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Hypnerotomachia Ulixis. L’ultimo naufragio di Ulisse (Carteggi Letterari 2019)

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di Anna Maria Curci

Viaggi dai confini dilatati fino al limite del sopportabile, sogni e incubi in alternanza e, talvolta, perfino in alterco, cozzare di visioni in una contesa che zampilla da fonti-passioni copiose, esterne e interne: alla composizione, al gioco reciproco e alla contaminazione di questi elementi la scrittura di Sonia Caporossi non è nuova, e i racconti di Opus metachronicum, volume uscito nel 2014, ne sono un esempio illuminante.
Con il romanzo onirico Hypnerotomachia Ulixis – il cui titolo richiama esplicitamente il romanzo rinascimentale Hypnerotomachia Poliphili – i confini della scrittura di Sonia Caporossi si spostano ulteriormente in avanti e, contemporaneamente, conducono ‘oltre’ le colonne d’Ercole del conte philosphique.
Che la scrittura di Sonia Caporossi si spinga a esplorare le dimensioni ‘meta’, che essa pratichi ‘l’arte al quadrato’, non è dunque ignoto a chi ne abbia già letto almeno un esempio nelle opere precedenti.
Nella Hypnerotomachia Ulixis Caporossi indica già un itinerario esplicito – e con esso l’esistenza di un chiaro progetto tematico e argomentativo –, la scelta di Ulisse come io narrante di un monologo che in sette tappe (sette capitoli) attraversa le tre macroaree letterarie, drammatica, epica e lirica e che perviene a una ἀλήθεια cercata, inseguita e per lungo tempo equivocata, non riconosciuta e perfino disdegnata.
Scelgo intenzionalmente il termine ἀλήθεια, lasciando da parte quello di “verità”, giacché questa opera di Sonia Caporossi dà ampia espressione sia al percorso di conoscenza della filosofia, sia al “disvelamento” proprio della poesia, alla sottrazione alla non-conoscenza per rivelazione, per epifania, per manifestazione della “presenza”.
Ulisse, ovvero l’uomo moderno o, per essere più precisi, l’umano contemporaneo tendere, nell’incessante irrequietezza, abbraccia, schiaffeggia e accoglie, rielabora e capovolge mito, epica eroica (Omero, Odissea), sete di conoscenza irruente e arringante (Dante, Inferno, Canto XXVI) e, soprattutto, il “cuore affamato” («For always roaming with a hungry heart/ Much have I seen and known») di Ulysses – anch’esso un monologo – di Alfred Tennyson.
Chi legge sarà in grado di cogliere richiami provenienti da un considerevole numero di autrici e autori che hanno contribuito nei secoli e a varie latitudini alla rete multiforme e complessa dell’opera-mondo che scaturisce dalla figura di Ulisse, privilegiando, di volta in volta, gli aspetti della precarietà, della peregrinazione, della tracotanza, dell’esilio.
Eppure è da un dato distante dalle trattazioni precedenti che la vicenda narrata prende le mosse: non è Ulisse, mai pago di avventure, a voler intraprendere l’ennesimo viaggio, ad abbandonare la sicurezza della terraferma. È la patria, Itaca, che su di lui getta l’ostracismo, che lo condanna a lasciare perfino l’idea di suolo natio, che lo scaraventa in quello che Christoph Ransmayr, riferendosi a Ovidio e al suo esilio a Tomi, ha definito, in un romanzo del 1988, “il mondo estremo”.
Dell’amata e continuamente tradita Penelope si apprende che si è sottratta al commiato prima della partenza forzata di Ulisse. Su conflitti e convivenze del principio femminile e del principio maschile l’opera ritorna a più riprese, con la precisione e l’inesorabilità di un pendolo.
Attraverso le parole dell’io narrante chi legge percorre le tappe di questo sogno-incubo, Traum e Alptraum, rêve e cauchemar, che assume le sembianze di una esperienza del deserto – permanenza attraversamento prova – che, pur non scevra di echi biblici, mostra alcuni tratti in comune con il “deserto egiziano” di Ingeborg Bachmann: visioni che si spalancano, bianco accecante e desolato (che suscita in me l’accostamento al candido, ferocemente neutro maiolicato, sfondo del monologo di Euridice in Lei dunque capirà di Claudio Magris) e l’intuizione di un vicolo cieco – l’orrido della storia – che non ha e non dà alcuna prospettiva di ritorno.
Le peripezie dell’eroe del poema epico diventano nella Hypnerotomachia Ulixis apparizioni a una psyché composita, a una pluralità di io in frenetica discesa.
In agguato stanno gli stessi elementi, vale a dire le molteplici nature dell’umano nello sforzo reiterato del tendere l’arco alla scoperta del sé e dell’altro-da-sé.
In agguato sta il peggior nemico. Quale? La risposta sia lasciata a chi legge, alla sua facoltà e alla sua libertà di esplorare, di scandagliare, di individuare nodi e soluzioni.
Nel riconoscimento dell’eterno avversario sta il senso del viaggio-romanzo onirico-conte philosophique condotto con una prosa che fa dell’eccesso provocatorio, della rabelaisiana commistione, della sovrabbondanza neobarocca, della variazione pluridimensionale e plurilingue il suo punto di forza.
Senza voler bruciare le tappe, senza voler attenuare le sorprese di situazioni, incontri, voci, personaggi, intendo qui, a conclusione di queste mie considerazioni introduttive, tendere un ulteriore arco di congiunzione, stavolta con un’altra opera-mondo: Faust di Goethe, della quale riporto, nella “traduzione in versi italiani” di Vincenzo Errante, un passaggio essenziale, a mo’ di indizio: «Se all’attimo dirò: “Resta! Sei bello!”/ allora sì, ti sia concesso stringermi/ entro le tue catene: allora, sì, beatamente, a picco/ io cali in perdizione!/ Squillino allora a morto le campane,/ e liberato sii da’ tuoi servigi;/ l’orologio si fermi; sul quadrante,/ cadano giù le sfere,/ e per me cada consumato il Tempo!».

Da “Il libro di G.”

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di Vincenzo Ostuni

[Pubblichiamo tre testi da Il libro di G., il Saggiatore, 2019]

Fai che

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di Maddalena Fingerle

Strappo con la mano destra una foglia d’acero, tre passi, la infilo nella tasca destra della giacca. Fai che tutto vada bene, tre passi, mi giro. Strappo con la mano sinistra una foglia d’acero, tre passi, nella tasca sinistra. Fai che tutto vada bene, mi giro, tre passi. Tre passi, strappo con entrambe le mani una foglia d’acero: fai che tutto vada bene. Tre passi, mi fermo, la spezzo. Metà nella tasca sinistra, metà in quella destra, tre passi. Tre colpi di tosse, significano: fai che non mi ammali. Fai che non mi ammali, fai che non mi ammali, piroetta. Così, perché è bello farla, piroetta. Piroetta: tre giri, stop.

Passa una macchina, mi fermo, batto i piedi. Forte: un due tre, un due tre. Fai che non ci sia un incidente, fai che non ci sia un incidente, fai che non ci sia un incidente. Fai che non muoia nessuno, non muoia nessuno, non muoia nessuno. Tre pugni veloci con la mano destra sulla gamba sinistra, tre pugni veloci con la mano sinistra sulla gamba destra: un due tre. Un, due, tre. Fai che riesca ad arrivare a casa, fai che riesca ad arrivare a casa, fai che riesca ad arrivare a casa. Fai che non ci sia il coinquilino, fai che non ci sia il coinquilino, fai che non ci sia il coinquilino.

Sei passi, accarezzo con la mano destra un recinto di metallo, sei secondi. Guardo a destra, guardo a sinistra, attraverso la strada. Il piede nel quadratino, il piede nel quadratino, il piede nel quadratino. Il piede nel quadratino, il piede nel quadratino, il piede nel quadratino.

Dentro le linee, strappo con la mano sinistra una manciata di aghi di pino, me li infilo nella tasca destra della giacca. Fai che non la picchi più, non la picchi più, non la picchi più. Tocco un lampione illuminato con entrambe le mani, è freddo: fai che passi la notte.

Altri sei passi, raccolgo con la mano sinistra una pigna da terra, la infilo nella tasca sinistra della giacca. Fai che mi consideri bello, bello, bello. Sei passi, trovo un sasso, lo prendo con la mano destra. Lo metto nella tasca destra della giacca, fai che mi passi l’ansia, sei passi. Altro sasso, lo metto nella tasca sinistra della giacca: fai che riesca a dormire.

Nove passi, strappo con la mano destra una manciata di bacche, apro il pugno. Sul palmo ci sono quattro bacche, no: tre o sei, quattro non va bene. Fai che diventino tre; allontano lievemente l’indice dal medio, una cade giù. Lascio scivolare nella tasca destra le tre bacche: fai che si accorga di me, fai che si accorga di me. Fai che si accorga di me, passa un uomo con un cane, ha un collare illuminato. Deglutisco ogni volta che il padrone parla al cane, uno, due. Manca il tre: così non posso esprimere il desiderio, maledizione. Chiamalo, chiamalo, chiamalo. Niente, niente, niente. Lo faccio io allora, urlo: cane! Il padrone si gira, mi guarda; il cane nemmeno se ne accorge. Un due tre, desiderio: fai che esca dal carcere.

Nove passi, trovo una lattina vuota accartocciata per terra; in realtà gli ultimi due li ho fatti un po’ più lunghi per arrivarci giusto. Ma vale lo stesso: la prendo con entrambe le mani, la rompo in due. Metto una metà con la mano destra nella tasca destra; l’altra metà con la mano sinistra nella tasca sinistra: fai che non mi vengano malattie per aver raccolto una lattina da terra. Nove passi: no, ho imbrogliato. Torno indietro: nove passi a gambero, altri nove. Mano destra, prendo la metà della lattina dalla tasca destra, la rimetto a terra. Mano sinistra, prendo l’altra metà della lattina dalla tasca sinistra e la sistemo accanto a quella di destra.

Raccolgo, raccolgo, tasche. Fai che non mi vengano malattie per aver raccolto una lattina da terra per due volte, due volte: nove passi in avanti. Nove indietro, mano destra, prendo la metà della lattina dalla tasca destra. La rimetto a terra; mano sinistra, prendo l’altra metà della lattina dalla tasca sinistra. La sistemo accanto a quella di destra: fai che non mi vengano malattie per aver raccolto una lattina da terra per tre volte, ti prego.

Dodici passi, giro a destra, mi fermo. Batto le mani, di nuovo e ancora. Fai che la gente si accorga che sono bravo, fai che la gente si accorga che sono bravo, fai che la gente si accorga che sono bravo.

Dodici passi piccoli: un due tre quattro cinque sei, sette otto nove dieci undici dodici. Mi accuccio e tocco con il palmo della mano destra un sanpietrino freddo: fai che riesca a sentire il desiderio del sanpietrino. Mi alzo, mi accuccio e tocco con il palmo della mano sinistra un sanpietrino freddo. Fai che il sanpietrino a sinistra riesca a sentire il desiderio del sanpietrino a destra, sentilo, sentilo. Ora mi dispiace per il sanpietrino a sinistra, ma se ne dovrà fare una ragione: la vita è così. Ciao, sanpietrino, ciao.

Dodici passi decisi, arrivo giusto e raccolgo da terra un pacchetto di sigarette vuoto. Me lo infilo in tasca, mano destra e tasca sinistra. Mi ribello, addio all’aspettativa: fai che ci sia ancora abbastanza spazio nelle tasche.

Quindici passi, c’è una pigna, la raccolgo. Mano sinistra, tasca destra ed è fatta. Non mi ribello: viva la simmetria: fai che si possa dire tutto quello che non si pensa.

Diciotto passi nervosi, arrivo al parco, strappo un filo d’erba. Mano destra, tasca destra: c’è ancora spazio. Fai che paghi per quello che ha fatto, strappo un altro filo d’erba, mano sinistra. Tasca sinistra: fai che si penta di quello che ha fatto, stronzo.

Ventun passi senza pretese; sono davanti al ponticello di legno, mi avvicino all’acqua. Tre passi, altri tre e altri tre. Chiudo le tasche della giacca con i bottoni, prima quella sinistra, poi quella destra. Mi sdraio di pancia, allungo il braccio destro e raccolgo i sassolini in fondo al fiumiciattolo gelido. Li tengo nel pugno chiuso, allungo il braccio sinistro e raccolgo i sassolini in fondo al fiumiciattolo gelido. Mi tiro su, con i pugni chiusi cerco di aprire i bottoni delle tasche della giacca, ma i sassolini mi sfuggono di mano. Mi innervosisco, getto per terra quelli che mi rimangono, apro i bottoni. Mi viene da piangere, cerco nel prato i sassolini, la luce del lampione è fioca. Il prato bagnato, sono inginocchiato: un due tre. Fai uno, che due, tre finisca. Ne trovo altri tre: li prendo, li metto nella tasca sinistra. Uno fai, due che, tre finisca. E altri tre: fai che finisca presto, mi alzo.

Ventiquattro passi veloci; qualcuno mi segue, forse mi sbaglio. Salto, di nuovo, e ancora una volta. Fai che io sia felice, fai che io sia felice, fai che io sia felice.

Ventisette passi da gigante, raccolgo un po’ di terra, la sento sotto le unghie. Mano destra, tasca destra: fai che non diventi pazzo. Altri ventisette passi da gigante, terra, la raccolgo. Mano sinistra, tasca sinistra: fai che non diventi pazzo. Altri ventisette passi da gigante, terra, la raccolgo. Mano destra, metà nella tasca destra; metà nella tasca sinistra. Fai che non diventi pazzo, davvero, sul serio.

Trenta passi, adesso: un due tre. Quattro, cinque, sei. Sette, otto, nove. Dieci, undici, dodici. Tredici, quattordici, quindici. Sedici, diciassette, diciotto. Diciannove e venti, ventuno. Ventidue, ventitré, ventiquattro. Venticinque, ventisei, ventisette. Ventotto, ventinove, trenta. Inspiro, espiro: fai che quello stronzo del coinquilino non abbia finito il latte. Inspiro, espiro: fai che quello stronzo del coinquilino non abbia finito il latte. Inspiro, espiro: fai che quello stronzo del coinquilino non abbia finito il latte. Trenta passi, mi fermo, sono davanti a casa. Suono il campanello, suono il campanello, suono il campanello. Fai che non ci sia, fai che non ci sia, fai che non ci sia. C’è, c’è, c’è. Mi manda a fanculo, mi manda a fanculo, mi manda a fanculo. Lo fa davvero tre volte; entro e salgo le scale. Dodici gradini più uno: a, b, c, d, e, f, g, h, i, l, m, n + o. Anna, Barbara, Dora, Elena, Federica, Gaia, Laura, Marianna, Nora + Olga. Fai che stiano tutte bene, tutte bene, tutte bene. Mi sfilo le scarpe e sbatto le suole l’una contro l’altra, tre volte. Fai che ci siano i biscotti, fai che ci siano i biscotti, fai che ci siano i biscotti. Entro: i nove passi per arrivare in cucina, tocco la maniglia con la mano destra. Fai che Dora sia serena, la tocco con la mano sinistra, è fredda. La tocco con entrambe le mani, fai che Elena faccia carriera; fai che Federica rimanga incinta. Entro, mi tolgo la giacca, l’appoggio sulla sedia. Apro il frigo: maledetto, ha finito il latte. Guardo in dispensa: niente biscotti, faccio una pasta. Prendo la pentola, la riempio d’acqua e la metto sul fuoco. Accendo il fuoco, immergo il dito destro nell’acqua ancora fredda e preparo la tavola. Il piatto al centro, la forchetta a sinistra, il bicchiere centrale. Tovagliolo, acqua, pane. Vino, altro bicchiere, accendo una sigaretta. Non si fuma in casa, cazzo, quante volte te lo devo dire? Fottiti. Fottiti. Fottiti. Sbatte la porta, continuo a fumare, me ne sbatto. Spengo la sigaretta nel posacenere, mi annuso la mano destra, puzza di fumo. L’acqua bolle, butto il sale, butto la pasta. Assaggio la pasta, scolo la pasta, manteco la pasta. Mangio la pasta, mangio la pasta, mangio la pasta. Mastico tre volte, sei volte, nove volte. Tre volte, sei volte, nove volte. Tre volte, sei volte, nove volte. Finisco la pasta, lavo il piatto, bevo il vino. Lavo il bicchiere, finisco l’acqua, volevo i biscotti. Lavo la pentola, lavo la padella, lavo lo scolapasta. Prendo la giacca, chiudo la porta, vado in camera mia. Appoggio la giacca per terra, mi sfilo i jeans, mi sfilo la camicia. Svuoto le tasche della giacca e sistemo tutto sul pavimento: tre foglie d’acero. Fai che tutto vada bene, fai che tutto vada bene, fai che tutto vada bene. Aghi di pino: fai che non la picchi più, pigna. Fai che mi consideri bello, sasso: fai che mi passi l’ansia. Altro sasso: fai che riesca a dormire, tre bacche. Fai che si accorga di me, lattina: fai che non mi vengano malattie per aver raccolto tre volte una lattina da terra. Pacchetto di sigarette vuoto: fai che ci sia ancora abbastanza spazio nelle tasche, esaudito. Getto il pacchetto di sigarette vuoto nel bidone, pigna: fai che si possa dire tutto quello che non si pensa. Un filo d’erba: fai che paghi per quello che ha fatto, altro filo d’erba. Fai che si penta di quello che ha fatto. Manca il terzo, cerco nelle tasche, non c’è. Butto nel bidone i due fili d’erba: irrealizzabili; tre sassolini. Fai che finisca, altri tre sassolini: fai che finisca. Altri tre sassolini, fai che finisca presto; terra. Fai che non diventi pazzo, fai che non diventi pazzo, fai che non diventi pazzo.

Mi sdraio a letto, accendo la luce, spengo la luce. Accendo la luce, spengo la luce, accendo la luce. Spengo la luce: fai che riesca a digerire la pasta, fai che riesca a digerire la pasta. Fai che riesca a digerire la pasta, lenzuolo, coperta. Lenzuolo, fai che le parole non sognino Dora, fai che le parole non sognino Elena. Fai che le parole non sognino Federica; chiudo l’occhio destro, quello sinistro. Apro entrambi gli occhi, li strizzo e li chiudo. Ripeto, tre volte in tutto: fai che il cuore si sblocchi. Fai che il cuore si sblocchi, fai che il cuore si sblocchi. Rilasso il diaframma, lo blocco, prego. Mano sinistra sul petto, mano destra sulla fronte, nel nome del Padre. Sul cuore fermo nel nome del Figlio, sulla spalla sinistra dello Spirito sulla spalla destra Santo. Fai che riesca a smettere, mano sinistra sul petto, mano destra sulla fronte. Nel nome del Padre; sul cuore del Figlio; sulla spalla sinistra dello Spirito sulla spalla destra Santo. Destra fronte Padre; cuore fermo Figlio; sinistra Spirito destra Santo. Destra fronte Padre; cuore fermo Figlio; sinistra Spirito destra Santo. Fai che non finisca all’Inferno, all’Inferno, all’Inferno. Destra fronte Padre; cuore fermo Figlio; sinistra Spirito destra Santo. Destra fronte Padre; cuore fermo Figlio; sinistra Spirito destra Santo.

Radio days: Mirco Salvadori

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Noduli Cellulari

 di Mirco Salvadori

 

Si era ripromesso di trovare il tempo per perfezionare la funzione generatrice di matrici di scale. Poteva agire nidificando i tre cicli che subito lo avrebbero scaraventato nel fluido 3D del parallelepipedo tonale. Purtroppo, quel tempo così abbondantemente sperperato davanti al video del computer era giunto al termine. Non aveva più accesso all’ambiente di sviluppo online, quindi doveva immettersi direttamente dentro l’intercamera plastica sperando di evaporare attraverso i mille fori che popolavano le sue pareti.

Inconsapevolmente sperperare il tempo. Irresponsabilmente abbracciare la staticità, tramutando le continue, inutili e spesso false informazioni che infestano la rete in rettili capaci di rapire e sbranare l’attenzione. Rettili che trasformano la socialità del soggetto, immobilizzandolo all’ombra del loro riverbero digitale che sputa in continuazione la vocale privativa – una a che si incastra con le altre al pari delle mattonelle colorate del Lego. Il risultato è un lungo serpente dalle movenze ipnotiche, con le zanne velenifere ben conficcate nella parola che intende ingurgitare.

 Come? Un sacchetto, se voglio un sacchetto? Faticava a parlare, l’asocialità iniettatagli dal morso di quella serpe non gli permetteva di interagire con la cassiera del supermarket: faticava a comprenderla e a distinguere il luogo nel quale si trovava, la mente sempre immersa nel brodo primordiale delle sue teorie. Si spostava con difficoltà, affrontando il tragitto verso il grande emporio convinto di trovarsi in un’extradimensione che lo allontanava dall’abbraccio confortevole della virtualità. Avvicinò il codice a barre dello scontrino al lettore posto sui tornelli d’uscita che si spalancarono, riportandolo nuovamente al centro di un labirinto che neanche il migliore JR Schmidt avrebbe saputo ideare e disegnare. Il suono continuo dei droni placò la sua ansia crescente: era tempo di migrare, il tasto Enter avrebbe reagito anche anche alla più lieve delle sollecitazioni.

Quando si è soli, anche se non si fa niente, non si ha l’impressione di perdere tempo. In compagnia, invece, lo si sciupa quasi sempre… che tu sia benedetto, mio amato filosofo, pensò BVTS. Era incredibile come non ricordasse più il suo vero nome ma solo il moniker che ormai lo contraddistingueva come uno dei migliori sound artist in circolazione sulle piattaforme di informazione musicale indipendente. Building Virtuality Through Sound: bastava questo appellativo e la vasta densità del suono elettronico di ultima generazione fluiva attraverso i ricettori dei suoi follower. Erano migliaia, sparsi in tutto il mondo. Indubbiamente ci sapeva fare con le macchine, riusciva a creare poesia sonica lì dove tutti vedevano soltanto un ammasso di cavi e cursori e potenziometri. Al pari di un abile ladro di auto, si piegava sul cruscotto collegando i fili e magicamente il motore cantava aspirando nei suoi cilindri una miscela innovativa formata da ambient, noise, field recording, dronescape e qualsiasi altra sostanza capace di interagire con la virtualità, unica dimensione possibile nella quale vivere ed espandersi. Frequentava Emil Cioran attraverso gli indirizzi dei siti dedicati ai suoi aforismi, che usava come titoli per le sue releases. Questo era tutto ciò che in realtà conosceva del filosofo rumeno.

Il tasto Enter sembrava pulsare nell’attesa del contatto, ma come sempre la sua attenzione era rapita e vagava immersa nelle immagini in costante mutazione che allagavano di impulsi lo schermo del computer. “Cellular Forms | Moduli Cellulari” era il titolo di quel video. Non aveva mai sentito il nome dell’artista computazionale che lo aveva creato, ma conosceva l’autore della traccia che accompagnava le immagini: si erano scambiati alcuni messaggi via Twitter, formali e vuote frasi di congratulazioni per il lavoro di programmazione svolto e l’incredibile risultato raggiunto sul piano compositivo. La pastosità di quel suono e l’immagine in continua mutazione gli davano una strana sensazione di dejà vu, non riusciva a staccare lo sguardo dallo schermo mentre le mura della stanza vibravano sotto i colpi dei bassi che fuoriuscivano dagli speaker. L’infinitamente piccolo, l’abitante dello spazio a noi precluso si mostrava in tutta la sua vitale e virale morfogenesi. C’era qualcosa di familiare in quel continuo cambiamento, ma non riusciva a comprenderne il reale significato. Da ore era immerso nell’accogliente placenta di echi e visioni che si ripetevano all’infinito, si era scordato dov’era e chi era, stava rincorrendo una percezione.

Sospeso nell’assoluta mancanza di coordinate, rapito dal fitto scambio con il proprio computer, BVTS tornava ad esplorare il tempo, quella sostanza a lui sconosciuta e dalla quale si riteneva immune. In fin dei conti, pensava, basta premere quel tasto cercando di evaporare il più velocemente possibile. Una volta usciti da quei fori ci si espande, si diventa parte del tutto, tutto cambia, si rinasce abbandonando l’involucro troppo lento e pesante che da decenni si riflette incerto sul monitor del pc. I suoi fan erano convinti che appartenesse alla loro generazione, lo pensavano un millennial. Lo trattavano alla pari, ignari della presenza costante dei medicinali sul tavolo della sua cucina. Ignoravano la persistente mancanza di ossigeno, le crisi di panico, la sedentarietà che rende obesi. Non conoscevano la vecchiaia così come testardamente voleva ignorarla anche lui, ben celato nell’ombra di un acronimo che lo trasformava in una creatura complessa, moderna, smart, capace di fluide e futuristiche interazioni esclusivamente digitali.

La confezione delle patatine era vuota, le bevande energetiche finite assieme ai caricatori di merendine le cui spoglie erano disseminate ovunque. Era giunto il tempo di immettersi nell’intercamera plastica, raccogliere le proprie emozioni, i pochi ricordi ancora vivi ed evaporare attraverso quei fori nelle pareti, sopra il tracciato impenetrabile del labirinto colorato che neanche il miglior JR Schmidt avrebbe mai saputo ideare e disegnare.

Il dito racchiuso nel misuratore di saturazione dell’ossigeno si muove impercettibilmente: sembra tenti di inviare il comando cercando di premere un tasto. Nello stesso istante, il battito instabile che ha sempre accompagnato BVTS attraverso il suono di una vita solo immaginata, cessa di segnare il tempo lasciando dietro di sé un lieve, profondo ultimo sospiro.

I moduli cellulari si sono moltiplicati. Hanno compiuto la loro trasformazione invadendo lo spazio infinitamente piccolo. Hanno mutato forma e una nuova consonante iniziale ora li contraddistingue: è una N.

Sulla lapide che segnava il luogo nel quale Benvenuto Tagliaserra era sepolto, qualche fiore di plastica ormai accartocciato e due bianchissime calle poste ad illuminare l’epitaffio:

Cosa riusciremmo ad essere io e te senza il wi-fi che sostiene il nostro arcaico istinto

Cosa riusciremmo a scambiarci senza il supporto di lucide e gelide fibre ottiche, cieche di grazia e sudata carnalità

Quanto distanti ci troveremmo se solo carta e inchiostro fossero il nutrimento dei nostri intenti

Quale altro elemento potrebbe maggiormente infuocare le nostre private condivisioni meglio di un muto algoritmo

Urla la nostra virtualità, morde e graffia, si apre e contorce, geme ed esplode in rivoli di pixel che nutrono un link sempre attivo, pulsante antica matematica precisione: 1+1=2

 

*insostituibili immersioni soniche: Enrico Coniglio http://www.enricoconiglio.com/

*folgorazioni sulla via (virtuale) di Damasco: Massimiliano Scordamaglia https://maxscordamaglia.bandcamp.com/

*editing: Marco Olivotto http://www.moonmusic.it

*many thnx to: Paolo Scheggi, JD Schmidt, Andy Lomas, Max Cooper, Es

                                                            

Galateo per un abisso

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di Mario Fresa

Testi inediti tratti dalla raccolta in lavorazione “Il mantello di Goya”.

*
Salta la corda; a volte ha il corpo
fulminato da un sottile
colpo di grazia.
E si accontenta anche di meno:
alle spalle ha un orario che spinge lontanissimo;
anzi apre le unghie, quasi a farla finita, quando stanno a guardarlo
dritto in fronte. Né digerisce il suo cervello né
questa sorda faccenda di verità.

Ancora nessun tweet? Da Verona all’Alabama: geografia della disumanizzazione

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di Micol Bez

1.

Tu credi alle mappe?

 

Guardo con fiducia la mappa sullo schermo, la fissità della storia che racconta. Una, sempre. Vorrei affidarmi a lei. Un silenzio imposto ne soffoca le linee multiple, il troppo delle cose, il tempo. Si passa il bianco su ogni eccesso. Per fare una carta geografica è necessario un sfondo muto, una storia ripudiata.

«Comment faire avancer le récit quand la structure, elle, est ellipsoïdale?» chiedeva venerdì scorso Wajdi Mouawad in un blu siderale. Come procedere, a passo cauto, nella frammentazione. È forse una sincronia quella di cui ho bisogno. Un venire al mondo insieme di archeologia e costruzione, attraversare e essere attraversati.

Non bisogna cedere al fascino della tassonomia. Rifiutare di obbedire all’ordine. Questo mi sussurra la china di William Kentridge, bisogna disegnare sulle carte geografiche, vedere nella geografia l’arte, il vacillare della linea incerta, il suo poter essere altrimenti. Lo vedo muoversi e danzare sulla storia, riscattare il disegno e la sua apertura. Partire, ogni giorno, in missione di salvataggio, per sottrarre le nostre rappresentazioni alla presenza. All’identità.

Io credo alle tracce, a quei tratti senza origine. Anzi, ancor più, mi fido di quelli che hanno un’origine, ma non la concedono. Mi fido di chi combatte ogni fissità.

 

2.

Pochi giorni fa in Alabama, alcuni mesi fa a Verona, prima ancora a Buenos Aires, giorno dopo giorno nell’amministrazione Trump.

Pochi giorni fa, in Alabama, è passato un divieto quasi totale dell’aborto. Nessuna eccezione per stupro o incesto. L’interruzione è permessa solo nei casi in cui ci sia un «serio pericolo» per la vita della madre. Non staremo qui a definire “vita”. Fino a 99 anni di carcere il prezzo della resistenza.

Qualcuno ha iniziato a condividere una storia, seguita dall’hashtag #YouKnowMe, per rendere visibile quello su cui da sempre si passa una mano di bianco. Per ricordarci una familiarità lancinante, o meglio, il lancinare improvviso del bisogno di familiarità per riconosce l’altro umano. Tu mi conosci. Tu, che pensi di non amare una persona che ha abortito, tu ami me. Tu che pensi di non condividere nulla con chi terminerebbe una gravidanza, tu sei mio alunno, mio paziente. Sei mio marito e mio figlio. Le storie si sono fatte mille. D’un tratto, come in autunno, la mappa è cambiata.

Un’economia necessaria: empatia in cambio di rispetto, e se fosse tua sorella o tua madre? Aspetto il giorno in cui questa domanda non sarà utile.

 

 

3.

#YouKnowMe Ero al Victoria and Albert Museum quando ho ritrovato la voce, gli abiti d’epoca e i polsi di Rodin così fraterni. La materia di tutto quello che restava. 

#YouKnowMe Ero sola in autunno. In una clinica privata da qualche parte a Washington, forse Bathesda o Arlington. Non so quando. Ricordo la fermata dell’autobus, il pannolone geriatrico e l’attesa di un’ora dopo la procedura, per sicurezza. Ci hanno messo poco e non me ne sono pentita. Ho chiesto la foto però. La firma ancor prima di sapere per certo, e in qualche modo anche l’atto. Sicuramente è stato tutto troppo rapido, mi ha tolto la parola. Poi la foto è bruciata, un anno dopo, per sbaglio in un incidente domestico, lasciando un quadrato bianco nella cenere. Non sarei chi sono senza quel vuoto bianco. -334

#YouKnowMe È stato semplice e sicuro. Perché porto un privilegio, perché ero in una città progressista e avevo 525 dollari in tasca.

#YouKnowMe I must have phoned, can’t find anything in my inbox. I command-F termination, D&C, TOP or STOP, (I just searched these terms online, still don’t know the details of the procedure today. Do you know the details of an appendectomy?) The email search returns blank. I must have called them, then probably taken a bus. It’s strange, I remember the bus on the way back, no idea how I got there. It was maybe near a park, naked threes left the window as I felt lighter, exhausted. I stare at the green spots on the map, must be near one of those. I must have slept in my college twin bed after. -320

#YouKnowMe In preda ad un empirismo ossessivo. Trovare il luogo, l’ora, l’ecografia bruciata insieme all’oro. Non c’è storiografia per queste spoglie.

#YouKnowMe È un imperativo politico. Si tessono mappe come la storia, falsando trama e ordito.

 

 

4.

Ha provato tante volte, in varie lingue, non ha una storia da raccontare, né ragioni da condividere. Non sa neanche trovare la data o il posto. In un certo senso, non ha avuto luogo. #You know me ?

Basterebbero 280 caratteri. Ha appena aperto twitter, oggi, forse anche per questo. Vuole partecipare, vuole essere solidale, coraggiosa. Eppure non trova una lingua da abitare, dove poter tessere questi legami di solidarietà basati sulla testimonianza collettiva, sulla condivisione online. Una lingua per scrivere una lettera d’amore all’Alabama, un gesto di supporto che le permetta di esprimere l’enorme privilegio che indossa ogni giorno e mettere la sua storia al servizio delle donne che ne sono spoglie. Ma non ha una storia da dare in pasto a twitter, non riesce a ricostruirne il tratto. Vorrebbe riscrivere l’hashtag, #How do you know me when I don’t? Ma non avrebbe, pensa,  nessuna utilità politica, nessuna forza.

 

5.

Forse la poesia, come la resistenza, nasce da un fallimento.

 

6.

Prova a partire dal luogo di ciò che per anni non ha avuto luogo. Immagina un punto su una carta geografica, delle foto su Google Maps che le offrano riparo e conferma. Cerca le cliniche di “family planning” intorno a Washington DC, le rispondono facce sorridenti di donne eleganti appese ai muri delle sale d’attesa. Nessuna assomiglia alla sua, le pareti marroni e la sala con il lettino in fondo a destra. Capital Women’s Services, Carafem Health Center, Silver Spring Family Planning. Niente. Possibile che non si ricordi neanche quanto è durato il viaggio per arrivarci? Niente. Trova solo frammenti, il sapore dell’autonomia e la solitudine.

Cerca ancora nelle mail, sicuramente le avranno mandato un messaggio per una visita di controllo, di certo non ti lasciano andare così, dopo un’ora, per sicurezza. Cerca, in inglese, D&C e voluntary interruption. La sua casella mail è pulita, nessuna traccia di questa vicenda che oggi vorrebbe ferocemente raccontare. Ne vede solo i risultati, le cose che sono succedute a quella scelta, una vita di conseguenze. Uno spazio aperto di possibilità che non sa e non vuole articolare in banali scenari controfattuali.

 

 

7.

#YouKnowMe Non c’è sulla mappa il punto
perdo il luogo e il segno
il quadrato senza cenere sul muretto
 
nessuna immagine mi offre il braccio
davanti allo scarto di quell’incendio
alla neve più grande di una vita
 
non so ora trovare il resoconto da darvi
i fatti, la fermata dell’autobus, il pannolone
le poltrone dove aspettare un’ora, per sicurezza
 
la decisione prima ancora di conoscere
la possibilità che portavo nel sonno
e quella che è venuta dopo
 
forse Bathesda o Arlington
provo su Google Maps
a trovare una materia alla memoria
 
certo non quello su Wisconsin ave
con le donne felici e per bene ai muri
sorrisi da tardo capitalismo
 
vedo drittissima una fila di crocette
un modulo, tre o quattro pareti marroni
tracce venute alla neve
 
l’algoritmo non lavora come la memoria
provo nella posta elettronica
cerco IVG, no, D&C, follow-up appointment
 
non ci sono mai andata
(ho cercato queste parole online)
il computer risponde
 
Follow-up on your readings for next week
Your contribution to the journal. Votre traduction du texte
We are pleased to inform you that your application
 
restano solo le tracce
la possibilità che è venuta dopo
lo strappo che ha aperto
 
non c’è sulla mappa il punto
nessun resoconto da darvi
o linea nella polvere
 
so di certo che non ve lo devo
non vi devo la perdita e il dono
delle parole di cui porto il lutto -1076

 

 

8.

Non vi devo niente di così commercialmente univoco. Né vi devo questo esercizio di costruzione identitaria. Né questo assemblaggio di frammenti. Non vi devo di scegliere tra il felice e il tragico. La domanda è cosa ci dovete voi. Voi che ci imponete di popolare twitter di storie, di spiegarvi le nostre ragioni e le situazioni in cui ci siamo trovate, affinché possiate pensarci come esseri senzienti, capaci di decidere. Perché è così, lo facciamo nella speranza che riconosciate la nostra umanità. Da Birmingham a Verona, si sta disegnando una nuova (e antichissima) geografia della disumanizzazione. Uno spazio epistemico in cui, ancora una volta, è necessario raccontarvi favole o esibire rigorose giustificazioni, per ricordarvi che abbiamo diritto a disporre del nostro corpo. La verità invece è che non siamo tenute a darvi nessuna spiegazione.

 

9.

#YouKnowMe We don’t owe you anything.

You owe us — all of us (of any gender, orientation, race, class and ability) in need of an abortion — respect and legal recognition.

 

 

Parigi, 19 maggio 2019

 

 

(Nell’immagine: Maria Lai, Telaio del meriggio, 1970)

Questo fuoco non si può impietrire. Omaggio a Lazlo Toth.

2

 

[ Il 21 maggio del 1972, Lazlo Toth sfregiava la Pietà di Michelangelo. Ne pubblico qui un ritratto.]

 

 

 

Toth della santità all’incontrario, in visita alla dispersione: senza fine i nomi si sprecano per dirlo. Siamo in sostanza di colpo su colpo: corriamo, scorriamo contro la bassa marea della storia. Dove avrai reciso, qualcuno odorerà un fiore, ma aspetterà a battezzarlo.

 

Frattura del braccio sinistro, frattura del naso, frattura dei tre lembi del velo, abrasione della palpebra dell’occhio sinistro, scalfitture multiple alla testa: ma la Madonna non ha sperso la tenue gravità in firma d’obliquo, o oramai le s’ostina una cipria vitrea, un velo mitografo.

 

Chissà da dove ti è venuta la giovinezza dell’apprendistato e il divieto di far claudicare gli idoli, chissà quali compagni di gioco per la tua mano indirupata, per la mano svelta nel suo abito di memoria della terra? Tu sai che presto o tardi la pietra indimentica; sai anche il non più da realizzarsi e per forza di levare, perché non ignori la gerarchia dei sassi.

 

Del giorno di ieri è rimasta un’umiltà di martello, ma stanca, e senza ragione di massacro: tu passerai, perché questo fuoco non si può impietrire. Saperlo è bene, e in manicomio non conoscevano il sismografo, per misurarti il polso.

 

(Macerata, 21 Maggio 2016)

 

 

 

 

Dieci traduzioni per una poesia. “All’autunno” di John Keats

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Lucien Lévy-Dhurmer - Vent d'automne
Lucien Lévy-Dhurmer – Vent d’automne

[DieciXUno – Una poesia, dieci traduzioni è una nuova collana dell’editore Mucchi fondata e diretta da Antonio Lavieri: ogni volume presenta un componimento particolarmente rappresentativo di un determinato autore, preceduto da una introduzione e da una descrizione della sua ricezione in Italia; ad esse seguono le dieci traduzioni in italiano, opera di diversi traduttori e traduttrici, una delle quali, inedita, è firmata dal curatore del volume; il tutto corredato da una nota traduttologica, in cui si riflette su ciò che la traduzione fa alla lingua e al testo.
Attraversare diacronicamente le diverse traduzioni di un singolo testo significa, da un lato, osservare i diversi approcci dei traduttori e delle traduttrici, constatare quale aspetto del componimento sia stato messo in evidenza, confrontare le differenti scelte; dall’altro, equivale a viaggiare fra le poetiche della cultura ricevente, come metteva in luce Franco Fortini nelle sue belle Lezioni sulla traduzione.
Borges ha spesso sottolineato che di ogni testo esistono molte traduzioni possibili; non è un caso che la citazione posta a chiusura di ogni volume sia proprio sua, tratta da Le versioni omeriche: “Il libro più famoso di Browning è composto da dieci rapporti dettagliati di un solo delitto, per ognuna delle persone che vi sono implicate. Tutto il contrasto deriva dai caratteri, non dai fatti, ed è quasi altrettanto intenso e abissale quanto quello di dieci traduzioni corrette di Omero”.
Pubblico le note di lettura tratte dall’introduzione a All’autunno di John Keats, a cura di Edoardo Zuccato; il curatore chiude il volume presentando una sua traduzione del componimento in dialetto lombardo (A utünn). ornellatajani]

To Autumn: note di lettura

di Edoardo Zuccato

To Autumn è l’ultima delle grandi odi che Keats compose a partire da Ode to Psyche fra aprile e settembre 1819. La ricerca di Keats, entrata in una fase di vera autonomia nel 1816, si era concentrata su tre nuclei principali, ovvero bellezza, felicità e permanenza. Gradualmente, il poeta prese in considerazione anche i loro contrari, insoddisfatto di una visione che escludeva gli aspetti negativi dell’esistenza. Proprio nelle odi, e in alcuni altri testi di quel periodo, Keats trovò un felice equilibrio intellettuale e formale fra quegli elementi. Ogni ode di quello che consideriamo oggi un ciclo di testi ci presenta una prospettiva diversa su queste tematiche, scavando di volta in volta più a fondo. To Autumn è un capolavoro di equilibrio e concisione, che condensa in tre sole strofe i temi dell’intero ciclo delle odi.

Per Keats l’autunno è una stagione di pienezza. La prima strofa ne celebra la “mellow fruitfulness” (tenera e matura abbondanza, morbida fecondità) attraverso una serie di esempi: le viti con i grappoli maturi, i meli stracarichi di frutti, le zucche e le nocciole gonfie, i fiori all’ultima fioritura su cui le api continuano a posarsi, malgrado le loro arnie siano colme di miele estivo. L’autunno è amico intimo del “maturing sun”, il sole che matura (lui stesso una sorta di frutto) e fa maturare, un’espressione duplice e ardua da tradurre, come le altre dello stesso tenore che caratterizzano questa poesia. L’opera del sole e dell’autunno, pur evidente, ha un lato misterioso, perciò la loro collaborazione è descritta come una cospirazione. Colmare le cose di vita vuol dire benedirle (“load and bless”), una sacralità naturalistica estranea a ogni religione istituzionale. Il movimento di maturazione delle cose è sì un’espansione verso l’esterno (il gonfiarsi delle zucche), ma sembra concepito, stranamente, come un movimento verso l’interno: i frutti vengono colmati di maturità “to the core”, fino al centro. La vita raggiunge il suo apice, che è pure il crinale da cui si intravede il declino: le piante sono cariche di mele fino al punto di rottura, i fiori che risbocciano illudono le api che il bel tempo “will never cease”.

La seconda strofa parte ancora dal concetto di abbondanza (“thy store”), ma sottolineandone altri aspetti. Se la prima strofa era dedicata alla maturazione, la seconda si concentra sulla fase successiva, ovvero il raccolto. Al centro dello sguardo di Keats c’è adesso la mietitura, ma al posto dei contadini troviamo quattro rappresentazioni allegoriche dell’Autunno, sdraiato in un granaio, assopito sul solco di un campo non del tutto tagliato, in mezzo a un ruscello con un carico in testa come uno spigolatore, e, unica scena non legata alla mietitura, vicino a un torchio per il sidro (dove sono finite le mele mature della strofa precedente). Queste personificazioni mostrano una delle fonti di Keats, la poesia settecentesca inglese, in cui, a partire dalle Seasons di James Thomson, esiste un filone di allegorismo naturalistico abilmente messo a frutto in questa strofa. Alla quale non sono estranee diverse suggestioni fornite dalle arti figurative, pittura e illustrazioni di libri di poesia in particolare. Si noti però che queste personificazioni sono di genere indistinto: Keats dà forma umana all’autunno, ma in quanto forza naturale non lo connota chiaramente come maschio o femmina. In italiano, invece, è impossibile evitare di farlo. L’unico modo, più rozzo dell’originale, di alludere al carattere non androgino ma pre-sessuale di questa forza (che non è un essere vivente ma genera la vita) è di abbinare all’Autunno maschile del titolo una descrizione al femminile della stagione (parola di apertura del testo).

Quando si passa all’ultima strofa si avverte subito una svolta netta. Anche qui il tema della ricchezza è presente, ma si tratta di una ricchezza ben più rarefatta. Si parla infatti di canti, di suoni, di voci: la musica dell’autunno, che non è meno varia di quella della primavera. Il crinale della vetta è ormai alle spalle, gli intensi colori delle strofe precedenti hanno lasciato il posto a evanescenti tinte pastello. I campi sono distese di stoppie rosate nel tramonto, un coro dolente di moscerini “mourn” (si lamenta luttuosamente), soffiato in alto o in basso dalla brezza che “lives or dies”. Dopo la maturità e il raccolto, il declino e la morte, collocate però a metà della strofa, non alla fine. Alla parola “dies” seguono altri quattro versi, con gli agnelli ormai cresciuti, segno di vita nuova, gli “hedge-crickets” (un conio di Keats), i pettirossi nei terreni (orti o giardini) presso i casolari, le rondini che garriscono riunendosi per la migrazione, una partenza che prevede un ritorno. Morte dell’individuo, ma continuità circolare della vita della natura: è per questo che la morte non ha l’ultima parola.

Al tema della permanenza Keats aveva dedicato molti versi, anche delle odi precedenti. Nell’Ode to a Nightingale la permanenza, insieme a bellezza e felicità, era stata raggiunta solo uscendo dal reale grazie al sogno e alla visione, nel canto dell’usignolo che era insieme arte e natura. Nella successiva Ode to a Grecian Urn questo raggiungimento si era compiuto nell’oggetto artistico, l’urna che sopravvive al suo autore e al suo tempo. Tuttavia, il suo pregio era simultaneamente il suo limite. La permanenza dell’arte appariva come una sorta di congelamento del tempo nell’oggetto estetico. To Autumn va un passo oltre l’urna, scovando la bellezza e la permanenza dentro il mutamento incessante della natura.

Per raggiungere questo obbiettivo Keats ridusse il carico di riferimenti culturali delle odi precedenti (psicologia, filosofia, arte che fossero), producendo un testo più descrittivo e immediato sulla campagna inglese in autunno. La sua visione era arrivata a un punto tale di chiarezza e autonomia da non aver più bisogno di allegorie o simboli troppo sofisticati. Quello che aveva attorno a sé poteva svolgere questa funzione in modo ottimale. Lo spunto immediato del testo, infatti, fu una passeggiata nelle campagne attorno a Winchester, come scrisse in una lettera: “Mai come adesso mi sono piaciuti i campi di stoppie, sì, più del freddo verde della primavera. A volte una piana di stoppie sembra calda, proprio come alcuni quadri sembrano caldi: questa cosa mi ha colpito così tanto mentre passeggiavo domenica che mi è venuto da scrivere.”

Ovviamente, la sofisticatezza non sparì completamente, si manifestò solo in modo più discreto. Come abbiamo già accennato relativamente alla seconda strofa, non mancano gli artifici del mestiere (le allegorie) e i riferimenti culturali (alla poesia, alla pittura), che sono a volte quasi inavvertibili. Si veda ad esempio la vite della prima strofa, un dettaglio tratto quasi certamente dall’amato Mediterraneo, noto a Keats solo dai libri e le opere d’arte, e non dall’osservazione diretta, visto che la vite non è certo una pianta caratteristica della campagna inglese. Il risultato è un felice equilibrio – quasi una compenetrazione – fra natura e cultura, percezione e intelletto, cifra distintiva di un testo che forse più di ogni altro merita per questo l’attributo di “classico”, se classico significa armonia del tutto.

Un’armonia che non è la fissità dell’urna greca. To Autumn è percorsa da un lento e costante movimento malgrado le singole strofe sembrino statiche. La prima è incentrata sui sensi del tatto e del gusto, che presuppongono un contatto ravvicinato del corpo con gli oggetti. La seconda è incentrata sulla vista e la terza sull’udito, che allargano l’orizzonte percettivo precedente. Dal chiuso dei frutteti della prima strofa si passa ai campi della seconda, poi alle colline e, dopo un ritorno agli orti, ai cieli (al plurale) dell’ultimo verso: è un movimento, pur non lineare, dalla prossimità all’infinito, dalla chiusura alla massima apertura.

La rima più vertiginosa, “dies” – “skies”, posta non a caso a conclusione, è forse l’esempio più plateale di quella coesistenza di positivo e negativo, di inseparabilità degli opposti, che permea tutto il testo. Il suono-senso stabilisce un legame inscindibile fra morte e infinito (cioè la perenne capacità generativa della natura), fra non essere ed essere, a sottolineare che non si tratta di due momenti separati ma coestensivi nella vita delle cose, l’unica che Keats riconosceva come reale.

Uno degli aspetti davvero singolari di questo testo è che la più compiuta celebrazione poetica della maturità, della pienezza sull’orlo del declino senile, sia uscita dalla penna di un ventiduenne. Non sembrerebbe un tema adatto a un giovane, che in teoria non dovrebbe saperne granché. Sono i misteri dell’intuizione poetica, ma in parte si spiegano con la psicologia. Keats fu senza dubbio la personalità più equilibrata fra i poeti romantici inglesi. La maturità dipende in parte dall’età, ma chi non ce l’ha non se la può dare, si direbbe citando Manzoni (che fu un nevropatico squilibrato, per altro).

 

L’Americaaaa!

2

di Romano A. Fiocchi

Georges Perec, Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, Archinto, 2017.

Pochi sanno cosa sia Ellis Island. A scuola non te lo insegnano. A scuola ti parlano soltanto di quella migrazione in massa di milioni di europei verso un mondo dove c’era libertà, democrazia, lavoro. E allora l’immagine più comune scolpita nella memoria collettiva è il grido che Baricco mette in bocca ai passeggeri del Virginian che per primi avvistano la Statua della libertà: l’Americaaaa!

Ma l’America era altro. In primo luogo era Ellis Island. Tra il 1978 e il 1980 Georges Perec e il regista Robert Bober cercarono di capire cosa fosse e soprattutto lo documentarono in un lungometraggio che fu trasmesso nel novembre 1980 dalla rete francese con il titolo: Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir (alcuni spezzoni sono reperibili su YouTube, mentre il video completo è acquistabile in versione DVD sul sito dell’Ina, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive). Quello che fecero, Bober con le immagini e Perec con il testo della voce fuori campo, fu raccontare come tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, in alcuni edifici appositamente costruiti su un isolotto alla foce dell’Hudson, a un passo da Manhattan, oltre sedici milioni di emigranti vennero trasformati in oltre sedici milioni di Americani. Il testo di Perec, pubblicato in Francia, uscì nell’edizione italiana solo nel 1996 grazie alla traduzione di Maria Sebregondi, in un volumetto verde della collana Gli Aquiloni di Rosellina Archinto. Poi, come tante pubblicazioni di Perec, sparì dal mercato. (La sparizione è un motivo caro a Perec, ricordiamoci che fece sparire la lettera “e” da un intero romanzo…)

Nel 2005 Ellis Island riapparve parzialmente in rete: una decina di pagine tradotte dal nostro Andrea Inglese, uscite appunto su Nazione Indiana, qui. Mentre il 10 maggio 2017 Laura Barile rievocava il fascino di questo testo su Alfabeta 2, l’Archinto S.a.s. lo ripubblicava e ricolmava il vuoto editoriale. È stato così che l’ho trovato, rovistando sulle scaffalature della Libreria del Mondo Offeso.

Ellis Island è un prezioso libretto di settantadue pagine composto di due parti: L’isola delle lacrime, una sorta di introduzione storica, e Descrizione di un cammino, la parte più corposa e poetica. Perché Perec, fedele alla sua scrittura, riesce a fare della poesia attraverso la semplice elencazione di oggetti, luoghi, persone: “All’inizio, si può solo provare a nominare le cose, una per una, semplicemente, enumerarle, censirle, nel modo più banale possibile, nel modo più preciso possibile, cercando di non dimenticare niente”. Tanto meno i numeri, quelli più impressionanti: cinque milioni di emigranti provenienti dall’Italia, quattro milioni dall’Irlanda, un milione dalla Svezia, sei milioni dalla Germania, tre milioni dall’Austria e dall’Ungheria, tre milioni e cinquecentomila dalla Russia e dall’Ucrania, cinque milioni dalla Gran Bretagna, e così via. Tutta gente disperata che per i più svariati motivi scappava dal vecchio continente. Poi elenca le compagnie di navigazione (compresa la nostra Italian Line), i porti di partenza (i nostri: Palermo, Napoli, Genova, Trieste), i nomi dei piroscafi (i nostri: Umbria, Lusitania, San Giovanni, Giuseppe Verdi, Duca degli Abruzzi), la raffica incalzante delle ventinove domande che bersagliavano l’emigrante: Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli Stati Uniti? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? eccetera. Sì, perché i soldi erano una garanzia: chi viaggiava in prima o in seconda classe veniva ispezionato a bordo da un medico e da un ufficiale di stato civile, e sbarcava senza problemi. Gli altri sostavano a Ellis Island sino a passare il controllo degli ufficiali sanitari che segnalavano i casi sospetti tracciando una lettera con il gesso sulla schiena: C la tubercolosi, E gli occhi, F il viso, H il cuore, K l’ernia, L la claudicazione, SC il cuoio capelluto, TC il tracoma, X il ritardo mentale. Il sospettato avrebbe prolungato la sua permanenza a Ellis Island per accertamenti più minuziosi, talvolta sino ad essere respinto.

Tutti insomma passarono da Ellis Island. Che funzionava, dal punto di vista organizzativo, con la proverbiale efficienza degli States: “Una fabbrica all’americana, rapida ed efficace come un salumificio di Chicago: a capo di una catena, si mette un irlandese, un ebreo ucraino, un pugliese, all’altro capo – previa ispezione degli occhi, ispezione delle tasche, vaccinazione, disinfezione – ne esce un americano”. Col tempo le regole di questa fabbrica diventarono sempre più severe. Alla fine i respingimenti furono duecentocinquantamila, tremila i suicidi. I fortunati sentirono invece pronunciare l’agognata e fatidica frase: Welcome to America.

Perec non commenta, lascia che commenti e paragoni siano elaborati nella mente e nel cuore del lettore, quello di allora e quello di oggi. Perché il testo, inutile dirlo, è di una valenza universale e attuale: “L’emigrazione verso gli Stati Uniti era cominciata molto prima che incominciasse Ellis Island e non è terminata con la sua chiusura. I messicani, i portoricani, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani hanno dato il cambio”. Ci sono poi le vicende dei nomi storpiati, suoni tipici di mezza Europa trascritti all’americana trasformando Skyzertski in Sanders, Goldenburg in Goldberg, Kowalski in Smith (entrambi significano fabbro). Compresa la storiella del vecchio ebreo russo che disse shon vergessen (in yiddish: l’ho scordato), e lasciò Ellis Island come John Ferguson.

Tutto questo per poi scoprire che l’America non era poi l’America che era stata loro raccontata. Certo, la terra apparteneva a tutti, peccato che i primi arrivati si erano ampiamente serviti e ai nuovi emigranti non restava se non ammassarsi in tuguri senza finestre e lavorare quindici ore al giorno. “I tacchini – scrive Perec – non cadevano già arrostiti direttamente nei piatti e le strade di New York non erano lastricate d’oro. Anzi, il più delle volte, non erano lastricate affatto. E allora capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti venire. E per scavare gallerie e canali, costruire strade, ponti, grandi dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare miniere e cave, fabbricare automobili e sigari, carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum, corned-beef e saponette, e costruire grattacieli ancora più alti di quelli che avevano scoperto all’arrivo”.

Il Cortázar scomparso

3

 

di Hernán Ruiz

Già da alcuni anni diversi esponenti del circuito intellettuale argentino praticano un nuovo sport: criticare Julio Cortázar. Queste critiche si accentuarono nel 2004 quando, in occasione del novantesimo anniversario della nascita e ventesimo della morte, fu organizzata una serie di omaggi con ripercussioni internazionali (mostre itineranti, riedizioni integrali, premi letterari, cicli di conferenze, proiezioni di documentari e film basati sulla sua vita e sulla sua opera) che rivitalizzarono la centralità dei suoi testi. Gli attacchi cominciarono a popolare lentamente le riviste letterarie, i blog di scrittori emergenti, le interviste radiofoniche e televisive.
Alle vecchie questioni motivate dalla presunta artificialità con la quale irrompe il politico-testimoniale nella sua scrittura, si aggiungevano le più recenti. Lo si svalutava identificandolo come scrittore d’iniziazione, che asseconda il senso di ribellione adolescente e il cui successo tra le giovani generazioni si deve principalmente alla sua affascinante capacità inventiva. Però questa fascinazione, instabile e deteriorabile, si sarebbe dimostrata incapace di influire in modo decisivo su produzioni letterarie specifiche. Quasi all’unanimità sostengono che “Il gioco del mondo (Rayuela)” è un testo invecchiato e dicono, con ironia, di aver letto Cortázar ormai molto tempo fa, riprendendolo solo per avere la conferma che la sua opera soffre ormai del passare del tempo. Riconoscono che i suoi racconti sono di buona fattura ma lo accusano di cercare sempre il grande effetto.
Se a queste aggiungiamo le critiche di alcuni operatori culturali reazionari, che asseriscono che la sinistra è ormai talmente anchilosata da non essere in grado di fare altro che riesumare e rileggere fino allo sfinimento sempre le stesse figure, scopriamo che il contesto per recuperare un libro perduto di Cortázar non potrebbe essere migliore. Un tentativo che per il suo innegabile anacronismo è già irrimediabilmente condannato dall’inizio.

 

Cronaca della scomparsa

Nel 1983, alcuni mesi prima di morire, Cortázar pubblica due libri: Los autonautas de la cosmopista e Nicaragua tan violentamente dulce. I diritti d’autore di entrambe le edizioni furono ceduti alla rivoluzione sandinista nicaraguense.
Los autonautas oggi forma parte di quel corpo cortazariano continuamente rieditato; Nicaragua, al contrario, è scomparso. E la cosa è piuttosto curiosa perché non è stato cancellato completamente, persiste come ricordo in qualunque biografia, in ogni riassunto bibliografico e sono pochi i lettori di Cortázar che non ne conoscono l’esistenza, così come sono pochi quelli che hanno potuto leggerlo; semplicemente perché il libro non c’è. Non c’è nelle librerie e neppure nelle biblioteche, non c’è nelle università né nei caffè letterari. Non c’è.
Il primo di questi due libri fu scritto in collaborazione con la sua ultima moglie, Carol Dunlop, dopo un viaggio di 33 giorni che tra maggio e giugno del 1982 fecero insieme percorrendo la transitata autostrada Parigi-Marsiglia. L’esperienza, condizionata da rigide regole che si autoimposero, riprendeva lo scenario de La autopista del sur, racconto iniziale di Todos los fuegos el fuego, del 1966. La prima edizione di questo diario di viaggio romanzato si pubblica grazie alla casa editrice spagnola Muchnik e alla francese Gallimard.
Il secondo, invece, viene pubblicato da Editorial Nueva Nicaragua, fondata nel 1981 dalle autorità del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), che nel 1979 aveva rovesciato il regime dittatoriale della dinastia Somoza. Una seconda edizione nicaraguense arriva nel 1985, dopo che la casa editrice Muchnik pubblicò un anno prima l’edizione spagnolo-argentina; Cortázar riuscirà a vedere il volume stampato dal suo amico Mario Muchnik qualche giorno prima della sua morte, avvenuta a mezzogiorno di domenica 12 febbraio dello stesso anno. Muchnik lancerà un’ultima edizione nell’87. Verranno effettuate anche due traduzioni in tedesco (1984/85) e una in inglese (1989). Alcuni frammenti furono inseriti, da altre case editrici, all’interno di un numero limitato di antologie di testi politici dell’autore. Poi basta.
Mentre lo cercavo disperatamente, ho creduto plausibile che il libro non esistesse. Ho anche sospettato che le varie citazioni incontrate fossero un deliberato errore incoraggiato dall’autore, un messaggio inintelligibile o un desiderio che non era riuscito a realizzarsi.
Mi sono ricordato allora della favolosa storia di una poetessa argentina, che comincia nei primi anni ‘60, durante un viaggio a Jujuy. Un passeggero aveva dimenticato sul sedile che le era stato assegnato un romanzo di Italo Svevo che lei non conosceva. Le era stato impossibile non dedicare tutto il resto del viaggio a quella lettura nella quale si era immersa profondamente, sentiva di essersi incontrata per la prima volta con il bello, di aver aspettato di leggere o di scrivere quel libro da sempre. Nella sua unica intervista che ancora si conserva racconta che forse pensando ad un possibile ritorno del proprietario forse solo per incapacità di reazione di fronte ad un incontro dirompente, lasciò il libro sul sedile e scese dall’autobus. Non riuscì a ritrovarlo mai più. Cercò quel titolo in ogni possibile nascondiglio, lesse tutta l’opera di Svevo, studiò rigorosamente l’italiano, i suoi dialetti e un po’ di tedesco, partì per la Penisola e si stabilì a Trieste per più di tre anni, ebbe accesso a manoscritti inediti, lesse il diario di Elio, fratello minore di Svevo, insegnò letteratura nelle Università di Padova, Milano e Bologna, ebbe figli ingegneri indifferenti alla letteratura; e quell’incontro con Svevo non si ripeté mai più. Come Bartleby, preferì non continuare a scrivere. Prima di quella rivelazione aveva composto una dozzina di buone poesie che le valsero un certo prestigio. Quel viaggio a Jujuy era di sicuro il primo invito a partecipare ad un festivalnazionale di poesia; dedicò tutto il suo intervento a parlare di quel libro del quale nessuno dei presenti aveva notizia.
Una minuscola tipografia, sospesa sulla montagna nel lillipuziano borgo ligure di Apricale, stampò alla fine degli anni ‘80 una cinquantina di copie di un suo romanzo con il quale interruppe per l’unica volta il silenzio. Il libro perduto di Italo Svevo, questo è il titolo dell’esperimento mediante il quale l’autrice tentò di recuperare, riscrivendolo, il testo scomparso dell’autore di Senilitá. Molti hanno visto in questa esperienza la reincarnazione di Pierre Menard, autore del Quijote, il racconto di Borges nel quale si narra la storia di uno scrittore francese che all’inizio del XX secolo affronta il monumentale compito di scrivere, con precisione assoluta e senza avere la possibilità di confrontarsi con l’originale, l’opera massima di Miguel de Cervantes. Di sicuro le differenze sono molte. La poetessa argentina, forse per lo svantaggio di essere reale, non solo era meno ambiziosa, ma sentiva in modo senz’altro più urgente la necessità di quel recupero. Il suo libro era scritto in un castigliano rioplatense che risentiva di alcune differenze rispetto alla traduzione madrilegna trovata e perduta venti anni prima. Ma la differenza più importante è che alla poetessa anonima non interessava scrivere il libro di Svevo, voleva ripercorrere quello che aveva sentito nel leggerlo. Menard, pensava che il Quijote fosse trascurabile; lei, aveva la certezza che in quel libro si celasse il mondo.
Mi perdevo in questi confronti e spiegazioni inverosimili quando finalmente incontrai un collezionista che mi allontanò da tutte queste teorie di cospirazione e progetti esagerati; possedeva una prima edizione di Nueva Nicaragua, comprata a Cuba all’inizio degli anni ‘90. Seppi da lui che anche a L’Avana era difficilissimo trovare il libro. La rete informatica delle biblioteche argentine mi fece sapere che solo tre biblioteche erano riuscite a rispondere alla mia richiesta: la biblioteca del Congreso de la Nación, un’Università privata di Buenos Aires, e l’Università di Tandil. L’Istituto spagnolo Cervantes e la sua smisurata rete mondiale di biblioteche, che dalle sue 900 e più postazioni di lettura permette la consultazione di circa 700.000 volumi, dispone soltanto di sette esemplari, uno di questi in inglese, disseminati a Lisbona, Praga, Tangeri, Rabat, Dublino e New York. Il libro esiste, l’accessibilità alla sua lettura no.
Come si spiega che non abbia resistito questo ultimo libro che Cortázar vide pubblicare in vita, dove confluiscono i suoi sforzi per integrare la creazione letteraria con il progetto di una rivoluzione che credeva fosse necessaria e difese anche a discapito della sua produzione precedente? Di sicuro, non è il meglio della sua opera, ma è importante in relazione ad un’analisi completa che permetta di ricostruire l’itinerario di uno scrittore che comincia abbandonando l’Argentina all’inizio degli anni Cinquanta perché gli altoparlanti di una manifestazione popolare peronista disturbavano l’ultimo concerto di Alban Berg e termina nella Cuba castrista, nel Cile di Allende e nel Nicaragua sandinista.
In Nicaragua sopravvisse una notevole quantità di esemplari del libro, ciò che non sopravvisse fu la rivoluzione. Nel 1990, a seguito di elezioni svoltesi in un clima difficile originato principalmente da un embargo economico letale e dagli attacchi dei contras finanziati dagli Stati Uniti, le forze sandiniste persero il potere, e la casa editrice Nueva Nicaragua la possibilità di ripubblicare un libro i cui diritti le appartenevano. Il movimento che Cortázar aveva visto risorgere e trionfare, gli uomini che erano stati protagonisti delle sue cronache, non furono in grado di sostenere un processo che soffrì dei colpi delle innumerevoli crisi, e che alla fine terminò perdendo l’appoggio popolare.

 

NdR: il frammento che precede è tratto “da Frequentazioni mancate – Walsh, Cortázar, Lezama Lima. Letteratura e rivoluzione in America Latina”, Unicopli, 2008.

NOTA BIOGRAFICA
Hernán Ruiz è nato a Rosario, Argentina, nel 1977. Studioso di letteratura contemporanea ha affrontato di recente il tema del legame tra scrittura e politica nella narrativa latinoamericana. Attualmente insegna lingua spagnola e traduzione a Milano presso le Università Iulm e Cattolica e presso la Scuola per Mediatori Linguistici “Carlo Bo”.

Marca francese: un pensiero per Philippe Jaccottet

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di Massimo Raffaeli

Non potevo immaginare che la cancellazione fosse la via dello splendore ma è come l’avessi saputo da sempre. Voglio dire che la prima lettura, indelebile, delle poesie di Philippe Jaccottet (e qui mi riferisco alla versione condotta da Fabio Pusterla su Il Barbagianni. L’Ignorante nel volume pubblicato da Einaudi nel ’92, che ho avuto la fortuna di aver visto nascere) per me è stata un riconoscimento, anzi una vera e propria agnizione. Confesso che allora di Jaccottet conoscevo, se lo conoscevo, a malapena il nome. Eppure leggendolo, ammirandone d’acchito l’equilibrio che non era mai glaciale, lo spessore del segno che non era mai invasivo, sentivo vibrare qualcosa di straordinariamente prossimo e persino familiare, qualcosa che in realtà non mi era affatto noto (cioè un mondo di alberi e acque, di uomini così silenti e schivi da sembrare reticenti e sempre di passaggio, tutto un ecosistema diametrale rispetto alla mia quotidiana esperienza) ma che tuttavia mi parlava e con tenace lentezza, progressivamente, riusciva a vincolarmi. Di che cosa mi parlava, non già chiedendomi complicità (perché nulla è più lontano dal lenocinio retorico della poesia di Jaccottet) ma insinuando qualcosa di più difficile da dire, che sta fra l’incertezza, il dubbio e una quieta, non meno esigente, costernazione? Forse, e oggi credo di saperlo, Jaccottet era la poesia che non ha bisogno d’altro se non della sua stessa voce. Cerco di spiegarmi: non era una poesia che si proclamasse autosufficiente a priori e quasi per decreto dei significanti, perché l’eredità simbolista ne aveva profusa fin troppa, in francese come in italiano; tanto meno era una poesia per così dire puntellata dall’esterno (da una filosofia, da una politica o da una dottrina che la giustificasse), perché pure di quest’altra, dopo un secolo di poetiche à la page, da tempo si era sazi. Invece, la poesia di Jaccottet era quella della voce umana, così satura di esperienza, così spoglia del non necessario, così modulata nel profondo da poter arrivare al lettore nei termini di una semplicità primordiale. Una semplicità basale, perché era ed è la voce di un essere umano, qui-e-ora, che non ha presunzione di vivere e dire ma, al contrario, riconosce la mozione a vivere e a dire nel paradosso che entrambi istituisce: è possibile farlo, vivere e dire, solo in quanto lo si sente inevitabile ed è come aprire gli occhi, respirare e infine accettare la parola che può dire tutto questo. Quel verso di Jaccottet che allora mi batteva in testa, il verso che affermava lo splendore nell’atto stesso della sua cancellazione, non potevo che associarlo, come solo più tardi avrei compreso, ad una poesia del mio maestro, Vita e scritura di Franco Scataglini, dove appunto è detto che la vita e la scrittura sono compagne, consanguinee, «tuta scancellatura/ dopo dulor de sbai», il che significa, alla lettera, una cancellazione dopo il dolore di una vita costellata di errori.

(La poesia di Jaccottet, come ogni grande poesia, basta a sé stessa e consiste, per etimologia, nel disegno testuale che si affida alla lettura muta. Ma chi non ha sentito leggere dal vivo Jaccottet ad alta voce non può intendere fino a che punto essa possa somigliare o aderire a colui che l’ha scritta, vale a dire quanto la prosodia possa essere incarnata nella sua sostanza fonica. Ho ascoltato una volta sola Jaccottet quando venne in Ancona nel luglio del ’95, accompagnato da Pusterla, per una serata di “Poesia in giardino” a un anno appena dalla morte di Scataglini: che di quella serata sia rimasta, nella sua bibliografia, la plaquette/programma di sala dal titolo, veramente stupendo, Edera e calce, è motivo ulteriore di orgoglio, per me. Ebbene, leggendo, Jaccottet quella sera non sosteneva la sua poesia o tanto meno egli la interpretava ma con cadenza equanime, dedotta dai metri più tradizionali, ogni volta piegati e riallineati, si limitava a pronunciarla. I versi erano portati dal respiro, da un moto tanto naturale da riuscire fatale, nonostante chi seguiva col libretto alla mano si avvedesse della loro partitura sovrana, intramata, scoscesa in certi sottintesi ritmici come negli enjambements vertiginosi che il poeta seguiva nello stesso momento in cui li spingeva verso il baricentro della linea ulteriore, in un moto di calma assoluta e, insieme, di profondità cognitiva, di spasmo pulsante sottotraccia, laddove il respiro e il battito cardiaco sono finalmente una cosa sola. In realtà non c’era alcun miracolo della poesia né lo spettacolo di una voce, ma c’era più semplicemente la poesia di Jaccottet nella sua integrità psicofisica).

Ma non ho ancora detto la cosa più importante. No ho ancora risposto, cioè, alla domanda relativa al senso di fraternità o di paradossale familiarità provata fin dal primo contatto con la sua poesia. Ed è invece l’essenziale. Perciò provo a ritornare indietro e, fosse mai possibile, a liberarmi per un attimo della quantità di letture successive e delle ipoteche di una stima assoluta e oramai perfettamente interiorizzata. Cosa davvero mi colpiva della naturalezza temeraria, della sovrana semplicità? Probabilmente (ora direi certamente) il fatto che la parola di Jaccottet mi arrivasse, non so dirlo meglio, da un vero e proprio inframondo che sentivo suo e solo suo. Che quella poesia, in altri termini, parlasse di Natura ma non fosse natura, che si proponesse come storia di un uomo ma non fosse assoggettata alla Storia. Oggi potrei dire, ed è il suo autentico carisma: una poesia passata indenne, libera, attraverso i letali interdetti delle due metafisiche della modernità, Storia e Natura. Pertanto splende del suo lume astrale nel momento in cui simula una cancellazione e pertanto è una poesia dell’uomo (con i suoi boschi, le sue acque ma anche le città attraversate nella folla, nei rumori del giorno pieno), di un uomo che può permettersi di rinunciare alla parola “io” o che nemmeno concepisce l’espressione diretta, invadente e filistea, della prima persona. Eppure in Jaccottet si avverte la profondità verticale dei grandi lirici, si sente che l’   “io” da qualche parte deve pur esistere, che non si tratta insomma di una convenzione tramontata o, meno che mai, di una archeologia dell’essere. Perché c’è un soggetto, un uomo così uomo che può riconoscersi soltanto nel pronome della impersonalità e dunque della condizione più universale, l’anonimato delle persone comuni, coloro i quali, dopo tutto, provano a vivere e a dare un senso alla propria esistenza senza chiedere altro, senza chiedere qualcosa in cambio o un qualche accredito per esserci. Volevo dire che la poesia di Philippe Jaccottet è poesia politica, forse l’unica poesia politica che oggi sia possibile. E che anche come tale essa è degna di essere amata.

 

[originariamente contenuto in: AA.VV., Philippe Jaccottet. La poesia, le figure, il paesaggio, a cura di Fabio Pusterla, Quaderni di Orfeo, Mendrisio 2013]

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Marca francese è edito da Vydia.

Massimo Raffaeli raccoglie in questo volume il frutto di una ventennale, finissima scrittura sulla letteratura francese, frequentata, come afferma, da “autodidatta”, da un punto di osservazione – e di lettura – dichiaratamente eccentrico, periferico, già in quel riferimento alla “Marca” incastonato nel titolo. Un percorso di restituzione critica allertato, “rabelaisiano”, incardinato qui sulle figure speculari del gigantesco, incendiario Céline e dell’“impassibile testimone” Patrick Modiano, Premio Nobel 2014, passando, tra gli altri, per Rimbaud e Verlaine, Proust e Baudelaire, Zola e Queneau, Gide e Camus, Brasillach e Crevel, fino alla fascinazione per la poesia di Philippe Jaccottet. Un viaggio la cui rotta il lettore potrà disegnare strada facendo, pagina dopo pagina, libro su libro, accompagnandosi alla musica di Serge Gainsbourg, alle immagini di Truffaut e Renoir.

Dai frutti un sangue. I quaderni del vino di Lorenzo Bastida

2

 

 

 

 

«Semplicemente dei versi, ossessivi e mi auguro inattuali, sulla malattia e la morte di una madre. Che si tratti di Letizia Gianformaggio, figura non secondaria della filosofia giuridica e della cultura femminista, è accidente decisivo; ma pur sempre un accidente. Devo scusarmi con gli amici che ne cercassero qui un ritratto. La distanza necessaria a tratteggiarlo è tutt’ora inaccessibile alla mia sensibilità di bambino viziato: viziato, beninteso, dal privilegio di aver avuto una madre severa. Il mito, del resto, mi è sempre parso capace di un più elevato coefficiente di verità rispetto allo psicologismo. […] Ho cercato, credetemi, di rivolgermi anche a voi, anche a chi è ancora in vita. Ma i libri di poesie nascono spesso già morti: e questo soprattutto, che continuamente riscrivo e senza fine riscriverò.»

Lorenzo Bastida, dall’introduzione a I Quaderni del Vino, Arcipelago Itaca, 2017, di cui pubblico di seguito tre poesie.

 

 

La roccia madre

nei terreni di posto

determina il prodotto della vite.

 

Dice: dai frutti

mi riconoscerete,

con certo margine di deviazione.

Dai frutti un sangue

– riflessi consistenza odore –

purché sappiate e compitiate come,

quanto dimenticare.

 

***

 

Ma no, non è ch’io ami questo fiore

 più di tutti gli altri fiori:

 è che, finito questo,

non ci sono più fiori.

 

Saggi, sopravvissuti, vincitori

ascolteranno a giorno lo sbilenco

epos testé trascorso: ammireranno

quanto, come, per chi splendessero

quegli occhi minacciati,

come trovassero

appigli di speranza in ogni gesto

inscenato o respinto: cercheranno

cagioni al protrarsi e alla fine.

Chi mai potrà dir loro che semmai

per noi ti preoccupavi:

per chi, come i gerani sul balcone

insiste troppo

oltre la sua stagione?

 

Non lo sanno. Non sanno che finito

questo, non ci sono più fiori.

Ma questa sete di morire insieme

che cresce, che gorgoglia in fondo al tino.

 

***

 

Non credere ai poeti quando fanno

parole sulla morte ma non hanno

sentito la morte arrivare.

Una, saputo  quando, di che morire
riemerge un attimo per condolersi,

abbozza una stretta, ripete

mannaggia, annotta – alle spalle

come indefessa pratica, il mistero.

 

Ma la morte dell’altro, dell’altra…

è lì che si muore davvero.

Stanze

1

di Filippo Polenchi

Stanza n.1
La stanza ha una moquette a rombi neri e verdi su fondo marrone chiaro. Anche la carta da parati è a forma di rombi. Il perimetro di questa camera è di circa dieci passi per cinque. C’è una scrivania e sopra c’è una tv. La tv è accesa, trasmette interferenze, scariche, effetto-neve. Il letto è adiacente al muro, un letto singolo, sulla coperta è ricamato un pavone, con una coda verdeblu e occhi rossi che guardano la finestra. Sulla parete opposta ci sono tre quadri, disposti seguendo le diagonali dei rombi. In quello più basso c’è un’anatra selvatica. In quello di mezzo c’è una scena di caccia all’inglese e in quello più in alto un espressionista astratto. La finestra è chiusa, le imposte sono aperte e la luce notturna è una fluorescenza che tenta di emergere dai vetri.

La ragazza lituana entrò senza sapere che giorno fosse e in un modo o nell’altro ne avrebbe pagato le conseguenze.

*

Stanza n.2
La luce della lampada distesa sul pavimento ammicca nel buio, con il suo occhio senza palpebra. Una pianta di ficus verde, in plastica. Buio. Un telefono nero, la pulsantiera a disco, su un comodino di legno scuro. Buio. Armadio Ikea, color beige, un’anta è aperta e nello specchio all’interno si riflette il balbettio del neon. Buio. Vestiti estivi da donna, a fiori, nell’unico spazio visibile dell’interno dell’armadio. Buio. La porta del bagno è chiusa, con il cartello Non disturbare appeso alla maniglia. Buio. Maniglie di ottone, card elettronica per entrare. Buio. La carta da parati è rossa scarlatta, ha dei ricami in rilievo, una trama larga di iris. Buio. Una tazza da tè per terra, accanto al letto, si vede chiaramente la scritta IL PADRONE DI CAS[…] e il resto non è visibile. Buio.

Sperò con tutto il cuore che non tornasse il tizio dei conigli e quindi si guardò il segno che aveva sulla mano: non avrebbe avuto mai più niente di così dolce.

*

Stanza n.3
Il living ha la moquette blu cenere. Un muretto di cartongesso separa la zona soggiorno dalla zona cucina. La porta è di legno scuro. Il divano è accanto al muro bianco. Ci sono rampicanti di tubi, anch’essi verniciati di bianco. Il divano è imbottito, color crema. C’è una bottiglia di acqua minerale accanto al telefono, una lampada dal lungo collo di gru e, tra il divano e la cucina, un asse da stiro.

Scoprì che qualcuno aveva dimenticato uno spillo alla manica della giacca e pensò che si voleva fare quella lardosa della cameriera, sissignore, proprio lei.

*

Stanza n.4
In alto, sopra l’armadio, ci sono scatole di cartone e una valigia di pelle afflosciata. In basso polvere di trucioli. Il letto ha il materasso sfondato. Nella stanza il sole passa a fette. Il pavimento è di piastrelle e c’è un tappeto con ricami indiani. Dentro il tappeto un elefante e una tigre stanno combattendo. La lampada al soffitto è protetta da un paralume ricavato da un cestello da lavatrice: sulla parete la luce elettrica è fatta a spilli. C’è un plaid a strisce gialle e blu, piegato a metà, sul fondo del letto.

Sapevo di aver perso qualcosa definitivamente, ma la donna d’affari e sua figlia bevevano un caffè annacquato, mentre nessun altro aspettava.

*

Stanza n.5
Il divano letto è aperto, con un plaid rosso e blu buttato sopra alla meno peggio. La luce entra in un fascio compatto, dall’unica finestra sopra il divano. La finestra è un quadrato, la luce solleva pulviscolo. Il pavimento è in legno e il soffitto è inclinato. C’è una piccola libreria accanto al divano letto, bassa, con pochi scaffali. Ci sono dei fumetti di Tex sugli scaffali, accanto a una radiolina a batterie.

Quando ebbe finito di uccidere il rospo tornò in salotto e si accorse che la sigaretta fumava ancora nel posacenere. Rimase a guardarla respirando forte.

*

Stanza n.6
Dalla finestra si vedono una terrazza, un balcone e due vasi di piante. Le piantine grasse hanno piccoli germogli. Un sipario di tende in nylon è appena socchiuso. C’è vento, fuori; i minuscoli fiori delle piante sono scossi dal vento. Di tanto in tanto passano delle luci, dall’altra parte del vetro, ma si vedono solo di notte. Il vento, talvolta, soffia attraverso il legno sbertucciato della finestra.

Gli chiese di mordergli una mano; così sarebbe rimasto per sempre il segno.

*

Stanza n.7
Di fronte alla porta c’è uno specchio coperto da un telo verde. Le due finestre gemelle, equidistanti, sono aperte; dalle tende alla veneziana si accendono stecche di luce. Il pavimento è in legno. Il letto è una vecchia branda di ferro, con i bordi della testiera rugginosi e un materasso grigio chiaro. È un letto singolo, contro il muro. Dalla parte opposta dello specchio c’è un piccolo lavandino di porcellana, bianco, e uno stillicidio continuo di gocce d’acqua. Carta da parati a motivi floreali ricopre tutte le pareti: ci sono iris blu su fondo sabbia. A destra della finestra di destra la carta da parati si è scollata, aprendo sul muro una bocca dai bordi smangiucchiati.

Poiché aveva pensato all’uomo dei conigli ebbe paura a uscire.

Foto di RitaE da Pixabay

I fratelli Michelangelo

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di Luca Giudici

L’ ultima fatica di Vanni Santoni è pubblicata da Mondadori, e si intitola “I Fratelli Michelangelo”. Nel panorama della produzione italiana più recente Santoni si è distinto sin dai suoi primi lavori, risalenti ormai a oltre dieci anni or sono, per la ricerca e la passione per la sperimentazione, sia formale sia tematica. L’analisi delle forme assunte dalla precarietà esistenziale, la scrittura collettiva alla ricerca della memoria, l’indagine nel mondo del fantastico, dei miti fondativi della sua generazione e del mondo in cui è cresciuto, quali i role games e i rave, sono alcuni dei temi che caratterizzano la sua fitta produzione. “I Fratelli Michelangelo” è un appassionante saga familiare di oltre seicento pagine che riassume, mescola e ripropone le problematiche che hanno caratterizzato l’intera sua produzione precedente.

Da “Il sapone”

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di Francis Ponge

traduzione e nota di Andrea Inglese

[Questa traduzione inedita (Francis Ponge, Il Sapone, Gallimard, 1967, p. 60–63) è apparsa su RIEF: Revue Itaienne d’Etudes Françaises, nella rubrica Seuils Poétiques  8 | 2018 : L’Écrivain critique de lui-même]

È necessario parlare degli avvenimenti o degli spettacoli per lo meno spiacevoli che abbiamo dovuto sopportare dal giorno della nostra nascita? Ne ho qualche scrupolo. Anche se, a dire il vero, penso che in nessuna epoca ve ne siano potuti essere di più spaventosi, di più intollerabili per la sensibilità.

Sale del ricordo

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di Luca Baldoni

Mi prendesti da parte una sera per propormi
un’avventura. I ragazzi di sopra avevano quell’acido che
ci avrebbero fraternamente regalato. Io non l’avevo ancora
mai provato, ma me lo chiedesti con timore soprattutto
perché volevi farne un rituale, un’impresa comune di coscienza che

sconfinasse nell’umano.
 Accettai e iniziarono i preparativi.

Perché decidemmo di lasciar perdere i locali e di allestire
un’epifania in casa ad uso del sesso e dell’amore, inventando
insieme l’attesa per l’apertura di orizzonti dentro
ai nostri cuori. Devo ammettere che ormai non ricordo quasi
niente se non che la notte grazie al cielo sembrava non volere
più finire, e le parole sgorgavano dalle nostre bocche senza
esitazione, e ai primi bagliori grigi dell’alba sulle pietre della strada
mi dicesti che ti stava venendo freddo e io andai su di sopra a
prenderti la coperta verde da mettere sulle spalle.
E se non ricostruisco gli atti, le parole, la sequenza, ricordo che intenso
piacere era guardare, toccare, ascoltare, raccontare,
vederti di fronte a me per ore, scopare, confessare, annusare come se
tutto nella vita potesse veramente essere eccezionale, e allora
non potevi che desiderarne il prolungamento, che non avesse mai

fine, che la luce non scacciasse più la luce
e il giorno e la notte potessero incontrarsi.

***

VII.

Sotto cielo e vigore hai imparato a giocare con corpi e traiettorie, girando gli astri dentro al culo del tuo amore. Svagato tripudio inviso al tempo, offesa cercata e non voluta da trip evanescente azzardato tra isole mitiche e natanti. Senza ormeggi in dotazione, né una palma alla cui ombra partorire.

Taci dell’invocazione al figlio del delfino. Della forza della pinna che batte contro l’onda, del fianco che s’impenna e vola, del dorso levigato che inanella miglia dopo miglia, da sponda a sponda. Astri e delfini in un gioco da bambini, svagata diversione riversata sul mondo come pace, forza, affermazione.

Hai fuso gli elementi in un fiotto di bagliore, sciolto i corpi dalle loro vessazioni – per una breve stagione senza cuore. Tu stesso ne hai consacrato i rituali, le danze sfrenate sotto il sole.

A te, maestro-principiante, la lezione.

***

Christian mi portò a passare
il fine settimana in riva a un lago,
dove lui e amici possedevano
un terreno con alcune semplici
casette di legno.
Ricordo la sera, noi abbracciati
con altri uomini seduti intorno al fuoco;
quasi mi addormento, il tedesco diventa
imponderabile, guardo in alto le fronde
il vento che le scuote
l’oscurità illuminata dalle stelle.

Forse mi addormento… ma c’è un risveglio
in mezzo ad un racconto:
da uno dei più anziani una crepa nella voce
parole e pause in successione, un gesto:
scoprirsi l’avambraccio, battere la mano
sul tatuaggio.

Un brivido così forte –
un ricciolo rosa sfugge dalle braci,
rovinosamente

viene risucchiato verso l’alto.

***

Secondo movimento: Culmine

L’ultima notte del millennio eravamo a Londra. Se l’avessi
saputo quando ero adolescente – e mi immaginavo adulto
cosa avrei fatto dove sarei stato con chi proprio in quel
frangente – mi sarebbe sembrato eccezionale. Mentre di
quella sera non ricordo quasi niente perché troppa era
la stanchezza, l’umiliazione, ricadute su entrambi armati
l’uno contro l’altro per dar fuoco alle nostre frustrazioni.
So che eravamo con amici tra la folla vicino al ponte
in ferro di Hammersmith, e allo scadere della mezzanotte
guardammo tutti verso est per veder partire
dall’altro capo del Tamigi una scia di fuoco che
doveva solcare il cielo come un arco teso.
Ci fu qualcosa… che tra le urla della gente mi sembrò lontano,
inconcludente, come visto in un cannocchiale
rovesciato. Il giorno dopo si seppe dai giornali
che c’era stato un errore colossale:
i fuochi erano scoppiati solo in parte, il serpente
luminoso dopo un volo sregolato
si era spento vicino al Parlamento.

Avevo già chinato la testa
al passaggio del tempo, pestato la polvere
su un altare spento.

***

VIII.

L’insegnamento può solo essere
sottratto al nemico ridacchiante
e messo rapidamente in saccoccia
come un dono inaspettato.
Tuo malgrado mi hai dimostrato che
la poesia è come l’arte dell’arciere:

mira al cuore, sfonda il tuo piacere.

**********

dalla prefazione di Pierre Lepori

La poesia di Luca Baldoni – per addentellati biografici ma anche interessi di studioso (che lo hanno portato a firmare una corposa antologia della poesia omosessuale italiana del Novecento) – si ricollega chiaramente alla grande tradizione dell’autobiografia in versi, del romanzo intimo che esplora senza peli sulla lingua l’omoerotismo. Ma non deve per questo essere limitata a un puro esercizio militante, tali e tante sono le stratificazioni  e le inflessioni di questo nuovo volume di versi.

Nella breve nota iniziale, l’autore sembra quasi scusarsi della lontananza temporale da cui ritornano queste poesie (parte di una trilogia conclusa da anni) – e rivela una battaglia editoriale tanto più assurda giacché il libro, diciamolo subito, è splendido. Parla di queste poesie come di Juvenilia, ma varrà subito la pena di relativizzare l’excusatio non petita: se questo può essere valido (forse) per la primissima sezione, la gioventù non è qui una questione di stile, ma di emozione. L’emozione acerba di questi versi è percorsa dal sudore giovanile, dal rimpianto che inizia già prima di essere pensato; dalla nostalgia con cui le parole inevitabilmente toccano il tempo.

Questa prima parte (Riverrun) è in realtà d’una bellezza stregante, per panorami, libertà delle emozioni, per voluttà timbrica. Vi si coglie una voce intatta e forte, capace di denuncia e di rivendicazione, ma anche di sublimare una tradizione culturale poco italiana (l’autore è anglista e traduttore) che va da Auden a Dylan (torna alla mente la voce calda di Under Milk Wood, nell’ultima di queste poesie irlandesi, nonostante la realtà cittadina che descrive); certi affondi più scabrosi possono far pensare a Ferlinghetti o Ginsberg, sia per tematiche, sia per la forza liquida della lingua. Questa prima sezione riesce a farci percepire la nitidezza del tempo e al contempo il luccichio sfasato del reale; oscilla continuamente tra autobiografia e flusso disperato delle immagini, nella città straniera. Ritroviamo l’autore dimenticato dall’amante, febbricitante in una stanza; romanticamente abbracciato su una spiaggia; ma anche capace dell’emozione delle battaglie, della gioia di una vita coraggiosa e disinibita. È una poesia che racconta il singolo e la sua epoca, una poesia che è città, nebbia, confusione di voci, pedinamento del reale (per rubare una citazione a Zavattini).

Per chi ha vissuto quella temperie e quelle lotte, l’immedesimazione è possibile (anzi quasi auspicata); ma non è indispensabile, perché la versificazione tersa e metricamente generosa permette a ognuno di metterci del suo: il lettore vi leggerà le sue notti, la sua gioventù, la sensazione che il tempo – perduto e ritrovato – ha una consistenza materiale. È questo il “sale del ricordo”, che ci prende alle spalle e resta come un’infinita adolescenza negli occhi.

Il secondo capitolo prende il largo, sull’isola di Mikonos (classica destinazione turistica gay), e il tono si fa penniano nel suo “lasciarsi possedere dal sole”, nel suo “paradiso altissimo e confuso”: il rischio del cliché mediterraneo e gaudente è superato con impeto, grazie a un linguaggio di corpi e vento. In queste vacanze erotiche tutto è caldo, melanconico, magari dolcemente ironico: come la scena in cui il ragazzo “di vita”, ritrovato l’estate seguente, rimbrotta il poeta che torna (“Sei proprio innamorato, anche tu hai preso a ritornare”). E poi cielo, mare, corpi, traiettorie; e poi le intermittenze del cuore, dell’attimo bello ma già perso, del Kairos. Senza temere il ridicolo, questa sezione porta quasi il titolo di canzone cantata a squarciagola: Summers of Love, come se, per contrappasso epocale, la pop melensa dei Frankie Goes to Hollywood fosse la quintessenza della poesia: è il suono magico e avvolgente di viandanti gatti amanti. Sole e adorazione.

La sezione seguente ci porta a Berlino, che dopo la caduta del muro divenne quasi un luogo di pellegrinaggio (in particolare nei quartieri di Schöneberg e  Kreuzberg); e dove l’autore non riconosce – come molti altri prima di lui – la mitica Alexanderplatz di Döblin e Fassbinder; è la Berlino della libertà scabra (anche omosessuale), in cui risuonano gli echi della storia, nella Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche o nel portale della Anhalterbanhof, susù fino agli amori tumultuosi di Erika e Klaus Mann, ai Cabaret di Weimar, all’Istituto di sessuologia di Hirschfeld. Baldoni si commuove visitando un approssimativo museo di storia omosessuale (lo Schwules Museum sulla Lützowstrasse), ben diverso dagli altari con madonnine dell’Italia meridionale. La città diventa uno specchio utopico, ma anche un vortice, in cui l’individuo viene risucchiato dalla storia: come in una serata di chiacchiere dolci sulle rive del Wannsee, in cui il ricordo dei campi di concentramento fa capolino come una coltellata; o più semplicemente, come un “ricciolo di brace rosa” (riferimento ai triangoli rosa della Germania nazista).

Quello che ci aspetta, tuttavia, nell’Anno Duemila (il capitolo seguente) è un disinganno crudele, senza scampo. Come uno sberleffo all’utopia, nemmeno i fuochi d’artificio di Londra mantengono le loro promesse, sono pétards mouillés; e il disincanto di un’epoca crassa e iperliberista sgretola i furori dell’utopia. La prosodia si distende, tende quasi alla prosa, e le immagini sono vivide e sarcastiche. Fino al culmine tremendo, la scena in cui un giovane padre già completamente conquistato dal marketing cerca di convincere l’autore della necessità di passare ad altro, di metter su pancia, moralmente parlando. Parole vuote di un’epoca vuota, che sono però un muro di gomma contro cui l’intimità ferita dell’io-poetante non può che rimbalzare. Con il dandismo di un Wilde frastornato, Baldoni sceglie la sua strada di vagabondaggio senza tante storie, coi ginocchi bagnati di nostalgia. Ma, per l’appunto, in questo la prima parte è essenziale per capire la caduta: non era una gioventù fine a se stessa, ma una cifra di fedeltà…

La conclusione è elegante e laconica, disperata e dolce. I versi si asciugano, le mani si cercano in vano, la fuga su un’isola di foscoliana memoria sembra l’unico orizzonte pagano ancora possibile. Occorre lasciare alle spalle ogni esibizione di cultura e censo, ogni appartenenza e identità, ma restare fedeli e continuare a correre “col cuore stretto nel palmo della mano”. Un cuore strappato con un gesto violento e necessario. Anche se sono ormai così lontani, quella gioventù, quegli ideali spingono a un nuovo viaggio. Sembra di sentire, sornione, dietro le spalle, il buon vecchio Penna sussurrare “felice chi è diverso / essendo egli diverso / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”… Il percorso di questa raccolta, tutt’altro che giovanile, si conclude così, con la promessa di una fedeltà, con la consapevolezza che la poesia può ancora salvare il mondo (come afferma Jean-Pierre Siméon), ma soprattutto il mondo interiore. L’unico che abbiamo.

da Luca Baldoni: Sale del ricordo (Lietocolle, 2018)

Da “Trasparenza”

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di Maria Borio

[Presentiamo alcuni testi da Trasparenza, volume in uscita nella collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Novara, Interlinea].

 

Settima scena

Stendevamo le mani contando
i bordi di pelle incrinati.
…………Questa è una scena visibile
dietro una parte di me che indietreggia,
si sorregge la luce insieme
la carta e il digitale, ti sorreggi
consegnato alla portafinestra
e mi apri uscendo sopra il gelo.

Lettere dall’assenza #3

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di Mariasole Ariot

Caro J,
qui il cielo è una sommossa, l’uovo del mondo si è strappato : nascono gli oggetti che mi hai lasciato.
Ti scrivo ed è ancora buio, filtrano lampi di pulviscolo dalla finestra, la grana del mondo si frammenta e io distendo le righe di una lettera che non arriverà mai.
Abbiamo montato una tenda, raccolto le bacche e i ramoscelli per fuggire nella piena del bosco, hai radunato i corpi e li hai abbracciati ad angolo retto appena prima di partire, gli zaini pesanti, la pesantezza dell’esistenza, gli occhi spalancati in una sinfonia autunnale.

Ricordo ancora i passi, i piccoli avvenimenti delle giornate fredde, la foglia circondata dai sassi, il sasso che portavi al collo – e mentre ti scrivo apro la mano e raccolgo il mutaforma del suo resto, la scheggia rimasta.
Ne ho una piantata sul fianco, me l’hai infilata come s’infilano i ricordi. E’ questa memoria che non rimuove, dove tutto il già detto e già passato si presentifica come un appena nato ogni nuovo giorno, un embrione che continua la sua nascita milioni di volte, si prolunga nei millenni.
Ho visto una lepre correre sul petto, aggirarsi sulla pelle e saltare ai limiti sbordati di questo organo inquieto: quando l’hai mandata? Era ancora festa? Erano ancora i fiori?
La mancanza si fa presenza, non demorde, mi morde le labbra e le piccole viscere. Ho molti anni e non ne ho nessuno, come quando ci siamo scambiati le bocche per parlare la lingua dell’altro.
Nella tua c’era un serpente, i miei denti come chicchi di riso ridevano sulla tua: è forse questo diventarsi?

Ho una culla dentro la bara e un cimitero nella soffitta, lo visito a giorni alterni portando narcisi e piccole pietre scavate dall’oceano (hai visto l’oceano, mi hai vista tuffarmi con la testa degli annegati?) – e mentre le rocce del muro si sfaldano, io mi aggiro votiva per accogliere un liquido stanco che cerca di portare nutrimento all’abitazione del cervello.

Ancora, qui, di fronte allo sguardo c’è la tua immagine annebbiata che fisso per ore dal giorno in cui ti hanno portato a forza nel tombale dei tuoi sacrifici, la camicia di forza contenuta in una pillola bianca, il pungiglione conficcato nella gamba. Non ho pianto, ho solo premuto forte l’indice al centro della fronte, dove stanno le connessioni uno a uno, io a tu, tu e l’altro. Ascolto canti nordici nella lingua del Von, i prati aperti dell’Islanda, le strade che dovevamo calpestare, e con una corda ho legato la tua gabbia alla mia, permango nell’attesa dello snodo, il lento disorientarsi delle cose.

Una chioccia
una scarpa
un mantello
la mantide
le tue braccia
il mio ventre
la tua testa
le mie dita
la tua gente
la mia città
la tua perdita
la mia scomparsa

Vivo ancora senza nome, all’anagrafe dicono: un errore negli spazi. A volte, J, il bianco prevale.
Eppure non mi pesa, libera le dichiarazioni, libera i riconoscimenti dalle paure, apre le porte all’impensato, dove tu spingi con le dita attraversando le maglie della tua reclusione e io mi rannicchio nel fondale per una fine annunciata il giorno degli inizi. Ti hanno preso appena fuori dal bosco, quando appesi alle liane dei tronchi ci siamo gettati nella strada dei passaggi. Era inevitabile: i giorni di luce vengono rinchiusi se non portano le vesti adatte, e noi eravamo nudi nella nostra grande mattina calda. Il segno marchiato a fuoco sulla schiena è rimasto, tu rimani nella bocca e sulla pelle, cerco di grattare la superficie ma la superficie resta. E’ forse la tua maledizione?

Le madri sono nel sacco, ho provveduto io, non aver paura. Le ho attirate come si fa coi roditori quando hanno mangiato troppo: e loro avevano mangiato troppo.

Puntellati nel posto in cui ci siamo detti addio abbiamo optato per la resistenza, una lettera come un capotasto per racchiudere le note successive : siamo nello spazio vuoto degli innati, ci compensiamo mentre io stringo le gambe e tu trattieni gli eccessi.

Poi, a volte, si accende un lumino: urlano le gatte in calore, urlano corvi e grondaie, urlano gli oggetti, urlano le mandrie impazzite del ventre, urlano le mani, urlano i lampi estivi, e mentre tutto grida la parola si distende. Una lingua strappata e depositata nella teca dei passati.
J, quando accade tu non cadi, ti ritrovo nell’angolo remoto per passare la punta delle dita ancora una volta tra la radura della tua testa : hai un parco e un giardino nel petto. Pianto un seme di giacinto e lo innaffio ad ogni ora. Se questo amore morto, se questo amore giallo, se questo sole bianco si fonde con l’opposto, se questo nero è nero.

Puoi sentirmi? Ti attraversa la corrente?

Il tuo grillo parlante sono io, quando decido di restare.

L’archivio scomparso di Luigi Maria Personè

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di Dino Baldi

Questa è una storia di disastri bancari, di archivi scomparsi, di eminenze da prima Repubblica e di silenzi. Non credo in molti ricordino Luigi Maria Personè. Era nato nel 1902 a Nardò, in Puglia: la famiglia di antica nobiltà, e in particolare il monaldiano padre, vengono descritti nel racconto autobiografico Rosso di mattina (1982). Studiò a Bologna e poi a Firenze, dove si laureò nel 1923 all’Istituto di Studi Superiori (ancora non era università); e da Firenze, l’“Atene d’Italia” come era chiamata al tempo in cui contava qualcosa, non se ne andò più: per trent’anni insegnò al conservatorio Cherubini, e prima ancora al liceo Dante e al Cicognini di Prato. Fu un conferenziere apprezzato, anche all’estero, e poi un critico letterario (Lo spirito di Antonio Fogazzaro, 1961; Scrittori italiani moderni e contemporanei, 1968), d’arte (Pittori toscani del Novecento, 1952), di teatro (Il teatro italiano della Belle Epoque, 1972), nonché narratore nel genere di quella che oggi viene chiamata non-fiction (Il demonio muto, 1993). Ma soprattutto fu un prolifico ed eclettico giornalista da terza pagina. Non c’è quasi quotidiano su cui non abbia scritto: il “Popolo d’Italia”, “La Stampa”, il “Corriere della Sera”, “La Nazione”, “Il Resto del Carlino”, il “Mattino”, il “Piccolo”, e fino a pochi giorni prima di morire, a ben 102 anni, “L’Osservatore Romano” (perché fu cattolico osservante, e vicino ai potenti). La sua vena migliore è quella del memorialista. Aveva una vera e propria frenesia di conoscere (“collezionare”, è stato detto) i personaggi più notevoli della sua epoca, scrittori, politici, uomini e donne di teatro, senza fare troppo conto delle qualità assolute e delle idee relative, ma badando solo a che fossero famosi e che avessero, come diceva, una “scintilla”: riusciva immancabilmente a farsi accogliere nei loro salotti o a incontrarli in qualche modo, e da queste frequentazioni distillava elzeviri brillanti, in una lingua che in cent’anni sembra non cambi mai, piacevole perché nitida e leggera, con poca retorica, soprattutto per la media degli anni in cui si era formato. Gli piaceva l’aneddoto signorile, mai volgare, raccontato con la sprezzatura e il disincanto di chi osserva e descrive fatti e vicende umane un po’ dall’alto, ma con simpatia umana, senza giudicare. Il suo sguardo è quello del mondano aristocratico: amante del teatro, considerava, si può dire, la vita stessa uno spettacolo al quale voleva assistere dalle prime file, accontentandosi della superficie, come se alla fine contasse solo quella (ed era del resto equanime: anche di sé stesso, alla pari degli altri, faceva un oggetto di osservazione curiosa e distaccata). La sua produzione è tutta nel segno della frammentarietà; però alla fine, da questa messe di articoli (vantava di averne scritti cinquemila) si ricompone una fenomenologia della borghesia intellettuale specialmente italiana non disprezzabile, e qualcosa rimane. Iniziò la sua frequentazione di grandi uomini fin da ragazzo, con Benedetto Croce, che scambiava lettere con questo giovane quattordicenne da pari a pari, ignorandone l’età. Matilde Serao, della quale lascia un ritratto strepitoso, da Anna Magnani della letteratura (ne I signori del quarto potere, 1973), lo volle come collaboratore del “Giorno”; poi vennero Arnaldo Mussolini, Malaparte, Prezzolini, Missiroli, Borelli, Ojetti, Montanelli, Scalfari: nella sua lunga carriera incrociò oltre sessanta direttori. Ebbe la simpatia del Papini post-conversione, e lo frequentò regolarmente: il primo articolo, nel 1926, lo scrisse proprio sulla sua scrivania. Conobbe Proust tre mesi prima che morisse (attraverso Lucio D’Ambra), e poi Kafka, Bernard Shaw, Mann, France, Camus, Rilke, Churchill, De Gaulle, Isadora Duncan. Degli italiani non manca praticamente nessuno: D’Annunzio, Deledda, Pirandello, Montale, Palazzeschi, Bontempelli, Soffici, Cecchi, Buzzati, Bassani, Marino Moretti, ma anche i più bei nomi del fascismo, da Mussolini in giù, e Marconi, Salvemini, Nello Rosselli, Enrico Malatesta, Eleonora Duse, il futuro papa Luciani e tanti altri dalla fama ormai spenta o ridotta a un lumicino.

In casi simili, per uomini cioè con questa indole e queste qualità, le carte private sono spesso più notevoli dei prodotti editoriali veri e propri: si capisce allora bene quale interesse potrebbe avere, per chi si occupa della storia culturale e sociale più recente, esplorare il laboratorio di un uomo che ha attraversato, da una posizione tanto privilegiata, tutto il Novecento. La gran fortuna è che queste carte esistono, o perlomeno c’è chi può testimoniare di averle viste. L’Archivio storico diocesano di Prato conserva, ben catalogati, 13.000 volumi di Personè (un migliaio dei più preziosi andarono in eredità al suo fedelissimo segretario); ma ancora più notevole è un fondo che, oltre ai materiali di lavoro e a molte fotografie, contiene circa 7.000 lettere: quasi un secolo di corrispondenze, scambi e relazioni, molte delle quali rispecchiate da carteggi di notevole consistenza. Anche queste carte secondo la Soprintendenza archivistica della Toscana si trovano all’Archivio pratese (cf. https://bit.ly/2Pf1aaj); ma se si telefona per saperne di più, la risposta è schietta e desolante: il fondo era lì, è vero, ma adesso non c’è più, non si sa dove sia, né se tornerà. Il fondo Personè è di fatto disperso (non per colpa della Diocesi, va detto subito), e qui il racconto, se non s’interrompe, deve prendere un’altra direzione.

I fatti pressappoco si possono raccontare in questo modo. Nel 1986 Personè decise di vendere il suo patrimonio di libri e scritture private, che non senza ragione reputava di qualche interesse. Si rivolse a un potente amico romano, Giulio Andreotti, il quale non ebbe difficoltà a trovare un acquirente: la Cassa di Risparmio di Prato, allora guidata da due suoi fedelissimi, Silvano Bambagioni e Arturo Prospero, che comprarono (per una cifra consistente) la biblioteca e le carte, insieme a qualche mobile e quadro, con l’impegno di affidarli in custodia perpetua all’Archivio diocesano (non solo le carte fino all’86, ma anche quelle che sarebbero state prodotte in seguito). Poco dopo, nel 1988, la “mamma” di Prato, che ne aveva sostenuto fin dal 1830 lo sviluppo economico, collassò sotto il peso di 1.500 miliardi di debiti, e il tandem andreottiano fu costretto a cedere la mano. La banca fu acquisita dal Monte dei Paschi di Siena, e dopo alterne vicende passò nel 2002 alla Banca Popolare di Vicenza. Il suo presidente Gianni Zonin si distinse ben presto per ambizioni e maniere da Napoleone: la quadreria di Palazzo degli Alberti, storica e antichissima sede della banca, venne trasferita senza troppe cerimonie a Vicenza: una sessantina di opere fra cui Caravaggio, Bellini, Filippo Lippi, Santi di Tito, Lorenzo Bartolini. Con meno rumore presero la via del Veneto anche le carte Personè. Al principio del 2014 Zonin incaricò un monsignore che aveva già inventariato il fondo della banca vicentina e delle banche aggregate di prelevare le 63 casse che contenevano tutte le carte private di Personè. Era, si disse all’epoca, un trasferimento temporaneo, e anzi un “regalo ai Pratesi”: si sarebbe provveduto a riordinare l’archivio, due o tre mesi di lavoro al massimo, per poi restituirlo insieme all’inventario. Pare che nei diversi passaggi di mano queste banche si siano scambiate tra loro anche la vocazione al dissesto finanziario: nel 2017 il governo Gentiloni sottopone il Banco Popolare di Vicenza e Veneto banca, tecnicamente fallite, a liquidazione coatta amministrativa, e Zonin viene rinviato a giudizio. Le due banche, compresa la CariPrato, vengono acquisite da Intesa Sanpaolo a un prezzo simbolico (mentre per il Monte dei Paschi arriva il salvataggio dello Stato, che ne rileva le quote di maggioranza). Delle carte di Personè, sepolte nel gran crollo, si erano intanto perse le tracce: l’ultimo avvistamento risale al 2015, dentro un caveau di una delle sedi della banca vicentina, in viale Battaglione Framarin.

Nella situazione attuale, qualcosa di buono forse c’è. Banca Intesa con la sua fondazione ha mostrato negli ultimi mesi una sensibilità maggiore rispetto a chi l’ha preceduta nei confronti del patrimonio della CariPrato: undici opere della collezione d’arte sono già tornate nella sede originaria, e Banca Intesa ha promesso che entro il 2019 aprirà al pubblico la Galleria degli Alberti. L’archivio Personè invece rimane ancora in un limbo dal quale non trapela luce. È vero che nel 2016 la Soprintendenza, su istanza di don Renzo Fantappiè, direttore della biblioteca dell’Archivio diocesano, lo ha protetto con un vincolo pertinenziale che lo lega alla prima sede e che dovrebbe scongiurare vendite per “fare cassa”. Ma è comunque singolare e preoccupante che non se ne sappia nulla, e che le numerose sollecitazioni di don Fantappiè, formali e informali, siano fino a oggi cadute nel più assoluto silenzio. È lecito augurarsi che Intesa Sanpaolo dimostri, per queste carte, lo stesso interesse e la stessa buona volontà di cui sta dando prova per la collezione d’arte. Le tolga quanto prima da quel caveau (sperando che siano ancora lì), e le restituisca al luogo nel quale lo stesso Personè voleva che fossero conservate insieme alla sua biblioteca, e dove, finalmente, potranno essere messe a disposizione di chi le voglia studiare. Si tratta, ripetiamolo ancora una volta, di uno degli archivi privati più interessanti, per consistenza e completezza, del Novecento italiano.

 

Per le vicende del fondo (eccettuati gli eventuali errori e imprecisioni) sono debitore alla cortesia e disponibilità di don Renzo Fantappiè. Un ringraziamento particolare va inoltre a Irene Sanesi e a Silvia Bacci.

Nell’immagine: Ritratto di Luigi Maria Personè, di Primo Conti (1953, collezione CariPrato)

 

Come non diventare se stessi

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di Eugenio Maria Russo

Un estratto da Me non più (in uscita a maggio per Italic e Pequod) e una conversazione con l’autore, Massimiliano Costa.

 

Partiamo dal titolo: chi è “me” e “non più” cosa?

Me non più” è una frase che ripete tra sé e sé Jaco, il protagonista del romanzo: un consulente aziendale (potrebbe lavorare in McKinsey o Bain o Deloitte, ad esempio) che arriva a un punto della sua pure breve vita in cui ripensa a come è finito a fare quel tipo lavoro, alle scelte che lo hanno portato fino a lì. La storia si snoda attraverso due piani temporali, uno in cui Jaco è un giovane consulente rampante e l’altro in cui è un rampollo della buona borghesia provinciale italiana alla fine delle scuole superiori. Nonostante parta da una posizione privilegiata (ha talento per la musica, va bene a scuola senza sforzo, ha tanti amici, una ragazza comprensiva e una famiglia solida alle spalle) si trova in un momento di grande insicurezza, smarrito, incapace di decidere.

Erano due racconti staccati che poi hai unito?

No, il romanzo è partito da una visione e da un sentire. Mentre lavoravo in consulenza ho avuto la visione di un’alba bellissima alla fine di una lunga giornata di lavoro e ho sentito una profonda stanchezza, nonostante fossi ancora molto giovane. Per esprimere questa sensazione ho creduto di dover raccontare un personaggio complesso. Dovevo raccontare anche le radici di quella visione e di quel sentire, che affondano negli anni giovanili. Da lì la struttura dei due piani temporali. Poi ho cercato di lavorare sul non detto, tanta parte importante della vita di Jaco non viene raccontata.

Quali sono esattamente i termini della scelta che Jaco diciottenne deve compiere?

Seguire la sua passione per la musica classica oppure provare una via più standard, cercando di entrare in una università prestigiosa. La difficoltà della carriera artistica che Jaco potrebbe intraprendere è rappresentata soprattutto dall’incertezza sul proprio talento: ho abbastanza talento e passione per fare il violinista tutta la vita? Oppure dovrei ascoltare tutti quelli che mi consigliano di andare a Oxford e lasciar perdere la musica? Questo si chiede in sostanza Jaco, ma senza avere gli strumenti necessari per trovare una risposta. Allora cerca di non diventare se stesso, sforzandosi piuttosto di adattarsi a un modello dettato da una pressione sociale ma che non gli appartiene davvero.

La lingua del libro è molto particolare: si passa dal dialetto piemontese all’italiano inglesizzato dei consulenti, che però lascia spazio talvolta a una lingua più lirica. Come hai creato questo impasto linguistico?

La mia terra, le Langhe, ha sempre esercitato un influsso poetico su di me e la poesia è stata la prima forma letteraria che ho praticato: nel romanzo ne sono rimaste alcune tracce. La lingua più brutalizzata e anglicizzata è, invece, quella che effettivamente si ritrova non solo in consulenza ma anche in molti contesti aziendali: termini come “fittare”, “weakness”, “deliverare” sono parte della vita parlata e scritta (mail e whatsapp) di un consulente. Di dialetto in realtà ce n’è pochissimo ma ho avuto bisogno di usarlo per esprimere meglio certe sensazioni. Lo sperimentalismo linguistico vuole rifarsi a Fenoglio, albese come me, che della commistione ha fatto una cifra stilistica. Anche se per Fenoglio l’inglese è lingua letteraria mentre nel mio libro è la lingua colloquiale della consulenza.

A proposito di Fenoglio, ho ravvisato una certa somiglianza tra il finale del tuo romanzo (che non anticipiamo) e quello di “Una questione privata”. È stata una cosa casuale?

Assolutamente un caso, forse un rimosso, “Una questione privata” è stato uno dei miei libri preferiti ai tempi del liceo ma da allora non l’avevo più ripreso e il finale l’avevo completamente dimenticato. O è un rimosso o un caso, non è una citazione voluta.

Le figure femminili sono poco presenti nel tuo romanzo, come mai?

Il mondo della consulenza è e rimane prettamente maschile, nonostante tutti i tentativi più o meno di facciata fatti per cercare di renderlo più bilanciato ed equo da un punto di vista di genere. Di donne ce ne sono molto poche perché non è un mondo fatto per chi debba o voglia prendersi cura di una famiglia.

Quale è stata la motivazione principale che ti ha spinto a raccontare questa storia?

Io vorrei con questo romanzo porre la questione dell’importanza di alcune scelte, in particolar modo delle prime che ci troviamo a fare da giovani. Io sono convinto che la scuola, la famiglia e la società in generale dovrebbero aiutare di più i ragazzi a orientarsi nella scelta su cosa fare da grandi. I giovani hanno bisogno di essere guidati su base individuale, non di rifugiarsi in percorsi che vanno bene un po’ per tutti (l’università blasonata, la facoltà spendibile sul mercato del lavoro, la professione ben pagate). Poi volevo dare un’immagine da insider del mondo della consulenza, dandone un ritratto basato sulla mia esperienza diretta. Ma non voglio scoraggiare i giovani dall’entrare in questo mondo, quanto piuttosto usarlo come allegoria.

Il tuo esordio è molto vicino alla tua vicenda autobiografica. Che esperienza hai accumulato dopo aver lasciato The Boston Consulting Group e cosa è lecito aspettarsi come tuo prossimo lavoro?

Dopo la consulenza sono entrato nel mondo delle start up: un mondo affascinante che potrebbe finire in un prossimo romanzo, oppure in dei racconti. Ma non c’è ancora niente di concreto. Vorrei anche mettere ordine e pubblicare le poesie che ho scritto prima di dedicarmi alla narrativa con “Me non più”.

Estratto

Fuck.”

Rantolò. Spense la sveglia e buttò l’iPhone sul comodino. Si lasciò cadere supino, il debole corpo schiantato dalla forza di gravità. Le braccia aperte, il busto scoperto, gli occhi sbarrati sul soffitto. Immobile, sentiva svanire dalla pelle il tepore del sonno e dalla testa i sogni di quella notte interrotta.

“Dai dai dai dai” si incitò con un filo di voce.

Aveva già posticipato la sveglia due volte e non poteva concedersi il lusso di altri cinque minuti. I piedi, buttati fuori dalle coperte per primi, caddero sul pavimento di marmo ghiacciato con l’inaccuratezza di un quarto di manzo inerte. Un brivido freddo risalì rapido lungo la schiena prima di posarsi alla base del collo. Di colpo fu in lui sveglia la coscienza di un nuovo giorno in cui andare.

Riprese di soprassalto il cellulare.

Ma come cazzo è possibile?” disse ad alta voce guardando lo schermo che elencava ventitré mail non lette.

Con movimenti inesorabili inforcò le ciabatte e, sollevatosi finalmente dal letto, si trascinò nudo verso il bagno. La testa pesava e dolevano gli occhi. La luce del mattino rendeva il candore dei muri insostenibile. Richiudendo gli occhi, si sedette sulla tavoletta e portò le mani alla testa, sentendola pulsare insistente e regolare. La mente cadde inconsciamente sul fragore animale del suo getto: tanto rumoroso da sopportare che dovette deviarne la traiettoria verso più discreti anfratti.

Scorse lo schermo rapidamente per verificare che non ci fossero mail importanti. Sembravano tutte innocue. Tutte, tranne una, che aveva le tre peggiori caratteristiche: la parola “URGENTE” come oggetto, il partner come mittente, unico destinatario diretto: lui stesso. Ora di invio 6:47. Bestemmiò ma, invece di sbloccare il telefono per leggere il contenuto della missiva, lo lanciò sprezzante sul pianale del lavandino distante oltre un metro, per ribadire a se stesso che di quell’oggetto, costoso sì ma aziendale, non gli importava nulla. Poi decise di scrostarsi il sonno di dosso con una veloce sciacquata e di conservare le turbe della mail per la colazione con gli altri.

Si avviò ciondolando verso la doccia, pregustando il caldo effetto massaggiante, ma si fermò, abboccato all’impressione di aver visto qualcosa di strano passando davanti allo specchio. Si girò lentamente per dare tempo a quel fantasma discolorato e curvo di nascondersi ma, ritrovandoselo ancora davanti, decise di studiarne lo sguardo.

Appoggiò le mani sul marmo bianco venato di verde e si piegò sulla propria immagine nel grosso specchio appeso sopra il lavandino. Le occhiaie parevano l’opera di un artista gotico. Una tinta rossa sottostava al blu dominante, dandogli un aspetto violaceo che diventava intenso sulle palpebre. Dall’angolo esterno degli occhi si dipartivano almeno quattro rughe, sottili ma nette, sotto le quali si malcelava una macchiolina marrone, non più lunga di un centimetro e larga ancora meno: una piacevole addizione dell’ultimo mese. Stirò un sorriso esagerato per meglio scovare il percorso di quelle rughe e delle altre che sarebbero a breve spuntate. Passò poi la mano destra aperta tra i capelli, dissotterrandone a decine bianchi sulle tempie. Sparute tracce di bianco si trovavano ormai ovunque, piccoli parassiti irreprensibili che stavano colonizzando capello dopo capello anche la parte più alta della testa. Torcendo poi il collo al massimo da entrambi i lati, notò un primo accenno di doppio mento, visibile misura della rilassatezza non solo della pelle del collo, ma di ogni turgida giovinezza del corpo. Molle il torace, largo il ventre, flaccido il membro.

“Schifo”, disse con una smorfia e uscì dallo specchio.

Un nome in meno

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di Giorgio Mascitelli

Un nome in meno ( Ensemble, Roma, 2019, euro 15) è l’esordio nella narrativa del poeta Vincenzo Frungillo,  autore anche di testi drammaturgici.  Il romanzo è imperniato sul ritrovamento di una vertebra umana nel mare nei pressi di Monte di Procida nel napoletano da parte di una ragazzina quindicenne, Sofia: dapprincipio appare però incerto se ascrivere il senso del ritrovamento a un ordine criminale o archeologico dei fatti. Siamo nell’estate del 1993 e intorno all’evento si dipanano le vicende, perlopiù private ma dotate di un significato collettivo, di vari personaggi tra i quali il padre di Sofia, Pietro, in piena crisi matrimoniale da mezza età, Julia la prostituta ucraina di cui il detto Pietro s’invaghisce e Renata giornalista precaria incaricata dal giornale locale di seguire le notizie relative al ritrovamento, free lancer, verrebbe da dire, tanto nella vita professionale quanto in quella sentimentale.  Così la narrazione, come in molte opere contemporanee, non vede un protagonista singolo ma un gruppo di personaggi, tuttavia i loro percorsi esistenziali ruotano o per meglio dire conducono all’evento iniziale e centrale e finale del libro. Questa economia della trama rende convincente il romanzo, a dispetto di qualche didascalismo, rivelandosi un’istanza di sobrietà essenziale per non cadere nei rischi di modelli narrativi  in cui la pluralità dei personaggi diventa occasione di una proliferazione del tutto arbitraria di storie ed eventi, che è poi una tipica forma del romanzesco nella fase postmoderna.  E’ sempre in virtù di questa economia narrativa che si può parlare per Un nome in meno di plurivocità anziché di somma di monologhi.

E’ un romanzo in cui i personaggi tendono al loro fine con slancio, ma anche con quei limiti ed errori che caratterizzano le persone in carne e ossa: esempio più evidente ne è il tardivo ( in tutti i sensi) amore di Pietro per la bella Julia, che fatalmente per realizzarsi deve percorrere l’itinerario della salvazione della ragazza perduta ( la conquista della fiducia, i progetti, le  esitazioni, i rischi) dall’organizzazione criminale, che peraltro esprime una logica sociale di tipo generale. Proprio a questo livello si situa il primo nucleo tematico del romanzo che rimanda alla questione del rapporto sesso/potere, non solo nel senso di strumento di dominazione e di esibizione di quest’ultima, ma anche di sesso come succedaneo del denaro in quanto merce che esprime il valore di tutte le altre merci. E’ chiaro che qui Frungillo si muove in un ambito che richiama Doppio sogno, ma se in Schnitzler , in fondo,  questo tema è machiavellicamente un attributo della configurazione del potere che non può essere esplicitata a livello sociale,  esattamente come il desiderio sessuale sregolato è un elemento non dicibile nella vita cosciente e diurna di entrambi i protagonisti, qui nella periferia dell’impero esso è se non esibito, contenuto entro i limiti di una normale riservatezza e al contempo tangibilissimo orpello di chi detiene il potere.

Un punto cruciale del testo si ha nel secondo capitolo della seconda parte interamente occupato da una conversazione tra Renata e Cosimo, un collega di redazione esperto di questioni archeologiche, al quale la donna si rivolge sia per consigli nel suo lavoro sia per un’inclinazione sentimentale.  Cosimo, nel riferire gli esiti di scavi lungo il Tevere che hanno scoperto una necropoli occupata esclusivamente da bambini appena nati e da feti risalente al terzo o quarto secolo dopo Cristo,  presenta la sua interpretazione ritenendo un fatto altamente simbolico che “una società cristianizzata, che ha fatto dell’avvento di un fanciullo il segno della sua predestinazione alla grandezza, ricordi Virgilio?, i versi della quarta ecloga delle Bucoliche che studiavamo al liceo?, […] ebbene questa stessa società inizi la sua decadenza con la morte di giovani vite o addirittura di aborti” ( p.84). E la scoperta che la vertebra proviene da una buca presso l’antica spiaggia romana in cui si trovano resti ben più recenti resti di neonati  illumina retrospettivamente le parole di Cosimo.  Sembra insomma che ci si trovi di fronte a qualcosa che con buona approssimazione si potrebbe chiamare con De Martino apocalisse culturale; ma se una delle caratteristiche essenziali dell’esperienza apocalittica per il soggetto è la perdita di significato,  con una conseguente insicurezza anche negli atti più ovvi del quotidiano, del rapporto con la realtà, tratti di questo sentimento si ritrovano nella spesso debole ontologia dei personaggi del romanzo. La fine del mondo, o meglio di un mondo a cui è  sempre connessa l’apocalisse culturale, non è però quella del mondo contadino, ma del progetto emancipativo della modernità. Siamo nel 1993, scandito dalle notizie delle guerre di Jugoslavia e di Somalia, le guerre di allora cioè dell’epoca dell’annunciata fine della storia, e si delinea agli occhi del lettore un paesaggio di rovine architettoniche, umani e sociali fatte degli scheletri di una fallita industrializzazione, della ripresa dell’antica strada della migrazione e dei rivoli secondari del crollo dell’impero sovietico. Insomma quel tempo che appariva alle schiere degli entusiasti del presente come l’alba di un nuovo mondo perfetto viene restituito in poche mosse da Frungillo alla sua più verosimile natura storica  di crollo di una civiltà.

Al personaggio di Renata tocca in sorte il ruolo apparentemente più positivo, in realtà il più ingrato: è lei che arriva a scoprire la buca, o meglio è a lei che viene segnalata da Sofia e pertanto ha mediaticamente la maternità della scoperta, e a intuire gli oscuri legami tra il filone sessuale e quello archeologico sacrificale della vicenda;  con questo ritrovamento giunge per lei anche la lungamente attesa occasione professionale con il passaggio dalle pagine locali all’edizione nazionale del giornale.  Eppure nel momento stesso in cui raggiunge i suoi obiettivi professionali si accorge di dover rinunciare alla scrittura di una verità complessa in nome dell’adeguamento alle regole della comunicazione giornalistica che le impongono di “costruire una semplice mappa dell’orrore, di annotare la superficie” (p.191). Renata appare un personaggio dai forti tratti allegorici volta a rappresentare la condizione storica di un vasto ceto intellettuale irreggimentato dietro le trasparenti ma spesse sbarre di una gabbia, quello del mercato dell’informazione e della cultura,  costruita da una società in cui l’appello alla libertà è diventato il principale strumento retorico della dominazione. E così sul Miseno cantato dai poeti augustei finisce con il regnare una verità monca, parziale perché tutto ciò che non rientra nell’ideologia dominante, allora come oggi, non è dicibile.