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Zibaldoni: divenire in stato d’eccezione

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di

Enrico De Vivo

«Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,


cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa
»

(Dante, Paradiso, XXXIII, 58-63)

 

L’idea di riprendere le pubblicazioni di Zibaldoni e altre meraviglie (www.zibaldoni.it) dopo oltre due anni di sospensione nasce – non c’è bisogno di nasconderlo – dallo stato d’eccezione nel quale stiamo vivendo. Saranno, dunque, Zibaldoni d’eccezione, quelli che vedranno la luce, in un duplice senso: per lo stato in cui sembrano piombare sempre più le nostre comunità, e perché siamo convinti che la letteratura, a maggior ragione in una situazione del genere, deve ancora di più fare eccezione, staccandosi dall’attualità non per annullare il suo sfondo naturale, ma per procedere con determinazione verso la comprensione della sua funzione e delle meraviglie del mondo. Anche la letteratura, in uno stato d’eccezione permanente, deve fare la sua parte. E la sua parte – se di letteratura si tratta – deve essere eccezionale in questo senso.

Ma tutto questo resta un’idea sterile, se non riesce a farsi comunità di scrittura o immaginazione di comunità. Voglio dire che Zibaldoni, fin dalle origini, ha potuto essere quello che è stato ed è soltanto grazie ai contributi di chi si riconosce nella sua storia e nella sua linea avveniristica o avventurosa (che significa: “sappiamo da dove partiamo, non dove arriveremo”). È anche per questo che si è distinta da altre esperienze solipsistiche e più o meno accademiche. L’invito, dunque, che rivolgo ai vecchi e ai nuovi amici della nostra rivista è a rifarsi vivi, e a condividere con noi questa idea minima, ma necessaria per continuare a credere nella letteratura come occasione privilegiata per “pensare qui”.

Nelle intenzioni, nei riferimenti e nelle ispirazioni, Zibaldoni resta lo stesso di sempre, pronto ad aprirsi e ad aggregare. Noi saremo qui, come in passato, ad ascoltare e a leggere tutto quello che riceveremo, discutendo sempre con tutti e andando avanti sicuri grazie alla capacità fantastica dei nostri lettori, dei nostri happy few.

Buone ed eccezionali letture a tutti.

 

Nota di effeffe

Caro Enrico, come sai ho deciso di aderire alla tua proposta di collaborare a questa vostra  ripresa con una rubrica, el furlèn, fatta di  interventi grafici, iconoclasti, situazionisti come queste che seguono. E ti auguro in bocca al lupo per questa vostra autorevole convalescenza.

 

Demone della decorazione

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di Hilary Tiscione

Sulla nuca della scala in biada di legno resistevano i Pupi.
Dalle tre teste fiorivano come rami difettosi le loro colonne vertebrali in ferro scuro. Curvavano come uncini incarniti dentro l’intrigo forato delle loro menti.
La scala era fatta di undici gradini. All’ottavo gradino potevo guardare i Pupi negli occhi.
Sembravano impiccati. Con i colli sbranati dai ferri cacciati nel muro.
All’ottavo gradino mi fermavo un istante. Mi tenevo ferma alla sbarra e li osservavo. Poi contavo nove dieci undici con gli occhi oltre la scala.
Oltre la scala c’era il mio letto. La televisione. Una collezione di carillon. Un ombrello antico appeso a una carrozzina. Due tappeti con stampato il volto di due giovani uomini inglesi.
Quando spegnevo la luce la mia stanza si faceva la custodia supplementare dei cadaveri ben vestiti. I Pupi scendevano lungo la scala.
Un Pupo era il capo. Lui apriva il ciclo del ritiro. Batteva un polso contro il muro e cessava la debolezza del suo inutile riso e quello dell’ambigua coppia di storpi che lo proteggevano.
Vestiva una camicia in cotone imbevuto dell’essenza del limo e dei pantaloni in velluto bordeaux come il panciotto. Teneva una spada aggrappata all’avanbraccio con del filo di metallo e calzava un cappello di cuoio mangiato su un lato. Aveva i baffi di saggina e portava il rossetto.
Gli occhi del capo erano truccati di nero. Lacrimavano all’alba.
La mattina lo trovavo con le guance bagnate d’acquarello cattivo. I sui compagni le avevano sempre pulite.
Era l’unico soldato armato.
Il Pupo alla sua destra portava una giacca in velluto verde veronese con delle frange di trecce dorate che gli cadevano dalle spalle. Indossava pantaloni stretti attorno alle cosce, retti in vita da una fibbia in ottone. Come il capo aveva il rossetto, solo di un tono più vivo. Gli zigomi erano marchiati di un rosa scavato. Pareva il più giovane.
Il Pupo alla sinistra del Capo era bardato da una tragica polvere blu. Sogghignava lungo una crepa sul labbro superiore e aveva capelli neri come le braccia indurite dei ragni scarni.
Avevo chiesto a mio padre se mi era permesso toglierli dalla mia stanza. Mi aveva detto che non ne capivo il valore e la signorile apprensione. Aveva detto che non capivo l’estrosità della situazione. Neppure l’artificio e la tenerezza. Mi sfuggiva il modo in cui mi preparava a morire.
Non gli avevo detto che quando spegnevo la luce i tre sovrintendenti delle sagome scendevano la scala e aprivano la porta al piano terra della mia camera da letto e che la stoffa nera delle loro scarpe in panno era tanto sottile che sentivo battere le loro impronte sul legno. E mi soffocavo sotto la trapunta per non sentire la punta della spada del Capo strisciare sul parquet.
E nonostante il caldo e i sudori che regalavo a mio padre la sentivo lo stesso.
Non so cosa facessero nel resto della casa e se mai si fossero spinti oltre il corridoio dove si apriva una coltre di piante sintetiche, ma li sentivo rientrare e parlare con stravaganti varietà di codici mentre mi distraevo a cercare tre nomi per loro. Non ne ho mai trovato uno e non ho mai trovato la forza di venire fuori dalla trapunta che il domestico diceva essere troppo pesante per coprire una bambina. Diceva che mi sotterrava dentro il materasso e la notte si accaniva sul mio sonno rotto.
Mio padre non sapeva che quei Pupi marciavano su e giù per la scala fino ad esaurire le forze e venivano a sedersi ai piedi del mio letto per godere della sagoma di una creatura viva.
Il loro scheletro di metallo lagnava mentre osservavano il mio contorno. Non riuscivano mai a stare fermi del tutto.
A quel punto della notte si zittiva la molestia rude della paura e provavo tristezza per quei nani inariditi. Piccoli corpi mancati. Marionette piegate al ruminare dei tarli.
Qualche mese più avanti mi domandavo cosa avessero sotto i vestiti. Se il legno a contatto con il tessuto che li vestiva fosse più chiaro. Se avessero dei solchi sepolti e una memoria.
Ferma sul nono gradino avevo cominciato a toccarli.
Il residuo trattato di una mano. Il distacco di un polpaccio scavato. L’oblio incipriato sull’orlo dei pantaloni. La pelle tigliosa degli zigomi. I ferri corrosi delle caviglie pieghevoli. Non so che cosa avessero da sorridere.
E come erano educati nel meschino intervallo del vanto. Così ben amministrati al demone della decorazione.
Avevano sfiatato i sensi nella rotta clandestina del buio? Avevano imparato a colmare la fame nel trio? I superstiti del palco trivellato dalla sorte. Disgraziati introiti della compravendita. Perché restavano?
Qualche anno dopo, ferma sul nono gradino, avevo messo una mano sull’indole mostruosa di una marionetta e l’avevo baciata per lasciare traboccare il sospetto che fosse sulla terra come campione della tragica lirica dell’orrore e basta.
Da quel momento ogni volta che salivo la scala posavo le labbra sul becco rosso del Capo. A distanza di mesi non ghignava più. La notte non batteva più il colpo della sommossa curiosa.
I suoi valletti scendevano la scala e lo lasciavano solo a penzolare. Le lacrime dell’alba gli tagliavano la maschera come insistenza. In estate erano cicatrici accese dalla libidine fallita.
Toccavo il Capo sul petto e dove si faceva robusto il cavallo dei suoi pantaloni. Il garzone di destra rideva, quello di sinistra assaporava il collasso del Pupo debole.
Gli sfioravo le dita prive dell’unghia. Levigate dall’accidia. Le mani imperfette di un castrone con la spada.
La notte dormivo. Non sentivo più il loro ermetico gergo clandestino. Intanto il Capo ogni mattina mi guardava scendere la scala denudata.
Un giorno lo avevo costretto alla cecità appendendo la mia camicia da notte sul suo stupido cappello e gli avevo sfiorato l’anca fino all’interno coscia. Gli avevo abbassato i pantaloni sulle caviglie e lo avevo lasciato così tutto il giorno.
Era il giorno in cui avevo incominciato a fumare il tabacco aromatico del Kentucky. E lui, il tormentato Capo, coperto della mia droga nuova.
Era il paradosso del desiderio senza l’insopprimibile ragione del cazzo. Pornografia atrofizzata. Depressa pulsione mutilata delle bambole. Sconcio legname.
Oggi il corpo del Capo riposa malmesso in una scatola. I suoi compagni una notte lo avevano lasciato solo. Avevano bussato alla porta dove riposava mio padre che li aveva tenuti a lungo seduti sopra una panca accanto al guardaroba. Qualche anno dopo li aveva regalati a un collezionista che ci veniva a trovare nei giorni vicini alla Pasqua.
Il Capo non aveva mai avuto un nome. Quando l’accumulo delle sue lacrime si era seccato lo avevo raschiato con un dito portandogli via del colore. Prima di lasciare la mia stanza lo avevo coricato sul mio letto. Avevo chiesto al domestico di lasciarlo sulla mia trapunta qualche giorno.
Soccombente dello scontro vinto a metà, il Capo chino sull’esalazione della pelle mai approdata. Il fantoccio riposava l’appetito e la gradazione della cera morta per la fregola dei pupazzi. Capo della molestia, addomesticato alla rinuncia. Sognava sulla trapunta il suo approdo al muscolo e il domestico lo puliva ogni mattina della mia scomparsa.
Era giunto a vivere la mia stamberga di piume e respirare l’evaporazione dello sfizio o l’attaccamento all’impraticabile.
Lo pensavo lacrimare vernice spenta. E ricordare le vigilanze andate. Il Capo aveva capito bene che il traguardo è la più violenta e piacevole meschinità. Gli avevo tolto il cappello. Lo avevo poggiato sul mio comodino. Aveva pochi capelli. La spada invece la teneva ancora vicina al corpo. Gli avevo dato un ultimo bacio lento.
So che il domestico si è ammalato per un lungo periodo, ho smesso di chiamarlo per chiedergli del Capo. L’ultima volta mi aveva chiesto se dormivo bene. Gli avevo detto di sì.
Non sono più tornata a casa.

A lezione di pandemia: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo

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di Andrea Inglese

Dall’inizio di questa crisi abbiamo già fatto incetta di lezioni. Due mi sembrano particolarmente importanti, e sono di ordine più conoscitivo che morale. Il virus non è soltanto l’irruzione dell’altro, il non-umano, nel nostro mondo, è anche un rivelatore fedele, sensibilissimo, del nostro modo di essere umani, e di accoglierlo, potenziandolo o indebolendolo. Inoltre, proprio il non-umano ha bucato la cortina ideologica, sollecitando dietro il sogno dell’individuo autonomo la realtà dell’appartenenza e dell’identità sociale.

L’oro della Turchia: come battere Erdogan con la lotta alla gentrificazione

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di Giuseppe Acconcia

La giornalista Giovanna Loccatelli ne L’oro della Turchia. Il business dell’edilizia che ha stravolto l’aspetto del paese e il suo tessuto sociale (Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 190, 14 euro), prefazione di Alberto Negri, traccia l’ascesa e il declino del presidente turco Recep Tayyip Erdogan attraverso il business del cemento. L’autrice che ha vissuto prima al Cairo e poi a Istanbul descrive con arguzia e precisione i progetti che hanno deturpato le città turche. Giovanna Loccatelli lo fa con originalità, andando oltre le ben note proteste del 2013 di Gezi Park in cui gli attivisti turchi denunciavano abusi edilizi e danni all’ambiente dei progetti per la costruzione di una caserma e di una moschea, con la distruzione completa del parco nella centralissima piazza Taksim. Per anni gli antichi palazzi della bella Istanbul sono stati demoliti per lasciare spazio a centri commerciali e compound. In parallelo all’ascesa politica del populista per eccellenza, i palazzinari della “borghesia religiosa” hanno conquistato l’Anatolia finché il boom dell’economia degli anni Novanta e Duemila lo ha permesso. Istanbul è diventata così una città cantiere mentre la gentrificazione galoppante favoriva le classi medio-alte tra i 53 mila metri quadri destinati ai duty free del nuovo aeroporto e i 400 operai morti nel cantiere per realizzarlo. E poi è stata la volta del terzo ponte sul Bosforo, Yavuz Sultan Selim Koprusu, e del tunnel che unisce la parte asiatica e quella europea della città, Avrasya Tuneli. Il tutto condito da una propaganda senza precedenti legata alle sfarzose cerimonie di inaugurazione delle grandi opere, la rivendicazione di primati architettonici, lo sfoggio del lusso chiarissimo nel centro commerciale Zorlu così come nel volto nuovo e snaturato del centralissimo quartiere di Beyoglu. Nel viaggio che Giovanna Loccatelli ha compiuto nella Turchia dell’edilizia e degli appalti, controllati dall’élite politica vicina al presidente Erdogan, non poteva mancare il Galataport la cui realizzazione sta cambiando interi quartieri. Un altro esempio di gentrificazione è il quartiere Tarlabasi di Istanbul che da zona popolare ha visto gli affitti crescere a dismisura negli ultimi anni. Con la legge del 2006 sull’edilizia urbana le autorità locali hanno assunto poteri senza precedenti anche nella gestione della popolazione residente. E così la Gap Insaat, del genero di Erdogan, Berat Albayrak, ha vinto l’appalto. Il gioco è fatto: palazzi di pregio a prezzi stratosferici che aumenteranno le disuguaglianze sociali nel quartiere. Per non parlare di veri e propri non-luoghi, come le gated communities, i compound di Gokturk, complessi residenziali chiusi dove sono “imprigionati” i turchi ricchi che, come espatriati, vivono in un “labirinto fortificato” e mai passeggerebbero per le strade del centro, se non per voglia di esotismo. Queste sono le realtà di cui ha continuamente bisogno di nutrirsi il mostruoso “neoliberismo in salsa turca” che ha permesso a Erdogan di estendere a dismisura i suoi poteri e di reprimere ogni forma di opposizione con il pretesto del fallito colpo di stato del luglio 2016. Un altro esempio in questo senso è il quartiere curdo di Istanbul Ayazma: un’area mal collegata che ha acquistato valore nei primi anni Duemila con la costruzione dello Stadio olimpico Ataturk. E così il Toki, gli amministratori per l’edilizia urbana, è subito intervenuto con il pretesto della possibile formazione di “cellule terroristiche” sradicandone gli abitanti. I curdi del quartiere nel migliore dei casi si sono ritrovati in abitazioni che hanno stravolto le loro radicate abitudini quotidiane, inclusi i divieti di camminare nelle aree verdi o per le donne curde di riunirsi davanti alle loro case. Eppure proprio l’artificialità della modernizzazione nel segno del mattone e dei mall promossa dal partito Giustizia e Sviluppo (Akp) di Erdogan è stata la chiave della sua più cocente sconfitta, realizzatasi grazie al discorso ambientalista del candidato sindaco alle elezioni amministrative del 2019, Ekrem Imamoglu, che ha scippato Istanbul all’Akp aprendo la strada al declino del suo populismo.

Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”

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a cura di Gianluca Garrapa

Gianluca Garrapa: È uno spazio-tempo desiderante questo lavoro di Gianluca D’Andrea: Forme del tempo – (Letture 2016-2018), edito da Arcipelago Itaca nel 2019 nella Collana Sorgiva, non sembra avere una forma maggioritaria, né una cronologia che imponga una lettura lineare. Si apre con l’emergenza di una frattura, di una ferita: questa è descrittura degli stati transitori. Stati che sono anche Stati politici, ostinati nella stasi del confine che va, invece, enucleato, attraversato e, ci si augura, abolito.

Il rumore della fabbrica

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di Francesca Rossi Brunori

 

Illustrazione di Giuditta Chiaraluce

 

Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Ci vogliono tutti morti ma andrà tutto bene. Ci vogliono tutti indispensabili, ma andrà tutto bene. Ci vogliono soffocati nelle nostre mascherine, ma andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Una di quelle frasi che ti diceva tua madre il primo giorno di scuola. Andrà tutto bene te lo avrebbe potuto dire il tuo compagno il primo giorno di un nuovo lavoro. Andrà tutto bene sì. Per tutti ma non per noi. Perché noi siamo sempre esortati a sopportare a supportare i beni di prima necessità degli altri che pure loro non fanno altro che sentire, sì andrà tutto bene. Il loro dovere è rimanere dentro casa. Il nostro è di rimanere chiusi in fabbrica – a fare che? Vestiti. Vestiti. Le nostre clienti anche se sono in quarantena hanno bisogno di sentirsi bene. Per questo, andrà tutto bene, si potrebbe convergere in ho bisogno di sentirmi bene, anche se sto a casa. E in mezzo all’andrà e al potrebbe prende forma un essere. Io.  L’operaio. E in mezzo prende forma uno spazio – la fabbrica. E dentro la fabbrica ci siamo noi. Puntuali anche in tempo di disastro. Timbra il cartellino. Entro. Timbra il cartellino. Esco. Un ingranaggio che non cede. Nemmeno di fronte ad una pandemia. Infatti, hanno detto, siamo tutti uguali, questo virus non fa distinzione, che tu sia di aspetto minuto, che tu abbia una fronte sporgente, naso all’insù, non c’è differenza. Che tu sia ricco o povero, non fa differenza. Io non mi sento uguale per niente a chi se ne sta a casa sua ad indossare i vestiti che fabbrico io. Non mi sento uguale per niente io. Bisogna trovarsi al posto giusto al momento giusto. Per coincidenza di cose mi ci sono trovata. Nel luogo fisico che continua a muoversi nonostante tutto. Lo vedi come sei fortunata? Tu puoi continuare a lavorare. “Guardami ah guardami come sono andata vestita oggi. Ah puoi solo immaginarlo perché non posso uscire. Ma sai, mi piace stare a casa vestita per bene”. È giusto. Lo so che è giusto. Nemmeno io mi lascerei andare dentro casa. Non voglio mica mettermi ad odiare chi indossa i vestiti che… ma io punto la sveglia alle cinque – tutti i giorni – mi lavo i denti mi vesto velocemente ho smesso di bere il caffè perché non ho bisogno di svegliarmi data la paura. Esco di casa e mi disegno nella testa la strada, la mia immaginazione mi fa vedere il percorso che devo seguire per arrivare al mio posto di lavoro. Lo so a memoria. Sempre dritto poi giri a destra dove trovi la solita vicina che butta fuori l’acqua sporca, ancora avanti passi davanti alla farmacia, ancora avanti all’incrocio, lì dove di solito ci sono Mohamed e i suoi amici che vendono accendini e calze e collane, ancora avanti e poi subito a sinistra. Arrivata. Avevo delle coordinate. Ma oggi le ho perse. Le ho perse da quando è iniziata questa pandemia. Perché in giro non c’è più nessuno. Mi sembra di muovermi in strade che non sono le mie. Casa dolce casa tienimi a te. Fabbrica dolce fabbrica, prendiamo le distanze.

Il tempo del lavoro il tempo del denaro il tempo della produzione il tempo di mettersi a pregare perché nessuno ti possa attaccare niente. Nemmeno un raffreddore. Perché ci sono dei momenti in cui prima di entrare dentro quella fabbrica, anzi no, prima, prima di uscire di casa, prima di vestirmi e prepararmi, ancora prima, prima di andare a dormire, prima di oggi, ieri… dal giorno prima, io inizio a sentire che il mio stomaco si contorce, mi fa male, mi viene una specie di paura, mi basta mettere i piedi fuori da casa per sentire che l’aria anche se è più pulita, pare più contaminata perché mica ce la fai a respirarla davvero, è più pulita ma tu la senti più pesante. Ti prego fai che non mi tocca pigliarmi sto virus ti prego fai che non mi prenda ti prego se non mi prende… che faccio se non mi prende. Ma che sto dicendo?

Stiamo vivendo un evento storico catastrofico. Torneremo alla normalità con un atteggiamento diverso. La consapevolezza di tutto ciò che abbiamo … mi viene da ridere. Io certe cose le sapevo già. Non avevo mica bisogno di una pandemia per saper che stavo vivendo in un mondo terribile, feroce. Ma voi in che realtà credevate di essere ospitati? Signor presidente la prego pensi anche a noi. Le voglio raccontare Oh mio presidente, il suono che sento la mattina appena mi sveglio – il rumore delle macchine della fabbrica? No ancora no appena mi sveglio dico, – anticipo – anticipo – il suono che sento la mattina mentre faccio colazione – il rumore della macchine della fabbrica – anticipo anticipo – sto solo bevendo del tè – troverai molto da ascoltare lì dentro – sono rumori che conosco bene li ho segnati – impressi impressi impressi – uno segue l’altro. Arrivano prima. Prima che io arrivi a loro, loro arrivano a me. Come i canti di quelle voci maschili che sembrano arrivare da lontano – quella musica sacra che risuona e poi quel silenzio, io il silenzio non lo sento mai, nemmeno appena mi sveglio. Appena mi sveglio arriva il rumore della fabbrica.

Mamma ti prego posso rimanere a casa? Piangi e piangi ancora ma tanto le lacrime non servono a farti rimanere a casa. Da piccola ti inventavi il male di pancia per non andare a scuola. A me viene il male di pancia ogni giorno – ma lì ci devo andare lo stesso. Ogni giorno.

Andrà tutto bene sì. Ma solo se difendiamo i diritti dei lavoratori. Incrociamo le braccia per chiedere sicurezza e chiusura delle attività produttive non essenziali!  Appelliamoci alla pace solidale! Alla responsabilità nazionale! Noi stiamo ancora lavorando. Si vede che vi siete un po’ confusi tra cosa sia essenziale e cosa no. La sicurezza dei lavoratori, ma solo se non si scontra con gli interessi della produzione, dei profitti. Perché ci mettono così tanto tempo, aggirano aggirano, fanno un salto all’indietro, e si girano dall’altra parte quando si parla di sicurezza, s i c u r e z z a si estingue quando il profitto diventa la specie più forte.

Cerco di ricordare i giorni felici che ho avuto prima di questa quarantena, ma non riesco, non li trovo, scivolano via, stanno scomparendo, un po’ come la crema che ti metti per massaggiarti le mani. Ridatemeli. Per avere un appiglio. perché…

Oh signor presidente noi le distanze di sicurezza mentre lavoriamo le manteniamo. Per poco. Appena dobbiamo andare in bagno, non possiamo rispettare più niente. Siamo tanti sa. E il bagno è uno solo. E’ piccolo. Me lo può dire lei come faccio a mantenere le distanze di sicurezza e non creare assembramento? Mica possiamo stabilire un orario per i bisogni fisiologici. Possiamo andare uno alla volta e alzare la mano? Dice che il bagno non è un problema.

Oh signor presidente noi le distanze di sicurezza mentre lavoriamo le manteniamo. Ma poi la produzione prevede che si debbano portare i capi da un settore all’altro. Dovrebbe vedere i corridoi. Stretti. Molto stretti. Possiamo alzare la mano anche qui. Magari mentre io porto i vestiti lungo il corridoio da sola, l’altra va in bagno e tutto il resto delle operaie rimangono a guardare. E aspettano il loro turno. Per il bagno. Per il corridoio. Anche per continuare a lavorare?

E poi ci tocca nutrirci. In una piccola piccola mensa. Dove o mangi in piedi o in un angolo o molto vicina alla tua collega. Le mascherine dobbiamo tirarle giù. Se no, come entra il cibo dalla bocca? Ma dopo le dobbiamo cambiare? Buttare? Ma se le abbiamo abbassate tutte nello stesso momento, dice che è meno pericoloso solo perché siamo in pausa pranzo? Non ci aveva pensato? Possiamo fare i turni. Ricapitoliamo. Mentre una va in bagno l’altra porta i vestiti quell’altra ancora mangia e tutte le rimanenti stanno a guardare. Possiamo fare così? Continuate a lavorare.

La memoria è collettiva. Ma labile. Di collettivo non rimane niente. Nemmeno la spartizione delle mascherine. Perchè se proprio glielo devo dire non è che prima fosse diverso. Se facciamo la conta dei morti, di tutte quelle fabbriche che avete deciso di portare via lontano, se facciamo la conta dei morti, allora mi viene da pensare che più che morti di virus, si potrebbero chiamare morti sul lavoro. Forse ve lo siete dimenticato.

E’ domenica. Siedo. Aspetto. Un sindacato qualsiasi che mi dica se da domani posso stare a casa. Sostenuta. Senza morire di fame. I vestiti li ho. La spesa l’ho fatta. Rifletto. Ascolto tutte le comunicazioni. Scuoto la testa. Siamo noi i lavoratori di una specie diversa. Che non si estinguerà per il virus. Perché è riuscita a non sparire prima. Siamo la specie vincente darwiniana noi. Sopravvissuti a ben altro. Ad una assenza di cure. E non straordinarie ed eccezionali come quelle di adesso. Ma basiche. Quelle che ti permettono di lavorare in fabbrica senza avere paura.

Covid 19 – Opinioni non richieste

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di Daniele Ventre*

Questa, ovviamente, non era una semplice influenza. Non lo era per una ragione tassonomica. Ci sono i virus influenzali (tipo H1N1) e ci sono i coronavirus, come quelli che provocano il raffreddore comune nel 17% dei casi.

Ho citato il virus influenzale H1N1, perché è ben noto, per due varianti pandemiche particolarmente famose: la spagnola del 1916-1918 (fra i cinquanta e i cento milioni di morti) e l’influenza suina del 2009.

Per i virus come l’H1N1, che tendono a dare un’immunità duratura (la nuova influenza che viene ogni anno, nasce da una nuova sottospecie di virus influenzale), è facile creare un vaccino. Ogni anno se ne crea uno nuovo.

Per i coronavirus non esiste vaccino: facili a mutare, a ricombinarsi, estremamente contagiosi, si sedano nei mesi estivi, per poi ritornare nei mesi invernali. A differenza dei semplici rhinovirus, e dei picornavirus delle gastroenteriti virali, i coronavirus sono virus a RNA molto più adattabili.

Il coronavirus della covid 19 sta ai coronavirus ordinari come il virus dell’influenza spagnola sta all’influenza ordinaria.

Questo vuol dire che, come l’influenza spagnola, può provocare polmonite interstiziale virale e alveolite, con potenziale consolidamento polmonare, in un numero piuttosto alto di casi.

Come per i coronavirus ordinari, è difficile creare un vaccino adatto a fornire un’immunità duratura. Anche dovesse trovarsi un vaccino per questa variante di coronavirus, la mutazione che renderebbe il vaccino poco efficace è sempre dietro l’angolo.

Nel frattempo, come l’influenza dura un po’, poi in una stagione il virus in auge si estingue, così la spagnola è durata un po’, ma poi si è estinta o inattivata, per la raggiunta immunità di gregge. La spagnola è come un’auto utilitaria prodotta dall’industrialismo fordista: crescita esponenziale dei clienti, saturazione del mercato, fallimento se non si inventa un prodotto totalmente nuovo.

I coronavirus non funzionano così: piccolo scoppio epidemico di raffreddore, che poi sparisce, ma torna in inverno, con il virus mutato. Allo stesso modo, il virus della covid 19 ci ha dato questo scoppio pandemico; poi si quieterà; poi al prossimo inverno potrebbe dare un nuovo scoppio pandemico, o epidemie locali, magari un po’ meno gravi, ma sempre col solito scotto di terapie intensive e casi fatali.

I coronavirus sono come i traders e le startup flessibili e adattabili dell’età post-industriale: diffondono un prodotto soft; in alcuni contesti si radicano profondamente, seguono una geografia dei clienti non prevedibile, possono fallire una volta per sempre, ma possono anche riadattarsi, rinventarsi, sono i Bill Gates e gli Steve Jobs del dominio acytota.

L’effetto che hanno sull’organismo è simile a quello della spagnola, ma reiterato nel tempo, proprio come gli scoppi epidemici dei raffreddori comuni in inverno.

Ciò significa che periodicamente si dovrà ricorrere a forme più o meno soft di confinamento sociale, accrescere il costo dei controlli, accrescere il peso del sistema sanitario, e nel frattempo si dovrà ricorrere a un profondo ripensamento della farmacopea degli antinfiammatori e degli immunomodulanti, mentre si cerca di trovare un modulo vaccinale versatile ed efficace quanto il virus (programmi di ricerca necessari, ma essi stessi rischiosi).

Nel frattempo, però, i contraccolpi saranno drammatici, sul piano psicologico, socio-antropologico, economico, politico, culturale. In primo luogo, si vivrà con un sottofondo di sospetto e di paranoia del soma (ipocondria) riacceso al primo starnuto o colpo di tosse nostro o del vicino, perché i rhinovirus e i virus influenzali saranno sempre lì, ma non sapremo distinguerli a tutta prima (scenario “Lo scopriremo solo morendo”), quindi ogni momento sarà carico di tensione, e ogni inizio di richiamo dell’epidemia sarà in sordina e latente, con tutto il carico di conseguenze che ne derivano.

La progressiva obliterazione delle distinzioni fra democrazie e sistemi a vario titolo autoritari, subirà una forte accelerazione. La distinzione si sposterà sullo sfuggente piano delle buone intenzioni, di cui la strada dell’inferno è lastricata.

Sul piano economico, l’insicurezza derivante dalle epidemie ripetute, e dalla necessità di confinamento in aree sempre mutevoli, costringerà l’interconnessione del sistema globalizzato a rimodularsi, e a subire una forte contrazione, almeno sul piano della trasportistica e dello spostamento delle persone in genere. Il complesso di previsioni, su cui si basa tanta parte dell’economia finanziaria, si sgretolerà poco a poco, o subirà una pesante batosta.

Si accentueranno soprattutto gli aspetti schizofrenici della globalizzazione: chi potrà assicurarsi una connessione (e non è detto che sia sempre possibile, perché il sistema può sovraccaricarsi, subire un down, e l’energia per reggerlo ha sempre bisogno di braccia per essere erogata, almeno in una parte della filiera, che si tratti di carburante, o di semplice approvigionamento alimentare), chi potrà assicurarsi una connessione, sarà ovunque a tempo di click. Nello stesso momento, però, crescerà esponenzialmente il sospetto verso l’estraneo, la reazione violenta, razzista, scomposta, che può tradursi nell’atto aggressivo individuale, ma può anche, con più funesti esiti, trasformarsi in risposta folle degli elettorati manipolabili e degli apparati di controllo statale.

La civiltà, una civiltà molto mutata, sopravvivrà a patto di saper limitare i provvedimenti di confinamento a mere funzioni operative, senza aloni discriminatori, e a patto di definirsi come sistema di mutuo aiuto economico flessibile, a seconda delle esigenze. Nel frattempo, si spera che una nuova classe di super-antinfiammatori e immunomodulatori tollerabili sia sviluppata e ci accompagni nel tempo del progressivo riassestamento, finché, in capo a tre, o forse cinque, o forse dieci anni e fra uno stillicidio di vitttime, non si raggiungerà un equilibrio biologico. Tutto questo ovviamente al netto di epidemie opportunistiche, che potrebbero trarre vantaggio dall’attenzione concentrata sulle varianti di covid più o meno severe, e al netto di un degrado sanitario collaterale, dovuto allo spostamento delle risorse dall’attenzione alle malattie cardiovascolari e ai tumori, verso le malattie epidemiche, in un ritornato Ottocento della medicina.

Nel frattempo, unica nota positiva, l’inquinamento potrebbe contrarsi significativamente: quel tanto che basta perché la nostra specie, iperproliferativa, non mandi all’aria il clima del pianeta, rendendo la vita quasi impossibile. Con esso, anche le aspirazioni di blocchi imperialistici ed egemonici potrebbero ridimensionarsi quel tanto che basta per evitare guerre locali e globali, o per ridurne, almeno, l’impatto sulla biosfera.

Una cosa sarà certa: se vorremo sopravvivere, non sarà un mondo per leoni da tastiera, terroristi fanatici, caos gratuito per vuote manifestazioni di piazza in nome del consumo, complottismi e bulli sovranisti in felpa e capelli scarmigliati. Né sarà un mondo per il machismo sessista, considerando che se sarà definitivamente accertata la minore esposizione delle donne all’epidemia (né sarebbe strano, da un punto di vista strettamente darwiniano, che il sesso forte sia quello deputato al maggior investimento parentale), a governare la ripartenza potrebbero esserci più donne, che uomini, come è già accaduto in parte nelle due guerre mondiali.

Sooprattutto, le élites liberiste ruba-latte dei tagli alla sanità avranno imparato per forza, da un virus, ciò che non hanno voluto comprendere per amore, dalla persuasione di scienziati e ragazzine svedesi ambientaliste.

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Articolo già presente qui, per cortesia di Sonia Caporossi: https://criticaimpura.wordpress.com/2020/03/26/covid-19-opinioni-non-richieste-daniele-ventre/

Meno bla bla e più fa’ fa’

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di Franz Di Maggio

(conosco Franz per aver visto con quale passione e competenza si dedica a far conoscere e partecipare il teatro nelle scuole. Franz, 59 anni, è drammaturgo e regista teatrale. Ha fatto parte del think tank di Massimo Cacciari in Regione Veneto, da oltre trent’anni è attivista nel campo dei diritti civili e sociali. Collabora con il consolato della Repubblica di Armenia, con il Centro Culturale Ceco e con la Fondazione di Vaclav Havel con testimonianze sui diritti delle minoranze. E’ fondatore del movimento politico “20 nodi” dopo essere stato promotore delle “Sardine” a Milano e Pavia (divenendone portavoce). a.s.)

Prendo a prestito due frasi, la prima di un Cacciari furioso “Diteci la verità, basta retorica”, la seconda dell’altro amico Massimo, questa volta Celeste, che si porta dietro come mantra “non sono un uomo del bla bla, sono uno del fa’ fa’”. Dico la mia, da semplice, cittadino, Non ci si improvvisa economisti e tantomeno politici. La politica è un’arte, l’arte del possibile, o, come diceva Pietro Ingrao, l’arte di trasformare l’impossibile in possibile.

Penisolario (guida segreta a una Liguria sotterranea)

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di Marino Magliani

Il collante delle mie storie liguri è la vergognosa verticalità cui è stato sottoposto un io narrante sofferente di vertigini. Costretto all’esilio, la via di fuga dai carruggi e dai ponti in salita gli ha provocato una specie di euforia, o solo di corsa scomposta da poppa a prua, a bordo di un traghetto diretto ogni giorno in Corsica. Poi notturne esperienze da spiaggiato, lungo coste più o meno brave e isole, quando l’estate iniziava altrove, ad esempio attraverso pampe. Scorie e frammenti di verticalità millenaria, si posarono su un dunaio. A quel punto, mancava solo la scrittura del penisolario, la Liguria e le penisole della vita, progettata tanti anni prima a Carlos Paz, sulle rive del lago, che non ricordo quanto disti dalla città di Cordoba, ma non molto, considerando i grandi spazi australi.
Un giorno, un pomeriggio certamente, vagando, perché a questo officio si può dire mi dedicassi a Carlos Paz, ho conosciuto uno scrittore che poteva avere la mia età ora. Era uno scrittore di racconti. Qualche anno prima era stato in Europa per cercare – uso le sue parole – material por una novela europea, e tornato a Carlos Paz s’era stabilito sulle rive del lago, anzi del rio, dove aveva buttato giù alcuni incipit del suo romanzo europeo, e li aveva rigorosamente annegati nelle pozze di Carlos Paz.
Lo incontravo ogni giorno alla spiaggia, a una cert’ora della tardecita, io su quelle rive ci vivevo, dormivo sotto una barca, mi svegliavo nel primo pomeriggio e quando uscivo da là sotto gli spaggianti mi applaudivano, in seguito scroccavo le grigliate ai turisti, giocavo a calcio coi ragazzi sulla sabbia, mentre lo scrittore al lago ci veniva a fare il bagno – elegante mezz’ora di crawl alla Pereira, cui seguiva una mezz’ora di esercizi, il doccione, le spadrillas, le spalle al lago.
Un giorno lo scrittore di racconti che non riusciva a scrivere un romanzo mi invitò a casa sua a cena. Era sposato, padre di un paio di morochitos che gli scarabocchiavano fogli e libri. La moglie ci servì milanesas y papas nel patio, e ci versò del buon mendocino. Credo che se le passassero discretamente bene, la famiglia di lei possedeva delle case e dei campi nella provincia di Salta, con un manente a condurre l’azienda agricola. Quando, parlando, gli dissi che dormivo in spiaggia mi propose di sistemarmi in una baracca di sua proprietà, comoda, che dava sulla Sierra, con un buon letto e un bagno, il cucinino. Persino la stufa per quando a maggio iniziava a far freddo. Dissi che prima o poi, verso marzo, aprile, quando la temperatura cambiava, poteva venire a taglio. Ma io per quell’epoca tornavo all’estate boreale.
Mentre si digeriva e massacravano zanzare, rinfrescati dalla brezza del lago, lo scrittore preparò un mate senza zucchero, come piaceva a entrambi, e poi volle che gli parlassi della Liguria. C’erano suoni di rospi e rane.
La Liguria…
Tolto qualcosa sul mare e sugli ulivi, non avevo mai provato a raccontare a nessuno cose del genere, forse perché nessuno me l’aveva mai chieste. Così, il primo tentativo fu di selezionare cosa mancava alla Liguria. Laghi ad esempio non ce n’erano, c’era quello che noi chiamavamo lago ed era una pozza profonda del torrente, piena di canneti, serpi e rane, forse anguille. Gli dissi che non c’era nemmeno il mare in Liguria, cioè sì c’era, ma dal mio paese non si vedeva, bisognava salire in cima alle terrazze, sugli spartiacque e da lassù scoprire che in fondo, dove terminava il corso del torrente, non si vedeva niente, e quello era il mare. Naturalmente non c’erano donne, gli dissi, e questa era la pura verità, per metter la mano nei raggi a una donna bisognava aspettare l’estate quando scendevano le tedesche in vacanza. Gli dissi che non capivo cosa ci trovassero di tanto bello i turisti, in Liguria, forse il clima, ma di gente ne arrivava ogni anno sempre di più, e non solo tedeschi, anche tanti francesi, perché la frontiera era a due passi, e inglesi, olandesi, tutta brava gente che si portava appresso figlie, mogli, cugine. Gli parlai degli ulivi, che formavano un bosco rugoso, all’apparenza, inteso visto da lontano, morbido, specie di zona replicante percossa da vento e luce. Replicanti (mi chiese cosa intendevo con quel termine inquietante; glielo spiegai) era perché certi ulivi giravano le foglie al vento e sembravano dei mutanti, agitavano fronde metallizzate, e gli provai a raccontare di quanto erano profonde certe vallate, e di come si snodavano le mulattiere, di torrenti secchi e scogli affioranti, e dopo un po’ m’accorsi che nell’abbandono gli stavo proponendo una realtà alla quale non credevo, inizialmente, neppure io, e che quella non era la Liguria che ricordavo, ma un posto inventato, il tentativo di ammucchiare tempi e spazi, ad esempio gli parlavo di un bosco di ulivi che visto da lontano era il tappeto morbido di muschio azzurro, e di vallate che assomigliavano a casse toraciche, di costoni dai quali, durante le alluvioni, si staccava la terra e si vedevano le rocce lisce e nude come le scapole di una scimmia. E gli descrissi altre mulattiere che fungevano da spine dorsali di grandi bestie sdraiate, enormi scogli pieni di lichene che da bambino avevo deciso fossero schiene di balene sofferenti di una malattia della pelle.
Gli parlai di queste cose, tutte quante terribilmente liguri, o liguriamente terribili, che ora, non bevendo da anni mendocino tinto, fatico a mettere assieme.
Il pomeriggio seguente, e da lì in avanti, fin quando non andai a vivere nella baracca (saltai l’anno dell’estate boreale) e poi trovai un po’ di soldi per trasferirmi nel nord del Cile, doveva faceva comunque un buon caldo anche a maggio, rividi lo scrittore. Fin quando ci fu possibile, nuotavamo dalla riva a una boa (lui mi insegnava i movimenti eleganti del crawl), tre o quattro volte avanti e indietro, riposandoci ogni tanto sul tavolone traballante, e poi all’ultimo ci stendevamo sulle rocce.
Ogni volta che ci sdraiavamo a guardare il cielo nel ritaglio della Sierra – era una richiesta che attendevo ormai dopo ogni nuotata – voleva gli raccontassi altre storie liguri. Succedeva anche quando mi ero spostato a vivere nella baracca, e la loro donna di servizio a colazione mi portava il mate e media lunas, che sono più o meno dei croissant, mi pare di ricordare, e poi raggiungevo lo scrittore in veranda per un buon almuerzo. E così, mi pare di capire ora – come di una cosa che non esiste ancora ma di cui si è sicuri, come di un nascituro di cui si decide per tempo un nome – che a quei racconti che non avevo ancora scritto, avevo già dato un titolo. Glielo dissi: si chiameranno Los relatos de una Liguria sucia. Bien tanito – mi chiamava così, tano in Argentina significa italiano – es un titulo barbaro. Ma perché la Liguria sporca, volle sapere. Così, dissi. Forse perché in Liguria vivevo in un posto dove la spazzatura si gettava dal ponte in salita, all’ingresso del paese, e due volte l’anno la piena se la portava via, forse la ragione era quella, dissi. In realtà non sapevo perché, ma fin dal momento in cui mi era venuta in mente La Liguria sucia m’era parso un buon titolo.
Mentre ora, che la raccolta ospita anche racconti olandesi, Liguria sporca non basta più, sono storie di strada, strette e buie come carruggi, o larghe come le autopistas argentine. Storie di frontiere. E iniziò tutto a Carlos Paz, nel senso che per la prima volta sulle rive del lago ho pensato che in fondo, le cose che sognavo e che per tanto tempo non avevo mai capito cosa fossero, erano racconti.
Ma ora che non so più nemmeno quando li ho scritti, dopo aver pubblicato quelli di Carlos Paz e altre mitologie private, se mai un giorno uscissero anche questi, uno dei titoli potrebbe essere proprio Penisolario, o Guida segreta a una Liguria occidentale e sotterranea.

Il grande vuoto. «L’isola delle madri» di Maria Rosa Cutrufelli

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di Daniele Comberiati

Vi è una linea lunga e spessa – anche se tortuosa e non sempre diretta – che unisce L’isola delle madri di Maria Rosa Cutrufelli ad altre narrazioni contemporanee femminili (o femministe, come le ha definite Silvia Contarini su queste stesse pagine) di fantascienza. Il gambo più visibile, certamente, rimane The Handmaid’s Tales di Margaret Atwood, per le riflessioni sulla maternità e per aver utilizzato nei suoi testi (penso anche al recente I testamenti) solo eventi contro le donne che realmente erano accaduti o e leggi che erano state promulgate. Ma il romanzo di Cutrufelli si situa in una costellazione molto più ampia, che attraversa Ragazze elettriche di Naomi Alderman, un ripensamento sul modello di potere patriarcale e su come esso possa ripetersi e duplicarsi in contesti apparentemente diversi, tocca Amatka di Karin Tidbeck, dove è la sorellanza fra donne e un nuovo modello educativo a mettere in crisi il rigido mondo delle “colonie” in cui il linguaggio è obbligato e codificato, per incrociare tangenzialmente, in gradi e livelli diversi, altre narrazioni distopiche e fantascientifiche italiane. Il mondo “a posteriori” descritto da Cutrufelli propone lo stesso cortocircuito tra presente e futuro raccontato da Violetta Bellocchio in La festa nera, laddove questo futuro è già, di fatto, il nostro presente e la distopia perde il suo afflato divinatorio per diventare strumento di conoscenza e critica politica del reale. Ma L’isola delle madri dialoga anche con Sirene di Laura Pugno, con alcune narrazioni di Nicoletta Vallorani, di Daniela Piegai e di Luce D’Eramo. Non è forse importante che questi legami siano diretti, che l’autrice rientri volontariamente in questa linea, quanto che tale nebulosa di testi crei oggi per il lettore e la lettrice un circuito dialogante in cui determinate tematiche – ecocritica, femminismo, postumanesimo – vengono sviluppate, si incrociano e si sovrappongono. In Italian Science Fiction. The Other in Literature and Film (Palgrave Macmillan 2019) e successivamente in Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana (Mimesis 2020), scritti entrambi con Simone Brioni, abbiamo ragionato proprio sulla presenza delle scrittrici nelle narrazioni fantascientifiche italiane, riprendendo alcune riflessioni di Rosi Braidotti sull’importanza dei generi letterari cosiddetti “minori”, che proprio perché non entrati a pieno titolo nel canone permettono a volte, grazie alla distanza e all’opposizione nei confronti del “centro”, una visione diversa, più critica e originale, della pratica letteraria e politica.

Altri due riferimenti importanti soggiacciono al testo. Il primo è legato al padre dell’autrice, chimico che già negli anni Sessanta studiava gli effetti dell’inquinamento sugli animali, le acque e l’ambiente. Il secondo è il saggio dell’americana Rachel Carson, che nel 1962 scrisse Primavera silenziosa (tradotto in italiano l’anno successivo per Feltrinelli): il libro di Carson, che partendo dalla diminuzione dei canti degli uccelli nei campi in primavera analizzava gli effetti del DDT e dei fitofarmaci sull’uomo e sull’ambiente, si proponeva come un manifesto ambientalista ante-litteram, scritto da una donna, anticipando alcune tematiche che saranno poi riprese dall’ecocritica e dall’ecofemminismo recenti. Anche il titolo del primo capitolo del romanzo, Uno strano silenzio, si lega all’idea iniziale del saggio di Carson.

D’altra parte nel romanzo di Cutrufelli questione di genere e questione ambientale sono strettamente legate: a partire da reali dati scientifici analizzati a monte, l’autrice immagina che il tasso di fertilità mondiale subisca un rallentamento particolarmente rapido. L’epoca del “grande vuoto”, causato dall’inquinamento e dal riscaldamento climatico, rende le nascite molto difficili e modifica completamente il concetto di maternità. Risulta indicativo l’impiego dell’espressione “grande vuoto” per indicare il calo delle nascite alla quale Cutrufelli fa riferimento: nel romanzo vi è un gioco apparente di rovesci. Laddove la sovrappopolazione sembra da decenni essere uno dei maggiori problemi da affrontare – nel presente come nel futuro prossimo – in L’isola delle madri ci troviamo a riflettere sul calo di natalità e sullo spopolamento. Il troppo “pieno” del nostro presente si trasforma improvvisamente in un vuoto – e non è detto, alla luce delle fonti citate dall’autrice nella postfazione, che non possa essere questo uno dei nostri futuri possibili – che ci fornisce almeno la possibilità di riempirlo con contenuti e forme diverse.

Le conseguenze dell’inquinamento hanno quindi effetti diretti sul corpo delle donne, modificando per sempre l’ambiente esterno in cui viviamo, ma anche i legami delle nostre società. Cutrufelli delinea un mondo in cui in pochi anni (poco più di due decenni) abbiamo perso diritti che ci sembravano ovvi: la possibilità di spostarci senza controlli e documenti, di scegliere il luogo in cui vivere, di decidere quando, se e come avere figli. Il mondo fisico intorno a noi è già cambiato: la “fanghiglia giallastra, […] melma che ribolle di moscerini e appesta l’aria” che funge da sfondo acido intorno alla clinica BioCompany e che ha sostituito il lago ricorda la famosa “palta” che avvolgeva gli oggetti nella San Francisco futuristica di Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick. In entrambe le narrazioni (ma anche in Amatka di Karin Tidbeck gli oggetti appaiono solforosi e sfuggenti) il mondo del futuro appare ricoperto, come oscurato da una patina che ci impedisce di osservarne le fattezze naturali, o meglio: che si propone come nuova “naturalità”.

La questione ambientale enfatizza dunque le disparità già presenti nella società: la condizione di migranti e rifugiati, le relazioni di genere, quelle di classe. Le conseguenze del “grande vuoto” fungono da detonatore: creano il mondo del futuro immaginato e descritto dall’autrice, ma al tempo stesso scavano in profondità nelle contraddizioni del nostro presente. Le intersezioni di classe, genere e provenienza geografica esplodono in un mondo sicuramente ingiusto, ma non più ingiusto di quello attuale. E i riferimenti all’attualità nel romanzo sono numerosi, a partire dai dettagli e dagli indizi disseminati lungo l’arco della narrazione riguardanti un noto processo contro una grande impresa multinazionale, di cui tacciamo qui il nome per rispettare la volontà dell’autrice espressa nella Piccola nota a margine finale e per il carattere generale della descrizione, che prende spunto dallo scandalo realmente esistito per proporre una riflessione più ampia.

L’epoca del “grande vuoto” viene in principio contrastata dalla scienza. In quest’isola del Mediterraneo – una trasfigurazione della Sicilia – una clinica di riproduzione, la BioCompany (nel cui nome ambiguo sembra di rivedere l’OrganInc Farm descritta in Oryx and Crake da Margaret Atwood) prova a gestire l’enorme problema del calo della fertilità. Questa “isola delle madri” porta l’autrice a riflessioni interessanti e complesse su temi di stretta attualità nella nostra società: il ruolo etico della scienza, il controllo delle nascite, la relazione e il conflitto fra “naturale” e “artificiale”, una nuova e più sfumata concezione di maternità e paternità. A prima vista la BioCompany appare come un’immensa attività coercitiva, dove tutto è organizzato e regolato: il desiderio e la necessità di concepire, le relazioni fra spazio privato e pubblico, perfino l’appartenenza al e del proprio corpo. Ma è fra le pieghe di questo futuro distopico che Cutrufelli inserisce le parti più toccanti e intime della sua narrazione: le quattro protagoniste del romanzo (Sara, Kateryna, Livia e Mariama), tutte con ruoli, prospettive e aspettative differenti nell’isola delle madri, iniziano pazientemente a tracciare una possibilità di futuro diverso per loro stesse e per l’umanità tutta. Le contraddizioni della BioCompany – il controllo scientifico e militare per salvaguardare e proteggere la specie, in un processo inquietantemente simile a quello in cui assistiamo in questo delirante fine inverno inizio primavera 2020 in diverse parti del mondo – possono essere superate e oltrepassate da qualcosa di nuovo e al tempo stesso antichissimo. Le capacità di relazione, accoglienza, empatia delle protagoniste saranno il fulcro sul quale si potrà basare una nuova idea di società. Decisive potrebbero rivelarsi le loro volontà e possibilità di immaginare un mondo altro e nuove situazioni in cui rimettere in gioco le nozioni di maternità e paternità, chiamate a ripensarsi, nel romanzo come nel nostro presente.

Il “grande vuoto”, forse, si può riempire di contenuti nuovi e di modalità alternative per costruirli. Per farlo, però, solo la relazione fra interno ed esterno, lascia intendere Cutrufelli, può aiutarci a ricostruire un immaginario ricco e fervido dal quale nuove forme di pensiero prenderanno vita.

L’alba reclusa

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di Roberto Antolini

Saranno le 6 quando l’alba inizia a filtrare attraverso lo spiraglio fra le imposte, che ieri sera ho apposta lasciato socchiuse, per essere svegliato alle prime luci. Mia moglie dorme, e dorme, e dormirà beatamente fin chissà quando: l’emergenza Covid19, con la reclusione in casa, le ha tolto ogni pudore al riguardo.
Io qualche problema con la mia educazione protestante ce l’ho. Quand’è alba, io mi alzo. Ricordo mio padre che raccontava del nonno che nelle fredde albe trentine di primo Novecento passava nelle camere degli 11 figli a strappar via le coperte. Mio padre, lui uomo moderno, non lo ha mai fatto, praticamente. Ma insomma, la cosa ce l’ha insinuata int’a capa, anche se con altri mezzi: “a questo mondo non si viene per poltrire, ma per darsi da fare, ecc.” Anche se obiettivamente, in queste circostanze, risulta problematico. Siamo reclusi in casa, Conte tuona, in ogni telegiornale – non ce ne perdiamo uno questi giorni – contro chi c’ha ‘ste fisime di uscire. S’è incazzato pure con la disposizione che tollerava i genitori accompagnanti i pargoli ad un’ora d’aria. Nichts, nisba, niente ora d’aria per i pargoli: che guardino Raiplay cartoons. Verranno tempi migliori anche per loro, se non diventano rachitici prima.
Io ho avuto resistenze quasi psicosomatiche: depressioni, melanconie, ire. Proprio adesso che abbiamo le montagne fuori dalla finestra … ed un faggeto proprio davanti al portoncino d’ingresso del condominio… Poi una volta mi hanno fermato i carabinieri: favorisca i documenti. E l’autorizzazione per gli spostamenti? Ma quale spostamento, sto andando a ritirare contante al bancomat più vicino, nella frazione qui da presso, sarà km 1! Ma anche loro Nichts, nisba, bastano e avanzano i bancomat. Ma quali bancomat! Proprio ieri sono andato dal giornalaio – l’acquisto dei giornali è autorizzato, eh! – a ricaricare il cellulare, e ho dovuto cacciare il contante, altro che bancomat. Ma loro sempre irremovibili, niente, sembrava una barzelletta sui carabbinieri. Sono dovuto ritornare alla base a tasche vuote. Per acquistare i quotidiani ho dovuto provvedere ad accedere ad un mutuo presso mia moglie, che ha ancora contante (beh, in fondo, poi il giornale lo legge anche lei, una volta svegliata).
Alzo il termostato dell’appartamento rimasto sotto i venti gradi per la notte, e guardo fuori, la montagna davanti, che incombe sullo sfondo, sopra il basso tetto del caseificio. Incombe nell’ombra azzurra ancora universale, ma un leggero chiarore guizza appena appena nell’aria. Dall’altra parte dell’orizzonta si sta alzando il sole, non arrivano ancora raggi diretti, ma il dorsale montano mosso e ondulato, che termina a nord con una punta di roccia, comincia a rivelare le sue forme. Nell’ombra azzurra brilla solo l’insegna al neon dell’Hotel a tre stelle, chiuso pure lui, sprangato e con i carabinieri che gli gironzolano intorno, ma con l’insegna luminescente (praticamente uno spreco). Ma man mano che la luce si spande lei – l’insegna luminosa – sbiadisce. Poi cominciano ad arrivare i primi raggi diretti su in cima, proprio sulla linea del displuvio montano, che fanno brillare la neve rimasta lassù a far da confine con la sottostante (dall’altra parte) valle dell’Adige, ove scivola indisturbato il mondo economico essenziale. Pur ora eh! Sull’autostrada del Brennero scorre a fianco dell’Adige un flusso ininterrotto di TIR, dal Mediterraneo alla Mitteleuropa e viceversa. Al di là del crinale qui di fronte. E noi qui – minchia – che non possiamo manco muoverci da casa. Manco!
Ora che s’è acceso il giorno arriva una autobotte al caseificio di fronte, di manovre “essenziali” ce ne stanno anche qui d’attorno, dunque. E io, io che non sono per nulla essenziale, mo che faccio? Sì, poi c’è da continuare l’Asor Rosa del Bilancio di un secolo, ma quello è l’impegno di lettura della giornata, della giornata piena, ma ora? Adesso? Tanto per iniziare adeguatamente, per dare un senso al risveglio, all’avvio. Controllo le agenzie di stampa e leggo del disastro sul portale dell’INPS, che ha fatto impazzire chi doveva registrarsi per richiedere gli ammortizzatori sociali. Penso subito alla nipotina a partita IVA rimasta a Milano, i cui lavori si sono tutti dileguati in un battibaleno, e la messaggio per chiedere come va. «Ciao zio – mi risponde – è stata una giornataccia ma alle 23 di ieri sera ci sono riuscita a registrarmi. Marco invece era riuscito già nel primo pomeriggio». Meno male, dai, è già qualcosa, è la prima volta che si predispone una simil-cassa integrazione anche per lavoratori precari (certo, Conte, che figura! Così vede ad aver cassato Boeri ed averci messo Tridico).
Una pagina WEB di news mi dà un’idea per la doccia: «Un paio di ramoscelli di eucalipto legati con dello spago dove poggia il sifone per la doccia, ci regaleranno un momento di vero relax e ci aiuteranno a prevenire numerosi malanni!». Sì, eucalipto, e qui dove vado a raccattarlo? Mica siamo in Etiopia.
Vabbè mi farò una doccia normale, con lo shampoo, come cantava Gaber

«Una brutta giornata
chiuso in casa a pensare
una vita sprecata
non c’è niente da fare
non c’è via di scampo
mah, quasi quasi mi faccio uno shampoo»

Mauro Santini: di tutto il trucco, solo una lacrima

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in collaborazione con La Camera Ardente

 

 

Incrinare la sistemazione dello sguardo, ma come chi non se ne accorge. Farlo magari passeggiando, con sottilissima furia d’anfratto, oppure con trasognata, “neghittosa” indolenza (lo insegna Walser). Porgere cerniera tra tremore e tremore. Coltivare guizzi vegetali per tramutarli nell’involucro di un nuovo cinema. Venire incontro a un volteggio di tempo. Raccoglierlo nella stessa lente dove frena il bacio della mano che la copre. Vedere con la mano, con le mani: lasciarle andare attraverso. Mostrare il mondo ancora sconcluso. Mostrare il mondo organismo senziente: questo nostro senziente battere un colpo per sentire se le cose attorno rispondono. Concepire solo il leggerissimo spostarsi delle cose, cioè vederne la commozione, che è anche parabola: «per istaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza o quest’arboscello o quella pietra, e cosi tutto quanto».  Stare alle stelle come rasoterra.  Progettare un levarsi di passi accordati con la neve. Seguire l’intreccio delle rondini. Annodare le palpebre alla lacrima. Riversare il non manifesto, l’arrotolato. Dare l’oscurità, perché trattenga limpidezza. Non rimettere i debiti che si dovranno scontare con l’invisibile. Dire soltanto che vi è ancora dell’invisibile.

Questo, per me, il cinema di Mauro Santini.

 

A distanza di due anni, ripropongo qui una conversazione che abbiamo avuto all’inizio del progetto Le passeggiate, accompagnata da una mia riflessione (a chiusura).

 

 

Ciao Mauro. Vorrei iniziare questa conversazione da un tuo precedente rifiuto, da una tua ritrosia a prendere parte a questa serie di ritratti. Perché tradire ora questo silenzio?

Il motivo per cui ho accettato la tua proposta, a distanza di un anno, è perché ora so che in questa conversazione parleremo dei miei lavori del decennio precedente solo come una traccia o come un indizio per parlare di altro, di questo “altro” che sono i miei nuovi film e cioè “Qualcosa nei passi e nello sguardo” (che va a concludere una ipotetica trilogia sulle vacanze iniziata con “Attesa di un’estate” e “Fine d’agosto”) e gli altri due progetti ancora in itinere: “Le passeggiate” e “Vaghe Stelle”. Per tornare a dialogare sul mio lavoro era necessario che il mio sguardo elaborasse un’evoluzione rispetto ai “videodiari” ed ora che è avvenuta, o che comunque sta avvenendo, eccomi qua…

Una delle questioni che abbiamo già avuto modo di discutere insieme è congiunta alle modalità di presentazione di questi lavori, che tu stesso continui a definire come minuti, “piccoli film” (c’è, in questo attributo, non tanto una dichiarazione di distanza dal gigantismo straparlato di certe opere sperimentali, ma piuttosto un tentativo di custodia di quella dimensione taciuta della realtà dove spesso il tuo sguardo si trova ad indugiare). Ti chiedo: c’è vita fuori dai festival?

La mia generazione si è formata, se così posso dire, anche attraverso la dimensione dei festival, luoghi nei quali crescere e coltivare la propria idea di cinema, per ritornarvi poi come autori con i propri film. È dunque innegabile l’affetto nei confronti delle tante rassegne cui ho preso parte in questi anni. La domanda che oggi potremmo porre è: c’è ancora spazio per questo tipo di “piccole” opere nei festival più o meno grandi? Da alcune difficoltà riscontrate negli ultimi anni risponderei con un certo pessimismo; una riflessione autocritica mi porta però a chiedermi se non sia invece stato io incapace di fare il salto verso quel cinema considerato “maggiore” e ospitato nelle rassegne a cui facevi riferimento (o se abbia volutamente evitato di farlo…). Certo è che il cinema fragile e non narrativo che pratico richiede una diversa attenzione, un grado maggiore di percezione e di ascolto: sono film che chiedono allo spettatore di specchiarsi nelle immagini e nei suoni, di interiorizzare sensazioni e memorie per arrivare a superare il mio biografico, facendo divenire “la mia famiglia, i miei ricordi” qualcosa di collettivo. Vivono della partecipazione emotiva e sono come “completati” da chi guarda: ecco allora che la condivisione in sala rende a volte il film diverso rispetto alla visione “in solitario” nel buio della propria abitazione.

 

 

Per quanto mi riguarda, una parte del problema è quello della concezione del film come opera chiusa, come compartimento stagno incapace di confrontarsi e di reagire, di volta in volta, agli spazi che si trova ad incontrare (l’idea stessa di “anteprima” andrebbe quanto meno ridiscussa). Forse la rete, a differenza dei festival, può essere uno strumento per affrontare la “geografia vivente” di un film…

Non ho alcuna preclusione alla diffusione dei film in spazi alternativi come la rete, che anzi può essere uno strumento importante per superare certe gerarchie rigide dei festival e che ritengo particolarmente adatta ad accogliere questi lavori che possiamo definire “minori” (anche se, ripeto, non ritengo sufficiente questa sola dimensione…). Rispetto poi alla concezione del film come opera chiusa sono d’accordo nel tentare di superarla, al punto che i due progetti in realizzazione sono concepiti proprio come lavori aperti: “Vaghe Stelle” è un film in sette movimenti (dal numero delle stelle che compongono l’Orsa Maggiore) che possono però essere proiettati anche singolarmente (come puoi ascoltare le canzoni di un album musicale) o addirittura mostrati insieme ma in un ordine di volta in volta diverso, modulato a piacimento da un curatore; “Le passeggiate” sono invece potenzialmente infinite, non avendo un numero prestabilito, e sarebbe bello se il gesto del passeggiare si tramutasse in qualcosa di fisico, in una carovana di proiezioni sparse per il mondo.

Tutto il mio cinema è poi un cinema di piccole epifanie dello sguardo che si trova a sorprendersi dei propri deragliamenti e per quanto io possa tentare di dare una struttura, la componente del caso è parte fondamentale del mio modo di girare.

 

 

 

Una delle indicazioni fondamentali del tuo cinema l’ho trovata quasi nascosta in “Qualcosa nei passi e nello sguardo”, dove con tenera austerità rimproveri Giacomo, tuo figlio (il film è girato nel 2004), esortandolo a fare silenzio per ascoltare i suoni dei Monti Sibillini. Quanto è importante per te questa dimensione dell’ascolto?

Quella sequenza che tu citi racconta molto del mio cinema, dell’attenzione che ripongo in ogni ripresa, perché è fondamentale raccontare con la maggiore intensità possibile quell’istante che sto cercando di restituire. Non c’è set né messa in scena, non c’è retake: ho sempre girato affidandomi a questa partecipazione totale e sincera al momento filmato. Luce naturale e camera a mano, capace di deviare ad ogni istante.

“Qualcosa nei passi e nello sguardo” è un film nel quale i passi e gli sguardi di un figlio e di un padre si sovrappongono ed incrociano e ad oggi mi sembra il mio film più sincero, quello dove metto in campo una visione indisciplinata, quella di Giacomo, che nonostante il mio continuo guidarlo dal fuoricampo (“riprendi il campanile, la montagna, fai stop…”) procede di testa propria, con la sua telecamera e con quella naturale individualità che un figlio ha rispetto al padre. E allora il film racconta proprio di questa distanza e di questa verità che il girato in qualche modo già custodiva in sé e che sono tornato a comprendere solo ora. Che poi questo sguardo quasi anarchico di Giacomo è a ben vedere il mio modo di intendere il cinema, nella sua totale libertà (non è un caso: sono autodidatta e non vengo da alcuna scuola di cinema, bensì da studi pittorici…). Forse il punto è che lo sguardo non si insegna? non so… Credo però che si possa svelare un metodo, un’attitudine: all’attesa, all’attenzione verso ciò che sta davanti a noi e che dovremmo reimparare a vedere ogni volta con occhi vergini. E all’ascolto: perché quando in questo caso dico a Giacomo di fare silenzio, sto in qualche modo sottolineando un altro aspetto importante, cioè che non mi è sufficiente registrare immagini, ma che l’atto della ripresa debba includere anche i suoni. In questa ricerca quasi ossessiva dell’eliminazione della menzogna, è importante che il suono appartenga integralmente alla verità di quel momento; ricrearlo in seguito sarebbe già finzione. Qualcuno potrebbe obiettare che il cinema è altro e non mi sentirei neppure di contraddirlo; ma ciò che a me interessa è testimoniare un vissuto, il tempo che ho passato e che passerò ancora su questa terra ed il suo fuggire via: forse è troppo poco, ma a me poco importa. Se non sentissi l’urgenza di restituire questa verità non farei cinema e tornerei probabilmente alla fotografia, o alla pittura dei miei vent’anni.

Mi piace poi l’idea che questo “frammento di vita trascorsa” chiuda quella trilogia de “Le  vacanze” di cui parlavo prima, dove la perdita materna di “Attesa di un’estate” e la ricerca paterna di “Fine d’agosto” incontrano questo passaggio di ruolo figlio/padre, nella sospensione della stagione estiva che qui diventa anche una stagione di sparizioni, di essere “vacanti”, appunto. Ma già mi sto intristendo…

 

 

Pure, questa solo apparente nitidezza viene tradita, nel tuo ultimo film (Prima passeggiata), da un aereo che taglia il cielo, proprio come una lacrima, un velo celeste che ridiscute i bordi del fotogramma: non nitidezza allora, ma velo di lacrime che trasfigurano il mondo?

Ecco, mi hai smascherato… [ride, n.d.r.] Sì, è proprio così: di tutto il trucco (i videodiari) rimane oggi solo la lacrima. E la trasfigurazione non è più esteriore, bensì rivolta verso l’interno.

[“Aspetta, ti mando un’immagine ripresa stamattina”, mi dice a questo punto Mauro]

Questa mattina sono uscito per una nuova “passeggiata”, tra la neve, sperando di registrare cose prive di interesse, come scrive Georges Perec. Ad un tratto ho notato questo merlo che cercava del cibo. Ho iniziato a riprenderlo, ma non avendo un obiettivo tele avevo la necessità di avvicinarmi. Naturalmente, più mi avvicinavo più lui si allontanava. Il racconto che avrei voluto fare della sua ricerca del cibo era subito diventato altro, ovvero il racconto della relazione tra me e lui, della nostra distanza, impossibile da colmare, fino al suo inevitabile volo. Non ho mai concepito i miei film sulla base di verità precostituite ed irremovibili, poiché per me la teoria è sempre la conseguenza di una ricerca pratica. In passato ho sperimentato il tele per avvicinarmi a cose e persone rimanendo a distanza, per cogliere quelle verità che la prossimità non mi avrebbe permesso di raccontare, perché non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine*. Oggi invece preferisco usare ottiche brevi e possibilmente fisse, che mi costringano ad un altro rapporto con l’ambiente: l’ottica dunque diventa strumento per stabilire una relazione, un dialogo (o un dialogo mancato, come nel caso del merlo…).

 

 

Luigi Ghirri, un pensatore di soglie che a tratti sento molto vicino a te, ha scritto dello sguardo come “un sentire etico, la modalità possibile per indagare e raccontare luoghi che sembravano avere perso ogni riconoscibilità.” Quanto, nel tuo cinema tutto abitato di sparizioni e di zone dal quale sporgersi sul mondo, è possibile avvertire questo sentire etico, questa possibilità di restituire allo sguardo una verità possibile su quei luoghi divenuti estranei? 

È tutto lì, in questo sentire etico, e nell’attivare un campo di attenzione diverso**. Che per me diviene anche un sentire empatico, aptico (come ha definito Nicole Brenez i Videodiari), quasi tattile. Amo molto lo sguardo di Ghirri, così come quello di Guido Guidi, il loro tentativo di ridare una dignità a luoghi divenuti anonimi ai più. E quando si riesce in questo, poi quell’immagine ‘raccolta’ va tutelata, protetta ad esempio da narrazioni capaci di comprometterla, perché la sua dignità riconquistata è sufficiente a sostenere il film. Ritornando al discorso da cui siamo partiti, ho quasi l’impressione che alcuni film debbano essere protetti da un eccesso di visibilità: fare questi piccoli film significa anche tornare a custodire certi gesti, serbarli, meditarli, registrarne la presenza.

 

 

Torniamo una volta ancora ai luoghi dove non siamo stati. Prendendo in prestito da Eric Pauwels (un autore che entrambi amiamo molto) uno dei suoi titoli, ti chiedo: quali sono i tuoi “film sognati”?

Sì, amo molto quel film come l’intera sua trilogia… Mi ha sempre affascinato lavorare su immagini girate da altri. Sto pensando allora di chiedere ad amici di inviarmi materiali girati in luoghi “dove non sono mai stato” e che magari non visiterò mai.

Un altro progetto è quello che sto rimandando ed elaborando da ormai quasi dieci anni: già “Dove non siamo stati” ne era testimone, con la figura assente di Corso Salani e la sua voce che vagava su terre di confine e di migranti, tra la Francia e la Liguria (o sulla costa adriatica ed il suo confine slavo, altra ipotesi di location). Un film che mi porti ad una riflessione nuova, diventando straniero a me stesso e battendo un sentiero che mi porterebbe a riappropriarmi della parola, non più solo taciuta ma anche parlata.

 

prima passeggiata : trailer from mauro santini on Vimeo.

 

 

[Qualche ora dopo la nostra conversazione, torno a visitare la “Prima Passeggiata di Mauro, opera chiusa nella sua nitidezza digitale fino a che un aereo non piange (e non più solo taglia) il cielo nella sua obliquità di lacrima: neanche più come divagazione celeste, ma come profondità di superficie, come modo di guardare attraverso il velo degli occhi e negli occhi, facendo così del bordo fertile il luogo eletto del (suo) cinema da dove le immagini dipartono -limo e limite dello sguardo-, e insieme destituendo la cornice come demarcazione tra campo e fuori campo, come separazione netta tra film e vita.

Il cinema continua allora a respirare nello splendore breve di questa cecità che per vedere non ha più bisogno soltanto di pupille tagliate di luna, ma di lacrime come destinazione dello sguardo: “Ora, se le lacrime vengono agli occhi, se dunque possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso di questa stessa esperienza, un’essenza dell’occhio. (…) In fondo, in fondo all’occhio, questo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere. Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio.***” Il proprio del cinema?]

 

NOTE

*Roland Barthes, La Camera Chiara.

**Luigi Ghirri, Lezioni di Fotografia.

***Jacques Derrida, Memorie di cieco (l’autoritratto e altre rovine)

 

Come carta di riso: dalla vitalità all’incanto di Alessandra Montesanto

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di Giuseppe Acconcia

Come carta di riso (Oedipus, 2019, pp. 57, 12 euro) è il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Alessandra Montesanto. Militante e fondatrice dell’Associazione per i diritti umani, Alessandra insegna Cinema e linguaggio dei Media a Milano. Nella prefazione a cura di Amin Wahidi si richiama la necessità del testo poetico. Il poeta, come un mistico sufi alla Rumi, riesce a ritmare le parole come fossero musica. E facendolo riesce a cogliere le profonde disuguaglianze che colpiscono la nostra quotidianità suscitando la necessità di ribellione e protesta che si ritrova nei versi di Alessandra Montesanto. Monica Zanon nella sua postfazione spiega poi che la carta di riso del titolo è un filtro che accoglie gioie e dolori e li trasforma in una trama. Le poesie di Alessandra Montesanto sono così dedicate all’amore per le persone e per la natura, come fiori e fibre che sciolgono i pensieri dell’autrice dai legami della quotidianità e li trasformano in poesia.

E così il grande pregio di questa raccolta è di unire alla contestazione l’armonia e l’incanto che spesso mancano nell’impeto dei movimenti. Per questo i versi di Alessandra trasmettono grande vitalità, come in E sempre indomita vorrò saperti: la poesia che apre la raccolta e forse la rappresenta più di ogni altra. Si legge nel testo: Scotterà la terra/vento verrà a scompigliarti/vibrerà il tuo corpo e così sarà la forza a sorreggere i tuoi sogni. Vitalità che traspare anche dai giochi per le strade e dal “bagno nei mari di luna” di Gentilezza. Non mancano neppure i richiami all’infanzia e alla vita familiare con uno scambio continuo di ruolo tra madre e figlia, come in Amazzone e Figlia e madre, che però culmina non inaspettatamente nella quiete. E Le tue mani in cui l’amore sconfinato di un genitore si trasmette attraverso il palmo delle mani, il vero privilegio di una figlia che può stringerle. L’altro tema caro all’autrice è il riferimento al groviglio di pensieri se in Rete tutti i pensieri/si incrociano/come ragnatele in Pensieri, Alessandra Montesanto avvolge le dita/intorno/ai pensieri che diventano Matassa per cui l’autrice vorrebbe farsi piccola, piccola/e sgattaiolare/dalla matassa/ingarbugliata/di pensieri/e aspettative.

La militanza dell’autrice si evidenzia soprattutto in tre testi: Insorgiamo, Noi, donne e Requiem per i migranti. Nella prima poesia Alessandra Montesanto vorrebbe che tutti gettassimo il cuore in faccia ai prepotenti e non importa se così facendo ci pestiamo i piedi perché in questo modo grideremmo amore a chi incatena libertà. In Noi, donne, l’autrice vorrebbe vendicarsi di chi ha silenziato il grido di tante donne ma anche qui il riscatto è possibile nutrendo la terra per concepire il nuovo. Mentre Requiem per i migranti è una preghiera per chi ha riposto “in noi la sua anima”. Questa continua ricerca tanto può franare (terra friabile mi scappa dalle dita) tanto può sfociare in un ritorno (ritorno a me stessa). E così la vitalità si trasforma in incanto, come in Meraviglia: Sospendo/il respiro/e/resto/nell’incanto/dell’istante.

L’ultimo dipinto che ho visto con la pandemia già in atto, ma non ancora dichiarata

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di Paolo Morelli

Il nostro viaggio non è ancora finito, eppure oggi abbiamo incontrato la madre. È un’icona dell’anno Milleedue circa che Barbarossa regalò al duomo di Spoleto e qui sta tuttora. Gliel’ha regalata per consolazione, dopo che aveva bruciato tutto in seguito al pagamento di una tassa con moneta falsa. Incastrata nell’argento pacchiano è apparsa come una spiegazione ipnotica dell’impossibilità per l’arte di legarsi al concetto di evoluzione, a una sequenza bellamente spiegata col senno di poi.
L’icona è piccolissima, dipinta su stoffa in un rettangolo 25 x 35, forse. Il soggetto è la grande madre, nella postura codificata chiamata heghiosoritissa, cioè colta nel momento del dialogo dolente col figlio in croce che non c’è. Mano tesa e braccio, sicuramente il sinistro, sono infatti rivolti in alto, e sotto di essi scorre nel cartiglio il dialogo greco:
“Che domandi o madre?”
“La salvezza degli uomini”
“Mi provocano con la loro durezza di cuore”
“Compatisci, figlio mio”
“Ma non si ravvedono”
“E tu salvali per compassione”.
Infine una dedica a noi incomprensibile: “Irene a Pietro Lifena”.
Ma è la figura a colpire nel segno, a mostrare ciò che non si può spiegare ma solo ribadire. Perché, pur nella sfinitezza del volto e del collo, pure nella luminatura di luce del volto, pure insomma se vi si riconoscono tutti i tratti ieratici del codice figurativo bizantino (tranne le macchie sulle gote), il volto, paludato di nero e colorato di quel verde dolente che ritroveremo sul Cristo di molte immagini italiane è di una bellezza e soavità di tratto che restano per sempre, insuperati da alcun raffinamento di tecniche o progressi o liberazioni dell’umano sentire, cosiddetto.
La linea forte delle ciglia, la serenità dello sguardo, il naso allungato ombreggiato e sottile, la piccola bocca di fervido rosso: è un’apparizione lirica addirittura, forte e soave insieme, pochi tratti e pochi colori in un triangolo di visione che appare dal buio dell’abito, il quale a sua volta si circonda di una aureola a puntini rossi e blu o neri, ed è perduto nello sfondo oro. Perché lo sfondo deve abbacinare arrivando e poi scomparire, e l’attenzione deve cercare il viso della figura, lì fissarsi e trascendere.
Quello che fa di questa icona la fonte, la ragione e il disvelamento di questo viaggio alla ricerca della fissazione medievale, della miriade di occhi fissi nel vuoto o meglio sbigottiti, è che essa mostra semplicemente o meglio ancora ribadisce che ogni artista usa ciò che gli viene tramandato come materiale ispirativo e le tecniche, idee e visioni del mondo cosiddette sono niente più che contingenza e incombenza, e nulla decidono dell’espressione.
Ma questa giornata che di fatto ha spiegato il nostro viaggio era cominciata con Giunta Pisano, con l’eleganza sobria e intuitiva di quella che è forse la prima fra le sue croci documentate (in santa Maria degli Angioli, sotto Assisi). E come una tappa fatta camminando a ritroso nel tempo avevamo ammirato il mosaico eseguito qualche anno prima sullo stesso Duomo di Spoleto (1217), e ancora indietro di trent’anni fino ad Alberto Sotio e al suo Cristo trionfante di pergamena incollata su tavola. Poi, uscendo dalla cattedrale a piccoli passi, un’altra suggestione: la scrittura autografa di Francesco, colta fitta elegante, su un foglio grande come quello di un notes. È una lettera a fratello Leone, gli parla “come una madre”, riassume “tutte le parole che ci siamo scambiati per strada”.
E poi ancora indietro il nostro itinerario di croci, quando Cristo trionfava, spiegato, isolato in un mondo piatto e d’oro, con la testa grande, gli occhi spalancati, severi, talvolta truci. La sua apparizione, rigida e talmente codificata non lasciava spazio a distrazioni di sorta, bisognava inginocchiarsi e fissarsi, abbandonare ogni volontà sperando nell’estasi, nell’unione con il gran Dio.
Poi l’icona passò in mano a Giunta, Cimabue, al maestro di san Francesco e infine la figura si disperse in Giotto. Da simbolo trionfante Cristo chiude quegli occhi sbigottiti, muore e si fa uomo, si riappropria col dolore tutto umano del mondo, dello spazio e del tempo, della conoscenza e del progresso.
Cristo si fece uomo come si dice, e l’uomo scoprì attorno a sé lo spazio, si liberò dall’univoco rapporto con la trascendenza, entrò nella Storia, rinnovando la sua condanna. Fu liberazione necessaria, o contingente. L’uomo si confrontò con lo spazio e grandi cattedrali di idee erano pronte a ricordargli il privilegio assurdo e micidiale di dominare la natura. Col tempo l’artista dimenticò lo scambio possibile e anzi richiesto con i decreti del cosmo e poi necessariamente, dopo il Rinascimento, si compì lo scollamento fra arte e morale, tra poetica ed etica, nonché l’abbandono dell’unità remota e profonda che era il poco cibo, il sostentamento e ragion d’essere dell’arte medievale.
E con lo spazio che si apre dalla piattezza della tavola anche l’immobilità, l’astrattezza temporale si mettono in moto e si comincia a conoscere per disposizione di sequenze progressive. Con la prospettiva aumenta in fin dei conti l’illusione, o meglio la licenza dell’illusione.
È vero: tutto era piatto e sospeso nell’arte ieratica bizantina, l’atmosfera era deprimente, la separazione tra spirito e corpo totale e inequivocabile, ma in quel plumbeo azzeramento personale l’artista possedeva un ruolo fondamentale come tramite con l’aldilà, con il compito o il privilegio insigne di conservare con cura il mistero dello sconosciuto. Dopo, dallo stato di grazia si passa allo stato d’animo.
Cos’è il progresso? La storia dell’umanità si può leggere soltanto come un seriale o senile percorso in avanti oppure ogni epoca, ogni artista ad esempio, si fa tutta la strada, dagli albori animaleschi alla catastrofe, alla distruzione finale? Nell’arte il progresso di certo è niente altro che un’illusione ottica come la linea dell’orizzonte, il suo linguaggio non si evolve mai, l’evoluzione del linguaggio è un’altra illusione, come la forma.
Come se non bastasse, scrivo queste considerazioni ovvie allo scrittoio di una stanza che sta sul retro di un’altra di quello che era una volta l’Albergo della Posta, stanza quella dove per due volte di un giorno soggiornò Leopardi, nel 1817 e 1823. Scrivo sul retro di Leopardi.

(Spoleto 15 febbraio 2020)

 

 

Testimoni involontari del tempo

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Il 6 marzo 2020 ancora non mi rendevo conto di quanto le nostre vite sarebbero cambiate per colpa della pandemia Covid-19. Ma forse sospettavo qualcosa, annusavo l’odore di bruciato. Altrimenti non saprei spiegarmi la mail che inviai a un gruppo di scrittrici e scrittori per chiedere loro come stavano vivendo la situazione, come erano cambiati i loro giorni e le loro scritture. Cercavo – lo ammetto – un poco di compagnia nelle parole degli autori, e l’intelligenza e la comprensione dei fatti che avrebbero potuto offrire. Avevo intenzione di pubblicare le risposte su Rassegna.it, un sito letto da attivisti sindacali e lavoratori. Volevo accostare mondi che non sempre si parlano. È così è andata. Ho ricevuto, fino al 30 marzo, diciassette risposte, documenti del cambiamento, anche, nel corso di questo mese alle spalle, dell’accelerazione delle clausure, della pandemia, della paura. Adesso che l’iniziativa è più o meno conclusa, non è terminata però la stagione precaria che pure guarda a un futuro incerto. Mi sono fatto l’idea che, delle tante manifestazioni di scrittura digitale e web che ci coinvolgono, Nazione Indiana sia probabilmente quella su cui è più sensato lasciare una traccia ulteriore. Forse perché sta qui da tanti anni, e nonostante tutto c’è ancora. Ecco i testi ricevuti: documento a memoria, piccola testimonianza di quello che ci è capitato. Li inserisco nell’ordine di pubblicazione su Rassegna, ma di alcuni aggiungo la data in cui sono stati inviati, nel caso sia risultata troppo lontana rispetto a quella di uscita.

Allego anche una versione pdf e una versione epub, per maggiore comodità di lettura. D.O.

 

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Francesco Targhetta

Lisa Ginzburg

Gianni Biondillo

Alessandra Sarchi

Francesco Pecoraro

Vanni Santoni

Igiaba Scego

Giorgio Falco

Helena Janeczek

Alessandro Gazoia

Luciano Funetta

Angelo Ferracuti

Rossella Milone

Filippo Tuena

Andrea Gentile

Stefano Valenti

Simona Baldanzi

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Francesco Targhetta10 marzo 2020

Come insegnante in una scuola di Treviso, non vado a scuola dal 22 febbraio e non ci tornerò presto. Appena è diventato chiaro che la sospensione delle lezioni non sarebbe stata breve, mi sono informato su quale fosse lo strumento più comodo per tenere video-lezioni, ci ho un po’ familiarizzato e ho iniziato a usarlo con i miei studenti.

La condivisione di uno spazio virtuale è ben altra cosa rispetto a quella di un’aula, ma tocca accontentarsi: attraverso la chat i ragazzi mi fanno domande e rispondono alle mie sollecitazioni, ogni tanto aprono il microfono e ci parliamo, e così proviamo a surrogare l’insostituibile dialogo che si ha in aula. Mi sembra il male minore, l’unico vero modo per non lasciarli soli. Alla fine della prima video-lezione uno studente, per scherzo, mi ha chiesto: “prof, appena suona la campanella posso andare in bagno?”. Non lo ammetterebbero mai: ma a loro la scuola manca, e anche a me.

Molti mi dicono: approfittane per scrivere. Ma non ci riesco; al di là del fatto che il progetto che ho in cantiere è ancora in una fase troppo embrionale, avverto come un ronzio costante di fondo che mi rende difficile focalizzarmi su alcunché. Più concentrato è il posto in cui devo stare, meno concentrato riesco a essere.

Leggo moltissimo, ho fatto lunghe passeggiate con gli amici finché ho potuto, chiacchiero al telefono e scrivo mail su mail. E penso di essere fortunato, pur vivendo ora in una zona rossa, perché continuo ad avere uno stipendio regolare e non perderò il mio lavoro. Eppure ho la sgradevole sensazione di qualcosa che scivola via, oltre che l’impressione, impalpabile ma dilagata ovunque, che questo avvertimento della nostra infinita piccolezza e precarietà si sia radicato così profondamente che sarà difficile tornare a fare le cose come prima.

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Lisa Ginzburg11 marzo 2020

Attraverso questo strano e non facile momento a Parigi, dove abito, e dove l’allerta Coronavirus non ha assunto la forma di particolari cambiamenti di usi e costumi del vivere comune. Chissà per quanto ancora ma – se pure nettamente meno del solito –  strade, caffè, autobus e metropolitane sono affollati. Non che l’ansia per l’epidemia non galoppi tutt’intorno; però mancano segni tangibili, tracce di radicali nuovi assetti che possano amplificare l’angoscia dei pensieri. Visioni trasformate che mi facciano sentire preoccupata più di quanto già non sia. Lo stesso l’ansia aleggia, abita dentro; da dieci giorni (o più? ho perso il conto, il tempo s’è come dilatato) il mio guardare la realtà è più che mai scisso, strabico, un occhio puntato fisso all’Italia – anche al mondo, certo, però all’Italia soprattutto – l’altro alla vita, occhio vigile sulla mia e quella di chi amo.

La vita prima di questo deflagrare – di un’epidemia, ma anche di molto altro. Il diverso rapporto con il futuro è la trasformazione più spiazzante. Faccio parte di quella vasta categoria di persone che sono solite vivere pianificando, trovando senso e rassicurazione in un monitoraggio continuo del loro tempo, organizzato secondo scansioni, orizzonti di date ed eventi a venire. Giorni e appuntamenti collocati nel futuro, prossimo o lontano, cui sono solita abbrancarmi come a protesi di me, e che invece improvvisamente o si vanificano, o diventano labili, immersi in una nebbia di possibilità che contiene nella sua bruma una buona dose di incertezza.

Il proprio avvenire come ipotesi: un paradigma nuovo, che dilata il presente, illumina il passato, mentre su quel che accadrà “dopo” mantiene un riserbo molto preoccupato. Non è caos quello generato da questo scomporsi delle certezze temporali: piuttosto direi uno smarrimento sconsolato e mite, un sussulto di vulnerabilità, atterrito, senza parole. Epifania muta di uno scoprirsi privi di strumenti per decifrare, la realtà così come se stessi. Per chi scrive, per quanti di noi lavorano con le parole, condizione destabilizzante anche da un punto di vista professionale, e perciò sentita come onnipervasiva, che schiaccia.

Il secondo pensiero è rivolto al Sé. Prende forma in embrione in queste settimane, penso, un modo nuovo di concepire le proprie identità. Ci si sente con gli altri, con tutti. Posti di fronte alla medesima minaccia e perciò interconnessi, nonostante ogni separazione da contagio. Davanti a questo grande pericolo che ci riguarda come esseri umani, senza distinzioni, ogni interesse personale quantomeno cambia di valore. A occhio nudo ecco si mostra la vanità dell’essersi sentiti importanti, anche unici. Come un’espiazione: tante forme di narcisismo verranno azzerate da questa nube di contagio, mi viene da supporre. La mannaia di questa malattia terribile, insidiosa e misteriosa, agirà da Grande Livellatore… Fantasie apocalittiche, la cui intensità è misura del disorientamento. Conta moltissimo il lavoro.

Leggere, scrivere, stare in ascolto, pensare. Come non mai, impegnarsi è la vera barra del timone; però acquattati, lì anche senza poter prevedere niente. Quanto durerà questa paura? Quanto l’allarme di queste settimane, e i disagi, e gli effetti nella lunga durata trasformeranno i nostri modi di stare al mondo, di lavorare, di amare? Domande ampie, avvolte loro anche dalla bruma incerta di questi giorni molto tesi e cupi. Chissà. Allenarsi all’imprevedibile. Addomesticare l’angoscia cedendo a una duttilità del pensiero. Perché dopo questo forme nuove saranno quelle che useremo: per pensare il tempo, e gli altri, e noi stessi.

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Gianni Biondillo, 12 marzo 2020

Forse l’immagine dello scrittore solitario, nel chiuso delle sue stanza, che non fa altro che vergare pagine mentre fuori infuria la bufera, può piacere a qualche romantico d’accatto, ma è pura finzione. Scrivere non è un’attività solitaria. Lo è forse in un dato momento, ma c’è una vita, c’è un mondo da frequentare se si vuole scrivere. La settimana dello scrittore ha momenti schizofrenici. Certo, ci sono la solitudine, il raccoglimento, le ore passate davanti al computer. Ma ci sono anche i viaggi, gli incontri, le scuole, le conferenze. Ci sono le fiere, i saloni, le redazioni, le presentazioni dei libri, tuoi o di altri, nelle librerie, nei centri culturali, nelle scuole. Quando d’improvviso ti viene proibito tutto ciò senti come una ferita, un vuoto. Ti senti sbilanciato, asimmetrico. Per assurdo, proprio ora che in teoria ho più tempo per scrivere, scrivo di meno, con più difficoltà. Questo tempo “sospeso” è un tempo che non passa, che non si mette a frutto. Le scolaresche, i lettori, i colleghi, gli editori, la gente comune, quella che ti ferma per strada, il bar dove fai colazione, le mostre, i teatri, il cinema, sono il cibo quotidiano, la pasta da modellare, il muro da scalare, la materia prima, rigenerante per ogni scrittore. Nessun artista opera da solo, anche il più solitario.

Ma poi, ché di lavoro si parla, non di un ozioso passatempo, non di un hobby da farsi nel tempo libero, la ricaduta economica – per chi come me vive di parole, chi, insomma, non ha uno stipendio o una rendita assicurata – è disastrosa. Mi sono saltati incontri, conferenze, appuntamenti, convention programmati da mesi e che non potranno essere recuperati. Su alcune di queste, dove erano presenti rimborsi, fee, gettoni di presenza, avevo fatto affidamento per tamponare il mio magro bilancio familiare. Di libri, solo di libri, non si vive in Italia.

E, lo voglio dire, mi infastidisce sentire in televisione chi, cercando di sembrare simpatico o intelligente, se ne esce con dichiarazioni risibili. Cose tipo: “Be’, ora abbiamo il tempo per leggerci un buon libro”. Ché c’era bisogno della prospettiva di una pandemia per consigliarlo! Già prima di tutto ciò nessuno andava in una libreria, figuriamoci oggi. Tutto questo tempo sospeso non sarà utilizzato per leggere libri, siamo seri. In un tempo che non passa, in un tempo di pura attualità, il tempo lo passeremo consultando siti di notizie, facendo la conta dei morti e dei sopravvissuti, inebetendoci di fronte allo schermo televisivo, augurandoci nell’intimo la rissa. Per poi magari scrivere sui social che, male che vada, dobbiamo prenderci questo tempo “per aprire finalmente un buon libro”. Che non c’è nella maggior parte delle case degli italiani.

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Alessandra Sarchi13 marzo 2020

L’emergenza sanitaria creata dalla diffusione del Coronavirus, e le conseguenti restrizioni alla mobilità e alla socialità, cadono per me come prolungamento di un periodo non tanto diverso: da un anno e mezzo ormai per ragioni di salute passo parecchio tempo da sola. In attesa che le cose migliorino, in attesa che gli esami cui mi sottopongo periodicamente mi consentano di ritornare a fare questa o quella cosa. In molti mi dicono: be’ ne approfitterai per scrivere, in realtà non è così.

Scrivere, scrivo, ma senza quella ricchezza di spunti e di sollecitazioni che rendono necessaria quest’attività. La scrittura è già di per sé isolamento, ma un conto è isolarsi mentre si è nel mezzo di relazioni e stratificazioni che premono e chiedono e suggeriscono connessioni e rimandi, e scavano tunnel che dal presente vanno al passato, un conto è vivere isolati per forza, privati della possibilità di un confronto frequente; ci si inaridisce, io mi inaridisco. Si coltivano ossessioni, a volte diventano percorribili con l’immaginazione, a volte è meglio trattarle per quello che sono: spazzatura della psiche.

Non è che il mondo di storie e di fantasie che mi porto dentro sia venuto a mancare, però è come se si fosse rattrappito; se ne sta lì, come una ballerina senza pubblico, perché dovrebbe esibirsi? Perché dovrebbe prodursi in una fatica fisica la cui bellezza e perfezione formale non verranno apprezzate da alcuno?

Anche ai cultori di un ego intellettuale autonomo e autarchico credo sia chiaro, ora, quanto la vita della mente si nutra di relazioni. Quanto lo scrivere richieda una fiducia nel prossimo di un qualche tipo. Forse è una lezione salutare per noi tardivi figli di un Novecento che ci ha nutriti di individualismo e cinica relatività.

Mi manca il cinema e mi manca il teatro, mi manca il poterne parlare con gli amici con cui condivido questi momenti, mi mancano moltissimo biblioteche e musei. Esistono i dialoghi a distanza, le letture e tutto il resto. Esiste il web. E per fortuna esistono gli amici come Davide, che da lontano vengono a stanarti e in questo momento è la cosa che più assomiglia a un: raccontami.

L’unica ragione per cui abbia senso pensare di scrivere.

***

Francesco Pecoraro14 marzo 2020 (inviato il 7 marzo)

Per chi scrive e sta, metti, concentrato su qualcosa che lo interessa, un groppo di temi su cui riflettere, cose su cui documentarsi, quella del virus è soprattutto un’irruzione che si subisce a livello mentale, perché il dualismo ultimativo vita/morte spazza via tutti gli altri temi, rendendoli marginali. Le idee su cui stavo lavorando improvvisamente si sfarinano, il pezzo che stavo rifinendo diventa inutile, lo porto avanti per inerzia perché è quasi a posto, altrimenti lo abbandonerei.

L’auto-committenza, che caratterizza il lavoro di gran parte degli artisti contemporanei, è come se venisse meno. Con la mente occupata da pensieri ultimi e l’orecchio teso al flusso incessante dell’informazione sulla pandemia, con la città che si chiude e non ti chiama più a distrazione fruizione esplorazione, con gli incontri amicali che si diradano, è difficile assegnarsi dei compiti e tenere duro sull’auto-disciplina necessaria a questo lavoro.

Se mancano stimoli attenzione e nutrimento, semplicemente si smette di scrivere. Fortunatamente ancora ricevo una pensione che mi permette di vivere, ma in questi giorni sono solidale con quel titolare di una ditta di catering che racconta dei suoi ordini calati del 100%: gli “eventi” cui prestava i suoi servizi, diventando dannosi, hanno anche rivelato la loro marginalità.

Ci difendiamo amputando la vita associata. La cosa è come se si riflettesse nella mia testa. In questa fase la scrittura, da centrale che poteva parermi sino a due settimane fa, sta calando in uno stato secondario. Come tutti, mi domando se e quando questa strana vicenda collettiva finirà. E se, vista la mia età, ne uscirò vivo.

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Vanni Santoni15 marzo 2020 (inviato il 6 marzo)

Un fatto interessante, tra tanti drammatici, di questi giorni di pandemia, è l’accelerazione del tempo. All’apparenza, il tempo si direbbe rallentato: le ore, chiusi in casa, si fanno lunghe per tutti. In realtà, non ha mai smesso di accelerare: ogni giorno sappiamo qualcosa in più sul virus, vediamo come reagiscono i vari paesi, abbiamo una nuova posizione; le idee e le considerazioni del giorno prima diventano immediatamente obsolete; lo abbiamo visto accadere da noi, e poi, in una replica piuttosto grottesca, perché evitabile, di nuovo in Francia: prima lo sminuire, il paragonare il Coronavirus all’influenza, il dire che colpisce solo chi è già malato; poi l’aumento della preoccupazione, le misure che si fanno via via più serrate, l’ineludibile prenderlo molto sul serio da parte di tutti. Allo stesso modo, ogni giorno siamo diversi noi, perché prendiamo le misure al nostro isolamento, alle nostre reazioni a esso e a quelle di chi ci è vicino.

Il contributo che segue, chiestomi da Davide Orecchio, è stato scritto dieci giorni fa. Oggi, vedendo che non era ancora uscito, avevo pensato di riscriverlo, dato che in dieci giorni è cambiato tutto; poi ho ritenuto più interessante lasciarlo così com’è, aggiungendo solo questa piccola introduzione, così che rimanesse a testimonianza di quanto velocemente cambino le cose durante un’emergenza del genere. Al lettore il compito di immaginare le molte, troppe cose che potrei aggiungere dopo così poco tempo.

[scritto a Bastia il 6 marzo 2020]

Per carattere – mia madre, da ragazzino, mi diceva sempre che ero “incosciente” – mi viene molto difficile spaventarmi o allarmarmi, così all’inizio della pandemia non ho cambiato minimamente le mie abitudini, che del resto non sono molto mondane essendo del tutto calibrate sul mio lavoro: mi alzo tardi, pranzo presto, vado in biblioteca a scrivere, torno a casa per leggere (e cenare, pure, presto); mi sposto in un caffè per scrivere fino a notte inoltrata, torno a casa a leggere, dormo.

L’unico cambiamento, quindi, che ho notato nei primi giorni del Coronavirus, è stato il progressivo calo delle presenze nella biblioteca (e nei bar) in cui sono solito andare, finché verso metà febbraio non mi sono ritrovato da solo nell’intera sala lettura. Cosa che mi ha fatto piacere, così come sul momento mi ha fatto piacere vedere Firenze libera dalla morsa turistica che ogni giorno la soffoca.

Quando le cose hanno cominciato a farsi più serie, e a condizionarmi contro la mia volontà – biblioteche chiuse, caffè che chiudevano prima per assenza di clientela – mi trovavo a Bastia, in Corsica, dove lavora in questo momento la mia fidanzata (all’arrivo del traghetto siamo stati accolti dalla stampa, alla quale in un francese mediocre ma spavaldo ho detto che era tutto solo una grande paranoia!), e qui mi sono trattenuto visto che nel frattempo sono saltati o sono stati rimandati tutti gli eventi a cui avrei dovuto partecipare: prima il festival “I Boreali” a Milano (annullato), poi la nuova fiera del libro “Testo” di Firenze (rimandata a giugno), poi il corso di scrittura che dovevo tenere alla Fondazione Altiero Spinelli sempre a Milano (rimandato a data da destinarsi), e ancora “LibriCome” a Roma (annullata); è di queste ore il rinvio di “Book Pride”, altra manifestazione milanese, che pure avrebbe dovuto tenersi a metà aprile, in una data quindi piuttosto lontana.

A questo punto, anche considerando l’ultimo dato AIE che parla di un calo delle vendite di libri attorno al 50%, ho cominciato a preoccuparmi un pochino, dato che, comunque, la barca sta a galla anche grazie a questo fitto calendario di eventi di grande qualità, indispensabile per tenere aggregato lo zoccolo dei lettori forti e fortissimi, oltre che noi addetti ai lavori.

E ovviamente ho cominciato a preoccuparmi per tutti gli amici precari che cominciavano a rischiare il lavoro, anche fuori dall’editoria: quanta gente, a Firenze, lavora nelle università americane con contratti semestrali? Quanta è precaria nella scuola? Quanta lavora a partita Iva in giro per l’Italia?

Insomma, con l’allungarsi del periodo di allarme, c’era poco da fare i gradassi: che uno avesse paura o meno del virus, questo cominciava ad avere effetti reali sulla vita delle persone, mettendo in luce la perversità del sistema tardo-capitalista in cui ci ritroviamo.

Ho la fortuna di scrivere sui giornali, che non hanno fermato le loro attività, e ho avuto la fortuna di non avere libri fuori in questo momento: il mio ultimo romanzo è uscito un anno fa e sono fuori dalla fase di promozione, mentre il prossimo è in mezzo al guado e quindi farei vita monastica comunque. È vero che ho un pamphlet in uscita ad aprile, ma essendo un piccolo libro sulla scrittura e sul suo (non) insegnamento, ha un pubblico specifico – gli aspiranti autori – e quindi non lo avrei portato molto in giro… Si dice sempre che le presentazioni servono a poco, ma non è vero: nel momento in cui un libro è in fase di lancio, concorrono, assieme alle recensioni, alla presenza sui social e al resto, a creare attorno al libro quell’aura di attenzione che poi è decisiva nel determinarne il successo. La singola presentazione, come la singola recensione, non cambia niente, ma tutte assieme sono fondamentali (specie quelle alle manifestazioni frequentate dai lettori più attenti) per innescare, se le cose vanno bene, la famosa “massa critica”, e capisco quindi lo stato d’animo esasperato di chi ha avuto un libro in uscita a febbraio o adesso a marzo, normalmente mesi eccellenti per arrivare in libreria.

Adesso la mia preoccupazione è per l’intero comparto, che sembra accusare la crisi da pandemia più di altri, ma più in generale per tutti coloro che rischiano il lavoro, nell’editoria come altrove. Cerchiamo di reggere il colpo, e speriamo che almeno tutto questo serva a tenere a mente quanto è importante la sanità pubblica e quanto fa schifo l’erosione dei diritti dei lavoratori.

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Igiaba Scego15 marzo 2020

Caro Davide, mi mancano le parole. È strano da dire visto che facciamo le scrittrici e gli scrittori con vocazione quasi monastica. Ma è la verità, mi mancano tutte le parole per descrivere questo caos. Il coronavirus me le sta togliendo una ad una. Come tutti sto vivendo questa esperienza di vivere sigillata, come se fossi in una scatola di sardine dove l’unica sardina sei tu, che nuoti e provi a tenerti a galla in quel mare di olio nonostante tutto. Siamo topi in trappola. E stiamo provando ora sulla nostra pelle quello che molti uomini e donne del Sud Globale provano quotidianamente. Io ho sempre ragionato del viaggio, quello possibile e quello negato. Sono sempre stata conscia di essere parte di una bolla di privilegio pazzesca, bolla che mi ha permesso nel tempo di fare viaggi transoceanici in pochi giorni. Ed è questo privilegio di viaggio che mi ha sempre mosso alla difesa di chi invece veniva privato della mobilità, a volte persone con la mia stessa faccia, con il mio stesso colore scuro di pelle, che hanno dovuto attraversare il deserto e la ferocia dei trafficanti solo per poter fare un passo.

L’anno scorso l’ho capito come non mai quanto il passaporto europeo che portavo in tasca fosse una chiave che apriva magicamente i confini. Infatti è l’anno scorso che ho fatto la pazzia di attraversare tre volte l’Atlantico, per andare due volte negli Stati Uniti e una volta in Brasile. Controlli standard e poi via alla conquista di quei territori che in fondo fino a ieri consideravo quasi dietro l’angolo. Ma niente è dietro l’angolo. Il privilegio di avere un passaporto forte si è scontrato oggi con un virus che assomiglia ad una cabarettista degli anni ’20 e che ha la caratteristica di colpirti dove non te lo aspetti. E questo virus ci ha calato come non mai nell’esperienza reale delle persone che il mainstream chiama migranti e che in condizioni di viaggio normale, legale e possibili, sarebbero stati solo viaggiatori.

Capisco nell’intimo, nel dolore di questa stasi causata da condizioni straordinarie, che il diritto alla mobilità dovrebbe essere concesso a tutti. Ma nel mondo nuovo (perché volente o nolente sarà nuovo) che verrà capiremo secondo te la lezione del virus? O continueremo a costruire muri e frontiere? Ora la frontiera me la sento addosso. Io che ho la famiglia quasi tutta fuori dall’Italia, mi sento separata da loro come non mai. E questo sta succedendo a tante amiche/amici che hanno i figli in qualche altro paese, italiani emigranti con una laurea al posto della valigia di cartone. Sono preoccupata per loro, per la mia famiglia che vive altrove, e se succede qualcosa? La consapevolezza che questa volta non ci sarà un volo Ryanair per raggiungerli mi annienta.

In questo il virus ci ha fatto vedere come sarebbe brutto vivere nel mondo sognato dai sovranisti, un mondo sigillato, chiuso, dove l’assenza della relazione umana è l’imperativo categorico. Da poco stiamo sperimentando questo paradiso sovranista e già ci da la nausea. Ed è così odioso non poter più fare nulla di quello che ci piaceva, nemmeno il caffè al bar che come sai fa sempre molto made in Italy.

Il virus è un dittatore, lo ha definito tale il virologo Burioni. Ed è così. Costringe i nostri governi (dico nostri perché finalmente alla lungimiranza del governo italiano se ne stanno aggiungendo altri) a diramare decreti che mai avrebbero voluto firmare. Ma è anche un virus comunista, mi ha detto Simone Paulino editrice della brasiliana Nos, un virus che sconquassa con la sua invisibilità il mondo del capitale, mettendo a nudo le catene dello sfruttamento e le idee malsane per la società che sono dietro ad alcuni leader di organi sovrazionali. E’ il virus, con la sua pericolosità, che ci mostra con chiarezza le diseguaglianze sociali, i posti letto tagliati in ospedale per profitto, le carceri sfinite da troppe politiche sbagliate.

Io però, caro Davide, lo confesso non so dirti se questo virus sia comunista, fascista, qualunquista… probabilmente è solo un virus ecologista perché mette a nudo la sbagliata relazione di noi esseri umani con il pianeta. Non so che virus sia. So però che, dopo, le nostre piccole vite non saranno più le stesse. Qualcuno la vita non ce l’avrà più e chi sopravvivrà, dovrà fare i conti con le paure di un dopo che non sappiamo ancora che forma avrà. Niente sarà davvero più lo stesso per nessuno, nemmeno la vita dei paesi sarà più la stessa, con una Cina in gran sfoggio pronta a un suo personale (e meritato direi) rinascimento e con gli Stati Uniti malandati quanto i suoi candidati in corsa alla poltrona di presidente.

Vorrei dirti di più, ma ho perso le parole. Anche se ora tu le vedi, le leggi, sono ancora troppo impalpabili come il virus, ancora troppo spaventate. Un giorno torneranno tutte con la lucidità necessaria. Torneranno le parole giuste e ci guideranno verso nuovi orizzonti.  Credo che però per poter scrivere di quello che ci sta succedendo, della paralisi, delle paure, dell’angoscia, ci vorrà tempo. Molto tempo. Per ora ho deciso di aprire dei libri, leggerli, ho bisogno delle parole degli altri oggi più che mai, per mettere a fuoco, per non perdere l’equilibrio, per esistere, per resistere. Solo guardando alle esperienze del passato o anche solo dell’altro ieri potrò/potremo capire come sarà il mondo che verrà.

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Giorgio Falco16 marzo 2020 (inviato l’8 marzo)

Prima del coronavirus uscivo poco, adesso esco ancor meno e sono autorizzato dal decreto. Certo, ho dovuto annullare o rinviare alcuni piccoli impegni lavorativi; avrò ulteriori incertezze economiche, ma il mio unico lavoro lo svolgo a casa, scrivendo libri. Di solito non sono invitato a festival, saloni e altre situazioni del genere.

Per me è tutto come prima. Beh, quasi. Voglio dire, da alcune settimane fatico a mantenere la concentrazione mentre scrivo e leggo. Di sicuro è aumentata l’ansia; a ogni fine giornata non guardo più le previsioni meteo e le temperature delle varie città del pianeta; adesso guardo il numero dei contagiati e il numero dei morti da coronavirus, in Italia e nel mondo; poi faccio il conteggio dei morti in Italia e in Lombardia, uso la calcolatrice, poiché nessuno ripete più la percentuale del 2%, il valore ipotizzato durante i primi giorni. Oggi la percentuale dei decessi è stata vicino al 5%, ieri era al 4,5%, l’altro ieri era al 4%.

Cerco di difendermi ingenuamente, confidando nei numeri, e nel fatto che questo virus sia l’unico portatore di malattia e dolore e morte. All’inizio ho pensato di rifugiarmi nella casa disabitata di un parente, sulla costa adriatica ferrarese, in un luogo quasi disabitato. Ma poiché da molti giorni ho tosse e mal di gola (l’ennesima ricaduta dell’influenza, credo, e spero), a volte temo che sia il coronavirus in una forma blanda, e allora ho preferito rimanere a casa.

Da molti anni ho sperimentato su di me una piccola teoria, ovvero che la condizione migliore per guardare il mondo sia avere una febbriciattola, 36.9, al massimo 37.2, non di più. È la soglia per cui tutto appare in una forma leggermente diversa rispetto a quella abituale. È la soglia per cui possiamo togliere il velo appoggiato sulle cose, pur continuando a mentire.

Come diceva il mio allenatore dopo aver subìto il primo gol: ragazzi, tranquilli, non è successo niente, non è successo niente. Poi, se e quando arriverà proprio a noi la febbre alta, saremo comunque troppo deboli per sopportare la verità.

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Helena Janeczek16 marzo 2020 (inviato il 14 marzo)

È appena giunta la notizia che anche la Spagna, dove l’epidemia ha avuto un drammatico incremento, ha deciso delle misure simili a quelle italiane. Questo rafforza uno dei pensieri più angosciosi di questi giorni: il Covid corre più veloce dove ogni gesto introiettato contravviene alla regola di mantenere le distanze. Persino nel Lombardo-Veneto, avvezzo a considerarsi “il Nord”, è naturale fare grappolo, salutare con baci, abbracci, pacche e strette di mano, parlare vicino dall’interlocutore. Naturalmente ci sono altri elementi, ma l’idea che il contagio punisca la nostra maggiore socialità – socialità scelta o obbligata – mi risulta abbastanza insopportabile. L’ironia della sorte vuole che dal giorno del primo caso a Codogno, in vista di un tour in Germania poi cancellato dal galoppare degli eventi, mi fossi quasi messa in “autoquarantena”. Ma per quanto mi dispiaccia che la pandemia abbia colpito e abbattuto il lancio ben preparato della traduzione in tedesco di La ragazza con la Leica, in queste settimane non riesco a stare dentro i miei panni di scrittrice.

Sono stata presa a imparare delle regole contrarie alle mie abitudini e persino ai miei tic nervosi, io che metto spesso le mani nei capelli e pure in faccia. Questo mi ha fatto sentire esposta a una diffidenza verso me stessa, quasi appesa a un sottile filo di paranoia. Ora sono più serena e rodata, con le scorte di sapone e crema per le mani ormai secche. Però mi sento un corpo vulnerabile attorniato da altri corpi ancora più vulnerabili. Ho tanti amici e addirittura figli di amici che lavorano nella sanità lombarda. Quasi tutti gli altri sono lavoratori autonomi che non hanno idea di come tenersi materialmente a galla, eppure non si lamentano delle misure intraprese. Penso che Rassegna sia il luogo giusto per menzionare queste lavoratrici e questi lavoratori, non importa se sono librai o baristi, teatranti o altre partite Iva.

Passo le mie giornate a sentire le persone care, quasi tutte con una forte preoccupazione: genitori anziani, figli all’estero, bambini piccoli da gestire a casa o qualche pregresso clinico che in una situazione normale sarebbe sotto controllo. E poi cerco delle informazioni attendibili su questo virus e le strategie per contrastarlo. Ho una mente pochissimo scientifica, invece adesso mi rasserena solo il rigore del metodo scientifico, incluse le ammissioni di imprevedibilità e di ignoranza. Le mani non rimandano più il privilegio di essere una scrittrice, una che lavorando non le consuma. La testa arranca dietro una realtà mutevolissima per cui il primo grado di comprensione viene fornito da una cultura che non mi è familiare. Ma va bene starci così, in questa crisi, senza una stanza per sé, perché anche con una porta chiusa, la mente non riesce a isolarsi.

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Alessandro Gazoia17 marzo 2020 (inviato il 7 marzo)

In questo momento m’imbarazza scrivere della mia condizione, perché non è di particolare disagio né significativa in special modo. Tuttavia darò in breve la mia testimonianza, appunto solo una tra le tante. Credo che il mio caso sia relativamente raro, infatti da molti anni “lavoro a distanza” come editor: le case editrici con cui collaboro sono lontane centinaia di chilometri e gli autori che seguo, ovvero le persone che sento più spesso per mail o al telefono, vivono in altre regioni, in altri Stati. Quando la situazione era meno grave, molti mi hanno detto scherzando che per me non era cambiato niente: restavo sempre quarantenato volontario. Sono cambiati però i momenti in cui solitamente incontravo le persone dell’ambiente editoriale in generale, ovvero le fiere e i festival: fiere e festival annullati, posticipati, in via di probabile annullamento e posticipo.

Ad esempio a metà aprile non ci sarà a Milano Book Pride, fiera nazionale dell’editoria indipendente, con la quale collaboro da diversi anni, come uno dei “curatori del programma”. Venerdì 6 marzo abbiamo comunicato che la manifestazione è rimandata, e non sappiamo ancora quando potremo recuperarla. Dopo l’annuncio, ho guardato ancora una volta il documento condiviso in rete dove in questi mesi noi del “gruppo di lavoro” abbiamo segnato tutti i circa 300 incontri programmati (se un documento condiviso in rete non pare il massimo della tecnologia per organizzare un festival di dimensioni non piccole, è perché non è il massimo della tecnologia, però grazie alla buona volontà di tutti ha sempre funzionato bene; nell’editoria la buona volontà muove le montagne che devono essere mosse).

Ho provato dispiacere per il lavoro sfumato, fatto insieme a decine, centinaia di editori e autori, poiché, anche nella migliore delle ipotesi, cioè con un recupero della fiera, si dovrà ricominciare quasi da zero – non essendo certo possibile tra diversi mesi presentare solo libri usciti all’inizio di quest’anno; ma soprattutto c’è il rammarico di avere fatto qualcosa di molto buono (a nostro giudizio) che non può essere condiviso col pubblico dei lettori, lettori per i quali – lo dico senza retorica, perché parliamo pure di concretissima economia – tutto il settore editoriale lavora.

Oggi tornerò a editare libri altrui, a scrivere per me e a guardare le notizie. Domani farò lo stesso, dopodomani anche. Fino a quando, spero presto, la “necessità” di aprire ogni ora una pagina web per “controllare la situazione” si farà meno forte.

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Luciano Funetta18 marzo 2020 (inviato il 7 marzo)

Scrivo queste brevi righe da una casa in un quartiere molto popoloso di Roma. Dicono che presto anche qui verranno tracciate le linee della zona rossa. Chi lo dice? Voci. Voci che sussurrano e avanzano ipotesi. Sono esattamente otto giorni che non vado al lavoro, non per ragioni legate all’emergenza sanitaria.

Nell’ultima settimana ho avuto il tempo – tre ore trafugate alle incombenze quotidiane – di scrivere soltanto la bozza di alcune pagine di accompagnamento a cui una casa editrice mi ha gentilmente chiesto di pensare per il romanzo breve di un’autrice cilena. È un’opera che parla delle cicatrici dei sogni. I protagonisti sono poco più che bambini e i loro sogni sono le emissioni spettrali di una notte collettiva.

Per il resto dei giorni appena passati ho respirato l’odore di reparti ospedalieri, viaggiato su mezzi pubblici stranamente poco affollati, ascoltato, per strada, frasi in lingue che all’improvviso sembravano più antiche e solenni, e ho pensato che la stanchezza e la mancanza di sonno mi avessero trasportato in una megalopoli fuori dal tempo.

Ho letto giornali, guardato trasmissioni, cercato articoli, ricevuto messaggi e telefonate, ho comprato medicine, ho letto libri per bambini, pochissime pagine di libri per adulti, ho resistito alla tentazione di riattivare un paio di profili social (non ne faccio uso da anni), sono rimasto in costante contatto con i colleghi della libreria di San Lorenzo dove lavoro. Nelle ultime due settimane abbiamo dovuto annullare gli eventi che permettono al fragile equilibrio del nostro commercio di prosperare. In compenso, mi dicono, stiamo vendendo buoni libri. Soprattutto pare ci sia un certo rinnovato interesse per i cosiddetti “libri che non si possono non leggere prima di morire”.

In balcone stamattina, mentre fumavo dopo aver aggiunto due frasi al romanzo con cui combatto ormai da otto anni, ho sentito un insolito silenzio. Mia figlia di tre anni e mio figlio di sei giorni dormivano. Forse era il silenzio del sabato, il silenzio di un sabato come gli altri, o forse c’era, come mi è parso, in quel silenzio qualcosa di nuovo, un’aria luminosa, «un silenzio che», scrive Thomas Bernhard, «fa davvero orrore alla natura». Niente traffico, niente ambulanze o volanti della polizia, nessuna traccia del rombo che sembra la voce profonda della città.

Il silenzio che ultimamente avvertiamo, o meglio questo rumore bianco in cui di tanto in tanto si affacciano versi di uccelli e isolate voci umane che balbettano qualcosa, e che tentiamo di coprire con parole inadatte, ci accompagnerà ancora a lungo. Dovremo amarlo e custodirlo, considerarlo come una prefigurazione. Attraversarlo non ci obbligherà a raccontare la sua comparsa, e tuttavia non potremo ignorarne il lascito. Il silenzio degli ultimi giorni e dei giorni che ancora verranno è tessuto cicatriziale e come ogni cicatrice, come ogni sogno, a distanza di tempo tornerà a farsi vivo. Ne troveremo tracce in ciò che leggeremo e scriveremo, ne porteremo con noi i residui fisici, sociali e psichici. Questo, è ovvio, non comporta che la letteratura o in generale la vita umana sulla terra possano in qualche modo trarne giovamento.

Continueremo, quando l’emergenza passerà, a scrivere opere ignobili e a condurre vite infami. Solo di tanto in tanto, può darsi, ci ritroveremo tutti insieme dentro il fantasma di uno strano sogno, in un mattino di quiete abbacinante in cui tutto apparirà uguale a sempre, tutto tranne noi.

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Angelo Ferracuti19 marzo 2020

Nei giorni scorsi ho avuto l’influenza, vissuta da solo a casa perché mia moglie si è fratturata il femore sciando due mesi fa e, stando noi al quarto piano, per un periodo è andata a vivere da sua sorella. Tendo per mia natura a non drammatizzare, ho perso una precedente moglie giovanissima di cancro, mi sono costruito “la corazza”, quindi uscivo di casa con il cane – il boxer londoniano Buck, adorabile – anche con la febbre e al freddo, direi in maniera quasi temeraria, sfidando la cattiva sorte e il virus. Buck per ripagarmi veniva al mio capezzale ogni 10 minuti a controllare il mio stato di salute, guardandomi con gli occhi lucidi, interrogativi.

L’influenza mi ha lasciato una stanchezza fortissima. Intanto, arrivavano notizie contrastanti, troppo contrastanti, i cosiddetti esperti nelle società mediatiche si esibiscono, spaventando la gente, i miei figli stavano a Bologna e a Milano, non potevano tornare. Prima c’è stata l’angoscia, il panico, la paura di molti che non era la mia, poi tutto è fisiologicamente passato a uno stato di allerta e di adattamento alla clausura, quindi il tempo è diventato un tempo di attesa e di transito, come se le vite di tutti si fossero fermate. Quindi uscire con Buck è stato e resta un vero e proprio privilegio, ogni uscita è diventata un osservatorio sulla vita degli altri.

Il clima nella via in questi giorni è da fine dell’umanità, la grana del silenzio a momenti rasserena, sembra quella degli anni 60, oppure dei tempi dell’Austerity, che ricordo benissimo, di ipersocialità, in altri momenti spaventa, sembra quella di prima di una Apocalisse. La gente mi chiama dai balconi, la cosa più bella è stata la riscoperta della nostra reciprocità, la riscoperta del legame sociale, il capire che nessuno vuole stare solo, come ci stanno cercando di far credere i potenti, i media, le tecnologie, la ricerca disperata di parlarci, salutarci, nella mia via è successo spesso in questi giorni. Ho sentito tutti più vicini. Una signora mi ha chiesto se potevo prestarle il cane, per uscire, ho visto un signore, che di solito incontro a passeggio, che si allenava nel quadrato del suo attico nel palazzo che sta di fronte al mio, dalle case potevano arrivare le musiche più diverse, il Nabucco invece che l’Aida o i Rolling Stones, cose che probabilmente c’erano anche prima, ma che adesso, senza più rumori di sottofondo, riuscivano finalmente acusticamente ad affiorare, così come percepivo struggente il canto degli uccelli, l’abbaiare dei cani.

Certo ho pensato a certi libri che hanno colonizzato il mio immaginario, soprattutto quelli di Ballard, Camus, ho pensato che questa poteva essere un’occasione per ripensarci come società, ma gli intellettuali – quelli veri – vivono sempre dentro questa riflessione profonda. E gli altri? Siamo sicuri che servirà? Mi dicono che le vendite dei libri siano crollate, la gente non vuole pensare, invece si sono impennati gli share delle tv, la corsa agli accaparramenti nei supermercati.

Una cosa è certa, tutti abbiamo capito sulla nostra pelle che siamo schiavi dei mercati, il virus provocherà a catena chiusure di attività economiche, commerciali, siamo tutti consumatori che tengono in vita altri consumatori, e che alimentando questo grande mercato i ricchi saranno sempre più ricchi, e tutto il fronte dei precarizzati, delle fasce più deboli, come gli operai delle fabbriche, ha una doppia esposizione, al virus e alla minaccia della perdita del posto di lavoro.

Il virus mostra la debolezza delle società che abbiamo creato, ma nessuna voce si è alzata a difesa del welfare, contro le privatizzazioni della sanità che hanno tolto risorse, specie in Lombardia e in Veneto, le regioni più colpite, governate da un trentennio dalla Lega, dove hanno tagliato servizi, cancellato presìdi, ospedali, così come purtroppo è successo anche in regioni storicamente governate dal centrosinistra. Non c’è stata una sola voce civile, politica, spirituale, che si è elevata sopra a dichiarazioni tecniche, mediatiche, mediche.

Quella che manca, oggi, è una lingua che vada oltre il parlato dell’eterno presente, una lingua umanistica nuova. Se non cerchiamo quella lingua, se non troviamo quella lingua, politica, letteraria, civile, rischiamo di diventare anche noi scrittori, artisti, complici di quella banalizzata, spettacolarizzata, cinica del grande mercato globale, quella che, per dirla alla Volponi, fa parlare il banco del supermercato, il quale diceva, profetico, che “sembrava scomparsa la profondità del mondo”.

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Rossella Milone20 marzo 2020

Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri.

Lo dice Marguerite Duras, nei suoi pensieri raccolti da Feltrinelli in Scrivere.

È così, per chi scrive: stare soli, concimando la propria scrittura di un silenzio che non è vuoto, ma il circondario dove si raccoglie l’immaginario per creare storie.

Gli altri sono tutto ciò che sta prima della storia. Il nostro mondo, la nostra normalità, la ritualità del nostro stare in vita – è tutto ciò che vive prima della storia.

Nessuna storia può venire al mondo senza il mondo.

Quindi, l’isolamento dello scrittore è solo mentre scrive; è nell’atto creativo che la scrittura mette in campo la separazione di cui parla Duras: dentro quella separazione possiamo vedere gli altri.

Quello che sta accadendo in questi giorni di isolamento forzato, ci sta permettendo di scrivere tutti – in senso molto metaforico. Ci sta permettendo – o potrebbe permetterci, se riusciamo a cogliere il virtuosismo di questo shock – di guardare gli altri, di guardare noi stessi, e il mondo in cui viviamo, nello stesso isolamento privilegiato che ha lo scrittore. Da questa separazione possono emergere metafore, illusioni, comprensioni e spiritelli, spifferi inediti in cui ricomporre il mondo.

Non è questo, scrivere storie?

Io credo di sì. Io credo che stiamo scrivendo tutti, e, come succede con i libri e gli scrittori, c’è chi scriverà meglio, chi peggio.

Ora come ora questo isolamento non mi permette di scrivere granché.

Il tempo in famiglia, coagulato in salotto e non frazionato fuori le mura domestiche, si riduce come il fiato in una corsa. Soprattutto quando si hanno figli piccoli, il tempo viene fagocitato, risucchiato, e il lavoro diventa un’apnea. Sembra un paradosso, ma si riescono a fare molto, molte meno cose di prima perché i bambini, per fortuna, non conoscono tempo. Nulla in confronto a chi deve rischiare ogni giorno per raggiungere il lavoro, o, addirittura, per chi lavora in ospedale. Noi quarantenati in smart working godiamo di un tempo e di una sicurezza che ci permette di interrompere la vita solo a metà.

Però è anche vero che chi fa un lavoro come il mio, creativo, che richiede un isolamento particolare in cui raccogliersi, isolarsi col cervello, entrare in una specie di trance immaginifica, diventa più complicato se un bambino ti si arrampica addosso.

Ma, forse, per chi è abituato a scrivere e a passare molto tempo da solo come me, questo tempo va ricalibrato, va solo normalizzato secondo altri parametri, perché la solitudine ci appartiene come una virtù, e non come un fallimento.

Mi manca tutto della vita di fuori. Mi manca l’idea, la libertà di poter uscire a prendermi un caffè con un amico, anche se poi non lo farei davvero. Ma questa mancanza è nutrita tutti i giorni da qualcosa di intimo che riscopro nel silenzio di Roma, che più che un silenzio mi sembra un respiro.

Allora, visto che sono una maniaca del controllo, sto provando a darmi una disciplina, perché è così che scrivo da sempre: con estro, e con disciplina. Senza, i libri non si scrivono.

Risveglio. Due ore di lavoro generale (recensioni, consegne, preparazione delle lezioni on-line).

Tempo libero per mia figlia.

Due ore di lettura dopo pranzo mentre mia figlia vede un po’ di cartoni e gioca per i fatti suoi.

Tempo del gioco. Tempo del gioco. Lezioni on-line nel tardo pomeriggio. Tempo del gioco ancora.

Scrittura in tarda serata, dalle 23.00 fino a notte inoltrata.

Ecco, questo il mio piano. Nel mio piano quelle ore lì – quelle finali – in cui mi dedico alla scrittura nella notte dilatata della quarantena, sono le più belle, quelle in cui niente è accaduto e tutto quello che accade è nella storia che sto scrivendo.

Da quando è cominciato il mio isolamento, questo programmino non l’ho mai ancora rispettato.

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Filippo Tuena21 marzo 2020 (inviato il 6 marzo)

Per me, da un punto di vista pratico cambia poco. Vivo diciamo da pensionato. Lavoro in casa da anni. Ho pochi contatti col prossimo. Non do lezioni né nelle scuole né nelle università. Faccio da sempre poche presentazioni. Rinunciarci non mi pesa. Ma quel che nasce da un’imposizione si vive diversamente da quanto si decide in maniera autonoma.

Sono abbastanza preoccupato della situazione, per i figli, per la nipotina, per la crisi economica che seguirà il picco del contagio – che temo dovrà ancora arrivare.

Sto gran parte del tempo in casa, porto il cane a spasso, vado nel piccolo supermercato sotto casa, frequento poco qualche libreria, mi concedo qualche caffè. Passeggio spesso con mia moglie. Il fatto poi che a Milano abbiano chiuso tutti gli spazi di aggregazione culturale mi toglie dal dubbio. Non so se, essendo aperti, andrei nei teatri, nei cinema o nelle sale da concerto. Non sono andato a vedere mostre recentemente, né musei. Vivo, da buon e rispettoso ultra sessantacinquenne, l’autoclausura suggerita dalle autorità. Non mi pesa. La ritengo una cosa saggia da fare. La faccio.

Dovrò pormi tra un paio di settimane la questione se andare a Roma qualche giorno. Dipenderà dalla situazione. Aspetto. Scrivo. Sto ultimando un nuovo libro che mi pone dei problemi. Li affronto.

La scorsa settimana ho lanciato una specie di gioco letterario: scrivere un racconto di 9000 battute sull’Ultimo sesso in tempo di peste. Nata per gioco l’idea è piaciuta. Ho raccolto una cinquantina di adesioni e in pochi giorni già 25 racconti. M’interessa molto questo esperimento, non tanto dal punto di vista letterario – a chi importa la letteratura? forse neppure a me. M’importa come le persone reagiscono a questa situazione. Se i rapporti personali vengono vissuti con ansia o come soluzione alla quarantena. Quando avrò raccolto un’altra ventina di testi mi sarò fatto un’idea più chiara.

Per il resto seguo i notiziari, sviluppo diagrammi di previsioni che mi spaventano ma che, ragionevolmente accetto, sperando siano meno preoccupanti di quanto vado prevedendo.

Leggo, ma sempre più in maniera scorretta, qui e là; più poesie che prose.

Poi, invecchio e, al momento, questa mi sembra una preoccupazione individuale che mi prende forse persino più di una pandemia della quale forse potrei essere una delle tante vittime. Dello scorrere del mio tempo sarò invece certamente vittima.

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Andrea Gentile23 marzo 2020 (inviato il 16 marzo)

Da giorni rinvio la scrittura di questo piccolo testo. La procrastinazione è un’arte di cui tutti disponiamo, chi più, chi meno. Funziona più o meno così: cerchi continuamente delle scuse per non fare qualcosa che ti spaventa o ti preoccupa. Dici a te stesso che oggi proprio non puoi, perché hai troppe email a cui rispondere, troppe cose da fare. Dici che domani sarà il giorno giusto, domani avrai certamente tempo per affrontare questo compito. Domani troverai altre scuse. Ci penserò domani, un’altra volta. Anche questa volta, troverai altre scuse e così via.

Questo è un meccanismo visibile, di cui siamo a conoscenza. Ma è già una fase avanzata del percorso che poi ci porterà a fare quella determinata cosa: nel mio caso, scrivere questo piccolo testo.

La fase preliminare è ancora più invisibile: non arrivare neanche a darsi delle scuse. Non arrivare neanche a dire a sé stesso che c’è questa cosa da fare, che c’è una parte di te che è contenta di farla, che facendola capirai qualcosa (scrivere spesso serve a pensare). Semplicemente fai finta che questa cosa non esista. L’hai appuntata su un quaderno, magari, come a dire che è qualcosa che in futuro dovrai/potrai/vorrai fare, ma gli appunti sui quaderni sono fatti per essere smarriti. In questa fase preliminare, non cerchi neanche una scusa: questa cosa appartiene al tuo futuro. E visto che non sappiamo nulla del futuro, è una cosa che non ci appartiene.

Si chiama “inversione temporale delle preferenze”. Siamo a dieta. È deciso. Faremo la dieta. Al mattino siamo davvero rigorosi: solo un succo di pompelmo e due biscotti, come dice la dieta. Poi però arriva il pranzo. Ed è un pranzo di lavoro. Finiremo in un bel ristorante. Non potremmo certo mettere a disagio il nostro ospite. E poi che bel menù. Mi permetterò una carbonara, solo per oggi.

Ecco l’inversione temporale delle preferenze: preferire cioè l’opzione meno vantaggiosa in quanto imminente e meno faticosa. Farsi dunque affascinare dalla gratificazione più immediata possibile. Gratificazione, però, che, alla lunga, non ci farà contenti.

Quando si supera questa fase, e si arriva all’altra, cioè a quella in cui ci si dà delle scuse, vuol dire che il nostro “compito” sta oramai emergendo. Si è preso del tempo per spuntare fuori, o per essere abbattuto per sempre.

Nel momento in cui sono qui, che scrivo, e mi ripeto che scrivere aiuta a pensare, mi chiedo quale fosse la mia opzione vantaggiosa e perché. Quale era la mia carbonara? Ora lo so: la mia carbonara era non fare assolutamente niente.

Parlare del coronavirus, ora, è come aggiungere la legna al fuoco: fare ardere dentro la preoccupazione, il timore, l’ansia.

Altro motivo per cui cercavo di sfuggire a questo momento è quello tipico dell’uomo vittima di inversione temporale delle preferenze: a chi mai interesserà come io sto vivendo il coronavirus, cosa ne penso, come scrivo, chi sono? Non ha alcun valore, e quindi è meglio non preoccuparsene. Nascondersi. Non aggiungere la legna al fuoco della preoccupazione. Scrivere d’altronde, come pensare, può essere proprio questo: mettere le mani dentro il camino.

Ora, mentre scrivo, mi chiedo allora che cosa significhino questi giorni, queste settimane. Per chi soffre meno, per chi ha la fortuna di poter stare in casa, e non in un ospedale, forse un piccolo significato può emergere.

Siamo pieni di codici di comportamento abituali. Giudichiamo continuamente nostra madre o i nostri amici, perché, che so, sono “poco sensibili”, “sciocchi”, “ignoranti”. Apriamo WhatsApp come fossimo gatti con le fusa. Laviamo i piatti, ma non li asciughiamo. Sempre gli stessi gesti, da tempo.

A guardarci indietro, forse, potremmo vederci sempre uguali a noi stessi. Sempre le stesse piccole frenesie. Sempre la paura di perdere le chiavi di casa, sempre la paura che arrivi una multa. Da quando abbiamo superato l’adolescenza, siamo sempre uguali, questa è l’impressione.

Per alcuni psicologi, i tratti della personalità dei bambini tra i tre e i sei anni si sviluppano in modelli di comportamento che durano per tutta la vita. Questi modelli vengono poi rafforzati dall’ambiente che rispecchia e rafforza questi tratti. Dunque: si costruisce una maschera e poi si indossa quella maschera.

Passano altri anni e quella maschera è diventata carne viva sul nostro viso.

In seguito all’influenza degli amici e della famiglia, quella maschera diventa il “vero io”. Siamo esattamente come gli altri ci vedono, in pratica.

Naturalmente, non del tutto.

A un livello più profondo, al di sotto della mente razionale, c’è la maggior parte del nostro essere, tutta la zona coperta dalla maschera. Un pensiero, di notte, ci fa dubitare della nostra autenticità: siamo proprio cosi? Sono proprio questo? E se fossi quell’altro? Non sappiamo rispondere, però. E dato però che non sappiamo rispondere, lasciamo tutto come prima, finiamo per non fare niente.

Questi giorni molto difficili, questi giorni in cui vediamo persone ammalarsi, morire, forse, mi dico, potrebbero anche darci questo: tentare di cambiare. Cambiare anche una piccolissima cosa, solo un piccolo gesto. Quando ci svegliamo, controlliamo lo smartphone? Domani no. Tutt’altro.

Fare uno sforzo e strapparci la maschera che abbiamo sul viso, almeno un piccolo pezzo. Smetterla con le inversioni temporali delle preferenze. Oppure seguirle, ma con convinzione.

Cascare nel vuoto, se serve.

Andare a scoprire, nient’altro che un nuovo mondo: il mondo che c’è sotto la maschera.

***

Stefano Valenti26 marzo 2020

Questa notte ho sognato di essere in quarantena. La paura ha colonizzato l’inconscio collettivo.

Preparo da tre anni un romanzo intitolato Cronache della sesta estinzione. È la storia di un uomo che perde tutto e finisce col vivere in strada dove conosce un uomo che non ha mai avuto niente (ed è al contempo la storia di un uomo convinto di essere il responsabile della prossima estinzione). Non è un romanzo distopico, perché, come dice un amico, la distopia ormai la fanno gli autori che scrivono romanzi d’amore.

Ho abbandonato l’epicentro di tutti i virus, Milano, molti mesi fa, in epoca non sospetta. La casa in cui ora mi trovo (ho chiesto asilo politico a Bologna) era pronta ad accogliermi.

La mattina guardo dalla finestra il prato davanti casa. Il ciclo delle stagioni è infine mutato come se per la nuova crisi la fioritura sia stata anticipata. Cerco nomi da dare a quei fiori. Tarassaco, anemone, ortica, margherita e ranuncolo. Fin da febbraio nel prato hanno iniziato a germogliare e hanno portato il colore sempre più in alto. E, ogni mattina, pare che i fiori siano stati messi lì la mattina stessa, posati nel terreno fin già coi loro gambi; pare che le macchie di colore siano disposte con tale maestria da far credere siano state disposte in base a calcoli impenetrabili.

Questa mattina sono intento a riconoscere valore a quanto fin qui accaduto. Penso che questa crisi sia l’ennesima dimostrazione del fallimento politico, economico e sociale, proprio come lo è la minaccia della catastrofe ambientale. Penso che gli sforzi per prevenire una simile catastrofe hanno messo in ombra la ricerca delle cause. Penso che la decrescita sia diventata un obbligo se vogliamo sopravvivere. Ma presuppone una civiltà diversa. Senza questa premessa il collasso potrà essere evitato soltanto con restrizioni, razionamenti e distribuzione controllata delle risorse, tipiche dell’economia di guerra. Penso sia necessario uscire dal capitalismo. Le uniche incognite sono i tempi e il modo. In modo doloroso o indolore. Già vediamo gli effetti di una uscita dolorosa. Un’uscita indolore invece non viene nemmeno presa in considerazione.

Penso che il compito di un autore sia prefigurare questa civiltà diversa, questa uscita indolore.

***

Simona Baldanzi30 marzo 2020

Apro gli occhi e penso, anche stanotte né scosse e né tosse. Mi sveglio ogni mattina così. C’era stato il terremoto a dicembre e ci eravamo stretti per la paura delle nostre case traballanti. Adesso dobbiamo stare distanti e la paura si aggira fuori casa. Una schizofrenia di paure con cui abbiamo dovuto fare i conti qua a ridosso dell’Appennino.

Non ho avuto molto tempo di elaborare, di leggere, di scrivere in queste settimane, c’era solo il tentativo urgente e maldestro di mettere in sicurezza chi sta lavorando, il far chiudere il più possibile e non essenziale, il limitare i rischi ovunque.

Lavoro per la Camera del lavoro di Prato, sono una rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Come si può fare? Come farlo ora e tutto insieme? In Italia si muore sul lavoro in tre o quattro al giorno, come possiamo diventare eccellenze sanificate istantanee?

Lavarsi spesso le mani, una cosa piccola e banale. Li conoscete i cantieri, i capannoni, i magazzini, le fabbriche, i furgoni, i treni, i cessi di chi lavora? Catapultati in lotte ridicole eppur vitali come chiedere il sapone, i disinfettanti, i plexiglass, i guanti, le mascherine. Improvvisamente lottare a distanza, senza assemblee, senza scambiarsi strette di mano, senza condivisione di sguardi fuori dagli schermi, chiedere ovunque un’organizzazione del lavoro con turni ridotti, con la distanza e la rarefazione di presenze, con la conciliazione della vita fuori, rafforzare il lavoro in ospedale e di cura.

Non dovevamo aver già lottato prima e meglio per tutto questo e per non ritrovarci così impreparati? Un uragano di telefonate, mail, chat, videoconferenze, videochiamate, decreti, protocolli, interventi, risposte da dare, protezioni da costruire e reperire. Proteggere pelle e nervi degli altri, problemi che provi a spazzare, ma come i coriandoli, te li ritrovi ovunque, anche nelle mutande.

Fin da ragazzina mia mamma mi diceva che in casa avevo i pruni, perché stavo sempre fuori. La mia vita è sempre stata fuori, è difficile pensare che lo spazio privato possa proteggermi più dello spazio pubblico. In realtà gli spazi che ci stanno curando sono proprio quelli pubblici come gli ospedali, i centri di ricerca e gli scienziati, la protezione è un ambiente liberato dalle nostre tossicità e frenesia, i luoghi sono tornati a chi li vive nei pressi.

Oggi ho sbucciato tre kiwi, piccoli e succosi. Li ho mangiati alla finestra guardando il ciliegio. Mio babbo si prende cura di un pergolato di kiwi e quando sono andata a portare la spesa ai miei per evitare a mia mamma di uscire e stare in fila al ghiaccio, che qua pure è nevischiato, ho fatto un bottino di kiwi, ma anche di conserve, marmellate, verdure sottolio. Non è difficile salutare i miei a distanza, senza abbracciarsi, noi non siamo mai stati avvezzi a smancerie. Non avrei mai creduto potesse essere un vantaggio la ruvidità. Sul ciliegio si è posato un merlo. Mi è parso che controllasse i rami: devono ancora sbocciare i fiori, per i frutti bisogna aspettare. Se ne è andato, ignorandomi.

Fuori le specie animali e vegetali vivono meglio senza di noi. Noi coltiviamo piccoli desideri, alcuni nuovi, altri vecchi, altri ancora interrotti. Scaviamo pozzi segreti da cui tirare fuori risorse e unguenti e tunnel per evadere. Vale la pena sopravvivere a questa pandemia per vedere la fine della miseria umana e del sistema economico fondato sul profitto che ci ha ammalato, affamato, isolato. Vale la pena sopportare la solitudine credendo che i ragazzini costretti in piccole stanze nei condomini popolari senza giardino stiano già costruendo una lingua nuova per un mondo nuovo, giusto e sano. Vale la pena aspettare che il merlo torni e si mangi ciò che gli spetta, ignorandomi.

Immagine di Nici Keil da Pixabay

La letteratura nell’epoca delle previsioni

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di Giorgio Mascitelli

La nostra vita è costellata di previsioni che condizionano in maniera sempre più vincolante  il presente. Dalle simulazioni demografiche alle variazioni del PIL e del debito pubblico, dagli elenchi delle professioni più ricercate tra dieci anni fino a quelli delle prossime scoperte e invenzioni, anche le statistiche e la divulgazione scientifica incorporano sempre più futuro.  Questa attività previsionale, nelle sue forme ufficiali, è rivolta sempre a fenomeni singoli, a differenza dello storicismo ottocentesco che mirava a cogliere leggi e tendenze generali,  ed è basata su metodi quantitativi, calcoli e misurazioni di vario genere, quest’ultimo aspetto  la distingue da alcune forme previsionali dell’antichità come l’aruspicina. Un altro aspetto che differenzia l’attuale forma di previsione è che le teorie in base alle quali essa è formulata sono falsificabili. Proprio qui sorge un primo problema concreto relativo all’ambito economico, che per più di un motivo occupa una posizione di assoluta centralità nelle nostre società, nel quale tutta una serie di operazioni finanziarie compiute da governi e da privati deve ricorrere per obbligo di legge all’attività previsionale di specifiche istituzioni, solitamente private. E’ evidente pertanto che, laddove sussiste un obbligo di legge nel ricorrere a previsioni formulate secondo certi modelli teorici da istituzioni autorizzate, questi non possono essere falsificati, se non andando contro la legge. Infatti l’attività del soggetto autorizzato per legge a compiere previsioni non è posta sullo stesso piano di quella dei falsificatori e, finché la legge glielo permetterà, potrà riproporla senza discutere alcuna obiezione, mentre naturalmente un’attività critica di questo genere presuppone una comunità tra pari per svolgersi liberamente. E’ questo il caso, per citare quello più significativo, delle agenzie di rating che nelle loro previsioni, a fronte di numerosi errori di fatto e di pesanti e circostanziate contestazioni del loro impianto teorico, continuano a esercitare la loro attività secondo le prerogative che la legge loro attribuisce.

Questa situazione, assolutamente inedita nella modernità perlomeno nelle democrazie, ha anche delle ricadute su tutte le forme di discorso pubblico. In primo luogo si assiste all’uso di gerghi specialistici in funzione enfatica: è il caso di quella che Jean Paul Fitoussi ha chiamato la neolingua dell’economia, chiamando così la tendenza a ribattezzare con nuovi termini concetti e fenomeni già conosciuti per impedirne il riconoscimento,  come accadeva in 1984 di Orwell. Altrettanto importante è la tendenza della discussione a privilegiare nuove previsioni rispetto alla verifica dell’attendibilità di quelle precedenti ( in altri termini l’oggetto principale del discorso nel 2019 saranno le previsioni per il 2020 e non la verifica della correttezza di quelle del 2018 relative al 2019): tale tendenza finisce con il produrre l’impressione nel pubblico di un’inesorabilità delle previsioni nel descrivere attendibilmente il futuro e con il trascurare tutti quegli aspetti del presente che non sono oggetto di previsione. Un’altra più complessa  potrebbe essere chiamata la performatività indiretta della previsione. Infatti assistiamo al proliferare nel discorso pubblico di previsioni che, sebbene non formulate secondo quei crismi che ho esposto sopra e magari riguardanti ambiti diversi dall’economia, finiscono con l’orientare pesantemente comportamenti nel presente. Producono un tale effetto, ovviamente, solo quelle previsioni che provengono da individui o istituzioni autorevoli ossia in possesso dell’autorizzazione legale o simbolica di fare previsioni. E’ il motivo per cui assistiamo all’intervento di economisti anche in ambiti di dibattito quali l’istruzione, la sanità o la tutela dell’ambiente che non sarebbero nelle loro competenze, anzi proprio in questi ambiti le previsioni per il futuro sono la fonte di comportamenti e scelte presenti. Per spiegare questo particolare situazione bisogna ricordare che i performativi nella teoria degli atti linguistici è una classe di verbi esecutivi che nel momento stesso in cui vengono enunciati realizzano l’azione ( per es. “Vi dichiaro marito e moglie”), tuttavia nota Emil Benveniste ( Problemi di linguistica generale, trad.it. 2010, p.327) che i performativi non sono definibili solo con categorie logiche e grammaticali, ma dipendono anche dalle circostanze sociali concrete extralinguistiche nelle quali sono detti: per esempio se non è un pubblico ufficiale autorizzato a pronunciarle, “Vi dichiaro marito e moglie” sono semplici parole in libertà. Possiamo quindi osservare che nella nostra società anche i verbi previsionali si comportano come dei performativi. Così parole come “Prevedo che il sistema sanitario pubblico sarà entro breve tempo al collasso” diventeranno un atto linguistico, non in senso rigorosamente logico, ma indirettamente in quanto causa di conseguenze pratiche, se a pronunciarle sarà chi è autorizzato a far previsioni.

Questi esempi, a mio avviso, dimostrano che la previsione è ormai diventata una procedura che regola l’ordine del discorso con molta più efficacia di altre tradizionali, quali la censura o l’interdetto, perché organizza il discorso intorno al principio d’autorità senza però un’azione esplicita di divieto da parte dell’autorità in questione, cioè celando l’esistenza di questo principio. Infatti la previsione esclude quegli elementi di cui non vuole parlare semplicemente rendendoli irrilevanti come privi o non degni di futuro.

Benchè questo stato di cose non abbia a che fare direttamente con la parola letteraria, essa in qualche modo ne risente. La parola letteraria è quella che nel corso della modernità mantiene un rapporto con la parola profetica, già scomparsa all’inizio della modernità e sostituita dall’utopia, anzi in un certo senso è propria la modernità letteraria a realizzare pienamente l’accezione biblica del termine profezia, che non è quella di predizione del futuro, ma  è la critica del male presente nel mondo, in particolare “la profezia nell’Antico Testamento rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o – diremmo oggi- esterno al sistema, che sa leggere i segni del tempo aldilà degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione, di pace e di salvezza del popolo ebraico” ( Paolo Prodi Il tramonto della rivoluzione, 2015, p.29). E’  per esempio la condizione del flâneur baudelairiano, che Benjamin mette all’origine della poesia della modernizzazione capitalistica, quella che evidenzia meglio l’eredità della parola profetica nell’accezione sottolineata da Paolo Prodi.  Chi è infatti il poeta flâneur, se non colui che per la sua oziosità e quindi marginalità al sistema produttivo diventa acuto osservatore critico della società del lavoro capitalistico e per la sua radicale malinconia implicito portavoce di un’altra vita e, talvolta di un’idea utopica di giustizia? Questa eredità della parola profetica  nella letteratura non è uno stile né un genere di discorso né tanto meno una serie di contenuti impegnati, ma è la posizione, sociale e morale, da cui lo scrittore fa partire il proprio discorso ed entro la quale organizza la propria esperienza. E’ insomma la condizione simbolica entro cui si trova a operare lo scrittore. Nella fase postmoderna questa eredità della parola profetica viene liquidata sia perché assistiamo alla fine dell’utopia, e con essa di ogni altrove possibile, sia perché contestualmente il successo di mercato diventa l’unica forma socialmente accettabile di legittimazione di un’opera letteraria. Naturalmente questa forma di legittimazione è secondaria e subordinata rispetto a quella principale di chi detiene l’autorità per fare previsioni, ma è l’unico modo in cui la parola letteraria può ambire a una considerazione pubblica. Per tutto il resto la parola letteraria diventa parola privata.

Quest’ultimo fatto è però meno drammatico di quanto possa a prima vista sembrare o perlomeno è una sorta di mal comune. Man mano che si realizza quell’ordine del discorso che vede nella previsione il suo dispositivo principale non è solo la parola letteraria che diventa privata, ma ogni discorso che non è compreso nel meccanismo di previsione. I poeti si lamentano ( per la verità da parecchi secoli, ma con più frequenza negli ultimi anni) che la poesia non conti più nulla, ecco si può dire che sotto questo aspetto, e solo sotto questo aspetto,  ogni forma di discorso si poetizza a fronte dell’inesorabilità della previsione.

In realtà la parola letteraria può conservare in sé una traccia del suo precedente statuto pubblico nella letterarietà ossia nell’inserirsi consapevolmente in una tradizione. Questa formula astratta significa nello specifico che opere che dialogano testualmente in forma diretta o allusiva con la tradizione del passato, dell’epoca in cui la letteratura era un discorso pubblico, potranno essere riconosciute nel futuro come la continuazione di un discorso in un’epoca che sembra averlo cancellato. Questo elemento di letterarietà non è così trascurabile perché ha in sé uno spirito storico in rottura con il presente e di consapevolezza che ciò che è passato non è del tutto passato, ma si rivela una possibilità alternativa del futuro. Esso può essere già oggi in embrione una forma di discorso pubblico di un futuro non prevedibile.

 

 

Shelter in place (l’Italia in una stanza)

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di Sara Marinelli

Nove ore di fuso non sono niente.
Se dormo di giorno e sto sveglia di notte, sono in sincronia perfetta. Con lei. Con l’Italia, dove non vivo più da 13 anni, e che ora vive dentro la mia stanza.
Nelle settimane di distanziamento sociale, nel confino del mio appartamento, la città fuori — San Francisco — si dissolve, se ne sta sospesa dietro la porta di casa. E se la città fuori per molti giorni non esiste e non mi staglia davanti le sue strade, le sue insegne, e la sua gente, ricordandomi dove sono, la geografia pure scompare, e nel tempo capovolto, posso vivermi il sogno e l’incubo di essere in Italia, adesso, nei giorni della pandemia e del dolore. La mia stanza non ha più pareti, ma non ha alberi infiniti come dice la canzone — di quelli ne abbiamo più che mai bisogno — piuttosto squarci di vicoli e strade, piazze e balconi, chiese e gradini, sanpietrini e mare, che si aprono nitidi e chiari davanti a me in ogni dormiveglia, in ogni visione, quasi da poterli odorare.

Mots-clés__S.P.Q.R.

0
ITALY. Rome. 2005.

S.P.Q.R.
di Luigi Di Cicco

This Heat, S.P.Q.R. -> play

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ph. Martin Parr, dalla serie “Tutta Roma”, 2005

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James Joyce – Lettera al fratello Stanislaus
(25 settembre 1906. Da Lettere, a cura di G. Melchiori, Mondadori, 1974)

Caro Stannie, […] ieri sono andato a vedere il Foro. Mi sono seduto su una panca di pietra con una veduta delle rovine. C’era il sole e faceva caldo. Carrozze cariche di turisti, venditori di cartoline, venditori di medagliette, venditori di fotografie. Ero così commosso che mi sono quasi addormentato e mi sono dovuto riscuotere bruscamente. Ho osservato con desiderio la panca di pietra ma era troppo dura e l’erbetta vicino al Colosseo era troppo lontana. Così me ne sono tornato tristemente a casa. Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

E fu sera e fu mattina

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di Maria Luisa Venuta

Questa notte ho sognato. Sono ad un incrocio qui vicino a casa a parlare insieme con Marta, un’amica di Lucca. È sera, racconta di un tipo che si è trasferito qui e abita in un appartamento talmente umido da averlo soprannominato “la laguna”. E dice “vado in laguna” invece che dire “vado a baita” come fanno i bresciani. E ridendo mi guardo in giro, siamo in tanti e parliamo e beviamo birra e bicchieri di pirlo e di vino e mi dico che è una sensazione strana, che forse c’è qualcosa di strano e una voce sussurra “ma è un assembramento e siamo tutti senza mascherine”.

Mi sveglio di colpo, pensando a dove diavolo si sia infilato il covid19 nel mio inconscio. Ecco, sogno di notte di uscire e che tutto sia finito e di tornare a dire cazzate in mezzo alla gente del quartiere del Carmine in centro a Brescia.

Noi stiamo bene. Due settimane fa avrei scritto che l’aria è pulita, si sentono gli uccellini al mattino ed è piacevole questa sospensione del tempo e che con Jacopo facciamo qualche compito e il resto è un po’ inventato, mentre Youssef continua a lavorare dalle 8 alle 16 in un’agenzia bancaria e esce con mascherina, guanti e rientra un po’ silenzioso, lava tutto in lavatrice e la tensione c’è, ma si stempera via.

Poi qualcosa è cambiato.

Per amor di parabola. Appunti su Marcello Barlocco

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di Andrea Balietti

 

 

Altezza



Un uomo si ritrova in uno spiazzo a picco sul mare, prende un sasso e lo lancia giù dal dirupo. L’immagine della parabola tracciata dal volo gli appare così seducente da persistere nella sua mente come un’ossessione, trasformando quel suo gesto in un bisogno, in una fame che sarà saziata soltanto gettando il padre e, infine, se stesso.

La spontanea appetenza che si impossessa del protagonista di questa storia, e che troppo facilmente definiremmo sadica, sembra battere con estrema esattezza e rigore il ritmo crescente di questo breve racconto dal titolo “L’amante di parabole”, ma si direbbe essere altresì la forza che agita la narrazione stessa, il motore che fomenta la vorace scrittura di Marcello Barlocco.

Proprio come nella vicenda della parabola, anche in altri racconti di questo autore qualcosa viene ucciso, ferito o, quantomeno, perduto: potrà trattarsi di un occhio o di un piede, di un cucuruomo o di un urugallo, di denaro, della vita o della sanità mentale, ma assisteremo pur sempre a un sacrificio.

Negli antichi riti pagani esseri e beni venivano immolati per attivare riconnessioni con la dimensione del sacro; negli scritti di Barlocco, da considerarsi anch’essi veri e propri riti, si sacrifica per amor di una parabola, intesa come mero e limpido luogo geometrico. Ebbene: non c’è alcuna differenza. In entrambi i casi ciò che viene a determinarsi è una “dimensione altra di separazione, dimensione dell’eterogeneo che si sottrae a quella dell’ordinario, al mondo del calcolo e dell’equivalenza, a quel mondo dell’omogeneo che il soggetto ordina per la propria conservazione e per il proprio utile.” (M.Mauss)

È inoltre inevitabile notare come l’accezione di episodio biblico della parola “parabola” salta in mente non appena constatiamo la presenza di un padre, un figlio e un’altura in cui il primo attenta alla vita dell’altro; sia ben chiaro però che qui non è Abramo a uccidere Isacco ma viceversa, e non perché un dio lo ha chiesto, bensì per puro piacere. Così, una volta ammirato il povero padre trasformarsi in “meravigliosa parabola diafana, canuta, zoppa, vibrante di terrore”, ci troviamo davanti alla più poetica delle chiusure che il protagonista (Barlocco) poteva regalarci: “Subito dopo al colmo dell’eccitazione mi lanciai anch’io, felice ed insieme maledetta parabola di me stesso, andai a schiacciarmi nel tubo di una fogna a pelo sotto il mare”. È nello schianto che l’orgasmo culmina per svelarci che la sete di morte altro non era che esigenza estrema di vita e che, “in questa rivelazione, il volgersi ostinato della brama della vita verso la morte (così come essa si dà in ogni forma di gioco e di sogno) non appare più come un bisogno di annientamento, ma come una pura brama di essere io, poiché la morte, ovvero il vuoto, non è che il terreno sul quale si innalza infinitamente – nel suo stesso venir meno – un dominio dell’io che è da rappresentarsi come una vertigine” (G.Bataille). La stessa vertigine che ci assale nel corso del racconto e ci accompagna per tutto il libro, senza mai riconsegnarci, però, allo spazio fertile e indefinito del mare aperto, sempre condannandoci, piuttosto, al definitivo, abortifero incastro di una fogna in superficie.

                                           

     
     Superficie

 

 

“Il consenso assoluto a cui è costretto il sognatore gli impedisce di riconoscere il sogno come sogno se non nell’istante in cui si desta. Mentre sogna, lo considera necessariamente realtà. Questa situazione definisce, così mi sembra, l’essenza del problema. La coscienza ingenua non se lo pone, perché crede del tutto naturale e legittimo considerare i sogni dal punto di vista della veglia” (R.Caillois)

Roger Caillois, nel suo “L’incertezza dei sogni”, sosteneva che in letteratura il solo in grado di rappresentare un sogno da una prospettiva interna al sogno fosse Franz Kafka: è in questa capacità che trovo l’unico punto di incontro con Barlocco.

Non definiremmo mai i racconti dei due propriamente onirici, sognanti o fantastici, perché nonostante tutte le anomalie e i prodigi messi in scena, attingono pienamente dagli umori del reale -che in nulla differisce da un sogno quando si sogna-. La narrazione assume i toni banali di ciò che può aver luogo nel quotidiano, e racconti come “L’amante di parabole” iniziano con la sconcertante semplicità di “Un giorno mi trovai…”. In Barlocco tutto avviene in superficie, nella lucida dimensione del visibile, sotto una luce tagliente che tutto spiega e nulla nasconde. Folli pensieri, creature ibride, bio-mutazioni e “fatti inquietanti” sono le sue invenzioni letterarie fatte di carne vera, composte in laboratorio con la perizia di un chimico ed ordinatamente esibite in questa “mostra delle atrocità”, come fece Canterel nel “Locus Solus” di Raymond Roussell (o viceversa).

Come in cima a quella rupe, fatale punto di partenza di ogni parabola, nelle descrizioni di Barlocco “tutto è luminoso […]. Ma niente ci parla del giorno: non vi è né ora né ombra […]. Si ha l’impressione che tutto sia detto, ma che al fondo di questo linguaggio qualcosa taccia. I volti, i movimenti, i gesti, fino ai pensieri, alle abitudini segrete, alle inclinazioni del cuore, sono dati come segni muti su un fondo notturno” (M.Foucault).

 

 

 

Profondità

 


Dalla profonda notte di angoscia che riposa invisibile sotto l’accecante, sporco manto di chiarezza della scrittura, qualcosa emerge costantemente per ferirci in modo multiplo e instancabile.

Risparmiandomi la dolce pena di riaprire quel flagello chiamato “Maldoror” ed evitando di elencare tutte le sottili crudeltà presentate nei racconti di Barlocco, vi dico che solo che in quest’ultimo e in Lautreamont ho trovato tanta inaudita violenza, tanta abnorme ironia, tanta rivolta verso la natura. Sulla base di ciò posso affermare che, nonostante tutta la distanza che indubbiamente separa i due su più fronti, riconosco in Isidore Ducasse l’anima più affine allo scrittore in questione. Una forza sinistra brilla tenace nelle pagine di Marcello Barlocco, come sostanza e segno di una mente inquieta e di una penna mostruosa; ma non è la sola: lo spiazzo in cui nascerà l’amore per le parabole ci viene descritto come “un posto meraviglioso cosparso di strani fiori rossi e azzurri”. Allo stesso modo anche gli altri racconti si misurano con questa componente di fulgore che, senza alcuno scrupolo, voglio definire lisergica.

Tenendo conto di tutti i caratteri più tipici dell’arte e della letteratura psichedelica di sempre, non si farà troppa difficoltà a rintracciare in certe immagini che vengo ad elencare le esperienze allucinogene vissute da Barlocco durante le sue esplorazioni nel mondo psicotropo: un mare di scintille tremolanti, l’iniezione di liquidi, il fiorire di garofani rossi, il piangere di piacere nell’assumere la minestra, la somiglianza tra una gola insaponata e insanguinata e la panna condita con sciroppo di lampone, l’amico tramutato in un essere sostanzialmente elettrico e quello apparso con la testa da cane, la luce emessa dai vermi in punto di morte e il pesce con la coda viola, due teste e quattro occhietti infiammati… tutti frutti di uno stesso grappolo isotopico.  Come dei condimenti di cui non può fare a meno, lo scrittore li inserisce anche dove non dovrebbero stare, come addobbi, luci colorate che balenano dentro ma, di tanto in tanto, escono a tingere lo spazio narrativo -anche il più nero- con lo splendore di un’eruzione stellare.

Le opere che stiamo analizzando sono un sintetico composto di incubo, sangue e ferite,  ma proprio per questo pregne di vita, palpitanti entro un tessuto a un tempo letterario e organico, in cui riconosciamo nitidamente la pelle, il respiro, l’esistenza dell’autore. Pagina dopo pagina troviamo gli indizi per ricomporre il quadro di una vita giocata tra laboratori farmaceutici, nave, manicomio, traffici criminali, nomadismo suburbano e mondo bohème. Negli stessi anni in cui venivano scritti I “Racconti del babbuino” (oggi ripubblicati parzialmente nel libro “Un negro voleva Iole” insieme a straordinari aforismi inediti), un gruppo di scrittori americani componeva i primi meccanismi di quell’ordigno senza precedenti che sarebbe poi esploso con il nome di Beat. Prescindendo dallo stile letterario e da certe distanze che, generalmente, intercorrono inevitabili tra autori americani ed europei, mi ritrovo a fiutare, fra mappe biografiche e comuni dedizioni, una certa somiglianza tra Marcello Barlocco e William Burroughs, lo scrittore con cui Massimo Ferretti (altro caro all’indomabile casa editrice Giometti & Antonello di Macerata) apriva “Il Gazzarra”, romanzo dissennato a sua volta vicinissimo ad almeno un paio di racconti tra questi fin qui trattati.

 

                                                        

Fine

 

Questa breve conclusione consiste nello scampare all’apertura di un altro capitolo che, peraltro, non saprei come intitolare. Lontano dall’idea di aver recensito un libro o aver acclamato un grande scrittore appena riscoperto, preferisco sentirmi colpevolmente coinvolto nell’innesco di un’analisi: l’analisi di come una scrittura possa farsi “felice ed insieme maledetta parabola” di se stessa.

 

 

Citazioni in ordine:

“Saggio sul sacrificio”, M.Mauss
“Sacrifici”, G.Bataille
“L’incertezza dei sogni”, R.Caillois
“Raymond Roussell”, M.Foucault

 

 

Pandemia: Angelo Vannini

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La possibilità di provare ciò che non è possibile provare. Una riflessione sulla situazione presente

 

di Angelo Vannini

 

 

Il quotidiano Il manifesto ha pubblicato ieri (29 marzo 2020) una riflessione di Donatella Di Cesare intitolata Il rischio adesso è la pandemia della mente. L’autrice fa riferimento a un’altra emergenza che dovremo presto affrontare, e di cui ancora si parla poco, ovvero le conseguenze mentali prodotte dall’isolamento: una «epidemia psichica» di proporzioni imponderabili. A concludere l’intervento è una frase che si distanzia dal registro diagnostico delle parole che la precedono: «Per i neosegregati sarà forse questa la chance per riflettere sulla condizione dei detenuti nelle carceri». A nutrire questo auspicio è la consapevolezza della fenditura che si è prodotta nelle nostre vite, proiettandoci in un’altra area di esistenza, esperienzialmente più vicina a quella della detenzione, sia essa carceraria o domiciliare. Dico «più vicina» perché le due esperienze, l’isolamento sanitario e la pena detentiva, non sono sovrapponibili e non devono essere confuse. Vorrei aggiungere, rispetto a quanto espresso dalla filosofa italiana, che questa potrebbe essere un’opportunità per i cittadini europei di riflettere sulla condizione non solo dei detenuti nelle nostre carceri, ma anche della maggior parte degli abitanti di questo pianeta.

Quello che è cambiato in questi giorni è che i cittadini europei si sono visti catapultare nella polarità opposta rispetto a quella in cui sono abitualmente situati. Mi riferisco alle due polarità secondo cui è governata la circolazione degli esseri umani a livello globale. Il governo della mobilità è operato secondo un modello segregazionista, il quale fa sì che io, cittadino italiano, possa circolare per la maggior parte dei paesi del mondo senza neanche il bisogno di chiedere un visto, mentre ai miei amici e amiche dell’Africa subsahariana questo non è possibile – non solo non è possibile, ma neanche rientra nell’orizzonte di ciò che è immaginabile. Da una parte vi è il diritto pressoché incondizionato di circolazione, riservato solo ad alcuni, e dall’altra l’esclusione da questo privilegio, cui sono condannati gli altri. Questi «altri» sono sottoposti a complesse procedure di immobilizzazione, realizzate attraverso tecniche ora militari e poliziesche ora di tipo burocratico e amministrativo. È lo stesso apparato di tecniche, anche se secondo modalità e finalità diverse, ad essere stato mobilitato per attuare quello che Donatella Di Cesare giustamente chiama arresti domiciliari di massa. Si tratta di procedure che dal punto di vista psichico producono, a vario grado, dissuasione, scoraggiamento e intimidazione.

Servono qui due precisazioni. La prima è che quello che sto dicendo sulla circolazione va inteso non soltanto a livello della mobilità interstatale, ma anche per quanto riguarda l’investimento degli spazi urbani. Magari in questi giorni ci sarà capitato, in uno dei nostri tragitti per andare a fare la spesa o portando fuori il cane, di trovarci in presenza delle forze dell’ordine e di provare un certo malessere. Dubbi del tipo chissà come gli gira se mi controllano. Chissà se ho riempito per bene l’autocertificazione, o stampato la versione giusta. Ebbene questa angoscia non è che un millesimo (e qui posso solo provare a immaginare) di quella che potrebbe avvertire, al passare di una volante, un ragazzo di colore se passeggia nella banlieue di una capitale occidentale.

La seconda precisazione riguarda l’opposizione che ho tratteggiato tra «alcuni» e gli «altri». Come la circolazione cui faccio riferimento non è solo quella internazionale, così gli «altri» non sono semplicemente o soltanto i non-europei. Il dispositivo escludente è molto più articolato: nel mondo in cui abitiamo la possibilità di un pieno sviluppo delle capacità umane è condizionata, e sappiamo bene per quali categorie passa la sfaldatura (classe, sesso, genere, razza, religione, ricchezza, origine, età, lingua, abilità, condizioni di salute, ecc.).

Sto scrivendo queste righe comodamente seduto alla mia scrivania, in un meublé nel ventesimo arrondissement di Parigi. Alcuni amici in questi giorni mi hanno fatto riflettere sull’eventualità di tornare nelle Marche, dove vive la mia famiglia. È dell’altro ieri (28 marzo) un’ordinanza che definisce le nuove modalità del rientro in Italia. Tra queste, è necessaria un’autocertificazione da consegnare al vettore – che si tratti di trasporto aereo, marittimo, ferroviario o terrestre – la quale specifichi il motivo del viaggio, l’indirizzo dell’abitazione in cui verrà effettuato l’isolamento assoluto per un periodo di 14 giorni, il recapito telefonico. I vettori acquisiscono la documentazione e misurano la temperatura dei passeggeri, cui è vietato l’imbarco se sono in stato febbrile. Chiunque faccia ingresso in Italia, anche se asintomatico, è poi sottoposto all’isolamento e alla sorveglianza sanitaria. A questo proposito, è significativo il comma 4 dell’ordinanza, che qui riporto quasi integralmente:

ove dal luogo di sbarco del mezzo di trasporto di linea utilizzato per fare ingresso in Italia non sia possibile per una o più persone raggiungere effettivamente l’abitazione o la dimora indicata alla partenza come luogo di effettuazione del periodo di sorveglianza sanitaria e di isolamento fiduciario, fermo restando l’accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria sull’eventuale falsità della dichiarazione resa all’atto dell’imbarco, ai sensi della citata lettera b) del comma 1, l’Autorità sanitaria competente per territorio informa immediatamente la Protezione Civile Regionale che, in coordinamento con il Dipartimento della Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, determina le modalità e il luogo dove svolgere la sorveglianza sanitaria e l’isolamento fiduciario, con spese a carico esclusivo delle persone sottoposte alla predetta misura.

Se volessi tornare a casa, non esistendo un volo diretto da Parigi ad Ancona, dovrei probabilmente passare per Roma. Che cosa significa non poter raggiungere effettivamente l’abitazione indicata come luogo di isolamento? Di quale fattualità è qui questione? Non riuscire a trovare un taxi che da Fiumicino mi porti a Termini? Il treno da Roma ad Ancona è soppresso? La carta di credito non mi funziona e non ho di che comprare il biglietto? Quali sono gli eventi che possono essere giudicati (e da chi?) come sufficienti a produrre un’impossibilità di fatto di raggiungere (ed entro quanto tempo?) l’abitazione indicata?

È chiaro come opera questo dispositivo: se da una parte produce, come ho già detto, scoraggiamento e intimidazione, dall’altra crea uno spazio di indeterminazione giuridica che permette all’arbitrio degli organi polizieschi di punire individui, che oramai non somigliano più a cittadini ma a sospettati. Detto questo, io so benissimo che rischierei poco o nulla a voler tornare in Italia: perché europeo, perché italiano e perché bianco. Diversamente andrebbe se il mio cognome non suonasse d’origine toscana, ma africana o asiatica, o se il mio viso avesse un pigmento più scuro, o se la copertina del mio passaporto fosse di un altro colore. Ancora una volta, la mia esperienza di immobilizzazione non è neanche lontanamente comparabile a quella che vivono persone in fuga – o che vorrebbero fuggire – da fame, guerra e povertà; ma le procedure che la mettono in atto da un lato afferiscono, pur secondo modalità e finalità diverse, alle stesse tecniche di controllo, e dall’altro producono effetti psichici che, per quanto incomparabili, possono aiutarmi a riflettere sui miei privilegi e a metterli in questione. Aiutarmi cioè ad aprire la possibilità di provare ciò che comunque non mi è possibile provare.

La condizione di disagio che alcuni stanno vivendo è tale soltanto rispetto ai privilegi di cui godevano prima. Sottolineo «alcuni» perché l’impatto del virus sulla nostra società mi sembra essere duplice. Se da un lato le popolazioni europee si trovano ad esperire una condizione cui il loro privilegio le aveva finora mantenute estranee, d’altro lato le misure di emergenza adottate per la gestione della crisi esasperano le ineguaglianze che sono alla base della nostra società.

L’esperienza cui siamo confrontati – e in particolare quella dell’immobilizzazione – può allora diventare un’opportunità per riflettere sulle dinamiche che, contrariamente a ogni idea di giustizia, regolano le condizioni dell’esistenza umana a livello tanto locale quanto planetario. Si parla spesso di Europa in questi giorni. C’è o non c’è? Sopravvivrà oppure no a tutto questo? Non dobbiamo però dimenticare che se c’è un’Europa, quale che essa sia, è soltanto perché ci siamo noi. Se c’è una cosa che questo virus insegna, è che il destino dell’umanità si gioca ormai a livello planetario, in un orizzonte relazionale che va dalla sfera umana a quella ben più ampia del vivente. Se la parola democrazia ha ancora un senso, ogni abitante d’Europa dovrà assumersi la responsabilità, non del proprio giardino come si è fatto finora, ma del proprio posto e ruolo nel mondo in relazione al posto e ruolo di altri. Questo significa che ogni abitante d’Europa si trova di fronte a un bivio, e dovrà scegliere se continuare a collaborare con quelle forze che hanno finora dominato il mondo come lo hanno dominato, oppure se esigere che un altro ordine, fondato su altre basi, venga finalmente, e per davvero, negoziato.

 

Parigi, 30 marzo 2020