sottolineare comunque, rivolta a tutti noi: “Non si può essere sostenibili solo in parte: o si è sostenibili o non lo si è”.

Nel momento in cui potrebbe rischiare di essere presa in antipatia (non per sua colpa ma perché il messaggio che porta contiene una sua severità) entra in gioco un aspetto che la differenzia da celebri figure di censori del passato, nell’iconografia anziani e accigliati. L’aspetto esteriore quasi infantile, delicato, e la giovane età non solo alludono chiaramente all’innocenza; si prestano pure a suggerire l’impressione che Greta sia facilmente controllabile e manipolabile, una specie di Pippi Calzelunghe che si può far comparire e scomparire all’occorrenza come il personaggio di un cartone animato. E’ stata questa una delle fortune del movimento: la parvenza innocua, per cui i capi politici maggiori del pianeta e le istituzioni internazionali l’hanno accettata, inclusa nelle foto di gruppo dei vertici al fine di mostrarsi amici del clima, contribuendo così alla propaganda delle sue idee. Il movimento ne ha ricavato pubblicità ma un evidente rischio di strumentalizzazione. Un esempio, l’incontro di Davos del gennaio 2020: alla presenza della finanza internazionale, l’icona-Greta figurava a garanzia di un interesse diffuso per la sostenibilità, largamente smentito dai fatti, se si va a controllare la percentuale effettiva degli investimenti finanziari delle banche nelle rinnovabili o nel fossile. Probabilmente fa piacere a tutti, potenti e popoli sparsi per un mondo che si regge ancora in discreto equilibrio strategico dopo il secondo conflitto mondiale (gettiamo un velo sulla lotta inesausta fra potenze medie e grandi, che, pur mantenendosi a intensità contenuta, ha prodotto terribili guerre mai finite; sulle ripetute crisi economiche; sulle ingiustizie sociali planetarie), l’illusione che la conversione ecologica o addirittura un cambiamento di modello di sviluppo possa avvenire in modo graduale, pacifico, razionale, progettato nei dettagli e organizzato, con costi contenuti.

 

 

Un leader tipo Che Guevara immagino suscitasse tutt’altra impressione sui suoi contemporanei: un comandante, un soldato. Agitando l’immagine di Greta credo che sia lo spettro dei conflitti e delle rivoluzioni che soprattutto si desideri tenere lontano.

Non c’è neanche da parlarne: non siamo a quel punto. Tutti sperano di non arrivarci e si concentrano sulla green economy. Sarà possibile attraversare la crisi climatica con alcuni accorgimenti tipo auto elettriche anziché inquinanti, cibo bio anziché da allevamento, locali plastic free, sigarette elettroniche e così via? Sarà sufficiente continuare a consumare scegliendo semplicemente merci un po’ meno dannose oppure occorreranno scelte drastiche anche a livello personale? Lo stile di vita viene chiamato in causa dallo stato di emergenza e dalle evidenti difficoltà a correre ai ripari con politiche globali radicali: è la volta dell’individuo a essere esaminato, interrogato, sanzionato. Se è vero che il consumismo è distruttivo, un cambiamento delle nostre abitudini, vizi e capricci è inevitabile. Dobbiamo metterlo in conto.

Amitav Ghosh tuttavia osserva: “Negli ultimi tempi, molti attivisti e persone sensibili hanno cominciato a definire il cambiamento una questione morale. E’ una sorta di ultima spiaggia, dato che appelli di altro tipo non hanno prodotto un’azione concertata sul cambiamento climatico. E così, per uno sgambetto del destino, la coscienza individuale è vista sempre più come il campo di battaglia privilegiato di un conflitto che è invece palesemente globale e richiede un’azione collettiva: è come se, esaurita ogni altra risorsa democratica, non restasse che la morale.” (La grande cecità, Neri Pozza, Vicenza 2019). Lo scrittore rimarca il problema del progressivo depotenziamento democratico nei Paesi occidentali quando dice che sono ormai “per molti versi spazi postpolitici gestiti da apparati di vario tipo. Per molte persone, ciò crea un angosciante senso di smarrimento, che si manifesta in un desiderio sempre più disperato di recuperare una vera democrazia partecipativa.” (162) In realtà secondo lo scrittore indiano nel cambiamento climatico giocano un ruolo decisivo i Paesi dell’Anglosfera (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda), i quali ostentano indifferenza o negazionismo nei confronti dell’allarme ambientale per difendere il loro elevato standard di vita, restando dell’opinione che alla peggio i costi di questa scelta ricadranno come già in passato su una parte dell’umanità che non coincide con la loro.

Potrebbe essere che Greta anticipi lo stile di vita della decrescita che verrà, felice o infelice che sia. E’ molto probabile che una crescita continua e inarrestabile registrerà una battuta d’arresto, prima in alcuni Paesi che in altri ma a lungo andare diffusamente. L’esplorazione dello spazio non ha portato al reperimento di maggiori risorse e quelle che abbiamo, sempre più ridotte a causa della corsa all’accaparramento e allo sfruttamento sregolato, sono quelle dell’unico pianeta che abitiamo. Con l’aumento demografico e le migrazioni, inoltre, tali risorse andranno sempre di più distribuite. Mentre la sovrabbondanza di merci si trasforma rapidamente in rifiuti che non si sa più dove stoccare, come disperdere nella maniera meno pericolosa possibile. La società del boom economico, a poco più di cinquant’anni dal suo nascere, la vediamo degenerare a vista d’occhio in una società i cui eccessi non si riescono più a contenere, i cui rifiuti la natura non ha il tempo di riassorbire e che vanno a soffocare, ridurre, compromettere gravemente la capacità rigeneratrice della Terra.

Vedo dunque Greta ben più di una piccola santa adolescente: è simile a un angelo (intendendo il termine secondo l’etimologia greca), l’annunciatrice di un’era completamente diversa che sta per iniziare.

 

 

“Soleil grigri” (3/4): da “La primavera torna indietro”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

[Soleil griri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla terza sezione del libro, La primavera torna indietro. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, Cardine Kinski e Salut, voilà].

Specie di Spazi (dialoghi sulla soglia del dubbio)

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Un programma di Teatro India – Teatro di Roma

 

 

 

Specie di spazi” è un programma radiofonico, ideato da Fabio Condemi all’interno di Radio India e ispirato all’omonimo libro di George Perec. Invece che ospitare un resoconto debilitato, ho voluto raccogliere in questa pagina un prolungamento delle concatenazioni; un getto di voci, ulteriormente montate, portate oltre il luogo delle contingenze.

Se esiste una forza concreta della pandemia -da innestare nel teatro-,  essa dovrà trovarsi proprio nel moto pandemico delle idee, ovvero in quella peste citata in uno degli interventi qui sotto. ”Specie di spazi” sfugge ad ogni puntata il pericolo dell’arenamento; non è un riempitivo per il tempo dell’attesa, ma semmai un anticipo su quel tempo verso cui ogni attesa potrebbe tendere: tempo pieno proprio perchè bucato; tempo che scarta ogni direzione di tempo; tempo in cui, oscillando tra labirinto e labirintite, si producono sfasamenti in grado di far toccare cose lontane, e sciogliere così le distanze irrimediabili.

 

Giorgiomaria Cornelio

 

 

ANTICIPO

 

«labirinto, strumento immune da stagioni e da ragioni, e senza sonno,

senza prima e senza dopo, senza uscita né entrata,

senza parola plebea e senza silenzio-limite, senza incendio né fama, senza opera,

senza opacità nel drenaggio di rivelazione pietrificata».

 

(Emilio Villa)

 

 

FABIO CONDEMI

 

A volte riascolto le puntate di “Specie di spazi” e cerco, sul computer o sui libri, immagini evocate durante i vari episodi: opere d’arte, foto di luoghi, immagini di artisti, mappe, architetture, film etc… e  penso che sia un peccato che la radio non offra l’opportunità di vederle mentre se ne parla. Altre volte, improvvisamente, mentre leggo o passeggio, mi viene in mente un argomento, un testo o un luogo che non è presente nelle puntate. Insomma, mi rendo conto che in “Specie di spazi” c’è sempre qualche cosa che manca. Poi penso a Perec,  al tassello mancante del puzzle di cui parla in “La vita istruzioni per l’uso” e mi rendo conto che, in fondo, è quello il pezzo più importante, e che questi vuoti, queste linee scure tra una puntata e l’altra, tra un intervento e l’altro sono i veri spazi del programma, sono dei salti che consentono ad ogni ascoltatore di tracciare linee e percorsi in libertà e continuamente e di attraversare in modi diversi queste 10 ore di materiali.  E allora mi sento più sereno e penso che io, Alessandra Cimino (che ha curato il montaggio di tutte le puntate), Gabriele Portoghese (che ha partecipato al  programma come lettore e consulente musicale)  e tutti gli ospiti e le voci di “Specie di spazi” abbiamo tracciato legami invisibili fatti di richiami e di esercizi utili a stare attenti perché come scrive Perec, ‘lo spazio è un dubbio’.

 

[Fabio Condemi, regista teatrale e ideatore di “Specie di spazi”]

 

Uno schizzo preparatorio di Aldo Rossi

 

 

CHIARA FAGONE

 

Quando nel gennaio del 2018 pubblicavo “Geografia di un interno – luoghi dell’abitare e ricerca artistica tra memoria e sperimentazione”, un lungo lavoro di ricerca sulle stanze e sull’abitare, non avrei mai immaginato che questo tema della stanza, questa geografia intima del  quotidiano, diventasse davvero il limite di un nostro personale universo. Un confine con l’esterno obbligatoriamente vissuto come un nuovo perimetro esistenziale, in un mondo divenuto inaspettatamente distopico.

Così quando è arrivata la richiesta di Fabio Condemi di collaborare al progetto “Specie di spazi” per Radio India, mi sono trovata a ripensare alcune angolazioni della questione, a partire dalla traccia di Georges Perec. Ho subito pensato come il sottotitolo del celebre saggio: “vivere è passare da uno spazio all’altro senza farsi troppo male”, appaia oggi quasi come una profetica verità.

Perec ha sempre attribuito all’architettura, allo spazio domestico e agli oggetti che ne fanno parte, un ruolo essenziale per la comprensione dell’esistenza umana; riflessioni sull’abitare tramite di una chiave interpretativa del mondo.

Credo che il merito di Perec, al di là delle sue straordinarie sperimentazioni linguistiche, sia stato proprio quello di avere spostato la pratica dell’abitare in un contesto ‘altro’; in una serie di piani insieme inediti e immediati. Una dimensione differente da quella del pensiero urbanistico, sociologico o progettuale dell’architettura. Una dimensione riguardante la vita.

La  sequenza che ha inizio dal perimetro della pagina in “Specie di spazi”, per definire poi una vera progressione di luoghi, attraverso il letto, la stanza, l’appartamento, fino ad arrivare alla scala del mondo e insieme l’idea di creare una sovrapposizione tra racconto e architettura, come nel romanzo “Le cose”, e soprattutto nel “La vita istruzioni per l’uso”, indicano una prospettiva ancora estremamente coinvolgente.

Se in “Specie di spazi” a strutturare il volume è un movimento in progressione dimensionale che coincide con un’apertura verso l’esterno, nel romanzo “La vita istruzioni per l’uso”  il disegno è quello di un intricato ‘puzzle’, rigorosamente progettato tramite regole; nel testo l’architettura  si fa romanzo, la sua impalcatura è proprio quella articolata e strutturata come un edificio, per piani, per appartamenti, per ambienti. A ricostruire storie che sovrapponendosi assumono una fisionomia sociale, una memoria collettiva, come in una sorta di scacchiera. Così è stato anche in questo progetto che grazie a Fabio Condemi  ha preso vita.

Dai letti di Jasper Johns, Sophie Calle,Tracey Emin e Félix González-Torres, agli interni di Gregory Crewdson o In Sook Kim o ancora nelle visionarie stanze di Sandy Skoglund e Lori Nix, e attraverso le installazioni di Ragnar Kjartansson, ho scelto di  raccontare le sperimentazioni degli artisti contemporanei seguendo il ‘tracciato’ di Perec. E poi, superato il confine della casa, la narrazione ha riguardato  la street art newyorkese di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, la città e l’immaginario della metropoli da Verne a Wrigth, per concludere la mia personale partecipazione con una nota sulla comunità vegetabilista del “Monte Verità”.

“Specie di spazi” ha dato voce a una pluralità di contributi e letture, analisi e suggestioni, con prospettive e ritmi differenti, in una bellezza di sonorità che riempivano spazi e distanze.  Un’esperienza che rimane e che sicuramente non dimenticheremo.

 

[Chiara Fagone, architetto,  titolare delle cattedre di Storia dell’arte moderna e Fenomenologia dell’arte contemporanea presso la Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano]

 

 

ALESSANDRO MAGINI

 

Già il fatto di concepire una trasmissione modulata su “Espèces d’espaces” di Perec mi è parso un bel modo di costruire una riflessione polifonica intorno alla realtà del nostro vivere. E non mi meraviglia che questa idea sia venuta proprio a Fabio Condemi, del quale apprezzo l’ampiezza degli orizzonti culturali ed una rara sensibilità artistica. Quando Fabio mi ha proposto di intervenire nella trasmissione sono andato ad ascoltare le puntate fino ad allora registrate e sono rimasto colpito dalla coerente naturalezza con la quale tanti argomenti venivano affrontati e tenuti insieme. Ho pensato che l’équipe che stava costruendo questo progetto offriva una bella testimonianza della vitalità con la quale un gruppo di giovani sapeva reagire a situazioni complesse, mettendo in campo idee e competenze non scontate. Nel generale panorama di una comunicazione troppo spesso piatta e banale, questa nuova “coralità radiofonica” mi è parsa una ventata di aria fresca che dà vitalità e senso alla divulgazione, ponendo stimolanti inviti alla riflessione su come guardare e ascoltare diversamente la realtà del vivere quotidiano. Seguendo i capitoli del libro di Perec, la trasmissione conduce gli ascoltatori dalla dimensione privata dell’abitazione a quella condivisa degli spazi aperti. I miei due interventi si collocano nelle puntate dedicate al quartiere e alla campagna. Con Fabio ho concordato allora di proporre una lettura dell’architettura e dalla natura attraverso l’esperienza musicale; in pratica un invito ad “ascoltare” strutture architettoniche e paesaggi attraverso testi e partiture che offrono particolari prospettive di osservazione e inusuali modi di interpretare e di vivere gli spazi del nostro esistere. E’ stato un vero piacere collaborare con Specie di spazi e spero sinceramente che trasmissioni del genere, così come il contesto di Radio India che le ospita, possano ulteriormente svilupparsi per dare voce soprattutto alle tante giovani “intelligenze” che fortunatamente continuano ad esistere.’

 

[Alessandro Magini, compositore, musicologo, insegnante presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica]

 

 

MAURO SANTINI

 

L’invito di Fabio Condemi a partecipare a “Specie di spazi” su Radio India mi ha portato, guardando a ritroso, a scoprire quanto Georges Perec sia da sempre presente nei miei film, dagli inizi fino alla quinta passeggiata, girata proprio nei luoghi della sua infanzia. Non avevo mai fatto radio finora e raccontare senza immagini ha rappresentato una sorta di terapia: mi ha infatti liberato dalla afasia nella quale mi sono beatamente segregato per vent’anni circa. Il ritorno alla parola (ancor più, alla parola detta e non solo scritta) mi ha come svegliato da questo lungo torpore, spingendomi ad utilizzarla anche in un nuovo progetto filmico che sto realizzando. E poi è stato bello recuperare suoni da trasmissioni radiofoniche o da vecchi documentari, confonderli con sequenze di miei film, leggere estratti da perec, mescolare ed organizzare il tutto coi tempi ed i modi del radiodramma: una vera avventura, che già mi manca…

[Mauro Santini, filmmaker. Realizza i suoi film documentando il quotidiano in una forma diaristica, caratterizzata da un racconto visivo in prima persona]

 

 

 

 

LUCAMATTEO ROSSI

 

 

È stato sufficiente abitare uno spazio e divenirne abitati per comprendere che è necessario farla finita con il teatro, che non è sufficiente fare spettacoli e riprodurli in rete. Forse l’intelligenza di Radio India e del programma “Specie di Spazi” di Fabio Condemi consiste proprio nel dimostrare che il teatro può accadere anche fuori dal teatro e al di là delle contingenze, attraverso una visione molteplice che tiene conto di diverse forme d’arte (tra queste la letteratura, il cinema, la musica) per rintracciare e creare nuove connessioni tra materiali e tra persone. Quello di “Specie di Spazi” è per me il teatro della voce, prova flagrante di come parlare della camera, dell’appartamento, del palazzo o della città -per fare soltanto alcuni degli esempi, tutti suggeriti da Perec, ed esplorati nel corso delle dieci puntate- significhi lasciare una traccia in chi ascolta attraverso la voce. Non mi pare sia abitudine fare e studiare teatro disinteressandosene. Il Teatro India ha avuto con Radio India il coraggio di esplorarenuove possibilità durante una pandemia e senza conforti; non ha proposto spettacoli per intrattenere il tempo, ma ha avuto l’audacia di continuare a mettere insieme persone e di praticare un cambiamento. La peste, che Antonin Artaud indentificava proprio con il teatro, è il momento in cui si attualizza un cambiamento nella persona e nella società tutta. L’esperimento di “Specie di Spazi” e Radio India è un “Decameron” che -come l’opera di Boccaccio- è per me un riferimento per chi si (dis)occupa di teatro.

 

[Lucamatteo Rossi, cineasta e teatrante. Studia al Trinity College di Dublino]

 

 

FRANCESCO FIORENTINO

 

Ogni spazio nasce in fondo da un atto poetico, di creazione. E ogni spazio può fare filosofia, oppure letteratura, oppure arte, oppure musica. Nel senso che può far nascere un nuovo modo di pensare, di scrivere, di dipingere, di cantare.

 

[Francesco Fiorentino, professore ordinario di Letteratura tedesca all’Università Roma Tre]

 

 

FABIO CHERSTICH

 

”Specie di spazi è stato per me come un lento movimento di macchina, un film sperimentale sapientemente diretto da Fabio Condemi. Una carrellata all’indietro che a partire da uno schermo bianco – la pagina bianca del libro di Perec protagonista della prima puntata – rivela una serie di luoghi che dall’essere privati e chiusi si fanno pubblici, finalmente vasti, come gli spazi presentati nell’avanzare delle puntate.Questo movimento di macchina che si allontana da uno schermo bianco rivela un letto sfatto, poi una stanza. La telecamera esce da una finestra e rivela un palazzo, continua la sua marcia a ritroso alzandosi in volo. Ecco apparire la pianta di un quartiere e infine la città, la campagna, il cielo lo spazio. E’ un movimento che racconta in una forma semplice e poetica anche il nostro essere stati a casa per poter poi finalmente riappropriarci con cautela degli spazi esterni, comuni.Io stesso ho scritto i miei interventi e seguito le puntate prima chiuso nella mia stanza, alla scrivania, poi a letto, in soggiorno, al parco, in treno, finalmente in viaggio, in questo momento sto scrivendo dalle montagne del Friuli, lontano da quella camera nel centro di Milano dove sono rimasto chiuso per settimane fortunatamente in compagnia di spazi reali e mentali.”

[Fabio Cherstich, regista, scenografo e curatore]

SPECIE DI SPAZI
“Specie di spazi”, un programma a cura di Fabio Condemi; montaggio puntate di Alessandra Cimino; letture e consulenza musicale di Gabriele Portoghese
Con: Giorgiomaria Cornelio, Lucamatteo Rossi, Domenico Ingenito, Chiara Fagone, Fabio Cherstich, Francesco Fiorentino, Industria Indipendente, Daria Deflorian, Valeria Almerighi, Nicola Ingenito, Mauro Santini, Rocco Lo Russo, Alessandro Magini, Elena Rivoltini, Andrea Acerbi, Giacomo Bisordi, Davide Pascasrella.

 

Contributo di Mauro Santini

S.P.Q.R.S.T.U.V.Z.

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Sono Proprio Questi i Romani?

(a proposito della loro storia speciale)

di

Gigi Spina

 

Non so, e non ho voglia di informarmi, se mai sia stata resa con una formula interrogativa la famosa sigla SPQR sulla quale si sono e ci siamo sbizzarriti sin dai banchi di scuola, in genere in forma assertiva e perentoria, una volta scelta la voce verbale Sono (terza plurale, non cartesiana) come nascosta sotto la S. La P ha autorizzato aggettivi i più vari e fantastici, in genere connotanti in forma ironica e sfottente, se non affettuosamente dispregiativa. E poi Questi Romani, con la forza del deittico, ne ha testimoniato la permanenza ostinata, forse lo stesso non poterne fare a meno.

La domanda sorgerebbe spontanea, ma con una sostanziale risposta affermativa (magari anche Questi), una volta terminata la lettura del vivacissimo libro di Giusto Traina, La storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani, Laterza, Bari-Roma 2020.

In realtà, dopo la fortunata stagione dei libri sulle lingue e le culture classiche che si sono affollati dal 2016, contribuendo anche al dibattito sul liceo classico e sulla prova di traduzione, sembrava che ci fosse un momento di pausa. Li elenca in gran numero e ne parla Silvia Stucchi, nell’introduzione (Studiare latino: un incubo o un’opportunità) al suo volume Come il latino ci salva la vita, Ares, Milano 2020, uscito contemporaneamente a quello di Traina, a segnare forse una ripresa anche se unidirezionale (latino e Roma) di quella riflessione. Salvare la vita potrebbe significare non poterne fare a meno. Se alla vita si è attaccati, naturalmente. Ma si tratta di due libri diversi. Quello della Stucchi, legato a un’esperienza di ricerca e didattica universitaria e anche di didattica scolastica, affronta con metodo e competenza i vari aspetti della cultura latina, letti e approfonditi con il filtro delle domande moderne, dei possibili intrecci fra somiglianze e profonde diversità: quella che potremmo definire la vita quotidiana delle culture antiche. Una panoramica ampia e ricca anche di dettagli, che sicuramente servirà di supporto a molti percorsi e incursioni nel mondo degli antichi romani.

Il volume di Traina si presenta, innanzitutto graficamente, al primo impatto visivo con la copertina, come allusivo a uno dei successi indubitabili (per numero di copie vendute, per diffusione internazionale e forse anche per inevitabili polemiche) della stagione prima descritta: il volume di Andrea Marcolongo La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, stesso editore, 2016. D’altra parte, nella prima delle Adnotationes (p. 175 s.), Traina spiega il possibile rapporto ‘genetico’ fra la Lingua geniale e La storia speciale – ricordo che proprio Andrea Marcolongo ha scritto una delle prime recensioni, molto numerose e positive, del volume di Traina, su tuttolibri della Stampa.

D’altra parte, basta cominciare a leggere, anche solo sfogliando l’indice dei nomi e l’indice generale, per capire che ci si trova di fronte a uno di quei libri e autori che, indipendentemente dall’argomento, scelgono di non nascondersi e di presentarsi con tutti i riferimenti espliciti alla propria presenza nella cultura moderna. Allora torno con la memoria a una recensione che scrissi al volume di Maurizio Bettini I classici nell’età dell’indiscrezione. Parliamo del 1995 (Einaudi, Torino); la recensione uscì sui Quaderni di Storia (43, 1996, pp. 325-329). Annotai questo particolare:

In una recensione filologicamente rigorosa non dovrebbe mancare una critica al fatto che il volume è privo di un indice dei nomi. Ma mi sembra di capire che si tratta di una scelta e non di una dimenticanza. Si racconta, infatti, che in un recente convegno sull’intertestualità greca e latina sia stato pronunziato, durante un intervento, il nome di Francesco Guccini. Sembra anche che un austero filologo sia stato visto sobbalzare sensibilmente. Ora, nel volume di Maurizio Bettini, filologo, antropologo e ‘curioso’ a tutto campo, si possono leggere, non raccolti in indice, i nomi di Maurizio Costanzo, Fabiolo, Marcello Mastroianni, Walt Disney, Aldo Biscardi, Antonio Di Pietro, Renzo, uno degli ultimi barbieri (figura tipicamente plutarchea e ateniese) chitarristi d’Italia ecc. ecc. C’è anche un nome inventato (per confessione dello stesso Bettini, p. 9 n. 3), Eleanor Sherving, che non è, dunque, la protagonista del film Fabiola.

Ecco, mentre confesso, ma non è la prima volta, che fui io a pronunziare il nome di Guccini in quel convegno, devo constatare che qualcosa è cambiato, e credo positivamente, negli ultimi 25 anni, se è vero che nell’indice dei nomi Traina può tranquillamente annoverare Astérix, guerriero gallico; Berlinguer, Luigi; Berlusconi, Silvio; Blasetti, Alessandro; Cattivik (uaz! uaz!); Di Canio, Paolo; Di Maio, Luigi; Johnson, Boris; Lombroso, Cesare (mai troppo lodato); Massenzio, imperatore (o usurpatore a seconda dei punti di vista); Obélix; Taylor, Johnnie; Zingaretti, Nicola ecc. ecc.

Dunque un volume sicuramente spigliato e divertente, dedicato, fra gli altri, alla signora Giuliana Longari, anzi Toro in Longari, eroina di Rischiatutto.

Potrei definirlo un volume meritoriamente divulgativo, se non sapessi che la pratica della divulgazione necessita ancora di un aggettivo, alta, per poter essere ammessa nel sempre più ristretto empireo dell’accademia giudicante (non mancano esempi recenti nelle valutazioni per la docenza universitaria). La divulgazione senza aggettivi, invece, se è tale, è l’unico debito che la ricerca può pagare alla comunità che la sostiene, offrendo continuamente i risultati delle proprie acquisizioni in una forma e un linguaggio alla portata del maggior numero di lettori e lettrici. Soprattutto in un momento in cui la divulgazione che fanno giornali, reti televisive e social è spesso (spesso, non dico sempre) rovinata dalla fretta, dalle esigenze di audience, dalla sciatteria, dalla incompetenza di cattivi comunicatori. Col rischio, dunque, che alcuni utili risultati di ricerche, in tutti i campi, siano schiacciati fra circolazione elitaria e sofisticata e circolazione vasta e inefficace.

Giusto Traina affronta invece di petto il problema. Innanzitutto nella ripartizione dei capitoli, con titoli tutti affidati a frasi celebri e diffuse della cultura romana, di quelle che troviamo spesso nel linguaggio dei giornali e delle personalità in vista, non solo politiche. Sono in tutto XVII (numerazione rigorosamente romana), cioè diciassette capitoli con le Adnotationes finali, che forniscono al lettore, senza un sistema di note definito e numerato ad hoc, verrebbe da dire, cioè né a piè di pagina né in fondo al volume, i riferimenti bibliografici, gli autori delle citazioni criptiche, insomma quell’insieme di detti e fatti da spiegare meglio su cui ci si sarà interrogati durante la lettura. Un sistema, questo, che ha preso molto piede nei libri, appunto divulgativi, perché evita che il flusso di scrittura/lettura venga continuamente interrotto dal rinvio alla nota (a una lettura, cioè parallela e anche scomoda se piazzata in fondo al volume) e in qualche modo costringe lo scrittore a contenersi, a essere sempre chiaro, esauriente, mai ammiccante o allusivo. Quando si arriverà a limitare la nota al solo, spesso necessario, breve e puntuale rinvio bibliografico (anche per evitare di essere accusati di plagio) e si riuscirà a trasformare in scrittura organica interna al testo la riflessione minuta della nota, forse si sarà fatto un passo in avanti nel rapporto fra chi scrive e chi legge. Osservo, intanto, positivamente che, nella situazione di isolamento durante la pandemia, il volume di Giusto Traina ha visto anche una utile diffusione on line di interviste, presentazioni, dibattiti, suggerendo un modo sicuramente proficuo da riadattare anche in condizioni di normalità.

Ma torniamo ai capitoli: al terzo posto troviamo il nostro S.P.Q.R. Trovo opportuno, però, citarli tutti, anche perché, attraverso queste pillole sentenziose si compone il quadro del percorso indicato da Giusto Traina nella storia speciale. I passaggi da un capitolo all’altro sono spesso televisivi (inutile spiegare) o fàtici, cioè capaci di riferirsi al rapporto con chi sta leggendo in quel momento. Del tipo: c’est plus facile; non cambiate canale; se voltate pagina; lo vedremo nel prossimo capitolo. O forse no; Difficile da dire, diamo comunque un’occhiata; Peccato che non ci sia più spazio per raccontare anche questa storia, ma perché non darne almeno un piccolo assaggio?; Ma le pagine scorrono, ed è giunto il momento di congedarsi; E finisce qui. Exeunt omnes.

Che è la fine del capitolo XVII, intitolato, qualcuno/a l’avrà indovinato: Exeunt omnes.

Torniamo ancora una volta all’inizio. De te fabula narratur, giustamente incipitario, perché il te siamo noi, noi moderni, almeno noi europei, ma non solo; perché quando si dice Romani non è lo stesso di quando si dice Greci: i Greci delle varie città sono ciascuno straniero all’altro, i Romani tendenzialmente no. E quindi se è di noi che si parla e si racconta, Giusto (lo conosco, posso permettermelo) ci tiene a stabilire parentele, affinità e anche idiosincrasie: gli ellenisti sono cuginastri; cugini, invece gli antropologi, che però non lo convincono del tutto. II. Historia magistra vitae, che naturalmente vale una volta che si sappia cos’è la storia, come la si possa raccontare da contemporanei e, soprattutto quando, come Giusto, non si è proprio ciceroniani. Mi viene da riflettere: a noi ci ha rovinato Zemeckis, con Ritorno al futuro. Perché aver immaginato di poter vagabondare avanti e indietro nel tempo dà poteri impensabili, capacità censorie ingolosenti (per dirla con i cronisti di tennis), impunità protette. Giusto si sottrae a questi pericoli, pur sapendo viaggiare bene nel tempo, perché si basa su un’ottima lettura delle fonti e su un non malcelato orgoglio del mestiere di storico. IV. Civis Romanus sum, che serve a non fare confusione sul ius soli e a non abusare della storia antica. V. Aut Caesar aut nihil, motto tre-quattrocentesco, che forse in questi giorni di iconoclastia serve a tenere i piedi bene per terra, pensando a come è cambiato nel tempo lo stesso concetto di rivoluzione. VI. Roma caput mundi, ovviamente fra elogio e vituperio. Ecco, a voler essere pignolo, nella adnotatio a questo capitolo avrei aggiunto ai riferimenti felliniani R. De Berti, E. Gagetti, F. Slavazzi, Fellini-Satyricon. L’immaginario dell’antico, Cisalpino, Milano 2009. VII. Si vis pacem, para bellum, capitolo affascinante per i continui vai e vieni tra passato e futuro (dei Romani) e soprattutto per la facile constatazione che essere contro la guerra non impedirà mai di essere polemici (in senso questa volta greco). VIII. Homo sum: humani nil a me alienum puto, che messo in connessione col capitolo precedente sembra stridere, ma solo per chi non abbia letto anche il bel volume Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019, del cugino Maurizio Bettini (più che cugino, perché latinista oltre che antropologo). IX. Graecia capta ferum victorem cepit, famoso verso oraziano che, adattato all’autore che, come si sa, insegna alla Sorbona e vive in Gallia, potrebbe essere riletto come: la Gallia, una volta sottomessa, ora può assicurare il magistero al vincitore di allora, pur essendo nel tempo stato sconfitto (mi riferisco alle guerre mondiali, naturalmente). Al di là della battuta su possibili e residui sciovinismi nazionalistici, è il capitolo che serve meglio a orientarsi e a dare strumenti critici anche nelle odierne contese fra culture, fra antichi e moderni, fra colonizzatori e colonizzati, fra abitanti al di qua e al di là degli oceani, e quindi ecco subito: X. Mare nostrum. Che si collega a XI. Imperium sine fine e alle alterne vicende di un impero in espansione ma non immune da sconfitte e disastri, come quello indicato nel XII. Vare, Vare, redde mihi legiones! Impero che presentava come altro lato della medaglia (o del sesterzio, se vogliamo essere più precisi) il bisogno di un’identità ristretta e forse sicura: XIII. Ubi bene, ibi patria. Ci avviamo alla conclusione, segnalando monumentali esperienze e competenze concrete: XIV. Fabricando fit faber, con la ripresa delle discussione sulla “idea pessimistica di una stagnazione tecnica e scientifica dei Romani”, cui Giusto è particolarmente attento avendo curato importanti repertori di letteratura scientifica e tecnica greca e romana. Anche per XV. Pro aris et focis possono valere studi recenti che hanno indagato sul politeismo antico, sulla accoglienza delle divinità altrui e sul reale peso della religione con tutti i sui riti e le sue pratiche nella vita sociale. Senza fare a meno di ricordare che “a un certo punto l’impero romano divenne cristiano e moltissime cose (ma non tutte) cambiarono”. E fu proprio un “dottissimo autore cristiano di origine balcanica”, Girolamo, santo protettore dei traduttori, a chiedersi XVI. Quid salvum est, si Roma perit? “Rise and Fall” è la formula più spesso usata per segnalare la caduta di qualcosa che è stata in auge, come un Impero. Anche se oggi, spesso, varrebbe come formula di resilienza, parola cara a Giusto, quella inversa: “Fall and Rise”. Ma è giunto il momento già annunziato del XVII. Exeunt omnes e, quasi con una composizione ad anello, si esce perché è ancora di noi che si torna a raccontare, come nel primo capitolo.

La lingua dei Romani sembrava ad alcuni di loro povera rispetto alla greca, a un altro, invece (ma non lo nomino, perché non proprio simpatico a Giusto), perfettamente capace di rendere il pensiero di un’altra cultura. Aveva certo, rispetto alla famosa lingua geniale, alcune carenze: mancava il duale, eppure avevano escogitato i due consoli. E mancavano gli articoli, il che mi ha consentito di ipotizzarne uno e di inserirlo nella formula del titolo. Perché Quintiliano, il famoso maestro di retorica, ispanico di Calahorra, usava una bellissima metafora per sottolineare l’assenza degli articoli nel confronto col greco: noster sermo articulos non desiderat ideoque in alias partes orationis sparguntur – la nostra lingua non ha bisogno degli articoli: li ritroviamo diffusi in altre parti del discorso. La loro funzione si espande e si rivela altrove. Quindi i Romani ne potevano fare a meno. Anche se noi, secondo Giusto, non possiamo fare a meno dei Romani.

Forse l’ultimo passo laico da compiere consisterebbe nel rendere questa affermazione meno perentoria. Potremmo anche farne a meno, ma se proprio non possiamo, che almeno ce li raccontino bene, senza sovrapposizioni, senza attualizzazioni, complicati come erano.

Anche perché la prima persona a cui ho pensato leggendo il titolo del volume di Giusto Traina non è stata Totò, del cui latinorum pure sono appassionato e studioso. Oltretutto, leggendo di quell’Apuleio “mezzo numida, mezzo getulo” come non ricordare parte-nopeo, parte napoletano? No, ho pensato a Massimo Troisi. Che certamente avrebbe commentato: E sì, allora ne possiamo fare a più!

Montanelli, noi, la storia

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di Fabio Ciancone

Il dibattito sulla vicenda che ha coinvolto la statua e, di conseguenza, la figura di Indro Montanelli suscita molte domande e apre a molte possibilità di riflessione. Il mio scopo è quello di contribuire a questa riflessione, provando a mettere in luce alcuni elementi chiave e alcune fallacie, a mio parere, del dibattito in corso.

Ci si è molto interrogati e scontrati sul valore della storia e della memoria all’interno di una società, su cosa voglia dire ricordare e commemorare una figura celebre del passato di una nazione, se la memoria possa influire sul nostro agire quotidiano. Sembra dunque necessario partire da un’analisi (necessariamente parziale) del rapporto tra storia e collettività. Non spetta a me ricordare che non è possibile stabilire una versione definitiva del nostro passato: la storia è prima di tutto una narrazione e come ogni narrazione necessita di un narratore che, come ogni narratore, deve adottare per scrivere un punto di vista. Alla luce di questo bisognerebbe forse prendere coscienza del fatto che oggi narrazioni collettive univoche e universalmente accettate nel loro contesto di produzione, quindi anche la Storia come è spesso intesa, sono ormai pressoché impossibili. Stanno emergendo in maniera sempre più decisiva le voci di chi prima non aveva un ruolo attivo nella scrittura della storia: donne, minoranze etniche e religiose all’interno degli stati nazionali, intere aree del mondo. Lo stesso evento non sarà mai raccontato nella medesima versione da due parti contrapposte e sarebbe d’altronde irrealistico immaginare la possibilità di una pacificazione globale e di una perfetta sintesi dei fatti.

Mi sembra dunque di aver avvertito l’enorme difficoltà, da parte di chi si appella alla Storia per scongiurare la rimozione della statua, a prendere coscienza di questo policentrismo. Non sarà forse necessario ripensare i nostri modelli educativi?

Storicizzare, poi, è certamente un atto necessario a “prendere le distanze” da un evento: a pensarlo, ad analizzarlo, a modellarlo sui nostri schemi individuali e collettivi. È per questo che, da un lato, mettere questo momento di fervente lotta politica in relazione diretta con la storia è complesso e azzardato: si rischia di asservire la storia al dibattito, operazione del tutto antiscientifica e inutile da un punto di vista prettamente educativo. Dall’altro, nessun evento, neanche il più remoto, potrà mai essere neutro agli occhi di chi lo osserva e di chi lo studia: è per questo che si studia. Proprio in virtù di ciò ripensare il passato e la critica non è soltanto naturale, ma anche necessario.

Venendo a questioni meno generiche, è necessario porsi criticamente di fronte al personaggio Montanelli e al suo monumento. Senza l’intenzione di processare l’uomo, bisogna però riflettere sul senso politico di un monumento in suo onore. Come è stato detto da più parti, la statua intesa come oggetto fisico non è parlante, è solo, semmai, rappresentazione. Ogni oggetto dialoga con lo spazio che gli sta attorno e assume senso e valore anche in relazione a quello. Lo spazio pubblico è per definizione di tutti, e il “tutto” nella dimensione presente non è “critico”, una società nel suo complesso non può auto-commentarsi e staccarsi da sé: è semmai il conflitto tra le parti a generare il progresso. Attribuire dunque alla statua inserita in un luogo pubblico una funzione di analisi del passato è semplicemente impossibile. Diverso, invece, sarebbe collocarla in un contesto espositivo, in cui ciò è possibile. Mettere Montanelli in un museo e toglierlo dalla strada sarebbe, a mio parere, l’unico modo per contestualizzare la sua figura e renderla “storica”. Si potrebbe ribattere dicendo che anche lo spazio pubblico può essere pensato come espositivo, ma assumerebbe allora in automatico una funzione critica, che comunque non può prescindere dalla primaria dimensione collettiva.

Non ritengo corretto definire la rabbia dei manifestanti come furia iconoclasta o deriva autoritaria: la percepisco, piuttosto, come tentativo di appropriazione di qualcosa che spetta loro, cioè uno spazio. Non farà certamente piacere a un afroamericano passare tutte le mattine sotto la statua di un colonizzatore e sentirà inevitabilmente quel luogo meno proprio. Rimane certo un forte dubbio sulla possibilità di immaginare l’esistenza di uno spazio neutro o quella di neutralizzarlo. Ma è il conflitto, non la neutralità, ad essere alla base dell’evoluzione, e tutto ciò per cui combattiamo e che oggi ci sembra giusto e necessario sarà prima o poi superato.

È naturale inoltre che determinate figure storiche provochino reazioni differenti agli occhi di ciascuna persona: nessuno, nel XXI secolo, si sentirebbe minacciato nel proprio essere cittadino di Roma dalla statua di Augusto o cittadino francese da quella di Luigi XIV. La differenza è banale e sembra quasi superfluo ricordarlo: siamo toccati soltanto da chi, con le sue azioni o con le sue idee, appartiene ancora in maniera più o meno diretta al presente. Se esisteranno in futuro questioni complesse che hanno connessioni con il passato anche molto remoto, sarà dunque necessario sempre di più risalire fino alle più lontane origini del problema, immaginando un presente “a maglie larghe”, che con il passato dialoga fino al punto di svolta che sentiamo di dover combattere.

Mi preme chiudere, provocatoriamente, ponendo un quesito: non potrebbero forse queste manifestazioni rappresentare in futuro un evento storico di grandi dimensioni e, al loro pari, le azioni contro le statue? Riportare tutto allo status quo non sarebbe, oltre a un grave atto politico, anche un gesto che rischierebbe di cancellare la storia?

Impossessioni primitive secondo movimento,

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di Amandine André

traduzione di Fabiana Bartuccelli

(seguito da: In una stanza al buio tutti parlano)

 

Prima del neolitico piante animali e acqua darmi del tu e prima del neolitico aria sole e insetti permettermi in questo mondo passaggio e esistenza

Mi chiamo tesoro

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di Andreea Simionel

Maria bussa alla porta del bagno. Chi è?, chiede. Prova ad aprire, è chiusa a chiave. La signora delle pulizie è seduta sul cesso. Chi sono?, pensa. Maria non sa il suo nome. Per pulire, il nome non è necessario. Maria la chiama tesoro. Vuoi un caffè, tesoro? L’aspirapolvere è nell’armadio, tesoro. La signora delle pulizie, la testa fra le mani e i gomiti sulle cosce, apre la bocca per parlare: sono il tesoro e sono sul cesso e ho la diarrea, deve dire. Ma è troppo complicato e non risponde.

Stava pulendo la stanza da letto. Come sei gialla, tesoro, sei sicura di star bene? Sì sì, aveva risposto. Poi era corsa a chiudersi in bagno. Ha sempre odiato il modo in cui le sue viscere si rimescolano e il male arriva e si instaura e diventa più intenso ogni giorno, e odia quelle che dicono è naturale, non c’è niente di naturale, mica l’ha detto il medico, di stare così male.

Maria bussa più forte. Chi è?, chiede. La signora delle pulizie non sa se ha il permesso di cagare in casa sua e di avere le mestruazioni in casa sua e di essere gialla in casa sua e non risponde. Immagina Maria in piedi dietro la porta: è bassa e ha i capelli corti e grigi; va sempre dalla parrucchiera e gioca a Candy Crush. Per il resto non fa un cazzo, è in pensione. Il marito è morto da trent’anni e lei non si è più sposata, era amore vero. E non sta mai a casa sua, è troppo vuota, ma quando ci viene chiama tesoro per mandare via un po’ di polvere. Quest’anno ha deciso che non andrà in vacanza e con i soldi si comprerà un nuovo cellulare di ultima generazione per giocare a Candy Crush. Le poche volte in cui parla lo fa senza distogliere lo sguardo dallo schermo. La scala sta in balcone, tesoro, mi raccomando con quella cornice, tesoro.

L’odore nel bagno è orrendo. La signora delle pulizie chiude gli occhi. Sa che tra poco Maria tirerà su la testa dal cellulare e andrà a chiamare un vicino e insieme butteranno giù la porta e le cose si faranno più difficili e gialle di quanto già non siano e lei dovrà uscire. Ma non si muove, non risponde. Sono immortale, pensa. Gli attimi sono immobili e la porta disegna il confine tra il presente e il futuro, e lei, chiusa in bagno, è in grado di ritardare il futuro.

Non le è mai successo di voler fermare il tempo. Al mattino presto, quando si alza per andare al lavoro, immagina di stare in piedi in cima a una scala e di guardare davanti a sé la distesa del tempo che deve ancora svolgersi. Percorre uno scalino alla volta: solleva i soprammobili e spolvera sotto e li rimette al loro posto e pensa: due su tredici, fatto; cammina per strada da un posto all’altro e pensa: casa di Maria, una su tre, fatta. Non vede l’ora che la giornata finisca. E quando il tempo è più infinito del solito si consola: non è mai successo che un lunedì o un martedì o un mercoledì o un giovedì o un venerdì o un sabato non finissero, pensa, sono sempre finiti tutti, no? Allora anche questo. E le giornate si succedono e arrecano il male minore, anche se questo lavoro è il suo male più grande; non si tratta tanto della sveglia alle quattro e mezzo del mattino, o della melatonina che deve ricordarsi di prendere la sera e che le dà gli incubi, o della stanchezza che le appanna le giornate e le solca gli occhi, o del timer che scatta alle otto di sera per dirle che è tempo di andare a dormire, o delle urla e dei pianti quando il corpo non ha più filtri, o delle persone intorno che si fanno piccole (come stai?, come è andata oggi?) mentre la sua rabbia si fa immensa e le sovrasta (che cazzo ne so io, di come sto, levati dalle palle). Niente di tutto questo. Il male peggiore sono i giri dentro la testa. Lo spazio compreso tra le pareti della sua scatola cranica, che la contiene e la risucchia, e dentro cui cammina avanti e indietro per otto ore al giorno.

La signora delle pulizie non ricorda come sia finita a fare la signora delle pulizie. Prima del lavoro c’era la scuola e dopo la scuola c’era il lavoro. Del liceo le resta poco: qualche formula, niente si crea niente si distrugge tutto si trasforma, per due punti passa una e una sola retta; la camicia a quadretti azzurra dell’esaminatore che le chiede di prendere il libro con la poesia sul pozzo e la carrucola, e il dorso della sua mano alzata a fermarlo per dire no, non è necessario, me la ricordo; l’insegnante di italiano che fa su e giù per la classe tra la porta e la finestra con i Promessi Sposi aperti sui palmi e dice: Renzo è una persona intelligente, Renzo ha paura. Sulla strada per Milano, spiega, in mezzo alla rivolta del pane, al buio di notte nei boschi, mentre cerca il sentiero per attraversare il fiume, Renzo ha paura e non capisce, eppure parla a se stesso. Parlare da soli è un segno di intelligenza.

Anche la signora delle pulizie parla da sola al lavoro, mentre spazza o spolvera o sale gradini o scende gradini o lava vetri o pulisce l’ascensore, ma non le è mai successo di sentirsi intelligente. Si sente pericolosa. Delle volte si è interrotta e ha colto sul suo viso i resti di una smorfia o di un sorriso o le labbra aperte a pronunciare una parola senza suono, una volta anche una lacrima. Che stai facendo?, ha pensato. Ha portato la mano sulla bocca e sulla faccia e ha cancellato i segni sulla lavagna. La cosa più spaventosa non è ridere o piangere da sola, quanto essere in grado di farsi ridere o farsi piangere da sola. E più di una volta si è sentita osservata con la coda dell’occhio, si è vista rivolgere sorrisi anomali. Sei diventata pazza?, le ha chiesto un giorno una collega, mentre con i palmi sfregava il bastone, e in basso i piedi abili sfilavano un mocio o infilavano una scopa. La signora delle pulizie ha staccato le labbra secche, incollate per le ore di silenzio. Non ha saputo cosa rispondere. Dico per scherzo, eh, non te la prendere.

Ma più di una volta si è fatta piccola e ci ha provato: ti posso chiedere una cosa? Eh, dimmi. Ma tu che cosa pensi? In che senso? Voglio dire, a cosa pensi mentre lavori? Di nuovo il sorriso anomalo, lo sguardo da carnefice. A cosa penso mentre lavoro? Ma a niente!, ha riso la collega. Ha spalancato le braccia, il bastone in una mano e il secchio nell’altra. È il lavoro più bello del mondo! Non pen-so a nien-te.

Dietro la porta Maria alza e abbassa la maniglia. Chi c’è dentro?, chiede, c’è qualcuno sì o no?

La signora delle pulizie apre gli occhi. Ringrazia il mal di pancia e le mestruazioni, perché sul cesso non deve pensare. Allunga un dito sul muro e segue il percorso di calce tra una piastrella bianca e l’altra. Non conosce le strade che l’hanno portata dove la porteranno. Non sa se essere il sintomo o la malattia. Non sa il suo nome, mi chiamo tesoro. Allora le viene in mente: è uno sbaglio. La sveglia i soprammobili il mocio la melatonina il secchio blu con strizzatore blu il secchio rosso con strizzatore rosso le scale il tempo Candy Crush. È tutto sbagliato e se ne deve andare.

Si alza, tira lo sciacquone, si sistema. Apre la porta. Maria è in piedi con il cellulare in mano. Sul volto della signora delle pulizie i resti di un sorriso.

 

Sub-réel

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 di Sharon Vanoli

 

Realtà – le orche 

L’incubo è che esistono due mondi.
L’incubo è che esiste un solo mondo,
questo.
Susan Sontag – La coscienza imbrigliata al corpo.

 

Stamattina ho fatto un disegno ad acquerello. Mi interessava sperimentare l’acqua, allora ho dipinto una palude. Sul punto di finire, ho fermato la mano per controllare l’effetto. Il verde-azzurro della superficie era così placido, nella rarefazione, che non ho resistito al piacere di sbiadirlo ancora un po’. L’ho annacquato a lungo, con il pennello più grande che avevo, fino a quando il foglio si è ondulato e aveva un altro peso, a sollevarlo. L’ho lasciato seccare sopra al calorifero per tutto il giorno. Ora scricchiola; ma una pozza di colore è rimasta viva, al centro della palude, come una cavità evanescente. 
Ho sognato di entrarci dentro.
 
Nel sogno, mi sveglio di notte e faccio per scendere dal letto. Al posto delle piastrelle fredde, incontro con la punta delle dita un fondo cedevole. Sprofondo una gamba e poi l’altra, lentamente, nella melma. L’acqua mi arriva alle cosce, adesso; percepisco sulle piante dei piedi il tessuto vegetale sopra una roccia. È soffice, questo muschio, come velluto. Provo a camminare, ma scivolo e cado lungo la parete verticale della pietra, trovo il vuoto: sono in mezzo all’oceano. Il blu che mi circonda è assoluto, lo osservo e nuoto, accanto alle correnti dei pesci. C’è un grande movimento nero, in lontananza, che si agita e non riesco a decifrare: mi spingo in quella direzione.
In fila una accanto all’altra, decine di orche si tuffano in sincronia, sott’acqua – non si slanciano oltre la superficie. Poi tornano al punto di partenza, e ripetono.
“Noi danziamo”, pronunciano in coro.
“Non vi interessa mostrarvi al cielo?”, chiedo.
“Noi danziamo.”
“Ma vedete bene che c’è un altro mondo, là sopra.”
“Noi danziamo.”
Le lascio. Sto per procedere oltre, ma un frastuono mi trattiene. Un’orca, isolata vicino al fondo, si sta gettando con violenza contro la sabbia, come per conficcarsi all’interno. Ha il muso livido, gli occhi tumefatti. Mi avvicino per sfiorarle il dorso.
“Lasciala stare”, dice qualcuno alle mie spalle.
 
Visione – le tartarughe
 

La duplicazione dell’io nei sogni.
La duplicazione dell’io nell’arte.
Sontag.

 

Mi volto in cerca della voce. Di fronte a me, lunghe file di tartarughe sono schierate in forma quadra, sul fondale oceanico. Perfettamente equidistanti, tengono gli occhi socchiusi, come per concentrare la vista. Una soltanto, davanti a tutte, ha il muso ritratto nel carapace, solcato e più scuro degli altri.
“Lui è il saggio”, sento dire.
Riconosco la voce di prima: proviene dalle ultime file. Le vado incontro. Ha gli occhi già rivolti nella mia direzione quando la raggiungo. Con le palpebre curve, mi scruta senza sorpresa. Io sono impaziente:
“Che cosa faceva l’orca?”, chiedo.
La tartaruga guarda di fronte a sé.
“Fuggiva”, risponde piano.
“Da cosa?”
“Da se stessa.”
Io esito per qualche secondo, prima di rispondere:
“Credevo fossero felici di danzare per ammirarsi.”
“Non ammirano se stesse: non vedono niente.”
La tartaruga ruota il collo rigido di lato e torna a scrutarmi.
“L’orca che hai visto impazzire – prosegue – si è tuffata fuori dall’acqua.”
“Ha scoperto la realtà e ne ha avuto paura”, commento pronta.
Vedo i suoi occhi a fessura farsi ancora più stretti.
“Ha scoperto se stessa. – mi corregge – Alla fine del tuffo, prima di ricadere nell’oceano, si è vista riflessa sulla superficie. Siamo noi, la realtà.”
“E voi, voi che cosa fate qui in schiera?”
“Osserviamo.”
“E il vostro saggio, là davanti, perché si nasconde nel guscio? Forse soffre?”
“Lui non ha bisogno di osservare la realtà, per capire: vede ogni cosa dentro di sé.”
Ora avverto come un canto, un suono gutturale, che si solleva basso dalle loro gole. Chiudono gli occhi in segno di preghiera. Io supero la schiera geometrica dei carapaci e procedo oltre. Nuoto affondando le mani tra i filamenti molli delle alghe. Intravedo due piccole tartarughe, sulla sabbia, ormai lontane dal gruppo; camminano a fatica, sbilenche, scontrandosi l’una contro l’altra. Nuoto più svelta per portarmi al loro fianco. Piego il collo di lato per rimirarle: sussulto. Non hanno occhi, ma grumi neri e torbidi – occhi bruciati, da cui stilla un fluido denso e scuro. 
 
Creazione – il pescegatto
 

L’estetica: vivere simultaneamente in molti luoghi + in molti tempi.
Sontag.

 

Resto in sospensione in mezzo all’acqua, palpitante. Intanto le tartarughe proseguono con passo trascinato. Aspetto di calmarmi, poi riprendo a seguirle, tenendomi distante. C’è un luccichio vermiglio, in fondo al cammino che percorriamo: me ne arrivano i riflessi fluorescenti tra la densità del blu. Avanziamo, io e le tartarughe, in silenzio. Ora nuoto sopra ai loro corpi, sfioro con la pancia i loro gusci opachi. Avanziamo tutt’uno verso la luce rossa.
La fluorescenza appartiene ai coralli. Disposti uno accanto all’altro, su due file, decorano il sentiero che conduce alla dimora del pescegatto: è una boccia in vetro, depositata sul fondale; alghe e licheni si intrecciano sulle sue pareti e la ricoprono. Dall’ingresso semibuio viene a intermittenza un bagliore grigio-giallo. Lui ci aspetta dentro. Irrequieto, scivola da un lato all’altro della boccia, senza mai sostare. Ci sono altri coralli, all’interno, che accendono l’ambiente; anche il profilo del pescegatto – le pinne dorate, il corpo argentato – scaglia pezzi di luce sulle pareti. Nuota, nuota. Ma lo sguardo è sereno: mi aspettava. Osserva me, poi le tartarughe. Contrite e in disparte, piangono il loro liquido nero, che una volta in acqua è come vapore, pervade lo spazio. A contatto con la mia pelle si fa di nuovo fluido. Torno a palpitare, cerco lo sguardo del pescegatto.
“Le ho assistite fino a qui, conoscevano la strada. Che cosa puoi fare per loro?”
“Forse è troppo tardi.”
“Che cosa è successo ai loro occhi?”
“Il vecchio saggio le ha punite.”
“Perché?”
Il pescegatto non mi dà ascolto, cambia linea di movimento. Ora fluttua dall’interno all’esterno della boccia, senza tregua. Lo seguo a fatica, mi confondo.
“Perché lo fai?”, gli chiedo.
Lui sospende la sua corsa e mi fissa, ma è un istante e subito riprende.
“Il piacere sta sul confine”, risponde meditando.
“Sul confine?”
“Io non sono qui: sono sempre dentro e fuori.”
“Cosa vuoi dire?”
“Io non sono adesso: sono sempre prima e dopo.”
Arriva un lamento, dalle tartarughe. Le guardo: piangono e gemono. Di nuovo palpito.
“Perché il saggio le ha punite?”
“Perché non osservavano.”
“E cosa facevano?”
“Immaginavano, sognavano. Sono state impazienti.”
“Impazienti?”
“Di capire. Hanno tradito la verità per la visione: sono state brave. Ma sognare non è ancora creare.”
Io lo seguo con gli occhi, non rispondo. La mia pelle è sempre più nera, e sento freddo.
Il pescegatto sembra riflettere. Solleva lo sguardo verso i licheni sopra la boccia, poi aggiunge:
“Forse qualcosa è ancora possibile. Insegnerò loro a poetare. Non c’è bisogno di occhi per questo.”
“A poetare?”
“È ciò che desiderano: vivere di sogno.”
“Io non capisco.”
“Sognare non è ancora creare”, dice di nuovo.
“E tu, pescegatto, che cosa crei?”
“Creo me stesso.”
“Sento freddo, pescegatto.”
“Ti stai svegliando.”
Ho l’impressione che la sua coda stia cambiando colore: non è più d’oro, è rossa. Rosso pallido, sempre più pallido. Ora mi sembra che tutto il suo corpo stia sbiadendo, e perda consistenza. Intravedo i coralli sul fondo della boccia, attraverso le sue squame. Sto per dirglielo, ma i gemiti delle tartarughe mi richiamano. Le guardo, guardo me: il nero scorre lungo la mia pelle e lascia macchie, come d’inchiostro.
“Sento molto freddo, pescegatto.”
“Sognare non è ancora creare.”
Lo dice con voce debole. Improvvisamente si calma, pare stanco. È sempre più diafano. Lo vedo ondeggiare fino ai coralli rossi, afflosciarsi di fronte a loro. Da terra mi osserva per l’ultima volta, sorride. Poi chiude gli occhi e riposa. Faccio in tempo a vederlo scomparire, farsi corallo tra i coralli, prima di perdere la vista.
Tra il sonno e la veglia precipito a testa in giù dall’oceano alla palude. Gli occhi chiusi, le mani sopra gli occhi – versano scie di liquido nero.
Poi esco dall’acqua fangosa e li apro.

“Soleil grigri” (2/4): da “Cardine Kinski”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil griri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla seconda sezione del libro, Cardine Kinski. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, La primavera torna indietro e Salut, voilà].