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Cinquanta meno uno congegni

di

Romano A. Fiocchi

 “Orecchie nell’angolo di pagina, graffi in copertina, sedicesimi a stampa sghemba, sottolineature indelebili a penna, per non parlare delle glosse a bordo testo. Carla mal tollerava simili cose. Le davano gli incubi. Infatti, quando dopo la lettura de I topi di Buzzati, tra pagina 122 e 123, trovò la fascetta antitaccheggio nascosta in profondo, quasi nella rilegatura, trasalì”.

Ho trasalito anch’io. Ho interrotto la lettura e sono andato a recuperare il mio Meridiano con le opere scelte di Buzzati. E ho riletto I topi, che davvero non ricordavo più. Sì, era la chiave. Ogni libro ha una o più chiavi di lettura nascoste tra le righe. Piccole apocalissi ce l’ha in questa citazione di Buzzati e nell’invasione di topi che travolge il racconto stesso, dal titolo Antitaccheggio, per poi contaminare tutta la raccolta.

Piccole apocalissi è composto da quarantanove racconti, quarantanove come quelli di Hemingway (sarà anche questa una citazione?). Brevi però, brevissimi, se si considera che occupano solo settantadue pagine, una media di una pagina e mezzo ciascuno. In realtà variano da un minimo di due righe a un massimo di tre pagine. C’è anche un racconto che dà il titolo all’intera raccolta, ma che è – nello spirito di Santoro – volutamente fuorviante. Mentre quasi tutti i testi, per lunghi o brevi che siano, si risolvono in un finale costruito attraverso uno scoppio di immagini sorprendenti, un gioco di parole (Sesto senso), una pugnalata silenziosa data alle spalle (Il timore che qualcuno mi senta), uno sputo contenente centonovantasette miliardi di teschi (Stella cometa), e così via, nel racconto Piccole apocalissi il colpo di scena sfuma in una soluzione poetica: il bimbo protagonista rinuncia a vedere le stelle e preferisce “le particole di polvere” che gli sembrano più stelle delle stelle del cielo e si scontrano l’una con l’altra “come la fine di tutto l’universo”.

I topi, dunque. Perché ogni finale, come ho lasciato intendere, è un topo che guizza, un’epifania improvvisa che ti azzanna, una svolta vorace ed enorme che in poche battute inghiotte tutto il racconto in un buco nero. Piccole atroci apocalissi che ti fanno ricordare certe intuizioni crudeli di Roland Topor: penso, ad esempio, al celebre ritratto di Pinocchio che abbraccia la Fata turchina e le trafigge il viso con il naso di legno.

Il linguaggio di Santoro è forbito, aulico per scelta (il potamocero, le abbondanti grasce, l’usta del cinghiale, il mare all’occaso, le nere spelonche, e così via). Cerca l’eleganza, fonde forma e contenuto, a volte inseguendo suggestioni calviniane che hanno per riferimento città costruite e ricostruite in continuo (I nomadi del Farharhar), o città che diventano bellissime viste dall’alto, immerse nella luce dell’incendio che le sta divorando (Una città bellissima). Altre volte evoca scenari epici con una ricercatezza linguistica e un accavallarsi di miti, invenzioni letterarie alla Borges, come nell’immaginoso Stirpe di lupi. Altre volte ancora, smentisce quella stessa eleganza di luoghi e di parole per scendere nella volgarità (Meloscato). Che calza a pennello, in questo caso, poiché parla di un diavolo dai gusti davvero repellenti.

I racconti di Livio Santoro ti obbligano alla riflessione, alla scoperta del dettaglio, in un’analisi ossessivamente minuziosa della realtà in bilico tra la nevrosi e il sarcasmo. Esempio emblematico, il racconto dal titolo Perturbante, ovvero della mia gamba sinistra, testo di sole tre righe, che pertanto riporto qui per intero: “M’infilo sempre i pantaloni partendo dalla gamba destra. Stamattina, chissà perché, ho cominciato dalla sinistra”. Fine.

Ma il racconto più bello credo che sia proprio Lo speranzoso accumulatore, permeato di realismo magico e di velata ironia. Protagonista è un collezionista compulsivo di barattoli di vetro trasparenti che Santoro ritrae indirettamente insistendo sulla descrizione del suo habitat, dove gli spazi vitali sono ridotti in minimi termini proprio per via dell’accumulo delle migliaia di barattoli di vetro che gli amici continuano incessantemente a portargli.

Ma Santoro ama anche le elencazioni in stile Perec. Il racconto Dall’ultimo inventario è un’interminabile sequenza di immagini tratte da letture, scene mitologiche, eventi storici, figure di artisti, poeti, scrittori, filosofi, architetti. Un elenco che si apre con dei punti di sospensione ([…]) e si chiude con altri punti di sospensione. Come a dire che di questo inventario esiste una parte pregressa e una parte che prosegue e lo rende infinito, oppure circolare, con inizio e fine che si congiungono. Non per nulla le prime parole del racconto sono: “L’infinita morte del re estremo. Il ritorno agli archetipi di Borges”, e le ultime: “Il cancro alla gola di Robert Goddard, che aveva gridato il suo sogno alle stelle. Il saluto celeste di Jurij Gagarin, che le stelle le aveva invece viste da vicino”. Elenchi anche di fiabe (La paura del buio), come quelle di Cappuccetto Rosso, Hansel e Gretel, Cenerentola, compresse all’inverosimile e stravolte al punto da concludere che chi le avrebbe lette non avrebbe mai saputo nulla del lupo, della vecchia strega o della matrigna cattiva.

A comporre questa raccolta curiosa sono insomma piccoli congegni narrativi che portano in non-luoghi letterari e lasciano aperte infinite deduzioni sui motivi precisi di quelle forme. Come una collezione di strane concrezioni prodotte appunto da tante piccole apocalissi.

Due parole sull’editore, anche questo molto curioso. Edicola Ediciones si definisce una casa editrice “garibaldina”, che come l’eroe dei due mondi vive e pubblica tra Italia e Cile. Nata a Santiago a fine 2013, dal 2015 ha una sede anche a Ortona, proprio nell’edicola di famiglia dove tutto ha avuto inizio.

Corrado Govoni, un continuo fascino

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Francesco Targhetta

Se è vero che la poesia di Govoni è ipercinetica e sempre in fuga, spiace constatare che negli ultimi anni tale inafferrabilità abbia proiettato il suo autore ai margini del canone. Buone cartine di tornasole per valutare la fortuna di uno scrittore sono le antologie scolastiche, e il bilancio della presenza govoniana è in deciso calo: mentre nei manuali per il triennio il suo profilo, al solito intruppato tra crepuscolari e futuristi, finisce all’ombra di Gozzano e Palazzeschi e dunque liquidato in poche righe e senza il supporto di alcun testo, nei libri per il biennio, così come in quelli per le secondarie di primo grado, dove solitamente Govoni, per l’abbondanza di metafore e di vivace colorismo, godeva di un certo favore, compare ormai, dove compare, solo con i calligrammi più celebri.

I motivi di questa marginalizzazione, come sostiene Paolo Maccari nel suo contributo a questo volume in riferimento alle antologie poetiche del ’900, possono essere legati al carattere vagabondo e spiazzante della poesia govoniana, che tende sempre a scivolare via, deviare, farsi distrarre, accumulare immagini arbitrariamente, in un andamento vagabondo e incostante che mal si concilia con le esigenze più geometriche e rigorose dell’analisi testuale di oggi. E poco fruttuoso sulle poesie di Govoni risulta anche l’altro esercizio caro all’interpretazione dei brani letterari, ossia la ricerca del messaggio. Cosa vogliono comunicare i versi di questo poeta del movimento, della metamorfosi, della dilatazione anarchica, della dispersione tra le molteplici forme della vita, della fantasia eretica e dell’allucinazione, quasi del tutto privi di lirismo? Quale messaggio recano in dote se non la vitalità e la necessità del meccanismo stesso che li genera? Cosa esaltano se non la disponibilità verso il mondo e la sua bellezza evanescente, insomma, la potenza della poesia?

Questo annuario cade dunque nel momento giusto, avendo dato a importanti critici di ambito accademico così come ad altri cultori govoniani la possibilità di rituffare se stessi nel «continuo fascino» della scrittura del poeta ferrarese, con la speranza di invitare altri all’immersione. Di questo, d’altronde, si tratta: dovunque la si voglia prendere, dalle sue prime raccolte a quelle più tarde, la poesia di Govoni offre sempre infilate di visioni iridescenti, gallerie di oggetti multiformi che si cambiano di posto in continuazione, in un tripudio di trasfigurazioni a sorpresa e in un carnevale prismatico dove si alternano, come già scriveva Moretti a Palazzeschi, «cose d’una ingenuità strabiliante e bellezze meravigliose»[1]. In ogni caso, occasioni di stupefazione. Certo è che la stessa attenzione del lettore, attraversando le colate versali dei suoi testi, oscilla, si sospende, va a intermittenza, si perde qualcosa, per poi, alla prima rilettura, scoprire un dettaglio che le era sfuggito. La poesia di Govoni continua a muoversi nel tempo e a non conservare nulla di perfetto. Ma, come scrive Montale in una frase chiave e ingiustamente poco citata della sua celebre recensione govoniana del 1953, «in poesia bellezza e perfezione non solo raramente coincidono ma spesso si escludono».

Perciò di solito, quando spiego Govoni a scuola, parto da versi tutt’altro che rifiniti, quelli che aprono Il tuo sorriso, da Gli aborti: «Io penso che il tuo sorriso / è simile a dei legumi gettati / dalla finestra del castello dentro la palude». A chi sarebbe potuto venire in mente un simile delirante paragone se non a Govoni? Chi può vantare, nella nostra tradizione poetica, di essere così riconoscibile in quasi ogni suo verso? (Anche per scatti scomposti come quel “io penso che è”: chi ha letto per bene il primo Govoni conosce il disorientamento creato dal suo diffuso disagio grammaticale).

Così riconoscibile, Govoni, anche se ha scritto tantissimo, e lo ha fatto per una ragione molto semplice: solo scrivendo faceva esistere il mondo. Per questa peculiarità, e per la nota assenza dell’io dalla stragrande maggioranza delle sue poesie, il Govoni poeta rientrerebbe tra quelle che il sociologo francese Pierre Zaoui ha definito anime discrete, ossia coloro che sanno «rinunciare a ogni interiorità, foss’anche sconosciuta e impersonale, per aprirsi al corpo pieno del mondo che non ammette né morte né negazione. Tutto vi esiste in esteriorità, consacrato al di fuori, puro oggettivismo dove l’oggetto smette integralmente di essere solo l’immagine di sé»[2]. Ed ecco la passione di Govoni per le fasi di trapasso, i crepuscoli, le albe, le primavere, gli autunni, in cui le cose, colte nella loro dissolvenza e trasformazione, rivelano la propria vitalità. Aggiunge Zaoui che i discreti sono coloro che sanno «lasciarsi commuovere dalla bellezza neutra delle cose», e le poesie-elenco govoniane sono in questo senso una forma di poesia tra le più sublimemente discrete: in un testo come Le cose che fanno la domenica ci viene messa a disposizione, per l’appunto, l’asettica presenza del reale, senza che il poeta neppure per un attimo frapponga se stesso e la propria sensibilità tra noi che leggiamo e gli oggetti citati. Ne esce, come ebbi a scrivere, la cosa apparentemente più distante dalla poesia e quella più favorevole ad essa. E non è un caso se è soprattutto questo che i poeti ammiratori di Govoni, da Moretti a Palazzeschi, da Montale a Sinisgalli fino a Zanzotto (che inviò a Govoni nel 1951 una copia dedicata del suo Dietro il paesaggio), gli hanno riconosciuto: la straordinaria disponibilità a offrire qualcosa al lettore. È una poesia generosa, la sua.

Due ultime annotazioni. Si è molto insistito sulla natura euforica e lussureggiante della poesia govoniana (senza mai dimenticare quanto questo tipo di scrittura nasconda un innegabile doppiofondo di horror vacui), ma poco si è detto sul suo carattere fortemente ossessivo. È incredibile, a percorrere in lunghezza la produzione di Govoni, quante immagini vi tornino in modo ricorsivo e seriale, riversandosi incessantemente di poesia in poesia, quasi sempre con fantasiose varianti, ma in alcuni casi copincollate con effetti di autocitazione, come se lo spettacolo variopinto del mondo non fosse generato che da un infinito rimescolamento degli stessi elementi, da un assiduo lavoro di smontaggio e rimontaggio delle stesse figure. Basti pensare ai mendicanti, cari alla musa govoniana dal 1903 fino alla morte, esemplari proiezioni di emarginazione e vagabondaggio. È vero, dunque, che la poesia di Govoni è debordante ed esplosiva, ma è anche vero che disegna uno dei sistemi poetici del ’900 più ripetitivi e maniacali.

Provo ad abbozzare una ragione di tanta ricorsività, ed è la seconda annotazione. Scriveva Govoni a Moretti nel novembre 1905: «Sono 5 mesi che non scrivo più: un grande dolore paralizza tutte le mie facoltà mentali. […] il mio poema a cui mi sono accinto con entusiasmo e ardore attende invano la sua espressione. Per ora mi è impossibile fare nulla. Tutto mi annoia: non apro più un libro. I cari poemi che parlavano al mio cuore e alla mia mente ora mi sembrano vuoti di senso, sciocchi»[3]. Ciò che colpisce in queste righe è come il digiuno di letture implichi necessariamente la sterilità compositiva. Govoni non legge, quindi non scrive. Chi ha sfogliato i volumi del Fondo Govoni della Biblioteca Ariostea sa come Govoni fosse un lettore con tendenze grafomani, tanto che tutti i suoi libri più compulsati hanno i margini e le pagine bianche zeppi di versi, immagini, parole, idee. La lettura di testi altrui faceva automaticamente scattare, come una molla, il meccanismo della fantasia govoniana, la quale, viceversa, priva di alimento letterario, fatalmente era destinata a incepparsi. Mentre il giovane Govoni si entusiasmava per i simbolisti franco-belgi, D’Annunzio, Pascoli, i suoi sodali crepuscolari e poi gli scrittori dell’area marinettiana, la sua poesia raccoglieva il codice simbolico che informava quella poesia e lo faceva saltare in aria in un grandioso show pirotecnico. Fu il periodo aureo della sua scrittura. Più tardi, con l’affievolirsi delle letture, le difficoltà economiche, le miserie della vita quotidiana e l’inasprirsi della sua indole, sempre più risentita e velenosa verso un ambiente letterario da cui si sentiva ingiustamente escluso, a dare linfa ai suoi versi fu soprattutto, oltre alla memoria del paesaggio agreste ferrarese ormai perduto, la sua stessa poesia, con un’incredibile terapia di autotrasfusione. E così i versi di Govoni non hanno mai smesso di aiutare il mondo a essere, ad apparire, a vivere.

Scriveva Kafka nei suoi diari l’8 dicembre 1917: «Nella lotta tra te e il mondo vedi di assecondare il mondo». Govoni nelle sue poesie lo ha fatto per oltre sessant’anni, mostrandoci migliaia di modi diversi di percepirlo. Sta a noi, attraverso questo annuario e altri che auspicabilmente seguiranno, non smettere di assecondare lui.

 

[1] M. Moretti, A. Palazzeschi, Carteggio, I, a cura di S. Magherini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 1999, p. 111.

[2] P. Zaoui, L’arte di scomparire, Milano, Il Saggiatore, pp. 119-120.

[3] A. I. Villa, Neoidealismo e rinascenza latina. La cerchia di Sergio Corazzini. Poeti dimenticati e riviste del crepuscolarismo romano (1903-1907), Milano, LED, 1999, p. 357.

 

*

 

Francesco Targhetta, “Nota introduttiva”, in Annuario govoniano di critica e luoghi letterari, a cura di Matteo Bianchi, Edizioni Otto/Novecento, La vita felice, Milano, 2020.

 

Cervi Volanti (Passerini, Selan, Iannone)

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Copertine dei Cervi Volanti (Passerini, Selan, Iannone)

 

Dopo Selected Love di Andrea Franzoni, tre altri titoli si aggiungono alla collana di scritture poetiche I Cervi Volanti, che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili. Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio, come ha scritto Marilina Ciaco in un suo recente articolo.

I tre titoli sono: Siluet di Nicola PasseriniNove di Carlo SelanPasifae di Francesco Iannone; ne pubblico qui alcune pagine. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce, ad eccezione di Siluet, che è stato illustrato dall’autore.

 

NICOLA PASSERINI

Siluet

 

 

 

Nicola passerini nasce a fermo nel 1963. Negli anni ottanta e novanta pubblica poesie in alcune riviste – come Alias e Lettere dalla terra. In seguito solo autoproduzioni in pochi esemplari.

 

CARLO SELAN

Nove

 

 

 

Carlo Selan nasce a Udine nel 1996 e attualmente studia Italianistica presso l’Università degli Studi di Trieste (dove abita). È redattore delle riviste Digressioni, Charta Sporca e del sito letterario Poesia del nostro tempo. Alcune suoi versi sono apparsi nell’antologia Abitare la parola. Poeti italiani nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019) e in diverse riviste e testate online tra cui Nazione Indiana.  È stato selezionato come autore per l’edizione 2019 del Festival RicercaBo. È uno dei fondatori del collettivo artistico ZufZone.

FRANCESCO IANNONE

Pasifae

 

 

 

Francesco Iannone è nato a Salerno nel 1985. Ha pubblicato le raccolte Poesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011), Pietra lavica (Aragno, 2016), la plaquette Le belve erranti (Nervi, 2019) e il romanzo Arruina (il Saggiatore, 2019).

 

Diario in caratteri latini

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di Ishikawa Takuboku

 

a cura di Maria Chiara Migliore e Luca Capponcelli

[Esce per Carocci editore Diario in caratteri latini di Ishikawa Takuboku, uno dei testi più importanti del primo Novecento giapponese. La traduzione e l’Introduzione sono di Maria Chiara Migliore, il saggio “Ishikawa Takuboku. Un antieroe moderno” è di Luca Capponcelli. ar]

Ishikawa Takuboku (1886-1912) è uno dei poeti moderni giapponesi più popolari e amati in patria, ma poco considerato dalla critica letteraria occidentale. La sua vita si intreccia con i radicali cambiamenti sociali e culturali del Giappone di primo Novecento, caratterizzato da un rapido processo di modernizzazione che tuttavia genera anche una realtà percepita come profondamente contraddittoria, smarrita com’è tra modernità e perdita dei valori tradizionali. Forse proprio l’appartenenza a questo momento storico spiega l’inquietudine esistenziale di Takuboku e la sua incapacità a porvi rimedio. Qui presentiamo per la prima volta in forma integrale il diario, che scrisse dal 7 aprile al 16 giugno del 1909, in cui descrive senza veli la sua realtà interiore, anche nei suoi aspetti più degradanti, sempre alla ricerca di un Io in bilico tra l’autoesaltazione e l’autocommiserazione. Le sue annotazioni giornaliere tratteggiano vividamente non solo la sua vita ma anche l’ambiente dei letterati attivi a Tokyo, con le loro contraddizioni e le loro istanze per una nuova letteratura. Per profondità psicologica e sperimentazione letteraria, il diario occupa una posizione unica nel panorama della letteratura giapponese moderna.”

Gli eroi sono partiti

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di Francesca Mazzotta

TAUROMACHIA

L’invidia degli dèi non ti risparmia
mentre severo assisti a quella gara
di bestie nere polvere bufera
tra te il presente e te il passato e te

poi sopra i corpi scende la preghiera
– il toro morto ha ucciso l’altro toro:
le cantilene sposano l’abisso.

Né vinto né vincente ti allontani
lasci la sedia vuota, amaro guardi
il faro dell’arena affievolirsi.

Ma tornerai ancora, come torna
la cenere fedele ai roghi spenti
che coglierai dall’aria diligente
di giorno in giorno, per colmare l’urna
.

 

ELENA

Un canto spezza l’aria
non siamo ancora morti
scrosta il guscio d’uovo nel lavabo
affiora poco a poco il bianco lucido

ha un cuore non più vergine
ovatta nelle vene, perde il conto
dei sassi lanciati contro i vetri
la casa di stoffa abbandonata.

Le strade sono zero rettilinei
bocche aride, identiche alla sete
dell’occhio che la spia dalla fessura
la spoglia della pelle lungo i femori

Cosa ne sai del mare di incisivi
racchiuso nel bicchiere rovesciato
l’elemosina di un bacio, l’odore
dei sogni che insapona nel catino.

 

ESTATE

Spicciolavi le nespole dai rami

nell’imbuto del caldo ti ho pensato
albero abbattuto
ho temuto il suono
il tuono sordo contro il suolo il prato
docile spianato

s’instrada sempre audace ed è terrore:
il falco veglia fisso la contrada
dove sediamo, tra l’attesa e il grano
inondati di luce.

 

SHANGHAI

La donna si fa il segno della croce
e l’hostess mima muta i salvataggi
l’ottava volta della settimana
poi celere consegna le salviette

scuciamo i meridiani, il cielo attorto
per tutto il volo simili a shanghai
a un sarto alle sue mani ciecamente
all’unico indovino grato a Zeus

*

tra il passaporto e la carta d’imbarco
ho in pugno un punto di buio un segreto
che tengo stretto, o precipiteremo
cadremo, se lo perdo, nell’oceano

*

non andartene prima del declino
del baleno che cerca moribondo
una mano
nella pinna d’aereo
non andartene oltre l’arco che fanno
i due cigni uncinati sull’acqua
occhi negli occhi
di musica muti
come i platani di Kensington Gardens
quel loro sibilare al sottosuolo
la sillaba di un’ombra sul selciato.

 

PSICHE

Aratro dolce il rito della mano
con cui piano mi pettini la nuca
latro come un avanzo di cane
di caduca carne

con gli occhi chiusi vedo grattacieli
esanimi aquiloni, serrature
la coda di un pavone, sette suore
in fila esatta per la processione

tu vedi gatti neri trasalire
in ululati umani, gli asfodeli
coperti di scorpioni, un gioielliere
i suoi orologi esposti luccicare.

 

GRIDO

Nel mio bicchiere nuotano orche bianche
mentre rivedo un volto che mi manca
svettano città subacquee promontori
spioventi
i cardini di pantheon immani
scansati per miracolo dai venti,
le tormente

dune di sale come un grido cieco
da spezzare la corteccia degli ulivi
disperso dentro il deserto niente
di una livida stanza d’ospedale

dove scrivesti sul biglietto
casa, hotel
ed intendevi dire che morivi.

 

SOLSTIZIO

Che moristi lo ricorda
la palma a fianco ai pini
una poltrona a righe biancoverdi
il vento che vira la lucciola
Orsa sul cielo di grano, mesce
le nostre ombre scomposte sul muro

quanto ancora ci irrora il solstizio
il lampione titano inceppato, questo
capovolto miraggio

quanto a fondo l’orma del paesaggio
trainata dal treno, e noi in ostaggio
nel fluire che ci catapulta vivi.

Sopra una fotografia di camion nella notte (opinioni di un disadattato)

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di Giorgio Mascitelli

Molti di noi tratterranno a lungo nella mente la fotografia in cui i camion dell’esercito trasportavano di notte le salme dei morti di Covid 19 da Bergamo ai crematori dell’Emilia. Credo che il motivo sia, al di là delle ovvie circostanze emotive, che questa è una foto di altri tempi o quanto meno di altri luoghi. Benchè questa non sia un’immagine parlante e in futuro avrà bisogno di una didascalia che ne spieghi il contesto e l’oggetto preciso  e la morte non sia richiamata direttamente nella città spettrale in cui passano i mezzi, è evidente che una colonna di camion militari nella notte non solo non evoca nulla di buono, ma soprattutto nulla di quanto il senso comune ritiene che ci sia prossimo.

La recente epidemia con il suo luttuoso lascito ha portato una ventata di interesse e di riletture della tesi dello storico francese Ariès sulla tendenza delle società capitalistiche a tabuizzare la morte. Ariès sostiene infatti che, a partire dal Duecento contestualmente alla diffusione della dottrina del giudizio individuale dell’anima immediatamente dopo la morte corporale e non più solo alla fine dei tempi nel quadro del giudizio universale, si passa lentamente da una concezione della morte come evento quotidiano da trattare quasi con confidenza alla morte come evento straordinario e luttuoso, che raggiunge il suo culmine nel Romanticismo, invece a partire dal Novecento si assiste a una rimozione della morte e del lutto dalla vita sociale come se fosse un evento privato e un po’ sconveniente, sostituendosi al sesso come tabù principale. Ariès precisa che questa tendenza è lungi dall’essere univoca, per esempio, quando scrive alla metà degli anni settanta, dice che essa non ha ancora attecchito nei paesi europei di cultura cattolica e anche negli Stati Uniti, paese d’origine di questo nuovo tabù, sussistono non solo sacche di resistenza ma anche controtendenze. Insomma la morte come tabù appare essere per Ariés una tendenza importante ma non assoluta della nostra società. In effetti, se analizziamo la fotografia di Bergamo alla luce di questa tesi, si nota che da un lato essa non mostra la morte, dall’altro vi allude proprio nella sua sobrietà e nel suo essere indiretta e per così dire bisognosa di didascalia. Certamente è lontana anni luce dai modi mediatici di rappresentazione della morte attraverso la sua spettacolarizzazione, che è un modo per rispettare il tabù di cui sopra anestetizzando il pubblico per sovraesposizione: si pensi alle lucine verdi da videogioco con cui la televisione nel 1991 rappresentava il bombardamento di Baghdad o alla fotografia di un uomo che moriva di AIDS per una campagna pubblicitaria di maglioni.

Naturalmente il valore dell’immagine non è solo un fatto intrinseco alla sua forma, ma nasce anche dalla sua ricezione: per spettacolarizzare la morte nei bombardamenti di Baghdad non bastavano le lucine verdi, ma ci voleva qualcuno disponibile a credere che in fondo fosse soltanto un videogioco, così la sobrietà tragica della fotografia dei camion nasce da una disposizione d’animo diffusa a guardare cose a cui, comprensibilmente, non si guarda volentieri. E’ probabile che se questa fotografia non fosse stata presa e diffusa durante il periodo della quarantena, cioè in un periodo di sospensione forzata dei normali ritmi temporali della nostra vita sociale, si sarebbe persa nel rumore di fondo e nel ciclo rapido di apparizione e scomparsa delle immagini tipico dei nostri media e non si sarebbe colta la sua qualità dirompente rispetto al tabù della morte. E invece, nella disarticolazione e confusione seguite all’introduzione della quarantena, perfino gli operatori mediatici più tradizionali sono stati liberi di dare espressione a una loro umana emozione. Certo è chiaro che questa ricezione dipende anche dalla vicinanza dei luoghi e dei fatti, è da immaginare che questa fotografia in altri paesi non abbia avuto il medesimo impatto, così come è accaduto tante volte a parti inverse ovviamente.

Furio Jesi ne Il tempo della festa scrive che l’unica esperienza possibile nel mondo moderno della festa nel senso tradizionale del termine è quella della festa crudele, cioè quella che ha al centro il dolore e il lutto, per chiarire sceglie come esempio di feste crudeli sia l’assalto al forno delle Grucce sia la peste di Milano descritti nei Promessi sposi e ai quali Renzo si trova a partecipare involontariamente. Ora questi esempi, un moto di piazza e un’epidemia,  chiariscono che la qualità essenziale della festa  per il mitologo non  consiste nella sua periodicità o ritualità o tanto meno nel suo spirito ludico, ma nel fatto di essere un momento collettivo di sospensione del normale ordine temporale di una società.  Il festivo è insomma ciò che è fuori della scansione abituale del tempo. La fotografia di Bergamo naturalmente non è un’immagine festiva in questa particolare accezione perché la dimensione spettrale della città notturna confligge con l’aspetto collettivo dell’esperienza festiva, anche se triste ( nei Promessi sposi anche durante la peste c’è sempre in giro qualcuno: monatti, sbirri, untori, preti, Renzo stesso); come anche la quarantena è stata un’esperienza di rottura e grave da sopportare, si pensi a single abituati a un’intensa vita sociale per esempio o a coloro che vivono in appartamenti molto piccoli, in ragione proprio della sua natura innanzi tutto solitaria ed esclusiva.

Eppure nella quarantena un aspetto festivo c’è stato ed è  quello della sospensione dei ritmi sociali abituali: non è stata un’esperienza omogenea perché per esempio molte persone con il lavoro da casa hanno sperimentato una dilatazione della durata interiore del tempo di lavoro tramite l’invasività delle tecnologie informatiche, una sua mescolanza con il tempo domestico e con la sospensione di tutta una serie di sussidi e cure che aiutavano l’organizzazione della quotidianità, ma nel complesso c’è stata una tendenza marcata al rallentamento soprattutto in ragione dell’arresto delle forme d’intrattenimento e di movida, i cui ritmi sono ormai direttamente connessi con quelli sociali complessivi e lavorativi in particolare. In un certo senso è possibile affermare che nella quarantena è esistito un aspetto regressivo, l’isolamento e le restrizioni alla libertà di movimento, e uno progressivo che è stata un’uscita dai tempi sociali normali. E’ interessante da questo punto di vista la dichiarazione di Pietro Ichino secondo il quale parecchie persone hanno sfruttato la quarantena per lavorare poco o prendersi delle vacanze indebite: l’aspetto più significativo delle dichiarazioni del giuslavorista non è quello immediatamente antropotecnico di indicare dei capri espiatori, i fannulloni, a una società che presumibilmente esce spaventata e perciò incattivita da questa esperienza per i lutti, la perdita di sicurezza economica e le tensioni vissute, ma nel loro essere un campanello d’allarme per i ceti dirigenti segnalando che questa esperienza ha bloccato il processo di interiorizzazione dei ritmi di accelerazione sociale. E in quest’ottica devono essere lette quelle del sindaco Sala sui rischi dell’ “effetto grotta”.

Di fronte a questi richiami all’ordine sta la fotografia di Bergamo in cui l’ordine del tempo è sospeso per cause di forza maggiore, ma non c’è solo dolore in essa perché contiene una sollecitazione anche per il futuro. In questa fotografia, a dispetto della sua natura luttuosa, è possibile cogliere la verità di un’affermazione di Guy Debord  che “il mondo già possiede il sogno di un tempo di cui non ha che da possedere la coscienza per viverlo realmente” ( Lo società dello spettacolo, tesi 164). Nonostante infatti questa riappropriazione di tempi diversi da quelli dettati dalla logica dell’accelerazione sia stato legata al lutto, comunque per quanto non desiderabile una dimensione dell’esperienza umana, essa può servire da modello anche in altre occasioni, più collettive e magari più fauste, per non farsi dettare i ritmi da questa logica.

In uno dei pochi libri fondamentali del nostro tempo, Accelerazione e alienazione, Hartmut Rosa dimostra che la tendenza principale della nostra società è quella ad accelerare i ritmi di vita in maniera tale da compromettere il nostro rapporto con il mondo. E’ alla luce di questo principio che può essere interessante riflettere sull’esperienza di questi mesi sia nel momento della quarantena sia in quello della riapertura. In particolare può essere significativo intrecciare questo principio con gli allarmi, fondati o quanto meno plausibili, di chi ha letto le misure di isolamento sociale come una forma di sperimentazione di nuove tecniche di controllo sociale. Basterà citare quanto affermava Massimo De Carolis ricordando che c’è il concreto rischio che alcune misure dettate da necessità transitorie diventino stabili come nuove forme di governo delle persone. Si tratta, ripeto, non solo di timori condivisibili, ma, per quanto concerne la scuola per esempio, alcune uscite di un certo sottobosco ideologico rendono già visibili alcune linee d’intervento, per esempio nel tentativo di controllare la didattica dei docenti per via informatica. E’ anzi perfettamente tipico nelle logiche di gestione sociale contemporanee trasformare in regola strategica ciò che si è rivelato utile in un determinato frangente, pur non essendo stato prima pianificato. Credo però che nessuna forma che contrasti con il principio di accelerazione sociale verrà presa in considerazione stabilmente. In altri termini qualsiasi forma di disciplinamento che prevede il controllo della circolazione delle persone e dunque il loro rallentamento non avrà esito forse neanche in stati semiautoritari come l’Ungheria, mentre tutte le forme che prevedono un’intensificazione dei ritmi, degli obblighi e dei desideri sociali saranno largamente imposte. Insomma tutto ciò che aumenterà le possibilità di prestazione, che hanno non solo un valore di produttività ma anche di controllo sociale, verrà realizzato, ciò che frena l’accelerazione si concluderà con il periodo di cautela sanitaria.

In un contesto del genere allora ha senso augurarsi il ritorno alla socializzazione mantenendo la memoria di un possibile uso del tempo decelerato in un contesto non più fatto di necessità, ma come pratica collettiva di disobbedienza. Sarebbe un modo per dare un senso positivo a quanto ci è capitato. Queste esperienze, che nascono da eventi naturali, hanno naturalmente delle cause che devono essere indagate scientificamente, ma non hanno alcun significato in sé per la nostra esistenza individuale e collettiva, trasformarle in un’occasione di critica dello stato di cose presenti in nome di una vita migliore significa rendere ciò che ci è apparso in forma di morte e dolore viva vita da spendere amando, per quanto possibile, questo mondo che ci sfugge sotto le dita.

 

Rainer Maria Rilke nella traduzione di Raffaela Fazio

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Nota di Michael Dallapiazza

Rainer Maria Rilke: Silenzio e tempesta. Poesie d’amore. Introduzione, selezione e traduzione di Raffaela Fazio, Marco Saya Edizioni 2019.

Già il titolo incuriosisce. Poesie d’amore? Rilke, in realtà, non è noto come un autore di poesie d’amore. Questo lo accomuna a Brecht, che poi, a un esame più attento, si scopre aver scritto numerosi testi del genere, fino alla poesia “pornografica”. Ma cosa significa in fondo poesia d’amore? Espressione di un’esperienza personale? Riflessione lirica sui concetti dell’amore? Il darsi, il perdere se stesso? O anche desiderio di autoconservazione, e preoccupazione, timore davanti alla supremazia dell’amore? Tutto ciò può essere rintracciato in questa ampia e curata selezione di poesie appartenenti a (quasi) tutti i periodi creativi di Rilke, a partire dalle poesie di Advent (1897) dell’allora poeta ventiduenne, risalenti all’anno in cui incontrò Lou Andreas-Salomé. La scelta di testi effettuata da Raffaela Fazio mostra Rilke in una luce che forse è nota solo agli intimi frequentatori della sua opera, e ciò che la traduttrice si augura nella prefazione è vero: più il lettore si addentrerà nella poetica rilkiana, più scoprirà un’atmosfera particolare – e strana – di sospensione tra luce e oscurità, desiderio di possesso e libertà. E chi già conosceva lo Stundenbuch, composto tra il 1899 e il 1903, iniziato nel periodo di stretta vicinanza a Lou Andreas-Salomé e terminato dopo la separazione da lei e il matrimonio con Clara Westhoff – diventato poi una raccolta di poesie rivolte da un monaco a Dio – ora forse lo percepirà in modo diverso. Il linguaggio religioso è allo stesso tempo il linguaggio dell’amore, un po’ come nel “Minnesang”, e, se compreso in questa ambiguità, risuona quasi provocatorio, perché in alcuni testi il “tu” è riconoscibile nel suo riferirsi a Dio, ma potrebbe anche essere rivolto a una donna. Raffaela Fazio traspone le poesie di Rilke con una speciale sensibilità alla musicalità dell’originale. La poesia, in particolare quella di Rilke, è in realtà intraducibile, dal momento che è pressoché impossibile esprimere in un’altra lingua caratteristiche formali specifiche quali rima, metrica, assonanze e addirittura frequenti allitterazioni. Tentare di farlo ad ogni costo distruggerebbe la poesia, ma tentare di farlo con audacia e senza forzature, nei limiti del possibile, è il dovere del bravo traduttore. Questo è quanto mette in atto la presente raccolta, in modo insolitamente convincente. Raffaela Fazio riesce a rendere giustizia alla forma molto diversa che caratterizza i vari componimenti rilkiani, dai testi che presentano una struttura più rigorosa a quelli che fluiscono quasi come prosa poetica. E ciò non può essere certamente detto di tutte le traduzioni di poesia tedesca, che negli anni si sono susseguite.

Una selezione di poesie dal libro:

Das Land ist licht und dunkel ist die Laube,
und du sprichst leise und ein Wunder naht.
Und jedes deiner Worte stellt mein Glaube
als Betbild auf an meinen stillen Pfad.

Ich liebe dich. Du liegst im Gartenstuhle,
und deine Hände schlafen weiß im Schooß.
Mein Leben ruht wie eine Silberspule
in ihrer Macht. Lös meinen Faden los.

La campagna è chiara, il pergolato scuro.
Tu parli piano e un miracolo è imminente.
La mia fede dispone ogni tua parola
come sacra icona sul viottolo silente.

Ti amo. Sulla sdraio del giardino sei distesa;
dormono in grembo, bianche, le tue mani.
Spola d’argento, la mia vita riposa
in loro potere. Fa’ che il filo si dipani!

***

So milde wie Erinnerung
duften im Zimmer die Mimosen.
Doch unser Glaube steht in Rosen,
und unser großes Glück ist jung.

Sind wir denn schon vom Glück umglänzt?
Nein, uns gehört erst dieses Rufen,
dies Stillestehn auf weißen Stufen,
an die der tiefe Tempel grenzt.

Das Warten an dem Rand des Heut.
Bis uns der Gott der reifen Keime
aus seinem hohen Säulenheime
die Rosen, rot, entgegenstreut.

Delicato come la memoria,
nella stanza il profumo di mimose.
Ma la nostra fede è nelle rose,
la grande gioia giovane ancora.

Il suo splendore già ci circonda?
No, a noi spetta questo chiamare,
sostare immobili sui bianchi scalini
con cui confina il tempio profondo.

Ai bordi dell’Oggi ci spetta l’attesa
fino a che il dio dei semi maturi
dal colonnato dell’alta dimora
ci sparga davanti, rosse, le rose.

***

Der Abend ist mein Buch. Ihm prangen
die Deckel purpurn in Damast;
ich löse seine goldnen Spangen
mit kühlen Händen, ohne Hast.

Und lese seine erste Seite,
beglückt durch den vertrauten Ton, –
und lese leiser seine zweite,
und seine dritte träum ich schon.

La sera è il mio libro. Un vermiglio
bagliore di damasco la riveste;
ne disserro i dorati fermagli
senza fretta, con mani fresche.

Leggo la prima pagina scoprendo,
lieto, il suo tono familiare,
più sottovoce leggo la seconda,
la terza l’inizio già a sognare.

***

Liebeslied

Wie soll ich meine Seele halten, daß
sie nicht an deine rührt? Wie soll ich sie
hinheben über dich zu andern Dingen?
Ach gerne möcht ich sie bei irgendwas
Verlorenem im Dunkel unterbringen
an einer fremden stillen Stelle, die
nicht weiterschwingt, wenn deine Tiefen schwingen.
Doch alles, was uns anrührt, dich und mich,
nimmt uns zusammen wie ein Bogenstrich,
der aus zwei Saiten eine Stimme zieht.
Auf welches Instrument sind wir gespannt?
Und welcher Geiger hat uns in der Hand?
O süßes Lied.

Canto d’amore

La mia anima come trattenerla,
che la tua non sfiori? Come elevarla,
sopra di te, ad altro? Ah quanto vorrei celarla
in qualcosa che si è perso nell’oscurità,
in un luogo estraneo, silenzioso
che non seguiti a vibrare, al vibrare
delle tue profondità.
Ma tutto quello che ci tocca, insieme
ci prende come un arco che produce
da due corde una sola voce.
E noi siamo tesi su quale strumento?
Quale violinista ci tiene nella mano?
O dolce canto!

***

Der Tod der Geliebten

Er wußte nur vom Tod was alle wissen:
daß er uns nimmt und in das Stumme stößt.
Als aber sie, nicht von ihm fortgerissen,
nein, leis aus seinen Augen ausgelöst,

hinüberglitt zu unbekannten Schatten,
und als er fühlte, daß sie drüben nun
wie einen Mond ihr Mädchenlächeln hatten
und ihre Weise wohlzutun:

da wurden ihm die Toten so bekannt,
als wäre er durch sie mit einem jeden
ganz nah verwandt; er ließ die andern reden

und glaubte nicht und nannte jenes Land
das gutgelegene, das immersüße –
Und tastete es ab für ihre Füße.

La morte dell’amata

Sapeva della morte ciò che è noto a tutti:
che ci afferra e scaglia nel silenzio muto.
Ma quando lei, non strappatagli d’un tratto,
no, piano dal suo sguardo allontanata,

scivolò via verso ombre forestiere,
e in quelle lui avvertì, come una luna,
il sorriso di ragazza e la maniera
che lei aveva di fare il bene,

gli divennero i morti familiari,
come se fosse ognuno suo congiunto
grazie a lei; lasciò che parlasse la gente,

non credette, chiamò quel paese buono,
di eterna dolcezza. E tastandone il suolo
vi andò cercando dell’amata le impronte.

***

Leda

Als ihn der Gott in seiner Not betrat,
erschrak er fast, den Schwan so schön zu finden;
er ließ sich ganz verwirrt in ihm verschwinden.
Schon aber trug ihn sein Betrug zur Tat,

bevor er noch des unerprobten Seins
Gefühle prüfte. Und die Aufgetane
erkannte schon den Kommenden im Schwane
und wußte schon: er bat um Eins,

das sie, verwirrt in ihrem Widerstand,
nicht mehr verbergen konnte. Er kam nieder
und halsend durch die immer schwächre Hand

ließ sich der Gott in die Geliebte los.
Dann erst empfand er glücklich sein Gefieder
und wurde wirklich Schwan in ihrem Schooß.

Leda

Tanto era bello, che il dio provò quasi spavento
quando entrò nel cigno, preso dall’affanno;
turbato in lui scomparve. Ma già l’inganno
lo spingeva all’atto, prima di saggiare il sentimento

di quel sé, ancora inesplorato. E lei, dischiusa,
nel cigno riconobbe colui che a lei veniva.
Seppe all’istante quello che chiedeva:
il dio chiedeva una sola cosa

la stessa che lei più non poté celare, confusa
nella propria reticenza. Egli discese e, premuto
il collo sulla mano di lei sempre più arresa,

si lasciò andare nell’amata. Solo allora
si accorse delle piume e ne fu lieto.
Nel grembo suo, si fece cigno il dio, davvero.

[Michael Dallapiazza, nato a Frankfurt am Main nel 1954 e stabilitosi in Italia negli anni ottanta, dal 2014 è professore associato confermato di Letteratura Tedesca all’Università di Bologna. Precedentemente ha insegnato Filologia Germanica presso le Università di Trieste e di Urbino. I suoi temi di ricerca: letteratura tedesca del 900; letteratura interculturale; Mittelalterrezeption; letteratura cortese; teorie letterarie; deutsch-italienische Literaturbeziehungen; Boccaccio in Germania. Al suo attivo ha numerose pubblicazioni e monografie.

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, risiede a Roma dove lavora come traduttrice. Ha trascorso dieci anni in vari paesi europei, laureandosi in lingue e politiche europee all’Università di Grenoble, e specializzandosi presso la Scuola di Interpreti e Traduttori di Ginevra. Rientrata in Italia, ha conseguito un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato: Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images (2011). È autrice di vari libri di poesia. Tra gli ultimi: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015) con prefazione di Paolo Ruffilli; Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017); L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018) con prefazione di Francesco Dalessandro; Midbar (Raffaelli Editore, 2019) con prefazione di Massimo Morasso; Tropaion (Puntocapo Editrice, 2020) con prefazione di Gianfranco Lauretano e postfazione di Sonia Caporossi; A grandezza naturale. 2008-2018 (Arcipelago Itaca, 2020) con prefazione di Daniele Barbieri. Si è occupata di Rainer Maria Rilke, selezionando, traducendo e raccogliendo una parte delle sue poesie d’amore in Silenzio e Tempesta (Marco Saya Edizioni, 2019).]

Gramsci e il metodo della libertà

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Una conversazione con Christian Raimo

a cura di Adriano Ercolani

 

 

La casa editrice Euridice si è presentata al mondo editoriale con un catalogo di tutto rispetto: nata durante il lockdown, sotto la direzione di Laura Ceccacci, si pone come intento il “lavoro di repêchage di classici più o meno dimenticati, di idee che non hanno raggiunto il grande pubblico, di autori poco letti, poco valorizzati, o fraintesi, ripresentati attraverso un linguaggio editoriale nuovo ed espressivo”, finora in formato esclusivamente digitale.

Uno dei titoli più interessanti finora pubblicati è un’antologia di scritti di Antonio Gramsci, intitolata Il metodo della libertà. Scritti sulla democrazia, il fascismo, la rivoluzione.

Si tratta di testi scritti durante gli anni dell’avvento del fascismo, dalla fine della prima guerra mondiale fino a prima della sua carcerazione del 1927.

I temi trattati, con la notoria lucidità, dal pensatore sardo, spaziano dal riformismo borghese al colonialismo, dalla critica al giolittismo all’analisi del sovversivismo reazionario, dalla lotta agraria alle origini del governo mussoliniano, dalla questione sarda alle società segrete.

Oltre a essere un formidabile strumento di analisi delle origini del Fascismo, molte delle riflessioni presenti in questi scritti rivelano una innegabile, e inquietante, attualità.

Come scrive Christian Raimo nella prefazione: “Il grande problema della ricezione pubblica di Gramsci è che non è solo un testimone, ma è soprattutto un interprete e la sua rilevanza dal punto di vista dell’elaborazione teorica sovrasta persino la sua estrema testimonianza esistenziale”.

Molto interessante è la postfazione di Guido Liguori, Gramsci: gli anni della libertà, che ricostruisce con precisione le vicende esistenziali e intellettuali del pensatore, sgombrando il campo da ingannevoli manipolazioni recenti, soprattutto sottolineando la “lotta contro il fascismo, che il comunista e marxista sardo avrebbe combattuto con lo studio e la forza delle idee, scrivendo i Quaderni del carcere, grazie ai quali è oggi il saggista italiano più conosciuto, studiato, tradotto nel mondo dai tempi di Machiavelli.”.

Con un paradosso tipicamente nostrano, il saggista italiano più studiato nel mondo in Italia non è nemmeno inserito nel canone scolastico.

Anche da questo nasce l’esigenza di questa riproposta editoriale.

Ne abbiamo parlato con il curatore Christian Raimo.

 

Qual è stato il criterio di selezione degli scritti?

 

L’origine è un’antologia di scritti gramsciani pubblicata da Editori Riuniti, negli anni’70, che si chiamava Sul Fascismo, una selezione di interventi sia precedenti che successivi all’arresto da parte del regime, curata da Ezio Santarelli.

Ho sempre pensato che quel libro mancasse nel dibattito attuale su Gramsci in Italia, considerata anche la recente cooptazione del suo pensiero da parte rossobruna.

Andando a rivedere il volume, ho pensato che, di quella selezione originale, fosse più interessante ripubblicare i saggi precedenti all’affermazione del regime, ovvero quelli pubblicati fino all’inizio degli anni ’20.

Questo proprio perché credo sia interessante capire quale fosse il clima in quel preciso momento, quando il Fascismo ancora non aveva individuato in Gramsci un suo nemico, dunque c’era anche da parte sua una differente fluidità nella riflessione.

Il titolo, Il metodo della libertà, è proprio un’espressione gramsciana, lo abbiamo scelto poiché non si tratta solo di scritti sul Fascismo, ma anche sulla Rivoluzione bolscevica e, più in generale, sulla lotta di classe.

 

Al di là dell’urgente necessità di strappare Gramsci alle grossolane forzature della propaganda rossobruna, è innegabile la validità delle sue riflessioni per interpretare dinamiche contemporanee. Penso a frasi come l’”angusto di terrore e vendetta che caratterizza la borghesia attuale”, il “sentimento di paura folle” che ne anima la propaganda, i nazionalisti visti come “riformatori della borghesia”…

 

In questo senso, è molto interessante un brano su Il problema di Milano, sulla borghesia bottegaia e reazionaria di una città all’avanguardia solo dal punto di vista industriale.

Certo, dobbiamo renderci conto che Gramsci va storicizzato, quindi va letto nel contesto dei suoi anni. Non vogliamo certo un farne un guru profetico.

Però, allo stesso modo è errato contestualizzarlo per poi porlo in una prospettiva rossobruna, è davvero fargli un grave torto.

Non mi definisco uno studioso ma un lettore, informato e appassionato, di Gramsci.

Per questo motivo ho voluto che un esperto come Guido Liguori scrivesse una postfazione, proprio per fare pulizia di tutte le incrostazioni che negli anni si sono accumulate sul suo pensiero.

Mentre la mia prefazione è un invito a leggere Gramsci come autore popolare, da inserire nel canone scolastico, il testo di Liguori entra in maniera molto diretta nel dibattito attuale.

Il suo contributo inserisce con chiarezza questa edizione nel contesto dell’attuale “Gramsci Renaissance”.

Negli ultimi anni, infatti, Gramsci è tornato ad essere un pensatore centrale in varie tradizioni disciplinari: dagli studi letterari a quelli politici, da quelli storici a quelli pedagogici.

Questo da un lato rivela la sua importanza come interprete dei suoi anni, ma d’altra parte non bisogna dimenticare il suo ruolo di testimone: la difesa delle sue idee e quello che, di fatto, è stato il suo martirio lo rendono uno dei più cristallini testimoni della stagione antifascista.

Per questo, fare proprio del suo pensiero una lettura a proprio uso e consumo è profondamente scorretto.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un goffo tentativo di demarxistizzazione di Gramsci, come se fosse un generico pensatore antiliberista e non un martire dell’antifascismo.

Questo è infamante.

 

Il paradosso è proprio vedere un martire dell’antifascismo, che in anticipo aveva previsto le dinamiche perverse del regime, essere usato come grimaldello dialettico da gente che scrive su blog “sovranisti”. Ogni riferimento a Diego Fusaro su Il Primato Nazionale è puramente voluto.

 

Ma infatti questo tentativo a Fusaro non è riuscito. L’operazione tentata nei suoi libri, che nelle ricostruzioni storiche hanno anche parti dignitose, di sottrarre Gramsci alla sua storia e alla sua interpretazione del marxismo è fallimentare.

D’altra parte, negare la forza della sua testimonianza antifascista è infamia.

Su quello non c’è campo di discussione, ma solo di battaglia.

 

Da anni è in atto quest’opera di appropriazione di icone della Sinistra storica da parte dell’Estrema Destra. A volte si tratta di fraintendimenti, a volte di forzature, a volte proprio di volgari provocazioni.

 

Per questo, penso ci sia bisogno di ritornare a leggere Gramsci come autore popolare, non quello in voga ultimamente, quello di “Odio gli indifferenti” e “Odio il Capodanno”,  che è certo utile ma viene ridotto a un uso da maglietta.

Anni fa, ad esempio, Einaudi fece una serie di pubblicazioni antologiche in formato tascabile molto accurate e interessanti.

La nostra edizione mette nuovamente a disposizione dei testi importanti, anche se non semplici.

Sebbene Gramsci scrivesse molto bene, si tratta sempre di articoli scritti cento anni fa.

Eppure, ciò non costituisce un ostacolo alla lettura, infatti non abbiamo predisposto delle note critiche o esplicative.

Abbiamo affidato al lettore interessato il compito di ricostruire, facilmente, i passaggi e le coordinate storiche.

I due paratesti che corredano l’antologia, come detto, indicano la centralità dell’autore e la necessità di inserirlo nel canone scolastico.

Nonostante sia uno dei più importanti filosofi italiani, nei licei viene dedicato solo qualche minuto a Gramsci. Si tratta di proporre anche una riflessione anche sui parametri stessi del canone: pensiamo a un autore come Rosmini, negli anni precedenti molto presente nei programmi scolastici, e poi improvvisamente scomparso.

Gramsci è, di fatto, l’unico pensatore italiano del Novecento che ha una caratura internazionale.

Non è possibile andare all’università e incontrare, in qualsiasi disciplina umanistica, le categorie da lui coniate per la prima volta.

Categorie come quella di “egemonia”, il concetto di “nazionalpopolare”, la distinzione tra “riformisti” e “rivoluzionari” sono imprenscindibili quanto quelle coniate da Freud o Dewey.

Lo studio di Gramsci non può essere un’opzione.

Si può benissimo non essere un militante di sinistra, ma non si può prescindere dall’idea gramsciana di “egemonia”, ad esempio.

Non ci si può iscrivere all’università senza sapere queste cose.

 

Parlando di “egemonia culturale”, pare evidente che a sinistra si siano scordati cosa sia.

Secondo te è stata una miope assenza di strategia delle forze di sinistra o, al contrario, è stata più astuta e lungimirante l’Estrema Destra nel comprendere, ad esempio, le immense potenzialità della propaganda sui social network?

 

Credo che i social network siano un elemento che entra in gioco solo in un secondo momento.

Mi spiego.

Il cambio di paradigma nel contesto culturale è dato dal velenosissimo combinato disposto tra il disinvestimento decennale su scuola e università e l’operazione parallela sulla televisione pubblica, che ha lasciato completamente il campo all’ascesa di quella commerciale.

Per vent’anni l’educazione di massa è avvenuta attraverso una telelvisione spesso sciattissima, assurdamente antipedagogica.

In questo senso, è avvenuto un travaso di tempo: le ore che uno poteva immaginare in un contesto di accesso alla conoscenza, sotto varie forme (l’ascolto di un disco, la lettura di un libro, la frequentazione di un centro giovanile o di una biblioteca popolare) sono state passate davanti alla televisione.

I social network ricevono e sfruttano un contesto di consocenza che in Italia è stato preparato da vent’anni d’educazione televisiva.

 

Quindi, dopo venti anni di Uomini e Donne non si è più in grado di comprendere che il meme con le dichiarazioni antiitaliane di Laura Boldrini o Samuel L.. Jackson come immigrato che fa la bella vita sono evidenti menzogne, poiché si sono smarriti gli strumenti critici.

 

Quello è un aspetto importante ma è altrettanto importante notare che per venti anni almeno l’italiano medio per informarsi si politica si è rivolto alla televisione.

I social network, nella maggior parte dei casi, non producono conteuti ma veicolano e rilanciano contenuti mainstream prodotti in tv.

I meme che vediamo sono spesso estratti da trasmissione televisive, gli argomenti sono imposti dalla tv.

Un contenuto per divenire virale sui social network deve passare per la televisione.

Senza dubbio, ora sta cambiando qualcosa.

Cè una prima generazione di persone che non vedono la tv (magari ne fruiscono in altro modo, tramite YouTube) e quindi ne subiscono meno l’influenza.

Però è la prima generazione, siamo all’inizio del cambiamento.

La stragrande maggioranza degli italiani si informa ancora tramite la tv.

Anche qui, come vedi, serve l’intelligenza di Gramsci per comprendere profondamente cosa significa “nazionalpopolare”.

Overbooking: Luciana Frezza

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ph. Dino Ignani


Elogio della discrezione

di

Alida Airaghi

“Una presenza discreta nella poesia italiana del secondo Novecento”.

Così Roberto Deidier ha definito in un suo articolo la persona e l’opera di Luciana Frezza.

Ottima e stimata traduttrice, Luciana Frezza si è occupata soprattutto della poesia simbolista e decadente francese dell’800-900: Mallarmé, Laforgue, Nouveau, Verlaine, Baudelaire, Fargue, Baron, Apollinaire, Proust, resi in versioni sapienti e intelligentemente personalizzate per i più importanti editori italiani.

Da questa empatica, vitale e costante applicazione “ha ricavato miracolosamente con un suo setaccio d’argento un tesoro di abilità”, secondo l’acuta lettura di Luigi De Nardis. Intrecciata alla straordinaria competenza di traduttrice, Frezza ha seguito una propria attitudine all’espressione poetica, messa in evidenza da numerose e apprezzate pubblicazioni.

Sul suo duplice e correlato impegno di poetessa e traduttrice, così si esprimeva: “È una sfida che mobilita la creatività … e altre virtù come la pazienza e la vigilanza… Il pericolo per cui bisogna prestare una costante attenzione è costituito dalle possibili intrusioni dell’Io…; occorre tenerlo fuori ma non eliminarlo del tutto, perché il suo contributo di esperienza vissuta può talvolta giovare, come giovano la fortuna e il caso, elementi da mettere in conto”.

Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e del noto anglista Agostino Lombardo, hanno voluto giustamente riunire in un unico corposo volume (uscito nel 2013 dagli Editori Internazionali Riuniti) tutta la produzione in versi e prosa della madre, scandita in diverse raccolte (Cefalù -1958, La farfalla e la rosa -1962, Cara Milano -1967, Un tempo di speranza -1971, La tartaruga magica -1984, 24 pezzi facili -1988, Parabola sub -1990, Agenda -1994, i racconti de Il disegno -1996), sparsa in riviste o del tutto inedita.

È stata appunto la figlia Natalia, giornalista e pittrice, a firmare sia l’illustrazione di copertina sia le puntuali e commosse note biografiche in apertura dell’antologia. Da cui desumiamo che Luciana Frezza, nata a Roma nel 1926, da padre romano agente di cambio e madre siciliana, si laurea alla Sapienza nel 1946 discutendo con Giuseppe Ungaretti una tesi su Eugenio Montale, e iniziando già dagli anni universitari a comporre versi e a collaborare con prestigiose riviste letterarie.

In seguito si dedica con generosità e impegno sia alla famiglia sia allo studio e alla traduzione degli amati poeti francesi, coltivando nello stesso tempo amicizie importanti nel mondo intellettuale (Luigi De Nardis, Giovanni Macchia, Vittorio Sereni, Vittorio Bodini…). Alterna momenti di crisi e insoddisfazione personale ad altri di entusiastica apertura a esperienze partecipative nei movimenti politici e femministi degli anni ’70 e ’80. Sofferente di gravi e invalidanti disturbi alla vista, continua tuttavia a pubblicare libri di poesia, ottenendo ottimi riscontri critici; partecipa a letture pubbliche di versi, insieme a un folto gruppo di amici scrittori romani, e collabora con il Terzo programma di Radio Rai.

All’alba del 30 giugno del 1992, afflitta dal timore di un’incombente cecità e da una profonda depressione, “tragicamente per chi rimane, pensa forse di riprendersi la libertà”, conclude con malinconico pudore Natalia.

Comunione con il fuoco, questa fondamentale e completa rassegna della scrittura di Luciana Frezza, si apre con l’empatico saggio introduttivo di Elio Pecora, e presenta altri approfonditi interventi critici di Patrizia Lanzalaco, Filippo Bettini, Luigi De Nardis, Walter Pedullà, Jacqueline Risset, Angela Giannitrapani, accompagnati dagli affettuosi ricordi privati della figlia primogenita Giovanna Lombardo.

ph. Dino Ignani

I vari libri di versi, pubblicati secondo una scansione cronologica, mettono in luce il percorso umano e letterario dell’autrice, che in tutta la sua produzione rimane legata sentimentalmente a temi ricorrenti di matrice privata: l’infanzia, le figure parentali, i luoghi abitati (Sicilia, Milano, Roma), l’amore nelle sue duttili sfumature. Ma la sua scrittura non è mai circoscritta a un interesse puramente ambientale, di confidenza confessionale, di nostalgico lirismo: ha invece il rigore necessitante di una ricerca severa della propria interiorità, anche nelle inquietudini e negli umori contrastanti, nella ribellione e nelle paure. Elio Pecora presentandone gli sviluppi formali e contenutistici, sottolinea l’esigenza testimoniale di “valicare il proprio io per intelligenza del mondo”, insieme a “un senso estetico vigilato fino alla spietatezza”: “Sento mutarsi il battito del tempo / come fa il treno se lascia / la rassegnata pianura / dove inavvertito / lungamente strisciò / ormai nebbiosa e strana / memoria mentre divora / oggi domani fatti rocce e ombre”, “Un’altra infanzia mi perdo / un’altra vena s’asciuga. / Ho perduto / il filo dei sentieri / e gemo, animale fermato / dalla tagliola, nel caldo / dei crepuscoli abbandonato…”.

Se nelle prime prove di Luciana Frezza è evidente l’eredità del nostro ’800 e ’900 (da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale), in seguito sarà il rapporto con il surrealismo francese a incidere maggiormente nei suoi versi, con l’irrompere del fantastico e dell’onirico all’interno del fino ad allora privilegiato realismo: “Chissà in quale / canneto di carta o verde / fantasma errante coorte / falciata alla radice / al di là di quali porte / nell’andito scuro di botteghe / in disuso dietro quale / muro di eluso rione / giace il piccolo corpo / di Amore dopo l’ordita / esecuzione”, “Non crederli gigli appassiti / mi conforta anzi scintillanti / ancora i tuoi bicchieri alzati / voglia di gioia negata / impuntatura librata / per forza propria ape e fiore nell’aria / dove ancora salgono e il brutto / muso di lutto pret a porter che detestavi cade / come buccia dal frutto”.

Anche l’ironia si concede alcuni spazi, soprattutto nel lucido esame del ruolo che il destino biologico di donna ha giocato nel determinare le scelte esistenziali della poetessa. Il rapporto non facile e non sempre idilliaco con il marito, la fatica dell’impegno domestico (la conserva andata a male, gli inutili ninnoli costruiti con la creta, la lista della spesa…) vengono avvertiti come limitanti o deludenti, provocando frustrazione e sensi di colpa: “E io che così sola ho spostato / i massi più pesanti. Tutto succedeva perché ero donna / ma questo l’ho sempre saputo”, “Vivere bene è spostarsi / per far posto a qualcosa e a qualcuno”, “una caviglia fasciata / una cantina allagata / e uno strofinaccio torto / ecco vi presento i miei / avvocati / roba da far venir la / pelle d’oca / a un morto”, “– Ah, una piccola cosa – / a bassa voce / – miei cari, attenti a non chiudermi / in una scatola di sardine”, “Quanto fa male amore / tardiva carezza / sulla nuca infestata / di pidocchi neri. / Marito / non capito / vendicativo senza / farmi capire / inevitabile divergenza / io l’incrociato sorriso / volevo – ricordo due dita / un giorno sulla gota per caso / sotto l’arco del salotto quasi / una cresima / tu partecipazione / al tuo lavoro io / che non ne davo troppa / neanche al mio / Parlare volevo magari / non troppo non troppo spesso / di noi”, “La madre poeta / non va”.

Attraverso la riflessione sulle relazioni interpersonali e familiari, Luciana Frezza riusciva a recuperare l’eco fascinoso di miti archetipici, ritrovando nelle vicende di Iside e Osiride, Demetra e Persefone, Orfeo ed Euridice le radici di ogni attuale sentire e soffrire.

Proprio alla sofferenza degli ultimi anni si riferiscono i versi dolentemente allusivi che precedono la sua scomparsa: “Mi restringo alla pista / pericolante dei miei passi. / Solo vorrei afferrare / una cosa, / nascondervi il volto. // E poi pianamente un sussulto / e le lampade e tutto fluisce”, “Scrivere questi poveri // frammenti / significava ancora amare un // poco il mondo”, “Spreco questi ultimi secondi / dei tempi supplementari / a gustare le poche sensazioni / piacevoli”, “Agostino viene alla messa / delle 9 poi il cappuccino / Tutti mi amano / più di quanto io ami / Io non amo nessuno eppure / evito di sfiorarli col pensiero / i piccoli e le figlie e questo / noli los tangere forse / è una specie d’amore”, “Scatta il lucchetto, presto signori si chiude”.

Un’esplorazione ininterrotta, talvolta tormentante, intorno al significato della vita e della poesia ha contrassegnato ogni aspetto dell’esistenza fisica e letteraria di Luciana Frezza.

Come ha scritto il critico Filippo Bettini, in lei “la ricerca del ‘senso della vita’ si identifica con quella del ‘senso della poesia’; ed ogni scampolo, epitome o ritaglio, anche il più piccolo o marginale, diventa il pretesto necessario di una più ampia trasfigurazione poetica di essenze interiori, psicologiche e ideali”.

 

 

Letteratura e mistica

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di Francesca Caraceni

 

  1. Se c’è un termine che si sta riaffacciando sullo scenario collettivo, nel mezzo di tecnicismi medico-scientifici e statistico-numerici, quello è “mistico”. Variamente declinato in sedi e da intelletti diversi, come aggettivo o sostantivo, sembra che “mistico” sia stato rieletto a dispositivo culturale in grado di contenere, traducendolo nel presente, quanto di residuale fuoriesca dal computo e dall’analisi dei dati, o dalle dinamiche mutazionali di un RNA. E se c’è un termine davvero appropriato per delimitare l’incomprensibile orizzonte culturale che ci si para davanti, quello è proprio “mistico” perché, spogliato degli strati storico-semantici teologici e religiosi, il lemma trae origine da myein, “chiudere”, manifestandosi poi come aggettivo sinonimo di “nascosto”, “misterioso”, “invisibile”. Ben si capisce dunque come il termine qualifichi in essenza quel che istituzionalmente è definito il nostro “nemico” attuale, il virus; ancor più interessante è come questa invisibile presenza si sia manifestata, visibilmente, in forma di coatta invisibilità umana: un ritiro, un necessario permanere al chiuso, appunto. E necessariamente, se non altro per basilare proprietà transitiva, se non altro come conseguenza dell’autolettura del sintomo corporeo, questo tempo trascorso intra moenia potrebbe condurre la coscienza collettiva a rientrare dentro di sé e a tracciare nuovi percorsi di senso a partire da ogni individuale topografia interiore. L’individuazione di questi nuovi percorsi di senso, quando demandata giustamente alle scienze filosofica, antropologica, linguistica, non può certamente escludere le metodologie e gli approcci in causa alle scienze letterarie le quali sono, specialmente in questo momento e grazie alla dimensione interdisciplinare e storicistica che le contraddistingue, uno strumento fondamentale e necessario per una lettura critica del dato di realtà. Bisognerà allora iniziare dalla banale constatazione che, pur proliferando il discorso tecnicistico e pur risorgendo quello spirituale e religioso come logica sua controparte, l’alveo metaforico nel quale s’inscrivono di prassi questi nostri strani giorni sia quello della guerra; guerra mondiale del ventesimo secolo, s’intende, ma questa nostra è una strana guerra globale che con quelle passate condivide unicamente il paradigma del cambiamento di scenario e della rottura di equilibri. Proprio tale paradigma è, secondo Michel De Certeau, un ricorso storico che manifesta e rafforza il discorso mistico, volto com’è alla ricomposizione di un Io frammentato nel Tutto divino, specie in “regioni e categorie in via di recessione socio-economica, sfavorite dai cambiamenti, marginalizzate dal progresso o rovinate dalle guerre” (Sulla Mistica, Morcelliana, Brescia 2010, p. 50). Varrà la pena, allora, imbastire un percorso di senso che dal Novecento arrivi fino a oggi, osservando come pure le arti cosiddette “moderniste” abbiano fatto ricorso, sullo sfondo di una scena dominata dalla visibilità dell’orrore bellico, a pratiche e stilemi volti alla rappresentazione del reale inteso come invisibile universale.
  2. La basilare proprietà transitiva per la quale ogni fenomeno invisibile trova una sua manifestazione nel sensibile è stata detta da San John Henry Newman (1801-1890) “sistema sacramentale”. Il teologo, filosofo e letterato inglese, convertitosi dal culto anglicano a quello cattolico nel 1845, derivò quest’idea dagli scritti del Reverendo Joseph Bulter (1692-1752), e in particolare dall’Analogia della religione (1736): dichiarò Newman nella sua autobiografia spirituale (Apologia Pro Vita Sua, 1864) che la lettura di quell’opera in giovane età lo condusse a sviluppare le fondamenta della propria teologia, la quale si articola sull’idea che il mondo sensibile non sia altro che un “carattere (type) e strumento delle vere cose invisibili (real things unseen)”. Sensibile come sinonimo di visibile, e visibile come carattere tipografico, dunque: e in effetti Newman, che nella vesti di Rettore dell’Università Cattolica di Dublino non trascurò di sottolineare con forza il ruolo fondamentale che lo studio delle lettere ha nella formazione scientifica, scrisse molto di letteratura e poesia assimilando, per mezzo dell’analogia butleriana, l’uso umano delle lettere all’uso divino della Parola come strumento di Rivelazione. Non sorprende allora che il pensiero di Newman stia al centro esatto delle elaborazioni di metodologia artistica di uno dei giganti del Novecento, James Joyce (1882-1941), il quale lo definì “il più grande prosatore in lingua inglese”. Da Newman arrivano a Joyce certe rielaborazioni dell’estetica platonica che vogliono l’arte come personale messa in forma del principio trascendente; da Newman arriva a Joyce un’originale interpretazione, in chiave cattolica e davvero mistica sensu proprio, della soggettività della fede intesa come dialogo e affezione interpersonale fra credente e Dio (Myself and my creator, dice Newman nell’Apologia); dunque da Newman arriva a Joyce un fondamentale principio di religiosità dell’arte, e della creazione artistica come conseguenza della rivelazione mistica. Joyce essendo uno dei principali punti centrifughi ad aver rivoluzionato la letteratura dello scorso secolo, propongo di leggere certi stilemi di destrutturazione e ricomposizione formale propri dell’arte, plastica e letteraria, del primo Novecento come espressioni di una ricerca, non sistematica e sistematicamente trasversale, che può essere definita “mistica” la quale, a cavallo fra i due conflitti mondiali, ha teso a riconvertire il naturalismo fenomenico ottocentesco in un potenziamento del realismo, questa volta di stampo noumenico, rivolgendo lo strumento rappresentativo all’interno dell’uomo, nelle pieghe invisibili della sua mente quando si rapporta alla manifestazione trascendente.
  3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[…] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua […]. La sua è poesia, parole non langue […] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva. Si capisce dunque che il ragionamento escluda facili suggestioni tipografiche: oggetto dell’indagine è la radice del pensiero non articolato, quello spazio residuale, davvero filosofico e fuori dal tempo, che esiste tra forma e sostanza, tra parola scritta o detta e pensiero, tra contingenza e trascendenza. Si tratta di indagare la parola come elemento ritmico-mnemonico e, quindi, rituale-poetico. Si tratta, cioè, di recuperare la radice rituale della composizione letteraria perché, ci ricorda Stella, “Tutta l’arte ha un’origine rituale” (p. 95). Aver rintracciato e ri-codificato questa radice consente allo studioso di disincagliare Ulysses, ad esempio, dalle maglie di un pensiero critico che lo vuole da sempre “un caso eccellente di ‘metodo mitico’ sub specie eliotiana” (p. 86) e, soprattutto e finalmente, da una lettura dell’opera ancorata alla miope e parziale decodificazione morfologico-sintattica della parola scritta. “Non è retorico, non è formale, non è letterato il gioco di Stephen con il suono, con il soffio della parola e con le visioni che essa proietta. C’è piuttosto un’illetteratezza che ha a che fare con la forza della vitalità. […] la parola di Stephen […] entra nella Forma solo parzialmente […] sospesa tra il prima e il dopo […] della scrittura. In questo senso Stephen può dire: Rhythm begins, you see. I hear” (pp. 78-9). Per questo, in Joyce il mito è piuttosto il residuo testuale della memoria collettiva, una litter-a sulla quale aprire “un’epocale domanda sull’energia generativa della parola poetica. Una domanda autentica, sganciata dal tempo storico, e riannodata al movimento ritmico della creazione. Prova ne è quella sua scrittura che non è più scritta” (p. 83). Eppure questo, con le dovute modulazioni concettuali, è anche lo sforzo dei mistici tradizionalmente intesi: riportare nel visibile l’esperienza dell’invisibile, articolando la tradizione in “un linguaggio nuovo […], il linguaggio mistico è quello del tempo spirituale”. E questo tempo spirituale, corrispondendo al folgorante momento estetico dell’esperienza, davvero fuoriesce dalla storia e pretende che il linguaggio ne dica il senso adattandosi a esso: cioè, operando il proprio sacrificio: “Ogni esperienza […] comporta questi momenti. ‘Estasi’ personale, se si vuole, o esperienza collettiva di un gruppo sorpreso da ciò che accade in se stesso, illuminazione intellettuale in certi casi, brusca intuizione che sposta (senza che si sappia troppo ancora il come) l’organizzazione di una vita e il tipo di relazioni che si hanno con gli altri. Si è prodotta una breccia. Una irruzione apre una breccia. Tutto d’un colpo, è cambiato il paesaggio, con nostra sorpresa. Questo, è un luogo. Nell’esperienza individuale, come nella storia, vi sono momenti che fanno dire: ‘Dio è là’” (De Certeau, Sulla mistica, pp. 94 e 101-2).

 

  1. Qui, dove l’argomentazione di Stella vira sapientemente verso l’identificazione di questo spazio residuale con il principio femminile incarnato in Molly/Penelope e nella parola stessa, vorrei mantenere e approfondire il punto illuminandolo da un’altra prospettiva, e cioè guardare allo spazio ritmico e illetterato della scrittura joyciana come a una prassi, derivante da una metodologia figlia di una tradizione culturale e religiosa ben precisa che trova nella mistica la sua espressione letteraria più alta. Il passo di Ulysses citato da Stella è l’apertura del terzo episodio, quando il flusso di coscienza di Stephen Dedalus conduce il lettore in una vertiginosa meditazione sulla percezione del sensibile: quando l’“ineluttabile modalità del visibile” è dall’uomo esclusa (Shut your eyes and see, dice Stephen), appare ai sensi l’“ineluttabile modalità dell’udibile” nella forma del ritmo del mondo (A catalectic tetrameter of iambs marching). Stephen, lo stesso alter-ego joyciano che nel Portrait definirà l’arte nei termini di un rito, e l’artista nei termini di un “prete” (a priest of the eternal imagination); lo stesso che metterà a sistema il fondamento dell’arte nella percezione estetica del Bello (a spiritual state very like to that cardiac condition which the Italian physiologist Luigi Galvani […] called the enchantment of the heart); Stephen, dunque, in quel passo intende trascendere il sensibile per arrivare a quel “piacere estetico” (aesthetic pleasure, sempre nel Portrait) che sopraggiunge solo quando i sensi sono stati condotti alla quiete: that is why mystic monks. […] Gaze into your omphalos; e Stephen vuole trascendere e arrivare a quel piacere estetico, che in vulgata si conosce come “epifania”, poiché è quello che accende la creazione artistica. L’epifania joyciana, meglio definita, manifesta sì il divino nel sensibile, eppure non nella forma, non nel linguaggio: entrambi sono mezzi attraverso i quali l’artista riproduce l’ineffabilità rivelatrice di una Condition of the Heart che non necessita di un’articolazione intellettuale poiché appunto appartiene al cuore e, come giustamente nota Stella, al quel primo ritmo creatore sempre rimanda. Compito dell’artista è proprio quello di agire sulla forma e sul linguaggio, disarticolandone le strutture ordinatrici, per fare in modo che questo ritmo mistico, nascosto dall’ineluttabile velo sensoriale, si riveli agli occhi di chi guarda, alle orecchie di chi ascolta. Perciò la lettera, il type newmaniano di cui sopra, in Joyce diventa dato sensibile e materia plastica analoga al canonico tòpos costituente il canonizzatissimo materialismo joyciano: il corpo. Ma la tradizione mistica vuole proprio il corpo come luogo primario ove l’entità a-soggettiva si rivela, senza mai identificarsi, senza mai rivelare il proprio nome, attraverso segni, ferite, accensioni del cuore: “Non basta riferirsi al corpo sociale del linguaggio. Il senso ha per scrittura la lettera e il simbolo del corpo. Il mistico riceve dal proprio corpo la legge, il luogo e il limite della propria esperienza” (De Certeau, Sulla mistica, p. 64). Da qui proviene l’altissimo grado di scomposizione linguistico-formale proprio dell’arte letteraria joyciana, e non solo: si pensi alle manipolazioni plastiche del linguaggio comuni a molti modernisti tutte intente a manifestare, ad esempio, l’immagine poundiana, il luminous halo woolfiano, i fragments e le ruins eliotiani. Sono modalità espressive che, a ben vedere, indicano nella scomposizione della forma le feritoie che aprono alla manifestazione trascendente; costante e comune a ogni esperimento è l’intenzione di rivelare l’ineffabile, ciò che è oltre il linguaggio: oppure ciò che lo precede e che, quindi, non é. In certa misura, e mi si perdonerà l’ardire, è possibile affermare che gran parte dell’arte contemporanea dal modernismo procede e del modernismo è conseguenza: a partire da quel post-, prefisso che a partire dal dopoguerra non autodetermina alcunché ma pretende di spiegare se stesso in relazione a ciò che è stato, le feritoie sul senso aperte da Joyce, che del modernismo può ben dirsi essere il gran maestro, si sono rizomaticamente moltiplicate in una sequenza sincronica e diacronica di sperimentazioni formali i cui esiti spingono fino al presente più prossimo. Joyce, che infine volle restituire la voce alla muta epoca tipografica e per questo scrisse Finnegans Wake, da molti è indicato come il progenitore assoluto di qualsiasi esperimento multimediale nelle arti, dai Novissimi fino alla resurrezione popolare della poesia recitata a viva voce nel poetry slam: ma con ciò non s’intende che la sua opera concorra alle colpe per l’attuale ancillarità del testo scritto rispetto all’immediata vocalità del mezzo digitale. Piuttosto, la sua fu una preconizzazione, fu l’indicazione di una direzione da molti intrapresa e da altri, purtroppo, largamente fraintesa. Fulgido genio, e perciò da sempre soggetto a iperletture intellettualistiche che lo vogliono aderente a qualsivoglia ideologia faccia più comodo al presente storico in cui è letto, Joyce l’irlandese fu il figlio spirituale e prediletto di un cardinale cattolico inglese e di una solida formazione gesuita: la sua mistica dell’arte, da questi padri derivante, è deflagrata in un tempo bellico e oscuro, fra la conta dei morti, a far dire a Leopold Bloom che la forza, l’odio, la storia, gli insulti e tutto il resto non erano la vita adatta a donne e uomini. E a chi gli chiedeva cosa fosse allora la vita: Love, says Bloom.

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Immagine: Giacomo Sandron, Landscape, 2017.

 

Tarkos, l’animale parlante è nella pastaparola

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di Andrea Inglese

[Questo articolo è apparso su “alias” del 5/7/20. Di Tarkos, che considero un autore chiave della poesia contemporanea, ho già scritto in qualche occasione. Ma sopratutto disponiamo, oggi, della traduzione di uno dei suoi libri migliori – “Anacronismo” – grazie al lavoro di Michele Zaffarano, il suo più assiduo traduttore, e di TIC edizioni di Roma. In coda, alcuni link. a. i.]

In una storia parallela della poesia francese e della poesia italiana, l’anno 1979 avrebbe un’uguale importanza, ma un significato opposto.

“Soleil grigri” (4/4): da “Salut, voilà”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil grigri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla quarta sezione del libro, Salut, voilà. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, Cardine Kinski e La primavera torna indietro].

Cammino nella metà della luce

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di Gianluca D’Andrea

I. Risveglio

 

Dentro la storia dei bulbi noi andammo e volevamo alzarci e andare liberi tra gli stracci arborei e le tundre, tra le entità astratte e le belve, nel fulgore delle selve, negli anditi tra i bagolari e le curve dei sassi. Perché il mondo è un astro astratto dondolante e attraversare le sue linee cunicolari fu scelto nottetempo da un convoglio sintetico riunito su ceppi ramati. Eppure, tra gli strani mostri antichi, emersero parole tonitruanti

e cascate d’immagini e l’onnipotenza circolare delle forme. La notizia iniziò a circolare stentata per i sentieri di un mondo senza miti se non gioiosi e senza forza. Afriche e meridioni insormontabili in cronache oculari di sempre ulteriori coloni. Quindi partimmo sulle tracce minime lasciate dai luoghi, in ascesa sui crinali dei vecchi venti condizionati. Tremanti per la fame cominciammo, udimmo la voce lontana e gli odori acerbi del nostro incerto risveglio.

 

 

 

II. L’ente scimmia

 

I suoi arti scoordinati e fumosi, il pelo impolverato, fulvo e fragile. L’altro ente, quello da lui rinato, ha tutte le forme che gli ha dato, in tutti gli spazi in cui ha provato a nascondere il suo brutto muso, per sciogliere da sé, sé. Ora vaga senza legami in cerca di qualcosa che si ostina a scivolare come sabbia tra le pigre ondulazioni del cervello. No, non è mai stato bello e neppure intelligente da quando acchiappando il primo pasto non ha intuito la macchinazione dentro la manipolazione – almeno così dicono. Si sforma di continuo e si trasforma e scorda il dolore di non essere nient’altro che l’altro dentro sé, quella forma appena liscia di cui ha sfiorato il senso. Quasi acqua tra le mani sono io, sono oblio e il mio manto e il mio grugno.

 

 

 

III. Superamento e sostituzione

 

Secondo il saggio che ne ha fatto esperienza, «l’uomo comincia a superare infinitamente l’uomo», manifesta la sua presenza-assenza e viceversa. Non esiste un termine per descrivere l’essere: essere e custodire uno slancio, una nube di energia. «Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?», persona della mia persona che parli un po’ prima di questa noia insinuata tra le nature della mia natura. «Io non ci sono già più», non ho più un odore, tante forme dettate dalle cavità del corpo termitaio. Ora che la morte profuma lontanamente di dolore, l’aria è la forma di un’origine fraintesa.

 

 

 

IV. Nell’umore

 

Dal tendaggio trafitto barlumi lasciavano trapelare i colori, nel verde trivellato di melma continuava a cadere l’acqua. La pioggia distribuiva forme nuove, gli arti filiformi oscillavano dai rami di un castagno. Dalle forre partivano rigagnoli acerbi che penetravano la terra, piccoli e vigorosi rimodellavano le superfici. Il buio nel profondo attendeva quella luce umida per mondare e levigare l’oro delle zolle. Intravedeva figure tra le strisce che rigavano gli occhi, un coro riemerso dai muschi, dal respiro verde, da radure remote.

 

 

 

V. Tecnologie della morte

 

In lontananza fori nella nebbia, un destino che coinvolge nel travaglio l’oggetto gettato. Doveva pur vivere, mangiare, imborsare le risorse, i colori, le turbe regressive e proteiche dei prodotti. Ma non era nulla, eclissi dell’uomo, un’ascissa che si sarebbe frantumata in un punto, la sua vocazione alla morte. Dopo il naufragio verticale aveva concluso che avrebbe potuto permettersi un’unica concessione. Una dannazione laica e materiale, mentre ogni sera avrebbe fatto ritorno alla sua casa rudimentale. Tremava dopo aver trascorso giorni interi in luoghi remoti, in compagnia dei soli alberi superstiti, in assenza di zone temperate. Forse i pesci e le alghe avevano ragione coi loro silenzi minerali e il loro vagare liquido. Come il vento che spinge il suo corpo oltre il mare e le zattere plastiche nel cielo e nel mare confusi, aromi mescolati di agrumi e conifere fuori dalla coda dell’occhio, dietro borchie di fumi, fori sfavillanti tra i meandri.

 

 

 

VI. Il colono

 

La strada era una polveriera. Sulla terra deperibile l’avvento di singolarità e raid esponenziali. L’accampamento fu smantellato e allora accadde: l’oro spento nelle fosse voraci, annientatrici di galassie. Nel dopo già scia assiale, il dopo inerte dei corpi siderei, assiderati, in contatto con la fine. Ma non era certo quando fosse avvenuto, adagiato nella calma profonda, in profonda assimilazione di comfort e grandi dati. Intrattenuto nei sogni di pitosfori e sfere fluttuanti, di capsule e stagni grigi, di semenze ingannatrici e specchi che avevano dietro moltissimo nero. E la ghirlanda s’insinuava impalpabile nella natura oscura di un nuovo dio.

 

 

 

VII. Orpheus II

 

E allora si voltò, l’89 remoto di vecchie e nuove età. Era la commozione arcaica che lo trascinava tra le bacche i rami secchi, tra i boschi a succhiare e trasfondersi.

 

Solo immagini per trarre colori sommersi, col blu altrove, con digital nomads e baracche a materializzare il paesaggio. C’erano rocce lì e un cuore commosso e un suono d’uccello outsourcer. Il cuore del bosco era dentro una nuvola vaporosa, come una catena di cristalli circondati dall’effimero.

 

E tutto appariva sparpagliato e accessibile, ardente come il suo essere solo, inghiottito. Un dio di trasformazioni si espandeva come nebbia e desiderio, per questo si voltò e lo raggiunse un vento moderato antimoderno, un archivio-agglomerato a imprigionarlo.

 

Nel lock-in che generava una nuova appartenenza si sentiva appagato, tenero, nascente come un uomo raccolto nel suo attimo di rivelazione, nella sua notte del passato. Nell’avvenire. Così trasfuso nell’apparizione del mondo nell’ora più solitaria del suo cuore solitario.

 

 

Mots-clés__Paranoia

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Paranoia
di Paolo Trama

Peter Gabriel, Games without Frontiers -> play

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Sarà l’avvenire a decidere se la mia teoria contiene più delirio di quanto io non vorrei, o se il delirio di Schreber contiene più verità di quanto altri oggi non siano disposti a credere.

da: S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber) (1910), in Opere, Vol. 6, trad. Renata Colorni e Pietro Veltri, p. 403

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].

Il mio corpo a Carofiglio

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di Gian Balsamo

Palo Alto, 15 giugno 2020

Io non sono gay ma ci sono uomini con cui andrei a letto. Placido Domingo, ad esempio. Lui neppure è gay ma io mi farei volentieri avanti, se potesse aiutarlo a sostituire le donne cui ha fatto troppi complimenti o troppi sgarbi. Con me andrebbe sul sicuro e potrebbe tornare a cantare senza remore. Ogni suo do di petto crea una curvatura irreversibile (che ci piaccia o no) nelle falde dell’universo.
Oppure, sempre per fare un esempio, Joyce e Proust.
Sento Armanda che esclama dall’altra stanza: “Ti ha dato di volta il cervello, Gian? Adesso vuoi ‘dare via’ il tuo corpo! Chi ti credi di essere, Antonin Artaud?”
L’altro giorno ho scritto a Andrea Inglese su Nazione Indiana, in caratteri a stampatello: LA FORMULAZIONE DELLA FRASE È UNA SCELTA ETICA.
Proprio così. Non mi sono ancora ripreso dall’averlo detto, una buona volta.
Ma torniamo a Joyce e Proust.
Con Joyce, devo farmi perdonare una cosa: l’ho sacrificato alla carriera accademica. Lo amavo SPERTICATAMENTE, da ragazzo. Ci ho scritto su dei libri, troppi, e ho partecipato a letali conferenze (troppo poche, direbbero i miei ex-colleghi, ma ehi, sono io quello che ha rotto con l’accademia per unirmi al mio amico e lettore Satoshi Nakamoto, mica loro), e insomma, adesso i libri di Joyce sono diventati Kryptonite per me. Ho un debito da scontare, James, e sono pronto, se ti garba.
Con Proust, è vero l’opposto: per tutta la durata dei miei decenni accademici, ho tenuto segreto il mio amore per Proust. Una volta lasciata l’accademia, sono uscito allo scoperto con la mia dichiarazione d’amore (leggi: il mio libro su di lui). Il nostro amore, Marcel, è intatto. Non, je ne regrette rien…
Se ricordi, Armanda, fu nel 1976 che comprammo il primo volume della Ricerca del tempo perduto. A Ginevra. Paperback Gallimard, illustrazione di Van Dongen. Le pagine sono peggio che ingiallite, sono quasi marrone ormai, e naturalmente si scollano dal dorso. Ma quel libro ce l’abbiamo ancora. Da quel giorno in libreria (ricordo che brillava un bel sole d’inizio settembre sul lago Lemàno), non è passato anno senza che io sfogliassi le pagine di Proust. Tu lo sai bene.
Sfogliassi è decisamente un eufemismo. A Proust, lo insulti se ti fermi dopo cento o duecento pagine.
Quando dico che sarei disposto a andare a letto con Joyce oppure con Proust, dovete capire che decisamente mi sbilancio. (Soffro della stessa sensibilità olfattiva di certi personaggi di Gianrico Carofiglio, ci sono giorni che mi scoppiano i seni paranasali.) Gli alcolizzati come Joyce e gli ipocondriaci come Proust puzzano! Ma mi tapperei volentieri il naso, se servisse a farli sentire meglio.
Joyce e Proust: due grandi artisti con cui e per cui, causa mera, brutale gratitudine, farei qualsiasi cosa.
Andrei volentieri anche a letto con Gianrico Carofiglio. Conoscendo la sua opera, e non solo il suo Guido Guerrieri, ci sarebbe da aspettarsi che questa dichiarazione mi valga, a dir poco, una testata sul naso o una ginocchiata sui testicoli. Ma lo dico per la stessa ragione di prima: mera, brutale gratitudine di un amante della letteratura italiana. Se servisse a consolarlo in un momento difficile, rassicurarlo sui suoi meriti di autore, proteggerlo dai malpensanti (o dalle donne mozzafiato che fanno la posta al suo Guerrieri), sarei lieto di mettermi a disposizione. Here I am.
Magari parlo come parlo perché vivo all’estero. Negli anni ’70, leggevo le recensioni cinematografiche di Moravia sull’Espresso e mi dicevo: Tutto qui? Potrei scriverle anch’io, tali e quali, e allora perché toccano a lui? (Naturalmente, Armanda, noi ce lo siamo letto tutto quanto entro il 1975, Moravia – salvo Io e lui, che ti aveva sconvolto da bambina, e poi non credo sia un granché come libro.) Persino con Pasolini, quando sembrò diventare parte integrante del suo odiato Palazzo, uno si sentiva offeso dai troppi articoli di fondo, le troppe rubriche. Naturalmente, ADORARE Pasolini mi sembrava ancora troppo poco, dato il talento, e ho mostrato i suoi film ai miei studenti negli USA fino a ritrovarmi alle soglie del licenziamento. (In Egitto, alla American University, rischiavo molto di peggio del licenziamento.) Ma a un certo punto si aveva l’impressione che parlasse solo più lui, Pasolini, che fosse l’unico ad avere pieno diritto di parola in Italia. Impressione erronea, naturalmente.
Ma chi non soccombe a certe malevolenze italiche? Mi sa, infatti, che qualche italiano che conosco sia sospettoso di Carofiglio perché dopotutto anche lo scrittore barese è ormai divenuto cittadino del Palazzo. O così potrebbe sembrare. (Anche perché nel frattempo il Palazzo è diventato l’establishment, la creatura più vasta, onnivora, che tutti, da destra a sinistra, vorremmo abbattere, ma non sappiamo come, né cosa sostituirgli.) Invece, dal mio punto di vista estero, non ho difficoltà a comprendere e affermare che Carofiglio è un artista e un essere umano ammirevole. Basta leggerlo con attenzione.
Io l’ho letto tutto.
Caveat lector! Oh my, oh my! Ho fatto in questo momento un Google search per scoprire che Carofiglio è candidato al Premio Strega, che viene assegnato fra sei giorni! E dieci minuti fa, il poeta Jacopo Ramonda mi ha rivelato su WhatsApp di uno scandalo riguardante Carofiglio e un certo Vincenzo Ostuni risalente allo Strega del 2012. Sono andato a controllare. Càspita, Nazione Indiana è eloquente al proposito. Mostro quel dibattito a Armanda nell’altra stanza.
Lei dà una scorsa. “Gian, sei davvero sicuro che stai preparando questo pezzo per Giacomo Sartori di Nazione Indiana? Quelli ti bruciano vivo.”
Il sorriso che le rivolgo non è troppo spavaldo, lo sento.
A proposito, tu, Armanda, eri ancora minorenne quando prendemmo insieme un treno da Torino diretto a Catania, da lì un altro treno per Siracusa, e poi ci addentrammo a piedi in Ortigia, in pellegrinaggio alla casa nativa di Elio Vittorini. Anche con Vittorini sarei andato a letto, come sai, se fosse servito. E devi considerare che nemmeno quella sarebbe stata un’esperienza olfattiva facile. Ai tempi del grande Vittorini di Einaudi, gli italiani odoravano forte! Fingiamo di essercene dimenticati, ma allora, e anche dopo, durante la mia gioventù, all’ingresso in una stanza ogni italiano era annunciato e preceduto dal proprio odore. Le cose stavano così.
E poi, in fondo, chi lo dice che quel revisionista di Vittorini avesse bisogno di consolazioni?
La casa di Vittorini è ancora lì, lapide e tutto. C’era due anni fa, voglio dire.
Io amo profondamente Carofiglio. Ho letto quasi tutti i suoi libri – l’ho già detto. Ho trascorso ore ed ore a ascoltare la sua bella voce leggere certuni dei suoi libri. Pure gli altri libri li ho ascoltati, perché Armanda ed io ce li leggiamo a alta voce, la sera. Dopo aver letto le prime pagine del Bordo vertiginoso delle cose, ho subito pensato a Vittorini. Conversazione in Sicilia = Conversazione in Puglia? Stesso esordio… Ai tempi di Vittorini, un grande scrittore scriveva capolavori. Un giovane entusiasta come me interiorizzava la memoria di ogni grande libro come se fosse scolpita su un blocco di granito. Ai tempi di Carofiglio, invece, un grande scrittore confeziona best-seller per contratto.
Un segno dei tempi. Ma anche questo è un dettaglio toccante, non trovate? La pecca, appunto, o il rammarico, che sono pronto a attenuare col dono del mio corpo, se dovesse aiutare.
Parla Armanda: “Gian, vieni a sapere che Carofiglio è candidato allo Strega per un certo libro che hai letto e conosci bene, ed ecco che scrivi il tuo brano su un altro libro, di cui nessuno si ricorda magari più. Non ti smentisci mai!”
Ars gratia artis.
Lei ed io non abbiamo ancora finito di leggere Il bordo vertiginoso delle cose. A voce alta si va più a rilento. Ma sono super-curioso di sapere come va a finire. Salvatore il terrorista è già morto, ma il personaggio di Celeste non è ancora rientrato in scena. Celeste dovrebbe essere la Musa Redentrice del protagonista. Magari mi sbaglio. Per un momento, ho pensato e sperato che durante la sua supplenza in filosofia al liceo del protagonista Enrico, Celeste fosse segretamente fidanzata con Salvatore e complice del suo attivismo di ultrasinistra. Ora sono quasi a metà del romanzo e immagino che le cose non siano andate così, per quei due. Lo saprò presto. Sono aperto a ogni sorpresa, e ogni giorno non vedo l’ora che venga il dopocena per saperne di più.
Gianrico, se stai leggendo questa pagina, per favore, tappati la bocca. Lo credo che lo sai bene come va a finire; l’hai scritto tu, quel romanzo! Non voglio anticipazioni di sorta.
In un certo senso, Gianrico, se sono super-curioso è perché non sto leggendo un tuo grande libro, sto leggendo un tuo best-seller. Cosa che trovo toccante, l’ho già detto: la maniera in cui un grande talento come il tuo si piega, salta e fa le acrobazie, al fine di allestire materiali da best-seller. Nel caso del Bordo vertiginoso delle cose, me ne sono accorto, sai? Spremi a fondo tutte le tue vecchie formule collaudate, da quelle marginali a quelle che ti contraddistinguono di più: il culto del libro e la visita, sovente notturna, in libreria; l’incontro terapeutico con uno sconosciuto, uomo o donna, di una certa età; la condizione di mediocrità che sconfina nell’eccellenza; l’incontro con due turiste straniere un po’ troppo intraprendenti; l’amicizia col ragazzo più vecchio e molto dotato, ma antisociale; il fallimento nella vita di coppia appaiato all’incontro con la Donna Musa; la citazione emblematica (vuoi da Fitzgerald o Hanna Arendt); l’addestramento segreto allo scontro a mani nude e a mano armata; la scazzottata con un manigoldo. Guarda, non mi dilungo in questa lista perché ho il sospetto che qualche critico ostile l’abbia già completata a fini diversi dai miei. Nel bordo vertiginoso delle cose, però, novità assoluta per te (o almeno credo), sei andato a rispolverare la narrazione in seconda persona singolare, un reperto risalente ai tempi di Bright Lights, Big City, quando il mondo occidentale scopriva la scrittura creativa all’americana.
Se non fossi anch’io uno scrittore italiano, ex-docente di creative writing, ti risparmierei la seguente digressione: Ormai l’Italia ha pienamente assimilato quel modello di creative writing (Thanks for nothing, Baricco), tanto che le “grandi” agenzie letterarie italiane ne hanno fatto un business per fessi. Al proposito, la mia crudeltà ha qualcosa di inspiegabile che rasenta l’idiozia. Ho cercato di spiegarlo a Giacomo Sartori quando è passato da queste parti. Io ho pagato il pizzo di certe “grandi” agenzie letterarie perché volevo vedere quanto in basso potessero scendere con le loro “valutazioni.” Ed è molto, molto più in basso di quanto potresti immaginare, credimi. Mandano per strada questi giocatori di bussolotti. Tu metti giù il pizzo. Loro ti ruotano i tre bussolotti sotto il naso. Tu ne sollevi uno e ti becchi la pallina nera.
Anyway, tutti dobbiamo campare, non solo i giocatori di bussolotti, e tu, Carofiglio, scegli di intrattenerci al di sotto delle tue virtù letterarie scrivendo un trascinante bestseller. SACRIFICHI LE VIRTÙ PER SFRUTTARE PIÙ A FONDO LE DOTI.
Perché dovrei nascondertelo: sta qui, in stampatello, il nocciolo, la scelta etica del mio brano.
Ma potrei sbagliarmi. Se ho visto giusto, Gianrico, non posso e non voglio darti torto. Come dice Modiano, quando si ama veramente, non si giudica: si comprende. Io, per me, come lettore, reclamo solo il privilegio dell’affetto e della riconoscenza.
(Abbiamo parlato del lupo. Tanto vale ramazzare questa pedana a colpi di coda. Insomma, Armanda vede “troppi” paralleli tra Carofiglio e Modiano. Io lo conosco come le mie tasche, Modiano, e non sono d’accordo. Solo tu puoi dirci come stanno veramente le cose.)
A ogni buon conto, hai fatto un rinnegato di questo amante inveterato della Sicilia, Gianrico. Ormai, non vedo l’ora di visitare la tua Bari, capoluogo della “cooliest region in Italy” (cito a memoria le tue due intraprendenti turiste scandinave). Ma bada bene, non ci verrei, o verrò, per reclamare un ingiustificato credito sodomitico. Se Armanda proprio non potesse accompagnarmi, fa un fischio a quelle due scandinave e siamo a cavallo.
Ieri ho rivolto questa domanda ad Armanda: È meglio essere un eccellente scrittore di Sellerio oppure un ricco scrittore di Rizzoli? Lei ha risposto senza battere ciglio: un ricco scrittore di Rizzoli. Tanti anni insieme non sono acqua. Tutto diventa aforisma.

 

l’immagine:Yves Klein, “Anthropométrie” (ANT 49)

Un estratto inedito da “Memoir”

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di Francesco Borrasso

 
 

La depressione è una terra continuamente esposta, è un luogo bagnato, umido, è portare una croce senza un gesto che possa farti capire che prima o poi ci sarà la quiete; la depressione è stata come una colata di cemento dentro i muscoli, sopra le ossa, è stata guardarmi allo specchio e vedere una faccia estranea, osservarmi nel riflesso e non riuscire a riconoscermi e piangere e disperarmi; è stata guardare i volti di persone familiari e vedere volti sconosciuti, è stato depersonalizzarmi, morire lentamente di una morte che colpisce la parte emotiva, la corteccia solida del sorriso. Che fossi depresso l’ho dovuto capire un po’ per volta. Un male buio che mi aveva abbracciato perché non potevo uscire di casa, non potevo lavorare, perché ero diventato un fallimento, ero un pazzo che non vedeva la salvezza, perché la salvezza aveva un suono che io non riuscivo a sentire, perché le lettere delle parole che mi hanno sempre aiutato a capire sono diventate mute. La malattia è come un veleno, lentamente ti si infila sotto la pelle, e all’inizio appare quasi come un’amica, per non farti rinvenire ti coccola, ti tiene al caldo e pian piano, senza che tu te ne accorga, inizia a cambiare tutto quello che hai sempre vissuto; cambia le tue coordinate, cambia le tue percezione, spegne tutte le lampadine e azzera ogni tipo di piacere. I sapori scompaiono, come scompaiono gli odori, i posti familiari diventano di metallo, diventano freddi al contatto, le persone della tua vita sono manichini, sono plastica, un silenzio profondo striscia sulle corde vocali fino a farti perdere la voglia di spiegare.
Mi convinco che le gocce di EN possano aiutarmi, mi convinco di un potere miracoloso e cerco di uscire, i primi giorni le cose sembrano migliorare, la sera e la mattina mi imbottisco di delorazepam e provo ad affrontare il mondo. Ma ho sempre la testa troppo leggera, faccio fatica a concentrarmi, non riesco a leggere. Sono sempre qualcosa che non so riconoscere.

Da “Monoideale”

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dav

di Vasile Leac

traduzione dal romeno di Clara Mitola

 

La zona dei distrutti

Che facciamo noi, quelli senza ambizione a cui piacciono

i monologhi interiori irrazionali?

Noi, che non sappiamo di essere colti in meschinità e stanchezza,

e ogni cosa ci sembra impossibile e lontana?

La balena 52 Hertz e altre storie

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di Evelina De Signoribus

Una cosa che mi piace fare nella vita è ascoltare o osservare gli animali, a volte solo immaginarli. Capita che attraverso la poesia prendano loro la parola, tra fatti atroci realmente accaduti e altri più belli al limite della fantasia.
Ringrazio Marco Petrella che spesso mi accompagna con i suoi disegni.

Immagine di Marco Petrella

La balena 52 Hertz 

C’è stato un inizio nell’oceano
dove ogni singola goccia batteva in me.
Ho ascoltato attentamente
l’acqua che ribolliva di rancore
l’acqua che schiumava di naufragio
l’acqua placata dai raggi di sole.
Ho imparato a cantare con le onde

ma nessuno mi sentiva e allora
ho fatto ciò che non si può
ho aperto un varco con la voce
in mare aperto.
Ora navigo di vibrazioni
e risalgo gli abissi.
Sono io, sola, il mistero di tanto blu.

 

La balena 52-hertz sembra essere l’unico esemplare che canta emettendo suoni alla frequenza di 52 Hz e, per questo motivo, non è udibile dalle altre specie di balena. Viene così chiamata “la balena più solitaria del mondo”. Ringrazio Elisa per avermene parlato.

 

Orsa KJ2

Mi ha dato luce il tempo
come un bocciolo appena schiuso
nel chiaroscuro del bosco

sotto lo sguardo attento di una madre
inseguo una foglia
mi spavento per una biscia.

Cresciuta, si alza la mia voce
e mi assimilano alle tenebre
ma non chiamo il buio, richiamo il figlio.

Lo riparo ancora mentre ormai lontana
la lingua del fuoco acceso dall’uomo
sancisce una tregua

l’abbandono a un sogno più umano.
In questa frazione è il suo disarmo che è pace,
la mia consolazione.

 

“Troppo pericolosa per gli uomini”. Per questo l’orsa KJ2 è stata uccisa dagli agenti del Corpo forestale della Provincia autonoma di Trento. Aveva aggredito un uomo, aveva i piccoli con sé. In molti abbiamo sperato fino all’ultimo che ciò non accadesse.

 

Costanza floreale

Senza vento, nel torpore
silenzio dell’estate, sono l’ape
in equilibrio sospesa
apparentemente innaturale.

Costante, leggera, orizzontale
aspetto un fiore, quel fiore solo
per riprendere a volare.

 

L’ape  è “fedele” ad una specie di fiore scelto dall’inizio alla fine della fioritura. Questo fenomeno dal nome bellissimo, si chiama “costanza floreale”.

 

L’ inseparabile

Insieme eravamo un solo nome
ma spenta la tua voce,
ti chiamo ancora, senza pace:
un sentiero di versi pungenti
cercano spazio
in questa mia piccola gola.

Se non rispondi  non sono,
se non canti qui dove mi trovo
altro non sento e di nuovo
rimango al buio.

 

Gli inseparabili, sono dei pappagallini colorati che devono il loro nome al fatto che formano coppie stabili che passano molto tempo vicine, lisciandosi le piume a vicenda. Si dice che non possono vivere senza la compagna o il compagno che hanno scelto per la vita.

 

Gli stambecchi

Oltre il limite del bosco
dove gli stambecchi hanno riposo
nel cielo si staglia una roccia

sotto, il cupo dirupo

tutto è spoglio e
il vento non può portare il fuoco

lì è già origine
dove tutto è sempre

e ti sento oltre
la gravità dell’aria

o in una musica, altrove.

 

Non ho mai visto uno stambecco dal vivo e mi sono sempre chiesta dove avessero riposo. Verso il cielo forse, in equilibrio, dove possono ascoltare le voci che noi, a volte, crediamo svanite. A Ilaria.

 

La trota

Levigo il corpo nella corrente
come un sasso d’acqua dolce
liscia lucente sono un pesce.
Risalgo la corrente, torno dove non ero
all’uovo deposto, al suono del bosco.

Durante la notte più di un grido.
Fa una pausa la curva dell’infinito
nessun suono ora,  nessun lamento
un pianeta in silenzio color argento.

 

A Foce di Monte Monaco, territorio dei monti Sibillini, si narra che per mano dell’uomo un laghetto artificiale si prosciugò in una sola sera. Gli abitanti sentirono per tutta la notte grida e urla e solo la mattina capirono l’accaduto, davanti a una distesa di trote ormai morte.

 

L’Elefantessa

Straziata dal dolore e dal perché
scendo al fiume per un sollievo
e per darlo a te, ancora non nato
nello stupore del ventre

voglio  lasciarti in tempo
nel tempo dell’acqua materna
come un pesce colorato,
via nella corrente, via dal male

via dalla terra senza sale.

 

L’ultima brutale notizia di pochi giorni fa: ad un’elefantessa viene offerto del cibo imbottito di petardi. Si dirige verso il fiume per trovare sollievo, dove morirà con il suo piccolo in grembo.</em

Greta Thunberg e il mondo che verrà

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di Roberta Salardi

Un’asceta che in altri tempi sarebbe stata considerata una piccola santa? San Francesco in versione laica e moderna?

Una novella Antigone che si appella a leggi non scritte le cui radici affondano in un sentimento di empatia e rispetto verso tutti gli esseri viventi?

Greta si discosta molto dal modello di attivista politico sessantottino, il quale mirava allo sdoganamento di comportamenti repressi e di nuove libertà individuali. “Vietato vietare” era uno dei motti liberatori dell’epoca.

Il modo di porsi di Greta pare modellato su un altro tipo di morale. Si percepisce motivato da un forte legame con la natura, che i popoli nordici coltivano da sempre, come pure da una tradizione culturale e religiosa protestante, che responsabilizza molto i singoli, che richiede fermamente coerenza e rigore. Perché parlo di una tradizione religiosa? La sua attenzione è rivolta al pianeta vivente, non unicamente alla società. Greta è anche vegana, per esempio, probabilmente non solo per motivi strettamente ecologisti. Questi in molti casi puntano a una semplice riduzione del consumo di carne e non necessariamente a una rinuncia completa (vedi Greenpeace e altre associazioni). Greta è una figura ascetica che potrebbe sembrare d’altri tempi. Ma riproponendo l’antica questione del limite, dell’autocontrollo, particolarmente avversata dalle società iperproduttive in cui viviamo, riporta sulla scena abitudini improntate alla parsimonia che evidentemente non si possono dimenticare o trascurare, in quanto favoriscono gli equilibri dell’ecosistema.

Per non compromettere il già difficile rapporto uomo-natura, il suo impegno è esteso a tutto campo. Dice come è attenta nell’alimentazione, nei viaggi, negli acquisti. La coerenza è una parte fondamentale della sua immagine e del suo carisma: è grazie a questa coerenza inflessibile che riesce così convincente.

 

L’altro lato della medaglia, l’intransigenza, viene lasciato un po’ più nell’ombra poiché probabilmente non così gradito agli occidentali viziati dal consumismo, mentre si preferisce enfatizzare il richiamo ai potenti. Forte delle sue virtù inattaccabili, infatti, è nella posizione giusta per lanciare strali ai potenti di tutto il mondo. Non manca di sottolineare comunque, rivolta a tutti noi: “Non si può essere sostenibili solo in parte: o si è sostenibili o non lo si è”.

Nel momento in cui potrebbe rischiare di essere presa in antipatia (non per sua colpa ma perché il messaggio che porta contiene una sua severità) entra in gioco un aspetto che la differenzia da celebri figure di censori del passato, nell’iconografia anziani e accigliati. L’aspetto esteriore quasi infantile, delicato, e la giovane età non solo alludono chiaramente all’innocenza; si prestano pure a suggerire l’impressione che Greta sia facilmente controllabile e manipolabile, una specie di Pippi Calzelunghe che si può far comparire e scomparire all’occorrenza come il personaggio di un cartone animato. E’ stata questa una delle fortune del movimento: la parvenza innocua, per cui i capi politici maggiori del pianeta e le istituzioni internazionali l’hanno accettata, inclusa nelle foto di gruppo dei vertici al fine di mostrarsi amici del clima, contribuendo così alla propaganda delle sue idee. Il movimento ne ha ricavato pubblicità ma un evidente rischio di strumentalizzazione. Un esempio, l’incontro di Davos del gennaio 2020: alla presenza della finanza internazionale, l’icona-Greta figurava a garanzia di un interesse diffuso per la sostenibilità, largamente smentito dai fatti, se si va a controllare la percentuale effettiva degli investimenti finanziari delle banche nelle rinnovabili o nel fossile. Probabilmente fa piacere a tutti, potenti e popoli sparsi per un mondo che si regge ancora in discreto equilibrio strategico dopo il secondo conflitto mondiale (gettiamo un velo sulla lotta inesausta fra potenze medie e grandi, che, pur mantenendosi a intensità contenuta, ha prodotto terribili guerre mai finite; sulle ripetute crisi economiche; sulle ingiustizie sociali planetarie), l’illusione che la conversione ecologica o addirittura un cambiamento di modello di sviluppo possa avvenire in modo graduale, pacifico, razionale, progettato nei dettagli e organizzato, con costi contenuti.

 

 

Un leader tipo Che Guevara immagino suscitasse tutt’altra impressione sui suoi contemporanei: un comandante, un soldato. Agitando l’immagine di Greta credo che sia lo spettro dei conflitti e delle rivoluzioni che soprattutto si desideri tenere lontano.

Non c’è neanche da parlarne: non siamo a quel punto. Tutti sperano di non arrivarci e si concentrano sulla green economy. Sarà possibile attraversare la crisi climatica con alcuni accorgimenti tipo auto elettriche anziché inquinanti, cibo bio anziché da allevamento, locali plastic free, sigarette elettroniche e così via? Sarà sufficiente continuare a consumare scegliendo semplicemente merci un po’ meno dannose oppure occorreranno scelte drastiche anche a livello personale? Lo stile di vita viene chiamato in causa dallo stato di emergenza e dalle evidenti difficoltà a correre ai ripari con politiche globali radicali: è la volta dell’individuo a essere esaminato, interrogato, sanzionato. Se è vero che il consumismo è distruttivo, un cambiamento delle nostre abitudini, vizi e capricci è inevitabile. Dobbiamo metterlo in conto.

Amitav Ghosh tuttavia osserva: “Negli ultimi tempi, molti attivisti e persone sensibili hanno cominciato a definire il cambiamento una questione morale. E’ una sorta di ultima spiaggia, dato che appelli di altro tipo non hanno prodotto un’azione concertata sul cambiamento climatico. E così, per uno sgambetto del destino, la coscienza individuale è vista sempre più come il campo di battaglia privilegiato di un conflitto che è invece palesemente globale e richiede un’azione collettiva: è come se, esaurita ogni altra risorsa democratica, non restasse che la morale.” (La grande cecità, Neri Pozza, Vicenza 2019). Lo scrittore rimarca il problema del progressivo depotenziamento democratico nei Paesi occidentali quando dice che sono ormai “per molti versi spazi postpolitici gestiti da apparati di vario tipo. Per molte persone, ciò crea un angosciante senso di smarrimento, che si manifesta in un desiderio sempre più disperato di recuperare una vera democrazia partecipativa.” (162) In realtà secondo lo scrittore indiano nel cambiamento climatico giocano un ruolo decisivo i Paesi dell’Anglosfera (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda), i quali ostentano indifferenza o negazionismo nei confronti dell’allarme ambientale per difendere il loro elevato standard di vita, restando dell’opinione che alla peggio i costi di questa scelta ricadranno come già in passato su una parte dell’umanità che non coincide con la loro.

Potrebbe essere che Greta anticipi lo stile di vita della decrescita che verrà, felice o infelice che sia. E’ molto probabile che una crescita continua e inarrestabile registrerà una battuta d’arresto, prima in alcuni Paesi che in altri ma a lungo andare diffusamente. L’esplorazione dello spazio non ha portato al reperimento di maggiori risorse e quelle che abbiamo, sempre più ridotte a causa della corsa all’accaparramento e allo sfruttamento sregolato, sono quelle dell’unico pianeta che abitiamo. Con l’aumento demografico e le migrazioni, inoltre, tali risorse andranno sempre di più distribuite. Mentre la sovrabbondanza di merci si trasforma rapidamente in rifiuti che non si sa più dove stoccare, come disperdere nella maniera meno pericolosa possibile. La società del boom economico, a poco più di cinquant’anni dal suo nascere, la vediamo degenerare a vista d’occhio in una società i cui eccessi non si riescono più a contenere, i cui rifiuti la natura non ha il tempo di riassorbire e che vanno a soffocare, ridurre, compromettere gravemente la capacità rigeneratrice della Terra.

Vedo dunque Greta ben più di una piccola santa adolescente: è simile a un angelo (intendendo il termine secondo l’etimologia greca), l’annunciatrice di un’era completamente diversa che sta per iniziare.

 

 

“Soleil grigri” (3/4): da “La primavera torna indietro”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

[Soleil griri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla terza sezione del libro, La primavera torna indietro. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, Cardine Kinski e Salut, voilà].

Specie di Spazi (dialoghi sulla soglia del dubbio)

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Un programma di Teatro India – Teatro di Roma

 

 

 

Specie di spazi” è un programma radiofonico, ideato da Fabio Condemi all’interno di Radio India e ispirato all’omonimo libro di George Perec. Invece che ospitare un resoconto debilitato, ho voluto raccogliere in questa pagina un prolungamento delle concatenazioni; un getto di voci, ulteriormente montate, portate oltre il luogo delle contingenze.

Se esiste una forza concreta della pandemia -da innestare nel teatro-,  essa dovrà trovarsi proprio nel moto pandemico delle idee, ovvero in quella peste citata in uno degli interventi qui sotto. ”Specie di spazi” sfugge ad ogni puntata il pericolo dell’arenamento; non è un riempitivo per il tempo dell’attesa, ma semmai un anticipo su quel tempo verso cui ogni attesa potrebbe tendere: tempo pieno proprio perchè bucato; tempo che scarta ogni direzione di tempo; tempo in cui, oscillando tra labirinto e labirintite, si producono sfasamenti in grado di far toccare cose lontane, e sciogliere così le distanze irrimediabili.

 

Giorgiomaria Cornelio

 

 

ANTICIPO

 

«labirinto, strumento immune da stagioni e da ragioni, e senza sonno,

senza prima e senza dopo, senza uscita né entrata,

senza parola plebea e senza silenzio-limite, senza incendio né fama, senza opera,

senza opacità nel drenaggio di rivelazione pietrificata».

 

(Emilio Villa)

 

 

FABIO CONDEMI

 

A volte riascolto le puntate di “Specie di spazi” e cerco, sul computer o sui libri, immagini evocate durante i vari episodi: opere d’arte, foto di luoghi, immagini di artisti, mappe, architetture, film etc… e  penso che sia un peccato che la radio non offra l’opportunità di vederle mentre se ne parla. Altre volte, improvvisamente, mentre leggo o passeggio, mi viene in mente un argomento, un testo o un luogo che non è presente nelle puntate. Insomma, mi rendo conto che in “Specie di spazi” c’è sempre qualche cosa che manca. Poi penso a Perec,  al tassello mancante del puzzle di cui parla in “La vita istruzioni per l’uso” e mi rendo conto che, in fondo, è quello il pezzo più importante, e che questi vuoti, queste linee scure tra una puntata e l’altra, tra un intervento e l’altro sono i veri spazi del programma, sono dei salti che consentono ad ogni ascoltatore di tracciare linee e percorsi in libertà e continuamente e di attraversare in modi diversi queste 10 ore di materiali.  E allora mi sento più sereno e penso che io, Alessandra Cimino (che ha curato il montaggio di tutte le puntate), Gabriele Portoghese (che ha partecipato al  programma come lettore e consulente musicale)  e tutti gli ospiti e le voci di “Specie di spazi” abbiamo tracciato legami invisibili fatti di richiami e di esercizi utili a stare attenti perché come scrive Perec, ‘lo spazio è un dubbio’.

 

[Fabio Condemi, regista teatrale e ideatore di “Specie di spazi”]

 

Uno schizzo preparatorio di Aldo Rossi

 

 

CHIARA FAGONE

 

Quando nel gennaio del 2018 pubblicavo “Geografia di un interno – luoghi dell’abitare e ricerca artistica tra memoria e sperimentazione”, un lungo lavoro di ricerca sulle stanze e sull’abitare, non avrei mai immaginato che questo tema della stanza, questa geografia intima del  quotidiano, diventasse davvero il limite di un nostro personale universo. Un confine con l’esterno obbligatoriamente vissuto come un nuovo perimetro esistenziale, in un mondo divenuto inaspettatamente distopico.

Così quando è arrivata la richiesta di Fabio Condemi di collaborare al progetto “Specie di spazi” per Radio India, mi sono trovata a ripensare alcune angolazioni della questione, a partire dalla traccia di Georges Perec. Ho subito pensato come il sottotitolo del celebre saggio: “vivere è passare da uno spazio all’altro senza farsi troppo male”, appaia oggi quasi come una profetica verità.

Perec ha sempre attribuito all’architettura, allo spazio domestico e agli oggetti che ne fanno parte, un ruolo essenziale per la comprensione dell’esistenza umana; riflessioni sull’abitare tramite di una chiave interpretativa del mondo.

Credo che il merito di Perec, al di là delle sue straordinarie sperimentazioni linguistiche, sia stato proprio quello di avere spostato la pratica dell’abitare in un contesto ‘altro’; in una serie di piani insieme inediti e immediati. Una dimensione differente da quella del pensiero urbanistico, sociologico o progettuale dell’architettura. Una dimensione riguardante la vita.

La  sequenza che ha inizio dal perimetro della pagina in “Specie di spazi”, per definire poi una vera progressione di luoghi, attraverso il letto, la stanza, l’appartamento, fino ad arrivare alla scala del mondo e insieme l’idea di creare una sovrapposizione tra racconto e architettura, come nel romanzo “Le cose”, e soprattutto nel “La vita istruzioni per l’uso”, indicano una prospettiva ancora estremamente coinvolgente.

Se in “Specie di spazi” a strutturare il volume è un movimento in progressione dimensionale che coincide con un’apertura verso l’esterno, nel romanzo “La vita istruzioni per l’uso”  il disegno è quello di un intricato ‘puzzle’, rigorosamente progettato tramite regole; nel testo l’architettura  si fa romanzo, la sua impalcatura è proprio quella articolata e strutturata come un edificio, per piani, per appartamenti, per ambienti. A ricostruire storie che sovrapponendosi assumono una fisionomia sociale, una memoria collettiva, come in una sorta di scacchiera. Così è stato anche in questo progetto che grazie a Fabio Condemi  ha preso vita.

Dai letti di Jasper Johns, Sophie Calle,Tracey Emin e Félix González-Torres, agli interni di Gregory Crewdson o In Sook Kim o ancora nelle visionarie stanze di Sandy Skoglund e Lori Nix, e attraverso le installazioni di Ragnar Kjartansson, ho scelto di  raccontare le sperimentazioni degli artisti contemporanei seguendo il ‘tracciato’ di Perec. E poi, superato il confine della casa, la narrazione ha riguardato  la street art newyorkese di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, la città e l’immaginario della metropoli da Verne a Wrigth, per concludere la mia personale partecipazione con una nota sulla comunità vegetabilista del “Monte Verità”.

“Specie di spazi” ha dato voce a una pluralità di contributi e letture, analisi e suggestioni, con prospettive e ritmi differenti, in una bellezza di sonorità che riempivano spazi e distanze.  Un’esperienza che rimane e che sicuramente non dimenticheremo.

 

[Chiara Fagone, architetto,  titolare delle cattedre di Storia dell’arte moderna e Fenomenologia dell’arte contemporanea presso la Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano]

 

 

ALESSANDRO MAGINI

 

Già il fatto di concepire una trasmissione modulata su “Espèces d’espaces” di Perec mi è parso un bel modo di costruire una riflessione polifonica intorno alla realtà del nostro vivere. E non mi meraviglia che questa idea sia venuta proprio a Fabio Condemi, del quale apprezzo l’ampiezza degli orizzonti culturali ed una rara sensibilità artistica. Quando Fabio mi ha proposto di intervenire nella trasmissione sono andato ad ascoltare le puntate fino ad allora registrate e sono rimasto colpito dalla coerente naturalezza con la quale tanti argomenti venivano affrontati e tenuti insieme. Ho pensato che l’équipe che stava costruendo questo progetto offriva una bella testimonianza della vitalità con la quale un gruppo di giovani sapeva reagire a situazioni complesse, mettendo in campo idee e competenze non scontate. Nel generale panorama di una comunicazione troppo spesso piatta e banale, questa nuova “coralità radiofonica” mi è parsa una ventata di aria fresca che dà vitalità e senso alla divulgazione, ponendo stimolanti inviti alla riflessione su come guardare e ascoltare diversamente la realtà del vivere quotidiano. Seguendo i capitoli del libro di Perec, la trasmissione conduce gli ascoltatori dalla dimensione privata dell’abitazione a quella condivisa degli spazi aperti. I miei due interventi si collocano nelle puntate dedicate al quartiere e alla campagna. Con Fabio ho concordato allora di proporre una lettura dell’architettura e dalla natura attraverso l’esperienza musicale; in pratica un invito ad “ascoltare” strutture architettoniche e paesaggi attraverso testi e partiture che offrono particolari prospettive di osservazione e inusuali modi di interpretare e di vivere gli spazi del nostro esistere. E’ stato un vero piacere collaborare con Specie di spazi e spero sinceramente che trasmissioni del genere, così come il contesto di Radio India che le ospita, possano ulteriormente svilupparsi per dare voce soprattutto alle tante giovani “intelligenze” che fortunatamente continuano ad esistere.’

 

[Alessandro Magini, compositore, musicologo, insegnante presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica]

 

 

MAURO SANTINI

 

L’invito di Fabio Condemi a partecipare a “Specie di spazi” su Radio India mi ha portato, guardando a ritroso, a scoprire quanto Georges Perec sia da sempre presente nei miei film, dagli inizi fino alla quinta passeggiata, girata proprio nei luoghi della sua infanzia. Non avevo mai fatto radio finora e raccontare senza immagini ha rappresentato una sorta di terapia: mi ha infatti liberato dalla afasia nella quale mi sono beatamente segregato per vent’anni circa. Il ritorno alla parola (ancor più, alla parola detta e non solo scritta) mi ha come svegliato da questo lungo torpore, spingendomi ad utilizzarla anche in un nuovo progetto filmico che sto realizzando. E poi è stato bello recuperare suoni da trasmissioni radiofoniche o da vecchi documentari, confonderli con sequenze di miei film, leggere estratti da perec, mescolare ed organizzare il tutto coi tempi ed i modi del radiodramma: una vera avventura, che già mi manca…

[Mauro Santini, filmmaker. Realizza i suoi film documentando il quotidiano in una forma diaristica, caratterizzata da un racconto visivo in prima persona]

 

 

 

 

LUCAMATTEO ROSSI

 

 

È stato sufficiente abitare uno spazio e divenirne abitati per comprendere che è necessario farla finita con il teatro, che non è sufficiente fare spettacoli e riprodurli in rete. Forse l’intelligenza di Radio India e del programma “Specie di Spazi” di Fabio Condemi consiste proprio nel dimostrare che il teatro può accadere anche fuori dal teatro e al di là delle contingenze, attraverso una visione molteplice che tiene conto di diverse forme d’arte (tra queste la letteratura, il cinema, la musica) per rintracciare e creare nuove connessioni tra materiali e tra persone. Quello di “Specie di Spazi” è per me il teatro della voce, prova flagrante di come parlare della camera, dell’appartamento, del palazzo o della città -per fare soltanto alcuni degli esempi, tutti suggeriti da Perec, ed esplorati nel corso delle dieci puntate- significhi lasciare una traccia in chi ascolta attraverso la voce. Non mi pare sia abitudine fare e studiare teatro disinteressandosene. Il Teatro India ha avuto con Radio India il coraggio di esplorarenuove possibilità durante una pandemia e senza conforti; non ha proposto spettacoli per intrattenere il tempo, ma ha avuto l’audacia di continuare a mettere insieme persone e di praticare un cambiamento. La peste, che Antonin Artaud indentificava proprio con il teatro, è il momento in cui si attualizza un cambiamento nella persona e nella società tutta. L’esperimento di “Specie di Spazi” e Radio India è un “Decameron” che -come l’opera di Boccaccio- è per me un riferimento per chi si (dis)occupa di teatro.

 

[Lucamatteo Rossi, cineasta e teatrante. Studia al Trinity College di Dublino]

 

 

FRANCESCO FIORENTINO

 

Ogni spazio nasce in fondo da un atto poetico, di creazione. E ogni spazio può fare filosofia, oppure letteratura, oppure arte, oppure musica. Nel senso che può far nascere un nuovo modo di pensare, di scrivere, di dipingere, di cantare.

 

[Francesco Fiorentino, professore ordinario di Letteratura tedesca all’Università Roma Tre]

 

 

FABIO CHERSTICH

 

”Specie di spazi è stato per me come un lento movimento di macchina, un film sperimentale sapientemente diretto da Fabio Condemi. Una carrellata all’indietro che a partire da uno schermo bianco – la pagina bianca del libro di Perec protagonista della prima puntata – rivela una serie di luoghi che dall’essere privati e chiusi si fanno pubblici, finalmente vasti, come gli spazi presentati nell’avanzare delle puntate.Questo movimento di macchina che si allontana da uno schermo bianco rivela un letto sfatto, poi una stanza. La telecamera esce da una finestra e rivela un palazzo, continua la sua marcia a ritroso alzandosi in volo. Ecco apparire la pianta di un quartiere e infine la città, la campagna, il cielo lo spazio. E’ un movimento che racconta in una forma semplice e poetica anche il nostro essere stati a casa per poter poi finalmente riappropriarci con cautela degli spazi esterni, comuni.Io stesso ho scritto i miei interventi e seguito le puntate prima chiuso nella mia stanza, alla scrivania, poi a letto, in soggiorno, al parco, in treno, finalmente in viaggio, in questo momento sto scrivendo dalle montagne del Friuli, lontano da quella camera nel centro di Milano dove sono rimasto chiuso per settimane fortunatamente in compagnia di spazi reali e mentali.”

[Fabio Cherstich, regista, scenografo e curatore]

SPECIE DI SPAZI
“Specie di spazi”, un programma a cura di Fabio Condemi; montaggio puntate di Alessandra Cimino; letture e consulenza musicale di Gabriele Portoghese
Con: Giorgiomaria Cornelio, Lucamatteo Rossi, Domenico Ingenito, Chiara Fagone, Fabio Cherstich, Francesco Fiorentino, Industria Indipendente, Daria Deflorian, Valeria Almerighi, Nicola Ingenito, Mauro Santini, Rocco Lo Russo, Alessandro Magini, Elena Rivoltini, Andrea Acerbi, Giacomo Bisordi, Davide Pascasrella.

 

Contributo di Mauro Santini