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Delirio e potere

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di Pino Tripodi

 

Chi volesse comprendere le vicende del potere, di qualsiasi forma di potere, dovrebbe tenere bene in mente questo vocabolo: delirio. Il potere politico, in particolare, ha con   il delirio una relazione privilegiata. Pur non essendo da molto tempo la forma più acuta del potere di potere, il potere politico nel suo moto inerziale contemporaneo assume più di ogni altro potere la caratteristica quintessenziale del delirio. Il delirio non è una categoria psicologia del potere, ma la sua forma essenziale. Ciò vuol dire che nella natura del potere vi è inscritto il gene dell’eccedenza, quell’attributo di incontinenza che tende a  tracimare le vesciche che lo trattengono. Chi esercia un potere tende a varcare i limiti di quel potere. Così il potere estende le sue prerogative mentre chi lo esercita precipita nel proprio delirio. È in tal guisa che il potere astratto colonizza ogni pertugio di mondo mentre chi lo esercita ne viene sempre più imbrigliato. Quindi, più aumenta il potere astratto più viene limitato quello impersonificato. L’esercizio del potere politico è vistosamente affetto da delirio.

Prima di discutere dei temi della politica converrebbe indagare minuziosamente questa affezione e proporre qualche palliativo giusto per evitare che il delirio assuma forme più perigliose di quelle che circolano attualmente infettando parte estesa del pianeta.

Il delirio del potere ha effetti certo perversi. La perversione, indotta dall’innata eccedenza, comporta che chi esercita il potere lo interpreti come una estensione del  sé. Anziché ritenersi, com’è lapalissiano supporre, uno strumento del potere, il potente pensa al potere come a un proprio utensile che gli permette di gonfiare l’aria che respira. L’effetto delirante è che non c’è acqua che basti a a soddisfare la sete di potere. Ma in quell’acqua che estende il potere del potere il potente finisce per annegare di sua propria mano. A poco servono tutti gli esercizi retorici e istituzionali per impedire questa forma di puro delirio. Dopotutto, le regole, le istituzioni, le bilance dei poteri, gli elementi della rappresentanza hanno avuto nella storia della vicenda umana nient’altro che la funzione di imbrigliare il potere per impedirgli di delirare. Sono tutti argini per contenere le acque poteriche anzi che i potenti anneghino.

Nonostante tutti questi contenitori, che espandono a dismisura l’esercizio del potere – tanto da segnalare che nel regno delle libertà costituite a ciascuno è dato di esercitare una qualche forma di potere, dunque di godere del proprio delirio – nella normale vicenda storica, il delirio rimane la forma consustanziale del potere politico.

Di presso ai molteplici effetti di perversione, occorre tuttavia sottolineare che il delirio controintuitivamente ha effetti anche salutari per la tenuta di ogni sistema politico. Il motivo di questa controinduzione è palesabile in tantissimi luoghi del potere politico contemporaneo. Pur senza fare nomi che potrebbero concorrere ad ampliare il dispositivo di incontinenza poterica, chiunque può verificare a piacimento questi effetti benefici del delirio. Per sommi capi si potrebbero descrivere così. Date le regole funzionali della democrazia contemporanea, è molto facile che il potere politico sia esercitato da uomini deliranti, da persone cioè che interpretano il ruolo che il caso, il contesto, la situazione storica gli ha ritagliato come diretta espressione dei propri meriti e della propria volontà. Ciò è bene chiarire avviene perché le masse normalmente amano identificarsi nelle persone che si smassano, che desiderano essere non un continuum della vicenda umana ma un’eccezione. Stare da soli al comando, fare tutto ciò che passa per la mente, essere capi indiscussi di qualcosa, di un popolo, di una nazione, del mondo intero, essere venerati come un Dio, avere più poteri li Lui, commettere spropositi per il semplice gusto di verificare se le masse rimangono intruppate e festanti dietro il proprio idolo.

Il delirio piace alle masse. Ma per quanto piaccia, è proprio l’esercizio delirante del potere un piccolo freno se non un potente antidoto al desiderio di delirio delle masse. Preso nel suo delirio, infatti, inevitabilmente più prima che poi l’uomo di potere si incaglia. Il potere ha una vocazione corale, deve dirsi con tanti nomi per essere capace di qualcosa. Quando diventa monologo delira; all’apice comincia a  deflagrare, a sciogliersi come neve al sole. Privo di delirio, il potente potrebbe continuare all’infinito a commettere regolari nefandezze – la regola serve più a inscrivere il sopruso che a evitarlo, la corruzione è un dato sistemico del potere esercitato dalla moltitudine – ma il suo delirio lo porta alla perdizione. Infatti, le masse che lo hanno osannato, che hanno preteso che quel delirio si incarnasse, appena l’incontinenza è attiva, quando si verifica la situazione che si è agognata – pieni poteri per un uomo solo – cominciano ad essere vittime del suo proprio delirio che da quel momento si sgonfia con rapidità come un pallone bucato da un grande ago.

Senza quei deliri gli uomini potenti contemporanei tramontati l’attimo dopo dell’alba avrebbero potuto governare parecchi ventenni.

Se il delirio è espressione del potere, come si può rendere il potere politico meno nocivo?

Chiaro, deve essere contenuto in vesciche capaci  e lubrificate.

Certo, va istruito del fatto che il suo potere checché ne pensino o ne desiderino le masse è un parafulmine di tutti gli altri poteri dati (le imprese globali, le macchine astratte delle regole e delle leggi, gli interessi sociali costituiti, le consorterie, i gradienti tecnologici e problematici dell’epoca).

Evidente, occorre portare minuziosa attenzione alla formazione delle leadership avvertendo che il refrain guai ai popoli che hanno bisogno di eroi è ancor più veritiero se in luogo degli eroi appiccichiamo i leader.

Un leader di tal livello necessita di pochi solidi attributi tra i quali si segnalano senza ordine d’importanza:

1) Non aspirare a diventarlo. 2) Avere in forte antipatia l’assoggettamento e il comando. 3) Pretendere che non sia dato il suo nome a nessuna formazione e a nessuna ideologia. 4) Stare lontano il più possibile dalle luci dei circoli mediatici. 5) Non amare il potere né diventare suo amante prediletto. 6) Essere all’altezza della storia che gli capita di vivere. 7) Banalmente, amare il prossimo come se stesso. 8) Evitare di dire io, ma stare anche attento a  pronunciare con delicatezza il pronome noi. Meglio indicare il nome dell’Istituzione che rappresenta. L’uomo dell’istituzione è la più importante declinazione soggettiva dell’istituzione umana. 9) Essere donna al di là dell’appartenenza di genere. 10) Sentirsi ricco nella povertà e povero nella ricchezza. 10) Esimersi da ogni lotta di potere. 11) Considerare il potere come limite funzionale, mai velivolo spaziale di carriera. 12) Deve in sintesi avere nelle sue corde il gesto e il suono esattamente contrari ai deliranti leader contemporanei.

 

 

 

 

Dino Buzzati, la Luna e Dio

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di Alessandro Montefameglio

 

Il 17 ottobre 1958 appare sul Corriere della Sera un articolo suggestivo. Il titolo è Se si scoprisse che la luna è molto più lontana del previsto, la firma è quella di Dino Buzzati e il testo consiste in uno dei più celebri tra gli “articoli lunari” che lo scrittore bellunese redasse tra gli anni Cinquanta fino al momento dello sbarco.

Il Chiaro di luna di Verlaine- Le ragioni di una nuova traduzione

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di Pierpaolo Rosati

CLAIR DE LUNE

 

Votre âme est un paysage choisi
Que vont charmant masques et bergamasques,
Jouant du luth et dansant et quasi
Tristes sous leurs déguisements fantasques.

Tout en chantant, sur le mode mineur,                            5
L’amour vainqueur et la vie opportune,
Ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur
Et leur chanson se mêle au clair de lune,

Au calme clair de lune triste et beau,
Qui fait rêver les oiseaux dans les arbres                       10
Et sangloter d’extase les jets d’eau,
Les grands jets d’eau sveltes parmi les marbres.

 

 

CHIARO DI LUNA

Il vostro spirito è un paesaggio incantevole,

ammirato da maschere che suonano il liuto

e danzano bergamasche, quasi

tristi nei loro travestimenti fantastici.

 

Pur cantando l’amore trionfante e la fortuna propizia,

esse non hanno l’aria di credere in una felicità

cantata nel modo minore,

e la loro canzone si fonde con il chiaro di luna,

 

con il sereno chiaro di luna triste e bello,

che fa sognare sugli alberi gli uccelli,

e singhiozzare in estasi le fontane,

le grandi fontane che sgorgano svelte fra le rocce.

 

 

  • Il primo verso offre al traduttore l’opportunità di cogliere sin dall’incipit l’atmosfera dell’imminente azione poetica: âme e paysage ne rappresentano i primi contenuti simbolici. Âme in quanto “condizione emotiva”, “stato d’animo”, “predisposizione dello spirito”: ciò che, in una brigata carnevalesca, dovrebbe facilmente traslare verso il “motto di spirito”, la “spiritosaggine”, lo “spiritoso” e, per l’appunto, lo “spirito”. Nulla a che vedere con quell’“anima” troppe volte ontologizzata in quanto entità soprannaturale, preordinata ad un destino ultraterreno.
    Il sostantivo che segue (paysage) accentua il tratto fisico e non metafisico dell’esordio, con riferimento a ciò che in genere si intende con tale termine: un sito campestre che si eleva fino allo skyline. Ove mai si volesse preferire a “paesaggio” un più recinto “giardino”, in tal caso, l’aggettivazione dovrebbe essere inevitabilmente “fiorita”.
  • I versi 2-4, in vario modo interconnessi, sono da analizzare congiuntamente, per motivi che vanno ben oltre l’enjambment dei vv. 3 e 4, o la correlazione modale tra charmant, jouant e dansant dei vv. 2 e 3. Particolare attenzione merita piuttosto il binomio masques / bergamasques: quello che molti traduttori mostrano addirittura di non capire, con conseguenze quanto mai negative per il lettore italiano, costretto a scervellarsi inutilmente, senza neppure poter fruire dell’armoniosa musicalità, tutta francese, tra il binomio sopracitato e la rima successiva (fantasques), collocata al v. 4.
    Proprio perché trattasi di assonanze e di rime possibili solo in francese (assonanze ma anche consonanze, armoniche e melodiche, come dire musicali), tanto varrebbe rinunciare in partenza ad ogni tentativo di riprodurle in italiano, ricorrendo magari a forzature linguistiche che comporterebbero solo l’allontanamento dall’originale e da quel tanto di imperdibile che in esso può ancora essere scoperto, valorizzato e trasmesso in L 2. Se nella armoniosa sequenza masquesbergamasques vi è ben poco da salvare, ai fini della nostra traduzione, nulla impedisce di scindere quel binomio, per rendere più trasparente una lirica simbolista ma già ermetica per vocazione.
    Posto che la bergamasca, per un dato musicologico ormai acquisito, sia una danza barocca di origine lombarda, in voga tra XVI e XVII secolo, sopravvissuta in seguito solo nella tradizione popolare, se ne può dedurre che essa non abbia nulla a che fare con i bergamaschi (così traducono in molti!), ovvero con gli abitanti di Bergamo, maschi o femmine che siano…
    Invero, il solo modo per creare un contesto e dare un senso al termine bergamasques è quello di collegarlo all’unico verbo (dansant) da cui esso può dipendere, data la sua valenza coreutica. Di qui la proposta dello scrivente, intesa ad operare, in punto di esegesi, due interventi di microchirurgia, volti:

 

  1. a scindere masques e bergamasques (in rima con fantasques) ;
  2. a costruire un nesso finalmente esplicito tra maschere che suonano il liuto, e altre che danzano la bergamasca (al plurale, e in modo meno determinato, che danzano bergamasche).

 

  • Con riferimento al v. 5, solo un piccolo rilievo: cantare ‘in’ modo [in tono] minore sembrerebbe quasi un cantare a bassa voce. L’originale, da par suo, fa di meglio (mettiamola sul paradossale!). Presenta infatti un “modo minore” preceduto da preposizione articolata; il che dovrebbe voler dire, evidentemente, cantare ‘nel’ modo minore, ovvero in una tonalità minore, con quel tanto di espressività malinconica e nostalgica che ben si addice al “minore”. Di qui l’ossimoro tutto da svelare: da una parte, la tendenza a voler cantare l’amore trionfante e la fortuna propizia (v. 6), dall’altra, l’atmosfera espressiva della “modalità minore” che, di suo, tradisce l’aria di chi non crede alla felicità (del v. 7).
    Insomma, anche in tal caso pare utile ricorrere ad un lieve aggiustamento narrativo, suscettibile di apportare al chiarore lunare una maggiore trasparenza. E allora, con intenti dichiaratamente ermeneutici, diciamolo a chiare lettere: Pur volendo cantare l’amore trionfante e la fortuna propizia, esse [!] non hanno l’aria di credere in una felicità cantata nel modo minore (vv. 5-7).Circa la vie opportune (v. 6) – che pure si pensava (si sperava) fosse locuzione idiomatica – essa si è rivelata, invece, materia composita. Mi è stata di ausilio, in proposito, la traduzione (“da poeta a poeta”, come tale diversissima dalla presente) di Mario Musumeci il quale, poco più su, svelava la password del costrutto: la parola “fato”, una chiave di lettura tuttavia insufficiente a coprire l’ambito semantico della vie opportune (il fato, in sé, può risultare favorevole e perciò opportuno, ma anche avverso…!). Ecco quindi palesarsi la necessità di provvedere ad un aggettivo supplementare, in grado di sciogliere l’enigma: ciò di cui qui si parla è, infine, di una “vita destinata dal fato”, esposta ad una “fortuna” (alla fatalità) che ci si augura non avversa, ma “opportuna”, vale a dire “propizia”.

    Vi è poi una questione di dettaglio (per nulla trascurabile), sopra segnalata con parentesi quadra e punto esclamativo: in francese, un pronome maschile-plurale (ils, nel v.7) da riferire necessariamente alle “maschere” del v. 2. Sono sempre loro, infatti, “che suonano, … danzano, … cantano”, e che, da ultimo, “hanno l’aria di non credere alla felicità” (ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur): “le maschere”, un femminile plurale contrassegnato, però, da un pronome di genere diverso (ils anziché “elles”).
    Come si spiega?
    I traduttori frettolosi neppure avvertono il problema, e così traducono mot à mot (“essi”), come se Verlaine avesse mai potuto sbagliare una concordanza! Si tratta di notare, invece, che, nell’idioma d’oltralpe, l’italiana “maschera”, sorprendentemente, è virilis generis: “le masque”, cui dunque ben si adatta il plurale maschile ils, così come, nella nostra lingua, si rende altrettanto necessaria la declinazione femminile plurale: “esse”, le “maschere” del v. 2.

  • Quanto alla “canzone che si fonde con il chiaro di luna” (v. 8), essa per l’appunto “si fonde” e non “si mescola” (ché saprebbe d’intruglio), né “si mesce” (come si direbbe anzitutto del vino). Il “chiaro di luna” è da assumere preferibilmente come formula olistica, idiomatica, ormai marmorea, fortemente voluta dal titolo francese e dall’inveterato uso italiano. Ricorrere ad un sostitutivo “chiarore” non sembra necessario, tanto più se si tratti di un “chiarore di luna” e non, semmai, del più fluido “chiarore lunare”, sopraddetto “mite” nella dannunziana Falce di luna calante (1882).
    Qui Verlaine incastona il “chiaro di luna” in un’aggettivazione triplice ma per nulla sovrabbondante. Anzi, è con semplicità tutta naïve, che egli decanta il paesaggio “sereno … triste e bello” in una notte di luna (v.9).

 

  • Nel v. 10 importa segnalare, con riferimento alla traduzione qui presentata, la posizione prolettica del sintagma “sugli alberi”, difforme finanche dal testo francese, ma non per scelta arbitraria, bensì per aderenza ad un frammento minimo e però illuminante della storia letteraria italiana. L’allusione è rivolta ad una celebre lirica di Ungaretti, brevissima per antonomasia: Soldati (1918).
    – (Si sta) còme / d’autùnno / sugli àlberi / le fòglie
    A confronto, il nostro v. 10, anteponendo “sugli alberi”, presenterebbe una struttura simile:
    – chè fa sognàre sugli-àlberi gli uccèlli – .

 

  • I vv. 10 e 11, raggruppati nella versione italiana, si fanno notare per la loro simmetria: in parallelo, da un lato troviamo il “sognare”; dall’altro, il “singhiozzare”.
    Chi è che “sogna” al chiaro di luna?
    Chi “singhiozza”? E come non ricordare, in questo immaginario contesto, il pascoliano “Chi strilla?” de L’aquilone (1897), v. 36?
    Sulla parte destra del distico, “gli uccelli” (che sognano) e, sotto, “le fontane” (che singhiozzano), ossia i soggetti che, rispettivamente, compiono quelle azioni e che, pur soggetti, si palesano solo alla fine di ciascun rigo, per un effetto sorprendente che in italiano sembra funzionare.

 

  • L’attenzione può infine concentrarsi sull’ultimo verso e sulla sua metrica, da intendere alla maniera delle Odi barbare carducciane. Prima della chiusa, un tetrasillabo di carattere introduttivo; di seguito, due dattili (- ᴗ ᴗ – ᴗ ᴗ) e tre trochei (- ᴗ – ᴗ – ᴗ) così disposti:
    “Le grandi fon/tàne che sgòrgano / svèlte frà le ròcce –
    L’andamento dattilico, dal carattere piano e discorsivo (- ᴗ ᴗ – ᴗ ᴗ), subisce infine una sorta di accelerazione proprio col subentrare dei trochei (- ᴗ – ᴗ – ᴗ); accelerazione che, non a caso, comincia dalla parola “svelte” (sveltes).
  • Per una postilla, è il caso di ricordare come Claude Debussy (1862-1918) avesse profondamente introiettato la poetica simbolista (e non semplicemente impressionista) di Verlaine; lui che, nel 1890, componeva una Suite pianistica definita bergamasque, il cui terzo movimento, brano di ineffabile fascino, recava a sottotitolo, non a caso, Clair de lune. Lui che, un anno più avanti, avrebbe dedicato proprio a quella lirica di Verlaine, una mélodie per canto e pianoforte anch’essa memorabile, se pure ritmicamente troppo uniforme, impossibilitata perciò a trasferire in musica ogni eventuale variatio del registro espressivo verbale.
    Anche per questo motivo può forse dirsi – lo scrivente invero non ne dubita – che solo con Gabriel Fauré (1845-1924) il Clair de lune verlainiano raggiunse la vetta nella sua vicenda estetico-musicale (1887). Se ne ascolti l’espressiva e raffinata interpretazione di Gérard Souzay (citata in YouTube), purtroppo mal servita dall’opaco pianoforte di Jacqueline Bonneau. Di contro, giustamente incisivo e vibrante – anche per sottolineare talune irregolarità ritmiche – l’accompagnamento prestato da Jean-Yves Thibaudet alla bella vocalità di Renée Fleming, esibita in un pregevole e ricco CD della Decca.
    Quanto all’eminente valore artistico della pagina musicale procurata da Fauré, basti segnalare, stando alle preferenze di chi scrive, alcune delle sue caratteristiche migliori:
    Il ritardo con cui interviene la voce, in medias res, dopo aver consentito al piano in assolo di esporre, e finanche di ribadire (almeno in parte), l’impianto ritmico-armonico della composizione: soluzione assai elegante, in tutto degna di quanto avverrà (tre anni dopo) nel Morgen op. 27 n.4 di Richard Strauss (1864-1949).
    2. La sapiente cesura con cui Fauré introduce il primo distico dell’ultima strofa di Verlaine (au calme clair de lune triste et beau …). Trattasi di un soave arpeggio pianistico che determina la posa di un inatteso, serenante tappeto armonico. Lo si ascolta distintamente nell’esecuzione pianistica di Dalton Baldwin, accompagnatore del sempre mirabile Souzay (coadiuvato da Elly Ameling) nell’edizione integrale delle Mélodies di Fauré incisa nel 1974 per la EMI (cfr. Vol. I, 2. 16).
    È un momento contemplativo quello che la musica di Fauré riesce in ultimo a delineare; un climax di alta poesia che il distico di Verlaine, in simbiosi con lo spartito, sembra voler assecondare. Poche, ma intense le parole del poeta: un chiaro di luna “triste e bello”, uno sparuto stormo di “uccelli sognanti”, e poi – quando già si ripresenta l’iniziale andamento ritmico – una “fontana singhiozzante” (ma non “malata” come in Palazzeschi [1909]), bensì percorsa da un fremito di vita) e uno “scroscio d’acqua” che scorre veloce.
    Siamo di fronte all’ennesimo esempio, sufficiente a rimarcare il modo in cui la musica, a contatto con il testo letterario, riesca a svolgere un ruolo attivo e peculiare, contribuendo a disegnare strutture compositive appositamente individuate. Si parla, ovviamente, della musica di qualità: quella che non si limita a fare da semplice tappezzeria, ma che si mostra in grado di proporre intuizioni originali e spesso utili, nell’esegesi, nelle prove di recitazione e anche – come in questo caso – nella traduzione in altra lingua.

 

  • Per una “confessione preliminare”, pari a quella richiesta da Max Weber, basti dare una scorsa alla seguente nota informativa, intesa ad illustrare, da un lato, i criteri metodologici adottati per la traduzione e, dall’altro, la considerazione qui riservata al carattere c.d. sonoro della sensibilità estetica propria a Verlaine.Il tradurre non consiste in un asettico travaso da un vocabolario all’altro; la lingua di arrivo (L 2) non può essere solo lo specchio in cui rinvenire, riflessa, l’immagine emanata dalla lingua di partenza (L 1).
    La L 2 è bensì un universo linguistico autonomo, dotato di luce propria e di stratificazioni culturali ormai sedimentate, ancorché talvolta inconsapevoli. Nondimeno, è bene che l’incontro tra L 1 ed L 2 si svolga alla pari, senza prevaricazioni o disequilibri, provocati dall’una o dall’altra parte. Piuttosto, è giusto che anche la lingua detta L 2 partecipi al progetto traduttivo, facendosi forte delle proprie risorse ed esperienze pregresse: in una parola, della propria storia (letteraria). Sarà opportuno, ad esempio, che il ruolo della L 2 sia non solo attivo ma reattivo, senza mai far violenza, però, all’originale: un ruolo anzi sollecito nel salvaguardarne la lettera e il senso, come già raccomandavano le prescrizioni del professore ginnasiale di latino e greco. Non altrimenti potrà accadere, se non osservando tali avvertenze, che il lavoro del traduttore acquisti una dignità estetica sua propria, degna di un’opera evidentemente mediata, ma in sé compiuta, sorvegliata ed espressiva.

    2. In cauda, solo un breve cenno all’annunciata sonorità, tutta da riconoscere e da tutelare in quanto sphragís (vale a dire, identità precipua) della lirica di Verlaine. Nulla quaestio sul doveroso apprezzamento da esprimere nei confronti di quel suo prezioso carattere. Tuttavia, sia consentito, almeno, un sommesso suggerimento: quello di non rimettersi passivamente alle posizioni del purismo più rigoroso e intransigente, non meno pernicioso, quando pure di ambito musicale.
    Ponendo infatti come inderogabile l’esigenza di fare di Verlaine il topos del “puro suono” (“de la musique avant toute chose”), non si rischia di farne un taboo? Qualcosa da non dover poi contaminare, neppure con un dito, più che mai con una mano, nel tentativo di tradurlo in altra lingua?
    Allo scrivente toccherebbe, a tal punto, piantare baracca e burattini e cambiare mestiere, senza neppure potersi valere della chance offerta da quel maldestro scrittorello serbo-bosniaco che, ignaro del senso idiomatico del nostro piantare baracca e burattini, traduceva alla lettera: “fondare una compagnia di teatro stabile” …
    Del resto, perché ritenere che la carta della poesia sonora si giochi tutta tra simbolismo ed impressionismo francese?
    Perché escludere, ad esempio, che anche il nostro Recanatese, in atto di descrivere la sua “donzelletta” – ritratta con termine cólto ed elegante, oltre che metricamente pregnante – abbia potuto pensare, contestualmente, al valore quasi onomatopeico (e quindi sonoro) di quel suo incedere con leggiadra, giovanile bal/danza?
    Comunque sia di ciò, fu iniziativa davvero opportuna, tempo fa, quella di stigmatizzare come opera di un mestierante incolto e grossier la traduzione spagnola del “sabato” leopardiano che scambiava proprio “la donzelletta” per una inaudita “muchacha”: scelta linguistica del tutto scadente, ma non solo. Potremmo soggiungere: maniera imperdonabile di tradire (e non tradurre) anche i contenuti musicali in gioco, meritevoli essi pure di essere, se possibile, interpretati e trasmessi, ma sempre e comunque: per Leopardi come per Verlaine.

 

Su «Come sarei felice» di Tommaso Giartosio

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di Domenico Conoscenti

Il primo contatto che ha il lettore col libro di Tommaso Giartosio, Come sarei felice. Storia con padre, Einaudi 2019, è la poesia riportata in copertina, costruita attorno ai poli semantici di tradire e tramandare, entrambi etimologicamente derivati da tradĕre. L’io testuale (‘il poeta’, si direbbe a scuola) si rivolge al padre, come suggerito dal sottotitolo, per dirgli, fra l’altro: […] Solo questi segreti / si tramandano / tra le righe / di un testamento / impugnato. // Fidati di me. // Non ti tradirò mai abbastanza. La storia con padre è allo stesso tempo, inevitabilmente, una storia con figlio, la cui voce è però l’unica ad organizzare il discorso che leggiamo (e leggeremo). Qui, ad esempio, la tensione fra gli ultimi due versi è giocata sull’abbastanza finale. L’avverbio vanifica l’implicita consequenzialità innescata dal Fidati di me, cui non risponde, appunto, un (letteralmente) univoco Non ti tradirò mai. Ma neppure un simmetrico verso di senso opposto, altrettanto univoco, e per questo altrettanto rassicurante. Un figlio, insomma, che dice a sé e al padre morto (con un senso di sfida e di orgoglio? con sofferto rammarico?) che non sarà mai abbastanza diverso da lui (da come lui lo avrebbe voluto) oppure, il che è quasi lo stesso, mai abbastanza uguale a lui (a come lui lo avrebbe voluto).

Nella quarta di copertina, pubblicata di certo col consenso dell’autore, se non scritta di suo pugno, vi si legge poi di un percorso in due tappe che si integrano perfettamente anche grazie ad un poemetto-cerniera […]: La stellina. Assumendo quest’ultimo testo come asse mediano, affiora così una divisione speculare in quattro + quattro parti che includono lo stesso numero di poesie nelle sezioni corrispondenti:

A.1 Stemma                                         -1 poesia
A.2 Vivere                                            -9 poesie
A.3 Cristallizzarsi                                -12 poesie
A.4 Le notti bianche                             -12 poesie

                     B. La stellina

C.4 I viaggi immaginari                       -12 poesie
C.3 Trovare                                          -12 poesie
C.2 Perdersi                                         -9 poesie
C.1 Stigma                                            -1 poesia

Parrebbe da questo specchietto (mia la catalogazione dell’Indice con lettere e numeri) che la specularità sia un tema importante, centrale, se l’intera struttura risulta organizzata in tal modo. Una forma-struttura equivalente del contenuto-sostanza, un po’ come avviene, in piccolo, nella poesia di Montale Cigola la carrucola del pozzo. Non so capire in che rapporto stiano prima parte, genealogica, dedicata al padre (sempre dalla quarta di copertina) cioè le poesie di A, e seconda parte (romanzo di formazione e d’amore), le poesie di C: di rispecchiamento sì, certo, ma in che termini precisamente? Intanto è indubbio che Stemma e Stigma, l’alfa e l’omega della raccolta, si richiamino sia foneticamente che concettualmente: dall’accezione generale di “contrassegno stabile di famiglie e singole persone” si passa a quella particolare di “qualità negative attribuite a persona o a gruppi di persone[1]”. Modalità di passaggio che potrebbe estendersi per intero alla relazione tra prima e seconda parte? Magari anche a quella, ad esempio, tra le singole poesie di Vivere e quelle di Perdersi? Potrebbe, non saprei. Gli accostamenti dei titoli dei capitoli, intanto, risultano quanto meno evocativi, come coppie di varianti quasi sinonimiche (e il quasi è elemento cruciale), speculari perfino nella disposizione nomenclatoria: coppia nuda di sostantivi la prima (Stemma-Stigma, appunto), poi due coppie di verbi all’infinito, di cui due riflessivi, Vivere-Perdersi e Cristallizzarsi-Trovare, e l’ultima coppia con sequenza più strutturata articolo-sostantivo-aggettivo: Le notti bianche-I viaggi immaginari.

Ritornando a Stemma e Stigma, provo a individuare la relazione fra Narciso e Nella vetrina del japanese restaurant, i testi che ne costituiscono rispettivamente il contenuto. Narciso si presenta come una demistificazione, un rovesciamento carnevalesco del mito: Narrano che Narciso / non fosse bello affatto, / e che accettasse il fatto. // Ma il fatto che il suo viso / nella fonte riflesso / fosse brutto lo stesso – // questo sì l’abbia ucciso. La convivenza con la propria consapevole bruttezza, l’accettazione del dato di fatto, diventa per Narciso intollerabile nel momento in cui la vede (e si vede) oggettivamente, dall’esterno, attraverso la conferma di un altro che funge da specchio: forse un figlio (omosessuale) che si scorge appunto nel rimando del rapporto col padre, o anche, viceversa, un padre che si scorge nello sguardo di un figlio diverso senza riconoscerlo e riconoscersi. La poesia della copertina, Tutti i segreti morti con te, inclusa in A.2, in questo primo blocco aperto da Narciso, sembra esplicitare e contestualizzare la consapevolezza, orgogliosa o sofferta o entrambe, del figlio che (non sa o) non vuole rispondere alle aspettative del padre, essere una sua proiezione, un suo riflesso. Lo stemma, che ha la famiglia come ambito di elezione, potrebbe essere così il mancato (reciproco?) riconoscimento paterno-filiale, che implica una persistente e talvolta dura tensione: scendevo in quella patria di voci, verso i miei termini che tu abbaiavi sfidandomi a penetrarli – «invertito», «sodomita», «pederasta» (IDR-LIEB, SCI-TAT, PAO-PZ). Nomi comuni di genere maschile. E tu eri buono come il pane, come il sale (sempre in A.2. Da notare la duplice similitudine, di cui la seconda antifrastica).

Ma forse questo non è che un aspetto della discontinuità dialettica fra le generazioni, che trova la sua narrazione nel poemetto La stellina. In un fluire di endecasillabi che ricorda un po’ il Pasolini ‘civile’, con toni che variano dall’affettuoso e partecipe al distante e beffardo viene ripercorsa la biografia del padre, intrecciata ai mutamenti politici e sociali dell’Italia dal fascismo agli anni Ottanta ‒ col che il sottotitolo della raccolta si carica di ulteriore senso. Nel ’68 e nel decennio successivo, al di fuori dei versi che vi fanno esplicito riferimento, il conflitto fra padri e figli ha assunto nel frattempo le caratteristiche peculiari della contestazione giovanile, che interseca i movimenti per i diritti delle donne e degli omosessuali, all’interno delle cui riflessioni è cresciuta la generazione dell’autore reale. Nella raccolta il processo di formazione individuale si costruisce più che mai attraverso il confronto-scontro generazionale, che tocca, sia pure tangenzialmente come si è accennato, anche quello tra eterosessualità e omosessualità; è un processo che viene focalizzato sulla relazione tutta al maschile tra padre e figlio, a differenza ad esempio di Pasolini (appartenente alla generazione precedente), il quale riteneva fondamentale nel proprio rapporto col mondo la relazione-identificazione con la madre.

Le poesie del secondo blocco sono centrate, come anticipato, sulla costruzione dell’identità di uomo e di poeta dell’io testuale. Se Stemma-Narciso apriva il blocco iniziale, Stigma-Nella vetrina del japanese restaurant specularmente chiude quello conclusivo: Se ti sbucciassi amore come / una cipolla, amore // e lo facessi ancora / e ancora, ancora, amore // al centro troverei ancora / non il tuo ma il mio cuore. // E ponendo sul pollice / quel fuso viola, amore // lucido, laccato come / questo sàmpuru – amore – // quanto sarei solo. / Come sarei felice. Suppongo che il testo riprenda l’immagine di una poesia di Szymborska, La cipolla, allontanandola dal sistema di significati dell’originale, per approdare alla scoperta, nella cipolla-amato, del cuore dell’amante (che parla e scrive) anziché dell’altro (che è scritto e detto). Trovare nell’altro il proprio cuore è scoperta o conferma, ovviamente, di una profonda solitudine, ma la chiusa non blandisce la probabile, dolente, aspettativa del lettore, spiazzandolo invece con un procedimento ‒ già notato nella poesia in copertina e adoperato spesso nella raccolta, insieme a frequenti paronomasie ‒ che accosta frasi (o sintagmi) quanto meno divergenti, se non proprio antitetiche. L’amore che non ha bisogno dell’altro, l’amore dell’identico: parrebbe essere questo lo stigma, “qualità negativa di persone o gruppi”, l’amore narcisistico che una certa vulgata identifica con l’omosessualità tout court. Il Come sarei felice della chiusa, assurto a titolo dell’intera raccolta, inevitabilmente dà un rilievo particolare a questo testo, con le ultime parole dell’io testuale che riflettono le primissime, quelle del titolo (e viceversa).

La parodia del mito in Narciso, attuata anche attraverso l’abbassamento del lessico, trova nella poesia finale un corrispettivo nella modalità espressiva… mieloso-canzonettistica, in quella ripetizione per ben cinque volte di amore e di quattro di ancora. Se a questo si aggiunge che il come del verso iniziale è seguito più avanti da un altro come che sposta il fuso-cuore nel campo semantico dell’artificio e del tossico (il sàmpuru, sulle cui caratteristiche ci informa la Nota autoriale alla fine della raccolta[2]), ecco, non sono sicuro che nel Come sarei felice della poesia si trovi “il messaggio” poetico dell’autore, l’essenza di un personale itinerario, del suo intimo “discorso”, ma solo quello dell’io testuale. È un finale che mi lascia il dubbio di dover essere riferito a uno stereotipo, adoperato in funzione critica e non con l’adesione dell’autore reale, che certo sa che l’amore narcisistico, lungi dal definire la totalità delle relazioni omosessuali, può riguardare d’altra parte anche quelle eterosessuali.

L’ultimo intervento dell’autore coincide con l’appena citata Nota, scandita in tre paragrafi, dalla quale il lettore può attingere informazioni di tipo bibliografico o riguardanti alcune citazioni o a chiarimento di determinate scelte tematico-lessicali. La parte più interessante è a mio avviso il paragrafo iniziale che esordisce con un inequivoco Se avessi voluto fare un ritratto oggettivo di un padre, avrei scritto altro. L’autore rivendica la caratteristica di cangiante paesaggio emotivo per la propria raccolta, ponendola entro l’ambito interpretativo della soggettività (e in ultima analisi, credo, del genere lirico), fornendo insomma al lettore la propria chiave di accesso al mondo dell’io testuale. Curiosa la presenza della riga e mezzo finale, la definizione, priva di fonte, di un termine latino, che costituisce da sola il terzo e ultimo paragrafo della Nota: “Patratio est effectus, exsecutio, perfectio, et rei veneris consummatio”. Il termine non è presente nel corpus delle poesie e la sua definizione non svolge neppure funzioni analoghe alle altre informazioni-spiegazioni della Nota. E però lì è stata collocata.

Non tutti fra i quattro dizionari cartacei che ho sfogliato affiancano, al significato generico di conclusione, anche l’accezione eufemistica od oscena (così scrivono) di compimento del coito. Nel Lexicon Totius Latinitatis (consultato online) del padre Egidio Forcellini, oltre alla definizione non reticente di patratio, si legge che da esso deriva il lemma pater, che è probabilmente il motivo per cui la definizione è stata trascritta dall’autore: «2. Speciatim obscaeno sensu. Vet. Scholiact. ad Pers. 1. 18. Patratio est rei Venereae perfectio, vel consummatio; unde et patres dicti, eo quod patratione filios procreant. Adde Theod. Priscian. 2. 11»[3]. Le ultime parole della raccolta, che pure non hanno funzione di glossa né di spiegazione didascalica, provengono così dalla voce dell’autore, non da quella che ha detto ‘io’ nelle 68 poesie (+ La stellina). Se il fine è quello di mettere in evidenza la paternità come procreazione fisiologica, di ricongiungerla al compimento del coito, al senso di una conclusione che porta in sé qualcosa di irrevocabile, la questione più immediata mi sembra: perché adesso, perché qui? Forse un varco dischiuso dall’autore verso aspetti da sviluppare in testi successivi. Forse un invito a rileggere la raccolta alla luce dell’accezione individuata dagli antichi patres: una rilettura che cominci adesso, dal compimento del testo, e proceda ordinatamente à rebours, riattraversando lo specchio della Stellina fino a mostrare sempre più l’irrevocabilità del percorso intrapreso.

 


[2] «Il sàmpuru dell’ultima poesia è il termine giapponese (dall’inglese sample, “esempio, modello”) con cui si indicano le riproduzioni di pietanze visibili nelle vetrine dei ristoranti nipponici. Sono realizzate a partire dal cloruro di vinile, un composto altamente tossico», p. 130.

Overbooking: Carla Stroppa

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Note su Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà

di

Lucio Saviani

 

“La nostra sovrannaturalità domestica”: così Vladimir Jankélévitch chiamava l’anima.

La cura domestica dell’anima è amore per ciò che è impossibile da possedere. Impossibile entrare in possesso dell’incomparabile superlativo, di ciò che è accessibile soltanto in un fulmineo punto di tangenza, una sconosciuta apparenza, come tutto ciò che non è di casa. Addomesticare l’ignoto, non per dominarlo ma per renderlo familiare, di casa, cioè accoglierlo: l’anima prepara la domus per tale accoglienza.

Su quella soglia si toccano senza trattenersi “il Quaggiù e l’Ulteriore”; a questo imprevedibile, subitaneo incontro la cura domestica dell’anima ci prepara. Ad accogliere la straniera iniziativa per la quale noi abitiamo come destinazione e provenienza.

“Tutto ciò che è significativo avviene, nella maggior parte dei casi, o attraverso un sogno o ‘in un sonno leggero’ o infine in coloro che subitaneamente si trovano staccati dalla coscienza della realtà esterna. (…) Un urto potente alla nostra persona, che ci strappi a noi stessi di colpo, o il vacillare, la ‘crepuscolarità’ d’una coscienza sempre errante al confine dei mondi…”. Potente è la consonanza di questa pagina di Le porte regali di Pavel Florenskij con l’idea di “sovrannaturalità domestica” in Jankélévitch. E alla forza imperiosa di questo subitaneo “urto potente” rinvia la lettura di Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà, l’ultimo libro di Carla Stroppa, da poco pubblicato da Moretti & Vitali.

Viene a compimento in queste pagine un percorso di analisi e di riflessioni che chiamerei “trilogia della soglia”. Il libro si lega in un rapporto di rimandi, riprese, premesse e finali approdi ai precedenti Il doppio sguardo di Sofia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura, del 2016, (vi leggiamo, a pagina 34: “Si dovrebbe scrivere un libro apposito sulla soglia sottile che divide la ragione dal sogno, o meglio li intreccia al di là di ogni “ragionevole illusione” di controllo (…) Hermes, il divino mediatore tra le altezze dello spirito e le valli dell’anima, trapassa i muri, il tempo e lo spazio”) e Fantasmi all’opera. L’imperiosa realtà dell’illusione, del 2013, (“Qualcosa, spesso un evento traumatico, ma talvolta il semplice fluire del tempo che incide sul corpo e sull’anima i segni della sua signoria, interrompe il filo di continuità che aveva legato alla vita.

Il senso della propria identità e la prospettiva del futuro si confondono, si annientano persino e la coscienza entra in uno stato di liminalità, di pericolosa confusione. In questa dimensione psichica si animano i fantasmi del mondo interiore”. Pag. 124).

I precorsi tracciati dai tre studi convergono e si incrociano su di un concetto chiave, la soglia, che dà anche accesso alle pagine del libro che chiude la trilogia.

Una soglia, diceva Genette, non può che essere attraversata. Essa ha luogo quando nulla ha luogo o accade, quando nulla è presente. La soglia fa presente, introduce e separa allo stesso tempo, e al tempo stesso è quella zona indecisa in cui la presenza si permea incessantemente del suo contrario; la soglia ‘fa presente’ la prossimità e la distanza, la similarità e la differenza, l’interiorità e l’esteriorità: confonde il dentro e il fuori lasciando entrare l’esterno e uscire l’interno, separandoli e unendoli. Come ogni limite, la soglia è il luogo di un paradosso: divide e unisce allo stesso tempo, attraversata da un solo gesto.

Varcando una soglia, un limen, talvolta ci si può ritrovare in una dimensione straniante, non domestica e di non dominio, “strappati a noi stessi di colpo”, come scrive Florenskij, in uno “stato di liminalità, di pericolosa confusione” come ci avverte Carla Stroppa, ossia come varcando la soglia di un labirinto.

Ma il libro di Carla Stroppa sta a ricordarci che anche il Labirinto fu una casa. E queste pagine sono un attraversare continuo (da sogni a libri, da sedute analitiche ad analisi di opere d’arte). Sulla porta di accesso di questo labirinto di sentieri, poste in alto come titolo di un libro, ci sono due termini-chiave: “casa” e “abitare”.

“Certo, lo sappiamo: la casa è figura dell’eterna tensione umana ad avere un rifugio accogliente e nello stesso tempo è figura della paura di rimanerne prigionieri. In questo senso la casa è immagine della soglia fra il dentro e il fuori. Varcandola si può guardare dentro e venire a conoscenza di angoli e pertugi insospettati che nascondono cose importanti. Allora si può decidere di entrare e di esplorarli questi spazi in ombra e ancora sconosciuti; viceversa se si è già dentro, varcando la soglia si può vedere là fuori la scena del mondo e decidere di uscire per prenderne parte” (pag. 15).

All’origine della parola “casa” c’è l’immagine di un luogo coperto, come di una capanna (in greco, kasa), o di una pelle( kas) o anche di ciò che copre come un’ombra( skià), che dà riparo come in un castrum, sotto un elmo (cassis) o sotto il cappuccio di una casula. Un dimorare al coperto è dunque l’habitare, ossia continuare ad avere (habēre) consuetudine con tale abituale dimora. Ma è una dimora in cui “Ci si può perdere sia rimanendo sempre dentro che cercando sempre fuori e sia dentro che fuori ci si può salvare” (pag. 16).

E’ materia “porosa” per essenza, quella della casa: materia che lascia attraversare, entrare, uscire, respirare e intravedere: “La casa è certo una realtà di muro, di ferro, di legno, di vetro e quant’altro ha a che fare con la materia. E’ un luogo preciso dove avvengono cose precise delimitate dal tempo. Dallo spazio e dal fare concreto della quotidianità. E’ così, tuttavia è anche un’idea, un’immagine, un desiderio (…) Con l’impalpabile tocco dell’invisibile la fantasia che aleggia attorno e attraverso la casa risveglia la “trascendenza immanente” (Karl Jaspers) delle cose e allora accade che il muro, il ferro, il legno, il vetro e la materia lasciano intravedere il loro oltre” (pag. 17). Ecco il tocco, il “fulmineo punto di tangenza” (Jankélévitch) e il varco alla “‘crepuscolarità’ d’una coscienza sempre errante al confine dei mondi” (Florenskij) aperto dalla soglia su cui ci conduce la riflessione di Carla Stroppa.

Come per la soglia di Genette, per la crepuscolarità di Florenskij e la domestica sovrannaturalità di Jankélévitch così, nei labirintici percorsi del libro di Carla Stroppa (e della trilogia che esso chiude) anche il sogno è un continuo attraversamento. Nel sogno si è alle prese con lo sfuggente, reciproco attraversamento di reale e irreale, con incursioni a sorpresa tra il visibile e l’invisibile, in cui realtà e apparenza, scoprendosi parti di un medesimo opaco, labirintico genere, si compenetrano e trapassano l’uno nell’altro. Per tutto ciò, “il sogno è costitutivamente mercuriale”, scrive Carla Stroppa (pag. 93). Ed è infatti grazie ad Hermes, “il divino mediatore tra le altezze dello spirito e le valli dell’anima”, che il sogno ha a che fare con gli scambi, gli spostamenti, le censure, i trucchi, i mascheramenti. Ma il sogno ha a che fare anche con l’iperbole (Cartesio), il dubbio (Amleto) e la vita (Calderon de la Barca). Il Seicento, il lungo secolo del dubbio e del sogno, è molto presente nelle pagine di Carla Stroppa, assai più che il Novecento dei ricorrenti e appariscenti surrealismi. E’ invece il Novecento del “possibile”, più nascosto e inapparente, che Stroppa porta in superficie ricorrendo al Musil di L’uomo senza qualità. Anche qui, puntualmente, nei pressi di una porta e di una soglia di casa: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima (…) è semplicemente un postulato del senso di realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Così il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è” (pag. 156-7).

Io credo che sia questo “senso della possibilità” la guida, sotto il nome e le sembianze di Eros, del percorso tracciato da Sulla soglia di casa e dall’intera “trilogia della soglia” di Carla Stroppa. Eros “è senza casa”, viene detto nel Simposio a Socrate, che non era quasi mai a casa. Sempre nel Simposio Eros è detto essere filo-sofo, in quanto figlio della mancanza (Penìa) e dello stratagemma (Poros). Proprio perché è senza casa, la sua strada è “fare” il possibile.

Il lento lavoro dell’addomesticamento dell’ignoto, del “fare casa” è il lavoro del discorso filosofico, che all’irruzione dell’estraneo, dello strano, dello straniero, fa seguire una inedita familiarità, un “sentirsi a casa”. Proprio perché familiarizza con l’inedito, lo accoglie e lo ascolta, la filosofia nasce dalla meraviglia e vive poi del sentirsi fuori luogo nel mondo dell’ovvio e dell’abituale.

Da “Frattura composta di un luogo” di Andrea Accardi

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Réverbère et éclairage nocturne - ph. Daniel Boudinet [1975]

[Sta per uscire per i tipi di Ladolfi Frattura composta di un luogo di Andrea Accardi: un oggetto letterario non identificato, o “un giallo esploso in frantumi”, come viene presentato dall’editore. Ne pubblico in anteprima alcuni frammenti. ot]

Réverbère et éclairage nocturne – ph. Daniel Boudinet [1975]

di Andrea Accardi

Capitolo I

La cittadina è stata costruita negli anni settanta, interamente per i pedoni, tutta salite e discese, scalinate e scivoli.
Di notte le luci delle auto fuori del perimetro mostrano però l’inganno.

Capitolo II

Ogni quartiere ha tutto per una vita dignitosa e solitaria, lavanderie automatiche, farmacie, piccoli market. Da George trovi tutto a buon prezzo.
Ci sono poi strade dai nomi favolosi, come piazza Magritte o via dei cavalli bianchi, ma anche lì la vita sembra svolgersi regolarmente.

Capitolo III

L’università risulta prestigiosa e frequentata da molti studenti stranieri. La popolazione è quindi prevalentemente giovane e in apparenza allegra, dedita ai libri, al bere e nei casi migliori a una robusta fornicazione.
Gli appartamenti da sotto si assomigliano tutti, hanno mattoni rossi e ringhiere di ferro. Risate e luci si alternano a penombre soffuse per consumare scopate o serie tv.
Si parla soprattutto di cose che dovrebbero avvenire e non avvengono.

Capitolo IV

Ogni guscio personale ha di dentro una scala a chiocciola e stoviglie nel lavello, bottiglie vuote accumulate sui bordi, la stanza del cesso con parole appese e imparate inevitabilmente.
Le camere da letto senza memoria, riscaldate come si deve.
Il corpo aderisce, gradisce.

Capitolo VII

La chiesa è  moderna come tutto il resto, verticale, missilistica. La statua in bronzo di un monaco a capo chino inquieta però la piazza con un misticismo di ritorno.
Di notte chi l’attraversa tra ombre geometriche istintivamente accelera il passo.

 

Capitolo VIII

La cittadina ha molte zone di verde, come la mappa mostra allegramente, soprattutto intorno agli impianti sportivi.
Vicino ai campi da tennis a una certa ora non senti altro che il rumore delle racchette.

Capitolo IX

La piscina ha grandi vetrate esterne che di sera si accendono.
Per terra ombre allungate di bambini che si preparano al tuffo.

Capitolo X

Sparisce una ragazza e spuntano ovunque manifesti. La foto però è scelta bene, proprio un sorriso che diresti un futuro radioso.
Dopo le prime volte non ci fai più caso, e intanto dentro una casa lontana qualcuno fa già i conti con il vuoto.
Al cinema multisala c’è lo sconto il mercoledì.

Capitolo XI

Per raggiungere l’ufficio alloggi esci un poco dal centro e costeggi una fattoria, come la freccia sulla mappa indica con precisione. Ci sono le scuderie e un cortile macchiato di neve sporca.
Sul recinto di legno si posa un volatile strano, forse un rapace arrivato dai boschi. Di un azzurro quasi doloroso.

Capitolo XII

Gli studenti affollano le aule e i piani della biblioteca, cenano con birre artigianali e croque-monsieur, si portano via i sottobicchieri.
Il venerdì e il sabato ballano tutta la notte nei seminterrati, cadono insieme sul vomito come fosse un prato.
Domenica mattina si vedono famiglie, bambini, passeggini.

 

Capitolo XIII

I negozianti sono gentili, quasi tutti. Alcuni molto bravi a fare i pacchetti. Alle poste la fila scorre bene. I panettieri alzano nubi di farina, preparano canestri di pane secco per i passeri. Un passero è morto artigliato fra le briciole.
Ai bordi vorticano sirene.

Capitolo XVI

Verrà il filosofo che tutti venerano come un mago o una rockstar, verrà a parlare in aula magna, a dare forse la risposta, la soluzione. Ci sarà la folla ad ascoltarlo.
I manifesti dell’evento e quelli della ragazza occupano la gran parte dei muri. Se ne parla come due variazioni della speranza.

Capitolo XXIV

Dalla mappa si capisce che la cittadina è piccola ma che puoi perderti anche qui. Di certo non vedrai di persona tutti i posti scrupolosamente segnati, tipo quella via storta e ai margini. Dovresti andarci apposta e non lo farai per qualche motivo. Ma quella via esiste con tutta l’evidenza dell’edera abbagliata sui mattoni.
In pochi minuti di treno si può raggiungere il comune accanto, molto simile a questo. Andarci anche solo per chiedere informazioni, entrare in un negozio.
Guardare se i binari sono gli stessi.

 

Le Ri(e)mozioni di Edoardo Sant’Elia – Materiali per una fenomenologia delle narrazioni contemporanee

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di Daniele Ventre

“Ogni epoca pretende i suoi miti, ogni mito modella la propria epoca”: così scrive Edoardo Sant’Elia nella prima pagina di Ri(e)mozioni novecentesche – Dieci saggi narrativi su dieci idee, pubblicato in questo abnorme 2019 per i tipi di Studium edizioni, e con questo aforisma lascia al lettore, già nell’incipit, la traccia di fondo della peculiare filosofia delle narrazioni contemporanee che con quest’opera va inaugurandosi, come originale programma di indagine saggistica della mitopoiesi del tempo attuale.
Dell’odierna funzione, e finzione, mitopoietica, a molta parte degli addetti ai lavori verrebbe fatto di parlare nei termini di un mito degradato dall’industria dell’enterteinment, o con diagnosi più grave, secondo una linea di pensiero à la Furio Jesi, come di un ripescaggio tecnico di materiali arcaici e arcaizzanti, pseudo-tradizionali, malignamente riadattati all’ottica di un’ingegneria totalitaria del consenso politico di regime.

Questi due orientamenti di metodo, in sé e per sé del tutto legittimi e necessari, nel libro di Sant’Elia vengono collocati in una prospettiva di sfondo, in vista di un approccio non valutativo, ma meramente descrittivo-inquisitivo, dell’immaginario contemporaneo. Questa linea di inquiry culturale spassionata non esita a sporcarsi le mani con il materiale della letteratura d’evasione, con il fumetto, con la narrativa per l’infanzia, sedi in cui gli archetipi dell’immaginario umano sovente si depositano e si ritrovano cristallizzati, ma altrettanto spesso, a certe condizioni, perfino riscoperti nella loro dimensione più viva, qualora si prescinda per un attimo (o da un certo punto di vista, qualora ci si lasci appositamente guidare) dal sospetto che la finalità immediata del prodotto pop induce per sua intrinseca natura.

Così per esempio, in Evasi dal tempo, nel primo dei dieci saggi, tutti già pubblicati in una prima, differente versione sulla rivista Il rosso e il nero, che lo stesso Sant’Elia ha fondato e di cui ha diretto le attività fra il 1992 e il 1999, il tema ideale del rapporto fra l’uomo odierno e il tempo (storico ed esistenziale) è indagato, di primo acchito, attraverso il moderner mythus double-face di Peter Pan e di Superman. Il novecentesco sentimento del non-tempo è rappresentato, nei suoi due poli costitutivi, dal bambino che non vuole crescere, collocato in luoghi temporalmente atipici, in cui il corso del tempo è circolare o sospeso, e dal superuomo di massa collocato in una Metropolis i cui abitanti, lanciati nella corsa della frenesia urbana “non sono protesi… verso un futuro, essi stessi sono il futuro”. Il superuomo di massa e il bambino eterno non sono la forma moderna dell’eroe e dell’Urkind: l’eroe e l’Urkind, il bambino primordiale, appartengono a una realtà in cui il tempo storico ed esistenziale domina con la sua tragicità, fatta di conflitti permanenti, la cui conciliazione è apparente e transitoria. L’età dell’ottimismo industriale e postindustriale, il Novecento, pretende invece di creare un mondo in cui l’idillio regna incontrastato, e in cui si esorcizza il conflitto come il cambiamento. Il tempo del suo mito è quello dell’eterna infanzia (l’Urkind, il bambino primordiale, essendo per converso solo l’embrione di una teofania) o al più l’orizzonte del futuro definitivo, la sorridente fine della storia, il liberalismo ironico, l’idillio geopolitico e sociale definitivo di Fukuyama, uno scenario in cui il superuomo di massa non è lo Uebermensch inteso come uomo trasvalutato e trasvalutante, ma la sua parodia, l’umanità tecnicamente appagata degli ultimi uomini. In quest’ottica è facile ravvisare, dietro l’invenzione commerciale dei fumettisti Jerry Siegel e Joe Shuster, come dietro la fiaba di James Matthew Barrie, l’amara riflessione di un Fraser, il quale nell’esaminare Il tempo, una presenza sconosciuta, denuncia che “l’assenza di senso del tragico fra le masse del popolo e fra i loro leader ha trasformato il fato in un clown, il bene in una soddisfazione sorridente e il male in un diavoletto”.

Ci siamo soffermati tanto a lungo sul primo dei dieci saggi, e sulle implicazioni delle sue letture atipiche dell’immaginario comune, non per inerzia recensoria, ma per un motivo specifico: illustrare la nova methodus saggistica di Sant’Elia a partire dall’esempio più didascalico e pregnante. In una sorta di scenario figurale fatto di diapositive e snapshot in sequenza discontinua, secondo un processo che si rinviene in molta della narrativa più profonda e sperimentale degli anni centrali del secolo scorso, i mini-eroi pop e i grandi eroi e anti-eroi letterari descrivono una traiettoria non lineare tramite cui Sant’Elia enuclea la sua personale, quasi neo-dantesca, teoria di personaggi dell’inferno: è un inferno sorridente del non-senso, affidato alla prosa discorsivo-narrativa, lo spettacolo compassato di una distopia comoda da Brave New World huxleyano, ma pur sempre, a suo modo, un inferno.

Il girone dei transfughi del tempo, fra l’Everchild e il Superman ci fornisce l’immagine di un idillio illusorio, semprefuturo e sempreinfanzia -il mondo angoscioso degli Eloi e del Morlock di Herbert G. Wells può ben esserne il necessario compimento ultimo. Il dannato dantesco ha una nebulosa visione del futuro, sempre più appannata dal presentificarsi del domani. Nell’inferno novecentesco del sorridente non-senso, la visione è abbacinata dal futuro perpetuo e offuscata dal passato e dal presente che non trascorrono. La mancanza di senso e di sacro, che in Cercasi sacro disperatamente è sbozzata attraverso le sei tele dello Studio per un papa di Bacon, attraverso la beckettiana attesa di Godot, e dagli argomenti e contrario di un Chesterton, delina un altro, più profondo, girone, connotato non dalla banale assenza del divino, oggetto usurato di ogni predicazione strumentale, quanto dal disinteresse per il senso e dalla costruzione del feticcio surrogatorio, impastato di attesa perenne e parusia del deforme. Nei saggi dedicati alla Menzogna e all’Idiozia, nella parte seconda, alle figure positive, antitetiche, dell’hilarotragico Giorgio Manganelli e del tragicomico Eduardo de Filippo, orco divoratore di realtà e logos il primo, e fachiro ed equilibrista popolare della rappresentazione esistenziale il secondo, speleologo l’uno di verità deformi, costruttore l’altro di menzogne creatrici di verità, si oppone la saga dell’idiozia che celebra la sua apoteosi in Forrest Gump, sempre uguale a sé stesso, solido e coerente, e nelle allucinate Vite brevi di idioti di Ermanno Gavazzoni, dominate dalla dissociazione e dalla disintegrazione. Alla polarità dimensionale tempo e non-tempo e alla polarità dell’alto e del basso cognitivo fra menzogna e idiozia segue, nella logica non lineare del libro, la dialettica fra viaggio-straniamento e spaesamento-paura, il cui campo d’azione segna il momento culminante dell’inchiesta che Sant’Elia conduce nell’abisso dietro il quotidiano e l’immaginario, fra navigazione interiore ed esteriore, fra sindrome di Frankenstein, “reazione animalesca alla macchina”, e ritorno del rimosso, fra Lo spirituale nell’arte di Kandisnky e L’isolario di Ernesto Franco, fra gli incubi inconsci riemergenti di Lovecraft e l’incubo tecnologico dell’HAL 9000 di 2001, Odissea nello spazio librata dalla prosa scarna di Arthur C. Clarke al cinema ipermoderno di Stanley Kubrik. Il gioco delle polarità cognitive, esistenziali e temporali, prosegue nella duplicità dello sguardo e dell’ombra, fra la dimensione notturna di eroi del fumetto come il Batman di Bob Kane, postumano di massa dell’ambiguità, e l’archetipo dell’ombra come contorno-contrario del reale, dalle visioni delle Ombre di Gombrich al mito di Nala e Damayanti, per finire con il mito platonico della caverna, per cui le ombre sono effetto distorto e distorcente della proiezione remota e virtuale di una realtà che si configura come trascendente, formale, logica e soprafisica. Correlato dell’ombra come matrix, come punto generativo dell’illusorietà in rebus, è lo sguardo, come tentativo di sondare le ombre (magari da una hitchkockiana finestra sul cortile), ma anche come focus generativo dell’illusione che è nell’occhio di chi guarda. Punto d’approdo del descensus averni, che come sempre è terapeutico ed iniziatico, è il duplice scenario del sogno e della città. In Il sogno, una storia imperfetta, il sistema improprio dei dieci saggi di Sant’Elia celebra l’apice del suo metodo non lineare e volutamente desultorio, in una carambola di rimandi che dalle immaginazioni di Sturgeon e da La storicità dei sogni di Georg Steiner si squaderna per aperture di finestre ipertestuali, toccando a volo d’uccello il sogno dell’Agamennone omerico nell’Iliade, il sogno di Cartesio narrato da Baillet e il sogno di Tatiana nell’Onegin di Puškin. Corrispettivo esteriore del sogno è la Città-immagine, definita fra la Disneyland non-luogo esaminata dall’approccio socio-antropologico di Marc Augé, e i non-luoghi, utopie rivisitate, della fantascienza popolare alla Star Trek. Così il libro chiude la sua parabola investigativa sull’immaginario ipermoderno opponendo al non-tempo (o evasione dal tempo) del principio, il tema delle città irreali e iper-reali, non-luoghi, della fine.

Il paesaggio dell’imaginario che si compone, decompone e ricompone all’occhio del lettore dell’aurea raccolta di saggi di Edoardo Sant’Elia si costituisce infine come paesaggio urbano polimorfo, un non-luogo e un non-tempo di tutti i luoghi e di tutti i tempi, “città-immagine in bilico tra le seduzioni del tempo e i fantasmi della storia”.

History

9

 di Gianni Biondillo

Giuseppe Genna, History, 517 pagine, Mondadori, 2017

History è una bambina di dodici anni affetta da un autismo assoluto. Vive in un perenne panico che le fa avere visioni del mondo allucinate e terrorizzanti. Per puro caso incrocia l’esistenza del narratore, uno scrittore anonimo e disoccupato. Misteriosamente stabiliscono una sorta di contatto. Il padre di History, tycoon legato al nuovo tecnopolo appena installato a Milano, vuole che lo scrittore aiuti i suoi scienziati a decodificare la mente della figlia.

Ancora a pagina cento, sulle oltre 500, la protagonista History non è neppure nominata. L’autore si prende tutto il tempo, dilata la scrittura fino a sfibrarla. Dell’intera sua opera quest’ultimo romanzo è forse il più coraggioso di Giuseppe Genna: una sorta di libro ultimativo, le sue colonne d’Ercole. Come potrà ancora navigare ormai uscito dal recinto rassicurante della storia?

Ché questo non è neppure romanzo in senso stretto: è un oggetto narrativo inclassificabile: pamphlet, saggio critico, trattato scientifico, poema visionario, messaggio profetico. È, secondo gli standard del mainstrem, un libro “illeggibile”, dove la regola aurea dello storytelling viene ribaltata: Genna non mostra, dice. Scrive, aulicissimo, senza posa, sibillino. Si pone come ultimo osservatore della sua patria in fiamme, l’umanesimo dentro il quale era cresciuto e ora saccheggiato, senza scampo, dalla nuova era tecnologica, che pensa in modo differente, estremo, altro. History è un libro cupo, spaventoso, eccessivo e al contempo ieratico. Pronto all’errore, con coraggio.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 47 del 21 novembre 2017)

Da “Considerare. Migranti, forme di vita”

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di Marielle Macé

traduzione di Matteo Martelli

[Pubblico con grande piacere l’estratto di un libro apparso in Francia per Verdier nel 2017, di cui io stesso scrissi qualcosa su NI (Accompagnare i minori), e che esce oggi in traduzione italiana per l’editore amico Metauro.]

 

Sgomento e considerazione

 

Bisogna pensarci in permanenza, pensare a tutto questo e a quanto vi si lega (come Baudelaire: «È a te che penso, Andromaca! […] ai prigionieri, ai vinti… ad altri, ad altri ancora!»[1]): pensare a questo accampamento in più in piena Parigi, a queste soglie demoltiplicate, a questi spazi inabitabili eppure abitati, a questi migranti che riusciamo a cogliere solo per le loro pene e perdite, che percepiamo solo come spettri.

Frammenti: stagioni di un amore mai confessato

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di Cassandra

(Questo racconto contiene testi espliciti. Se ne sconsiglia la lettura a un pubblico non adulto, e a chiunque possa sentirsi offeso da temi e parole che riguardano la sessualità.)

AUTUNNO

– Di quando tutto sembrava un nuovo inizio
Che tu avessi adocchiato la mia collezione di Dylan Dog, me lo riferirono in anticipo: allora parlasti di te in grande, pareva tu fossi a capo di varie imprese, un noto regista, un accademico acclamato … ma a me, di quel resoconto, interessò soprattutto la parte dei fumetti.

La prima volta che t’incontrai stavo sdraiata sul divano, strabuzzando gli occhi per la luce troppo fioca di una veranda ancora isolata ed illuminata male: stavo leggendo Corto Maltese che, ora posso dirlo, fu una decisione fatale, ma pilotata: volevo sapere se avessi buoni gusti in generale, e, sapendo che saresti arrivato, giocai d’anticipo.

Lo ammetto, ti attendevo, ma tu riuscisti a sorprendermi comunque: non suonasti alla porta, non telefonasti per avvertire del tuo arrivo… sentii la porta sbattere e qualcuno salire le scale, ricordo che cominciai a tremare perché speravo fossi tu, nonostante non sapessi ancora chi saresti stato.

E tu lo notasti subito, Corto Maltese. Senza presentarti esclamasti felice d’aver portato un cofanetto contenente tutti i dvd con le animazioni di Corto, a me le animazioni non fanno impazzire perché preferisco sfogliare i fumetti, ma non smorzai il tuo entusiasmo (che era anche il mio, per averti scoperto estimatore di Corto Maltese, oltre che di Dylan Dog).

Allora mi alzai, guardandoti in faccia per la prima volta, strinsi la tua mano farfugliando il mio nome, domandandomi perché, gli altri, parlandomi di te e delle tue grandi imprese, si fossero dimenticati di menzionare la tua bellezza.

Tu mi guardasti negli occhi, che fossero da stronzo lo vidi subito anche se erano blu.

“Vino?” Chiedesti tu, estraendo una bottiglia da un sacco militare rattoppato. “Birra”? Domandai io porgendotene una.

Fingemmo un sacco, poi, quella sera. Tra fiumi di alcol e sigarette fumate a metà: tu raccontasti un sacco di stronzate e io non credetti a niente, però mi piacevi lo stesso.

La tua retorica, la tua dialettica, notai subito la tua mente brillante, che esisteva nonostante i tuoi racconti farlocchi … e poi Corto Maltese e Dylan Dog. Soprattutto Corto Maltese e Dylan Dog.

Ci limitammo ad un contatto fisico fugace: ti toccai il braccio e tu mi sfiorasti il ginocchio. Andai a dormire sola, nella mia nuova stanza – e tu nella tua, che però aveva, e per sempre ha avuto, soltanto un materasso per terra – sicuramente ubriaca, forse già innamorata.

Perché avevo una nuova casa, e credevo tu fossi il mio inizio.

*

– Di quando bevevamo vino e di quando ci siamo amati
Tu m’inibivi e io compravo il vino.

Accadde ogni sera, per settimane, o forse un intero mese.

Anche tu compravi il vino, e forse t’inibivo, ma non era il motivo per cui lo compravi, ma allora ancora non lo sapevo anche se lo intuivo.

Insieme lo tracannavamo volentieri, mentre l’autunno, pian piano, diventò imponente, e, nella nostra veranda ancora mal isolata era possibile restare solo con un mucchio di coperte.

Allora m’offrivi sempre l’ultima sigaretta, perché io le finivo sempre prima di te, e a te piaceva ancora fingerti generoso, la fumavamo sempre metà ciascuno e solo allora andavamo a dormire.

Esistevamo solo noi, in una casa di cinque persone e svariati animali. Esistevamo solo noi e il cane. E il vino.

E le sigarette. E la musica… e Corto Maltese e Dylan Dog.

Di giorno passeggiavamo, la sera improvvisavamo simposi in veranda, sempre accompagnati da fiumi di alcol e fumi di tutti i tipi: necessitavamo la mente inibita per poter stare insieme, era un bisogno reale. La mattina non esistevamo, l’uno per l’altra, diventavamo inseparabili dopo le quattro del pomeriggio.

In quei giorni scoprimmo l’isola: verdeggiante, solitaria, malinconica, così simile alle nostre anime.

Andare all’isola divenne un appuntamento fisso. Tacito, perché nessuno esplicitò mai all’altro la volontà d’incontrarlo lì: eppure c’incontrammo lì quasi quotidianamente, fino a che il tempo ce lo permise.

Una sera cominciammo a improvvisare danze tribali per scaldarci, con indosso coperte militari che c’ingombravano e coprivano completamente, nella nostra veranda era possibile stare solo raggelando e sudando allo stesso tempo. Non ricordo quale fu l’evento scatenante, ricordo che, ad un certo punto, ridemmo fino alle lacrime; poi io salii sul divano e ti dissi: “prendimi”, ma lo sapevo che m’avresti lasciata cadere.

Cademmo in due, e non come in un film, vis à vis, cademmo facendoci male, atterrando su di un’asse chiodata ed io mi ferii la gamba.

T’insultai un poco, perché non mi avevi presa apposta e farmi male non mi è mai piaciuto, ma non ti aspettavi che mi sarei lanciata davvero: col senno di poi direi che è cominciato tutto lì, il nostro squallido gioco d’orgogli, quando io, decisa a tenere il punto, mi buttai lo stesso vedendo che non mi avresti presa, e tu, deciso a non prendermi, mi guardasti gettarmi nel vuoto lo stesso, decidendoti a tendere le braccia solo quando, ormai, era troppo tardi.

Ti dissi che mi ero anche ferita, mi alzai per prendere qualcosa e tamponare il sangue, tu afferrasti il mio braccio all’improvviso, e, tenendolo ben saldo, mi obbligasti a rimanere a terra. Non so con quale impulso decidesti poi di versarmi della birra sulla ferita, facendomi urlare di dolore vero. A quel punto ti chinasti per leccare il mio sangue, e le mie unghie si conficcarono nella tua schiena.

Quella notte facemmo l’amore aiutati dal radiatore: ci addormentammo sfiniti nel tuo letto, ma quando mi svegliai tornai in camera mia. Perché non volevo darti l’impressione di tenerci troppo.


INVERNO

– Di quando impazzimmo
Fuori regnava il gelo, l’isola ricoperta di ghiaccio divenne inaccessibile. Cominciammo a passeggiare istericamente alla ricerca di un nuovo locus ameno: scegliemmo il tetto di un alambicco in mezzo ai filari, che noi chiamavamo comunale, ma probabilmente apparteneva a qualcuno e, forse, non si trattava nemmeno di un alambicco.

Il nostro amore diventò una sfida: più t’amavo e più cercavo di dimostrarti che non era vero, e più m’amavi e più cercavi di ferirmi. Ci facemmo del male e ne facemmo agli altri, per mesi usammo le persone come pedine per raggiungere i nostri scopi, e il nostro scopo ultimo era sempre il medesimo: ferirci.

Di noi non parlavamo mai, sfiorammo l’argomento una volta sola, e senza mai specificare che io stessi parlando di me, e tu di te, e che il discorso riguardasse noi. Ne parlammo ipoteticamente, ma nello specifico, e comunque non concludemmo niente. Fu l’unico attimo in cui ti confessai il mio amore e tu il tuo, ma presto tornammo ad essere quelli di sempre.

Per tutto il resto del tempo cercai di non darti mai l’illusione che fra noi ci fosse qualcosa che potesse evadere dalla sfera sessuale, e tu facesti altrettanto. Mi raccontasti ognuna delle tue cotte fugaci, io ti credetti ogni volta, soffrendo. In quel periodo tirammo fuori uno il peggio dell’altro, ancora non sapevamo che saremmo stati in grado di far peggio, perché ogni volta ci sembrava che il peggio l’avessimo già commesso.

Io, uscii con chiunque, per dimostrarti di non essere da meno, tu mi credesti ad ogni volta, soffrendo.

Cercasti di sedurre chiunque fosse di fronte a me, per poi vantarti della tua prestanza con me ed elencarmi innumerevoli pregi che altre avevano, ma non io. Non concludevi mai, è vero, forse più capace di me di non eccedere al gioco; ma a me sembrava sempre che l’avresti fatto, e, giocando d’anticipo, rincasavo ogni sera con qualcuno di diverso, costringendoti a sentire le mie urla al di là del muro.

La mia vita sessuale raramente fu attiva e variegata come negli anni in cui ti ho amato.

Un giorno ti trovai in cucina, furente, già ubriaco. Non ricordo le tue parole, ricordo che urlasti molto. Allora urlavamo spesso e finiva sempre con te che ne andavi ed io che non dormivo fino a che non tornavi a casa, quando sentivo la porta fingevo d’essere ancora sveglia per altri motivi, che non riguardavano te – mai – e solo in quel momento ci chiedevamo scusa. Sempre in cucina, alle due di notte, mentre io fingevo di essere sveglia per motivi che non riguardavano te e tu tornavi dalla tua ubriacatura solitaria in cui smaltivi la rabbia nei miei confronti.

Ma quel giorno fu diverso, eri seriamente arrabbiato, parlavi della casa, dell’affitto, delle spese, del fatto che io ti considerassi solo di fronte ai soldi. Io capii che mi stavi rimproverando altro e restai zitta a guardarti, quella volta non tentai di avere ragione perché avevo capito di aver vinto, ma mi sentii sconfitta. Non ti domandai perdono, perché non erano le due di notte e stavo aspettando che te ne andassi di casa sbattendo la porta. Rimanemmo lì, in silenzio, a lungo, poi io farfugliai qualcosa, che per me non valevi solo di fronte all’affitto da pagare, e tu fingesti d’avermi scusata.

Pensai che qualcosa fosse cambiato sino al momento della tua vendetta, che arrivò, puntualissima, il giorno seguente quando invitasti una donna a caso. Che l’avessi conosciuta da trenta secondi e l’avessi invitata unicamente per farmi impazzire lo capii solo molto tempo dopo, allora pensai fosse una delle tue cotte e mi arrabbiai nonostante non la trovassi né bella né intelligente. La mia vendetta arrivò all’istante con un biglietto sotto la tua porta in cui ti comunicavo da chi avrei dormito.

Il gioco di punizioni e vendette durò fin troppo, una stagione intera se non due, intervallato da brevi tregue, in cui entrambi, sfiniti, senza mai ammettere all’altro i propri sentimenti, tornavamo a rintanarci nei nostri cantucci segreti insieme, lasciandoci le nostre malefatte ed il mondo esterno alle spalle.

Soffrivamo, solo tu capivi la mia sofferenza perché eri tu a causarmela, e solo io capivo la tua. Questo ci giustificava e ci univa ancor più nel nostro gioco al massacro che, puntuale, ricominciava. Perdonarci, a vicenda, ci dava la possibilità di non ammettere mai i nostri errori, e così, finché fummo vicini, continuammo.

*

– Di quando rubammo al ristorante
Squattrinato e vagabondo, ma con grandi manie di splendore, m’invitasti a cena. Io ancora la ricordavo, l’ultima volta che mi avevi invitata a cena: quando ci eravamo trovati a dividere in due un piatto di riso al fine di poterci permettere un bicchiere di vino a testa. Quindi ti proposi di virare direttamente su di un aperitivo a buffet, e tu accettasti subito, perché ti andare a cena l’avresti fatto per me, che non ricordo cosa, ma sicuramente volevi farti perdonare qualche stronzata, mentre bere ti piaceva sempre. E a me, anche.

Quel giorno i soldi per pagare li avevamo pure, ma tu mi guardasti sorridendo, con un guizzo negli occhi di quelli che ti viene solo quando sei contento, e mi domandasti se ero pronta a scappare. Certa che tu non avresti avuto il coraggio, proposi di fingere di lasciare i soldi sul tavolo, per poi recarci all’uscita del ristorante con molta calma e iniziare a correre una volta arrivati in strada.

Tu ti alzasti, io pure, entrambi convinti che l’altro avrebbe ceduto prima o poi: alla fine lo facemmo davvero. Arrivammo all’uscita con il cuore in gola, e, una volta in strada prendemmo a correre all’impazzata sino al parco, poi fino al lago. Ci sdraiammo sull’erba umida, ancora carichi di adrenalina.

“Proporrai mai qualche cosa di normale?”. Domandai ancora ansimante

“Risponderai mai di no?”. Replicasti tu, ancora incredulo dalle nostre gesta.


PRIMAVERA


– Di quando venimmo scoperti
Le stagioni continuavano a cambiare e il tetto divenne meta fedele sostituendo l’isola quasi del tutto. Malgrado il tempo permettesse di nuovo di sostarci, l’isola rimase, per entrambi, la meta delle fughe in solitaria. Il tetto, come la notte, rappresentava i nostri momenti felici, quando lasciavamo cadere i nostri personaggi per essere semplicemente noi: più simili di quanto avremmo voluto.

Ancora non osavamo parlare a nessuno di noi, io non sospettai, mai, che qualcuno sapesse: allora mi sembrava importante, ora sorrido, pensando che l’unica cosa che stavo cercando di nascondere, con tentativi maldestri, era, a te, il mio amore per te.

Il primo a scoprirci fu il cane, si vendicò, geloso non so se di me o di te, o forse di entrambi, e noi lo trovammo divertente anche se, per la prima volta, sentimmo di dover render conto agli altri di quanto stava succedendo fra noi.

Non a noi stessi, questo mai. E io seppi tenere il mio segreto al sicuro, ma anche tu non te la cavasti male.

Negammo l’evidenza, agli altri e soprattutto a noi. Non c’accontentammo di toccare il fondo, ma ci scoprimmo, entrambi, capaci a scavare.

*

– Routine
Ad un certo punto fui seriamente spaventata, non mi piaceva l’idea d’essere ancora in grado i provare sentimenti per te. Nei mesi primaverili feci di tutto per costringermi a non amarti, e nulla funzionò.

Ti amavo anche quando gli occhi ti si accendevano di follia e urlavi. Quando gridavi e ti puzzava il fiato ed allora io gridavo più forte. Ti dicevo spesso che eri ridicolo, mentre tu, barcollando per la mia stanza, vomitavi livore e parole biascicate.

Di chi ti sei fatta

Dicevi

Di che ti sei fatto?

Ribadivo.

Dicevi cattiverie, io non le ascoltavo, ti chiudevo fuori dalla mia stanza, tu bussavi, io urlavo di andartene, poi uscivo, ti spingevo immaginandoti rotolare giù dalle scale.

Urlavo anche io, poi piangevo, tu con gli occhi ancora arrossati mi stringevi facendomi cadere a terra. Urlammo e piangemmo molto in quel periodo, passammo lunghe ore stesi sul pavimento del bagno a sentirci soli senza lasciarci soli.

*

– Di quando eravamo felici
Però l’abbiamo avuto anche noi, qualche momento felice.

Come quando la primavera esplose e noi andammo a passeggiare come i primi tempi, per poi tornare al tetto e decidere di fare merenda lassù.

E mentre addentavo una ciambella, tu, con il sole che ti obbligava a stropicciare gli occhi blu, mi domandasti se mi fosse mai capitato di sentirmi così leggera.

Non ricordo cosa risposi, probabilmente qualche cosa per darmi un tono, perché non ero sicura d’aver capito bene cosa intendessi dire, anche se sicuramente mi sentivo leggera e felice.

Poi scalammo una montagna, uniti dalla follia della stessa visione. Non ci sorprendemmo più di tanto quando in cima non vi trovammo niente: né castelli, né fortezze o cavalieri, come c’era apparso dal basso. Solo qualche filo d’erba piangente, ancora accarezzato dal sole.

Trovammo però un tramonto mozzafiato, e ce lo godemmo nonostante la temperatura che, con il morir del sole, cominciò ad abbassarsi drasticamente.

Siamo ancora più in alto, dicesti tu, con la fierezza d’un re che osserva il suo regno e la spensieratezza d’un bambino.

Ci sentimmo un po’ come coraggiosi esploratori che, affrontate le più temibili imprese, osservano il mondo dall’altro sentendosene padroni.

Guardammo il cielo esplodere di colori, passare dal giallo all’arancione e dall’arancione al viola, aspettammo che l’ultimo rintocco del campanile, prima di deciderci a scendere.

Vorrei che questa giornata non finisse mai.

Ti dissi io.

Ma poi la giornata finì.


ESTATE

– Di quando tutto pareva divertente
Fu un periodo di simbiosi in cui non litigammo quasi mai, io passavo i pomeriggi a guardarti arrovellarti mentre cercavi di mantenere civile il nostro giardino: non indossavi mai le mutande perché ti veniva voglia di curare il giardino solo dopo l’atto, e i pantaloni continuavano a caderti, e a me sembravi un po’ ridicolo.

Decidemmo di amarci in ogni giardino pubblico o privato del piccolo paese, ma soprattutto pubblico. Un pomeriggio, mentre le tue dita s’insinuavano sotto il mio vestito, c’accorgemmo di colpo d’essere attorniati da un centinaio di persone. Nessuno dei due seppe dire all’altro quando esse comparvero, ce ne accorgemmo solo ad un certo punto.

Ci ricomponemmo e tu andasti da loro a chiedere il cavatappi, ti rivelarono d’essere poliziotti e tu tornasti da me sbellicandoti dalle risate. Ci fece ridere l’idea d’aver sfiorato l’arresto e non c’impedì di continuare il nostro tour.

Un altro pomeriggio, nascosti nel giardino d’estate di una casa di vacanza, venimmo fiutati dal nostro cane: provò a raggiungerci e noi ci stringemmo, soffocando le risate, nudi, sperando ardentemente di non venir scoperti in una situazione così imbarazzante. Quando il cane, udendo il richiamo finale del nostro coinquilino, finalmente scomparve smettendo d’annusare il recinto, ci lasciammo andare, sentendo che quel che stavamo vivendo noi due, era speciale.

Quell’estate, per un breve periodo, la nostra storia andò talmente bene che tu t’ergesti a mio paladino difensore, il tuo orgoglio di uomo si fece prepotente: mi difendevi da tutto, tranne che da te stesso. Ti raccontai del nuovo arrivo in casa, anche se per poche settimane, una persona estremamente maschilista con cui avevo discusso più volte e non vedevo l’ora che se ne andasse. Tu lo trattasti male senza nemmeno presentarti, e a me fece ridere, il tuo piglio sicuro, anche se ti trovai abbastanza sgarbato e maleducato.

*

– Di quando avrebbe dovuto essere estate e invece pareva inverno
Pareva inverno, e tu sembravi scomparso. Che poi, per Dio, dove vai quando sparisci, un giorno vorrei davvero saperlo. Non c’era nessuno attorno a me. Solo io, svampita, a guardare le foglie degli alberi danzare al ritmo del vento. Il cielo era grigio, sopra il lago e sopra di me.

Il vento in un soffio le alzava, poi si placava, e loro scendevano, come se fossero stanche. Fsssht, ancora in alto e poi giù e poi fssht.

E le foglie mi sembrarono noi, nella nostra passionale danza mortale.

E su.

E giù.

E poi ffssht.

Mi domandai se le foglie avessero voglia di stare in aria per sempre, o se, ad un certo punto, fossero liete di ricadere, ovviamente pensavo alle foglie, ma pensavo a te. Apprezzai, in quel momento, la tua lontananza, pensai che danzare all’aria, eternamente, fosse meglio di una caduta.

Pensai alla vita, al fatto che tu sparisci e potresti anche non tornare, e la vita mi sembrò noiosa, senza la possibilità di un tuo ritorno.

Anche se poi torni sempre e queste parole non te le dico mai.

E si va su.

E si va giù.

E poi sssht.

 

UN ANNO DOPO


– Di quando sei partito veramente
La tua partenza, come il tuo arrivo, fu improvvisa. Comunicasti un giorno che te ne saresti andato, e poco dopo, partisti alla volta di un nuovo continente.

Allora ti conoscevo e capii perfettamente il tuo bisogno di lasciare un ricordo indelebile che non potesse essere scalfito dalla verità della quotidianità. Non mi sorprese la tua partenza, piuttosto la velocità e la capacità di fare tutto quasi di nascosto.

Non parlammo nemmeno al momento di salutarci davvero, passammo una serata insieme e ci concedemmo un lungo abbraccio che fu il nostro modo di dirci addio. La pioggia ci aveva inzuppati, ma nessuno dei due aveva voglia di tornare al bar, me ne andai salutandoti con la mano e senza voltarmi sentendo una forte fitta al petto. Andai a bere in un altro locale, sede dei nostri appuntamenti taciti serali, convinta che non mi avresti raggiunta eppure decisa a volerne avere la conferma: andare a casa, restando con l’idea che tu mi avresti ancora cercata in quella notte, senza trovarmi, non era un fatto che riuscivo ad accettare. Bevetti molto, e alle cinque del mattino tornai a casa. Sola.

Gestire la rapidità della tua partenza fu difficile, mi decisi a ripercorrere le tappe del nostro amore: l’isola, i vigneti, il tetto.

Passeggiando mi ricordai di quando ci andavi tu per primo e mi aspettavi là, dormicchiando, ma non troppo, perché la brezza là sopra è forte e tu la coperta non l’hai portata mai: e mi sentivi arrivare odorando l’aria, e riconoscendo il mio profumo come il cane.

Mi sorpresi a trovare spogli tronchi protendere le loro braccia verso di me, milioni di mani di strega con unghie affusolate carezzarmi le guance, con lo sfondo di un cielo incupito, tremolante quasi quanto me. Fui contenta di trovare, tra le tegole ricoperte di muschio, uno spiraglio: non ancora abbastanza grande per guardarci attraverso.

Mentre un brivido di gelo mi ghiacciava la schiena ricordandomi il motivo per cui odio l’inverno, guardai le nuvole in cielo immaginandoti in volo, tra tutti i tuoi timori. Pensai a come la tua incoerenza avesse portato proprio te, amante del sole, in un paese più freddo del nostro, raggiungibile solo tramite il mezzo che terrorizza.

Pensai a quanto fosse più serena la mia vita da dopo la tua partenza, e desiderai riuscire a non volere un tuo ritorno.

*

– Di quando decisi di spiare la tua vita su internet
Sentendo la notizia di un pazzo sparare addosso alle persone, là dove hai deciso di rifugiarti, ho temuto che fossi tu il pazzo; ma poi anche la tua morte.

Tornando a casa decisi di guardare la tua vita su internet.

Perché oggi si può, e, forse, nel tuo caso, la mera bugia del Social Network è più sincera della vita che ami raccontare. Sorridevi felice, elegante, arrogante, con un bicchiere in mano. Uno di quei bicchieri che hanno un nome particolare perché destinati a contenere solo liquidi pregiati, e fui certa che, anche tu, prendendolo in mano ti fossi chiesto se quel bicchiere avrebbe potuto contenere l’intera bottiglia.

Nella tua ipocrisia conformista, sembravi aver trovato te stesso.

Avrei voluto essere una persona migliore, e sorridere della tua nuova vita, invece provai rabbia e desiderai che tu ti perdessi di nuovo.

 

DUE ANNI DOPO

– Di quando ho maledetto quelli che dicevano che il tempo fosse l’unico rimedio e ho scoperto che il tempo non serve a niente
Chiunque mi giurò che le ferite passano solo con il tempo, a me il tempo non servì. Andai più volte al tetto, mi resi conto di star meglio solo quando, dopo una lunga pausa dalle mie passeggiate abituali, sbagliai strada.

Arrivai convinta d’aver preso il sentiero giusto ad una casupola rimodernata, niente muschi e rami pericolanti da evitare, scalini intatti e nessuna fessura. Di primo acchito pensai che i padroni del nostro tetto avessero deciso di rimodernarlo, e pensai fosse una metafora del nostro amore. T’immaginai sposato, rimodernato, senza più fessure né muschi a coprirti la pelle.

Mi domandai se la tua nuova vita fosse più calma, pensai alle nostre pazzie, alle notti di passione in cui non ci dicevamo mai di no, a tutte le prime sensazioni vissute con te.

Mi rattristai, perché ti avevo sempre immaginato proseguire la tua vita sgangherata rattoppando i buchi, più che costruendoti una nuova facciata; ma mi rassegnai in fretta. Il tetto era così alto che mi sembrò impossibile accederci, e d’altra parte me ne passò la voglia: pensai che ti conoscere la tua nuova facciata non m’interessava, essendomi già interessata a quella vecchia.

Mi resi conto d’aver sbagliato strada dopo molto, quando, per un caso fortuito, decisi di tornare a casa proseguendo per il sentiero in mezzo ai filari e di non tornare alla via principale, mi trovai sul sentiero giusto e capii che il nostro tetto fosse sempre là.

Sentii il cuore pulsare e lo riconobbi da lontano: distrutto, ancora mal concio, con il muschio che ormai lo copriva interamente e le scale completamente distrutte: mi sentii sollevata. Lo raggiunsi a corsa e, nonostante salirci mi parve più ostico del solito, vi salii contenta.

Pensai che tu eri sempre tu, e che non ti fossi nemmeno preoccupato di mettere le pezze.

*

– Di quando sei tornato e poi sei ripartito
Tornasti senza avvertire, come tua prassi, e ci ubriacammo nuovamente, felici di esserci ritrovati, ci ubriacammo talmente che tornati a casa c’addormentammo a terra.

Ti raccontai del tetto, sentendomi un po’ pazza ma sapendo che avresti capito, e così fu. Non parlammo di noi, della nostra vita privata senza l’altro. Mi dicesti solo di non aver voluto mantenere i contatti per scelta, e io finsi di capire la tua esigenza di tagliare i ponti con il passato.

Inevitabilmente incontrasti un mio spasimante, e, davvero, fu un gioco del destino, non lo invitai espressamente per ferirti. Non lo invitai del tutto. Mi prendesti in giro per la giovane età del ragazzo, io ribadii che la differenza d’età che correva tra me e lui fosse la stessa, identica, fra me e te. Iniziai una discussione su quanto fossi maschilista, tal volta, e tu diventasti volgare.

Finsi che non me ne importasse, traendo vantaggio da quella situazione imbarazzante: presi a giocare con l’altro, tu ti avvicinasti scontroso per farmi sapere che non avrei più vinto, ed io decisi di tornare a casa con te.

Solo allora mi rivelasti che il tuo ritorno sarebbe stato fugace come il resto della nostra storia, ma non mi pesò dirti addio quella mattina.

Non mi addormentai pensandoti, fu una sorpresa anche per me, al risveglio, capire d’averti sognato. Sognai di trovarti in una stazione, luogo immaginario perché non assomigliava a nessuna stazione da me conosciuta, non so per quale ragione decidemmo di fingere che le scale mobili fossero bloccate e deviare la gente verso una via alternativa, anche nel sogno non ci vedevamo da tempo, e il nostro primo incontro era così. Nel sogno avevo il ciclo, nella realtà no (e nemmeno ero in procinto d’averlo), ma tu, ad un certo punto, volevi assolutamente scopare e dunque andammo nei cessi pubblici. Mentre mi spogliavi ti dissi che avevo il ciclo e che avresti dovuto mettermelo nel culo. Proprio così. Eravamo, oniricamente, la versione volgare di una versione già volgare di noi.

Non ricordo i dettagli dell’atto, e poco importa, si trattava di un sogno, ma il sogno finiva con me che espellevo litri di cacca molle di fronte a te.

Al risveglio pensai fosse l’ennesima buona metafora della nostra storia: finita sepolta dalla merda.

Partii per un viaggio in solitaria, volevo camminare, io, che non sono affatto sportiva, decisi per i sentieri della costiera amalfitana e mi trovai a sostare nello squallore di Salerno dove venni scambiata per una puttana e fui costretta a scappare.

Avevo perso il conto di quanti mesi fossero passati dall’ultimo nostro incontro, forse avevamo superato l’anno, e io, in tal senso, mi sentivo quasi guarita.

Quando ti rividi poi, era passato del tempo anche se non ancora abbastanza, tu t’accingevi a sposarti mentre io stavo vivendo una nuova storia, mi domandasti una buona ragione per non sposarti che io non seppi darti, poi ci ricascammo.

I fumi della fornace (primo quaderno dei contributi)

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Occorre inventare la città come manifesto sussultorio, per rompere i programmi da troppo tempo fissati nel cemento. Occorre pensare la casa come «luogo eletto a dimora del proprio nomadismo», cantiere a cielo aperto e viva fornace, affinché tutto sia fatto per bruciare. Occorre disinquinare, anzi spurgare le immagini dall’amianto che le attanaglia (questo il mestiere del poeta-architetto nel Theatrum Mundi). Occorre infine piegare il patto dei divorzi, della separazione tra uomo e ambiente.

Così è nata “I Fumi della fornace”, una festa della poesia ospitata per tre giorni (29, 30, 31 agosto)  tra le vie del piccola frazione di Valle Cascia (Montecassiano).  Tanto i quaderni di microecologia (“tre querce morte di armato cemento”) quanto il teatro itinerante, le favole, le mostre e i canti miravano ad «un’ecosofia di tipo nuovo, pratica e speculativa nello stesso tempo, etico politica ed estetica. […] Nuove pratiche sociali, nuove pratiche estetiche, nuove pratiche di sé nel rapporto con l’altro, con lo straniero, con il diverso: tutto un programma che sembrerà molto lontano dalle urgenze del momento!» (Félix Guattari, Le tre ecologie)

 

Documentazione fotografica di Thomas Havlik

 

Hanno partecipato alla creazione teatrale collettiva: Valentina Compagnucci, Alessia Zanconi, Anthony Rinaldi, Antonio Governatori, Diana Caponi, Elena Martusciello, Giorgiomaria Cornelio, Giulia Pigliapoco, Irene Mazzuferi, Riccardo Capitani, Veronica Formiconi, Vincenzo Consalvi, Vittorio Zeppillo.

Durante i tre giorni sono intervenuti: Nicola Passerini, Riccardo Canaletti, Renata Morresi, Barbara Mancini e la comunità poetica PHILOSOFARTE, Rosellina Massi Scataglini, Quinto Fabriziani, Lucamatteo Rossi, Valentina Lauducci e Francesca Rossi Brunori. Per l’occasione sono stati realizzati anche due libri d’artista: Facciamo rumore bianco di Nicola Passerini e Favole dal secondo diluvio di Giuditta Chiaraluce e Giorgiomaria Cornelio.

Pubblichiamo qui un primo quaderno dei contributi come rete di vagazioni, appelli, sementi:

 

Documentazione fotografica di Matteo Vicomandi

 

Nicola Passerini

estratto dal libro d’artista

Facciamo Rumore Bianco (per una fenomenologia della complessità)

 

 

Vorrei avere la capacità performativa di rendere tutte le lingue, agirle tutte o molte comunque, per dire anche solo uno spezzone di sensazione, ogni volta un assaggio di qualcosa, che sia percezione, affetto o effetto, qualcosa insomma, un qualsiasi oggetto del soggetto linguistico, performato nel suo istante.

Perché ogni volta la parola mi risuona dentro carica d’echi d’altre lingue, e questo al di là della propria primitiva istanza poetica è qualcosa di infernale, nel senso del luogo in cui finisce per calarti. Al di là della dicotomia oggettiva/soggettiva (farla diventare esclusivamente aggettiva) sei sempre tu a finire all’inferno, qualsiasi cosa detta o intesa.

 

 

Renata Morresi

poesia come intervento sismico da Terzo Paesaggio 

(Nino Aragno, 2019)

 

 

Una casa sarà fatta di tutte le frasi

le belle frasi, le frasi tipo, frasi-struttura,

«la memoria di quanto accaduto»

«la prevenzione nelle zone ad alto rischio»

«per prime le scuole dovranno»

architettura di frasi ad alto rendimento,

a basso costo, senza tema di risparmio di frasi,

anzi sondando

i corpora delle più pronunciate

frasi dopo il disastro.

 

Sarà una casa inattaccabile,

leggera come il fiato della frase,

modulare, prefabbricata, ecologica,

con i «nessuno sarà lasciato solo» accanto ai

«prendiamo a modello il Giappone».

 

Grazie alla forza intrinseca della materia prima più diffusa

ecco la casa altro che popolare: casa in prosa, casa fonetica!

Con tanti rappresentanti e funzionari e urbanisti

ma anche i sognatori e la gente comune senza le lauree,

tutti quanti in prima linea, in maniche di camicia

arrotolate sopra il gomito, i muscoli delle braccia

tesi mentre tengono le mani a megafono

tutti rivolti a sud-ovest a gridare frasi

bellissime, indistruttibili.

Qualche burlone griderà «forza Juve» o «viva la fica».

 

Poi ci saranno pure quelli senza voglia di gridare,

i soliti sfaticati rimasti senza casa, peggio per loro.

 

 

Giuditta Chiaraluce

Manifesto, con una cartolina

dalla mostra Nous continuons l’èruption

 

 

 

 

 

Tuto è corpo d’amore, poesia letta da Roselina Massi Scataglini

durante il suo intervento in omaggio al poeta Franco Scataglini.

 

Tuto è corpo d’amore
la tera ‘l cielo ‘l pà
i ucelli de cità
spe­nati, senz’unore,

gati  cessi arboreli
drento l’aiole grame,
l’esse sazi e avé fame,
el còce sui forneli
.

-‘stora de mezogiorno–
de mile e mile pasti,
i luo­ghi streti e i vasti
liberi dal contorno,
.

i sco­lari che sorte
in massa da le scole
e le com­po­ste fiole
de sé più méio acorte,
.

i ope­rai del cantiere
co’ le sue azzure tute
(intel­li­genze mute
coi tapi del potere)
.

i ladri i questurì
sem­pre dal sud sortiti
–musi guzi aneriti
schiene da signorsì-
.

le casa­lin­ghe (strane
anime d’umidicio)
quele che va in uficio
le ope­raie le putane,
.

i feno­chi estromessi
de l’amà ‘nte ‘l dicoro,
tuti i ribeli, loro,
che manco a vive è amessi
.

ma pure l’obediente
da la fadiga zita
scar­tato da la vita
quando non dà più niente.
.

Tuto è corpo d’amore
mischiato al bene e ‘l male,
tuto è ‘l fenomenale
èssece: serpe o fiore
.

ortiga o albaspina
jnfe­deltà, costanza
for­tuna, malandanza
sesso d’omo o vagina
.

e te, dia­leto caro
che da l’infanzia sorti,
t’ha cin­gue­tato i morti
su l’alto colombaro
.

e te, arboro mio,
c’arfoi a tute le lune,
‘nte le tue fieze brune
io so’ pedo­chio e dio.

.

 

Quinto Fabriziani
Tracce per ascolto

Una mostra che presenta alcuni esempi, copie-lavoro di una scrittura poetica che si apre al gesto del comporre la pagina scritta segnata e altre immagini , di figurazioni che variano al variare dei giorni, delle pagine raccolte dalla vita e segnate dall’astrarsi dal senso, nel dover mostrare ciò che ancora appartiene alla scrittura, oltre sé, la oltrepassa, e si mostra in una visione della pagina o del quadro composita, scarna o con ricche tarsie, dove convergono esperienze, mappe su una frontiera labile e a tratti illeggibile. Trascorrere con gli occhi la pagina, leggere i tratti il confondere dei segni, lettere e immagini, e lo scarto raccolto in ogni luogo ove si disfa o si crea la pagina, il libro o il senso di un vagare silenzioso. Diari transumanze viaggi, non una meta e i movimenti sospesi, solo restare lì dove si è. Sedersi, appoggiarsi, guardare e si apre da solo un astuccio, ecco l’inchiostro il pennino colori povere matite vecchi quaderni carte pagine e libri trovati ognuno con le proprie pagine bianche e i dorsi consumati. Poi il tempo degrada le colle, ingiallisce le carte, irrigidisce ogni pagina, qualche macchia si fa viva sente il farsi segreto del mutamento. I quadri raccolgono altre parti del mondo.

Cosa si manifesta, cosa accade? Ogni volta una cosa, quel libro, un foglio di album, un prato l’erba foglie radici, resti futili incarti abbandonati, si prestano a porre in arte ciò che è in uno scarto contemporaneo, di quelle scritture di un tale ascolto dell’attimo.

 

Riccardo Canaletti

Inedito per I Fumi della Fornace

 

Documentazione fotografica di Matteo Vicomandi

 

«Tout ce qui finit est si court!»

(Ambrogio Bazzero)

 

Cosa fa il mare. Lo fanno anche le madri

le braccia che di loro invochi

quando ti tenevano per non bagnarti

in aria, sulla riva. E non ricordi

una tua immagine simile alle mie:

i gabbiani sugli scogli come coppe su un banchetto

devastato dal sale e dalle alghe.

 

 

Philosofarte

Un contributo di Tiziana Monti da Malati Fiori,

con una nota di Umberto Mastroianni

 

 

 

Vincenzo Consalvi

Alle figlie e ai figli della casa della poesia di Vallecascia

Documentazione fotografica di Thomas Havlik

 

Abbattuto

camì della fornace

alti a svaporare

gli occhi dei polmoni

intasati amianto ora

sfracellato al posto suo

dono munifico per

tutti gli abitanti: ma si ristora

il gruppo degli apostoli,

prima di spiccare

angelico un benedetto

volo riparatrici con

parole poetiche e gesti

da festone api spargi-

miele, il fumo da

piccoli camini a consumarsi

tra due dita, ad altre

delizie destinato scono-

sciute agli operai che

fumo compravano a credito

perchè il corpo più a

lungo resistesse al

quotidiano sventrare

dei mattoni

 

FORNACE ED ANGELI DI CARNE

A VALLECASCIA

(scritta il 20 luglio 2019, 18 anni dopo Carlo Giuliani e Genova)

 

 

Rubina Giorgi

Un estratto inedito da Vite Desideranti (Ripostes, 2019), ad omaggio

 

[…] V’è però inoltre, mi pare da sempre, da vedere e accogliere, oltre la differenza, una indifferenza, anche se la parola mal pronunciata scade, suona male, sembra altra cosa. Bisognerebbe pronunciarla attraverso un esercizio linguistico-iniziatico che la trasformi, trascendendo, in apicale segnatura, parificante differenti forme uomo e donna in un’ascesa di estrema impervietà e bellezza: la libera intera semplice nuda Dissomiglianza della gnosi amorosa divina.

Esser gettati nell’abisso della natura d’Amore da Amore stesso, il quale così goda della sua natura intorno e sotto/sopra se stesso ruotando di nascita in nascita, come dicono le “amiche di Dio”, e confermando la indifferenza, o inlimitazione sublime, a cui accenno. L’abisso del cielo dell’anima è In-differenza do- tata di differenziante abissale lucidissima vista.

 

 

Ivo Consalvi

Tu mi hai preso tutto

 

 

Fischiettando come se niente fosse – Un racconto di Mário Dionísio

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a cura di
Serena Cacchioli

Mário Dionísio (1916-1993) è stato uno dei principali protagonisti e teorici del neorealismo portoghese. Il neorealismo di Mário Dionísio si allontana dal naturalismo dogmatico e si dedica a svelare le contraddizioni della società a lui contemporanea con un’espressività personale e collettiva allo stesso tempo. Scrive di lui Giuseppe Tavani: «una dosatissima alleanza di liricità e di violenza combattiva, di fiducioso libertarismo e di disperata coscienza dell’illibertà: è in questa armonia di vita, in cui la speranza frustrata “rispunta sotto il manto complice delle cose”, che risiede il fascino di una tra le più interessanti voci della poesia neorealista».

Narratore e critico, oltre che poeta, Mário Dionísio si è dedicato anche al racconto, al romanzo, alla pittura e soprattutto alla critica letteraria e artistica.

In italiano sono state tradotte soltanto alcune poesie da Giuseppe Tavani all’interno dell’antologia: Da Pessoa a Oliveira. La moderna poesia portoghese. Modernismo Surrealismo Neorealismo, Edizioni Accademia, Milano, 1973.

Il racconto Fischiettando come se niente fosse, che presento qui in una mia traduzione inedita, è tratto da O dia cinzento e outros contos (Il giorno grigio e altri racconti) [prima ed. 1944, nuova ed. 1967].

Oggi la Casa da Achada – Centro Mário Dioníso di Lisbona è un archivio vivo che divulga l’opera dello scrittore, poeta, pittore, critico e professore. Dal 26 al 30 settembre 2019 festeggerà 10 anni di attività con mostre, concerti e dibattiti.

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FISCHIETTANDO COME SE NIENTE FOSSE

A quell’ora il traffico si complicava. I negozi, gli uffici, certe botteghe riversavano in strada centinaia di persone. E le vie, le piazze, le fermate dei tram che erano state progettate quando non c’era, nei negozi, negli uffici, nelle botteghe, tanta gente, si riempivano all’improvviso. Sui marciapiedi larghi delle grandi piazze ci si scontrava. Le persone perbene dovevano chiudere un occhio su quella mancanza di riguardo e non trovavano altra via se non spintonare ed essere spintonati a loro volta e ogni tanto imprecare. I tram s’incolonnavano in fila uno dietro l’altro. Seguivano lenti, carichi fin sulle predelle esterne e su quelle posteriori, delle centinaia di persone che a quell’ora saltavano fuori di fretta dai negozi, dagli uffici, dalle botteghe. Inoltre, nelle belle giornate come quella, le vie della Baixa si riempivano di tipi eleganti che andavano a fare il loro giro delle cinque per le novità dei negozi e per le sale da tè, per far passare il tempo in qualche modo, vedere facce conosciute, salutare ed essere salutati, e tornavano a casa soltanto all’ora di cena.

La moltitudine proponeva una fraternizzazione forzata. Si doveva chiedere scusa al garzone a cui si pestavano i piedi, implorare le persone aggrappate in tram che si stringessero un po’ di più per poter infilare un piede, solo un piede nient’altro, in un angolino, spesso sorridere a gente che non si era mai vista prima e che si aveva voglia di insultare. I signori e le signore eleganti naturalmente trovavano che tutto ciò fosse una gran seccatura. Soprattutto la necessità assoluta di continuare a stare su quei mezzi strapieni su cui non viaggiavano solo gentiluomini, ma anche certa gentaglia poco corretta, e in cui questi stessi uomini e donne volgari esalavano un odore insopportabile. Eppure che si doveva fare se non buttarsi tutti in quel mare di gente che spingeva, superava, pestava e farneticava fino ad arrivare alla vettura? Che fare se non spingere, superare, pestare e farneticare?

Il convoglio seguitava lentamente e pieno come gli altri. Per fortuna c’era ancora qualche uomo corretto in città e qualche donnina che sapeva quale fosse il suo posto. Solo per questo motivo le signore che avevano messo a repentaglio scarpe e cappelli in quella gran bolgia e alcuni gentiluomini rispettabili erano riusciti a sedersi.

Nei primi istanti di viaggio, la gente si girava sui sedili, preoccupata, cercando di vedere se il marito, un’amica, un figlio fossero per caso rimasti a terra. Quelli che erano rimasti in piedi osavano fare un passo dentro alla vettura, per vedere se per caso fosse avanzato qualche posto vuoto. E subito s’alzavano proteste. Poi si accomodavano tutti alla bell’e meglio, alzavano le braccia perché non gli si schiacciassero i pacchetti, si chiudevano bene le giacche e le borse dove tenevano i soldi, l’autista tirava varie volte e con forza la corda del campanello, posti esauriti, e il convoglio si trascinava avanti in silenzio.

I signori rispettabili, comprensibilmente e silenziosamente arrabbiati con i compagni a lato, iniziavano a dispiegare i giornali della sera e a leggere le notizie a voce alta. Le signore, visibilmente di cattivo umore, s’aggiustavano i cappelli e i colletti delle giacche. Prendevano gli specchietti dalla borsa e passavano tutto in rivista: cappello, capelli, occhi, labbra. Da non crederci. Una era rimasta con il cappello completamente spostato su un lato, un’altra aveva perso un guanto nella confusione. Poi mettevano via gli specchi, si riaccomodavano meglio, percorrevano con le dita gli anelli di una mano e poi dell’altra per vedere se erano al loro posto, se c’erano tutti. Si guardavano tra loro, molto serie, come chi non nota nulla. Recuperavano poco a poco la dignità che quello sproposito di entrata in tram aveva fatto evaporare.

In curva le ruote stridevano sui binari, sotto l’enorme peso. Silenzio, finalmente – anche se spezzato di tanto in tanto dal campanello, quando a qualcuno veniva la triste idea di voler scendere, tra il dispiegarsi di giornali e la voce dei popolani, incastrati sul gradino d’entrata.

Tutto era tornato alla normalità. La marcia del convoglio, l’incasso del biglietto, lo spazio tra le persone, che rigorosamente non riuscivano a separarsi le une dalle altre nemmeno di un centimetro. E, così, lentamente, per curve e rette, per vie e piazze, quel convoglio seguiva il proprio destino di raccogliere gente ed essere insultato, su una delle varie linee che univano il centro della città ai quartieri relativamente nuovi, dove la separazione tra la cosiddetta classe media e le fasce più basse della popolazione non era ancora stata stabilita come si deve.

A un certo punto, però, dalla parte posteriore arrivò un tumulto. Proteste. Indignazione. Le teste si giravano dentro alla vettura. E si vide un ometto che spingeva tutti dicendo che c’erano posti vuoti davanti, che lo lasciassero passare. Tanto spinse che riuscì a passare. Tanto riuscì a passare che riuscì a entrare dentro al tram, avanzò e andò a sedersi in un posto su un lato che era effettivamente vuoto là davanti, accanto a una signora a dir poco opulenta.

Fu uno stupore generale e silenzioso. Nessuno aveva visto il posto vuoto. E men di tutti, come si può ben immaginare, la stessa signora opulenta. Tutti gli ardimentosi hanno fortuna.

L’uomo, che portava un cappello sgualcito e un soprabito marrone piuttosto luccicante sui lati, a dire il vero non si sedette. Si sotterrò nel sedile, con le mani tutte infilate nelle tasche. Che tipo! Doveva essere più giovane di quanto sembrasse per via dei capelli brizzolati e della barba di qualche giorno. La signora opulenta arricciò la fronte e si riassettò sul sedile, per così dire, come chi cerca di occupare meno spazio. In verità, si sistemò meglio. La sua intenzione era quella di far notare all’ometto la sconvenienza di quel suo atteggiamento. Ma lui non vide niente di tutto ciò o finse di non vedere. Guardò vagamente le persone che aveva davanti, distese le labbra e cominciò a fischiettare. A fischiettare proprio come se niente fosse dentro alla vettura!

All’inizio era un fischiettare basso, poco sicuro, impercettibile quasi. Poi, poco a poco, il tipetto si entusiasmò. E il fischio aumentò d’intensità. Si sentiva già in tutto il tram. I passeggeri, che avevano recuperato a fatica la loro dignità, fingevano di non notare né l’uomo, né il suo fischiettio. E si tranquillizzarono quando l’autista si rivolse al nuovo arrivato. Gli avrebbe detto di zittirsi, di certo. Macché! Con il mazzo di biglietti in mano e con la pinza puntata, si limitò a dire: «Signore?» Il passeggero tirò fuori la mano dalla tasca e, senza smettere di fischiettare, gli tese il palmo aperto. Aspettò che gli prendessero la moneta, prese il biglietto e tornò a infilare la mano in fondo alla tasca. Tutti seguivano la scena, interessati. Ma quando l’uomo guardò casualmente le persone attorno, tutti girarono lo sguardo come se lui non esistesse.

Il fischiettio, a volte, era basso, si sentiva appena, altre volte era alto, molto alto, con gorgheggi ridicoli e irritanti. Nessuno sapeva cosa stesse fischiettando. E neanche lui lo sapeva. Una cosa qualsiasi che aveva voglia di fischiettare come gli pareva. A volte ripeteva i suoni come un ritornello. Altre volte, però, la maggior parte delle volte, passava a nuove combinazioni, ora flebili, ora violente, senza volerne più sapere delle altre rimaste indietro.

La gente cominciava a guardarsi di sottecchi. Si era mai vista una cosa del genere? Un gentiluomo o l’altro alzava, ogni tanto, lo sguardo dal giornale, corrugava la fronte, guardava con ostilità l’uomo col cappello sgualcito e il soprabito marrone, con la speranza che lui si vergognasse e la smettesse una volta per tutte. La signora opulenta, al colmo dello stupore, non osava nemmeno alzare lo sguardo, offesissima perché, senza aver nessuna colpa, si trovava in piena zona di scandalo. A cosa le toccava sottoporsi! E nel silenzio della vettura, il fischiettio aumentava di volume. Forse, in fondo, quel gorgheggio ridicolo non era affatto spiacevole. Semplicemente un tram non era il luogo più adeguato per esibizioni di questo tipo. Perché l’autista non interveniva? L’autista era l’autorità della vettura. Perché non sarebbe dovuto intervenire? Si vede che era fatto della sua stessa stoffa. La verità, però, era che non si sapeva di nessun regolamento che impedisse ai passeggeri di fischiettare. Incollati ai vetri del tram c’erano fogli che proibivano di fumare, di sputare all’interno della vettura. Era proibito aprire le finestre nei mesi invernali. Ma nemmeno una parola sul fischiettare.

All’improvviso, una bambina che stava seduta accanto a una finestra e si era stufata di guardare la strada s’interessò all’uomo. Lo trovava simpatico, con il suo cappello sgualcito, il soprabito marrone, il suo fischiettio… Era una bambina molto pallida, con i capelli biondi e ricci, vestita di blu. S’interessò tanto all’uomo che iniziò ad applaudire. Ma una signora giovane e bella, che stava seduta al suo fianco, le prese le mani con gentilezza e gliele divise. Doveva stare un po’ ferma e in silenzio. Non si doveva far rumore sul tram. Una bella bambina non fa rumore. «Che ho detto alla mia bambina?». Allo stesso tempo però, alla signora giovane e bella quell’uomo non stava antipatico. Guardava i pacchi di carta vistosa che portava sulle ginocchia e pensava: se non ne potessi più e iniziassi anch’io a fischiettare? In fondo, ammirava la poca cerimoniosità dell’uomo col cappello sgualcito. Non sarebbe stato adorabile se lei stessa, una signora sposata e madre di una bambina di cinque anni, avesse cominciato a fischiettare su un tram, nel momento in cui ne aveva voglia? Quando aveva l’età della figlia, la signora bella andava spesso in campagna, vestita con abiti vecchi, per potersi buttare sull’erba a piacimento. Aveva una voce molto soave e fresca, le piaceva fare esattamente quello che una bella bambina non dovrebbe fare. Gli amici del padre la prendevano in braccio, la lanciavano in aria. E lei rideva, rideva, rideva fino a soffocarsi. La madre diceva: «Allora, allora, un po’ di contegno, non si ride in questo modo». E più le diceva così, più le veniva voglia di ridere, ridere, ridere.

Ogni tanto un passeggero usciva. I gradini d’entrata e d’uscita si svuotavano. E poco a poco, quelli che restavano si abituarono a quello stupido fischiettio. Gli uomini avevano dimenticato i giornali. Alcune signore sorridevano. Si era mai vista una stupidata del genere? Soprattutto la signora opulenta non ne poteva più. Stringeva le labbra. Seduta su un sedile di lato, incrociava gli occhi di tutti. Era insopportabile. E la signora bella pensava all’aria aperta e ai tempi d’infanzia. A scuola aveva imparato a fischiettare e a lanciare la trottola. Certe voci le erano rimaste dentro: «Una bambina che fischietta, Nini?».

A un certo punto l’uomo, senza smettere di fischiettare, si alzò e tirò la corda della campanella. Era un ometto insignificante, ancora giovane e con i capelli già grigi, il cappello sgualcito, il soprabito marrone molto luccicante sui lati. Ma c’era in lui una sovrana indifferenza a tutto il tram. Tutti lo guardavano. Con disprezzo? Con ironia? Con invidia? Aprì la porta, la chiuse e saltò quando la vettura era ancora in movimento. Le persone allora si girarono a guardarsi, non resistettero più e risero. Che buontempone! Si scusavano, si spiegavano senza parole. Si capivano. Un minuto di semplicità e simpatia li illuminò. La bambina che aveva applaudito pulì con la mano il vetro appannato del finestrino alla ricerca dello strano passeggero. Lo vide attraversare la strada, continuare sul marciapiede accanto alle case, sparire. Solo allora la signora giovane e bella, che era la madre della bambina, aprì gli occhi. Oggi nessuno la chiamava Nini. Nini era la figlia. Ora era lei che diceva alla figlia: «Una bambina che fischietta, Nini! Una bella bambina non fa rumore».

Era rimasto sulle labbra e sugli occhi di tutti un sorriso di bonaria ingenuità. Dopo, questo sorriso si spense lentamente. Morì. Tutti ripresero coscienza del loro momentaneo calo di decoro. Si ricordarono dei loro pacchetti, dei loro anelli, dei loro giornali. Che sciocchezza! Non c’era altra parola. Che sciocchezza! I gentiluomini ricominciarono a leggere i titoli delle notizie. Le signore si aggiustarono i colletti delle giacche. La bambina guardò di nuovo la strada.

Tutto tornò, pesantemente, a riempirsi di silenzio e dignità.

 

La mia madre

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di Jacopo Napolitano

 

A quanto pare nel 1980 mia madre si è scopata *****, che a dispetto delle apparenze (stando al suo resoconto era più magro e invitante all’epoca) si è dimostrato impacciato e poco pratico, cosa abbastanza sorprendente, o almeno, sorprendente in quanto si è soliti pensare che tutti i personaggi che appaiono in tv siano in una certa misura una casta perfetta e che quindi per proprietà transitiva perfettamente scopino.

E invece salta fuori che sono uomini fragili come tutti noi. Mia madre lo scoprì quella notte e io scoprì, quando me lo raccontò accasciata sul divano mordicchiando la sua Marlboro, che io la odiavo mia madre. La odiavo con ferocia e stupidità, come solo un bambino di dieci anni sa odiare un mal di pancia.

 

 

Fuori dalla finestra della camera d’ospedale si accampava un banco denso di nuvole temporalesche, una parete fumosa carica di elettricità e malumori. Ansimanti all’orizzonte, una sopra l’altra, gonfie d’intenti belligeranti.

«Cosa vuoi da noi?»

Nonostante avesse qualche anno in più di mia madre era ancora bello, una bellezza trascorsa, questo sicuramente, una bellezza tipo quella sfatta di Genova, tuttavia una bellezza trascorsa che lasciava il ricordo di sé nei capelli grigi, affilati, ma ancora lucidi, nella pelle comunque elastica per quanto s’accasciasse ai lati della bocca o sotto gli occhi, una bellezza che lasciava un ricordo di sé nelle mani inquiete che giocavano con un accendino. Un pacchetto di Lucky Strike rosse spuntava dal taschino della camicia, ma più per un vezzo narcisistico volutamente ostentato che per lunga appartenenza a un vizio.

«Io? Mi chiedi cosa voglio io?»

Fece scattare la fiamma dell’accendino un paio di volte. Teneva d’occhio la nube temporalesca e agguerrita con la stessa cura e preoccupazione, lo intuivo dallo sguardo, con gli stessi sentimenti e presagi nel petto di una madre, l’ho visto più volte nello sguardo di mia madre e ora lo riconosco in lui, una madre che aspetta che il proprio figlio torni a casa e rimane piantata alla finestra a disintegrare d’occhiate l’angolo della strada fino a che questa con un sospiro, finalmente vinta, gli riconsegni il figlio.

«Io non voglio niente.»

Il peso raggrumato dell’ora che deve ancora venire rendeva pesanti le nuvole accampate in cielo, pronte alla battaglia, rendeva pesanti le parole da dire. Con quanta fatica si contraggono i muscoli della mascella sperando che la gola sputi delle parole.

«Non vuoi niente, eppure ti sei sempre preso tutto.»

Io, quelle parole, gliele ho sputate in faccia, ho fatto fatica, è vero, ma gliele ho sputate in faccia come aria compressa.

Lucrezia, è il bel nome di mia madre, con quelle vene artificiali che la trattenevano in mezzo a noi iniettandole in circolo linfa vitale, Lucrezia, mia madre da una vita, con quei tubi che la facevano respirare quando respirare non avrebbe potuto, con gli occhi ancora chiusi che non apriva da settimane, la mia madre da una vita che si stava esercitando a tenerli chiusi quegli occhi, quando tenerli chiusi a lungo non si è mai abituati ma si deve imparare anche questo, Lucrezia non sentì il rumore delle mie parole che si spiaccicavano contro mio padre e non sentì i rumori che vennero dopo.

Un fulmine si scaricò a terra, e la trovò tenera e senza rimproveri per quell’improvviso affondo, come la guancia del vecchio, la guancia di mio padre così tenera che non mi accusò come si dovrebbe fare, non mi rimproverò per il sangue che ora gli colava da un labbro e che un fazzoletto provvidente cercava ora di pulire.

«Ti capisco.»

Mise via il fazzoletto.

«In fondo è una reazione corretta, ma non cambia niente. Puoi colpirmi di nuovo, lo puoi fare perché io non te lo posso evitare, e sinceramente, anche se potessi, non lo farei.»

L’aria nera cingeva d’assedio la struttura a mattoni dell’ospedale di Vimercate, pronta a rovesciarci sopra una cascata di pioggia.

Guardai mia madre, stesa nel letto come l’erba si stende nei campi.

La mia madre.

A vent’anni aveva lasciato l’università perché il suo sposo l’aveva lasciata dopo averle piantato in pancia un bambino che a vent’anni è sicuramente una rivoluzione troppo grande per chi è troppo giovane.

Aveva iniziato a lavorare in un’edicola, ho anche io dei vaghi ricordi di quel posto tappezzato di giornali e abitato dalla versione stampata degli uomini dello spettacolo. Passava le giornate in quel gabbiotto di tre metri per uno e mezzo, aggrappata alla stufetta portatile, unica fonte di calore nelle giornate invernali, disperatamente vicino al microscopico ventilatore nelle giornate estive. Sono questi i primi ricordi che ho di mia madre. Lei che legge Novella 2000, lei che legge Chi, lei che legge Sorrisi e canzoni. Leggeva tutto il giorno quelle riviste stando attenta a non stropicciare troppo le pagine per poterle comunque rivendere e scoppiava a ridere ogni volta che ne trovava una con ***** e allora anche io imparai a ridere ogni volta che lo incontravo su una rivista. Poi, anni dopo, mi confessò con un certo orgoglio che se lo era scopato *****, nel 1980, una volta sola, prima del suo sposo.

Il suo sposo lo aveva conosciuto in edicola. Anche questo me lo ha raccontato sempre lei. Diceva che stava leggendo quelle che un tempo considerava le perfette vite stampate ma di cui ora riconosceva anche la fragilità, quando lui la soprese. All’inizio non si era neanche accorta che avesse un cliente, probabilmente lui sarà rimasto a fissarla per un lungo periodo, poi si era schiarito la voce, ma non era infastidito. Le chiese una copia di Internazionale e le chiese perché leggesse quelle stupidate dato che non sarebbe mai stata felice come quelle persone.

Lei rise.

«Felice come *****?»

Mia madre rise ancora più forte, poi comprò tutte le riviste, tutte, le dodici copie di Internazionale comprese. Spese parecchi soldi, ne sono sicuro. Gli disse che non aveva più niente da vendergli, ma tutto da offrire, a cominciare da tutte le ore di quella bella giornata con la palla del sole bene appesa in mezzo al cielo, senza nessuna intenzione di cadere.

Si sposarono, poi lui la lasciò e ora me lo ritrovo davanti.

 

 

«Non ti chiedo di perdonarmi, non me lo permetterei mai, non in un’ora così fatale, non quando sta per piovere, e sinceramente del tuo perdono saprei poco cosa farmene. Per me, in fondo, sei uno sconosciuto come tanti, come delle strade di un paese che si visita per la prima volta, avranno anche una loro logica, avranno anche un loro inizio, una loro direzione. Ma non le si può percorrere tutte fino in fondo, non le si può conoscere. Mi spiace, forse non era questo che ti aspettavi, non sempre il mondo ci soddisfa.

Semplicemente, un giorno in mezzo a tanti altri, tantissimi argomenti hanno iniziato ad accamparsi nella mia testa, e si gonfiavano e mi spaccavano le tempie, si gonfiavano come solo un temporale ha imparato a gonfiarsi, e poi piovve. Piovve così forte che non si sentivano più i rumori, piovve così forte che anche con tua madre che fumava sul divano, anche con te che inciampavi per casa, io mi sentivo solo. E mi è venuta a cuore la mia cardinalità, e un po’ mi ha fatto schifo. Tutta la serie discreta dei miei giorni era quindi orientata a questo giorno? A questa pioggia che tutto ovatta mi sarei dovuto dunque abituare?

Ho deciso di smarcarmi, di prendere quell’altra strada, conoscerne la nuova direzione, vedere se esistesse veramente un destino e a quel destino veramente sottrarmi, e questo alla fine mi ha riportato qui. Lo so, non è soddisfacente. In fondo, non lo è neanche per me.»

 

 

Spesso ho pensato che avrei dovuto sciogliere il mio odio per lei. Spesso mi sorprendevo negli anni a guardarla con un amore feroce e allora avvampavo di sdegno accendendomi di rosso mentre anche lei faceva comparire una fiamma rossa per accendere la punta della sua sigaretta, quanti futili incendi costellano i nostri giorni fino a questo giorno, quante volte mi sono scoperto fumante di rabbia, quante sigarette avvampate ha lei spento, quante stanze ha riempito di fumo azzurrino.

Odiavo forse di non potermi staccare da lei, di non essere in grado di definirmi se non come figlio, odiavo allo stesso tempo l’orgoglio che mi faceva alzare la fronte quando la domenica non lavorava e mi portava in giro per il paese, e io ero fiero di essere suo figlio e lei mi concedeva la mano, odiavo quanto sapesse essere importante raggiungere quella mano, appendersi ad essa, quella mano che ora pende inerme dal lettino e ancora sento il bisogno di appendermi. I motivi del mio odio, che è sempre stato un morbo che lei sola sapeva alimentare e lei sola sapeva calmare, i motivi di questo mio morbo cambiavano costantemente, si fagocitavano a vicenda, onda sopra onda confondendosi, non rendendosi riconoscibili se non in quanto massa compatta come la distesa del mare.

Lei era il mio incanto disperato, un prepotente mistero che invadeva ogni mia giornata, come nuvole di un temporale insidiano il bianco d’un cielo. I suoi occhi sempre accesi da un lampo come s’accende il giorno, dopo i sogni che riempiono il nero di una notte, i suoi occhi che parlavano di un amore nato nel buio delle sue viscere, questi suoi occhi ora chiusi in un buio diverso quando mi vedevano rincasare sapevano minare il mio odio archeologico.

Ora la odio ancora di più perché si lascia vedere da me debole così, chiusa in questa sua debolezza sfacciata, offerta così, come solo si offrono le proprie membra scomposte al sonno, non riesco a sopportare che quella che è sempre stata una sovrana fulgente ora si ritrovi così, non riesco a sopportare che tra poco, anche se io non lo voglio, verrà a piovere e quando uscirò da qui dovrò aprire un ombrello, domani dovrò comunque mangiare, anche se non lo voglio, e domani sera su Rai 1 danno una replica de Il Ciclone, e la Coca-Cola con ghiaccio e limone avrà ancora un buon sapore, e la mia regina ha una mano senza anello, una mano bianca, che pende di lato, sospesa fuori dal letto. Guardo fuori dalla finestra, ed è giusto che il cielo sia tutto adombrato, che il cielo sia un mare in tempesta, che se anche in tv stanno trasmettendo in questo momento un gioco a premi condotto da *****, è giusto che l’agonia di una madre in una stanzetta d’ospedale possa adombrare il nostro grande universo.

Raggiungo la sua mano senza anello. Non distinguo i contorni di un sentimento che guerreggia in mezzo al mio petto.

Rimango in piedi, di fianco al suo letto d’ospedale, aspetto che si apra in una delle sue risate. Il suo viso tremendamente amato rimane immobile come un cielo d’estate. Ho cercato nell’edicola d’ospedale una qualsiasi rivista con accampato in copertina *****. Non l’ho trovata. Ricordo che un giorno pioveva, un giorno in mezzo a tanti giorni della mia infanzia, pioveva ed eravamo solo noi due in casa e lei mi disse che l’unica persona che avrei dovuto perdonare era lei, nessun altro.

 

 

Poi piovve.

Piovve forte per coprire ogni cosa, per inchiodare tutto a terra. Piovve forte, dall’alto verso il basso, come sempre.

Come sempre piovve per sporcare, ma piovve forte, anche, per pulire.

 

L’ultimo dei santi

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di Marisa Salabelle

Le donne erano sedute in cerchio nella piazzetta secondaria di Tetti, non quella principale, all’ingresso del paese, con le panchine e i tigli e la fontanella dell’acqua, e nemmeno quella della chiesa, che una piazza della chiesa propriamente a Tetti non c’era, c’era solo il prato davanti all’ingresso e il monumento ai caduti da una parte: l’altra piazzetta, quella oltre il vecchio lavatoio, nella zona chiamata Tetti Bassi. Avevano portato le sedie fuori dalle case e se ne stavano lì a godersi il fresco, badavano ai nipoti e applicavano toppe ai ginocchi dei jeans mentre si raccontavano a vicenda le solite vecchie storie.

Di quando Laura, la figlia della Maria Rosa, s’era fidanzata e si doveva sposare e aveva detto al babbo, «No, babbo, io Gianni a vivere con me non ce lo prendo», non perché  non volesse il fratello in casa, ma perché sapeva che la mamma non ne poteva più di stare a Tetti inverno e estate, e se lei avesse acconsentito a prender Gianni in casa, visto che da ottobre Gianni avrebbe cominciato a frequentare l’Istituto Professionale a Pistoia, la mamma non avrebbe avuto più nessuna speranza di convincere il babbo a trasferirsi in città almeno durante l’anno scolastico.

Di quando il vecchio Aurelio era stato trovato impiccato nella legnaia e nessuno aveva capito perché l’avesse fatto, ma qualche mese dopo s’era saputo che la su’figliola, Mafalda, era stata ricoverata in una clinica privata, sulle colline sopra Firenze, dove si diceva che avesse partorito un bimbo non normale, che era stato subito rinchiuso al brefotrofio.

Del tempo di guerra, quando c’erano i partigiani quassù, e si nascondevano a Bicocche e alla Casaccia, sì, proprio dove ora stavano gli Elfi, e dei Tedeschi, che rastrellavano la zona e requisivano tutto, le pecore, le mucche, i muli, al nonno Ugo gli avevano rubato l’orologio d’oro, alla Virginia gli orecchini.

Intanto i bambini scorrazzavano e le bimbe si davano da fare con pentolini e piattini e ortaggi di plastica, «tanto, c’è poco da fare», dicevano le nonne, «s’ha un bel dire, ma le femmine son diverse dai maschietti, a loro piace giocare a mamme, fare i mangiarini, è la natura, cosa ci si vuol fare.» Così si usava trascorrere il tempo, a Tetti, e anche se i racconti erano sempre gli stessi, le donne ci prendevano gusto, e ogni tanto si sedeva accanto a loro qualcuna delle più giovani, suggestionata da tutte quelle vecchie storie, mentre altre brontolavano, «mamma, nonna, zia, ancora con quegli aneddoti, ancora con quei ricordi che ci propinate da quando eravamo bambine, che si sanno a memoria, e non se ne può più, ormai.»

«La nonna non faceva niente, in casa» cominciò Bice, la figlia del povero Romolo. «Aveva cinque figli, due femmine e tre maschi. Le femmine erano le  più grandi, la zia Vanna e la zia Rina,  poi c’era il babbo, poi lo zio Alvaro, e lo zio Ermanno che era il più giovane. La nonna stravedeva per lui, era il suo cocco. Se c’era una coscia di pollo, un pezzettino di ciccia tenera, una fettina di castagnaccio o qualche altra ghiottoneria più rara, mandarini, banane, una ciocca d’uva, tutto era per lui. Lascia stare, diceva agli altri, è per Ermanno. E gli altri gonfiavano! Erano gelosi, si capisce.

Le mie zie, ci badavano loro al piccolino, che la nonna non faceva nulla, se ne stava sdraiata sul divano, me la ricordo ancora, quand’ero piccina, mi chiamava, mi voleva vicino a sé, io avevo un po’ di soggezione, però, non mi avvicinavo volentieri. La nonna aveva sempre un odore un po’ stantio, a furia di starsene lì, in quella cuccia, poi a quei tempi, non era come ora, l’acqua in casa non c’era, bisognava andarla ad attingere alla fonte, e poi scaldarla nel paiolo, la gente si lavava meno, specialmente d’inverno. Le zie me lo dicevano sempre: l’abbiamo cresciuto noi, Ermanno, e guai a dirgli qualcosa, la nonna gli dava sempre ragione su tutto, e lui era venuto su bizzoso, si capisce. Il mi’babbo, non è che ce l’avesse con lui, ma un po’ di rancore secondo me gliel’ha portato, senza nemmeno accorgersene. Povero babbo… E alla fine lo zio Ermanno è rimasto solo.»

«Come, solo, e le sue sorelle?»

«Ci sarebbe ancora la zia Rina, ma è andata a stare dalle suore, da quando la zia Vanna è morta. Non che sia vecchia, la zia Rina, avrà ottant’anni al massimo, ma è sempre stata cagionevole di salute, e un po’ zoppina, poverina; finché ce l’ha fatta, è stata in casa insieme a lui, che non si sono sposati, né l’uno né l’altra, ma poi lei ha cominciato a perdere un po’ la testa e ha voluto a tutti i costi ricoverarsi dalle suore, giù a Porretta.»

«E perché non è rimasta col fratello?»

«Mah, e come faceva, lui… non se ne sarebbe saputo occupare, che vuoi, non è mai stato abituato!»

«E ha messo la sorella al ricovero? Dopo che lei l’ha allevato?»

«Be’, che poteva fare… Ermanno non era adatto, devi capire…»

«Mah! Mah! Che mi tocca sentire! La Rina al ricovero, dopo tutto quello che ha fatto per lui! O quant’è?»

«Eh, saranno due anni, almeno… o quant’è che non venivi a Tetti?»

«Eh, un pezzetto… un pezzetto, di sicuro. Mah, che mi tocca sentire…»

Tratto da Marisa Salabelle, L’ultimo dei santi, Tarka libri 2019

Da “Il quaderno cinese”

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di Ron Silliman

traduzione di Massimiliano Manganelli

(Presentiamo un estratto del volume bilingue inglese-italiano, The Chinese Notebook / Il quaderno cinese, uscito per Benway Series, [1986] 2019.)

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I Neoplatonici di Luigi Settembrini – Domenico Conoscenti

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Note da I Neoplatonici di Luigi Settembrini (Mimesis, 2019)

 

III. b. Una singolare fiaba di formazione

 

I Neoplatonici non è soltanto una liberatoria favola erotica intessuta di malizie e di ammicchi: la trama è visibilmente organizzata in tre blocchi narrativi che scandiscono per i protagonisti un originale percorso di educazione sentimentale. Il primo blocco (capitoli 1-2) mostra la nascita della relazione fra Doro e Callicle e prosegue con la riflessione sull’amore platonico che essi compiono e mettono in pratica insieme al filosofo Codro; nel secondo (capitoli 3-5) vengono raccontati gli incontri dei protagonisti con Innide e le considerazioni sulla scoperta del rapporto con la donna; infine nel terzo blocco (capitoli 6-8), Callicle si innamora di Psiche, dopo un episodio guerresco, che vede coinvolti entrambi i protagonisti, Doro si innamora di Ioessa, e con queste fanciulle i due convolano a felici e feconde nozze, senza peraltro smettere di amarsi.

Attraverso questa articolazione il «racconto osceno sino a la metà» può integrare la metà restante, lasciata nell’Avvertenza priva di qualunque connotazione, riceverne e darle senso, svelarne la coerenza e la finalità interne. Le modalità, la forma propria di questo percorso di formazione vengono determinate dalla cultura di quella “antica Atene”, all’interno della quale esso è collocato e di cui Settembrini ha una conoscenza non superficiale, che gestisce però da artista, in modo da trarne – anziché un verosimile racconto “storico” – una fiaba o, ancora meglio, una parabola di formazione.

 

Capitoli 1-2. Aperto favolisticamente ab ovo con le origini dei genitori dei protagonisti, il primo capitolo mostra Doro e Callicle legati fin da bambini di un affetto che li porta a condividere qualunque esperienza fino a quando capiscono che il sentimento e la confidenza fisica che li uniscono da sempre si sono trasformati in amore:

 

Erano già efebi, e già sentivano quell’interno rimescolamento quell’angoscia che è il primo segno la prima voce di amore. E Doro disse: Io sento, o Callicle, che t’amo con un nuovo ardore, e maggiore di quello che ho sentito sinora. E credo sia quell’amore che secondo il divino Platone, gli Dei mettono nel petto soltanto dei savi, quell’amore che nutrisce la sapienza e la purifica, che unisce e rende prodi i giovani guerrieri. Sì, o Doro, disse Callicle: io non amo che te, e più forte di prima, e credo che sia nato in noi questo amore platonico. Godiamone ora che ne è tempo. [APP, p. 187]

 

La consapevolezza non si tinge, modernamente, di inquietudine, di tormento, di vergogna per il sesso dell’oggetto d’amore: nel sentimento appena scoperto i protagonisti ravvisano i tratti di quell’amore di cui ha parlato Platone (che coinvolge i savi, cioè i filosofi, e i giovani guerrieri) e che è positivamente riconosciuto dalla cultura della polis. Se il collegamento pederastia-filosofia si affaccia in alcuni luoghi di Luciano di Samosata, in modo particolare negli Amori (per quanto condotto sul filo ambiguo della castità),[1] non si riscontra nella sua opera alcun accostamento tra omosessualità e virtù guerriere, se non implicitamente per qualche generico cenno alla coppia Achille-Patroclo.

L’esortazione di Callicle a vivere insieme e consapevolmente l’amore appena scoperto non ha l’urgenza che risuona nel rapporto pederastico, ammissibile per l’amato solo nell’arco adolescenziale, prima che giunga a compimento lo sviluppo fisico e sessuale. La prima voce del loro amore si fa sentire infatti a diciotto anni, con l’ingresso nell’efebia,[2] che ad Atene sanciva, col compimento dei vent’anni, il passaggio al mondo degli adulti. Trovata la maniera in cui esplicitarlo anche sessualmente, «l’amore dei due giovani non ebbe più smanie né angosce», chiudendo il momento in cui avevano sentito per la prima volta «quell’angoscia che è il primo segno, la prima voce di amore». Da allora, la relazione fra Doro e Callicle, più che semplicemente inserirsi nella quotidianità della vita a scuola, a casa, con i vicini… rafforza e rende più serena, positiva, sennata la loro partecipazione agli impegni quotidiani, alle mansioni e ai doveri richiesti dal loro ruolo sociale. Appare qui la prima eco platonica indipendente dalla mediazione di Luciano, un ricordo del mito raccontato da Aristofane nel Simposio: dopo aver tagliato in due gli esseri sferici, Giove trasferisce i loro genitali sul davanti affinché, se si fossero incontrate le metà maschio-femmina, esse perpetuassero la discendenza umana, «se invece si fossero trovati insieme un maschio con un maschio, ne venisse almeno sazietà dallo stare insieme e smettessero e si volgessero al lavoro e si curassero del resto della vita».[3]

La reciprocità del diletto viene a ragione ribadita dopo che ha iniziato a includere la penetrazione, sempre replicata a ruoli inversi già dalla prima volta: «E così vivevano pigliandosi diletto con temperanza, e tanto ne pigliava l’uno quanto l’altro, una volta per uno in ogni cosa e sempre, come vuole giustizia ed amore» [APP, p. 189]. Che giustizia ed amore, dittologia ripetuta in chiusura di capitolo, sia da intendere nel senso dell’assoluta eguaglianza[4] e reciprocità affettivo-sessuale è evidente; temperanza, l’altra parola chiave, verrà ripresa dal filosofo Codro, in contrapposizione alle caratteristiche del rapporto con la donna.

È possibile cogliere in questo primo capitolo uno scarto fondamentale nell’amore platonico di Doro e Callicle rispetto al modello che emerge nei testi di Luciano, perché il rapporto fra i due comincia quando di solito, per l’amato, terminava il rapporto pederastico, cioè con la fine dell’adolescenza (attorno ai diciassette-diciotto anni).[5] Si ricordi infatti negli Amori l’osservazione di Caricle, paladino degli amori “eterosessuali” e detrattore di quelli “omosessuali”:

 

Ma se uno tenta un giovanotto di vent’anni, parmi che ei cerchi piuttosto di esser picchiato [= sodomizzato] egli. Chè a quell’età le membra sono già dure e fatte, le gote non più morbide ma aspre e folte di barba, le cosce vigorose sono ispide e brutte di peli, le altre parti nascose le lascio a voi che le conoscete. [LUC, II, p. 237]

 

Siamo al di fuori della concezione pederastica anche perché l’uguaglianza anagrafica tra amante e amato è strettamente correlata, come si è visto, alla più sconvolgente uguaglianza dei ruoli all’interno del rapporto sessuale.[6]

Il narratore, già intervenuto nel ruolo del testimone nella parte inziale, si inserisce in prima persona anche nel finale:

 

Ed io credo che se gli Dei immortali riguardano a le cose che fanno gli uomini, hanno dovuto compiacersi a mirare questa bellissima, e forse sentire invidia di due fiorenti giovanetti che tanto si amano fra loro, e godono secondo giustizia e amore. [APP, p. 189]

 

Il compiacimento degli Dei riprende il cenno contenuto nella “confessione” di Doro, in base al quale l’amore platonico è ispirato dalle divinità. L’intervento della voce narrante ribadisce la legittimità di quell’amore, visto con favore dagli Dei, forse pure invidiosi di tale sentimento goduto secondo giustizia e amore (la reciprocanza). Doro e Callicle stanno sperimentando qualcosa di sconosciuto perfino all’esperienza divina: gli esempi di Giove e Ganimede e di Apollo e Jacinto, ricordati da Settembrini nel Discorso premesso alla traduzione di Luciano, rinviano infatti al modello pederastico, asimmetrico e perciò privo di giustizia.

[1] Cfr. LUC, II, pp. 236-37, 241 e 249.

[2] L’efebia era una sorta di addestramento militare istituzionalizzato (che includeva anche un’educazione letteraria e musicale) della durata di due anni, al termine dei quali i giovani acquisivano la piena cittadinanza.

[3] Cfr. Platone, Simposio. Testo a fronte. Traduzione e commento di M. Nucci. Introduzione di B. Centrone, Einaudi, Torino 2009, p. 85.

[4] Cfr. anche Di non credere facilmente alla dinunzia: «Nessuno può negare che la giustizia consiste nell’eguaglianza in ogni cosa, e nel niente di soverchio, e la ingiustizia nella disuguaglianza e soverchianza», LUC, III, p. 109.

[5] E. Cantarella, op. cit., pp. 58-65 sostiene che l’età per essere eromenos andava solitamente dai dodici ai diciassette-diciotto anni, appunto; sull’estensione di tali limiti cfr. anche G. Dall’Orto, Tutta un’altra storia, cit., pp. 60-63.

[6] Cfr. K. J. Dover, op. cit., p. 91: «si poteva essere erastés ed erómenos nello stesso momento, ma non era possibile essere l’uno e l’altro nei confronti della stessa persona». E. Cantarella, op. cit., p. 70, ritiene che il discredito nel caso di rapporti omosessuali fra adulti, non fosse globale: «Ricalcando il modello della coppia pederastica, quella composta da due adulti prevedeva che uno solo dei due assumesse il ruolo dell’amato: e in questo stava, appunto, il problema sociale e morale che determinava tensioni, contraddizioni, ambiguità, e non poca ipocrisia. Uno solo dei due violava formalmente le regole. E la società greca rispondeva a questa constatazione applicando i tipici criteri di una “doppia morale”. Uno solo dei due era il vizioso, l’indegno, quello da ridicolizzare: quello che, per lo più, veniva definito katapygōn».

Patria

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di Gianni Biondillo

Fernando Aramburu, Patria, Guanda editore, 2017, 632 pagine, traduzione di Bruno Arpaia

Straordinario successo editoriale in Spagna, Patria sembra oggi un libro imprescindibile e necessario per ragionare attorno a temi quanto mai contemporanei quali le piccole patrie, i nazionalismi, l’identità di un popolo, la lotta armata, la ricerca della verità e il perdono. La forza di Fernando Aramburu sta nel farlo evitando gli storicismi didascalici e affidandosi a un romanzo fiume, poderoso, colmo di una pletora di personaggi, tutti descritti minuziosamente, con pregi e difetti, manie, ossessioni, debolezze, umanità.

Tutto è raccontato dal punto di vista parziale di un piccolo paese basco, inseguendo la vita di due famiglie, dapprima intimamente legate da una amicizia naturale e poi sempre più divise da una scelta di campo. Con o contro. Gli anni sono quelli fra i Settanta e gli Ottanta, ma il calendario del romanzo mischia la cronologie, ci presenta i protagonisti oggi, li ripropone ieri, confonde le acque chiedendo al lettore un impegno ulteriore di ricomposizione delle ragioni degli uni o degli altri.

Svettano le figure due donne: Bittori, alla quale il terrorismo basco ha ucciso il marito, e Miren, madre del presunto omicida dapprima in clandestinità, ora in carcere. Amiche e, nel tempo, nemiche per difesa familiare prima ancora che ideologica. Più deboli, non come personaggi ma come persone, i mariti, Joxian e Txaco. Paesani amanti della bicicletta, della compagnia, lavoratori, uguali in tutto. Ma fragili e incapaci di capire davvero l’avvicinarsi della tragedia. Txaco verrà incomprensibilmente giustiziato, Joxian lo piangerà di nascosto dalla moglie, ormai completamente dalla parte del figlio. Altre bellissime figure familiari di contorno definiscono il quadro di questa epica contemporanea, scritta con una voce inimitabile, capace di definire uno stile narrativo nuovo e riconoscibile.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 41 del 10 ottobre 2017)

Mots-clés__Delitto perfetto

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Da The Police Reporter, serie: "The Case of the Green Drapes." — Chicago Tribune historical photo, 1943

 

Delitto perfetto
di Sophie Royère

Nick Cave & The Bad Seeds, Henry Lee -> play

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Da The Police Reporter, serie: “The Case of the Green Drapes.” — Chicago Tribune historical photo, 1943

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Da “Il signor Castità”, intervista ad Alfred Hitchcock, in Oriana Fallaci, Gli antipatici, Milano, BUR, 2010

Fallaci : […] malgrado la sua aria di buon uomo innocuo, a far questi film si diverte anche lei.
Hitchcock : Non lo nego. Lo ammetto. Niente mi esalta come immaginare un delitto. Quando scrivo un soggetto e arrivo al delitto, penso felice: non sarebbe bello farlo morire così? E poi penso, ancor più felice: a questo punto, la gente urlerà. Dev’essere perché ho studiato tre anni coi gesuiti. Mi spaventavano a morte, con tutto, ed ora mi vendico spaventando gli altri. E poi dev’essere perché sono inglese. Gli inglesi hanno molta fantasia per i crimini, molto rispetto. Gli inglesi hanno i delitti più divertenti della terra. Mi ricordo quell’adorabile processo contro quell’adorabile Christie, un necrofilo che aveva ucciso otto donne. Sull’ottava vittima si svolse tra giudice e imputato il seguente dialogo : “Dunque lei scaraventò la donna in cucina, signor Christie.” “Sì, Vostro Onore.” “Ci sono tre scalini per scendere in cucina.” “Sì, Vostro Onore.” “La poveretta cadde.” “Sì, Vostro Onore.”. “E lei la uccise.” “Sì, Vostro Onore.” “E abusò anche di lei ?” ” Credo di sì”, Vostro Onore.” “Prima, dopo, o durante la morte ?” “Durante, Vostro Onore.” Oh, l’Inghilterra è fantastica per queste cose. Peccato che non riescano mai ad occultare il cadavere. In America questo è molto più facile. Io suggerisco sempre lo scarico della spazzatura: che brucia tutto. Oppure mangiarlo: ma dev’essere tenero.”

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Hommage à Cosimo Cinieri

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di

Lucio Saviani

Mercoledì 21agosto, a Roma, al Campidoglio, tanti amici si sono raccolti a salutare il grande Cosimo Cinieri nella Camera Ardente allestita nella Sala del Carroccio. Questo che segue è il mio discorso che ho letto per Cosimo.
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Oggi stiamo salutando un grande attore, un grande protagonista e testimone non solo della scena teatrale ma della cultura italiana degli ultimi cinquanta anni.
Ma noi stiamo anche ricordando la meraviglia, l’entusiasmo, la curiosità, l’ironia, il lampo, la dolcezza, l’empatia, l’intuizione, la filìa che Cosimo Cinieri dovunque andasse, in qualunque stanza entrasse, sempre portava con sé.
Con la sua signorilità d’animo, la sua raffinata e rispettosa sensibilità, oggi così tanto rara ovunque, che ogni volta tutti ci sentivamo addosso, e veniva dai suoi occhi e dalla sua voce.
Un grande attore lo si riconosce dal suo modo di uscire di scena. E insegna proprio questo, a tutti quelli che calcano le tavole e la scena del mondo.

Caro Cosimo, ti sarebbe piaciuto molto, ne sono sicuro. E’ un aneddoto che racconta di due uscite di scena. C’è il grande Socrate, che muore in catene ma libero, rinunciando al piano di fuga dei suoi discepoli: sopravvivere sarebbe stato un naufragare, e morire un continuare a essere stesso. E poi c’è Protagora, meno grande, che accusato di empietà sfugge al processo, scappa da Atene e muore in un naufragio.
Caro Cosimo, ti piacevano i naufragi, ma di un altro tipo. Dicevi che avresti voluto morire con un primo vagito.

Di naufragi tu hai parlato, cantato, raccontato, come nella tua grandiosa Ode marittima, o come nel nostro spettacolo su Nietzsche, con quella tua grande finale uscita di scena cantando la stessa canzone napoletana che il filosofo cantò uscendo di scena, nel suo naufragio torinese.
Cosimo, io ti sono così tanto grato, per la tua presenza così preziosa, così puntuale ai nostri seminari, alle lezioni, ai nostri dialoghi.
Per sempre ti sarò grato per il tuo affetto e la grande amicizia per me e per Ruzenka.

Ma, più di tutto, ti sarò grato per quell’ultima parola che, pochi giorni fa, ti sentii pronunciare mentre andavo via. Senza voltarmi, ti ho sentito dire: “Grazie”. Era a me? A Domenico Zampaglione, che era con me? A Irma, al pubblico, al mondo?…
Nel tuo navigare dolce, per le carezze di Irma, era ancora una volta la tua grande uscita di scena.
E io ora, caro Cosimo, sono qui, a nome di tutti noi, a dire a te, e per sempre: “Grazie”.

 

La ragazza con i piedi per terra

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George Tooker, "The Subway" (Whitney Museum)

(Questo racconto ha una “peculiarità” tecnica, vediamo chi la indovina per primo.)

di Maddalena Fingerle

Io sono la ragazza con i piedi per terra

Racconto a Flavio del mio problema, ma lui non capisce e pensa che sia metaforico. Coglione, dai, sul serio, gli dico al telefono. Non ho capito, mi dice lui, hai i piedi per terra e la testa in cielo? Lo ripeto, ancora una volta: la testa va su, i piedi devono stare giù.

Giura che non mi stai prendendo in giro, Francesca.

Cazzo, fidati!

Ti ho sentito dire tante di quelle balle.

Le ho mai dette su una cosa così?

Sì, certo.

Tormentami, Flavio, tranquillo.

Lo mando a fanculo e gli butto giù il telefono. Non è mica uno scherzo, questo. Torno a casa, ma non riesco a entrarci. Ci vorrebbe un coltello per tagliare il collo che si allunga, si allunga e arriva in alto. Torno indietro e cammino lungo la strada. Da qualche parte potrò pur vivere, anche se la testa è finita quassù. Sudo e mi agito perché non ci avevo mica pensato che domani dovrò andare al lavoro. Romperò il soffitto, il capo mi licenzierà, i colleghi mi prenderanno in giro, se riuscirò anche solo a entrarci. Ci devo provare, almeno. Non riuscirò a dormire. Resto a fissare le nuvole mentre i piedi, per terra, rimangono ben saldi. Dico agli uccelli che a me non piace volare. Resta giù, allora. Ragazzi, che noia vivere così. Si sta male, potessi almeno scindere, staccare la testa e lasciarla qui, perché no? Non lo sopporto più, questo dolore al collo. Lo sento allungarsi e allungarsi e fa tanto tanto male. Lecco un po’ di cielo e non sa di niente. Te pareva! Vado in giro e sbatto contro un aereo, mi faccio un male allucinante. Temo seriamente di avere un trauma cranico e poi boh, ora sembrerò un mostro. Robe da matti. Ti puoi spostare? chiedo all’airone che non ha nessuna intenzione di spostarsi.

Siamo nella merda, mi dice.

Ce l’hai una sigaretta? gli chiedo.

Domani avrai poco da fare la spiritosa.

Sai qualcosa su domani?

Nietzschiana?

Naturalmente!

Te lo dico lo stesso.

So che dovrei avere paura.

Ragazza, ascoltami, domani avrai problemi al lavoro.

Rotture di coglioni?

Nietzschiana?

Naturalmente, ma ora basta chiedermelo!

Lo so, scusami.

Mi dici?

Ci devi fare attenzione, a questa cosa del cielo.

Lo so, lo so.

Soprattutto perché rischi di farti male.

Lentamente inizio a pensare che non sarebbe poi male.

Lentamente inizio a stufarmi di questa conversazione.

Nemmeno un saluto e l’airone se n’è già andato. Tocca a me capire come fare. Resto qui come una scema, appesa. Sai che non si fa così? Sì, mi risponde un corvo. Vorrei essere più gentile, ma mi scoccia da morire essere bloccata. Taglierò il collo. Lo farò, deciso.

Sono indiscreto se ti chiedo che fine ha fatto il resto?

Toccami e ti uccido.

Dovrei scomodarmi dalla nuvola.

La nuvola?

La nuvola.

Lasciami in pace.

Certo che sei antipatica.

Cazzo, che palle.

Le ragazze con i piedi per terra sono tutte uguali.

Litighiamo, ti assicuro che così litighiamo.

Morirei contro di te.

Terrorizzato!

Toccami e ti uccido.

Dovrei scomodarmi dalla terra.

Ragiona, dai: perché hai la testa quassù?

Suppongo sia perché i piedi sono laggiù.

Giuro che pensavo foste più intelligenti, voi ragazze con i piedi per terra.

Razionalmente non fa una piega, ma tu non sei disposto a capirmi.

Mi vado a fare una carbonara.

Ragiono da sola e penso che anche io vorrei mangiare. Resisto alla tentazione di infilare la testa dentro a una nuvola. La infilo, invece, ma non è emozionante come speravo. Vorrei tanto tornare con la testa giù, vivere come prima. Ma so che ormai non sarà più niente come prima. Magari riesco a capire il meccanismo. Morirei se non riuscissi a trovare la soluzione, se non riuscissi a decifrare un enigma. Mangio un po’ di aria e mi metto al lavoro. Ronfo dopo due secondi. Diamine, non ci posso credere, ho dormito in piedi come i cavalli! Li ho sempre odiati, i cavalli, animali stupidi. Dicono che siano intelligenti, ma io proprio non ci credo. Dopo un risveglio faticoso mi ricordo della mia situazione. Ne devo prendere atto. Tossisco e per un attimo penso di aver capito il meccanismo perché la testa scende un po’, ma poi si ferma. Magari ci riprovo. Voglio scendere con la testa e tornare bassa. Sai che noia, vivere così per sempre, sai che agitazione? Nemmeno voglio pensarci. Ci riprovo, ma rimango uguale. Le otto, sono in ritardo. Dopo quello che mi è successo posso permettermi anche qualche minuto di ritardo. Dovrò spiegare a tutti perché la testa è quassù e il corpo laggiù. Giurerò che farò di tutto pur di continuare a lavorare. Resto immobile davanti all’edificio. Io non ci entro, non c’è verso. So che potrei tagliare il collo. Lo voglio? Io non voglio, no, io non voglio. Io non sono così, non posso non lavorare, ma nemmeno vivere senza testa. Tagliare o non tagliare? Resto immobile, senza decidermi. Mi sforzo per urlare al mio collega che è appena sceso. So che non mi sente perché la mia testa è troppo in alto, ma continuo a strillare. Resta un po’, ascoltami. Mi senti? Ti volevo dire che ho un problema, cioè, capirai anche da solo. Lo urlo, ma quello non mi sente, finisce di fumare, spegne la sigaretta, entra. Raggiungo il bar di fronte e tossisco. Come mai non funziona? Naturalmente pensavo che almeno un pochino riuscissi ad abbassarmi. Mi sto innervosendo. Dovrei trovare un metodo per farmi sentire. Resto delusa e mi sto seriamente scocciando. Dolorosamente vedo che c’è il figlio del capo che mi guarda il collo e ride. Derisioni a quest’età, che merda. Dalla sua prospettiva devo essere una specie di gigante strano con il collo da giraffa.

Facciamo così, io ti permetto di prendermi in giro, tu però in cambio mi senti!

Ti sento, mi dice quel marmocchio.

Io non credevo…Vorresti aiutarmi?

Mi dispiace, non posso parlare con gli sconosciuti.

Ti pare che sia una sconosciuta?

Tanto, sì, non ti ho mai vista e sei strana.

Naturalmente lo sono, ho un problema.

Ma la testa ce l’hai, vero?

Rompicoglioni, sto marmocchio, penso. So che non posso dirlo. Lo dico.

Come, scusa?

Sai, è stancante stare con la testa quassù. Suppongo che ora non vorrai più aiutarmi.

Mica puoi insultarmi!

Mi dispiace.

Certo, come no.

Non sto scherzando, ascolta: puoi dire al tuo papà che sono qui fuori e lo aspetto per spiegargli la situazione?

Nemmeno per sogno!

Non faccio scene, cammino e mi immagino di parlare con Flavio, intravedo una fessura e ci infilo dentro la testa. Talvolta pensavo di averlo intuito, questo luogo qui, ma esiste davvero, è assurdo. Dovrà dipendere dal fatto che sono inclinata, mi metto dritta e no: è proprio tutto, tutto al contrario. Io non ci posso davvero credere! Resto così, un po’ rimbecillita. Tanto non lo sai, dico a Flavio.

Lavori in corso

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Sonia Ciuffetelli 

Sic et simpliciter

Sic et simpliciter. Dicunt. Il nesso stroppio
sguidato franto. Obnubilato. Recessit.
Polveri infisse su sampietrini spaccati.
Di lavori in corso.
Sbotta il rumore in centro storico infranto.
I silenzi in notturna ballano.
Ciuffi di rabbia diventano protesi inalienabili.
Indistruttibili.
Passi e ripassi. Osservi.
Percorsi dei venti in vicoli ciechi. Sbarre.
Affacciarsi sull’ultimo mondo
aspirare ultime inalazioni di cantiere.
Puzzo di ferro, cemento in pelle umana.
Alcol e sangue. Calici.
Oltre la barricata. Topi e vuoti.
Forfetarie speranze, incalzano.
Provvedono.
Baratti di parole per un allarme in meno.
O in più.
Fughe in fabula. Radice.

 

 

 

 

Leggendario

Fintanto canto un tanto che serve.
Pensate inutili. Expedit.
Formulari.
Baubauli ricchi di carogne in bau maggiore.
Cangrandi senza scala.
Osti senza vini. Formule forate.
Al mondo in cu. (B)rioso sguardo.
Foglie umane in forme di zerbini.
Vieni a vedere vieni questa follia silente.
Specchi. D’Italia italiota pluriporca.
Panni al vento. Lingua approssimata.
Cultura zero in con-dotta. Adotta,
addotta, adducente sciatte parole
e spira il vento dal Gran Sasso.
Sesso in marcia sessista. Cultura in cu minuscolo.
Scolo d’ideologie in vapore.
Amminìstrati tu, se ce la fai.
Ah no? Re sia! Ma sono contro la monarchia.
E con chi stai? Con la noia degli analfabeti.

 

 

 

 

Tardi e ritardi

Impianto senza espianto.
Dunque? Pensaci.
Illo tempore potevo imboccarti.
Vorrei ancora. Tanto.
Ma il passo è lungo, il respiro allenato.
Frutti facili in marcescenza, caduti.
Così dentro alle cose. Esco.
Scatto e ritorno. Dentro.
Insieme abbiamo costruito il
paese dei balocchi.
Un balocco mondiale.
Tardi per capire, carpire ora il segreto.
Sul greto del fiume troppo a lungo
ho pianto. Non si aspettava sull’argine il morto?
Sbagliare prospettiva. Essere fuori luogo.
Appanna uno scorcio definisce i tratti dell’immaginazione.

 

 

 

 

Dillo perché

Non soccombere. Bombe che non bombano.
Minati territori; da sorvolare. Volat.
Neppure la mafia ci viene più in questa landa.
Chi resta chi scappa. Chi si incarta.
Retorici passaggi, litanìe logore.
Solo perché. Dillo perché.
Perché il monte è duro e il paesaggio brullo.
Perché l’acqua è lontana e i pesci estinti,
l’aria tersa e il cielo perfetto
la gente sana e il ghiaccio impietoso.
A cosa serve la terra se è dura e fredda
se il gelo brucia il verde.
La neve, uno sfondo. In fondo.
Ai progetti. Che non decollano.
Ognuno la sua Itaca, ognuno la sua guerra.
E un silenzio che ogni tanto si spacca.
Fende. Muove, ma non troppo.
Si arrende. Si riallinea alle attese.

 

 

 

*

I quattro testi fanno parte della sezione “Lavori in corso” inclusa nella raccolta di Sonia Ciuffetelli La farfalla sul pube (Arcipelago Itaca 2018). Il riferimento è al terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, anche se mentre leggevo, sbagliando, pensavo alla sequenza Amatrice-Norcia-Visso, di cui la fine dell’estate mi porta sempre gli echi; ma cosa non li porta, dopotutto, viste le macerie che ancora lì giacciono, il nastro segnaletico, le zone rosse, i divieti di ingresso, e il resto dei feticci degli eterni lavori. (rm)