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“Ho tanta” voglia di fare la rivoluzione. The lost Generation

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La conversazione

effeffe discute con Adolfo Scotto di Luzio del suo libro:

Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi

 

 

 

In Charlie Hebdo c’è una rubrica molto famosa che s’intitola «les couvertures auxquelles vous avez échappé» dove sono raccolte le copertine della rivista scartate dalla redazione. Mi riveleresti i tre titoli alternativi a quello che avete deciso alla fine per questa tua ballata degli anni ottanta? Groviglio o pasticciaccio?

Il libro ha preso forma sotto un titolo che mi sono portato appresso dalla fine degli anni novanta e che si riferiva ad un progetto mai realizzato, uno di quei progetti attorno al quale mi sono arrovellato così a lungo per poi accorgermi che non mi apparteneva più. Alla fine è rimasto come intestazione della cartella di lavoro del mio computer. Ne sopravvive una traccia nel sottotitolo: nati troppo tardi. Un tema post rivoluzionario, nel senso letterale del termine, legato alla memoria della Rivoluzione francese. Si trova in Carrion Nisas nel 1820, come privilegio della nascita tardiva, di cui avevo letto in un bel saggio di Sergio Luzzatto sui giovani ribelli e rivoluzionari. Il tema attraversa tutto l’Ottocento e, nel caso italiano, approda alla critica post risorgimentale dei molti “delusi” della rivoluzione nazionale. Uno di questi era Luigi Bertelli, il padre di Gianburrasca. A partire da qui, volevo scrivere una storia che non ho mai scritto. Il libro è nato (è proprio il caso di dirlo), quando mi sono liberato di questa idea iniziale. Ci ho messo vent’anni. Un altro titolo, decisamente più brutto, era Generazione ottanta. Una storia sentimentale. Ma questo me lo sono bocciato da solo. Alla fine si è trattato di scegliere tra “labirinto” e “groviglio”. Nel groviglio c’era una concretezza che non mi dispiaceva.

Com’è nata l’idea dell’immagine in copertina?

Ha scelto l’editore e devo dire è stata una scelta particolarmente azzeccata. Perfetta. È un particolare della casa di Giulietta a Verona. Mai tema fu più legato alla sentimentalità del decennio. Tra Romeo and Juliet dei Dire Straits e la Verona beach di Leonardo di Caprio si svolge un bel pezzo della storia della generazione.

A proposito di icone devo confessarti che quando mi sono chiesto quale immagine potesse rappresentare “i nostri anni ottanta” con la stessa trasparenza/opacità della foto dell’autonomo in via manzoni a Milano, (vd il bellissimo capitolo il ritorno dell’eroe) me ne sono venute in mente diverse, Pertini che alza la coppa del mondo, Mstislav Rostropovich che suona il violoncello davanti al muro di Berlino, Live Aid, lo studente cinese, Tank Man, che blocca i carri armati a Tiananmen. o più semplicemente il cubo di Rubik. Tu quale sceglieresti? E perché non farne una copertina?

Pertini disegnato da Andrea Pazienza. Era affettuoso e protettivo. Un vecchio pronto a comprenderti e a consolarti. È una copertina possibile.

C’è un passaggio in cui citi Buffalo Bill di Francesco De Gregori, canzone che apriva una lunga intervista rilasciata il 12 maggio dell’80 a Mixer. Mixer ebbe un ruolo importante nella “cronaca” di quegli anni di cui parli. Di De Gregori a me è rimasta in testa da quando la sentii per la prima volta, questa sua risposta a un giornalista che gli chiedeva del riflusso. Questa è una camicia, questi sono pantaloni, queste sono scarpe. voglio sapere dov’è il riflusso. Tu cosa avresti risposto?

Io che avrei risposto? Non avrei saputo rispondere. Non così, sicuramente. Anche perché sentivamo che il riflusso era ovunque e che dovevamo contrastarlo con tutto noi stessi. Sono cambiate le cose? Non credo, se pensi che il primo movimento studentesco del ventunesimo secolo da noi prese il nome di onda. Il riflusso è una parola dell’ingegneria, della chimica, della medicina. Poi diventa una parola politica. In questa accezione è una metafora. Dunque appartiene ad una dimensione del linguaggio in cui l’attenzione viene spostata da quello che si vuole significare a quello per mezzo del quale la cosa viene significata. Si allude e non si dice. O meglio,si dice alludendo. Praticamente una trappola, in cui siamo finiti un po’ tutti. Parlando del mare, il riflusso è la bassa marea. La Treccani, con riferimento all’accezione economica e politica, specialmente del linguaggio giornalistico, dà, a proposito del significato di disimpegno conseguente alla caduta delle grandi tensioni politiche e sociali, di aspettative deluse, connesso alla parola “riflusso” intesa in questa accezione politica il seguente esempio: il riflusso (nel privato) dopo il ’68, degli anni ’80 del Novecento. Il 1980 è l’anno del riflusso. La parola comincia a comparire in questo significato tra il 1978 e il 1979. John Travolta e la Febbre del sabato sera sono figure del riflusso. Il riflusso è dunque andare a ballare. Il riflusso sono anche i sentimenti, le cotte adolescenziali, l’amore. La Boum, Il tempo delle mele e così di seguito. Riflusso è lo sport, ma anche il Nome della rosa di Umberto Eco, che scrive un giallo ambientato nel Medioevo talmente zeppo di storia e filosofia che personalmente ci preparai una parte del mio esame di storia medievale all’ Università. Ma riflusso è anche l’intuizione di Pier Vittorio Tondelli che dentro ciascun individuo abita l’autore di un romanzo e a maggior ragione in un adolescente. Di qui l’idea di Under 25, l’inchiesta su giovani e scrittura letteraria, che propone un nuovo modello al rapporto intergenerazionale: il fratello maggiore diventa l’esperto del mestiere; crescere è un apprendistato, non più della vita bensì del mestiere appunto della scrittura. Il mondo è una questione di competenza. Vince chi conosce la professione. Il riflusso gravava sulla nostra generazione come un giudizio morale. Eravamo la generazione del riflusso come se fosse colpa nostra. Abbiamo perciò atteso il nostro turno come un riscatto. Perché il riflusso resta legato all’idea di ciclo. Onda, riflusso, nuova onda. Dunque, noi abbiamo atteso l’onda. Questa ripoliticizzazione della parola, tuttavia, non sposta di molto la questione. Si resta comunque prigionieri della metafora. Qualche anno fa le edizioni del Manifesto hanno mandato in libreria un libro dal titolo quanto mai altri sintomatico: C’era un’ Onda chiamata Pantera. Se dovessi rispondere oggi, direi: non c’è riflusso, ci sono solo sconfitte. Gli anni ottanta sono cominciati con una sconfitta, o meglio a partire da una sconfitta. Una sconfitta in due tempi: primo, il 1976-1978; secondo, la marcia dei quarantamila. Sul piano globale, come si dice oggi, la Thatcher e poi Reagan. Dopo che si poteva fare?

Il 1989 segna la fine della Domenica del Corriere. Che si trasformerà in Visto.  La storia abbandona le masse trasformandosi in cronaca rosa e nera. L’abito diventa costume. Del resto Guy Debord ci aveva messo in guardia almeno due decenni prima della trappola della grande festa. Dalla Domenica del Corriere alla Domenica delle Salme di De André. Quel videoclip girato da Salvatores – sicuramente un regista sul pezzo degli anni ottanta e novanta – è un po`il manifesto della fine delle ideologie di cui parli tu. Della catena di trasmissione che si inceppa nel passaggio da padri a figli e che si ricostituisce con i nipoti. Pensa per esempio a come nel film Terra e libertà di Ken Loach, l’eroe inglese delle Brigate Internazionali David Carr rivive grazie alle ricerche di sua nipote.

 

Sarebbe bello se fosse così, se per così dire si potesse saltare una generazione, con i nipoti che vanno a cercare dai nonni le risposte che padri e madri non sono in grado di dare loro. Se fosse così, sarebbe come è sempre andata in fondo. Ma dubito che vada così. Bisognerebbe però fermarsi su questo incepparsi della catena della trasmissione generazionale al passaggio degli anni Ottanta, perché lì stanno molte cose che ci riguardano, la politica, la scuola, l’educazione.  Una immagine troppo corriva del Sessantotto enfatizza il conflitto edipico: i figli che si ribellano ai padri. In realtà il Sessantotto è zeppo di passato e in particolare fitto di rapporti intergenerazionali. Senza questo passato, senza i maestri, non ci sarebbe stata la rivolta. La solitudine dei giovani degli anni Ottanta è invece pressoché totale. Abbiamo lavorato con poco.

Adesso ti propongo dei passaggi del tuo libro a cui seguono delle domande specifiche.

La fine dell’adolescenza, scrive Péguy, è l’inizio dell’apprendistato. Ed è questo il momento in cui gli anziani del mestiere, e i migliori tra essi, si fanno «maestri» dei piú giovani. Questa relazione, come tutte le relazioni educative degne di questo nome, non ha per fine la trasmissione del mestiere ma l’abilitazione nell’apprendista della capacità di fare da solo: fare in modo il più presto possibile che i giovani diventino bravi operai cosí da non avere più bisogno di alcun maestro. E i maestri, aggiunge Péguy, non sono mai cosí felici come quando i loro apprendisti diventano migliori di loro, sono i maestri e non i rivali dei loro giovani allievi. È in questo che consiste il dovere del fratello maggiore. È questo il valore rivoluzionario della fratellanza.
Riunione TQ, Roma 29 aprile 2011, sede Laterza. Nella foto da nord a sud, Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Antonio Scurati.

C’è come il tradimento di tale valore, nei fatti ,dei fratelli maggiori ed è un sentimento che attraversa un po’ tutto il libro. Quando una decina di anni fa c’è stato il movimento TQ, (lo avevi seguito?) nel manifesto redatto per lo più da trentenni (Raimo, Lagioia, Vasta, Cortellessa) era questione dei padri (generazione ’68) e dei figli. Io che ne facevo parte come fuori quota ebbi chiara come mai questa tua percezione, ovvero che la nostra generazione brevissima (leva calcistica 66-73) fosse stata bypassata dalla storia. I nostri fratelli maggiori erano diventati padri e quelli minori figli. Ti va come traccia?

Avevo seguito il lavoro di TQ da lontano. Ho letto i suoi manifesti, il primo più lungo e impegnativo e i due successivi su editoria e spazi pubblici. Poi basta, non saprei se hanno prodotto poi altro. Intanto siamo tutti invecchiati e quella prospettiva Trenta-Quaranta che corrispondeva ad un dato anagrafico all’inizio degli anni Dieci è stata superata dal mero scorrere del tempo. Ognuno ha fatto carriera a modo suo e oggi la posizione di chi si sente tagliato fuori riguarda altri, non certo quella generazione. Ma si può costruire una posizione pubblica sulla base di un sentimento di esclusione? Non mi ha mai convinto TQ. C’era nel suo modo di definirsi un tanto di corporativo che mi disturbava. Già il definirsi “lavoratori della conoscenza” e la pretesa muoversi sulla base di una “concezione operativa della cultura”, a parte il tono buro-sociologico che è una vera e propria sventura di certi ambienti intellettuali, tradiva un’intenzione poco chiara. Per certi versi quel documento sembra una deliberazione congressuale della CGIL scuola, che mi pare si sia rinominata come Federazione dei lavoratori della conoscenza. A dispetto della richiesta di confronto, quei manifesti contenevano piuttosto scoperta una richiesta di associazione. Era il loro uno spazio pubblico concepito privatisticamente, a partire da una rivendicazione di specifico professionale e quel tanto di orgoglio giacobino nella formulazione stentorea di “siamo cittadini” mi pare contraddetto nei fatti di un’argomentazione che ha altri presupposti. Non si capiva bene, per la verità, nemmeno su che base dovesse avvenire il confronto con i propri maggiori. Che non venivano nemmeno esplicitamente individuati, essenso scontato per tutti che fossero latamente dei “sessantottini”. Si dava perciò per scontato che i fratelli maggiori avevano fatto degli errori. Ma questo è un modo di procedere per assunti. Non c’era nessun serio tentativo di fare i conti con quegli eventuali errori. Quali fossero, chi li avesse commessi e in quale contesto non era dato saperlo. Insomma, come al solito si restava sulla soglia di una enunciazione puramente metodologica. Di fatto di quel gruppo, i più noti e combattivi hanno fatto quello che volevano, legittimamente, ma non hanno costruito nessuna “posizione pubblica”. Tutto il loro impegno si è svolto sul piano privato della professione.

Mentre vero era il tema dell’interruzione del legame generazionale. A chi guarda agli anni Ottanta da una certa distanza non può sfuggire come le occasioni e le condizioni di dialogo si interrompano bruscamente. Non ci sono più luoghi, non ci sono più temi. Manca l’audacia di proporne di nuovi. Manca innanzitutto la preparazione culturale per individuarli e discuterli. Io insisto su questo, non si può lamentare la crisi della scuola pubblica se ci si ostina a cogliere questa crisi, diciamo così, sul terreno del welfare e della mobilità sociale. Non che questo non sia vero, ma la difficoltà della generazione è innanzitutto legata alla disarticolazione dei linguaggi culturali e con questo il crollo delle ideologie, il tramonto del marxismo, c’entrano solo fino ad un certo punto. Altrettanto e forse più decisivo è l’atteggiamento generale della generazione nei confronti della comprensione del mondo attraverso strumenti intellettuali. Il sessantotto non è mica nato dalla spinta soggettiva dei sessantottini. Scuola, università, editoria, per non parlare di alcune componenti che attengono alla sfera dei rapporti morali, a cominciare da una certa disciplina giovanile. Dopo è stato tutto un gran casino, ma l’operaismo italiano in tanto ha esercitato un ruolo in quanto era innanzitutto una disciplina. Dopo, invece, questo ce lo siamo voluti dimenticare e l’accento è stato messo solo sulle pratiche controculturali, ma su queste basi nessuno mai ha imparato niente. Sarebbe stato un bel tema questo per la generazione TQ, a partire dal quale tra l’altro si sarebbe potuto impostare in modo più rigoroso e meno vago il problema del rapporto generazionale che è anche un rapporto di allievi e maestri. Non mi risulta che sia mai stato all’ordine del giorno della parte pensosa della generazione Trenta Quaranta.

Il Risorgimento, il Fascismo, la Resistenza e la Repubblica, persino il Sessantotto, guardati al di là della frattura che separa la fine degli anni Ottanta dai due decenni precedenti stanno tutti sullo stesso piano come una terra remota, e diventano altrettante illustrazioni possibili della figura della estraneità. culturale.

Questo passaggio del libro riassume un po’ il piano dell’opera. Mi ha fatto pensare per esempio al film di Mario Martone, noi credevamo, in cui è tangibile la trasposizione temporale degli ideali e comportamenti giovanili degli anni settanta all’epoca del RIsorgimento. Mazzini al cuore della congiura dipinto come un cattivo maestro alla stregua di Toni Negri. Una domanda, perché in Italia non c’è mai stata un’amnsitia per gli anni di piombo?

La questione è, come si dice, complessa e riguarda la storia d’Italia e non semplicemente gli “anni di piombo”. E in modo particolare investe in pieno il significato dell’esperienza repubblicana dal 1945 in poi. Innanzitutto la formula “Anni di piombo”. Come è noto è un film che l’ha imposto alla rappresentazione del passaggio ’70-’80. La prima questione è la seguente: può il fenomeno di cui stiamo parlando, la violenza politica, restare confinato nel perimetro cronologico definito da quella formula? O, come d’altronde suggerisce lo stesso riferimento al film di Martone, non siamo di fronte, parliamo naturalmente del caso italiano, ad un fenomeno come anche in questo caso usa dire di “lunga durata”? Seconda questione: che giudizio dare dell’esperienza democratico-repubblicana? Siamo stati, nella seconda metà del Novecento, un paese di trame, non tutte vere certo, ma alcune molto ma molto verosimili. Eravamo un paese nel cuore del conflitto geopolitico e sul nostro terreno si sono confrontati tutti i protagonisti e i comprimari della guerra fredda. Se però guardiamo alla nostra storia post seconda guerra mondiale nel contesto geografico delle nazioni vicine, ebbene non possiamo non notare che al di qua della cortina di ferro, siamo stati anche l’unico paese mediterraneo, insieme alla Francia, che non ha dovuto subire l’oltraggio di una dittatura di destra o esplicitamente neofascista. E questo pure conta qualcosa.

Dai due quesiti e dalle considerazioni che vi sono legate discendono alcune conseguenze sulle quali conviene riflettere: primo, gli anni di piombo non sono il modo più perspicuo di inquadrare il problema del rapporto tra storia d’Italia e violenza politica; che al di là dell’esperienza vera e propria della lotta armata (che diamo per scontato, tra l’altro, essere solo quella delle formazioni marxiste-leniniste), esiste un problema più ampio di profonda legittimazione della violenza come forza storica agente nella formazione della moderna Italia politica: il brigatista sta al termine di una storia che comincia con il volontarismo risorgimentale, attraverso la mediazione della resistenza. Questo non vuol dire che il brigatista è un patriota, ma che il mito della rivoluzione è un elemento costitutivo del codice genetico della nostra identità storico culturale. La seconda questione che vorrei mettere in evidenza riguarda il valore della nostra esperienza democratica. La guerra civile, indipendentemente dal valore da attribuire a questa formula a cominciare dalla pertinenza della sua applicazione alla vicenda degli anni Settanta, intanto è legittima in quanto condividiamo uno stereotipo negativo di quella che ho appunto definito la nostra esperienza repubblicana e democratica. Se l’Italia repubblicana non è altro che un prolungamento dello Stato fascista che sopravvive alla frattura della resistenza e si riproduce in una serie infinita di trame nere e nerissime, allora la repubblica è illegittima, la lotta armata necessaria, la pacificazione giustificata. Ma veramente la nostra esperienza democratica è così pessima? Nella storia non esiste il bianco e il nero. Nel quadro molto difficile del mediterraneo della guerra fredda non siamo stati la Spagna franchista, né la Grecia dei colonnelli. Dovremmo considerare anche questo nella interpretazione complessiva degli “anni di piombo”. Nessuna democrazia ha dovuto subire un assalto di quella portata. L’Italia non è venuta meno alla fedeltà alle sue istituzioni democratico-repubblicane. Per me questo è molto importante sia come cittadino, che come studioso.

Certo sono anche consapevole di un’altra questione: come portarsi appresso sulla scorta delle riflessioni appena fatte il mito della rivoluzione? A mio avviso questa cosa non è possibile senza pensare contemporaneamente il “moderno principe”, senza cioè un’idea dell’egemonia. In questo resto un allievo di Antonio Gramsci (con buona pace di Negri e del Settantasette)

C’è una vera e propria colonna sonora che fa da tappeto alla tua narrazione. Un tapis roulant in cui ogni fase di ogni epoca sceglie i propri cantori. Se il cantautorato è passato dagli anni settanta agli ottanta abbastanza indenne: De Gregori, Guccini, De André solo per citarne alcuni, ho l’impressione che i nostri coetanei  siano arrivati sulla scena solo negli anni novanta: 99 Posse, Alma Megretta, Assalti frontali, Sud Sound Sistem,  Con il senno di poi, se penso agli anni duemila, ho trovato molto della nostra lost generation in Daniele Silvestri, Carmen Consoli, Max Gazzé. Del primo nostro coetaneo ricorderai il concerto “Cose che abbiamo in comune”.

Certo, le cose che abbiamo in comune le canto da sempre, da quando mi hai detto “ma dai, pure tu sei degli anni ’60”. È la grande questione della nostra generazione. Perché i suoi mitopoieti sono rimasti così profondamente legati agli anni Sessanta. SIamo nati negli anni Sessanta, alla fine, e i più giovani all’inizio del decennio successivo, ma siamo cresciuti nella grande ombra proiettata dal decennio ribelle, quello dell’ orda d’oro codificata da Nanni Balestrini e Primo Moroni. Lì sta il paradigma del giovane come forma di vita. In realtà entrambi i modelli, l’originale e il derivato, non sono altro che l’estremo prolungamento dell’arco della cultura romantica nel pieno, estremo, Novecento. Semmai è prendere atto di una frattura, di una interruzione della tradizione a cui il Sessantotto aveva dato un nuovo, straordinario, impulso. Quando si è prodotta questa discontinuità, dove dobbiamo collocarla cronologicamente e dunque quali sono le sue coordinate storico-culturali. Il Sessantotto ha usato elementi romantici per dare forma ad una figura che era maturata lentamente a partire dalla fine dell’ Ottocento e che la fine della seconda guerra mondiale aveva trasformato in un nuovo protagonista della società occidentale: l’adolescente. È agli anni Ottanta-Novanta del diciannovesimo secolo che risalgono i primi tentativi da parte delle scienze sociali, psicologia in testa, di decifrare una figura che le trasformazioni della società industriale ritagliavano in forme nuove nello svolgimento lineare delle età della vita. La rivoluzione francese, come brillantemente mostrato da Franco Moretti nel suo Romanzo di formazione, aveva fatto emergere il giovane come forma simbolica del moderno. L’ultimo ottocento conosce l’adolescente come forma simbolica delle classi pericolose. La cultura romantica ha contribuito a rivestire questa figura di un’aspirazione alla ricostruzione della vita su basi rinnovate che il Sessantotto ha fatto propria, contribuendo da parte sua a rilanciarla nell’ultimo quarto del XX secolo. Bisogna prendere atto che questo ciclo è finito e che l’adolescente è oggi una figura sempre più sbiadita culturalmente. Vi contribuiscono in particolare la delegittimazione dei processi formativi, quella che chiamiamo di solito la crisi della scuola, della scuola secondaria come terreno di coltivazione dell’adolescenza, è la disoccupazione strutturale di massa che da quarant’anni ha trasformato il lavoro in un’ ossessione e ha finito per esercitare una pressione vittoriosa nell’attrarre la giovinezza, età sognante e dei dubbi sistematici, sul terreno pratico operativo della professione.

A proposito dei maestri, io ho sentito nel tuo lavoro l’eco della “scuola napoletana” che va da Vico e giunge a Macry e Barbagallo. Una scuola per certi versi molto vicina a quella degli annales francesi.

Non c’è nessun legame tra passato e presente nella cultura accademica napoletana. La tradizione si è interrotta con Benedetto Croce e la nuova generazione ha preso, giustamente, altre strade. In mezzo ci sono stati i francesi, come giustamente ricordi. Ho davanti a me un libro di Fernand Braudel, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, così importante per il ripensamento di categorie centrali del discorso storico sull’Italia e sulla fine del suo primato nella prima età moderna. Ebbene, se sfoglio le pagine di questo libro, verso la fine, mi imbatto nel paragrafo del capitolo sul bilancio da fare della transizione 1633-1650, intitolato “Spiegare il caso di Napoli”. Fin dal primo capoverso chi legge, si imbatte in un elenco di autori “recenti”, tra i quali compaiono autori e professori della Federico II, a cominciare da Villani. Se richiamo alla memoria il ventenne che ero quando leggevo queste pagine, mi ricordo lo stupore, il fascino di muovermi in un mondo intrecciato di legami intellettuali prestigiosi e rilevanti. Non ero allievo di Villani, ho studiato con Aurelio Lepre, nei nostri anni Giuseppe Galasso non insegnava, era un politico di livello nazionale, personalmente l’ho incontrato molto dopo, ma c’era Ettore Lepore (e naturalmente tanti altri). Lepore teneva un piccolissimo seminario di Storia della storiografia (accanto al suo magistero di antichista). Lui sceglieva un autore, ne introduceva l’opera in un paio di lezioni, per il resto toccava a noi. Lettura e commento di un classico della storiografia o della sociologia otto-novecentesca, pagina per pagina. Prendeva diligentemente appunti. Sono conservati in attesa che qualcuno decida di custodirli come si deve, con il rispetto istituzionale obbligatorio nei confronti di un maestro di quella levatura, decine di taccuini che sono il prezioso documento di un modo di fare scuola. Negli anni si succedono i nomi e le osservazioni di studenti che sono diventati poi studiosi, professori universitari. Questa è stata la nostra università. Forse non c’erano più maestri, gli stessi professori che abbiamo incontrato non si sentivano autorizzati a considerarsi tali, ma abbiamo studiato con passione, con la profonda convinzione che quello che capivamo fosse un modo di condurre su altre basi una battaglia politica. La rivoluzione, per dirla in altro modo, per noi era un modo di continuare lo sforzo di penetrazione intellettuale della realtà. Se non si capisce questo, non si capisce niente dell’ultima generazione novecentesca, Pantera compresa.

Muoversi a partire dalla fine, senza perdere coscienza del modo in cui la fine si è prodotta, significa non accettare nessuna ipotesi riconciliativa sul passato, ma fare attenzione ai modi effettivi di esercizio del potere culturale nella società. Chi secondo te ha tentato e tenta quest’ipotesi riconciliativa?

Il discorso sull’eredità del Sessantotto resta largamente tributario di forme di rappresentazione autobiografiche. Non sorprende, chi è stato nel cuore degli eventi ne porta segni profondi nella memoria. Ma che dobbiamo fare noi che non abbiamo incrociato accadimenti significativi e che pure di questa assenza di una impresa abbiamo portato un segno altrettanto indelebile? Siamo stati iscritti d’ufficio all’interno di uno spazio dell’esperienza definito come “riflusso”, “ritorno del privato” e così via. Sembra che alla nostra generazione non restasse altra via che il racconto di una vicenda personale irrisolta, balbettante, indecisa. Io invece ho voluto raccontare gli anni Ottanta, l’ho voluto fare con gli strumenti dello storico, ho frequentato archivi, biblioteche, sfogliato giornali, ascoltato musica e rivisto film. Sono entrato nella carriera accademica molti anni fa con una tesi di dottorato dedicata alla storia dell’apparato culturale del fascismo attraverso un angolo visuale molto particolare, quello dei libri per l’infanzia e della politica della lettura. Mi pare di aver scoperto un conflitto nella sfera della ricezione a cui altri storici non avevano fatto caso. Quando si parla di cultura fascista si assume la rappresentazione totalitaria che il fascismo produce di sé, descrivendo l’apparato culturale in tutta la sua imponenza, secondo quanto il fascismo stesso ha voluto tramandare. Io seguii all’epoca un’altra strada. Mi interessai al lettore e considerai gli scrittori di libri per bambini a loro volta come dei lettori.

Di qui l’idea dell'”appropriazione imperfetta”, la constatazione cioè di un limite che il fascismo nella sua pretesa di inquadrare totalitariamente la società italiana non riuscì mai a valicare. Feci tesoro della lezione di Asor Rosa e la trasferì su un terreno che nessuno aveva pensato di arare. Con questo libro ho fatto lo stesso. Sono partito da un profondo scetticismo nei confronti della rappresentazione dominante degli anni Ottanta e mi sono chiesto: chi sono i protagonisti del racconto del riflusso? Non certo noi che il Sessantotto non l’avevamo fatto, che al limite ci eravamo nati. Di conseguenza, come apparivano gli anni Ottanta guardati non da quelli che negli anni Ottanta cominciavano ad invecchiare, ma dal punto di vista di coloro che nel decennio cominciavano appena ad affacciarsi alla vita pubblica?

Concependo e scrivendo questo libro non potevo certo fare finta di niente, dovevo tenere conto del fatto che io c’ero e degli anni Ottanta, già allora, avevo un’idea precisa, come di una terra d’esilio. Di qui la necessità di una scrittura che al tempo stesso cercasse di oggettivare la propria materia senza però fare, appunto, finta di niente. Ci sono riuscito? Lo diranno i lettori. Il punto è che una posizione del genere, inevitabilmente anfibia, tra rigetto programmatico della rappresentazione del decennio come “privato” e vibrazioni fatalmente personali dell’organo della scrittura a contatto con cose così vicine, deve fare i conti con questioni come nostalgia, rimpianto, dolore. Si può tornare sul passato, su un passato così intimamente legato alla propria formazione, senza per questo indulgere in atteggiamenti di autobiografismo compiaciuto o di luttuoso monocorde rifiuto come succede a tante rappresentazioni del paese mancato. Si può, ed è questa la proposta del libro, fare di questo passato, con tutta la consapevolezza intellettuale della frattura intercorsa nel frattempo, una postazione da cui guardare al presente in modo conflittuale, per sottrarre questa volta il presente al suo compiaciuto sentimento di “bastare a sé stesso”. Nessun presente, mai nella storia, è “bastato a sé stesso”. Che lo voglia o no, è il risultato del passato e assumere conoscitivamente il passato è un modo per sottrarre alle forze attualmente dominanti la propria sicumera. Io non conosco un altro modo di combattere.

Concluderei a questo punto con un interrogativo che ponevi in una discussione di gruppo qualche tempo fa.

Ma qui si apre un altro problema: potevamo fare quel che realmente volevamo fare, stare insieme, provare entusiasmo, senza illuderci di fare quello che era comunque impossibile fare? Questione: è possibile vivere senza rivoluzione?

È il cuore del libro. Bisogna arrivarci. La rivoluzione è stata la nostra forma.

 

 

 

 

Love story board

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L’altro amore

di

Maria Luisa Putti

illustrazioni di Francesca Putti

 

 

 

 

C’è un luogo oscuro dell’anima in cui i sogni sono inghiottiti dalla paura. È lì che finisce l’amore. Volevo partire. Nulla mi tratteneva. Sentivo il caldo dell’isola come una prigione. Invadeva il mio respiro.

 

 

Senza dire niente a nessuno salii su un treno, poi su un aereo, su un altro treno e così di seguito, finché non mi resi conto che non c’era scampo dai pensieri.

 

 

Mi fermai in un paesino dal nome straniero. Affittai una casa sul lago. I pavimenti di legno e un pianoforte al centro del salone. Non suonavo da settimane e guardavo la tastiera come una nemica. Mi era ostile.

 

 

La musica era stata il mio inganno: promesse mai mantenute, ore spese a cercare ossessivamente quel suono. E il pensiero di lei, che avevo mandato via.

 

 

Scesi in strada; l’odore di roba da mangiare, i gas di scarico, il profumo dei fiori mi stordirono. C’erano donne che lavavano i piatti sui marciapiedi e bambini in bicicletta.

 

 

Entrai nel mercato pieno di colori e di rumori. Presi del riso e mi lasciai convincere da una ragazzina bruna che vendeva ogni tipo di spezia a comprare cose che non avrei usato mai.

 

 

Al banco accanto al suo, un uomo esponeva collane e anelli di argento lavorato come un ricamo. C’era un bracciale, di quelli alla schiava. D’un tratto pensai alle sue mani, i polsi sottili, la pelle dorata d’estate: avrei voluto vederglielo addosso.

 

 

Le dissi che l’amore non basta: «Forse può bastare ai ragazzini, ma noi, con l’amore, dove credi che andremo?» Lei mi guardò con i suoi occhi smarriti e increduli. Poi si voltò e uscì dalla stanza.

 

 

In quel momento mi sentii quasi sollevato: ero libero. Ora vorrei che fosse di nuovo accanto a me, ma non la so cercare.

 

 

La casa dei miei genitori affacciava sul mare, e quand’ero bambino, d’inverno, seduto al pianoforte, mi incantavo a guardare dalla finestra le onde infrangersi sugli scogli: il rumore della risacca mi teneva compagnia.

 

 

D’estate invece vedevo i compagni tuffarsi e giocare, ridere felici senza pensieri e avrei voluto raggiungerli, sentirmi anch’io leggero. Ma in me c’era una voce che mi chiamava:«Vieni qui, non la senti questa musica? Non senti com’è bella? Vieni a suonare!». Il metronomo era come un soldatino che per mano mi conduceva lungo la strada che avrei seguitato a scegliere, la sentinella che vegliava sui miei desideri di ragazzo. Non seppi mai tradire quella voce; non volli farlo mai.

 

 

Aggredii la tastiera con rabbia. Le note correvano veloci. Ero solo. Non pensavo a niente. D’improvviso però i ricordi si insinuarono.

 

 

Lei indossava un vestito leggero, di un azzurro chiaro, con tanti fiorellini bianchi simili a piccole campanule. Con un dito tracciava il percorso di un viaggio immaginario: «Dovremmo andarci in macchina, o in moto». «Sogni troppo».«Ma i sogni vanno fatti in grande! Ci pensa la realtà a ridimensionarli!».

 

 

Imboccai una strada piena di vento, l’oceano mandava il profumo del mare, l’immagine vista mille volte di gente che arriva a ondate, fuggita da chissà dove, per provare a vivere.

 

 

Camminai finché il sole non si fece rosso dietro le case, dopo il ponte. L’aria era dolce di primavera. Una donna dai capelli biondi e lunghissimi chiuse la saracinesca di un negozio, le passai accanto, mi sorrise.

 

 

È il senso delle occasioni perdute che mi fa così male ora: le cose che avrei potuto fare con lei e che ho buttato via. Ma forse tornerà il futuro che immaginammo insieme, e forse sarà di nuovo bello, ora che i sogni sono grandi e vicini, e mi sembra di sfiorare l’infinito.

 

 

Chiudo gli occhi e vedo le strade alberate, i campi, i teatri, i cortili, le chiese della mia terra, il nostro mare.

 

 

Il suo viso è impresso nella mia mente, o forse è davvero lei, fra quella gente che in piedi ci applaude. La macchina ha il tetto scoperto. La strada è dritta davanti a noi, lucida di sole, con gli alberi e i fiori che si affacciano ai bordi. Siamo pronti. Partiamo.

L’altro amore

di

Maria Luisa Putti

 

C’è un luogo oscuro dell’anima in cui i sogni sono inghiottiti dalla paura. È lì che finisce l’amore.

Volevo partire. Nulla mi tratteneva. Sentivo il caldo dell’isola come una prigione. Invadeva il mio respiro.

Senza dire niente a nessuno salii su un treno, poi su un aereo, su un altro treno e così di seguito, finché non mi resi conto che non c’era scampo dai pensieri.

Mi fermai in un paesino dal nome straniero. Affittai una casa sul lago. I pavimenti di legno e un pianoforte al centro del salone. Non suonavo da settimane e guardavo la tastiera come una nemica. Mi era ostile. La musica era stata il mio inganno: promesse mai mantenute, ore spese a cercare ossessivamente quel suono. E il pensiero di lei, che avevo mandato via.

Scesi in strada; l’odore di roba da mangiare, i gas di scarico, il profumo dei fiori mi stordirono. C’erano donne che lavavano i piatti sui marciapiedi e bambini in bicicletta. Entrai nel mercato pieno di colori e di rumori. Presi del riso e mi lasciai convincere da una ragazzina bruna che vendeva ogni tipo di spezia a comprare cose che non avrei usato mai. Al banco accanto al suo, un uomo esponeva collane e anelli di argento lavorato come un ricamo. C’era un bracciale, di quelli alla schiava. D’un tratto pensai alle sue mani, i polsi sottili, la pelle dorata d’estate: avrei voluto vederglielo addosso.

 

Le dissi che l’amore non basta: «Forse può bastare ai ragazzini, ma noi, con l’amore, dove credi che andremo?»

Lei mi guardò con i suoi occhi smarriti e increduli. Poi si voltò e uscì dalla stanza.

In quel momento mi sentii quasi sollevato: ero libero. Ora vorrei che fosse di nuovo accanto a me, ma non la so cercare.

 

La casa dei miei genitori affacciava sul mare, e quand’ero bambino, d’inverno, seduto al pianoforte, mi incantavo a guardare dalla finestra le onde infrangersi sugli scogli: il rumore della risacca mi teneva compagnia. D’estate invece vedevo i compagni tuffarsi e giocare, ridere felici senza pensieri e avrei voluto raggiungerli, sentirmi anch’io leggero. Ma in me c’era una voce che mi chiamava: «Vieni qui, non la senti questa musica? Non senti com’è bella? Vieni a suonare!». Il metronomo era come un soldatino che per mano mi conduceva lungo la strada che avrei seguitato a scegliere, la sentinella che vegliava sui miei desideri di ragazzo. Non seppi mai tradire quella voce; non volli farlo mai.

 

Aggredii la tastiera con rabbia. Le note correvano veloci. Ero solo. Non pensavo a niente.

D’improvviso però i ricordi si insinuarono.

Lei indossava un vestito leggero, di un azzurro chiaro, con tanti fiorellini bianchi simili a piccole campanule. Con un dito tracciava il percorso di un viaggio immaginario: «Dovremmo andarci in macchina, o in moto».

«Sogni troppo».

«Ma i sogni vanno fatti in grande! Ci pensa la realtà a ridimensionarli!».

 

Imboccai una strada piena di vento, l’oceano mandava il profumo del mare, l’immagine vista mille volte di gente che arriva a ondate, fuggita da chissà dove, per provare a vivere. Camminai finché il sole non si fece rosso dietro le case, dopo il ponte. L’aria era dolce di primavera. Una donna dai capelli biondi e lunghissimi chiuse la saracinesca di un negozio, le passai accanto, mi sorrise.

 

È il senso delle occasioni perdute che mi fa così male ora: le cose che avrei potuto fare con lei e che ho buttato via. Ma forse tornerà il futuro che immaginammo insieme, e forse sarà di nuovo bello, ora che i sogni sono grandi e vicini, e mi sembra di sfiorare l’infinito.

Chiudo gli occhi e vedo le strade alberate, i campi, i teatri, i cortili, le chiese della mia terra, il nostro mare.

Il suo viso è impresso nella mia mente, o forse è davvero lei, fra quella gente che in piedi ci applaude.

 

La macchina ha il tetto scoperto. La strada è dritta davanti a noi, lucida di sole, con gli alberi e i fiori che si affacciano ai bordi.

Siamo pronti. Partiamo.

 

Mots-clés__Chop Suey

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Edward Hopper, Chop Suey (1929), collezione privata.

Chop Suey
di Giuseppe Sofo

System of a Down, Chop Suey! –> play

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Edward Hopper, Chop Suey (1929), collezione privata.

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Da: Fu Pei Mei, Pei Mei’s Chinese Cook Book [Pei Mei Shi Pu], Chinese Cooking Class Ltd., Taipei, 1969; traduzione in italiano di Giuseppe Sofo.

Chop Suey

Ingredienti

85 grammi di carne di maiale;
½ rene di maiale;
1 seppia o calamaro (opzionale);
170 grammi di gamberetti sgusciati;
85 grammi di maiale arrosto o una fetta spessa di prosciutto cotto;
1 germoglio di bamboo (cotto);
1 carota (cotta);
1 peperone verde;
50 grammi di cipollotti;
140 grammi di germogli di soia;
60 grammi di spaghetti di riso o vermicelli di riso;
2 cucchiai di salsa di soia;
2 cucchiaini di sale;
1 cucchiaino di olio di sesamo;
¼ di cucchiaino di pepe nero;
1 litro d’olio di semi di arachide.

Ricetta

  1. Tagliate tutti gli ingredienti a striscioline, eccetto i gamberetti;
  2. Scaldate l’olio finché diventa ben caldo, friggete gli spaghetti di riso fino a quando prendono volume e assumono un leggero colore dorato (bastano solo 3 secondi per lato). Toglieteli dal fuoco, disponeteli in un piatto e frantumateli.
  3. Usate lo stesso olio per friggere il maiale, il rene, la seppia e i gamberetti per circa mezzo minuto, poi rimuovete il tutto dalla padella e fate asciugare l’olio in eccesso.
  4. Riscaldate cinque cucchiai di olio in una padella e fate saltare il prosciutto cotto o il maiale arrosto, il germoglio di bamboo, la carota e il peperone verde. Aggiungete i germogli di soia e fate saltare per ½ minuto. Aggiungete gli ingredienti fritti precedentemente (maiale, rene, seppia e gamberetti) e i cipollotti; mescolate bene, aggiungete la salsa di condimento, saltate in padella fino a fine cottura, e versate sopra agli spaghetti di riso fritti. Servite caldo.

NOTE:

  1. Molti di questi ingredienti sono opzionali. Aggiungete ciò che preferite.
  2. I germogli di soia e i cipollotti non vanno fritti molto a lungo, fate in modo che restino croccanti.
  3. Il nome di questo piatto in Cina è “Lee Gone Chop Suey” ed è un piatto cantonese. Fu servito per la prima volta al Generale Lee Hon Chung mentre si trovava in Giappone 74 anni fa. Era sera, ed era troppo tardi per servire un vero e proprio pasto. Il cuoco ha riunito tutti i resti che aveva in una miscela da saltare in padella. Questo nuovo gusto piacque così tanto al Generale che diventò il suo piatto preferito e prese il suo nome.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Un male strano. Le poesie d’amore di Ausiàs March

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Statua di Ausiàs March a Gandia

[Da pochi mesi è uscita per Einaudi l’antologia bilingue Un male strano. Poesie d’amore di Ausiàs March, a cura di Cèlia Nadal Pasqual e Pietro Cataldi, corredata da un’introduzione e da un ampio commento, oltre che da apparati sulla ricezione e le traduzioni di March.
Pubblico in anteprima il canto II, seguito dal testo in lingua originale, ringraziando i curatori. ot]

 

Statua di Ausiàs March a Gandia

 

a cura di Cèlia Nadal Pasqual e Pietro Cataldi

 

Mi accade come al marinaio che in rada
ha il suo naviglio e lo crede un castello;
vedendo il cielo tanto chiaro e bello,
crede per fermo che un’ancora basti.
E sente d’improvviso un temporale
tempestoso, e un tempo insopportabile;
cambia giudizio: se molto durasse,
un porto, e non resistere, gli vale.

Molte volte che un vento è fortunale
non c’è salvezza se non muta lato,
e quella chiave che ci chiude nell’armadio
la stessa porta non la riaprirà.
Cosí è per me, che mi trovo innamorato
per l’eccesso di piacere che da te mi viene, amore:
del non amare, il dispiacere ha la via,
ma un passo mio non ci si troverà.

Finché i pesci non troverai nel bosco
e i leoni nell’acqua avranno albergo,
il mio amore non ritornerà indietro,
purché ti sappia contenta di me;
e confido che ben saprai conoscermi,
e, conosciuto, non sarò scontento
di tutti i mali che ho per te sofferto;
vedrai le fiamme lí d’amore crescere.

Se il desiderio ti ho mostrato male,
credimi, amore vero non mi è lontano;
più caldo del sole nel mese di giugno
arde il mio cuore fragile senza un dono appagante.
Altri non io di ciò porta la colpa;
tu odialo, se un servitore umile
per una sua mancanza a te nasconde;
ed è l’Amore che me, amante, incolpa.

Il mio volere si avvolge della ragione
e in accordo la qualità perseguono
con atti che vanno il corpo privando
di tanta sua carne in piccolo tempo.
Il sonno scarso dà magrezza al corpo,
raddoppia il pensiero per contemplare Amore;
un corpo grasso, abbandonato al sonno,
non muove un passo in questa aspra salita.

Piena di senno, donami una crosta
del pane tuo, che l’amaro mi tolga:
di ogni cibo mi ha preso gran disgusto,
se non di quello che tanto amor mi costa.

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Pren-me’n axí com al patró qu·en platga
té sa gran nau e pens aver castell;
vehent lo cel ésser molt clar e bell,
creu fermament d’un·àncora ssats haja.
E sent venir soptós hun temporal
de tempestat e temps incomportable;
leva son juhi: que si molt és durable,
cerquar los ports més qu·aturar li val.

Moltes veus és que·l vent és fortunal,
tant que no pot surtir sens lo contrari,
e cella clau qui us tanqua dins l’armari
no pot obrir aquell mateix portal.
Axí m’à pres, trobant-m·anamorat,
per sobresalt qui·m ve de vós, m·aymia:
del no amar desalt ne té la via,
mas hun sol pas meu no y serà trobat.

Menys que lo peix és en lo bosch trobat
e los lleons dins l’aygu·an lur sojorn,
la mi·amor per null temps pendrà torn,
sol conexent que de mi us doneu grat;
e fiu de vós que·m sabreu bé conéxer,
e, conegut, no·m serà mal grahida
tota dolor havent per vós sentida;
ladonchs veureu les flames d’amor créxer.

Si mon voler he dat mal a paréxer,
creheu de cert que ver·amor no·m luny;
pus que lo sol és calt al mes de juny,
ard mon cor flach sens algun grat meréxer.
Altre sens mi d’açò merex la colpa;
30 vullau-li mal, com tan humil servent
vos té secret per son defaliment;
cert, és Amor que mi, amant, encolpa.

Ma volentat ab la rahó s’envolpa
e fan acort, la qualitat seguint,
tals actes fent que·l cors és defallint
en poch de temps una gran part de polpa.
lo poch dormir magres·al cors m’acosta,
dobla’m l’engýn per contemplar Amor;
lo cors molt gras, trobant-se dormidor,
no pot dar pas en aquest·aspra costa.

Plena de seny, donau-me una crosta
del vostra pa, qui·m leve l’amargor;
de tot mengar m’à pres gran desabor,
sinó d’aquell qui molt·amor me costa.

 

 

Silvia è un anagramma

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di Franco Buffoni

In che peccai bambina?

“In che peccai bambina?”
La domanda semplice di Saffo è quella che gli/le adolescenti si pongono quando si sentono rifiutati per ciò che sono, con genitori fratelli e cugini che dicono di amarli, ma che in effetti amano un’altra persona, non loro così come sono. Amano una persona che non esiste, perché non possono e non vogliono accettare quella che c’è, così come è.
La domanda semplice di Saffo corrisponde al grido d’ogni adolescente omosessuale che scopre l’esistenza del Caino sociale.
Come scrive Giacomo Leopardi: “Qual ne la prima età (mentre di colpa nudi viviam), sì che inesperto e scemo di giovanezza il mio viver corresse”.
In altri termini: essere omosessuali non è una scelta; essere omofobi oggi sì.

Il fattore “O”

Si tratta – semplicemente – di porre anche l’omosessualità nel novero delle opzioni, delle possibilità. Se gli americani hanno messo in gioco tale fattore per Melville e Thoreau, e gli inglesi per Tennyson e Swinburne, non si capisce perché noi italiani non dovremmo farlo per Leopardi e Pascoli.
Conosco bene le due obiezioni di fondo.
La prima: che prove hai?
Lo si chiederebbe supponendo eterosessuale un autore?
Certo che no! Perché quella è considerata la “norma”, non essendo ancora penetrata nel costume italiano la delibera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 maggio 1990 che definisce l’omosessualità “una variante naturale della sessualità umana”.
Non a caso quel giorno è ufficialmente ricordato nei paesi civili* come “Giornata mondiale contro l’omofobia”.

Seconda obiezione: che cosa cambierebbe nella nostra comprensione dell’opera se si dimostrasse che l’autore era omosessuale?
Significa semplicemente non voler comprendere che – per un autore omosessuale in un contesto sociale omofobico, come quello del nostro Otto-Novecento – il fattore “O” non è una questione di gusto personale, ma la questione centrale della sua esistenza e quindi della sua opera.
Come ha scritto Goffredo Parise: “Ogni uomo, uno scrittore, un poeta, un artista è quello che è la sua sessualità”.

A mia volta domando: per quante generazioni ancora gli studenti italiani dovranno sorbirsi tesi assurde? Il figlio del conte Monaldo restò celibe perché era infelice nell’apparenza fisica? In un tempo in cui il matrimonio era considerato anzitutto un accordo economico tra famiglie?
Ecco così stagliarsi il Leopardi segreto, quello ancora non accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere Ranieri con il mensile che gli passa Monaldo. E a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”. Napoli era pur sempre la città che in tutta Europa, come ha scritto Arbasino, “suscitava l’ammicco e il sorriso del connaisseur quale sinonimo ed epitome di sessualità a buon mercato e bisessualità disponibile ad ogni angolo di strada”.

Neutro accademico eterosessuale

In Italia non sono ancora penetrate in profondità nel tessuto critico-accademico istanze di studi di genere e di cultura omosessuale. E ancora appaiono nella loro stolidità i valori di sopravvivenza del neutro accademico eterosessuale, spacciato per universale, secondo la sapida definizione della ricercatrice Eleonora Pinzuti. Me ne resi conto nel 2012 in occasione del centenario pascoliano, quando tentai di includere l’omosessualità nel paradigma delle “possibilità” di lettura della biografia e dell’opera del poeta dei Canti di Castelvecchio. Ma l’eguale potrebbe accadere con Cesare Pavese. E potrei continuare con Clemente Rebora, Marino Moretti o Libero De Libero. Quante biografie di autori italiani appaiono irrisolte per via del pervicace rifiuto a rompere il velo di quell’indistinto grigiore.
E che non ci si permetta di speculare sull’esistenza di un’ipotetica “letteratura omosessuale”! Perché la radicata presenza nelle coscienze di un disvalore intrinseco al termine omosessuale ancora provoca un senso di svilimento e di ghettizzazione: lo stigma sociale. Con conseguenti censure, autocensure, necessità di mascheramenti e mistificazioni.
Ci sono migliaia di persone figli e nipoti di omosessuali. Solo che si trattava di gay velati e dunque attenti a non trasmettere la cultura omosessuale da loro vissuta in clandestinità.
Purtroppo non si hanno le testimonianze degli operai gay, dei fattorini gay, ma solo degli scrittori gay. O almeno di quel poco che hanno lasciato: Carlo Emilio Gadda distrusse tutto ciò che riguardava la sua sfera privata; Aldo Palazzeschi, pure. Così si rimane senza le testimonianze del popolo perché non sa scrivere (a meno che non vada sotto processo: allora sono visite mediche legali, referti da compulsare, verbali di polizia). E senza gran parte delle testimonianze degli scrittori, che decisero di “preservare” la propria immagine.
Oggi i più giovani forse nemmeno riescono a immaginare a che livelli potessero giungere nell’Ottocento e nel Novecento le censure e le autocensure. Leopardi, per esempio, si sentiva costretto ad autocensurarsi persino sul copernicanesimo e sul processo a Galilei, come egli stesso ammette nella lettera all’editore Stella del 27 settembre 1826. Figurarsi sulla sessualità!

Laicità

Giacomo Leopardi, mentre dalla Germania riceveva offerte di cattedre – rifiutate per timore del freddo, e nell’ultimo decennio anche perché sapeva che Ranieri non l’avrebbe seguito – a Roma avrebbe potuto ottenere cospicui benefici ecclesiastici, grazie alle conoscenze di Monaldo, che – avendo ben intuito la vera indole del figlio – desiderava proteggerlo, saperlo al sicuro. Sarebbero bastate la tonsura e l’abito, la quotidiana recita dell’ufficio… Ma Giacomo rifiutava sdegnato l’idea di mostrarsi “credente”. Come scrisse nella lettera a Luigi de Sinner del 24 maggio 1832: “E’ assurdo l’attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa”. E se nell’inno Ad Arimane Leopardi pare riconoscere l’esistenza di un dio del male (“arcana malvagità”), subito corregge l’impressione affermando di avere abbozzato tale divinità solo per poterla bestemmiare (“ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà”), perché in definitiva “mai io non mi rassegnerò”.
E a Napoli Leopardi non sopportava i letterati che si incontravano al Caffè d’Italia e avrebbero tanto gradito la presenza del “poeta”. Li trovava ridicoli con le loro metafisiche d’accatto, succubi di vacue filosofie e vuoti spiritualismi. Mentre egli era convinto che “d’ogni cosa terrena è rea solo ed unicamente la natura!”. La natura come unica fonte di male per i viventi. Nulla, assolutamente nulla di metafisico: e al centro della Ginestra c’è lo sterminator Vesevo, incarnazione della natura matrigna e indifferente, con una sola possibilità lasciata agli umani: lottare tutti assieme nella consapevolezza del loro reale stato di impotenza. Disperati ma unanimi: “e quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena”.
“Leopardi” – come scrisse Melville – “stoned by grief, / a young St. Stephen of the doubt”**.

O, come molto semplicemente scrive Giovanni Pascoli al cappellano militare Giovanni Semeria: “Io penso molto all’oscuro problema che resta… oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse”.
Pascoli, che più prosaicamente si conferma anticlericale al fratello Raffaele non appena giunge a Matera per insegnare al liceo nel 1882: “Ti dirò che né fetor di merda, né lezzo di prete potrebbe rendermi nojosa una città tanto quanto l’avidità schifosa dei suoi abitanti. D’un luogo lercio, che facea venire il vomito, con un letto tutto arrugginito e scacazzato, indovina quanto m’ha domandato un certo musetto tra di porco e di gesuita? Inorridisci… trentacinque lire”.

Annota Eugenio Montale nel suo diario del 1917: “Da tre giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle capriole della logica. Il dubbio è antifilosofico”.
E nel 1971 in Satura, scrive: “Tutte le religioni del Dio unico sono una sola: variano i cuochi e le cotture. Così rimuginavo; e m’interruppi quando tu scivolasti vertiginosamente dentro la scala a chiocciola della Périgourdine e di laggiù ridesti a crepapelle”.

Ma al riguardo lo scettro dell’icasticità spetta come sempre a Sandro Penna: “Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri di quel fanciullo io pregherò il mio dio. Ma il mio dio se ne va in bicicletta o bagna il muro con disinvoltura”.

E poiché entrerà anch’egli a pieno titolo nella nostra narrazione, ricordiamo l’anticlericalismo viscerale di Luigi Settembrini, il suo rifiuto in toto del cattolicesimo e del papato, la sua avversione per “quell’educazione fratesca che storpia l’anima e il corpo”, con il codazzo di “lascivie che sono in un convento di frati”.

Ricordiamo infine, a mo’ di sigillo a questa carrellata, i numerosi passaggi anticlericali presenti nell’epistolario di Leonardo da Vinci, volti a mostrare il subdolo inganno, la frode, persino non sempre pia: “Quelli che con vestimente bianche andranno con arrogante movimento minacciando con metallo e foco (alias: turibolo e incenso) chi non faceva lor detrimento alcuno”.

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*Qualcuno ogni tanto mi chiede che cosa realmente io voglia dire quando scrivo “paesi civili”. Ebbene, il 28 novembre 2017 in parlamento il premier canadese Justin Trudeau chiese formalmente “scusa” alle persone Lgbt+ in passato oggetto di discriminazioni per il loro orientamento sessuale, stanziando cento milioni di dollari perché fossero – per quanto possibile – risarcite. Io definisco il Canada un paese civile.
Va da sé – per contro – ch’io definisca “eroiche” le persone che nei paesi con legislazioni omofobiche rischiano prigione e torture pur di affermare istanze Lgbt+.

**Leopardi impietrito dal dolore, giovane Santo Stefano del dubbio.

 

Testi tratti da: Franco Buffoni, Silvia è un anagramma (Marcos y Marcos, 2020)

“Anch’io cercavo il miracolo”. Il Bebuquin di Carl Einstein

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È uscito per Giometti & Antonello Bebuquin o I dilettanti del miracolo, romanzo dello scrittore tedesco Carl Einstein pubblicato nel 1912; in Italia, fu stampato per la prima volta dalle edizioni De Donato e troppo frettolosamente dimenticato. Oltre al romanzo, gli editori propongono in appendice alcuni saggi di Einstein a cura di Giusi Zanasi, che si è occupata anche della splendida introduzione. 

Vi è, in queste pagine, una luminosa volontà di musicare la contraddizione, una forma superiore di conoscenza che consiste nel lanciare la scrittura fra i chiassosi avvitamenti del mondo per restituire uno sbigottimento da giostra del pensiero. Dopo più di un secolo di distanza, è giunto il momento di riconoscere l’importanza di Einstein, sommo e silenzioso infrangitore delle forme addestrate della visione.

«Se hai un desiderio agisci sempre in senso opposto […]. Non stia più a camminare su due gambe» viene sentenziato ad un certo punto da una delle figure del Bebuquin: ecco un esempio di gesto senza apparente cittadinanza, di istante in cui la ragione è chiamata ad inciampare contro se stessa per mostrare che il miracolo è la latente armatura della realtà.

Mi è sembrato  opportuno, dunque, salutare questa ripubblicazione con un frammento da Credito italiano V.E.R.D.I di Carmelo Bene, scrittore particolarmente vicino a Einstein per l’umore delle invenzioni sulla pagina. Ospitati qui troverete inoltre il capitolo quarto del Bebuquin, e due frammenti dal saggio sulla totalità.

 

 

PRELUDIO (QUASI UN SALUTO)

da Credito italiano V.E.R.D.I di Carmelo Bene

 

Si svegliarono prima di domani, al suono del campanaccio delle capre, asfissiati dalla polvere tra le persiane, mentre l’alba versava all’illusione acqua rosa sugli orti e sulle case. Giacobbe, supino, intravedeva i nespoli rosati, e tutta una letteratura della miseria gli raccontava i peccati di mollica sulla tavola di un quotidiano patriarcale. Si rifugiava nel paradosso. Aveva avuto quello che non era; oggi era tutto quanto aveva perduto. Cominciò a dubitare del giorno dopo. Pensò di ricordare il suo avvenire punto per punto, e gli parve d’essere lui la sola persona capace di risolverlo, se non si fosse tolto di mezzo. Lo scoraggiava la sua stessa iniziativa: “quando uno ha fatto una cosa,” si convinceva sconsolato, “ne farà un’altra o, almeno, ne penserà un’altra da fare.” Poi simulava un maggior calore, “tutto questo perché non ho abbastanza fede,” dicendosi, “se avessi un dio di cui fidarmi, lascerei fare a lui, me ne starei disteso ad aspettare, lasciandomi morire qui, di fame, come ieri non ho voluto morire di sete!” Non era un anno, ormai, ma molto più, che gli era entrato in testa un chiodo fisso: che la fortuna lo perseguitasse, invereconda in una morsa di ferro. “Voglio vivere alla pari!” gridava tra i reclami dei vicini tutte le notti a Roma. “Voglio vivere zoppo se tu mi vuoi, ma di tutte e due le gambe, perché con una gamba sola si può volare.”

 

 

BEBUQUIN, O I DILETTANTI DEL MIRACOLO

 

Capitolo quarto

 

Da settimane Bebuquin guardava fissamente un angolo della sua stanza e voleva dare a quell’angolo della sua stanza una vita fuori di sé. Inorridiva nel dover dipendere da azioni incomprensibili e senza fine, che costituivano la sua negazione. Ma la sua esausta volontà non poteva produrre un granello di polvere; non poteva vedere niente ad occhi chiusi. – Deve essere possibile, proprio come prima si poteva credere a un Dio, che creò il mondo dal nulla. È penoso, che non possa mai arrivare alla perfezione. Ma perché mi manca persino l’illusione della perfezione?. – Notò allora che c’era ancora in lui una certa capacità di rappresentare il fattuale. Deplorò questa circostanza, benché gli apparisse del tutto indifferente. Non che in lui gli istinti in generale fossero morti. Diceva a se stesso che il valore era qualcosa di alogico, senza con ciò voler fare della logica. Non avvertiva alcuna forma di vita in questa contraddizione, ma solo annullamento, quiete. Non gli provocava nessun piacere la negazione. Disprezzava questi chiacchieroni pretenziosi. Disprezzava questa impurità dell’uomo drammatico. Diceva a se stesso che forse era solo la pigrizia a costringerlo a questa considerazione. Tuttavia le ragioni erano per lui fattori secondari. Si trattava del pensiero, il quale era logico, da qui venivano anche le sue motivazioni.

Böhm lo salutò a bassa voce e amichevolmente. Voleva, dopo la sua morte, tenersi un po’ da conto, poiché non sapeva ancora nulla di sicuro sull’immortalità. – È decoroso e la mette in buona luce il modo con cui lei, disprezzando la morte, si adopera per il logico. Ma purtroppo non le è stato possibile alcun successo, dal momento che lei accetta soltanto una logica e un non logico. In noi, mio caro, ci sono molte logiche in lotta tra loro e da questo conflitto scaturisce l’alogico. Non si lasci illudere da alcuni filosofi difettosi, che ciarlano continuamente sull’unità e sulle interrelazioni tra le varie parti, sul loro connettersi al tutto. Non siamo più così poveri di fantasia, da affermare l’esistenza di un Dio. Ogni vergognoso piegarsi ad una unità è soltanto un appello alla pigrizia dei nostri simili. Faccia attenzione, Bebuquin. Innanzitutto la gente non sa niente sulla costituzione del corpo. Si ricordi gli ampi mantelli luminosi dei santi negli antichi dipinti e abbia la compiacenza di prenderli alla lettera. Ma questi sono luoghi comuni. Il miracolo, mio caro, è ciò che le manca. Si rende conto ora perché scivola via da ogni genere di cosa? Lei è un visionario con mezzi inadeguati. Anch’io cercavo il miracolo. Pensi a Melitta, che cadde dal megafono, e come mi resi ridicolo. Le donne, in genere, servono solo per rendersi ridicoli. È una selezione giusta, proprio perché nella donna non c’è che stupidità. Perciò, per quanto la riguarda, si parla di possibilità e si finisce per pensare che la donna sia fantasiosa. Dopo la mia felice dipartita ho capito una cosa. Lei è un visionario; lei infatti non ha capacità sufficienti. Il fantastico è certamente una questione sia di contenuto che di forma. Ma non dimentichi una cosa. I visionari sono gente che non giungono alla definizione di un triangolo. Non si può dire che siano simbolisti. Ma in nome di Dio, a loro questo dilettantismo è necessario. Non hanno mai visto due esseri umani, mai una foglia. Pensi ad una donna sotto a un lampione; un naso, un ventre illuminato, null’altro. La luce, imprigionata da case e uomini. Ci sarebbe da aggiungere ancora qualcosa. Si guardi da esperimenti quantitativi. Nell’arte il numero, la grandezza sono del tutto equivalenti. Se hanno un ruolo, questo è senz’altro deviato. Lavorarsi l’immortalità è puro dilettantismo. Eccole un altro consiglio, che forse più tardi le sarà di stimolo. Kant avrà indubbiamente una importante funzione. Si ricordi una cosa. Il suo significato così carico d’attrattive consiste nel rendere possibile l’equilibrio tra oggetto e soggetto. Ma dimenticò una cosa, la più importante: ciò che fa il soggetto che si occupa di gnoseologia, la constatazione appunto di soggetto e oggetto. È forse una cosa in sé psichica? È questa la ragione per la quale l’idealismo tedesco ha potuto portare Kant alle sue estreme conseguenze. Il non creativo si esaurirà subito nell’impossibile. Non conoscere alcun limite, quanto di spirituale gli oggetti possono sopportare, giustificare. Ogni discorso di infinità viene da una informe, inoperosa energia dell’anima. È l’espressione dell’energia potenziale, quindi un elemento del forte non-potere.

 

 

 

Totalità

 

II

La psicologia non è altro che una reazione alla logica. Si è sperato di pervenire a risultati più precisi costruendo singole facoltà o funzioni. La psicologia ha fondato per lo più la sua conoscenza su fatti che stanno completamente al di fuori della sfera filosofica, che rappresentano parti costitutive del nostro Essere, ma non possono mai spiegare la particolare entità di campi totali conformi alla legge, poiché la psicologia esamina forse condizioni preliminari, ma non l’immediato esistente. (Bisogna aggiungere che essa opera spesso con concetti misti). Come la logica, incorre nell’errore di ritenere che una scienza sia capace di esprimere più di se stessa. Ciò dipende dalla mancanza di una metafisica universale che, esattamente come le altre scienze, non riuscirebbe a contenere regole di campi specifici e dovrebbe valere per le nostre facoltà come superiore realtà conchiusa, come l’autorità più intensiva, non estensivo-universale.

III

Ciò che separa tutte queste configurazioni del mondo spirituale e, quindi, contribuisce a conferire loro un Essere strutturato in modo preciso è la totalità. Esse sussistono soltanto quando sono evidenti, quando assumono una forma: solo la totalità nella sua conchiusività le rende oggetto di conoscenza e consente che possano essere realizzate. Ogni realizzazione e ogni conoscenza, infatti, rappresentano solo una delimitazione; la totalità non è altro che un sistema conchiuso di qualità specifiche, e questo è totale se la totalità è accompagnata da una sufficiente intensità. La totalità fa sì che lo scopo di ogni ricerca e di ogni conoscenza non stia più nell’Infinito, inteso come indefinibile obiettivo globale, ma sia minutamente circoscritto, poiché la totalità legittima l’Essere concreto dei singoli sistemi e conferisce loro il senso. La totalità consente di stabilire leggi qualitative, in quanto la conformità alla legge del singolo sistema non si fonda più sulla ripetizione variata e sul ritorno del sistema stesso, ma sulla natura di specifiche configurazioni elementari. Si perviene così alla determinazione di leggi qualitative che producono sempre un sistema conchiuso, che non variano per la quantità, ma per l’intensità e non ritornano all’infinito, ma si alternano qualitativamente, sicché è possibile applicare tali leggi al corso del tempo, per esempio alla biologia, senza essere costretti ad annullare la sostanza individuale dei fatti.

Sottolineiamo che il conoscere non rappresenta un atteggiamento critico, bensì la creazione di contenuti strutturati, ossia di sistemi totali. Per sistema non intendiamo più l’ordinamento di una molteplicità che presenta caratteristiche univoche e neanche un ordine quantitativamente determinato, ossia che contiene un certo numero di oggetti. Definiamo, invece, come sistema ogni totalità concreta che non può essere strutturata o articolata mediante strumenti esterni, bensì è già organizzata in sé. Definendo il conoscere come creazione di organismi concreti, sottraiamo la conoscenza alla teoria di un’universalità tautologica. In tal modo, la conoscenza è salvata dal suo isolamento teorico e dalla sua irrilevanza, il processo conoscitivo viene equiparato a quello creativo e si produce un’immediatezza che era latente, ma non rappresentata.

Io resto a casa – Aspettando

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di Antonella Falco

Non avremmo potuto attraversare primavera più cupa e malinconica di questa appena finita, e tuttavia il dolore, la privazione delle abitudini più consolidate e degli affetti più cari, la solitudine e l’incertezza del futuro, hanno reso, paradossalmente, ancora più perentoria la necessità di cercare nell’arte, nella musica, nella poesia una via di salvezza e un messaggio di speranza. Un anelito di vita che titanicamente si opponesse al senso di morte che ha pervaso i lunghi giorni del tempo sospeso.

Io resto a casa – Aspettando, è un progetto che si nutre di cultura e irradia cultura. Ideato dalla giornalista, scrittrice e drammaturga Chiara Pasetti, con la regia di Mario Molinari e l’adesione di Achille Lauro, dall’8 marzo 2020 vede la pubblicazione su You Tube, ogni settimana, di un videoracconto, un diario al tempo stesso intimo e condiviso, personale e collettivo, nel quale l’inquietudine e lo smarrimento, venendo espressi attraverso la potenza dolente ma insieme vitale ed energica della parola poetica, delle immagini e della musica, trovano un trascendimento e una catarsi. Sono testimonianza e documento di un momento storico che mai avremmo immaginato di trovarci a vivere ma al quale non vogliamo soccombere. Un racconto costruito non tanto sul dire quanto sul sentire, sulla fragilità e la forza delle emozioni, sulla capacità che ha l’arte di evocare mondi, di costruire ponti tra passato e presente, di cogliere assonanze e similitudini tra epoche e eventi distanti nel tempo e apparentemente privi di correlazioni. Già, i mirabolanti voli pindarici dell’arte, quelli che permettono, per fare solo un esempio fra i tanti possibili, di tenere insieme nello stesso cortometraggio – nella fattispecie quello intitolato Senza cognomi, uscito il 27 aprile – il brano Dio ricordati di Achille Lauro e alcune sequenze dell’ultimo capolavoro di Roman Polanski J’accuse.

A fare da filo conduttore di tutto il progetto è l’emergenza Covid-19 e ogni video ruota intorno a un tema diverso in base al quale vengono scelti i brani e le immagini. Il fil rouge che tiene unito l’insieme è a volte talmente sottile e impalpabile da rendere più facile credere che tutto quel materiale audiovisivo sia assemblato solo in virtù dello scopo precipuo dell’Arte, ossia, come sosteneva Flaubert, il Bello. Ma come dissociare la Bellezza dalla Verità? E come separare questa dall’Universale? Ecco dunque che il fine ultimo di questi corti è probabilmente quello di affrontare tematiche tanto vere quanto universali, che, ammantate dal velo dell’Arte, risplendono di Bellezza anche quando non mancano di drammaticità. Ulteriore filo conduttore è la musica di Achille Lauro che – con i suoi testi spesso sofferenti, mai scontati, assolutamente alieni da qualsiasi retorica perché sempre figli di un dolore e di un disagio vissuti in prima persona – fa da colonna sonora al progetto. Il che non significa che il cantautore romano abbia composto nuovi brani appositamente per questi corti, ma che nel suo già ampio repertorio siano presenti canzoni perfettamente in grado di esprimere la vasta e a volte contraddittoria gamma di sentimenti che tutti noi stiamo vivendo nel corso di questa pandemia. Come a dire che quando si scava a fondo dentro sé stessi, come fa Achille Lauro nello scrivere i suoi testi, quasi la scrittura fosse una forma di analisi e di psicoterapia, un processo di autoconoscenza e un’ancora di salvezza, alla fine si trova una storia che è comune a quella di tutti quanti gli altri. «Descriverò i miei stati d’animo: universali, comuni, qualcosa che mi legherà profondamente con chi mi capirà, perché proviamo tutti le stesse emozioni», scrive l’artista nel suo secondo libro, 16 marzo. L’ultima notte, edito da Rizzoli lo scorso 19 maggio. Delle sue canzoni Lauro De Marinis (questo il suo vero nome) ha autorizzato l’utilizzo dimostrandosi ancora una volta sensibile e attento verso tematiche di stringente attualità e di forte pregnanza sociale.

Io resto a casa – Aspettando si è per forza di cose intrecciato con i più importanti appuntamenti calendariali di questa primavera, dalle ricorrenze del 25 aprile e del 1° maggio alla Festa della Repubblica, passando attraverso il ricordo della strage di Capaci che vide la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. In particolare il corto Povera Patria, dedicato alla ricorrenza del 2 giugno, mette in luce come tale progetto, nato come invito alla prudenza per fronteggiare l’epidemia di coronavirus (da cui il titolo originario di Io resto a casa), si sia evoluto di settimana in settimana al punto da travalicare i limiti del lockdown (il titolo infatti è mutato, con l’inizio della Fase 2, in Aspettando) e affrontare temi di grande rilevanza civile. In Povera patria vi sono le grandi stragi degli ultimi settant’anni di storia italiana: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, da Piazza della Loggia a Ustica e Bologna, e poi la morte di Enrico Mattei, Aldo Moro e Walter Tobagi. Vi è la tragedia del Vajont e l’incidente di Seveso, il disastro ferroviario di Viareggio e il crollo del Ponte Morandi. Il pestaggio nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001 e il massacro silenzioso e incruento degli anziani falciati dal covid nella Lombardia dei nostri giorni. Ma vi è anche lo spot pubblicitario della Vespa in piena atmosfera da boom economico anni Sessanta e Vittorio Gasmann che fa il gesto delle corna sfrecciando a bordo della spider ne Il sorpasso, e Alberto Sordi nei panni indimenticabili del Marchese del Grillo. C’è dunque uno sguardo che si allarga e che abbraccia l’Italia del lavoro e quella della disoccupazione, quella della Resistenza e quella del sovranismo populista. L’Italia che sognava e correva e l’Italia che spera e attende. Un modo diverso, insolito, non banale, di celebrare l’anniversario del referendum che segnò il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica.

Nel momento in cui scriviamo questo articolo il videoprogetto conta sedici corti e sta riscuotendo sempre maggiore interesse da parte di pubblico e critica.

(Sul sito Turismo e Cultura del Comune di Finale Ligure, la playlist di tutti i video del progetto dal 1° al 16°: https://www.youtube.com/playlist?list=PLfUc9aPeRqz6hLNNbyAx5EMviL-P_0jNe)

Abbiamo rivolto alcune domande alla sua ideatrice Chiara Pasetti.

Com’è nata l’idea di realizzare il videoprogetto Io resto a casa – Aspettando?

L’idea del progetto è nata nella notte tra il sette e l’otto marzo. Ero preoccupata e angosciata, era ormai chiaro che le scuole sarebbero rimaste a lungo chiuse ed ero in ansia per i miei studenti e per mio figlio, che ha appena terminato il secondo anno di Liceo Classico. Sono abituata a comunicare scrivendo, anche se negli anni ho cominciato a scrivere per il teatro (il mio primo lavoro portato in palcoscenico è stato Moi, un monologo sulla scultrice Camille Claudel, per la regia di Alberto Giusta, con Lisa Galantini nel ruolo di Camille), rendendomi conto delle diverse potenzialità della scrittura e dell’emozione che suscita il fatto di sentire le proprie parole in teatro. Non avevo però mai fatto un video (anche se nei miei progetti e sogni c’è sicuramente un film, anzi diversi film). Quella notte pensavo che volevo dare un contributo alla drammatica situazione che stavamo vivendo, e soprattutto che volevo farlo coinvolgendo i giovani, in quel momento i più “deboli” sotto certi aspetti, perché ancora scarsamente informati, e al contempo coloro che potevano avere un ruolo determinante nel contenere i contagi. Non si era ancora tenuto il discorso del Presidente del Consiglio, dal titolo diventato virale “Io resto a casa”, e durante la notte ho capito cosa volevo-dovevo fare: un video in cui i miei studenti, e anche altri ragazzi di diverse età, ripetessero il messaggio IO RESTO A CASA. La mattina dell’otto marzo (in cui avrei dovuto partire per Genova, la sera era programmata la mia nuova lettura teatrale dedicata ad Antonia Pozzi, sempre con Lisa Galantini, ovviamente rimandata), dopo aver realizzato che la mia città era stata dichiarata “zona rossa”, ho cominciato a sentire via whatsapp i miei studenti di terza, quarta e quinta liceo. Ho chiesto loro di fare dei video in cui, semplicemente, dicessero nome e scuola, e il messaggio uguale per tutti “io resto a casa”. Ho esteso l’iniziativa anche a studenti di Finale Ligure, Genova, e altre città, grazie alla collaborazione di amici che abitano appunto in Liguria. Nel giro di poche ore avevo già ricevuto una dozzina di video. Tra la domenica e il lunedì, quando ormai l’hastag #iorestoacasa era stato lanciato e rimbalzava sui social e sui giornali, raccoglievo idee e video. Inizialmente ho pensato di montare i contributi con la collaborazione di un’amica giornalista televisiva di Novara, ma come spesso capita ai miei progetti c’è stata qualche difficoltà (non imputabile alla mia amica). Temevo che l’idea fosse destinata a naufragare… Invece così non è stato, e fortunatamente ho pensato di parlarne a Mario Molinari, che è un amico giornalista (dirige il quotidiano online “La Nuova Savona” con cui collaboro anch’io, dopo aver lavorato dodici anni, fra gli altri, a “Striscia la notizia”) ed è regista e autore di molti lavori di pregio (cito solo Crisi complessa del 2019 realizzato insieme a Mimmo Lombezzi e il docufilm Tonino, dedicato a Tonino Guerra, (qui i rispettivi link per chi volesse vederli: https://www.youtube.com/watch?v=CSCcUyPUB2Y&t=1467 /  https://www.raiplay.it/video/2017/12/Speciali-di-storia-Tonino-b09b4515-82dc-4a3f-96dc-160fc30e4988.html). Ma soprattutto è una persona da sempre attenta e sensibile al sociale e alla narrazione, anche dura, del reale. Da subito si è entusiasmato nei confronti del progetto ed è nato il primo corto, in cui ha montato i video degli studenti. Nel primo corto ci sono anch’io, che mi unisco all’appello dei ragazzi per dare maggiore forza alla comunicazione, dal secondo scompaio e per me parlano i poeti, le immagini, ecc… Dopo il primo video io e Mario ci siamo confrontati e abbiamo pensato che fosse importante andare avanti a raccontare l’emergenza covid, sempre con i contributi dei giovani. Insomma da allora non ci siamo fermati, e il progetto è ormai arrivato al sedicesimo video, ossia uno alla settimana. Sono infinitamente grata a Mario e anche all’amica Giovanna Servettaz, oltre a tutte le persone che hanno creduto da subito nell’idea, perché senza di loro forse avrei realizzato un solo video e mi sarei arenata di fronte alle tante difficoltà che un progetto di questo tipo comporta. Invece le abbiamo affrontate e superate e stiamo andando avanti.

Questo progetto ha visto il coinvolgimento attivo di un gruppo di studenti e la partecipazione fissa degli attori Lisa Galantini e Massimo Rigo a cui sono affidate le letture tratte dai vari autori di volta in volta citati. Fra i tanti nomi ricorrono spesso quelli di Gustave Flaubert, Camille Claudel e Antonia Pozzi. So che per te sono dei punti di riferimento culturali particolarmente importanti…

La scelta dei brani è in genere sempre in linea con il tema trattato ogni settimana, ma i miei studi si concentrano principalmente sul periodo di fine Ottocento-inizio Novecento e in particolare di area francese, per questo spesso ho scelto i miei autori del cuore. Quindi Camille Claudel, a cui come dicevo ho dedicato un libro e un monologo teatrale, Antonia Pozzi, poetessa che studio da molti anni, oggetto del mio prossimo lavoro teatrale, e poi Baudelaire, Nietzsche, negli ultimi Montale, Leopardi, e altri ancora. Gustave Flaubert merita ed è un discorso a parte. Lui è il mio “faro”, umano e artistico. È l’autore che da sempre accompagna ogni mio lavoro creativo e ogni articolo, saggio, ecc. Anche quando non parlo direttamente di lui, lui c’è sempre; come diceva Antonia Pozzi, che ha svolto la sua tesi di laurea nel 1935 proprio su Flaubert, «io sono, per forza di cose, molto flaubertiana». Leggo e studio il padre di Madame Bovary praticamente da trent’anni; è un universo, ha scritto più di 4000 lettere. A volte ho anche discusso (in modo sempre rispettoso e fecondo) con Mario, che giustamente mi definisce un po’ troppo “fissata” con Flaubert! Nei video ci sono moltissimi suoi brani, anche inediti in lingua italiana, da me tradotti. La scelta degli attori (Massimo Rigo, Lisa Galantini, Alberto Giusta, nell’ultimo corto Federico Vanni, ma anche studenti) che interpretano i brani che vengono scelti per ogni capitolo viene condotta insieme a Mario a seconda dell’età degli autori, della difficoltà dei brani, o anche solo di suggestioni personali. Lisa Galantini ha sempre interpretato parti femminili, quindi Camille Claudel, Antonia Pozzi e in un corto una poesia di Alda Merini. Sono molto grata agli attori e agli amici che prestano la loro voce e la loro arte agli scrittori che scegliamo, perché credo che l’inserimento di brani in prosa e in poesia, alcuni noti e altri meno, rendano i corti più poetici ma aiutino anche tutti coloro che guardano i video, e gli studenti in particolare, a capire quanto i grandi autori siano sempre attuali e legati alle situazioni che stiamo attraversando.

Perché per la parte musicale hai voluto proprio Achille Lauro?

Achille Lauro, lo confesso, per me è stato un po’ come Flaubert o Camille Claudel… Un colpo di fulmine! Da anni ascoltavo le sue canzoni ma non lo avevo mai studiato in modo approfondito. Sono stati proprio i miei studenti a incoraggiarmi a conoscerlo meglio, prima dell’ultima esibizione di Sanremo. È scattato qualcosa di forte: i suoi testi e il modo di interpretarli toccano corde profonde di me, oltre al fatto che vi ritrovo echi e citazioni (non solo nelle sue canzoni ma anche nei libri che ha scritto) di autori, poeti, personaggi e film anche a me molto cari. Trovo che i suoi testi parlino a tutti, pur essendo estremamente personali. Certamente parlano a me. In alcuni casi sono profetici, come la canzone scelta per il corto dedicato agli esami di maturità Senza gli scritti, una frase contenuta nel brano Dio c’è di cinque anni fa. Ma anche il pezzo Dio ricordati inserito nel video sulla Resistenza, uscito in occasione del 25 aprile, è davvero perfetto per raccontare le emozioni, il dolore, le speranze dei partigiani e in generale di chiunque abbia vissuto per un ideale, a volte a rischio della propria vita. Scherzando (ma non troppo) dico spesso che Lauro è il mio alter ego maschile, e questa sensazione l’ho provata solo nei confronti di Flaubert.

Chiedere a lui l’adesione per un progetto che raccontasse l’emergenza nei suoi tanti risvolti umani, sanitari, psicologici, economici, mi è parsa un’idea non solo emozionale ma anche funzionale al fatto di catturare l’interesse dei ragazzi, perché molti di loro lo conoscono e lo apprezzano. E lui stesso da marzo ha diffuso appelli a sostegno degli ospedali e ha invitato i giovani alla prudenza e al rispetto delle regole, quindi sapevo che sarebbe stato sensibile al tema, come del resto lo è in generale. Ho discusso con tanti amici (non giovanissimi, per lo più della mia età) “a causa” di Lauro, rendendomi conto che chi non lo conosce bene lo giudica con superficialità se non addirittura con ferocia, e questo mi fa capire che non lascia indifferente nessuno. Un po’ come Caravaggio, Van Gogh, Baudelaire, Poe, per usare paralleli alti. In altri casi invece questo progetto e la stima nei confronti di Lauro mi ha fatto incontrare persone nuove, come la giornalista Cinzia Donati, la prima che si è interessata ai corti e mi ha fatto un’intervista per il suo blog, e poi i gruppi fb nati da tempo su di lui, in particolare “L’Arte di Achille Lauro” (io ero molto poco social e non li conoscevo, lo ammetto). A me comunque non interessa il personaggio Achille Lauro (anche se in molte performance mi piace molto), i vestiti di Gucci, le polemiche e tutto ciò che giustamente o meno gira intorno a un artista famoso, mi smuove e talora commuove il ragazzo di trent’anni che scrive poesie da quando è ragazzino (come me), canta e compone, e persegue un ideale: l’arte, la musica, i suoi sogni. Questo mi emoziona e me lo fa sentire non solo vicino ma fortemente affine. Il resto lo lascio al gossip.

Quanto impegno richiede la realizzazione di ciascun corto e come è suddiviso il lavoro fra te e Mario Molinari?

Anche per questa domanda ti ringrazio perché in effetti penso che chi vede questi corti non si renda davvero conto del lavoro che c’è dietro. Ogni settimana Mario ed io scegliamo il tema del video successivo, la canzone di Lauro, e cominciamo dal lunedì (i video vengono diffusi in genere la domenica) a raccogliere idee, contributi, e Mario a selezionare filmati, foto e altro materiale. Per lui si tratta di un lavoro enorme, che richiede circa cinquanta ore di montaggio (mal contate!), che sarebbero molte di più se non avesse un’esperienza di anni sul piano registico. Per quanto mi riguarda, io traduco i brani in francese che scegliamo, penso alla parte di scrittura e poesia, ma in generale i nostri compiti si incrociano e lui consiglia me sul piano letterario, io visiono sempre le sue scelte sul piano delle immagini e dei filmati. Quindi direi che è un lavoro di squadra, anche se poi la parte più dura, quella appunto del montaggio, resta assolutamente la sua.

Ora che finalmente riaprono i cinema avete pensato all’eventualità di una proiezione in sala?

Certo, abbiamo pensato a una proiezione nei cinema o in spazi all’aperto e anche alla partecipazione a eventuali festival di corti. Ci rendiamo conto, riguardandoli dal primo in avanti ma anche in ordine sparso, che ognuno racconta una storia, la nostra, ma tutti insieme, da marzo a oggi, sono una testimonianza, uno spaccato di vita, che intreccia anche l’onirico. Si tratterà ora di selezionare le parti più importanti di ciascun corto (ad oggi siamo a più di quattro ore di filmati, se messi tutti insieme), e farne un montaggio adatto a essere proiettato. A questo proposito credo che la prima proiezione pubblica la faremo all’interno della rassegna estiva di Varigotti (Finale Ligure) che da tre anni curo con la collaborazione del Comune e dell’Associazione Varigotti Insieme. Ancora non sveliamo la data ma la saprai prestissimo.

Quali altri progetti hai in programma per il futuro?

Tra i progetti immediati c’è appunto la rassegna estiva di Varigotti, in agosto, che malgrado le difficoltà connesse all’emergenza abbiamo deciso di ripetere per il terzo anno consecutivo e ne sono davvero felice. È un appuntamento per me prezioso, che unisce arte, teatro, musica, e tantissimi amici (tutti i miei amici più cari vivono in Liguria, praticamente). Poi il monologo su Antonia Pozzi, per la regia di Alberto Giusta, con Lisa Galantini, prodotto dal Teatro della Tosse di Genova (dovrebbe debuttare a marzo del prossimo anno). Sicuramente due libri che sto finendo… E poi mi piacerebbe continuare questo video progetto, magari dopo una pausa estiva necessaria anche per riprendere le forze. Mario ed io pensiamo che ci sia ancora molto da raccontare, sia che l’emergenza, come tutti ci auguriamo, finisca del tutto, sia, viceversa, se il covid dovesse purtroppo continuare a circolare dopo l’estate. Ma al di là del virus, ormai il progetto è una narrazione del e sul nostro tempo e sulle «magnifiche sorti e progressive» (o regressive), quindi finché avremo idee e desiderio di esprimerle, lo porteremo avanti.

I progetti, per una persona che sogna tutto il giorno, sono ancora tantissimi a dire il vero, ma su alcuni mantengo un po’ di segreto anche per scaramanzia.

Foto di Kate Trifo da Pexels

Gli animali non ti guardano

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di Matteo Quaglia

C’è una mano che stringe la tua, le dita intrecciate nella presa degli innamorati.

Il divano-letto è un vascello di sconfinati ricordi, assorbe il sudore del tuo corpo e si tende sotto la calura estiva, che filtra dalla finestra spalancata sul cemento della corte interna.

Quel cemento coperto di catrame sta ribollendo silenziosamente e tu hai ancora l’orecchio destro tappato. Il divano-letto sembra respirare, sotto di voi.

Questa è la vostra ultima notte, lì.

Un sottile strato di sudore lubrifica l’anulare scivolando tra la pelle e la fede. Le vostre mani saranno intrecciate da un paio di ore e inizi ad avvertire un leggero formicolio.

Guardi lassù. Il ventilatore da soffitto vortica furibondo, eppure non può far altro, se non disperdere l’odore acre dei vostri corpi nudi e appiccicaticci.

Dici l’ufficiale giudiziario col fabbro e compagnia bella arriverà per le nove. Il marito di tua sorella ci passa a prendere alle otto.

Il formicolio che avverti alla mano si estende al dito medio, che ti è stato amputato dopo l’incidente.

Lisa fissa lo schermo della tv e dice ogni cosa importante per qualcuno ha zero valore per qualcun altro. E tu sai che non sta parlando di nulla in particolare, o forse sì, ma non hai la forza di approfondire la questione.

Passi la mano libera sulla fronte, scosti i capelli dagli occhi.

Il dito fantasma, anche lui ogni tanto soffre il solletico. Il dito fantasma a volte si alza per mandare a fanculo la gente e poi tu te ne resti così, come se ancora non credessi al vuoto tra indice e anulare.

Dici mi dispiace per come sono andate le cose. Ho fatto davvero tutto il possibile e ho dato tutto me stesso, ma sai che il capo non mi ha mai avuto in simpatia.

La pancia di Lisa si solleva e si abbassa e una gocciolina di sudore disegna un sorriso sul suo fianco.

La tv proietta in quattro terzi un documentario sui grossi felini della savana, ma avete azzerato l’audio.

Le onde di luce della tv irradiano di bianco i vostri corpi spiaggiati, e il bianco diventa giallo e azzurro o blu scuro, a seconda dell’immagine trasmessa.

State fissando da un po’ quei felini ruggire e sbadigliare e appostarsi; le mani intrecciate bagnano di sudore il lenzuolo e Lisa dice sono loro che stanno guardando noi. Non sembra anche a te che siano questi animali a guardare noi?

Lisa ha le gambe accavallate, il piede destro penzola ritmicamente, nel lieve tintinnio della cavigliera in rame.

Dici davvero, non so cosa pensare, cristoddio, dì qualcosa, fammi capire che mi capisci.

Lisa distende le gambe appoggiandole sulle lenzuola e distoglie lo sguardo dalla tv. Stinge la tua mano, producendo un leggero ciaff.

Inspiri e concentri il tuo sguardo sugli scatoloni ammucchiati un po’ ovunque, isole di preoccupazioni ai bordi del monolocale. Sul posacenere colmo di mozziconi. Sulle bottiglie di birra vuote. Sul mucchietto di solleciti che non avete mai aperto.

Dici e poi era ora di cambiare casa, questa davvero non ci merita. Non capisco come siamo riusciti a farci stare tutta sta roba.

Lisa torna a fissare lo schermo. Chiede possiamo cambiare canale? Questi animali continuano a fissarci.

Guardi anche tu la tv, e vedi piccoli uccelli appollaiati sul dorso dei rinoceronti, sulla loro testa, che beccano dentro le orecchie dei rinoceronti. Pasteggiano. Fissi l’occhio nero dell’animale riflesso sullo schermo.

Dici gli animali non ti guardano. Non gliene frega un cazzo di noi, credimi.

Lisa ha i capelli raccolti in due trecce. Dice io mi alzo, non ne posso più di questi animali che ci fissano. Molla la tua mano. Afferra il pacchetto di Camel e si avvia verso la finestra, che dà sulla corte interna. Si piega in avanti e si appoggia con i gomiti al balcone, poi fa scattare l’accendino. Guardi la sua figura parzialmente illuminata dallo schermo. L’odore di fumo si insinua nella stanza.

Ti alzi e raggiungi Lisa e la stringi in un abbraccio, da dietro. Le tue carni contro le sue carni e il sudore fa scivolare il tuo petto sopra la sua schiena, ma solo di qualche centimetro.

Lisa chiede dove andremo non ci saranno più animali a fissarci, vero?

Volti la faccia verso lo schermo poi lo sguardo scivola al divano-letto su cui fino a poco fa tu e Lisa eravate distesi.

I vostri corpi hanno lasciato impronte di sudore e pelle invisibile ovunque. Con un po’ di fantasia, puoi indovinare il culo di Lisa, tra quelle macchie. La testa di lisa, la sua schiena, le sue gambe. Cerchi l’effige della tua mano e lo spazio che il moncherino dovrebbe aver lasciato, un’impronta a quattro dita, ma poi rammenti che la mano era intrecciata alla mano di Lisa e così cerchi la macchia lasciata da quelle nove dita congiunte. Infine lasci perdere.

Sposti lo sguardo nuovamente sulla tv e ti accorgi che tutti quegli animali, leoni e giaguari e rinoceronti della savana, stanno in effetti fissando il divano-letto. Sono reali e si chiedono dove siete finiti.

Fissano le impronte di voi che fissavate gli animali. L’idea degli animali che fissavano voi è la verità adesso, lì. Quando, tra poco, tornerete su quel divano-letto per l’ultima volta, prima di chiudere gli occhi, forse sentirete davvero l’umidità di quelle lenzuola impregnate di fumo, o forse no, e tutto sarà scontato e disincantato.

Il divano-letto scricchiolerà, lo sai, e il materasso liso sprofonderà leggermente. Spegnerete la tv e la stanza sarà buia e vi addormenterete. Buonanotte.

Giri la testa e appoggi la faccia sulla schiena di Lisa. Le dai un bacio sulla pelle nuda. Dici no, dove andremo non ci saranno animali a guardarci.

 

 

Norris

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di Hilary Tiscione

La figlia piccola è matta da legare. L’altra è viziata e altezzosa. Ho imparato l’arte della calma. Verso brandy e firmo assegni, conosco ogni nuance del generale Sternwood. Se non ci fossi io qui dentro andrebbero tutti a gambe all’aria. Il capo ha chiamato un detective perché Carmen, la piccola, è finita nella merda un’altra volta. Ma li ho sentiti parlare anche di Regan. Regan è sparito. Non si sa dov’è Regan. Regan era come un figlio. Il generale ci muore senza il suo Regan.
Chiede al detective Marlow di togliere dai casini Carmen, quella stronza che si succhia il pollice. Dietro la storia della piccola ci è finito in mezzo anche Regan. Perché? Perché il generale è ricattato. Due anni fa ha dato 5.000 dollari a un certo Joe Brody perché lasciasse stare la piccola Carmen, di quella faccenda se n’era occupato Regan.
– E adesso? – Chiede Marlowe.
– Adesso Regan è sparito. Un mese fa, senza dire una parola – bisbiglia il vecchio. Quando c’era Regan nessuno osava darmi noie, ora invece… Stava qua con me a bere brandy, era un amico, capisce? Prima di tutto era un amico. Speravo almeno mi dicesse addio.
Ecco come è sbucato Regan dalla conversazione, ma adesso il punto è levare Carmen dai guai. Sento i passi di Marlowe e mi allontano dalla porta d’ingresso. Lo attendo al centro del salotto.
– Vivian, la grande, l’ha vista dalla finestra, sono stato costretto a dirle chi è, insomma le ho detto che lei è un detective, dico. La Signora vorrebbe vederla prima che vada via.
Lo accompagno all’ingresso della stanza. Mi allontano di poco per origliare. Voglio sentire cosa dice Vivian, cosa preoccupa la Signora? Perché immagino fino a che punto può arrivare l’azzardo alienato e maniaco di quella donna. Gli domanda se suo padre lo ha ingaggiato per cercare Regan. Il detective le consiglia di non perdere tempo nel tentativo di farlo cantare.
– Lo rintraccerebbe se glielo chiedesse? – Domanda lei.
– Può darsi, fa Marlowe.
È furba, la ragazza. Sono certo che stia fingendo lo sguardo addolorato. Dice che Regan aveva preso la macchina un pomeriggio, era partito senza dire una parola. L’auto è stata ritrovata in una rimessa privata. Brava, lo sanno tutti.

Coeur Scorbatt/Cuore Corvo

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di Luigi Balocchi

Fotografia di Luigi Balocchi

 

La benediziòn 

A sto nòst fioeu bislacch
tegnuu in scòssa
che foeura l’ tireva
on vent bastard
fagh mai mancà
la cà, on foeugh,
la man del pader,
on gutt de vin,
de quel mes’ciaa
cont al nòster sangh.

La benedizione

A questo nostro figlio balordo/ tenuto in grembo/ quando fuori impazzava/ un vento di tempesta/ non fargli mai mancare/ la casa e un fuoco/ la mano del padre/ un goccio di vino/ di quello mischiato/ con il nostro sangue.

***

Nissun

Mì som no brau, som no
cattiv, mì som quell che
m’han faj diventaa. Nissun
destin, fòrsi ‘n fulmin,
làver, niul, mì som quell
che l’è rivaa e l’è scappaa.

Nessuno

Io non sono buono, non sono/cattivo, io sono quello che gli/altri m’han fatto diventare/nessun destino, forse un fulmine/labbra, nuvole, io sono quello/ che è venuto ed è scappato.

***

Coeur scorbatt
Coeur ner ‘me ‘n scorbatt
ch’el puccia semper lì
do’che han massaa al nimal
e ‘l sangh l’è giù sguttaa
den’ quella Terra chì.
Per tì anmu quel bas,
intant che ‘l buja ‘l broeud
con den’ tajaa a tocchel
la pell, al mus, al ciapp,
al mej de st’ amour chì.
Cuore corvo
Il cuore nero come un corvo/ s’intinge sempre/ dove hanno ucciso il maiale/ il sangue è gocciolato
su questa terra./ Per te ancora quel bacio/ mentre bolle il brodo con pezzi di pelle, il muso, il culo,/
il meglio di questo amore.
***

L’Agnes e ‘l Lucianin

Sta a l’oeucc, che ta vee den’…
sacrament d’ona vita a l’incontrari.
Al giuin quell pussee fòrt
l’è andaj per prim.
Giù in del bus cont i sparg
i oeuv i verz l’ostia e ’l vin
quella su’ gran’ facciascia
de ciapaj tucc quanti per ‘l cuu,
i nòtt, i slepp, al temporal,
al sorris de la scarògna che gh’emm
den’ num che vegnom del paes.
De’ con luu gh’è rivaa
anca l’Agnes. On scappusc
e giù d’on bòtt anca lee
la s’è desfaa. La resenta
fazzolett al cassùu ficcaa
den’de la polenta qji su oeucc
che piangia o rida sa sa no.
Ormai l’è nòtt. La carezza
al Lucianin la gha dis
che l’è ‘n malnatt, cià
gha scalda on poo de latt.
“Bev!” Gha fa “ E de’
riposes. Che semm tucc stracch.”

*Liberamente tratta da – Agnese e Luciano – di Elena Cattaneo

L’Agnese e il Lucianino

Stai attento che ci finisci dentro…/ Maledetta vita all’incontrario./ Il giovane quello più forte/è andato via per primo./Giù nel buco con gli asparagi/le uova le verze l’ostia e il vino/quella sua faccia/che tutti prendeva per il culo/le notti gli schiaffi il temporale/il sorriso sfortunato che abbiam /noi che veniamo dal paese./Ora con lui c’è/anche l’Agnese. Una caduta/ e giù che di colpo anche lei/è morta. Stira/fazzoletti il mestolo nella/polenta quei suoi occhi/che piangono o ridono non si sa./Oramai è notte. Carezza/ il Lucianino, gli dice/che è un disgraziato/gli scalda un po’ di latte./”Bevi!” Gli fa “E ora/riposati. Che siam tutti stanchi./

***

‘Me l’è andaj
La m’è andaj ben no la sulfa, la suppa, ran
ran ‘l malaa ‘l porta al san,‘me quell
che in bucca a l’è minestra fata, risòtt
senza la saa, la straa che ta finissa
per poeu tornà puu indree. Son mì sicur
con dent’ sto sangh marscì de quan’sevi
fiurin a curr tra ‘l praa e ‘l canal, fin
quand a l’è passaa quell tren a cent a l’ora
che tucc a laurà e mì che resti lì, canela
disperaa, a usmaa al mè fiur streppaa.

Come è andata

Non mi è andata bene la solfa, la zuppa, la lagna/ quotidiana, come quello/ che in bocca è insipida minestra, risotto/ senza sale, la strada che finisce/ per poi più non tornare. Son io sicuro/ con dentro questo sangue marcio  di quando ero/ bambino a correre tra il prato e il canale fin/quando è passato quel treno a cento all’ora/che tutti andavano a lavorare ed io sono rimasto lì, stupido disperato,/ad annusare il mio fiore strappato.

***

Fòss

Piangia no. Se vegna la stria
coi su tett e minga ‘l latt,
che la vosa ‘me ‘l nimal
ch’hin ‘dree massaa, piangia
no. Gh’è la bissa cont i pee,
la lumaga coi oeucc grand,
la pigòtta che la brusa con
la crapa ficcaa den’ d’on
paltòn de merd e rugh. Mì
l’è lì che som borlaa, som
s’ceppaa, hoo mai piangiuu.
Già gh’è ‘l ciel ch’el suta fall,
lì in del fòss tucc quei ch’hin
mòrt. Che voeuren nass.

Fosso

Non piangere. Se viene la strega/ con le tette senza latte/ che grida come il porco/ ammazzato non piangere./ C’è la biscia con i piedi/ la lumaca con gli occhi grandi/ la bambola che brucia con/ la testa giù ficcata in una/ fanghiglia di merda e immondizia./ È lì che sono caduto sono/ rotto non ho mai pianto./ È già il cielo che continua a farlo/ lì nel fosso tutti quelli che son/ morti. Che vogliono nascere./

***

Den’   

De quan’ m’han brancaa
del venter de la stria
‘na bissa semper quella
sa rampéga su in del coeur.
L’è lee che la ma ciama
l’eterna di gamb vert
l’è den’ in quella crenna
den’ l’oeuv al gius al bus,
in scòssa al mè disaster.

Dentro

Dal giorno in cui mi hanno acciuffato/ dal ventre della scrofa/ una biscia mi si arrampica per il cuore./ E lei che mi chiama,/ l’eterna dalle gambe aperte./ È dentro in quella crepa/ nell’uovo la melma il buco/ in grembo al mio disastro.

—–

Notizia: il dialetto usato è quello di Abbiategrasso/Biegrass nel parco del Ticino/Tesinn

Orchestrina della carne

1
dav

 

 

                                                                            una nota di Pasquale Pietro Del Giudice

a Il lume della follia di Prisco De Vivo

 

il lampo azzurro (particolare dell’opera)

 

Il tema del male, declinato nelle variabili della malattia, della mortalità e della follia, alimenta i testi, i ritratti e i corpi di questo libro multiforme, strutturato in un dialogo tra le arti, in cui la pittura, il disegno e la parola si passano e travasano religiosamente la buia sostanza della poesia. Linguaggi che rappresentano gli strumenti di una stessa orchestrina espressionista minimale, fragile e parca, a mimare la dimensione della povertà e della necessità, un pasto frugale che ricorda, se vogliamo, il teatro di Beckett. Questa dimensione dialogica arricchisce vicendevolmente le arti messe in gioco e la portata comunicativa di una poetica contrassegnata dalla senescenza e dal tragico. La follia, come alterazione dal consueto e dallo schema obnubilante della salute del progresso, in questa antropologia rappresenta classicamente l’elezione e la condanna, il processo degenerativo che porta insieme la ribellione del corpo e la sua identità, determinata come storia e distorsione di una fisiologia deragliata dai binari della legge dello scheletro e della sintassi.

Restando in questa prospettiva, la struttura del mondo rappresenta una gabbia insensata di stringenti poteri, ai quali, kafkianamente, come in un film di Cronenberg, si oppone la cieca dedizione alla propria tela di ragno, tessuta in un buco o in una cantina sfuggita all’occhio di Dio, all’ombra del proprio lavorio, sottratto alle grinfie della specie. Il poeta, attraversando questa condizione, nel caso di De Vivo, sottrae, mangia al tessuto consueto linguistico delle funzioni, trattando il testo stesso come un corpo mangiucchiato dal morbo del tempo, imprimendo alla lingua il negativo delle propria identità; così il poeta diventa tarlo di se stesso, si sabota volontariamente, dall’interno, si innamora e stringe un patto col verme che lo logora e lo alimenta, tenendosi reciprocamente in vita. Il lume della follia si contrappone dunque al lume della ragione o meglio ci mostra un’illuminazione ulteriore, perduta dal logos razionalistico, amplificando e legittimando una proliferazione periferica di pulsioni creative irrazionali, autodistruttive e sacrali. Le figure rappresentate portano dunque scritto in volto i segni di un destino soccombente, il marchio della differenza, dell’affermazione del proprio linguaggio poetico, di cui coltivano le stimmate come una ricompensa. Gli incontri del poeta si inscrivono spesso in una dimensione onirica e simbolica del quotidiano e in queste ambientazioni si ripresenta il tema di un offeso candore che la vita porta con sé, nel suo necessario compromettersi, di un’inevitabile macchia che nessuno esclude, richiamando anche in questo una connotazione religiosa e un’antropologia cristiana.

Questa poesia, tuttavia, anche sfiorando le pratiche medievali del masochismo mistico, la dimensione tragica e il solitario culto della morte, non si esaurisce nella sterilità, rappresentando innanzitutto una forma di dialogo, apertura che oltrepassa i secoli e insieme si rivolge alla prossimità delle figure amate. Nel dialogo con i morti riconosciamo una richiesta d’amicizia verticale, all’ombra degli eventi. L’autore, rivolto al passato, lancia l’amo di questo pugno di versi nel mare rimosso della storia, alla ricerca di fratellanze, parentele nella dissonanza dal mondo, nello sradicamento e nell’estraneità, conservando, come possibilità relazionale, la pietà e il riconoscimento della propria caducità. La voce del poeta si rivolge a un cimitero di ombre, di figure artistiche di cui si ricerca la voce e l’appartenenza. Le numerose dediche, ora a F. Nietzsche, ora a Vincent Van Gogh ecc.. e a tutto un universo riconducibile a una poetica del negativo, da Kafka a Ceronetti, rappresentano lo strumento privilegiato di questa richiesta. In quest’ottica ogni poesia potrebbe essere paragonata a una missiva imbucata in un’ipotetica casella postale dell’aldilà, i cui destinatari sono ideali compagni di viaggio, coloro che secondo l’autore “hanno amato Dio nell’incoscienza e nel delirio”, quelli che “hanno abbandonato la vita per ritrovare se stessi”. Ma oltre al respiro nascosto della storia, a una verticalità e una corrispondenza misurata nel tempo dei secoli, è altrettanto vivo il sentimento della vicinanza, della prossimità delle figure care, familiari e non, verso le quali si instaura un legame di partecipazione al dolore, da cui scaturisce la compassione per il ritratto precario della persona umana, nella restituzione della sua dignità; in una delle poesie più riuscite,  “L’abbraccio di tua sorella Gina”, da sottolineare è anche l’utilizzo del dialetto napoletano, che aggiunge un aspetto sepolcrale della lingua di De Filippo, l’odore della Napoli del cimitero delle Fontanelle. Non è un caso dunque se il volume presenta in esergo due dediche “In memoria di zio Gaetano e zia Olga” e “Ai cani sciolti, ai vagabondi pii e santi che muoiono folli” sintetizzando le polarità verso cui tende il libro, ovvero il riconoscimento nella distanza, nel destino vocazionale dell’artista e dei suoi fratelli e l’individuazione dello stesso sentimento nella vicinanza di alcune figure umane predilette.

La cifra estetica di questi versi brevi, netti, spezzati, riesce a tenere insieme passionalità e oscurità, l’incontro dei due elementi in una dolcezza lugubre, un’eleganza nella tenerezza degli occhi di un bambino senza patria, che ai margini, nel deperimento, tra i dimenticati dal progresso, riconosce il residuo autentico e terribile della vita nella sua nudità.  Sperimentando sulla propria pelle quella caduta dal tempo di cioraniana memoria, questo libro prova a rielaborare la lezione, tra i poeti contemporanei un po’ accantonata, di Giuseppe Ungaretti, mescolandosi ad echi di altri poeti dal vissuto tragico, come Paul Celan, Georg Trakl e Sergio Corazzini. Il recupero delle affermazioni lapidarie ed assolute, l’utilizzo del silenzio, dei vuoti spaziali come elementi plasmanti e la scarnificazione linguistica fanno pensare al poeta della prima guerra mondiale, degli altri poeti citati risentiamo l’eco nell’espressionismo tragico e il culto della morte da angelo nero, da fanciullo ammalato e crepuscolare. Tuttavia, nonostante le tinte oscure, questo libro cela una sua leggerezza, un inatteso spiraglio, come se anche il nero contenesse in sé una dimensione nascosta della grazia, un principio speranza attraverso il quale potersi  aprire alla dimensione sconosciuta dell’altro.

 

 

Dove è nato “Lo specialista”

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di Mauro Baldrati

 

 

 

 

 

 

 

La genesi di questo testo risale alla prima metà degli anni Novanta, quando lavoravo a Milano come fotografo. Poiché ero sempre alla ricerca di nuove avventure (fotografiche) mi recai a Firenze, in una villa sui colli, dove gli Hare Krishna tenevano un festival, per realizzare un reportage. Ero attratto dal tripudio di colori che i ragazzi e le ragazze portavano con sé durante gli Happening per le strade della città. Erano ancora molto attivi, era possibile vederli in azione coi loro canti, balli, e fantasie floreali.
Fu un’esperienza interessante. Parlai con molti di loro, ma soprattutto conobbi un uomo, un devoto con l’abito bianco, cioè un monaco, un illuminato. Subito scattò un rapporto che non esito a definire inaudito. Ancora oggi non so perché gli raccontai i miei trascorsi romagnoli e romani, quando ero finito in una spirale autodistruttiva dalla quale mi salvai per miracolo. E lui mi raccontò il suo passato criminale, quando era un assassino su commissione, una spirale altrettanto autodistruttiva – oltre che distruttiva – dalla quale si salvò grazie all’illuminazione. Disse che per lui non ci sarebbe mai stata salvezza, per il suo karma così negativo, se non fosse diventato un bodhisattva, cioè un risvegliato, colui che carica su sé stesso il karma degli altri e lo consuma per loro.
Restai nel campo degli Hare Krishna tre giorni, dormendo nel campeggio che avevano allestito nel parco della villa. Scattai delle foto spettacolari, che l’agenzia Grazia Neri vendette a varie testate, e nel tempo libero non feci che parlare col devoto in abito bianco. Penso che molte persone abbiano notato un uomo coi pantaloni militari, il gilè da fotoreporter e due macchine fotografiche al collo, seduto di fronte a un illuminato con l’abito bianco mentre lo ascoltava parlare a testa bassa.
Durante il viaggio di ritorno, in treno, il suo racconto continuava a infuriarmi nella mente. Non sapevo se crederci, ma non era importante. Quella era la sua verità, e io volevo fermarla, questa verità. Volevo trascriverla.
Infatti, appena tornato a Milano, ricominciai a scrivere. Era un’attività che avevo sostituito con la fotografia, ma risaliva ai tempi dell’adolescenza, quando ero invasato con Jack Kerouac e Henry Miller. Buttai giù in pochi giorni un testo fatto più che altro di appunti, di personaggi, perché il flusso narrativo del devoto in abito bianco era impresso nella mia memoria ed ero convinto che ci sarebbe rimasto per sempre.
Passò del tempo, passò qualche anno. Il mestiere di fotografo lentamente implose, andò verso l’estinzione, come spesso avviene coi lavori da freelance. Intanto attinsi dal racconto del devoto in abito bianco e scrissi alcuni racconti, le missioni del killer, che pubblicai su riviste e sul blog letterario Nazione Indiana.
Avevo deciso che volevo svilupparli, rifinirli e farne un libro. Il materiale c’era. Ma non era farina del mio sacco. Inoltre avevo la necessità di chiarire molti punti, soprattutto quelli relativi all’illuminazione di un assassino che cambia vita e cerca di riscattare tutto il male che ha causato. Per cui, sfruttando l’addestramento e i contatti del giornalista, che riesce a trovare chiunque ovunque si trovi, iniziai la ricerca.
Lo trovai. Viveva in un Paese del Nord Europa, ma non era più un Hare Krishna. Era diventato un monaco Shaolin. Disse che era una cosa abbastanza frequente, nel loro mondo. Disse che aveva in programma un viaggio proprio a Milano, di lì a due settimane. Sarebbe stato lieto di rivedermi.
Ci incontrammo in un centro di yoga e arti marziali, non lontano dalla stazione centrale. Sapevo che era un esperto di kung fu, ma dopo la sua conversione a Shaolin, disse, aveva vinto i campionati mondiali in Cina.
Shaolin. Non sapevo molto di loro, salvo che negli anni Settanta seguivo la serie televisiva Kung Fu interpretata da David Carradine nella veste del monaco.
Gli parlai del libro. Lui annuì, ma disse che non intendeva partecipare in alcun modo. Ora la sua era una vita nuova, il suo impegno era totale e i suoi obiettivi chiari e precisi. Disse di scriverlo, e di pubblicarlo se volevo, ma a mio nome.
Io accettai. Sapevo che tra me e lui era inutile discutere. Quello che diceva, quello era. Senza nessun ‘ma’ o ‘forse’ o ‘però’.
Così, dopo l’intervista che mi serviva per chiarire i punti in sospeso, a cui seguì un fitto scambio di lettere e poi di email, tornai non a Milano, ma a Bologna, dove mi ero trasferito e dove era nata mia figlia, e iniziai la stesura.
Veniva bene. Usciva gagliarda. Dietro c’era una materia vivente. C’era un vero racconto, che dovevo sistemare, rifinire, completare. Quando mi sembrò di essere pronto lo spedii a Sergio (Alan) Altieri, che avevo scoperto con un libro formidabile, Magdeburg. L’eretico. Ero entusiasta di quella scrittura nera apocalittica, poi avevo letto altri suoi libri che avevo recensito su Nazione Indiana e Carmilla, ed eravamo diventati amici. In un certo senso anche lui era uno Shaolin. Era un uomo sincero, e totalmente generoso. Mi inviò la prefazione che è pubblicata qui, dicendo che mi apparteneva, e potevo farne ciò che volevo. Anche cambiarla, se era necessario. Gli sono particolarmente grato di quella precisazione, perché ho potuto modificarla, sostituendo il mio nome con lo pseudonimo del monaco Shaolin che nel romanzo è lo Specialista.
Perché è uno pseudonimo, anche se è un nome ‘vero’. Gli Shaolin non scelgono i nomi a caso, ci sono delle regole che si basano sulle diverse generazioni. Per cui il nome del monaco che racconta le sue avventure, Shi Heng Wu, l’ha creato lui, il mio monaco. Così come i nomi degli altri maestri.
Il libro, dopo varie traversie e le solite lunghe attese che caratterizzano il mondo dell’editoria, fu pubblicato nel 2013 da un editore indipendente, Edizioni Anordest.
È passato altro tempo, altre traversie, e ora ho deciso di ripubblicarlo, in una edizione rinnovata, migliorata e potenziata, anche se la struttura originaria è la stessa.
Non sono più riuscito a mettermi in contatto col mio monaco. Non so dove sia, né cosa stia facendo. Però non mi andava di ripubblicarlo a mio nome. Mi sembrava un’operazione non del tutto corretta, anche se avevo la sua autorizzazione. Così ho deciso di utilizzare il nome del personaggio narrante, che diventa autore.
Ma è vero? È tutto vero?
Io non lo so, né posso saperlo. Ma per me lo è. Lo sentivo dalla sua voce, traspariva dal suo volto mentre lo raccontava. E poi come avrebbe potuto un devoto Hare Krishna conoscere quei luoghi, e quei personaggi? E quelle armi? E tutta quella violenza?
E ci ho messo del mio? Certamente. Questo non è un testo di verità assoluta. È un romanzo con una solida base di verità. Diciamo che potrebbe essere un’autofiction trascritta da me. Diciamo che sono stato il produttore, il regista e il coreografo del grande shifu Shi Heng Wu, campione mondiale di kung fu e del suo gigantesco alter ego, lo Specialista: i veri narratori di questa storia.

NdR: questo testo (“Nota del curatore”) di Mauro Baldrati racconta la genesi de “Lo specialista”, edito nelle settimane scorse da Fanucci

La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia (quarta parte)

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NOTA INTRODUTTIVA

 

Luciano Caruso, Omaggio a Burri, (Le porte di Sibari), 1990

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

SOGLIA

 

«L’isola è il minimo necessario a questo ricominciare, il materiale che sopravvive alla prima origine, il nucleo dell’uovo che irradia e che deve bastare a qualunque ri-prodursi. Tutto questo presuppone chiaramente che la formazione del mondo sia a due tempi, a due livelli, nascita e rinascita, che la seconda sia tanto necessaria ed essenziale quanto la prima, quindi che la prima sia necessariamente pregiudicata, nata per una ripresa e già rinnegata in una catastrofe. Non vi è una seconda nascita poiché ha avuto luogo una catastrofe, ma all’opposto c’è catastrofe dopo l’origine poiché vi deve essere, a partire dall’origine, una seconda nascita.»

Gilles Deleuze, Cause e ragioni delle isole deserte

 

 

TAVOLA DEGLI INTERVENTI

 

PRIMA PARTE

(uscita il 14 marzo)

Aldo Tagliaferri / Giulia Martini / Davide Brullo / Polisemie (Mattia Caponi, Costantino Turchi) / Francesco Iannone / Carlo Selan / Marco Giovenale / Mattia Tarantino / Giovanna Frene / Carlo Ragliani / Marilina Ciaco / Sergio Rotino

 

SECONDA PARTE

(uscita il 29 marzo)

Matteo Meschiari / Andrea Inglese / Davide Nota / Renata Morresi / Riccardo Canaletti / Bianca Battilocchi / Anterem (Flavio Ermini, Ranieri Teti) / Mariangela Guatteri / Mario Famularo / Fabio Orecchini / Giovanni Prosperi

 

TERZA PARTE

(uscita il 31 maggio)

Massimo Gezzi / Mariasole Ariot (con Andrea Inglese) / Vincenzo Ostuni /  Lorenzo Mari / Giorgia Romagnoli / Daniele Poletti / Alessandro Mazzi / Claudia Zironi / Enzo Campi / Alessandra Greco

 

QUARTA PARTE

Tommaso Di Dio / Laura Pugno / Bernardo Pacini / Giulio Marzaioli  / Cristiano Poletti / Eleonora Rimolo / Dimitri Milleri /   Alessandra Carnaroli / Valerio Cuccaroni (Argo) / Emanuele Franceschetti   / Nicola Passerini

 

 

TOMMASO DI DIO

 

Caro Giorgiomaria,

è nella natura della “cosa” di cui parliamo essere sfuggente. Si lascia sì afferrare, ma in un modo tale che la presa non tiene e non appena le dita le si posano attorno, si avverte «sensim sine sensu»[1] – «a poco a poco insensibilmente» – che la “cosa” scivola via, scorre altrove: e si perde, in un vuoto, la presa che fu salda. John Ashbery in Syringa[2] ha scritto: «It is in the nature of things to be seen only once». Mario Benedetti nel suo ultimo libro, Tersa morte, ha invece scritto: «È giusto che io non veda questo mai più»[3]. Di cosa parla la poesia? Cosa fa chi ne legge una? Di quale smisurata misura parla, di quale misurata smisuratezza? La poesia – chi ne ha letto per davvero almeno una lo sa bene – esprime una oscura, materiata e terrorizzante forma di giustizia: quelle parole sono senza appello. Chiamano, chiamano te, eppure la loro voce non ha fondo: è uno sprofondo. «Era terra dentro di loro, ed essi/ scavavano»[4]… Ogni parola, una volta scritta, una volta pronunciata, ha lo sguardo di Euridice che cade nella tenebra, irredimibile («namque hanc dederat legem/ inferna dea»[5]). Si dice allora che il grande poeta e legislatore Solone abbia scritto: «Fornisci indizi visibili per le cose invisibili»[6]. E la poesia non prova a fare altro, ma Euridice non tornerà mai più: sarà un bagliore della mente.

Ricorderai che nel Timeo di Platone, ad un certo punto, Socrate fa un discorso strano. È un momento celebre. Siamo al passo 49a, quando Socrate fra molte incertezze introduce la necessità di un discorso a proposito del «terzo genere». Lo definisce subito «oscuro e difficile»; e lo chiama poi «ricettacolo», «per così dire, nutrice di ogni generazione»: chōra. Molti traduttori si sono affannati a tradurre queste poche parole. Ma bisogna nondimeno approssimarsi, procedere. Poco dopo, Socrate aggiunge che motivo della difficoltà è che quando proviamo a parlarne, dobbiamo fare i conti con gli elementi, come l’acqua e il fuoco; essi mutano, trasmutano, si trasformano e si slacciano l’uno nell’altro tanto che Socrate afferma: «Così dal momento che ciascuna di queste cose non appare mai la stessa, di quale di esse si potrebbe sostenere con fermezza, senza vergognarsi, che, di qualsiasi cosa si tratti, è proprio questa e non un’altra?»[7].

Usiamo continuamente le parole, Giorgiomaria, ne siamo ossessionati. Continuamente parliamo e discutiamo, scriviamo e rispondiamo, ma sembra che raramente ci soffermiamo a contemplare cosa succede quando l’animale homo diventa preda di quello strumento incredibile e potentissimo che è il linguaggio alfabetico: questa grande macchina algoritmica. I poeti dovrebbero saperlo, non sempre lo sanno; a volte lo sanno e fanno finta di non saperlo. Tu stesso hai indicato questa soglia di interrogazione chiamando questo spazio strappato al tedio del quotidiano con l’espressione la radice dell’inchiostro. Per stare nel momento dileguante della scrittura, se si vuole davvero scrivere una poesia e non “decorare la propria epoca” come ha scritto Williams[8], è necessario fare i conti con questa presa che manca sempre, con questo gesto fantasmatico che sovverte ogni solidità e restituisce al reale tutta la sua liquida dinamicità: la sua potenza di essere sempre dissimile da ogni similitudine con cui la sia voglia catturare. In questa, per citare Agostino, regio dissimilitudinis, in questa distanza fra il detto, il da dire e il Dire, la poesia convive da tempo ormai. Questa è l’aria che deve respirare. Questa mancanza continua di ogni fondamento, questo cadere della lingua sulle proprie sillabe e nondimeno scrivere, camminare, avanzare. Nell’era precedente alla diffusione della scrittura alfabetica, quando la poesia era per lo più memoria e trascrizione somatica della voce, incisione metrica sul supporto corporeo della vanità del fiato con cui respiriamo, tutto questo era chiarissimo. Ancora nel medioevo quando si scriveva veramente con l’inchiostro e l’artificiosa materialità tecnologica dell’atto di scrittura era evidente, tutto questo pure era chiarissimo. Forse non d’altro dice la chiusa del celebre sonetto di Dante: il «sospiro» come limite invisibile del discorso. Noi oggi invece con le nostre scritture automatiche, con le nostre scritture a schermo, impalpabili e luminose nei nostri automatismi oziosi, rischiamo di perdere la sensazione della soglia: di dimenticare che la poesia è proprio imparare a stare sul limite oscillante indecidibile sempre mobile che è questa soglia fra ciò che è scritto e ciò che non può essere scritto (e di cui nondimeno sempre dovremo scrivere). Rischiamo di cadere nel discorso, Giorgiomaria, rischiamo che la poesia cada nella sua trappola onanistica e grammatologica, quand’essa è stata proprio l’esercizio di questa soglia, strumento per eccellenza di una vita sulla corda tesa. Ricordi Kafka? Il poeta è chi impara a digiunare (a vivere senza Euridice), fino a fare di questa assenza spremuta dai propri lombi un canto, un fischio, un sibilo di Giuseppina.

E allora due sono i rischi: che ci si incagli nel lutto, nella contemplazione malinconica dell’osso della seppia; che si stia a piangere perché le parole non sono la vita, non riportano in vita Euridice come la conoscemmo e la amammo. Ma c’è l’altro rischio, a cui prima accennavo, e che secondo me è più nostro, più vicino a noi, più prossimo alle nostre concrete pratiche di scrittura a schermo e di googlism ipnotico continuo: di chi invece dimentica la soglia e pretende che le parole dicano la vita, la traducano automaticamente; che la parola insomma, «gran dominatore» come la chiamò Gorgia, sappia ricreare Euridice. E no: non basta mimare il meccanismo per prenderne coscienza. Cedere tutto all’automa è un vecchio vizio surrealista a cui abbiamo creduto: non funziona più. Allora fra i due mondi, noi veniamo dall’altro, come ci ricorda Cristina Campo. Qui sta la scommessa: né l’uno né l’altro, mai; eppure fra l’uno e l’altro. E qui che bisogna vegliare, vegliare che la scrittura non sia mai sclerosi di un polo, ma scorrimento, concatenamento, passaggio continuo da uno all’altro, rimbalzo, punto di una fuga la cui figura mai si arresta in una forma sola. Bisogna imparare la ginnastica di questo disequilibrio, di questo salto su di un piede solo. Vergognarsi almeno un po’ e regalare tutto. Ha scritto Pasolini a conclusione di una delle sue poesie più belle, Rifacimento[9], nel libro che secondo me è il suo più bello: «la resa di fronte all’impossibile;/ lo scacco infinito e miserabile;/ la degradante fatalità;/ tutto si proiettava nel vento che scorreva/ come una gemma che non sposa e non scioglie/ su quelle isole deserte». Alcune delle citazioni che proponi in esergo sono ancora sintomi di un lutto che tanto ha afflitto la poesia degli anni ’70: ancora si poteva parlare della “poesia” come di un “genere letterario” da dismettere. Ormai per noi non ce n’è quasi più bisogno. La letteratura non c’è quasi più: è marginale. C’è invece il vasto regno delle “scritture”: alcune ci servono, altre no. Alcune fanno un lavoro inutile: fanno ruotare il girarrosto che già ruota benissimo da sé. Altre (magari proprio alcune di quelle “letterarie”) invece fanno qualcosa che nessun altro dispositivo fa: ci mostrano come siamo collocati nella meccanica. Ci fanno diventare sottili e penetranti, presenti come uno schidione. Tutto qui. Ecco, penso ad una poesia che «non sposa e non scioglie», ma che si proietta in un vento che rimane però sul medesimo punto; capace di scatenare micro fulmini, micro uragani tascabili, micro climi nomadi in cui poter sentire vivere una vita nella propria. Generare nascosti e minimi segnali atmosferici che, come ci ricorda Francis Ponge, annunciano la primavera. La poesia è questo annuncio per aurem di un mondo a venire. Annuncio che si dà e si bea solo del suo essere annuncio; che, nondimeno, provi a far nascere il desiderio negli uomini di mettere mano al mondo e a se stessi, come un tentativo.

Tommaso Di Dio

[1]   Cicerone, Cato Maior De senectute, XI, 38.

[2]   John Ashbery, Syringa in Houseboat days, 1977, Penguin.

[3]   Mario Benedetti, da Quegli anni non ci sono mai stati per te che non ci sei più, in Tersa morte, Mondadori, Milano, p. 49.

[4]   Sono i primi versi della poesia d’apertura del libro di Paul Celan, Die Niemandrose, 1963.

[5]   Da Fernando Bandini, Lapidi per gli uccelli, XIV, in La mantide e la città, Mondadori, Milano, 1979. Bandini naturalmente cita Virgilio, Georgiche, IV, 485-504.

[6]   Si veda I sette sapienti. Vita e opinioni, edizione a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano, 2015.

[7]   Platone, Timeo, 49d (cito dalla traduzione di Francesco Fronterotta della BUR).

[8]   «I don’t want to decorate my age», così William Carlos Williams in La primavera e tutto il resto, 1923.

[9]   P.P. Pasolini, Rifacimento, in Trasumanar e organizzar, 1971.

 

 

LAURA PUGNO

La parola fa questo

 

i corpi si dispongono,

intorno a te con le loro ombre,
sono nello spazio

sono lo spazio e tu

conosci per sempre i loro nomi
e ne prenderanno altri,
anche quelli
conoscerai, sarà tempo.

Ora, da sola
(da solo)

li vedi che usano il corpo con calore,
che si toccano
come se si conoscessero,

ma senza sfiorare la materia d’ombra,
il suo peso,
il nero che la muove

la luce separa nettamente
di qui e oltre sé
visibile, invisibile, infrarosso

sai che è lì,
che non lo percepisci, la tua stessa
luce-incendio.

 

 

Il giorno dopo trovi queste parole,
pietra oscura,
pietra splendente.

 

 

Da luoghi diversi ti chiamano,

nominano ciò che non
hai visto ancora,
e dalla lamina d’oro
viene questa parola, agnello
cadesti nel latte,

così bianco cadi –

 

come se non ci fosse altro bianco,

altro libro da scrivere:

 

ma la lingua nuova, sempre, le nuove cose

la chiedono e sotto,

o dietro, nel nascosto,

ciò che è cosa da sempre,

la chiede a te, impara
il balbettio del mondo,
il giorno già accecante che ti riscalda le spalle,
poi se la notte cade
lentamente o di colpo, e in quale punto del mondo,
sceglierai il suo cadere, il cambiamento –

 

 

in quale punto del mondo sei a dire,
in che lingua,
confondi la tua
e parli solo, allora
la lingua del sole sulle cose,
nel cieco del corpo?
o la sua parte, che più vede:

la poesia che puoi portare
in tasca, che scrivi su ogni specchio
o riflesso, sulle luci che in tasca
ti bruciano,
e il conto degli attraversamenti
non va a zero,
tutti i mari ricordati,
dove i nomi e gli oceani si incontrano e oltre,
c’è solo una terra bianca, penisola, il non scritto, e oltre.

 

 

BERNARDO PACINI

 

Assillato dall’alba, lo scrittore osserva seduto in modo composto col numerino in mano il luogo verso cui deve avviarsi / prendere forma dietro la porta.

Avviandosi poi all’ora stabilita vede infine sé stesso avviarsi, vede precisamente l’atto / di uno che si avvia verso il luogo determinato, e attraversa tutto il tempo che è servito con la lista delle cose nella mente.

Superata la porta, il piano del tavolo ha una forma non negoziabile / il foglio poggiato sulla superficie ha colore e spessore diverso e la stessa forma del tavolo, perciò viene frainteso o ignorato come rispondente a una legge geometrica in disuso per le troppe assurdità dell’occhio pieno di linee e il cuore.

 

Lo scrittore ala il foglio, lo piega in sedicesimo e dispiega, lo scalda del fiato di mani / chiuse a rombo, gli sussurra parole, lo irride per qualche motivo. Esplorando la colonia del foglio, lo scrittore percepisce del bicchiere attiguo il grado maggiore di esistenza, vorrebbe descriverne il vuoto d’aria e le continue inondazioni.                                                 [Potrebbe voler piangere.]

Lo scrittore è l’ingrediente che mancava alla ricetta. L’ingrediente: entrando, partecipa di quel participio e smette di essere indicativo. Il millimetro campale che ora dispone di lui stagna sul tavolo – attende malintesi e lacerazioni. Ma lo scrittore ordisce terremoti, scuote pareti, dondola mestoli, mastica ortaggi, trasalisce al rosso degli allarmi. Tace. […] la carta mentre bianca / gli supplica uno strappo.

Lo scrittore comincia a dubitare della scrittura. I gesti che opera sul foglio non coincidono. […] suore ritte sulla neve. Nere. La scrittura comincia a dubitare dello scrittore. I freghi che affollano la carta si organizzano da soli per suoni distillati / dall’ansia e dal sonno della stanza masturbata. Il bicchiere va in frantumi per la stretta di troppa esistenza. Lo scrittore capisce che beveva inchiostro. Il tavolo finisce il proprio turno di lavoro, si accascia sul pavimento. In mancanza di ogni possibile contesto, lo scrittore sbianca e diventa il foglio.

*

Assillato dal crepuscolo, lo scrittore osserva seduto in modo composto col numerino in mano il luogo verso cui deve avviarsi / prendere forma dietro la porta…

 

 

GIULIO MARZAIOLI

Il linguaggio dei sassi

I

Quando raccogliamo un sasso da terra solitamente è per lanciarlo o per conservarlo in una tasca.

Se conserviamo il sasso in una tasca capita che, una volta tornati a casa, ci si produca nella decorazione dello stesso con disegni di faccine, fiori etc…

Se lanciamo il sasso è per farlo cadere in un ruscello, una pozzanghera o un lago; comunque in uno strato acqueo che, al momento dell’impatto, produca il suono caratteristico che tutti conosciamo.

In ogni caso nessuno si domanda cosa ne pensi il sasso e come, nonostante la sua durezza, possa risentirsi per la prepotenza subita.

Un sasso prende vita nel magma che ribolle e, a seguito di un’eruzione, pian piano si solidifica e leviga la propria superficie grazie all’azione del vento, del ghiaccio e delle precipitazioni. Oppure si genera per sedimentazione di elementi organici e inorganici, sali minerali e altri componenti che in migliaia e migliaia di anni si aggregano e disgregano fino a manifestarsi al nostro sguardo.

La sua calma non è mai accondiscendenza. Se si muove è perché viene trasportato, se resiste è perché viene pressato da una suola e dal peso di un corpo che non avrebbe mai scelto di incontrare.

II

È nella natura del sasso riflettere i raggi del sole estivo, guardare dal basso la caduta delle foglie, tacere sotto la neve e farsi lambire dai fili d’erba al risveglio di primavera. È sua segreta ambizione svelarci quale nucleo celi la sua durezza.

Comprendere il linguaggio dei sassi. Imparare ad ascoltarli. Osservarli nelle più varie occasioni, in compagnia di propri simili o isolati in una radura. Esposti alle raffiche in vetta o protetti dalle chiome dei faggi o ai piedi degli abeti. Non si deve commettere l’errore di rivolgersi direttamente ai sassi. Interrogare i sassi o provocarli produce negli stessi il più assoluto mutismo.

I sassi emettono suoni ripetitivi ma diversificati, talvolta assimilabili ad un codice. Si tratta di impercettibili segnali, o meglio di interruzioni di frequenze sul profilo della propria levigatura, ma sarebbe in errore chi dovesse credere prive di senso tali manifestazioni. La modulazione dei suoni e dei rumori si delinea sul profilo dei sassi e determina il dialogo con l’essere umano. La comprensione del linguaggio dei sassi sarà tanto più precisa e approfondita quanto più saremo in grado di percepire anche le minime variazioni che sulla trasmissione delle onde sonore provocano le più piccole scalfitture della pietra.

A meno di non voler rimanere esclusi dalla comunicazione con i sassi, durante una gita in montagna sarà determinante osservare silenzio.

III

Sotto la neve tutto rimane. Intatto. È vero che i sassi tacciono e così l’erba, la terra e il cammino che ha impresso le sue orme, ma tutto si conserva e resta. Deboli segnali pervengono da sopra, ma solitamente si tratta di eventi che rilevano più per gli umani che per i sassi.

La sensazione è di galleggiamento, sospensione. Purificazione o scivolamento. Ma non è tutto azzerato, lavato via. Non si cancella, per quanto la neve inganni. Dovrebbe ammonire l’euforia dei bambini al suo cospetto. Sanno che la neve offrirà protezione ai sassi.

I bambini conoscono perfettamente la natura dei sassi, per questo ne coltivano una assidua frequentazione. La neve li rende felici perché la sua presenza è garanzia di conservazione. Qualsiasi percorso facciano, rotolando, sciando o passeggiando, sanno che le loro tracce saranno presto disperse, cancellando così le prove di un segreto rapporto con i sassi, che conduce le traiettorie del loro apparente girovagare nei luoghi dei loro nascondigli.

Anche gli adulti, nell’osservazione dei fiocchi che cadono, vengono colti da una sensazione di meraviglia. La spiegazione è tuttavia da ricercare nell’intuitiva percezione dell’armonia che caratterizza il disegno di ciascun cristallo. L’uomo non saprebbe creare tanta varietà mantenendo la perfezione di un esagono. Quando la neve si scioglierà, rimarranno i sassi.

IV

Scrivere dei sassi e tacere. A tacere non saranno i sassi.

 

 

CRISTIANO POLETTI

 

Tre le tante definizioni della poesia (possibili o impossibili, utili o inutili che siano), quella che sento più valida, ti dico, viene da Andrea Zanzotto (traggo a memoria dal film-ritratto di Carlo Mazzacurati, del 2001): che si tratti, in fondo, di scrivere una lettera al mondo (o per il mondo, non solo quindi nel significato “che lo attraversi” ma da intendersi forse come “al posto di, del mondo”, senza voce). Ecco, aggiungeva Zanzotto: la lettera potrebbe tornare anche al mittente.

Questa definizione da tempo mi circonda. Continuo a chiedermi che senso abbia continuare a scrivere poesia. E mi dico: sì, vale ancora la pena scriverla, certamente, ma in segreto. Tu dici: «per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento». Penso a Matteo, 6, 6: «Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera e, serratone l’uscio, prega il Padre tuo che sta nel segreto». Per me la poesia, oggi, affonda (vorrei che così fosse, in futuro) davvero nel segreto e nella privatezza; vorrebbe stare nella preghiera, essere preghiera.

Se da una parte avverto la scrittura, in poesia, più vicina all’oppressione o all’impressione (intendo l’imprimere, l’incidere) che non all’espressione, dall’altra (ma ne è il contraltare) sento da alcuni anni in qua, da un punto di vista molto personale, che la vita ci vuole fuori dalla letteratura. Questo premere, questo incidere, costano. E in cambio? Il rischio è di avere per le mani solo la propria vanità, vanità e basta, il vuoto, veramente, il vacuo. Cosa sarebbe, allora, cosa resterebbe? Probabilmente soltanto un esercizio egotistico in nome della pubblicazione, giustificabile solo apparentemente, un vuoto dunque forgiato dall’impressione-oppressione e riempito di sola apparenza.

Riporto qui parte di una lettera inviata da Vittorio Sereni a Luciano Anceschi, nel 1952, perché mi ci sono ritrovato: «Fin dai tempi dell’Università io ho chiesto troppe cose, direi persino troppe indicazioni esistenziali, alla poesia, al fatto di essere poeta: ho chiesto una figura umana, l’ho implicata, la poesia, nelle mie faccende di cuore; in omaggio ad essa, a una male intesa purezza, ho bandito da me troppi altri interessi, anche pratici – e oggi me ne accorgo e pago. Fallire in poesia significava un tempo per me – non ridere – fallire in amore. Ci fu un momento in cui – sembra contraddittorio ma non lo è – pareva che alla poesia non pensassi più, non so se perché appagato da altro o se per convinzione che per mettere la testa a posto occorreva, visto un così stretto legame tra un fatto e l’altro, metterla a posto in tutti i sensi; e dunque non pensare più nemmeno alla poesia».

La fine della poesia? No. La poesia in altro? Sì. Vorrei ora, infatti, credere più all’espressione: alla pittura senz’altro, e alla musica (il pianoforte, in particolare). Vorrei trovare e provare piacere, ecco, aria. L’ut pictura poesis oraziano, il cui l’approdo per me è la pittura, lo sento più vicino che mai. Credo nella materia, nella plasticità. Quanto alla musica (e perdona l’odiosa l’autocitazione, ma qui può avere senso) nel mio Temporali ho scritto: «Ma è come in una foto fuori fuoco / la nostra carne. E noi siamo / non strisce di parole / ma musica, musica». La musica “supera” il dire, amplia il linguaggio propriamente detto, lo allarga e lo amplifica.

Riprendo ancora le tue parole: «per decifrare la qualità… del proprio arretramento». Torno a cent’anni fa e sento che non è cambiato niente, che c’è da specchiarsi ancora in questo passaggio di Thomas Stearns Eliot, da Tradition and the Individual Talent (in The Sacred Wood): «What is to be insisted upon is that the poet must develop or procure the consciousness of the past and that he should continue to develop this consciousness throughout his career. What happens is a continual surrender of himself as he is at the moment to something which is more valuable. The progress of an artist is a continual self-sacrifice, a continual extinction of personality».

Poi c’è un’altra considerazione, meno personale e più di fondo, più generale. Mi pare che pubblicare, oggi, non serva (più) a molto. Ho avuto modo di vedere, di recente, un bellissimo documentario su Andrej Tarkovskij, realizzato dal figlio. Dalla voce del regista mi sono appuntato nella mente questo: l’arte è sempre in stretta relazione con il dovere principale dell’uomo, ossia quello di “servire”. Servire, in effetti, è il principio di relazione fondamentale dell’umanità. La domanda dunque è: “io servo a qualcosa?”.

Ecco «il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare», come hai posto tu nel tuo scritto. Penso al senso della testimonianza, a tante cose, alla relazione “interno-esterno” o meglio “interno-intorno” dello scrivere poesia. Scrivere è sempre un atto fortemente intellettuale e ogni attività che sia artistica e intellettuale pretende di aver peso. Credo quindi occorra considerare un’effettività che giustifichi quell’atto, e il suo costo.

Insomma, ti confesso che si fa strada in me il senso di una rinuncia e di una liberazione, da una pubblicazione ancora di poesia. Così mi vien da dire che la qualità del proprio silenzio è la scelta stessa del silenzio. E quindi la radice dell’inchiostro? Io direi: radice e basta. L’inchiostro vada in segreto. È forse un tempo, questo, più propizio ai glossatori della cronaca.

Niente, credo di aver detto tutto quello che potevo e dovevo.

Devo solo ringraziarti, ancora e di cuore, per l’occasione che mi hai offerto.

CP

 

 

ELEONORA RIMOLO

L’opera senz’opera: umanità e creazione

 

Se l’uomo è misura di tutte le cose, e se è vero, come sostiene Kojève, che l’Homo sapiens è ormai giunto alla fine della sua storia e non gli rimane altro se non la scelta tra l’accesso ad una animalità poststorica e lo snobismo di chi continua ostinatamente a celebrare il feticcio di sé stesso con cerimonie svuotate di ogni significato storico, cosa resta da fare all’uomo di cultura? Ci si domanda innanzitutto se è ancora possibile perseguire un’idea di cultura che resti umana e vitale e che tragga linfa nuova dal confronto con un passato oramai concluso (e che si fatica a sentire come vivo) e con una cultura attuale del tutto museificata. È indubbio che oggi la letteratura sia figura di questo passato e il rapporto con quest’ultimo diventa man mano sempre più problematico: il rischio che si corre, e che si manifesta in più forme, è, come ricorda tra gli altri Agamben, di trovarsi di fronte ad un’opera d’arte senz’opera. Cosa sostituisce, dunque, l’opera che latita? Tra le diverse manifestazioni di questa crisi, c’è sicuramente una iperattività concettuale dell’uomo di cultura e dell’artista che tenta di riempire questo vuoto ridondante con l’utilizzo spietato dell’intelligenza – la quale finisce col prevalere sulla visione, su cui di norma è incardinata un’opera. Questo produce caricature di artisti e di intellettuali che rispondono solo al proprio personale nozionismo, giustificando così l’assoluta mancanza di autenticità dell’opera o della riflessione su di essa[1]. Da cosa viene questo istinto quasi autodistruttivo, che consiste in un’arte che divora la sua consistenza stessa? C’è stato un momento in cui il Novecento ha deciso di far tornare patologicamente il rimosso, cioè il passato, il bagaglio pesante della tradizione, sotto forme parodiche (vedi Avanguardie e Neoavanguardie) abolendo l’arte stessa ma senza realizzarla, svuotandola dei propri caratteri essenziali, prescindenti dal nozionismo e dalla conoscenza. È qui che l’uomo ha provato a non essere più misura di tutte le cose, ad allontanarsi dall’onnipresente Aristotele, il quale – come tutti i Greci – privilegiava l’opera rispetto all’artista, in quanto quest’ultimo raggiunge il suo telòs, il suo fine, soltanto uscendo fuori da sé, appunto nella realizzazione concreta dell’opera, e spostando il baricentro di ogni problema etico sul problema metafisico. È nel Rinascimento che l’uomo rivendica la piena titolarità della sua attività creativa: l’arte non ha più il suo perfetto compimento fuori da essa, ma diventa, come la prassi o la conoscenza, un’attività produttiva che trova in se stessa il suo totale compimento. Questo compimento risiede nella mente dell’artista e non si realizza in qualcosa di esterno, riducendo in questo modo l’opera a mero orpello dell’intensa attività mentale creativa dell’autore. Come conciliare le due spinte? Secondo Agamben[2], esse sono assolutamente complementari ma anche totalmente incompatibili ed è per questo che ai primi del Novecento gli artisti iniziano a pensare alla pratica artistica come ad una liturgia da celebrare, ad un rituale performativo da compiere, indipendentemente da ogni significato di tipo sociale. La pretesa pragmatica fagocita ogni paradigma mimetico-rappresentativo dell’opera e l’estetica e i suoi principi operano slegati dalla realtà, in maniera parallela ed autonoma: è una rappresentazione, a volte ben riuscita, altre meno, del conflitto storico con cui si è aperto il discorso, ossia arte vs. opera. Certo è un dato, e va affrontato, opponendo alle soluzioni offerte da correnti e movimenti del Novecento, avanguardistici e non, un punto di vista inedito che tenga conto sempre e alla base di ogni riflessione sull’arte del fatto che il poeta non è colui che dal nulla decide un giorno di creare l’opera, rivendicando a piena voce la propria titolarità trascendente di creazione, ma un uomo, come tutti, che vive nel mondo e si relaziona ad esso attraverso l’uso di una pratica (artistica, letteraria etc.) la quale mira al raggiungimento di una felicità ideale e universale o meglio ancora alla realizzazione di un atto di “resistenza” (così Deleuze definisce l’atto di creazione[3]) nei confronti della morte e di tutti gli aspetti castranti e perturbanti della vita umana, liberando una particolare “potenza di vita” pertinente all’artista. Liberare questa potenza senza essere ossessionati dall’idea di coincidere perfettamente con il proprio “genio” creativo conduce all’opera e alla sua capacità di lasciare volutamente qualcosa (se si procede attraverso la visione è inevitabile) di non detto, di non raccolto, di suscettibile, che sta al lettore, al critico, al filosofo portare alla luce, vivificare, interpretare, rigettare nel mondo. Riuscire a fare questo significherebbe riuscire a superare il confine del nome proprio e delle sue pretese in nome di un interesse sincero e spassionato verso ciò che spetta al mondo dei lettori – e non verso ciò che spetta a ogni singolarità artistica.

[1] R. Klein, L’eclissi dell’opera d’arte, in Id. La forma e l’intellegibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1975.

[2] G. Agamben, Creazione e anarchia: l’opera nell’età della religione capitalistica, Neri Pozza, Vicenza 2017.

[3] G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, a c. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2009.

 

DIMITRI MILLERI

Lo sforzo e la concretezza

 

Questo intervento nasce dalla volontà di dare una risposta affermativa alla questione della legittimità del fare poesia nel contemporaneo. Perché quest’affermatività non poggi solo su sé stessa, sarà necessario individuare un gruppo di necessità specifiche (che da qui in poi chiamerò insoddisfazioni) cui la poesia cerca di andare incontro, nell’ottica di una funzionalità particolare, legata ad aspetti etico-articolatori della persona. Si può guardare alla storia dei linguaggi poetici, che dal secondo novecento in poi fatica a identificarsi con quella della scrittura in versi, come a una storia dell’insoddisfazione. Questa insoddisfazione ha tre oggetti fondamentali:

  • La non coincidenza fra l’esperienza psico-percettiva e il suo rappresentarsi nella lingua.
  • L’impossibilità di conquistare una semantica davvero soggettiva senza modificare la lingua nel momento stesso in cui la si usa, anche a costo della gergalità.
  • La non coincidenza fra le esigenze del soggetto e la lingua poetica ereditata.

 Il concetto di insoddisfazione si lega a quelli di concretezza, di finalità e di sforzo, che tenterò qui di abbozzare, rimandando a una trattazione più ampia che deve ancora essere scritta. Lo sforzo è quello dalla sincronizzazione fra il soggetto e la propria lingua. È frequente che si inizi a scrivere utilizzando una lingua imprestata o anche solo lontana, magari convinti che la poesia comporti un’estetizzazione atemporale e reificante. Ammettendo invece che essa svolga una funzione, è possibile identificarla con lo sviluppo di una facoltà di articolazione del soggetto, anche attraverso zone ipocodificate della semantica[1], in cui il verbale non si chiude in sé stesso, ma acquista un valore di propulsione verso altri forme espressive (facendosi, in un certo senso, multimediale). In parole povere: se cerco il massimo di precisione nel rapportarmi con la mia interiorità, ho bisogno di una e una sola lingua, da ricreare sempre al momento, e che non potrà coincidere né con la lingua della comunicazione né con qualunque linguaggio preesistente.

Con quanto appena detto si passa al concetto di concretezza, in quanto la ricerca dell’unica formulazione possibile è uno sforzo concreto. Nel sincronizzarmi con la mia esperienza per darne una tracia, sono costretto a cercare un medium dentro e fuori di me. Il fuori di me non è altro che la tradizione: tutto ciò che è stato scritto, da cui devo attingere e a cui devo aggiungere (del resto anche la glossa, a cui si fa riferimento, è già insoddisfazione ed eccedenza). Non è detto che uno sforzo di esattezza coincida con un risultato nitido e comunicabile: è emblematico il caso di Milo De Angelis, che ha lamentato l’identificazione fra la sua poesia e un’istanza di tipo orfico[2], rivendicando uno sforzo enunciativo compiuto nel campo della biografia. Chiaramente, qui non si intende una biografia come oggettivazione, ma come emanazione di un’esperienza psico-percettiva.

Si può azzardare l’idea che la poesia scritta con questa consapevolezza possa guardare oltre il solipsismo: se un testo si situa fra la soggettività non verbalizzabile di due o più persone, e non realizza un diario o uno slogan, può sperare di svolgere una funzione di coordinamento fra il processo esperienziale di cui è traccia e quello che suscita in chi la fruisce, ascoltandola o leggendola. Non si tratta di consegnare un sé fatto e finito agli altri, ma di cercare un terreno esperienziale comune mediante il testo (che è poi ciò che succede quando si ascolta un concerto). A questo proposito, nel contesto del reading poetico, sarebbe bello si sviluppasse una consapevolezza più profonda dell’importanza del binomio esecuzione-fruizione, il che ci riporta di nuovo al concerto di musica colta[3].

Devo specificare che, in questa sede, il concetto di soggettività non ha un taglio lirico. Anche quando l’autore empirico evita di parlare dei fatti suoi, di esprimersi in versi, di usare il pronome “io” e si serve di personaggi, il campo di forze che genera nel testo rimanderà sempre e comunque al minimo comune multiplo del suo essere un generatore unitario, per quanto non puntiforme. Sarebbe assurdo, per esempio, separare un compositore o un architetto dalle proprie opera, per quanto essa non possa, per varie ragioni, avvicinarsi alla biografia e al diario quanto la poesia. Del resto, quello verso cui vado è una soggettività nebulizzata, finalizzata a far provare a un terzo un’esperienza che sia anche comunione. Credo infatti che il senso di verità proprio di certa poesia non sia soltanto il risultato di uno sforzo (appunto) di inermità, ma anche di esattezza nella ricerca di una comunicazione precisa con terze persone, capace di avvicinarle al nostro qualia (penso, in questo caso, a Benedetti). Nell’ottica di astrarre e allargare la soggettività, vale la pena di accennare anche al fatto che il libro, come contenitore spazialmente e temporalmente ordinato, mi sembra sfruttare al meglio le proprie potenzialità quando costruisce dei percorsi di senso che massimalizzano la dialettica fra gli strumenti linguistici più disparati, ma senza mai tradire del tutto un ordo.

Torniamo adesso alla funzione etica, al fine ultimo di questo sforzo di nominazione. Scrivere un testo può significare esprimere un giudizio definitivo con i soli mezzi che si hanno a disposizione in quel momento. In altre parole: il testo fornisce una credenza a chi lo scrive, una descrizione inaccurata del mondo[4]. L’impegno conoscitivo che la poesia si assume non è infatti ortodosso; la gnome che apporta ha un valore soprattutto pratico: si tratta di un’ontologia precaria, occasionale, che serve, idealmente, solo  per ottenere il tono morale sufficiente per passare al piano della deontologia (il topos di un ritorno alla realtà come fine ultimo del libro).

Per concludere: non posso accettare in toto l’idea che la poesia sia inutile o illegittima, poiché non posso accettare che lo siano le ricerche di un’esatta articolazione di sé, di un contatto non stereotipato con l’altro e dei mezzi per (ri)trovare un entusiasmo operativo nei confronti del mondo. In questo intervento ho tentato di tratteggiare un campo etico e processuale all’interno del quale la stessa possa offrire degli strumenti conoscitivi a chi la scrive e chi la fruisce, guadagnandosi la dignità di essere tramandata (anche se sono consapevole che la densità di questi argomenti avrà bisogno ancora di molte pagine). Non penso a un tramandare nella forma delle scuole di scrittura, dei breviari di metrica o di una storia della poesia, ma alla promozione di una cultura dell’ascolto del linguaggio come mezzo di estrinsecazione di un’esperienza.

In tutto ciò, è possibile che mi sia puntello con delle credenze, una descrizione inaccurata del mondo. Per il momento, tuttavia, è sufficiente.

[1] Sul concetto di ipocodificate usato in questo contesto, si veda ECO, Lector in fabula, Il Mulino, 1975.

[2] Ne parla molto chiaramente Umberto FIORI, su Doppiozzero : https://www.doppiozero.com/materiali/milo-de-angelis-qualcosa-di-urgente.

[3] Si vedano le considerazioni di ADORNO, Introduzione alla sociologia della musica, Milano, Einaudi, 2002; e TARUSKIN, Text and Act, Oxford, Oxford University Press, 1995.

[4] Alberto PERUZZI, ne Il significato inesistete, si riferisce a esse come “descrizioni di alto livello” ( nel senso di svolte dall’alto, da lontano).

 

 

ALESSANDRA CARNAROLI

 

Il bambino preso dal cavallo

Sotto gli occhi del padre

Riporterà danni permanenti

 

il bambino preso dal cavallo dei pantaloni

O tenuto per le braccia

Che non riuscisse a muoversi

Costretto con la forza a tenere le braccia lungo il corpo

divincolarsi come carpa imbottita di petardi

buttata in acqua per alzare gli spruzzi

 

Poi lo ha alzato

Come cassa

Due casse d’acqua una sull’altra

La maglietta Nike non ha fatto in tempo

A prendersi in qualche gancio o ramo

Di Ficus Benjamin

 

Lo ha rovesciato dal balcone

Come secchio

sulla madre che gridava troppo

 

 

La poesia di solito slitta su particolari eccitanti

Poco controllabili come gli ormoni

Della tiroide

Resta il referto.

 

La poesia passa distratta sulle cose fazzoletto, lattina,  plastica, dodicenne con lieve peluria

tipo barba e le scaraventa di sotto.

Non è legittima. È difesa.

Se si continua a scrivere è per il piacere di dare forma alla cosa scomposta che pulsa

ancora fiotta

Sull’asfalto

 

 

VALERIO CUCCARONI (ARGO)

Il ramo d’inchiostro nell’albero della poesia

 

L’inchiostro non è che uno dei mezzi con cui si esprime la poesia, con cui si manifesta. È legittimo usarlo ancora, certo, così come sono legittime le corde vocali e da qualche decennio la macchina da scrivere. Nella modernità le leggi della poesia sono stabilite da chi compone versi per quel processo che ha portato l’arte a diventare autonoma. Per quello stesso processo Baudelaire fa cozzare l’aulico con il prosaico, Ungaretti compone versicoli. Apollinaire calligrammi, Balestrini cronogrammi e fa programmare a un ingegnere il computer per Tape Mark I, Spatola e Fontana registrano la poesia sonora, Lamarque pubblica Teresino, Toti si definisce un poetronico, Davinio crea uno spazio poetico virtuale in Second Life, Voce fa il maestro di cerimonia nei poetry slam, Socci strizza maiali di plastica nelle sue performance di poesia comica, Venerandi programma poesie elettroniche in formato epub3 e così via.

Ai poeti non si chiede più niente da più di un secolo, almeno finché la macchina industriale gira e ha bisogno di ingegneri, operai, opere d’evasione, quadri e altri oggetti d’arte per la compravendita di beni rifugio. Quando però la macchina industriale, come avvenuto durante la pandemia, s’inceppa, la società regredisce allo stadio tribale, la vita si concentra nella dimensione del villaggio e dell’oikos, per farsi coraggio la materia che amava chiamarsi umana si mette a cantare dai balconi e si ricorre alla poesia d’occasione, alla poesia del Covid, per ritrovarsi comunità, in balia della morte, bisognosa di riti.

L’inchiostro è legittimo ma è solo un mezzo: aggrapparsi ad esso, quando la scrittura si è anche digitalizzata, equivale a chiedere se è legittima la radice manuale della scrittura. Neanche la scrittura è una radice, ma solo un ramo, perché la scrittura è tecnologia, la radice è il linguaggio. La poesia che è unione di senso e suono, persino nella loro negazione, nel non senso e nel silenzio, si serve di tutti i linguaggi e di tutte le tecnologie. Nei venti volumi della rivista Argo, dal primo dedicato a Musica e poesia all’ultimo dedicato a L’Europa dei poeti e alla poesia in traduzione passando per la poesia neodialettale di Oscenità, con Rossella Renzi e gli altri redattori amanti dei versi abbiamo ospitato tutte le forme della poesia con cui siamo venuti a contatto così come abbiamo fatto, con Luigi Socci, Natalia Paci e gli altri attivisti di Nie Wiem, nelle quattordici edizioni del festival La Punta della Lingua, che con Wagner e Spatola dedichiamo alla poesia totale e alla Gesamtkunstwerk. Stessa apertura a tutte le forme e a tutti i formati, scelti con l’unico criterio del gusto estetico dialogico, ha caratterizzato le scelte operate durante la controserie tv KatÀstrofi, dove abbiamo dialogato con poeti di tutte le scuole, da Rosaria Lo Russo a Marco Giovenale, e abbiamo mostrato videopoesie e ascoltato p.j. (poetry jockey) set.

 

 

EMANUELE FRANCESCHETTI

 

C’è un passo del Castello di Franz Kafka che non riesco a togliermi dalla mente; e che, per non sbagliar nulla, trascrivo direttamente dal testo. Il corsivo finale, ovviamente, è mio.

«Mio padre è calzolaio» disse Barnabas senza scomporsi, «aveva delle ordinazioni da Brunswick, e io sono il garzone di mio padre.» «Calzolaio! Ordinazioni! Brunswick!», gridò K. rabbioso, come a voler rendere inutilizzabile per sempre ciascuna di quelle parole.[1]

Non mi interessa molto, in questa sede, collocare il frammento riportato all’interno della (deformata e deformante) vicenda del romanzo kafkiano: mi limiterò ad utilizzarlo come ‘innesco’. È singolare (e inquietante, e affascinante) che, nel corso di un breve alterco tra il protagonista (K.) e uno dei suoi interlocutori, il ‘nostro’ rigetti in faccia a Barnabas tre delle sue stesse parole, prelevate dalla sua asserzione precedente, e che lo faccia come a voler(le) rendere inutilizzabili per sempre. Quelle parole, insomma, sono dei lacerti presi, isolati, oggettivati, e ‘pronunciati’ in un modo tale da esser resi inutilizzabili. Perché una parola consueta, pronunciata (in questo caso con rabbia), dovrebbe essere da quel momento in avanti inutilizzabile ? Perché caricata (e intenzionata), tramite il suo essere detta con la voce, di un ‘sovrasenso’? O perché, sottratta al suo ordinario ‘spazio’ di significazione, è stata resa ‘corpo estraneo’, straniato e insignificante?
Tengo a precisarlo: non sono domande retoriche, ma questioni aperte, e – per lo meno per il sottoscritto – parzialmente irrisolte. Eppure le ipotesi che ho formulato mi sembrano tutte legittime: e legittimo (e corretto) mi sembra il tentativo di decifrare per via metaforica la scrittura kafkiana.
Kafka sta dicendo, in qualche modo, che la parola può essere neutralizzata, privata di ogni valore indicativo e veritativo; ma anche, capovolgendo la prospettiva, la parola può aprire – grazie alla sua ‘potenza’ più interrogativa che responsiva[2] – uno spazio, produrre una frattura, una discontinuità. Creare una nuova possibilità di significazione.

Cos’ha a che fare questo, ci si potrebbe chiedere, col Cantus Firmus di Cornelio (che ringrazio), da cui hanno preso il via numerosi carotaggi, approfondimenti e considerazioni più o meno rapsodiche?  Cornelio si interroga, riferendosi alla poesia, sulla ‘legittimità dell’inchiostro’: il che è cosa ben diversa – e ben più profonda, credo – dal domandarsi quali siano le condizioni necessarie a monte affinché un individuo possa sentirsi autorizzato, attraverso i linguaggi a propria disposizione, a produrre un ‘oggetto’ (testo) poeticamente intenzionato e a renderlo, eventualmente, fruibile e disponibile ad altri individui. Credo che ci si stia domandando, qui e altrove, talvolta con autentico ed incosciente coraggio, quali siano le possibilità di esistenza del testo poetico. Non come debba essere né quando possa essere: ma se e perché possa ancora essere possibile – capovolgo deliberatamente l’adagio di Adriano Spatola riportato dallo stesso Cornelio – non limitarsi a ribadire (ma lì si era nel 1969…) che “la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”; né a ripeterci che la poesia è tutt’al più un sistema di idioletti condivisi da un numero ristretto di parlanti, che non interessa nessuno fuorché i parlanti stessi; né a ricordarci che la poesia non serve a nulla, a maggior ragione quella somigliante ad una postilla lacrimevolmente autobiografica. Ci si potrebbe rendere capaci – gli strumenti sono oramai molteplici e largamente fruibili – di non limitarci alla cronologia e alla geografia; si potrebbe, ad esempio, non parlare soltanto di ‘fine’ e ‘tramonto’, di ‘centro’ e ‘periferia’, di ‘generazioni’ ed ‘antologie’. Si potrebbe ipotizzare che non è la fine della ‘poesia come poesia’, ad essere un fatto accertato; ma la possibilità della ‘poesia come poesia’. La possibilità di rendere per un attimo le parole inutilizzabili: cioè – questa è la mia lettura – ‘non utilizzabili ancora nello stesso modo’.
Inutilizzabili non perché neutralizzate nella (e dalla) sovraeccitante libertà dei loro stessi giochi combinatori; né perché dotate (da chi? in che modo?) di eventuali poteri taumaturgico-divinatori. La poesia può invece prendere le parole, strattonarle, trattenerle – come fa K. nel frammento del Castello: ma con volontà costruttiva, non distruttiva -; sottrarle al flusso continuo dei discorsi, immobilizzarle per un attimo; e poi sovraesporle, metterle in luce, renderle evento, nuova relazione. Rilevarne (e rivelarne) la duplice natura di testimonianza e interrogazione, di suono e senso.
E infine: offrirle attraverso una forma e un’intenzione significante. Ma, per dirla con Umberto Fiori (che a sua volta riprende il Bachtin di Estetica e Romanzo), non tanto il “significato” come un referente già dato, trasparente, che i versi dovrebbero semplicemente veicolare, quanto appunto il movimento del significare, la spinta che è all’origine di ogni parlare.[3]

Il cerchio, mi sembra, può – temporaneamente – chiudersi: con la proposta, da parte mia, di sostituire legittimità con possibilità. E di intenderla come possibilità  di rendere le parole non altrimenti utilizzabili che come movimento del significare: l’”attimo di conciliazione”[4], legittimo e possibile, tra soggetto e linguaggio.

[1] F. Kafka, Il castello, BUR, 2002, pp. 178-179.

[2] Cfr. M. Blanchot, La conversazione infinita, Einaudi, pp. 63 et segg.

[3] U. Fiori, La poesia è un fischio, Marcos Y Marcos, 2007, p. 101.

[4] T. W. Adorno, Note per la letteratura, Vol. I, Einaudi, 1979, p. 54.

 

 

NICOLA PASSERINI

 

penna scrivente d’inchiostro
dolente lingua pendula pendente
senza niente da dire fare baciare
e la solita lettera di circostanza
e quanto tempo è passato dacché
etcetera etcetera con la lista
della spesa pronta ad esser di
nuovo recitata lì di fronte al
banco delle verdure

L’opera poetica di Bartolo Cattafi

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[A un anno di distanza dalla sua uscita, festeggiamo nuovamente il volume che raccoglie l’intera opera poetica di Cattafi. Ringraziamo Diego Bertelli per l’indispensabile lavoro di raccolta e cura dei testi, e Raoul Bruni, che ha introdotto la raccolta. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione e una serie di testi tratti dalla raccolta tarda “Segni”.]

 

Per la poesia di Bartolo Cattafi

di Raoul Bruni

Siamo stati abituati a classificare gli scrittori italiani del Novecento per generazioni, correnti, poetiche; oppure attraverso categorie storiche o geografiche che consentano di sistemare gli autori nelle caselle di uno schedario precostituito.

L’inizio degli inizi

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di Emmanuela Carbé

A ventuno anni avevo teorizzato il Congresso di Vienna, la mia comfort zone e religione, la risposta definitiva alle domande fondamentali su vita/universo/tutto-quanto. La mia teoria era decisamente indipendente dalle fonti storiche che avevo letto per ottenere la maturità o qualche CFU, ma era pur sempre, almeno dal mio punto di vista e dal punto di vista del mio Congresso di Vienna, la mia parola contro la loro. Se non ero d’accordo con qualcuno potevo finalmente dirmi nella testa ma no, questo scemo di guerra evidentemente non sa niente del Congresso di Vienna, e dunque apparivo all’esterno più tranquilla, pacata, disposta al dialogo, o al finto dialogo, con la consapevolezza che il mio interlocutore sapeva veramente poco dell’origine dell’universo e dunque, conseguentemente, di tutto il resto; se qualcosa della mia vita andava male, una catastrofe del mio mondo privato, un avvenimento improvviso e duro, mi dicevo con un certo piglio consolatorio ecco, è tutta colpa del Congresso di Vienna, se il Congresso di Vienna avesse agito diversamente questo fatto di sicuro non sarebbe avvenuto. Anche gli avvenimenti straordinari della mia vita erano tutti riconducibili, uno a uno, ai meravigliosi, irripetibili ed eroici mesi del Congresso di Vienna.

Primo novembre 1814, castello di Schönbrunn: inizia il mondo. Mi convinco che tutto il prima è una menzogna, un’invenzione, una scrittura epica di un passato che non è mai esistito. Faccio fuori in un attimo secoli e secoli di storia e mi prendo in mano poco più di duecento anni. Mi sento già a mio agio: questo, con un po’ di sforzo, posso vagamente concepirlo.

Sono tutti lì, in quel non luogo che oggi chiamiamo convenzionalmente Vienna, con il mondo appena iniziato (per un momento non chiediamoci perché, crediamo infatti che questo sia l’unico inizio possibile), una manciata di uomini di nazioni diverse privi del concetto di nazione, non essendo stato Fichte ancora inventato. Uomini con dei pantaloni attillati bianchi, seduti attorno a un tavolo che ha una tovaglia tipo poker ma blu cobalto. Stanno lì insieme a inventarsi, tra tutte le combinazioni possibili, un mondo.

Parla per primo Klemens von Metternich, che fino a quel momento non sapeva nemmeno di chiamarsi Klemens, e inizia a ringraziare gli intervenuti riuniti tutti insieme per un mondo di pace, si scusa perché in effetti non sa a chi dire grazie per la geniale invenzione di un congresso, forse dovuta a lui stesso, non lo sa, ma nota con compiacimento l’impeccabile organizzazione, la raffinatezza dell’ambiente, il cibo che vede arrivare nella stanza, forse proveniente da un qualche sponsor. Talleyrand lo fissa scuotendo la testa, guarda questo scemo di guerra, pensa. La guerra, va notato e accettato fin da ora, a quell’altezza della discussione non esiste ancora, ma così dicendo Talleyrand crea involontariamente la sua prima metafora, che a sua volta crea per analogia il primo vero scemo di guerra, che per funzionare ed essere effettivamente scemo deve avere una guerra da cui tornare, e dunque, per sineddoche, nasce immediatamente il concetto di guerra e per estensione il concetto di storia. Per antitesi viene allora compreso e affermato quello che Metternich aveva solo confusamente intuito pochi istanti prima: il concetto di pace.

[…]

Ma andiamo con ordine. Non sappiamo in quanti sono perché il concetto di numero non è stato ancora inventato. Tanti o pochi, si mettono tutti a ragionare su una cosa alla volta: iniziano dunque le discussioni sui concetti di cosa e di cosare, e fu sera e fu mattina: primo giorno. Il secondo giorno lo zar di Russia dichiara di non essere soddisfatto, e che non uscirà dalla stanza finché tutto non sarà in ordine. Un signore, fino ad allora in disparte, capisce di poter parlare e si aggiunge alla conversazione. È il principe Karl August von Hardenberg, dalla Prussia (ma dove diavolo si trova la Prussia?, si chiede Karl come oggi potremmo chiedercelo noi: e così nascono i primi concetti di demonio, male, malvagità, tenebre), il quale, avendo capito solo in quel momento di avere delle orecchie per sentire, e non avendo ascoltato nulla di quanto era stato discusso il giorno prima, spiazza tutti con una domanda inconcepibile, anche perché fino a quel momento non era ancora del tutto chiaro il concetto di domanda e si stava solo, molto lentamente, imparando a cosare. Va a braccio: gentili colleghi, poiché dalle nostre bocche stanno uscendo dei suoni ben precisi, e poiché quei suoni hanno un significato, propongo di chiamare questa cosa, qualsiasi cosa sia, lingua, e di chiederci come mai stiamo riuscendo a capirci gli uni con gli altri. Karl gesticola, è visibilmente agitato, emette suoni a caso, eppure così, su due piedi, inventa la torre di Babele e dalla gioia inizia a cantare e ballare (da qui il fortunatissimo concetto, elaborato meglio poi sui nostri libri di storia, del Congresso di Vienna come ‘congresso danzante’).

Improvvisamente, il quinto giorno dopo l’inizio del Congresso, quando sta regnando uno stato di anarchia assoluto, in cui tutti cosano invenzioni senza aver prima cosato il concetto di distruzione (e allora giù a inventare scimmie, patate, tazze di tè, edifici rinascimentali, elefanti e bomboniere a forma di elefante, cagnolini, linguaggi di ogni tipo), con Klemens perennemente ubriaco e il Duca di Wellington pronto a fumarsi anche le tende, mentre tutto si accumula pericolosamente su tutto nei giardini del castello di Schönbrunn, essi stessi creati senza criterio, con piante di ogni tipo una sopra l’altra, arriva al Congresso di Vienna una lettera (1 foglio manoscritto recto, senza data, senza timbro, senza busta) della moglie di Castlereagh, inizialmente a Vienna ma poi rientrata in UK non appena venne formalizzata, sebbene ancora un po’ confusamente, l’invenzione dell’Inghilterra. La moglie di Castlereagh, a cui si deve una prima sistematizzazione del concetto di mittente-messaggio-destinatario, anticipando di oltre un secolo le funzioni del linguaggio descritte dal linguista Roman Jakobson, e non solo, scrisse infatti un accorato appello al Congresso per una seria riorganizzazione dei lavori. Trascrivo:

Dear maschi cialtroni del Vienna Congress,

vi esorto a una maggiore cautela e a una qualche forma di saggezza nell’invenzione del mondo; suggerisco la creazione di una task force per il passaggio alla fase due del Vienna Congress. Non vorrete portarci alla catastrofe. Lasciate che ve lo dica: siete dei past[icci]oni, appartenete a una classe dirigente inadeguata e non all’altezza del compito di questo tempo. Bisogna lavorare più razionalm[ente], creare un mondo ordinato e intelligente, e per farlo dovete avere con voi le menti migliori. Certo: economist* [sic], project manager, specialist* [sic] dell’emergenza, ma avete bisogno anche di umanist* [sic], architett* [sic], scrittrici e scrittori and so on. Inventatevi figure che possano inventare il mondo meglio di voi. Dividetevi i compiti [i compiti soprascritto a il lavoro]. Usate la poca immaginaz[ione] che avete.

Looking forward to hearing from you,

Best wishes,

The Castlereagh’s Wife, PhD <3

Grazie alla moglie di Castlereagh si passò dunque in tempi molto rapidi alla fase due: fu creato forse troppo velocemente prima il concetto di Studium e poi di Università, inventarono dei professoroni i quali inventarono dei comitati di lavoro che a loro volta raccoglievano sottocomitati di lavoro che a loro volta raccoglievano altri tavoli di lavoro; i professoroni si inventarono poi un comitato fatto a sua volta di tanti sottocomitati che dovevano controllare la qualità della ricerca dei professoroni stessi, sulla scorta della locuzione latina inventata ad hoc in quel momento e attribuita poi a Giovenale (“quis custodiet ipsos custodes?”). Il Congresso per farla breve anticipò incredibilmente, bontà loro, le intuizioni delle agenzie nazionali per la valutazione della ricerca, e stabilì che ogni giorno i membri dei vari comitati dovessero produrre almeno un documento di 40mila battute e non facciamo i furbi con le citazioni fitte fitte e con gli a capo e le note a p. di pag., da pubblicare su una rivista di fascia A, qualsiasi cosa ciò significasse all’altezza del 1814; nacque così il concetto sacrosanto di produttività accademica: nel tempo libero (d’ora in avanti in questa sede non si preciserà più, come nell’esempio in corso, che ovviamente il Congresso dovette prima intuirlo e istituirlo, il tempo libero: d’ora in avanti diamo per scontato che le cose siano andate esattamente così, che ad esempio le finestre del castello di Schönbrunn fossero già state inventate, eccetera) tutti i professoroni si sarebbero dovuti affacciare alle finestre del castello e urlare “qualcuno per favore può citare nel suo documento tre righe del documento che ho scritto ieri? Mi ci sono impegnato, per favore, ne ho bisogno, per favore, io vi cito sempre, per favore, in cambio vi cito nel documento che scrivo domani”. Nacque poi con molto anticipo il concetto di terza missione: i professoroni la sera dovevano fare attività extra per mostrarsi connessi al mondo che stavano loro stessi inventando e aumentare così il punteggio produttività: ballare la lambada, saltare nel cerchio di fuoco, mangiare fuoco e sputarlo, farsi sparare da un cannone dei giardini del castello con in testa un elmetto pieno di cuoricini. Ma questo meccanismo, anche se bizzarro, per ora non ci importa: importa piuttosto tornare a riflettere su come il Congresso di Vienna intese e volle la genesi del mondo.

Testo tratto da: Emmanuela Carbé, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa, Trilogia della catastrofe (effequ, 2020)

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Cinquanta meno uno congegni

di

Romano A. Fiocchi

 “Orecchie nell’angolo di pagina, graffi in copertina, sedicesimi a stampa sghemba, sottolineature indelebili a penna, per non parlare delle glosse a bordo testo. Carla mal tollerava simili cose. Le davano gli incubi. Infatti, quando dopo la lettura de I topi di Buzzati, tra pagina 122 e 123, trovò la fascetta antitaccheggio nascosta in profondo, quasi nella rilegatura, trasalì”.

Ho trasalito anch’io. Ho interrotto la lettura e sono andato a recuperare il mio Meridiano con le opere scelte di Buzzati. E ho riletto I topi, che davvero non ricordavo più. Sì, era la chiave. Ogni libro ha una o più chiavi di lettura nascoste tra le righe. Piccole apocalissi ce l’ha in questa citazione di Buzzati e nell’invasione di topi che travolge il racconto stesso, dal titolo Antitaccheggio, per poi contaminare tutta la raccolta.

Piccole apocalissi è composto da quarantanove racconti, quarantanove come quelli di Hemingway (sarà anche questa una citazione?). Brevi però, brevissimi, se si considera che occupano solo settantadue pagine, una media di una pagina e mezzo ciascuno. In realtà variano da un minimo di due righe a un massimo di tre pagine. C’è anche un racconto che dà il titolo all’intera raccolta, ma che è – nello spirito di Santoro – volutamente fuorviante. Mentre quasi tutti i testi, per lunghi o brevi che siano, si risolvono in un finale costruito attraverso uno scoppio di immagini sorprendenti, un gioco di parole (Sesto senso), una pugnalata silenziosa data alle spalle (Il timore che qualcuno mi senta), uno sputo contenente centonovantasette miliardi di teschi (Stella cometa), e così via, nel racconto Piccole apocalissi il colpo di scena sfuma in una soluzione poetica: il bimbo protagonista rinuncia a vedere le stelle e preferisce “le particole di polvere” che gli sembrano più stelle delle stelle del cielo e si scontrano l’una con l’altra “come la fine di tutto l’universo”.

I topi, dunque. Perché ogni finale, come ho lasciato intendere, è un topo che guizza, un’epifania improvvisa che ti azzanna, una svolta vorace ed enorme che in poche battute inghiotte tutto il racconto in un buco nero. Piccole atroci apocalissi che ti fanno ricordare certe intuizioni crudeli di Roland Topor: penso, ad esempio, al celebre ritratto di Pinocchio che abbraccia la Fata turchina e le trafigge il viso con il naso di legno.

Il linguaggio di Santoro è forbito, aulico per scelta (il potamocero, le abbondanti grasce, l’usta del cinghiale, il mare all’occaso, le nere spelonche, e così via). Cerca l’eleganza, fonde forma e contenuto, a volte inseguendo suggestioni calviniane che hanno per riferimento città costruite e ricostruite in continuo (I nomadi del Farharhar), o città che diventano bellissime viste dall’alto, immerse nella luce dell’incendio che le sta divorando (Una città bellissima). Altre volte evoca scenari epici con una ricercatezza linguistica e un accavallarsi di miti, invenzioni letterarie alla Borges, come nell’immaginoso Stirpe di lupi. Altre volte ancora, smentisce quella stessa eleganza di luoghi e di parole per scendere nella volgarità (Meloscato). Che calza a pennello, in questo caso, poiché parla di un diavolo dai gusti davvero repellenti.

I racconti di Livio Santoro ti obbligano alla riflessione, alla scoperta del dettaglio, in un’analisi ossessivamente minuziosa della realtà in bilico tra la nevrosi e il sarcasmo. Esempio emblematico, il racconto dal titolo Perturbante, ovvero della mia gamba sinistra, testo di sole tre righe, che pertanto riporto qui per intero: “M’infilo sempre i pantaloni partendo dalla gamba destra. Stamattina, chissà perché, ho cominciato dalla sinistra”. Fine.

Ma il racconto più bello credo che sia proprio Lo speranzoso accumulatore, permeato di realismo magico e di velata ironia. Protagonista è un collezionista compulsivo di barattoli di vetro trasparenti che Santoro ritrae indirettamente insistendo sulla descrizione del suo habitat, dove gli spazi vitali sono ridotti in minimi termini proprio per via dell’accumulo delle migliaia di barattoli di vetro che gli amici continuano incessantemente a portargli.

Ma Santoro ama anche le elencazioni in stile Perec. Il racconto Dall’ultimo inventario è un’interminabile sequenza di immagini tratte da letture, scene mitologiche, eventi storici, figure di artisti, poeti, scrittori, filosofi, architetti. Un elenco che si apre con dei punti di sospensione ([…]) e si chiude con altri punti di sospensione. Come a dire che di questo inventario esiste una parte pregressa e una parte che prosegue e lo rende infinito, oppure circolare, con inizio e fine che si congiungono. Non per nulla le prime parole del racconto sono: “L’infinita morte del re estremo. Il ritorno agli archetipi di Borges”, e le ultime: “Il cancro alla gola di Robert Goddard, che aveva gridato il suo sogno alle stelle. Il saluto celeste di Jurij Gagarin, che le stelle le aveva invece viste da vicino”. Elenchi anche di fiabe (La paura del buio), come quelle di Cappuccetto Rosso, Hansel e Gretel, Cenerentola, compresse all’inverosimile e stravolte al punto da concludere che chi le avrebbe lette non avrebbe mai saputo nulla del lupo, della vecchia strega o della matrigna cattiva.

A comporre questa raccolta curiosa sono insomma piccoli congegni narrativi che portano in non-luoghi letterari e lasciano aperte infinite deduzioni sui motivi precisi di quelle forme. Come una collezione di strane concrezioni prodotte appunto da tante piccole apocalissi.

Due parole sull’editore, anche questo molto curioso. Edicola Ediciones si definisce una casa editrice “garibaldina”, che come l’eroe dei due mondi vive e pubblica tra Italia e Cile. Nata a Santiago a fine 2013, dal 2015 ha una sede anche a Ortona, proprio nell’edicola di famiglia dove tutto ha avuto inizio.

Corrado Govoni, un continuo fascino

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Francesco Targhetta

Se è vero che la poesia di Govoni è ipercinetica e sempre in fuga, spiace constatare che negli ultimi anni tale inafferrabilità abbia proiettato il suo autore ai margini del canone. Buone cartine di tornasole per valutare la fortuna di uno scrittore sono le antologie scolastiche, e il bilancio della presenza govoniana è in deciso calo: mentre nei manuali per il triennio il suo profilo, al solito intruppato tra crepuscolari e futuristi, finisce all’ombra di Gozzano e Palazzeschi e dunque liquidato in poche righe e senza il supporto di alcun testo, nei libri per il biennio, così come in quelli per le secondarie di primo grado, dove solitamente Govoni, per l’abbondanza di metafore e di vivace colorismo, godeva di un certo favore, compare ormai, dove compare, solo con i calligrammi più celebri.

I motivi di questa marginalizzazione, come sostiene Paolo Maccari nel suo contributo a questo volume in riferimento alle antologie poetiche del ’900, possono essere legati al carattere vagabondo e spiazzante della poesia govoniana, che tende sempre a scivolare via, deviare, farsi distrarre, accumulare immagini arbitrariamente, in un andamento vagabondo e incostante che mal si concilia con le esigenze più geometriche e rigorose dell’analisi testuale di oggi. E poco fruttuoso sulle poesie di Govoni risulta anche l’altro esercizio caro all’interpretazione dei brani letterari, ossia la ricerca del messaggio. Cosa vogliono comunicare i versi di questo poeta del movimento, della metamorfosi, della dilatazione anarchica, della dispersione tra le molteplici forme della vita, della fantasia eretica e dell’allucinazione, quasi del tutto privi di lirismo? Quale messaggio recano in dote se non la vitalità e la necessità del meccanismo stesso che li genera? Cosa esaltano se non la disponibilità verso il mondo e la sua bellezza evanescente, insomma, la potenza della poesia?

Questo annuario cade dunque nel momento giusto, avendo dato a importanti critici di ambito accademico così come ad altri cultori govoniani la possibilità di rituffare se stessi nel «continuo fascino» della scrittura del poeta ferrarese, con la speranza di invitare altri all’immersione. Di questo, d’altronde, si tratta: dovunque la si voglia prendere, dalle sue prime raccolte a quelle più tarde, la poesia di Govoni offre sempre infilate di visioni iridescenti, gallerie di oggetti multiformi che si cambiano di posto in continuazione, in un tripudio di trasfigurazioni a sorpresa e in un carnevale prismatico dove si alternano, come già scriveva Moretti a Palazzeschi, «cose d’una ingenuità strabiliante e bellezze meravigliose»[1]. In ogni caso, occasioni di stupefazione. Certo è che la stessa attenzione del lettore, attraversando le colate versali dei suoi testi, oscilla, si sospende, va a intermittenza, si perde qualcosa, per poi, alla prima rilettura, scoprire un dettaglio che le era sfuggito. La poesia di Govoni continua a muoversi nel tempo e a non conservare nulla di perfetto. Ma, come scrive Montale in una frase chiave e ingiustamente poco citata della sua celebre recensione govoniana del 1953, «in poesia bellezza e perfezione non solo raramente coincidono ma spesso si escludono».

Perciò di solito, quando spiego Govoni a scuola, parto da versi tutt’altro che rifiniti, quelli che aprono Il tuo sorriso, da Gli aborti: «Io penso che il tuo sorriso / è simile a dei legumi gettati / dalla finestra del castello dentro la palude». A chi sarebbe potuto venire in mente un simile delirante paragone se non a Govoni? Chi può vantare, nella nostra tradizione poetica, di essere così riconoscibile in quasi ogni suo verso? (Anche per scatti scomposti come quel “io penso che è”: chi ha letto per bene il primo Govoni conosce il disorientamento creato dal suo diffuso disagio grammaticale).

Così riconoscibile, Govoni, anche se ha scritto tantissimo, e lo ha fatto per una ragione molto semplice: solo scrivendo faceva esistere il mondo. Per questa peculiarità, e per la nota assenza dell’io dalla stragrande maggioranza delle sue poesie, il Govoni poeta rientrerebbe tra quelle che il sociologo francese Pierre Zaoui ha definito anime discrete, ossia coloro che sanno «rinunciare a ogni interiorità, foss’anche sconosciuta e impersonale, per aprirsi al corpo pieno del mondo che non ammette né morte né negazione. Tutto vi esiste in esteriorità, consacrato al di fuori, puro oggettivismo dove l’oggetto smette integralmente di essere solo l’immagine di sé»[2]. Ed ecco la passione di Govoni per le fasi di trapasso, i crepuscoli, le albe, le primavere, gli autunni, in cui le cose, colte nella loro dissolvenza e trasformazione, rivelano la propria vitalità. Aggiunge Zaoui che i discreti sono coloro che sanno «lasciarsi commuovere dalla bellezza neutra delle cose», e le poesie-elenco govoniane sono in questo senso una forma di poesia tra le più sublimemente discrete: in un testo come Le cose che fanno la domenica ci viene messa a disposizione, per l’appunto, l’asettica presenza del reale, senza che il poeta neppure per un attimo frapponga se stesso e la propria sensibilità tra noi che leggiamo e gli oggetti citati. Ne esce, come ebbi a scrivere, la cosa apparentemente più distante dalla poesia e quella più favorevole ad essa. E non è un caso se è soprattutto questo che i poeti ammiratori di Govoni, da Moretti a Palazzeschi, da Montale a Sinisgalli fino a Zanzotto (che inviò a Govoni nel 1951 una copia dedicata del suo Dietro il paesaggio), gli hanno riconosciuto: la straordinaria disponibilità a offrire qualcosa al lettore. È una poesia generosa, la sua.

Due ultime annotazioni. Si è molto insistito sulla natura euforica e lussureggiante della poesia govoniana (senza mai dimenticare quanto questo tipo di scrittura nasconda un innegabile doppiofondo di horror vacui), ma poco si è detto sul suo carattere fortemente ossessivo. È incredibile, a percorrere in lunghezza la produzione di Govoni, quante immagini vi tornino in modo ricorsivo e seriale, riversandosi incessantemente di poesia in poesia, quasi sempre con fantasiose varianti, ma in alcuni casi copincollate con effetti di autocitazione, come se lo spettacolo variopinto del mondo non fosse generato che da un infinito rimescolamento degli stessi elementi, da un assiduo lavoro di smontaggio e rimontaggio delle stesse figure. Basti pensare ai mendicanti, cari alla musa govoniana dal 1903 fino alla morte, esemplari proiezioni di emarginazione e vagabondaggio. È vero, dunque, che la poesia di Govoni è debordante ed esplosiva, ma è anche vero che disegna uno dei sistemi poetici del ’900 più ripetitivi e maniacali.

Provo ad abbozzare una ragione di tanta ricorsività, ed è la seconda annotazione. Scriveva Govoni a Moretti nel novembre 1905: «Sono 5 mesi che non scrivo più: un grande dolore paralizza tutte le mie facoltà mentali. […] il mio poema a cui mi sono accinto con entusiasmo e ardore attende invano la sua espressione. Per ora mi è impossibile fare nulla. Tutto mi annoia: non apro più un libro. I cari poemi che parlavano al mio cuore e alla mia mente ora mi sembrano vuoti di senso, sciocchi»[3]. Ciò che colpisce in queste righe è come il digiuno di letture implichi necessariamente la sterilità compositiva. Govoni non legge, quindi non scrive. Chi ha sfogliato i volumi del Fondo Govoni della Biblioteca Ariostea sa come Govoni fosse un lettore con tendenze grafomani, tanto che tutti i suoi libri più compulsati hanno i margini e le pagine bianche zeppi di versi, immagini, parole, idee. La lettura di testi altrui faceva automaticamente scattare, come una molla, il meccanismo della fantasia govoniana, la quale, viceversa, priva di alimento letterario, fatalmente era destinata a incepparsi. Mentre il giovane Govoni si entusiasmava per i simbolisti franco-belgi, D’Annunzio, Pascoli, i suoi sodali crepuscolari e poi gli scrittori dell’area marinettiana, la sua poesia raccoglieva il codice simbolico che informava quella poesia e lo faceva saltare in aria in un grandioso show pirotecnico. Fu il periodo aureo della sua scrittura. Più tardi, con l’affievolirsi delle letture, le difficoltà economiche, le miserie della vita quotidiana e l’inasprirsi della sua indole, sempre più risentita e velenosa verso un ambiente letterario da cui si sentiva ingiustamente escluso, a dare linfa ai suoi versi fu soprattutto, oltre alla memoria del paesaggio agreste ferrarese ormai perduto, la sua stessa poesia, con un’incredibile terapia di autotrasfusione. E così i versi di Govoni non hanno mai smesso di aiutare il mondo a essere, ad apparire, a vivere.

Scriveva Kafka nei suoi diari l’8 dicembre 1917: «Nella lotta tra te e il mondo vedi di assecondare il mondo». Govoni nelle sue poesie lo ha fatto per oltre sessant’anni, mostrandoci migliaia di modi diversi di percepirlo. Sta a noi, attraverso questo annuario e altri che auspicabilmente seguiranno, non smettere di assecondare lui.

 

[1] M. Moretti, A. Palazzeschi, Carteggio, I, a cura di S. Magherini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 1999, p. 111.

[2] P. Zaoui, L’arte di scomparire, Milano, Il Saggiatore, pp. 119-120.

[3] A. I. Villa, Neoidealismo e rinascenza latina. La cerchia di Sergio Corazzini. Poeti dimenticati e riviste del crepuscolarismo romano (1903-1907), Milano, LED, 1999, p. 357.

 

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Francesco Targhetta, “Nota introduttiva”, in Annuario govoniano di critica e luoghi letterari, a cura di Matteo Bianchi, Edizioni Otto/Novecento, La vita felice, Milano, 2020.

 

Cervi Volanti (Passerini, Selan, Iannone)

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Copertine dei Cervi Volanti (Passerini, Selan, Iannone)

 

Dopo Selected Love di Andrea Franzoni, tre altri titoli si aggiungono alla collana di scritture poetiche I Cervi Volanti, che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili. Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio, come ha scritto Marilina Ciaco in un suo recente articolo.

I tre titoli sono: Siluet di Nicola PasseriniNove di Carlo SelanPasifae di Francesco Iannone; ne pubblico qui alcune pagine. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce, ad eccezione di Siluet, che è stato illustrato dall’autore.

 

NICOLA PASSERINI

Siluet

 

 

 

Nicola passerini nasce a fermo nel 1963. Negli anni ottanta e novanta pubblica poesie in alcune riviste – come Alias e Lettere dalla terra. In seguito solo autoproduzioni in pochi esemplari.

 

CARLO SELAN

Nove

 

 

 

Carlo Selan nasce a Udine nel 1996 e attualmente studia Italianistica presso l’Università degli Studi di Trieste (dove abita). È redattore delle riviste Digressioni, Charta Sporca e del sito letterario Poesia del nostro tempo. Alcune suoi versi sono apparsi nell’antologia Abitare la parola. Poeti italiani nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019) e in diverse riviste e testate online tra cui Nazione Indiana.  È stato selezionato come autore per l’edizione 2019 del Festival RicercaBo. È uno dei fondatori del collettivo artistico ZufZone.

FRANCESCO IANNONE

Pasifae

 

 

 

Francesco Iannone è nato a Salerno nel 1985. Ha pubblicato le raccolte Poesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011), Pietra lavica (Aragno, 2016), la plaquette Le belve erranti (Nervi, 2019) e il romanzo Arruina (il Saggiatore, 2019).

 

Diario in caratteri latini

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di Ishikawa Takuboku

 

a cura di Maria Chiara Migliore e Luca Capponcelli

[Esce per Carocci editore Diario in caratteri latini di Ishikawa Takuboku, uno dei testi più importanti del primo Novecento giapponese. La traduzione e l’Introduzione sono di Maria Chiara Migliore, il saggio “Ishikawa Takuboku. Un antieroe moderno” è di Luca Capponcelli. ar]

Ishikawa Takuboku (1886-1912) è uno dei poeti moderni giapponesi più popolari e amati in patria, ma poco considerato dalla critica letteraria occidentale. La sua vita si intreccia con i radicali cambiamenti sociali e culturali del Giappone di primo Novecento, caratterizzato da un rapido processo di modernizzazione che tuttavia genera anche una realtà percepita come profondamente contraddittoria, smarrita com’è tra modernità e perdita dei valori tradizionali. Forse proprio l’appartenenza a questo momento storico spiega l’inquietudine esistenziale di Takuboku e la sua incapacità a porvi rimedio. Qui presentiamo per la prima volta in forma integrale il diario, che scrisse dal 7 aprile al 16 giugno del 1909, in cui descrive senza veli la sua realtà interiore, anche nei suoi aspetti più degradanti, sempre alla ricerca di un Io in bilico tra l’autoesaltazione e l’autocommiserazione. Le sue annotazioni giornaliere tratteggiano vividamente non solo la sua vita ma anche l’ambiente dei letterati attivi a Tokyo, con le loro contraddizioni e le loro istanze per una nuova letteratura. Per profondità psicologica e sperimentazione letteraria, il diario occupa una posizione unica nel panorama della letteratura giapponese moderna.”

Gli eroi sono partiti

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di Francesca Mazzotta

TAUROMACHIA

L’invidia degli dèi non ti risparmia
mentre severo assisti a quella gara
di bestie nere polvere bufera
tra te il presente e te il passato e te

poi sopra i corpi scende la preghiera
– il toro morto ha ucciso l’altro toro:
le cantilene sposano l’abisso.

Né vinto né vincente ti allontani
lasci la sedia vuota, amaro guardi
il faro dell’arena affievolirsi.

Ma tornerai ancora, come torna
la cenere fedele ai roghi spenti
che coglierai dall’aria diligente
di giorno in giorno, per colmare l’urna
.

 

ELENA

Un canto spezza l’aria
non siamo ancora morti
scrosta il guscio d’uovo nel lavabo
affiora poco a poco il bianco lucido

ha un cuore non più vergine
ovatta nelle vene, perde il conto
dei sassi lanciati contro i vetri
la casa di stoffa abbandonata.

Le strade sono zero rettilinei
bocche aride, identiche alla sete
dell’occhio che la spia dalla fessura
la spoglia della pelle lungo i femori

Cosa ne sai del mare di incisivi
racchiuso nel bicchiere rovesciato
l’elemosina di un bacio, l’odore
dei sogni che insapona nel catino.

 

ESTATE

Spicciolavi le nespole dai rami

nell’imbuto del caldo ti ho pensato
albero abbattuto
ho temuto il suono
il tuono sordo contro il suolo il prato
docile spianato

s’instrada sempre audace ed è terrore:
il falco veglia fisso la contrada
dove sediamo, tra l’attesa e il grano
inondati di luce.

 

SHANGHAI

La donna si fa il segno della croce
e l’hostess mima muta i salvataggi
l’ottava volta della settimana
poi celere consegna le salviette

scuciamo i meridiani, il cielo attorto
per tutto il volo simili a shanghai
a un sarto alle sue mani ciecamente
all’unico indovino grato a Zeus

*

tra il passaporto e la carta d’imbarco
ho in pugno un punto di buio un segreto
che tengo stretto, o precipiteremo
cadremo, se lo perdo, nell’oceano

*

non andartene prima del declino
del baleno che cerca moribondo
una mano
nella pinna d’aereo
non andartene oltre l’arco che fanno
i due cigni uncinati sull’acqua
occhi negli occhi
di musica muti
come i platani di Kensington Gardens
quel loro sibilare al sottosuolo
la sillaba di un’ombra sul selciato.

 

PSICHE

Aratro dolce il rito della mano
con cui piano mi pettini la nuca
latro come un avanzo di cane
di caduca carne

con gli occhi chiusi vedo grattacieli
esanimi aquiloni, serrature
la coda di un pavone, sette suore
in fila esatta per la processione

tu vedi gatti neri trasalire
in ululati umani, gli asfodeli
coperti di scorpioni, un gioielliere
i suoi orologi esposti luccicare.

 

GRIDO

Nel mio bicchiere nuotano orche bianche
mentre rivedo un volto che mi manca
svettano città subacquee promontori
spioventi
i cardini di pantheon immani
scansati per miracolo dai venti,
le tormente

dune di sale come un grido cieco
da spezzare la corteccia degli ulivi
disperso dentro il deserto niente
di una livida stanza d’ospedale

dove scrivesti sul biglietto
casa, hotel
ed intendevi dire che morivi.

 

SOLSTIZIO

Che moristi lo ricorda
la palma a fianco ai pini
una poltrona a righe biancoverdi
il vento che vira la lucciola
Orsa sul cielo di grano, mesce
le nostre ombre scomposte sul muro

quanto ancora ci irrora il solstizio
il lampione titano inceppato, questo
capovolto miraggio

quanto a fondo l’orma del paesaggio
trainata dal treno, e noi in ostaggio
nel fluire che ci catapulta vivi.

Sopra una fotografia di camion nella notte (opinioni di un disadattato)

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di Giorgio Mascitelli

Molti di noi tratterranno a lungo nella mente la fotografia in cui i camion dell’esercito trasportavano di notte le salme dei morti di Covid 19 da Bergamo ai crematori dell’Emilia. Credo che il motivo sia, al di là delle ovvie circostanze emotive, che questa è una foto di altri tempi o quanto meno di altri luoghi. Benchè questa non sia un’immagine parlante e in futuro avrà bisogno di una didascalia che ne spieghi il contesto e l’oggetto preciso  e la morte non sia richiamata direttamente nella città spettrale in cui passano i mezzi, è evidente che una colonna di camion militari nella notte non solo non evoca nulla di buono, ma soprattutto nulla di quanto il senso comune ritiene che ci sia prossimo.

La recente epidemia con il suo luttuoso lascito ha portato una ventata di interesse e di riletture della tesi dello storico francese Ariès sulla tendenza delle società capitalistiche a tabuizzare la morte. Ariès sostiene infatti che, a partire dal Duecento contestualmente alla diffusione della dottrina del giudizio individuale dell’anima immediatamente dopo la morte corporale e non più solo alla fine dei tempi nel quadro del giudizio universale, si passa lentamente da una concezione della morte come evento quotidiano da trattare quasi con confidenza alla morte come evento straordinario e luttuoso, che raggiunge il suo culmine nel Romanticismo, invece a partire dal Novecento si assiste a una rimozione della morte e del lutto dalla vita sociale come se fosse un evento privato e un po’ sconveniente, sostituendosi al sesso come tabù principale. Ariès precisa che questa tendenza è lungi dall’essere univoca, per esempio, quando scrive alla metà degli anni settanta, dice che essa non ha ancora attecchito nei paesi europei di cultura cattolica e anche negli Stati Uniti, paese d’origine di questo nuovo tabù, sussistono non solo sacche di resistenza ma anche controtendenze. Insomma la morte come tabù appare essere per Ariés una tendenza importante ma non assoluta della nostra società. In effetti, se analizziamo la fotografia di Bergamo alla luce di questa tesi, si nota che da un lato essa non mostra la morte, dall’altro vi allude proprio nella sua sobrietà e nel suo essere indiretta e per così dire bisognosa di didascalia. Certamente è lontana anni luce dai modi mediatici di rappresentazione della morte attraverso la sua spettacolarizzazione, che è un modo per rispettare il tabù di cui sopra anestetizzando il pubblico per sovraesposizione: si pensi alle lucine verdi da videogioco con cui la televisione nel 1991 rappresentava il bombardamento di Baghdad o alla fotografia di un uomo che moriva di AIDS per una campagna pubblicitaria di maglioni.

Naturalmente il valore dell’immagine non è solo un fatto intrinseco alla sua forma, ma nasce anche dalla sua ricezione: per spettacolarizzare la morte nei bombardamenti di Baghdad non bastavano le lucine verdi, ma ci voleva qualcuno disponibile a credere che in fondo fosse soltanto un videogioco, così la sobrietà tragica della fotografia dei camion nasce da una disposizione d’animo diffusa a guardare cose a cui, comprensibilmente, non si guarda volentieri. E’ probabile che se questa fotografia non fosse stata presa e diffusa durante il periodo della quarantena, cioè in un periodo di sospensione forzata dei normali ritmi temporali della nostra vita sociale, si sarebbe persa nel rumore di fondo e nel ciclo rapido di apparizione e scomparsa delle immagini tipico dei nostri media e non si sarebbe colta la sua qualità dirompente rispetto al tabù della morte. E invece, nella disarticolazione e confusione seguite all’introduzione della quarantena, perfino gli operatori mediatici più tradizionali sono stati liberi di dare espressione a una loro umana emozione. Certo è chiaro che questa ricezione dipende anche dalla vicinanza dei luoghi e dei fatti, è da immaginare che questa fotografia in altri paesi non abbia avuto il medesimo impatto, così come è accaduto tante volte a parti inverse ovviamente.

Furio Jesi ne Il tempo della festa scrive che l’unica esperienza possibile nel mondo moderno della festa nel senso tradizionale del termine è quella della festa crudele, cioè quella che ha al centro il dolore e il lutto, per chiarire sceglie come esempio di feste crudeli sia l’assalto al forno delle Grucce sia la peste di Milano descritti nei Promessi sposi e ai quali Renzo si trova a partecipare involontariamente. Ora questi esempi, un moto di piazza e un’epidemia,  chiariscono che la qualità essenziale della festa  per il mitologo non  consiste nella sua periodicità o ritualità o tanto meno nel suo spirito ludico, ma nel fatto di essere un momento collettivo di sospensione del normale ordine temporale di una società.  Il festivo è insomma ciò che è fuori della scansione abituale del tempo. La fotografia di Bergamo naturalmente non è un’immagine festiva in questa particolare accezione perché la dimensione spettrale della città notturna confligge con l’aspetto collettivo dell’esperienza festiva, anche se triste ( nei Promessi sposi anche durante la peste c’è sempre in giro qualcuno: monatti, sbirri, untori, preti, Renzo stesso); come anche la quarantena è stata un’esperienza di rottura e grave da sopportare, si pensi a single abituati a un’intensa vita sociale per esempio o a coloro che vivono in appartamenti molto piccoli, in ragione proprio della sua natura innanzi tutto solitaria ed esclusiva.

Eppure nella quarantena un aspetto festivo c’è stato ed è  quello della sospensione dei ritmi sociali abituali: non è stata un’esperienza omogenea perché per esempio molte persone con il lavoro da casa hanno sperimentato una dilatazione della durata interiore del tempo di lavoro tramite l’invasività delle tecnologie informatiche, una sua mescolanza con il tempo domestico e con la sospensione di tutta una serie di sussidi e cure che aiutavano l’organizzazione della quotidianità, ma nel complesso c’è stata una tendenza marcata al rallentamento soprattutto in ragione dell’arresto delle forme d’intrattenimento e di movida, i cui ritmi sono ormai direttamente connessi con quelli sociali complessivi e lavorativi in particolare. In un certo senso è possibile affermare che nella quarantena è esistito un aspetto regressivo, l’isolamento e le restrizioni alla libertà di movimento, e uno progressivo che è stata un’uscita dai tempi sociali normali. E’ interessante da questo punto di vista la dichiarazione di Pietro Ichino secondo il quale parecchie persone hanno sfruttato la quarantena per lavorare poco o prendersi delle vacanze indebite: l’aspetto più significativo delle dichiarazioni del giuslavorista non è quello immediatamente antropotecnico di indicare dei capri espiatori, i fannulloni, a una società che presumibilmente esce spaventata e perciò incattivita da questa esperienza per i lutti, la perdita di sicurezza economica e le tensioni vissute, ma nel loro essere un campanello d’allarme per i ceti dirigenti segnalando che questa esperienza ha bloccato il processo di interiorizzazione dei ritmi di accelerazione sociale. E in quest’ottica devono essere lette quelle del sindaco Sala sui rischi dell’ “effetto grotta”.

Di fronte a questi richiami all’ordine sta la fotografia di Bergamo in cui l’ordine del tempo è sospeso per cause di forza maggiore, ma non c’è solo dolore in essa perché contiene una sollecitazione anche per il futuro. In questa fotografia, a dispetto della sua natura luttuosa, è possibile cogliere la verità di un’affermazione di Guy Debord  che “il mondo già possiede il sogno di un tempo di cui non ha che da possedere la coscienza per viverlo realmente” ( Lo società dello spettacolo, tesi 164). Nonostante infatti questa riappropriazione di tempi diversi da quelli dettati dalla logica dell’accelerazione sia stato legata al lutto, comunque per quanto non desiderabile una dimensione dell’esperienza umana, essa può servire da modello anche in altre occasioni, più collettive e magari più fauste, per non farsi dettare i ritmi da questa logica.

In uno dei pochi libri fondamentali del nostro tempo, Accelerazione e alienazione, Hartmut Rosa dimostra che la tendenza principale della nostra società è quella ad accelerare i ritmi di vita in maniera tale da compromettere il nostro rapporto con il mondo. E’ alla luce di questo principio che può essere interessante riflettere sull’esperienza di questi mesi sia nel momento della quarantena sia in quello della riapertura. In particolare può essere significativo intrecciare questo principio con gli allarmi, fondati o quanto meno plausibili, di chi ha letto le misure di isolamento sociale come una forma di sperimentazione di nuove tecniche di controllo sociale. Basterà citare quanto affermava Massimo De Carolis ricordando che c’è il concreto rischio che alcune misure dettate da necessità transitorie diventino stabili come nuove forme di governo delle persone. Si tratta, ripeto, non solo di timori condivisibili, ma, per quanto concerne la scuola per esempio, alcune uscite di un certo sottobosco ideologico rendono già visibili alcune linee d’intervento, per esempio nel tentativo di controllare la didattica dei docenti per via informatica. E’ anzi perfettamente tipico nelle logiche di gestione sociale contemporanee trasformare in regola strategica ciò che si è rivelato utile in un determinato frangente, pur non essendo stato prima pianificato. Credo però che nessuna forma che contrasti con il principio di accelerazione sociale verrà presa in considerazione stabilmente. In altri termini qualsiasi forma di disciplinamento che prevede il controllo della circolazione delle persone e dunque il loro rallentamento non avrà esito forse neanche in stati semiautoritari come l’Ungheria, mentre tutte le forme che prevedono un’intensificazione dei ritmi, degli obblighi e dei desideri sociali saranno largamente imposte. Insomma tutto ciò che aumenterà le possibilità di prestazione, che hanno non solo un valore di produttività ma anche di controllo sociale, verrà realizzato, ciò che frena l’accelerazione si concluderà con il periodo di cautela sanitaria.

In un contesto del genere allora ha senso augurarsi il ritorno alla socializzazione mantenendo la memoria di un possibile uso del tempo decelerato in un contesto non più fatto di necessità, ma come pratica collettiva di disobbedienza. Sarebbe un modo per dare un senso positivo a quanto ci è capitato. Queste esperienze, che nascono da eventi naturali, hanno naturalmente delle cause che devono essere indagate scientificamente, ma non hanno alcun significato in sé per la nostra esistenza individuale e collettiva, trasformarle in un’occasione di critica dello stato di cose presenti in nome di una vita migliore significa rendere ciò che ci è apparso in forma di morte e dolore viva vita da spendere amando, per quanto possibile, questo mondo che ci sfugge sotto le dita.