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Il postino di Mozzi

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brani di Guglielmo Fernando Castanar (in corsivo) e Arianna Destito

Cominciai questo lavoro di raccolta dopo il terzo o il quarto mese da impiegato delle Poste. Il materiale arrivava alle Centrali di Padova, prelevavo direttamente dagli scaffali di mia competenza, e i primi tempi facevo un setaccio veloce e mi mettevo sotto la giacca uno o due plichi destinati a lei e li andavo a nascondere nell’armadietto personale dove tengo l’impermeabile della divisa e lo zaino con la colazione. Poi temetti di dare nell’occhio o che, anche se dicevano di no, che ci fossero videocamere, il fatto è che si sentiva sempre di indagini tra i dipendenti, di crimini postali, e avevo paura. Così decisi di lavorare diversamente, individuavo e sistemavo i plichi da sottrarle nelle borse della bici, ma li mettevo in disparte in modo, in seguito, da trovarli subito, poi uscivo per la giornata di consegna. Non andavo subito nella mia zona di competenza, ma prendevo via Cavallotti, oppure una delle vie dell’area in espansione, verso Padova est, e là cercavo un cantiere, mi fermavo un istante, controllavo che non ci fossero testimoni, ometti col cagnolino o tossici (a un postino non si fa caso), e infilavo i due o tre plichi tra i pancali, sperando non piovesse. Poi mi dedicavo alla regolare consegna e magari, non di rado, giunto a casa sua, le mettevo nella buca una lettera dell’Accademia, una rivista, o le consegnavo la raccomandata di un istituto che le mandava il programma del nuovo corso di scrittura narrativa. Portandole una raccomandata provavo a sfruttare l’occasione, lei mi salutava, ma non parlavamo mai, solo un giorno che dopo averle strappato un giudizio sul tempo le chiesi come vanno i libri e lei (non mi permise mai di darle del tu) mi rispose: «mah, le dirò che mi dà più soddisfazione, almeno in questo momento, fare i libri degli altri che i miei».                                                                
Non so se in quel periodo curasse già la collana di narrativa per Sironi, ma leggevo che molti editori si fidavano del suo giudizio, e gli autori, gli aspiranti, e pure gente affermata (anche se solitamente questi usavano altri canali) le mandavano cose da leggere, inedite o già pubblicate.
Poi, alla fine del giro ripassavo nell’area di espansione a prelevare il corpo. Bisogna dire che l’intenzione era sempre quella di sottrargliene addirittura tre o quattro per non essere costretto ogni giorno alla trafila del passaggio in cantiere. Purtroppo, a volte, accadevano degli imprevisti e, terminato il lavoro, tiravo dritto verso casa perché nel frattempo si era messo a piovere e allora il corpo si sarebbe rammollito, pagine incollate una all’altra, illeggibili ormai, oppure che ne so, passavo al cantiere, che a mio dire doveva essere deserto, e invece ci trovavo una coppietta e per non disturbare me ne andavo a casa senza corpi. Il vero guaio era quando riandando sul luogo a prelevare, sui corpi ci trovavo montagne di sabbia e cemento, betoniere e una squadra di manovali al lavoro.
Quanto a lei, lo sa, ho sempre fatto in modo che non si accorgesse mai di nulla. Ma a volte basta l’eccesso di zelo? Si parlava di una crescente sfiducia nelle poste, sebbene con me lei non si sia mai lamentato, quando sentiva i lamenti degli autori, strasicuri di aver mandato e rimandato. Ma permetta che glielo chieda: perché, Mozzi, lei che è scrittore e dotato di fantasia, del postino non sospettò mai?
Se di molti autori provvedevo a sottrarre anche le lettere accompagnatorie – soprattutto le seconde, quelle che seguivano l’invio, lettere di protesta, in primis, dapprima calme, poi, non di rado, piene di insulti, e alcune le strappavo dopo averle lette, e ad altre rispondevo con una lettera prestampata come quella usata dagli editori, oppure una lettera che andava dritta al merito: il romanzo in questione. «Gentile signore o signora, il suo romanzo è parecchio brutto. g», o la firma per intero, la sua, che tante volte le avevo visto fare sul bollettino delle raccomandate. Giulio Mozzi –, in somma, se le sottraevo tre o quattro corpi in una settimana, ma mai di più, con altrettante lettere, poi stavo un mese senza sottrarle altro. Certi periodi invernali non operavo proprio, specie da quando i corpi in casa cominciavano ad ingombrare la stanza, e leggerli tutti diventava impossibile. (Da un paio d’anni ho affittato il magazzino qui sotto casa: le cose della pesca, lo strano odore di alghe, due bici, due casse di vino che mi regalate voi clienti, e la quantità orrenda di corpi che stringe già anche le pareti del magazzino). Bene, ora che sono in pensione smaltirò i corpi accampati e man mano me ne libererò.
Tanta è letteratura scadente. Ma lo sa. All’inizio, agli autori poco bravi rispondevo che erano storie bellissime e li pregavo di mandare ad altra gente, amici suoi, scrittori, editori, e addetti ai lavori, suggerendo di farlo senz’altro a suo nome.

Ora voglio inserire un altro brandello di corpo. Sa, una voce femminile, dopo tante maschili, non guasta. Si ricorda di Arianna Destito? Forse sì, forse no… dipende da cosa è giunta tra le sue mani. Insomma, anzi, in somma, non ricordo perfettamente cosa ho sottratto o meno. Ma questo che segue, sicuramente, non l’ha mai letto.

Corpo 10

Arianna Destito

Il Maresciallo in pensione Adalgiso Maffeo trascorreva le giornate nel suo vecchio quartiere di Nervi a Genova. Un quartiere per modo di dire, nessuno lo chiamava così. Nervi era un paese, anzi, Nervi era semplicemente Nervi. Un posto che brillava di luce propria. Dove le palme svettavano, il sole era prepotente e l’aria frizzante del mare solleticava le narici come un bicchiere di champagne. Fu proprio lì che per molto tempo il Maresciallo Adalgiso Maffeo aveva vissuto e lavorato. Ora non gli restava che prendere il gelato da Giumin e passare di tanto in tanto dal vecchio commissariato a salutare i nuovi agenti. L’irreprensibile maresciallo era ben voluto da tutti. Per molto tempo si era distinto per il suo fiuto investigativo e qualche volta era anche finito sui quotidiani locali. Aveva partecipato alla cattura del famoso ladro della Costa Azzurra. Quello che ispirò il film Caccia al ladro con Cary Grant, per intenderci. Si diceva persino che in tempo di guerra avesse nascosto una famiglia ebrea nel suo ufficio sotto il naso degli ufficiali nazisti. A molti dava fastidio il suo modo di condurre gli interrogatori, con il piglio e la gentilezza delle buone maniere, in pratica faceva cantare i delinquenti, offrendogli il caffè e un sostanzioso pasto. Il risultato era quasi sempre garantito. Al Maresciallo Maffeo non la si faceva.
Una mattina aveva deciso di portare ai Parchi di Nervi la nipotina Irene, di sette anni. Una bambina strana, pensava. Non ride mai. E guarda con certi occhi glaciali. Quando lo fissava lui si sentiva a disagio. Il Maresciallo osservava Irene giocare, sembrava che la bambina vivesse in un mondo tutto suo. Spesso evitava gli altri bambini, sembrava annoiarsi con loro. In compenso giocava con la terra, le foglie, i rametti, in un angolo che sembrava una casetta ricavata tra alberi e ponticelli di legno. Era davvero strana. Sia chiaro, il Maresciallo adorava Irene, ma qualcosa gli sfuggiva. L’istinto del poliziotto non lo abbandonava neppure in pensione. Soprattutto vedeva pericoli ovunque. E cercava di mettere in guardia la piccola nipote.
“Irene, li vedi quei ragazzi lì? Sono dei drogati”, le sussurrò un giorno all’orecchio, indicando un gruppo di giovani euforici ai bordi del prato.
“Ballano, nonno”.
“E certo, sono sotto l’effetto della droga”. Non aggiunse altro. Fino a che, tra un pensiero e l’altro, quel giorno successe l’imprevedibile. Lui uscì dal vespasiano accanto al cancello dei Parchi e sua nipote non c’era più. In un attimo gli successe quello che non avrebbe mai immaginato. …

Giulio, sa che quando ho aperto il bustone e  ho letto la storia di Rocco mi sono pentito d’averglielo sottratto, non perché mi fosse sembrato così bello (è bello, ma lo è quanto altri scritti per cui non mi sono sentito in colpa) ma perché è necessario, lo è sì, far conoscere un partigiano del Sud che ha fatto la Russia, che ha fatto l’amore per togliersi il freddo, e sottrarre le parole al suo destino… Ma ci pensa, uno come me che non scambia una parola durante il giorno e la sera legge di un umano che ha fatto l’amore per togliersi il freddo per salvarsi… Come potrò io sciogliere il ghiaccio di questa esistenza?

 

NdR: questi brani sono tratti dall’anomalissimo “Il postino di Mozzi”, uscito da poco con Arkadia Editore (Cagliari). Guglielmo Fernando Castanar, l’autore della lettera a Giulio Mozzi riportata nel libro, è un postino in pensione, che intramezza alla sua lunga missiva un festival di frammenti, un mostruario sottratto in venticinque anni di lavoro: tutte lettere allo stesso Mozzi che lui non ha mai consegnato, e che si è tenuto. Le parti in corsivo sono tratte dal suo testo, mentre i frammenti delle missive non consegnate sono di Arianna Destito (quello riportato), Adrian N. Bravi, Alessandro Gianetti, Alessandro Zaccuri, Beppe Sebaste, Carlo Grande, Claudio Morandini, Amilia Marasco, Fernando Guglielmo Castanar, Francesco Forlani, Franco Arminio, Franz Krauspenhaar, Giacomo Sartori, Giorgio Vasta, Giovanni Agnoloni, Marco Candida, Marco Drago, Mario Bianchi, Marino Maglian, Matteo Galiazzo, Mauro Baldrati, Nunzio Festa, Paolo Morelli, Riccardo De Gennaro, Riccardo Ferrazzi, Sergio Garufi, Stefano Zangrando, Valentina Di Cesare e Walter Binaghi.

 

Discorrere di case

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di Gianni Biondillo

La prima volta che andrò a San Francisco so già che passerò un’intera giornata a perdermi fra i corridoi e gli scaffali della William Stout Architectural Books, alla ricerca di libri introvabili, di tavole misteriose, di scoperte inattese: architettura e libri in un solo luogo, per me praticamente il nirvana. Testi critici, disegni, corrispondenza, tutto il pensiero e l’immaginario dell’architettura mondiale, con la malcelata speranza di trovarci persino uno dei miei libelli, mai tradotti in inglese. O magari ce lo porterò io per poi abbandonarlo su qualche pigna di tomi, per il puro piacere di sapere d’essere in buona compagnia.

E invece so che anche quest’anno, come al solito, alla Biennale di architettura di Venezia non ci andrò, nonostante sia a poche ore da casa. Ogni volta accampo scuse implausibili, ogni volta trovo una ragione per non passare. Ciò fa di me un pessimo architetto, lo so. La Biennale è come una tassa, inderogabile, anche solo per avere argomenti di discussione se si incontra qualche collega. La mia fortuna è che, per quanto ancora iscritto all’Ordine, nei fatti sono visto e riconosciuto come scrittore. Posso permettermelo, insomma, di non andarci. Ma io alla Biennale non ci andavo neppure quando per lavoro disegnavo, discutevo con i tecnici comunali o m’infangavo le scarpe nei cantieri. Se poi penso alla particolarità di quest’anno, due donne che curano la mostra e, fra gli altri, una cara amica, Laura Peretti, che espone il suo lavoro di rigenerazione del Corviale, so che mi sto perdendo qualcosa di interessante. È un problema mio, ben inteso, non della Biennale. Quelle poche volte che mi ritrovo dentro una mostra d’architettura – che sia a Milano, Londra, New York – non ostante sia argomento che mi appassiona e che reputo fondamentale per tutti noi, quando ne esco, quasi vergognandomene mi tocca ammettere a me stesso, rosso in volto, che le mostre di architettura in definitiva, diciamocelo, mi annoiano.

Perché, inutile negarlo, quello che andiamo a vedere non è l’architettura ma un suo vago simulacro. Manca l’esperienza sensoriale dello spazio, del percorso, dei materiali, dello scambio simbolico. È come una mostra d’arte che al posto delle opere espone le recensioni dei critici o una retrospettiva cinematografica che esibisce le sceneggiature e qualche rara fotografia del set al posto di proiettare i film. Una noia mortale. Ci si sente truffati, in un certo senso.

Non è mica colpa dei curatori, ben inteso, il difetto sta nel manico e non c’è soluzione. Ogni mostra di architettura è obbligata ad appoggiarsi ad altre discipline per raccontarsi – cinema, fotografia, allestimento, etc. -, e l’architettura diventa l’intangibile buco della ciambella, la grande assente. Delle rare Biennali veneziane che ho visitato, a ripensarci, ricordo con emozione il padiglione del Venezuela di Carlo Scarpa, chiuso e abbandonato, piuttosto che le declinazioni del tema voluto dai curatori del caso e realizzate dagli architetti invitati, che sembrano più vicine all’arte contemporanea che alla architettura stessa.

C’è una frase, attribuita di volta in volta a qualcuno di diverso (fra questi Frank Zappa) che dice: “Scrivere di musica è come ballare di architettura”. Non ha senso. Se non si fa esperienza della musica non la si può capire per davvero. Le emozioni che fa scaturire sono possibili solo ascoltandola. Altrettanto è con l’architettura. Fu Bruno Zevi, nel suo imprescindibile Saper vedere l’architettura, a spiegarci che l’essenza dell’architettura sta nel suo essere spazio attraversabile, percepibile con tutti i sensi. Fregi, modanature, simmetrie, disegno, ordini, facciate, sono tutte cose che vengono dopo. L’architettura è innanzitutto spazio. E non ci sarà mai fotografia che potrà restituirmi l’esperienza emotiva che posso vivere attraversando un’opera di Hans Scharoun o di Luis Barragan. L’elemento fondamentale che definisce l’architettura è proprio quello che nessuna mostra potrà mai restituirci: il rapporto di scala fra l’essere vivente e lo spazio.

Lo spazio architettonico è quello che permette a un vuoto di diventare luogo. Di renderlo, cioè abitabile. Le parole, per uno scrittore, sono importanti. “Abitare” viene da Habere, avere consuetudine in un (e di un) luogo. Abitare è un’abitudine. Ma, attenzione, anche “Abito” ha la stessa origine etimologica: Habere, avere con noi, portarci dietro, come una disposizione dell’animo. In pratica l’abitazione dovrebbe essere come l’abito di una persona, fatta su misura.

Non a caso si raccontano spesso aneddoti feroci sul rapporto fra architetti e committenti. Rapporto conflittuale, quando le sensibilità degli uni e degli altri non riescono ad incontrarsi a metà strada. Quella serpe di Adolf Loos, per dire, raccontava con ferocia che Henry Van De Velde non solo disegnava le case ma obbligava i suoi ricchi commitenti a vestirsi in modo confacente al suo progetto. Ciabatte comprese. La famosa casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, capolavoro del XX secolo, veniva chiamata con malcelato disprezzo dal ricco proprietario Edgard Kauffmann “la casa dai sette secchi”, date le continue infiltrazioni d’acqua. E che dire del psicodramma sorto attorno alla costruzione di Farnsworth house? Ludwig Mies van de Rohe aveva progettato un platonico cristallo minimalista sospeso su candidi pilastri d’acciaio. La dottoressa Edith Farnsworth, la proprietaria, viveva con imbarazzo l’idea di girare in una casa dove tutti da fuori potevano osservarla. Il braccio di ferro fra i due si risolse con la progettazione di tendaggi oscuranti, fatture non pagate, cause, processi, maschiliste maldicenze sulla dottoressa invaghita e tradita dal “genio”.

Non è un problema di stile. Non è perché le case del Movimento Moderno, pensate come macchine da abitare (a detta di Le Corbusier), non sappiano essere emozionanti. Lo si capisce quando il progettista e il committente si incontrano nella stessa persona. Come nel caso più unico che raro di Casa Cattaneo a Cernobbio. L’edificio fu progettato nelle migliori delle condizioni di libertà creativa per il giovane progettista. Cesare Cattaneo, appena laureato, aveva ricevuto in regalo il terreno dove poter edificare senza alcun vincolo quello che più desiderava. La casa fu pensata fin nei suoi più intimi particolari, con una meticolosità fanatica. Una sorta di modello in scala 1:1, un enorme prototipo che doveva dimostrare la forza poetica del linguaggio moderno, la sua realizzabilità (siamo negli anni trenta del secolo scorso), la sua intrinseca qualità. Nulla fu lasciato al caso, ogni tema sviscerato: il negozio a doppia altezza al piano terra, quello che si apre sulla città, gli appartamenti ai piani superiori, la terrazza all’ultimo piano affacciata sul panorama lacustre. Progetto libero da condizionamenti perché non tenuto, come ebbe a dire Cattaneo stesso, a “soggiacere alla volontà tirannica dei clienti”. Un capolavoro che purtroppo non ha avuto seguito essendo Cattaneo morto giovanissimo. (Mi sono accorto che gli architetti o muoiono molto giovani, vedi Sant’Elia o Terragni, oppure vecchissimi, come il quasi centenario Giovanni Michelucci o l’ultracentenario Oscar Niemeyer. Avendo io superato da bel po’ la giovinezza mi auguro sempre più convintamente di appartenere alla seconda categoria).

Ogni casa, insomma, porta con sé una storia, un mondo. Spesso mi accorgo quanto un appartamento mi dica molte cose di chi lo vive. Gli oggetti quotidiani, gli arredi, i quadri o le fotografie ai muri, ci vestono, ci rappresentano, esattamente come quando indossiamo un abito. Perché ogni casa, dal ricco maniero al monolocale in affitto, assomiglia alla persona che la abita. Anche qui il gioco delle etimologie può tornare utile. “Persona” deriva da Per Sonar, la maschera in legno che serviva a rafforzare il suono della voce nel teatro antico. La casa è innanzitutto la creazione di un ambiente ideale. Ma “ambiente” viene da Ambire, cioè andare attorno come l’aria, o come le persone attorno alle quali si vive. Quindi quando si abita una casa si indossa una maschera che dà un’idea di sé a se stessi e al mondo circostante. Oggi, in un mondo di risorse scarse, abitare significa stare in una casa sostenibile, ecologica. Inevitabilmente, mi viene da chiosare, dato che “Ecologia” deriva dal greco Oikos logos, “discorso sulla casa”: lo studio delle relazioni fra l’umano e il mondo vivente.

Abitare un ambiente ecologico, traducendo, significa fare un discorso sulla casa che sappia mettersi in relazione l’intorno: le nostre consuetudini ricadono sulla città. Luca Molinari nel suo agile Le case che siamo racconta come il telelavoro abbia annullato la differenza fra casa e ufficio, al punto che ogni luogo può diventare quello della produzione, e come la reazione a un lavoro domestico sempre più solitario e alienante fa sì che molti colletti bianchi colonizzino bar e locali pubblici con i loro computer, lavorando e allo stesso tempo non perdendo il contatto con la gente, con la realtà.

Stiamo domesticizzando lo spazio pubblico. Alcuni oggetti di culto della casa moderna, novecentesca e borghese, sono perfettamente inutili per le nuove generazioni. Fate un test (io l’ho fatto con le mie figlie): fra televisore e computer vince il computer. Fra computer e smartphone vince lo smartphone. Tutto si miniaturizza, diventa etereo. Oggi l’infrastruttura necessaria, indispensabile, in ogni casa, in ogni città anzi, è il Wi-Fi.

Questo significa che non avremo più mobili in casa? Ovviamente no. L’abito lo indossiamo noi, abbiamo un limite antropologico: il nostro corpo. Ce lo insegna l’erogonomia. Entrare in relazione con le tecnogie significa renderle usabili. Personalizzarle. Oggi si dice customizzare (parola che odio). Credo sia questo il compito del design del futuro: far interagire corpo e tecnologie in modo personale. Non dobbiamo avere 10, 20, 50 tipi standard di prodotti che ognuno di noi poi sceglie da un catalogo. Dobbiamo progettare processi produttivi che possano adattarsi alle esigenze di ogni singolo. Ognuno avrà la sua sedia, il suo letto, la sua parete attrezzata. “Customizzata”. Già si può fare. È quella che oggi si chiama l’industria 4.0. È il futuro della produzione manifatturiera che riallaccia i rapporti con l’artigianato. Ad ogni persona il suo abito. Ad ognuno la sua abitazione. Il futuro dell’abitare non sarà uguale per tutti, ognuno deciderà come abitare. Su misura.

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(precedentemente pubblicato in una versione leggermente differente su Lampoon n°15, novembre 2018)

I am the Revolution

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di Giuseppe Acconcia

Abbiamo assistito al Cinema Rex di Padova alla proiezione di “I am the Revolution”, documentario di Benedetta Argentieri, realizzato da Possibile Film. La regista che aveva realizzato “Our War”, insieme a Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia, raccontando le storie degli internazionalisti che si sono uniti ai combattenti del Rojava, Joshua Bell, Karim Franceschi e Rafael Kardari, torna sul tema dei movimenti curdi. “Ho voluto scardinare il racconto mainstream sulla lotta delle donne curde rappresentando la loro vera quotidianità”, ha spiegato Benedetta.

Questo documentario racconta la storia di tre donne rivoluzionarie in Siria, Iraq e Afghanistan: Yanar Mohamed che organizza, attraverso rifugi per donne in fuga dalla tratta, da violenze familiari e dalla prostituzione, un piccolo esercito pronto a combattere per i diritti delle donne; Rojda Felat, comandante delle Forze siriane democratiche (Fds), che raggruppa combattenti curdi e gruppi arabi, sostenuti dagli Stati Uniti, nella lotta contro lo Stato islamico (Isis) in Siria, arrivato alle sue fasi finali con la liberazione di Bhaguz; e Selay Ghaffar, portavoce del partito della Solidarietà (Hambastagi) in Afghanistan, unico partito laico e progressista del Paese e l’unico con una leader donna.

Le tre protagoniste del film hanno dedicato la loro vita a rendere consapevoli le donne dei loro diritti, delle loro possibilità, a combattere le regole patriarcali dei tre Paesi in cui vivono. Per esempio Selay ha passato la sua vita a educare le donne e lottare per la loro indipendenza e ora cerca di trasferire questa esperienza ovunque, di villaggio in villaggio. Da parte sua, Rojda guida 60mila uomini e donne dell’Sdf nel nome della parità di ruoli tra uomini e donne delle Unità di protezione maschili e femminili (Ypg-Ypj).

Il racconto è arricchito dalla testimonianza di una giovane combattente araba che si unisce ai curdi nella lotta di liberazione del Rojava. L’esclusivismo rispetto ad altre minoranze è una delle accuse principali che viene mossa ai combattenti curdi nel Nord della Siria, impegnati a mettere in pratica gli ideali di Abdullah Ocalan di uguaglianza tra uomini e donne, ecologia e autonomia democratica. Questi temi sono trattati con grande spessore nei film “A flag without a country” di Bahman Ghobadi e “Filles du feu” di Stéphan Breton.

Eppure il tentativo delle curde del Rojava è davvero rivoluzionario, come ci aveva spiegato la comandante Ypj Rojin in un’intervista realizzata a Kobane nel 2015. “L’amore è essen­ziale, parte dell’istinto di ognuno. La filo­so­fia della morte è un modo di vivere. Nel pas­sato tutti sape­vano che a breve sareb­bero morti ora non è così e que­sto ci discon­nette dalla natura e non ci fa accet­tare l’idea di morte. La reli­gione sfrutta la morte: se sei mar­tire vai in para­diso. Per noi amore e morte sono in con­trad­di­zione: quando ne discu­tiamo è per cer­care una nuova vita mili­tare, comu­ni­ta­ria, quo­ti­diana. La donna non è fatta solo per avere figli. Vogliamo rifor­mare, rin­no­vare la comu­nità”, ci aveva spiegato Rojin.

Il documentario riporta la vita di tutti i giorni di queste attiviste e combattenti, nei loro dialoghi con gli uomini, nelle ore passate a discutere con le donne avvolte nei loro burqa, nelle ore trascorse a pranzare sedute in terra, nelle difficoltà quotidiane che si vivono in un contesto di guerra. Eppure la guerra è suggerita e richiamata ma non appare con il suo volto più scontato della prima linea e delle macerie ma nel piangere le martiri dei combattimenti in un cimitero o nelle dichiarazioni ufficiali di Rojda dopo la battaglia. Questo rende l’opera matura e interessante, confermando l’impegno di “giornalista di guerra” dell’autrice che non vuole indulgere in facili autocelebrazioni.

Il documentario suggerisce che le riprese sono terminate nei mesi in cui la roccaforte di Isis, Raqqa, è stata liberata da Isis, nell’ottobre del 2017. Da allora i combattenti curdi hanno subito l’occupazione del cantone di Afrin da parte dell’esercito turco nell’ambito della sciagurata operazione “Ramoscello di Ulivo”, l’annuncio del possibile ritiro unilaterale delle forze Usa presenti nella regione e la liberazione di Baghuz. La liberazione di Kobane per la prima volta nella storia curda ha reso le diaspore curde non più vittime di un oppressore, come è stato per esempio al tempo di Hussein in Iraq, ma in prima linea per difendere la libertà e i diritti delle donne. Cosa succederà ora a questo esperimento così innovativo in una regione così pervasa da spinte conservatrice e islamiste radicali?

 

Mots-clés__Turismo

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Duane Hanson, Tourists I, 1970, Polyester resin and fibreglass, painted in oil, and mixed media

Turismo
di Ornella Tajani

Kraftwerk, Autobahn -> play

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Duane Hanson, Tourists I, 1970, Polyester resin and fibreglass, painted in oil, and mixed media

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da Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, 2008, p. 157.

Il turismo è l’altro grande marchingegno inventato dall’Occidente per de-realizzare il mondo. Andava ancora bene quando il turista partiva per luoghi avventurosi, dove non l’aspettavano; era una conoscenza superficiale, ma pur sempre di qualcosa che si poteva definire realtà. Pian piano il turista ha cominciato a frequentare luoghi preparati per lui: ogni punto bello del mondo è diventato un set. Quello è il modello di realtà che riportiamo indietro, e che a sua volta fornisce l’immagine mentale dei nostri interventi “reali” nel Terzo Mondo.
Ogni de-realizzazione è frutto di un avanti-e-indietro. Indimenticabile, a Dubai, la pista da sci: con la neve vera e un tratteggio di vette nel serpentone di cemento, isolato alla temperatura fissa di due gradi sotto zero, come nei frigoriferi lo scomparto dei surgelati. E gli arabi danarosi che si tolgono le loro belle vestaglie bianche e indossano i maglioni e le giacche a vento per farsi cinquecento metri in discesa, aspettando lo skilift che li riporti in su; mentre all’ingresso brilla l’insegna Saint Moritz. «Io mi diverto con quel che ho preparato per te, ma tu per favore trasforma in divertimento quel che io sono». Quei ragazzi al mattino sul viale Bourguiba, sotto un’enorme parabolica, con la nebbia che si taglia col coltello, sembrano molto poco convenzionali, così poco convenzionali che ti vien voglia di scattare una foto – ma così facendo li hai già catturati nel tuo mondo fittizio, pittoresco e non reale – della loro vita, oltre i limiti della foto, non te ne importa più niente. Alfredo veniva nel Terzo Mondo per cercare il soddisfacimento dei propri fantasmi, ma in fondo anche noi: ogni turismo è turismo sessuale.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Tre poesie di Rudian Zekthi

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(traduzione di Julian Zhara)

Mangiare le uova

Ho scoperto che posso mangiare le uova.
Come cervello di pioppo mi trascino sul muro mentre
Il dorso delle farfalle attorno alla luce, cerca di toccarmi con la lingua.
Si trascinano su questo bordo, sotto l’arsura del sole
Le persone e il loro sudore. La notte. Cerchi di mercurio
Siccome illuminano l’inferno significa che l’inferno esiste. Il cuore
Si posiziona in modo che se lo osservi orizzontalmente
Sotto l’unghia, si differenzia il cuore dal petrolio quanto la barba.
Dall’uovo sgorga grasso uguale alle falene da ingrasso
Il mare si ingrossa per merito loro.
Appena l’uovo si è spaccato, la stanza si è abbellita bisogna
Mangiare fuori. Ma la stanza non si mangia,
Dentro c’è un campo di grano
E i cerchi di mercurio che si alzano, abbassano, dal rumore
In verità solo dentro. Come seconda cosa vediamo nuvole scoperte
È più chiara la metà che la parte intera. Ho scoperto che la stanza
Non si mangia ma cresce ritmicamente in punti diversi
Dell’uovo. La notte. Notte come buco di petrolio sul camino della terra.
Nella forma di mezzo uovo ogni dito dell’uomo
Circondato dalla finestra dentale della barba. L’uovo
Come una freccia, fissa il mio cervello dove ingiallisce.
In questo cielo meccanicizzato dagli spiriti
Escluso il singhiozzo degli esseri a me simili.

 

 

Ngrënia e vezëve

Zbulova që mund të ha vezë.
Si tru plepash zvarritem në mure duke më prekur
Mua me gjuhë pllaja e fluturave përreth dritës.
Zvarriten në këtë pllajë nën zhuritjen e diellit
Njerëzit dhe djersa e tyre. Natën. Rrathë merkuri meqë
E ndriçojnë ferrin do të thotë se ka ferr. Zemra
Vendoset në atë pozicion që duke e parë horizontalisht
Poshtë thoit ta shquash zemrën si naftë sa mjekra.
Nga veza rrjedh yndyrë e barabartë me majmërinë
E fluturave të natës deti trashet prej tyre.
Sa u ça veza dhoma u zbukurua dhe jashtë
Saj duhet ngrënë. Por dhoma nuk hahet
Një arë me luledielli ka brenda saj
Dhe rrathë merkuri që ulen ngrihen përgjatë zhurmës
Së faktit brenda. Për së dyti shohim re të pambuluara
Nga qartësia më e madhe e gjysmës se e së tërës. Zbulova që Dhoma
Nuk hahet por po rritet ritmikisht në pika të ndryshme
Të vezës. Natën. Nata vrimë nafte në oxhakun e dheut.
Në formë gjysmëveze çdo gisht i njeriut
Rrethuar nga dritarja dhëmbore e mjekrës. Veza
Si shigjetë e ngul trurin tim aty ku zverdhet.
Nën këtë qiell të mekanizuar nga shpirtrat
Veç nga rrënqethja e qenieve të ngjashme me mua

 

 

 

Orizzontalmente

Mentre mi toglievo le mutande ho visto
Negli abeti azzurri strati grandi di
Gemiti. Gli asini saltavano come molle
Perché non puoi guardare
Asini saltare come molle e non venirti
In mente che la rivoltella si poteva
Inventare quando volevi
Dal principio. Gemiti freddi
Come ferri che tocchi in ritardo
Contro-risposta del sole alle nuvole
Dove un po’ prima c’era la polvere.

 

 

Horizontalisht

Duke hequr brekët pashë
Në bredhat e kaltër shtresa të gjera
Gjëmimesh. Gomerët hidheshin si susta
Sepse nuk mund të shohësh
Gomerë që hidhen si susta e t’mos të shkojë
Ndërmend që revolen mund ta kishe
Shpikur kur të doje
Nga e para. Gjëmime të ftohta
Si hekura që i prek me vonesë
Kundërpërgjigje ndaj reve
Ku pak më parë s’kishte pluhur.

 

 

 

La sparizione della contentezza

Era passata un’ora che vivevo lontano dai miei vestiti
Quando hanno iniziato a perdere sangue. Uno strappo
Di questo tipo, per sentirsi disprezzati
Non lo puoi affrontare –
Questa possibilità di mischiare il sangue con l’olio scivoloso.
Sulle mie ossa la primavera si sentiva vuota
Fin quando sono cadute le foglie così presto
Sono finiti i vestiti da togliere ma la carne
L’ho data in pegno all’omicidio da una canzone
Con una superficie intoccabile. Ora solo il mio sangue
È visibile invece percepisco un disprezzo
Non affrontabile nel finire della canzone.

 

 

Zhdukja e kënaqësisë

Kisha një orë që jetoja larg rrobave të mia
Kur nga ato filloi të rridhte gjak. Një grishje
Të tillë për ta ndjerë veten të përbuzur
Nuk mund ta përballosh –
Këtë mundësi të përzierjes së gjakut me vajin e rrëshqitshëm.
Në kockat e mia pranvera e ndjente veten bosh
Gjerkur kaq shpejt ranë gjethet
U mbaruan rrobat e zhveshura kurse mishin
Ia dhashë hua vrasjes nga një këngë
Me sipërfaqe të paprekshme. Tani i dukshëm
Është vetëm gjaku im teksa ndjej një përbuzje
Të papërballueshme për mbarimin e këngës.

 

*

 

Rudian Zekthi (1970) è stato degli autori di punta e dei più grandi innovatori della Nuova Poesia Albanese postcomunista, assieme a Ervin Hatibi, Agron Tufa e Virion Graçi. Molto attivo a inizio anni Novanta, si distacca dalla creazione poetica per un decennio, dedicandosi agli studi letterari e filosofici. Ritorna nel 2011 con la raccolta di tutte le sue poesie “Panair” [Fiera]. Insegna Teoria della Letteratura e Filosofia dell’Arte all’Università di Elbasan.

 

La misura della schiettezza. Michele Mari, «Dalla cripta»

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28 ottobre 1984, derby di andata Milan-Inter: Mark Hateley supera Fulvio Collovati e segna di testa il gol del 2-1 che consegna la vittoria al Milan

di Antonella Falco

Immaginate un derby Milan-Inter raccontato come fosse un’epica e cruenta battaglia, considerate i calciatori delle due squadre alla stregua di valorosi antichi guerrieri e al posto della solita telecronaca figuratevi un novello aedo che in endecasillabi sciolti canti le gesta di questi eroi del pallone e avrete un’idea dell’Atleide, il poema lungo 1148 versi (e lasciato incompiuto) che Michele Mari ha dedicato a Mark Hateley, attaccante inglese in forza al Milan, squadra del cuore dello scrittore, a metà degli anni Ottanta. L’Atleide è certamente il fiore all’occhiello di Dalla cripta, la raccolta poetica di recente pubblicata da Einaudi nella quale Michele Mari raccoglie componimenti di vario metro, composti in un arco di tempo che va dal 1973 al 2017. Niente a che vedere con Cento poesie d’amore a Ladyhawke, il canzoniere amoroso dato alle stampe nel 2007, Dalla cripta è un’antologia che raccoglie esperimenti poetici fra i più vari: esercizi di stile, versi d’occasione, componimenti osceni, divertimenti e scherzi di un autore incline più al dialogo con la tradizione letteraria (Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi…) che con i propri coetanei. Nella prima sezione, Rime amorose, accanto ai sonetti di chiara ispirazione stilnovistica, spiccano due sestine, composte a ventisette anni di distanza l’una dall’altra, la prima nel 1982, la seconda nel 2009. Non sorprende che Mari abbia voluto cimentarsi con questo metro così particolare, da sempre sinonimo di virtuosismo per via della sua stessa struttura metrica che vede la presenza di sei stanze – di sei versi ciascuna – caratterizzate da sei parole-rima disposte secondo lo schema della retrogradatio cruciata, per poi ripresentarsi, due per verso, nei tre versi finali del congedo. A ben vedere proprio per la sua artificiosità e per l’estrema complessità tecnica, la sestina risulta un metro congeniale a Mari e alla sua nota volontà di gareggiare con le forme, i modi, gli stili, la lingua della tradizione letteraria. Il fatto poi che la rigida struttura del componimento porti inevitabilmente ad una prevalenza dell’aspetto formale su quello contenutistico e che pertanto spetti alla bravura del poeta l’ardua impresa di sviluppare un pensiero coerente all’interno di uno schema tanto rigoroso e cristallizzato deve essere parsa senz’altro una ghiotta sfida agli occhi di Mari, tanto più poi se «nella sua geometrica strutturazione, regolata da leggi matematiche ispirate a presupposti numerologici (il ‘sei’ è uno dei numeri perfetti della tradizione esegetica biblica), la sestina si presenta come una sorta di metafora del pensiero umano che organizza l’apparente caos dell’universo fenomenico: lo sforzo del poeta mira infatti ad instaurare, potremmo dire a ‘ritrovare’ precisi quanto sottili e reconditi rapporti tra entità ‘vuote’ ed autonome (le parole-rima) ricomponendole in un superiore e tutto intellettuale ordine» (Francesco Bausi, Mario Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Le Lettere, Firenze, 1998). Inoltre una tanto ferrea strutturazione formale significa anche – le nove sestine, di cui una addirittura doppia, dei Rerum vulgarium fragmenta petrarcheschi ce lo hanno ampiamente dimostrato – farne un metro adatto ad esprimere l’ossessione, nella fattispecie quella amorosa. Ad ogni modo, l’ossessione, di qualsiasi natura essa sia, è uno dei temi narrativi cari a Mari, come ben sanno i suoi lettori più affezionati.

Nella sezione Altre rime il primo sonetto, datato 1983, attraverso il ricordo della cameretta del poeta (« O cameretta, che già fosti un porto/ al corso di mia chiusa giovinezza,/ intima pace e solida fortezza, / rifugio di penombra e mio conforto, / […] O cameretta, dolce mia prigione/ che mi avvolgesti morbida e sicura/ come la buona terra avvolge il seme») ci restituisce la figura dell’autore negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza: ragazzino di indole precocemente incline alla solitudine e al ripiegamento interiore, riflessivo e aristocratico, da sempre avulso a confondersi con la massa e con una spiccata propensione alla lettura più che alla vita estroversa. Si nota in questa sezione la ghirlanda formata da sei sonetti e un componimento in ottonari, quest’ultimo in lingua francese. Composta nel 2016, essa è incentrata sul tema del tempo, altra grande ossessione dell’autore, per il quale esso viene coniugato per lo più al passato: «perché il passato è tutto, e siamo suoi», come recita uno dei versi più emblematici di questa ghirlanda, come dell’intera raccolta. «Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione del reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura». Così scriveva Michele Mari dando inizio al suo diario militare, Filologia dell’anfibio, a conferma del fatto che il passato rappresenta per lui la sola dimensione temporale capace di inverare il tempo presente e di dare un senso agli eventi futuri. Lo stesso passato, fatto stavolta di reperti poetici, ai quali Mari attinge per comporre questa raccolta alla quale non poteva dare titolo più paradigmatico: la “cripta” in questione è infatti un ideale sacrario della letteratura, luogo deputato a custodire reliquie preziose, dunque scrigno e insieme tempio destinato alla conservazione e al culto dell’unica religione che abbia mai infiammato l’animo di Mari: quella della Parola letteraria. La sezione si chiude con La canzone della montagna, nella quale i versi «ma sol che m’avvicini, ma sol ch’io vi salga/ risento la carezza che dava la mia mamma», richiamano alla mente la figura di Iela Mari, madre dell’autore, straordinaria illustratrice e autrice di libri per l’infanzia ma anche abilissima scalatrice come ricorda il figlio in alcune pagine di Leggenda privata che documentano, anche fotograficamente, la sua passione per l’alpinismo a cui si dedicò da ragazza in compagnia di due illustri amici: Walter Bonatti e Dino Buzzati.

28 ottobre 1984, derby di andata Milan-Inter: Mark Hateley supera Fulvio Collovati e segna di testa il gol del 2-1 che consegna la vittoria al Milan

Nella sezione intitolata Esercitazioni comiche, oltre a quattro sonetti di tipo comico-realistico di argomento osceno, e a testi che prendono simpaticamente di mira tic e manie di amici o conoscenti dell’autore, confluisce anche un sonetto, Fuggo dal giorno et ho a fastidio ‘l mondo, scritto nel 2010, già pubblicato in Fantasmagonianel racconto dedicato a Cecco Angiolieri dal titolo Cecco mette a punto il suo furore (nello stesso racconto era presente anche il sonetto È duro a sostener lo grave pondo, ora inserito nelle Rime amorose). Mentre nella sezione successiva, Scherzi, trovano collocazione gli sciolti del Lamento di Gianciotto Malatesta, anch’essi risalenti al 2010 e contenuti in un racconto di FantasmagoniaLo zoppo, in cui Mari riscrive la celebre storia di Paolo e Francesca, narrandola dal punto di vista del marito tradito, mai amato e spesso dileggiato dalla sposa a causa della menomazione fisica che lo affliggeva fin dall’infanzia: «Fu solo un colpo quel che li divise/ ancor congiunti carnalmente in nodo/ bestial cotanto che ‘l tacerne è bello./ Così violenza fu giustizia in terra,/ e messer Dante scriva quel ch’ei vuole». Sempre nella medesima sezione si collocano gli endecasillabi sciolti che Mari dedica al suo loden (Sciolti al Loden). Il componimento è databile al 1982, Mari aveva 27 anni e usava quel soprabito praticamente da quando era adolescente; spinto dalle rampogne dell’intero parentado, a malincuore decide di sostituirlo, inscenando però, in questi versi, una vera e propria cerimonia funebre per congedarsi da esso. Ad un episodio accaduto a Bormio, nella casa di montagna dell’amico Guido De Monticelli, sono invece ispirati gli sciolti Al balturino, caldaia Baltur che cessa di funzionare suggerendo questi versi di stampo leopardiano. Molto più recenti – sono del 2017 – i settenari della filastrocca dedicata alla cicoria, che chiudono gli Scherzi. La parte successiva si compone di Versi d’occasione, fra i quali spicca un’anacreontica composta nel 1986 per le nozze degli amici Paola Melo e Fabio Danelon. Sono versi di ispirazione neoclassica nei quali, in una immaginaria Arcadia, lei è una ninfa e lui un satiro. Immancabile, data la venerazione di Mari nei confronti di Foscolo, un riferimento alle Grazie. Alla nascita delle figlie della coppia, Costanza ed Emma, sono dedicati altri due sonetti presenti in questa parte della raccolta, composti rispettivamente nel 1990 e nel 1998, in uno di essi, il secondo, emerge lo sprezzo, tipico di Mari, per la massa: «poiché la massa è solo noia e ambascia».

La parte finale della raccolta è occupata dal lungo poema di argomento calcistico, di cui si è già detto ad inizio articolo, e dalla traduzione, sempre in endecasillabi sciolti, del XXIV canto dell’Iliade. La figura di Achille, l’eroe greco intorno al quale ruota l’intero canto in questione, era già stata protagonista di un testo di Mari: un racconto, contenuto in Fantasmagonia e intitolato Lamento del guerriero che raccoglie le dolenti riflessioni di un Achille conscio del proprio destino di gloria e insieme di morte, l’una inseparabile dall’altra, un Achille che ha parole di ammirazione per il coraggio e la virtù di Ettore, per la lealtà con la quale ha scelto di battersi con lui pur nella consapevolezza di una lotta impari. Il racconto, non privo della confessione da parte del Pelide del desiderio che a volte lo assale di far ritorno in patria per condurvi una vita oscura ma quieta e serena, e del rammarico di sapere che a inviarlo «alle case silenziose dell’Ade» sarà Paride Alessandro, «drudo imbelle e vanesio», lascia trasparire l’immagine di un guerriero tormentato, angustiato dalla vulnerabilità del proprio tallone, che reca impresso il suo fato come uno stigma, ma anche angosciato dalle proprie stesse azioni, dall’aver «lasciato morire centinaia di Achei per puntiglio»; dal fatto che «le donne troiane hanno pianto [Ettore] ricordandone la dolcezza e la forza» mentre di lui «si loderà in eterno soltanto la forza»; e dall’aver infierito sul cadavere di Ettore forandogli i talloni e agganciandolo al proprio carro per trascinarlo attorno alle mura di Troia: tre giri completi, ogni giorno all’alba, per dieci giorni, mentre il cadavere sul quale il suo furore si accaniva era preservato e custodito intatto dagli dèi. E anche la restituzione della salma al vecchio padre, l’aver mescolato le proprie lacrime con quelle di Priamo, anche quello non fu un atto davvero magnanimo: accettò dei doni, e che doni!, perché il riscatto del corpo avesse luogo, e inoltre la sua non fu neanche vera pietà ma solo un piegarsi alla volontà degli dèi. Né lui, il grande Achille, potrà mai vantarsi di aver combattuto assieme a dei congiunti, mentre per Ettore deve essere stato bello gettarsi nella battaglia circondato da fratelli, cugini, cognati, «come se la città intera pugnasse con lui». Achille al contrario deve guardarsi «dai capi achei come dai peggiori nemici», poiché costoro, invidiosi, aspettano solo la sua morte per disputarsi le sue armi «come cani randagi su un osso». Il racconto si conclude in modo visionario, con i sogni «torbidi e impuri» dell’eroe che in realtà fungono da vaticinio alla funzione eternatrice della poesia, attraverso parole e immagini che adombrano le figure di Omero e Foscolo: i quali con i loro versi consegneranno gli antichi guerrieri e le loro gesta a imperitura memoria.

Dalla cripta oltre a costituire un’altra testimonianza della (auto)biografia letteraria di Mari, è anche l’ennesima dimostrazione della capacità mimetica di questo autore che sa mirabilmente aderire agli stili, al lessico e alle forme della lingua letteraria dei secoli passati, si tratti del Sette-Ottocento come del Trecento. Il mimetismo linguistico di Mari, già ampiamente evidente in Io venia pien d’angoscia a rimirarti ma in realtà presente un po’ dappertutto nella sua produzione, non è solo mero esercizio stilistico né puro virtuosismo fine a sé stesso, rispondendo in verità a una ben più intima e urgente esigenza di comunicazione: da sempre l’autenticità della scrittura di Michele Mari passa attraverso un’altissima formalizzazione stilistica e non di freddezza si tratta, bensì di un modo come un altro – certo quello più congeniale a questo autore – di essere sincero fino al midollo. Dunque l’urgenza espressiva, il bisogno di dire cose in qualche modo “forti”, forse anche imbarazzanti, la visceralità della confessione letteraria in Mari non possono prescindere dal bisogno, classicisticamente inteso, di cristallizzare in punta di penna, mediante il ricorso a un registro formale alto, la propria interiorità, lieta o dolente che sia. Ed è probabilmente questo il lascito più puro, più genuino e schietto, di Mari che, a chi sa leggere attraverso ed oltre gli artifici e i mascheramenti del bello scrivere, ha sempre parlato con il cuore in mano.

Il falco Cyrano

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di Paolo Morelli

Noi felchi ci vediemo benissimo, lo senno tutti, tutto vediemo dell’elto, e l’eltro giorno esco di roccie al tremonto, svolezzo per un po’ e ti vedo uno sdreieto sull’erbe con delle cherte in meno e le guerdeve, le guerdeve, e le guerdeve dicevo, e dentro questo rettengolo di cherte bienche ci steveno dei segni piccolissimi che però io li vedevo, chespite se li vedevo, e li chepivo!, chespite se li chepivo, solo che dentro quei segni piccolissimi che io li chepivo, c’ereno delle cose che io le chepivo e delle cose che io non le chepivo.
C’ere su quel rettengolo di cherte bienche: Presi del midollo di bue, e bue lo chepivo, con cui mi spelmei tutto il corpo lo chepivo, e, dopo essermi tireto su con une bottigliette di cordiele, non lo chepivo, tornei fuori elle ricerce delle mecchine, che io non le chepivo per niente.
Poi c’ere, sempre su quel rettengolo di cherte bienche: Ci evevo eppene messo i piedi sopre, che io non li chepivo, che mi trovei innelzeto sulle nubi, che io le chepivo essei bene.
Le fiemme evendo fetto bruciere le prime file di rezzi, c’ere in quei segni su quel rettengolo, s’incendieve un eltro stedio, poi un eltro encore, che io non ci chepivo per niente.
E poi c’ere: E quendo ormei pensevo di perdere le mie teste su quelle di une montegne, che io le chepivo più di tutti, sentii che le mie escensione continueve, e enche questo io le chepivo più che bene.
Le Lune le chepivo, essendo in fese decrescente le chepivo, ed essendo solite in quelle fese succhiere il midollo degli enimeli, che io li chepivo un po’, espireve quello di cui m’ero cosperso, c’ere su quel triengolo di cherte bianche, e io che lo chepivo ebbestenze.
Poi c’ere enche, in quei segni su quel rettengolo di cherte bienche: Quendo ebbi supereto molto più dei tre querti, del percorso che sepere le Terre delle Lune, lo chepivo eppene un po’, ell’improvviso mi eccorsi di chedere con i piedi in elto, chepito, e dopo esser precipiteto per lungo tempo non l’ho chepito, mi trovei sotto un elbero, chepito, contro cui ero endeto e sbettere nelle mie chedute, chepito, e con il viso impiestriccieto del succo di une mele che mi si ere spieccicete contro, chepito.
Quelle volte m’è successe di chepire quei segni sulle cherte bianche. Certe cose però io proprio non le chepisco, incomprensibili, me che serenno mei?

 

(questo racconto animalesco di Paolo Morelli abiterà nella raccolta “Animali non addomesticabili”, con testi animaleschi [e non addomesticabili] dello stesso Morelli, di Marino Magliani, e di Giacomo Sartori, con una coda animalesca finale di Paolo Albani, opera quindi animalesca [e non addomesticabile] a sei mani, quasi otto, in uscita nella collana Quisiscrivemale di Exorma)

 

 

(l’immagine in alto: Takayuki Ayama, “Leopardo, ghepardo e bebé leopardo”, 2016, particolare, opera fotografata alla mostra “Art brut japonais”, Halle St. Pierre, Parigi, 2018 )

Elogio bellico di Richard Millet – appunti francesi

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di Edoardo Pisani

Ogni anima è da sola una società segreta.

Marcel Jouhandeau

Il ventiquattro agosto del 2012 Anders Breivik viene condannato a ventun anni di carcere per gli attentati terroristici da lui ideati e commessi in Norvegia l’anno precedente, l’autobomba nel centro di Oslo e l’eccidio sull’isola di Utøya, per un totale di settantasette morti e oltre trecento feriti, perlopiù ragazzi. Qualche giorno dopo, in Francia, con un tempismo forse non incolpevole quanto i suoi scritti, l’editor e scrittore Richard Millet pubblica l’ormai conosciuto (ma non troppo letto) Elogio letterario di Anders Breivik, che dà addito a violente polemiche nel mondo letterario francese, fra liste di scrittori pro e contro Millet e articoli, accuse, insulti, rotture. È il caso letterario, o meglio editoriale, dell’anno, l’affaire Richard Millet, che il tredici settembre lo costringerà alle dimissioni dal comitato di lettura di Gallimard, come racconta in Lettera ai Norvegesi sulla letteratura e le vittime, pubblicato due anni dopo; e da Gallimard per il momento Richard Millet non pubblicherà altre opere, né romanzi né saggi né libri di appunti né diari, come i primi volumi del suo Journal, ora editi per i tipi di Léo Scheer, dal 1971 al 1994 e dal 1995 al 1999, comprendenti gli anni della guerra in Libano già narrati ne La confessione negativa, seguito romanzesco de La mia vita fra le ombre, con il suo alter ego Pascal Bugeaud che si unisce ai falangisti cristiani per combattere palestinesi e musulmani sunniti e sciiti, in piena guerra civile, nel 1975, come l’autore stesso – che scrive: “Ho dovuto uccidere degli uomini, tempo fa, e delle donne, dei vecchi, forse dei bambini. E poi sono invecchiato. Siamo invecchiati prima degli altri. Abbiamo visto ciò che nessuno può guardare fissamente: il sole, la sofferenza, la morte…” Questo è l’incipit del romanzo.

Le opere di Richard Millet, il suo percorso letterario e umano, valgono più delle polemiche che hanno suscitato due o tre suoi testi in fondo minori, che pure lo hanno fatto conoscere in Europa e pubblicare in Italia, seguitando a far discutere, contrapponendolo al milieu letterario parigino e ai vari cultori del multietnicismo e antirazzismo europei, che Millet avversa in ogni scritto, non sempre a ragione. Le sue opere più ambiziose, il ciclo di Corrèze, sono tuttora poco lette, anche in Francia, dove l’autore dice di essere ostracizzato, combattuto, isolato dal potere editoriale e librario e non solo, non più un editor di Gallimard malgrado due premi Goncourt da lui scoperti e editati, Le benevole di Jonathan Littell e L’arte francese della guerra di Alexis Jenni.

Elogio letterario di Anders Breivik è un pamphlet fascista che disonora la letteratura” ha dichiarato perentoriamente Annie Ernaux su Le monde, qualche anno fa, e in parecchi hanno sottoscritto il suo articolo, le sue parole, autori importanti quali Amélie Nothomb o Céline Minard o Tahar Ben Jelloun o Le Clézio, mentre altri hanno o taciuto o criticato la stessa Ernaux, come Patrick Besson e Gabriel Matzneff, che ne ha scritto nel proprio diario, dolendosene, perché “quando uno scrittore firma una petizione deve essere per difendere qualcuno, per tirarlo fuori dai guai, per aiutarlo, non per mandarlo a fondo…” Invece da qualche anno nel mondo culturale francese c’è un clima da guerra civile, delatorio, del tutti contro tutti, fra scrittori integrati o apocalittici o ribelli o isolati, come Millet, che pure si è fatto isolato, si è voluto isolare, stilisticamente e biograficamente, per continuare a scrivere – o per vendere di più, forse? Questo suggerisce Bernard Henri Lévy, alias BHL, sorpreso dal clamore eccessivo suscitato da “tre libelli traboccanti di pensieri insulsi e di odio”, come ha dichiarato a Le point, soggiungendo che Millet in passato aveva già cercato altri casi, altre provocazioni, arrivando a lodare Osama Bin Laden e a difendere Bashar al-Assad, ne L’obbrobrio, perché “se non hai il tuo Grande Scandalo a sessant’anni sei un fallito”, chiosa Lévy – sbagliando, ignorando completamente tanto le opere di Millet quanto i suoi abissi, le sue battaglie e il suo grido di allarme nei confronti non soltanto della Francia ma dell’Europa intera, allarme sia linguistico che filosofico e umano e quindi culturale, allarme letterario.

“La parola Dio è scomparsa con la parola pidocchio. Dio è morto insieme al pidocchio e per la stessa causa: uno spruzzo d’insetticida. Per questa Morte del Pidocchio l’umanità sprofonda nell’igiene e nella rovina.” Così scrive Guido Ceronetti in Pensieri del Tè, e Richard Millet lo pone in epigrafe a L’Oriente deserto, libro di viaggio e di nostalgia che dedica ai cristiani di Oriente e che ravviva l’idea e il bisogno di Dio in letteratura, la sua ricerca e la sua preghiera, talora la sua verità. “Misero cattolico, certo” scrive Millet, “ma cristiano fino al midollo: non passa un solo giorno senza che pensi a Dio, alla mia religione che è ormai la cosa più infangata in Europa, disprezzata, sfottuta, al punto che nei giorni difficili finisco per dirmi che forse hanno ragione loro, che bisogna prediligere una modernità risolutamente agnostica, materialista, edonista, buttando al fiume ciò che non sarebbe altro che un insieme di superstizioni, di illusioni, di pulsioni sublimi, di errori in passato sanguinosi…” È una delle lotte più difficili di Millet, di certo votata alla sconfitta, la difesa del classicismo e dell’elitismo della cultura europea contro il chiasso assordante della modernità, lo stilismo francese contro l’anglismo imperante dei media e gli ateismi fin troppo diffusi nella cultura stessa e nel mondo, contro l’ignoranza e per la sacralità della parola, per la sacralità della vera arte. Ne L’obbrobrio scrive: “Sono gli stessi censori che, denunciando l’oscurantismo papale e l’Inquisizione e facendosi portatori del razionalismo degli Illuministi, mi odiano per dirmi cattolico e vanno in visibilio per Tom Cruise, John Travolta e Nicole Kidman, adepti della chiesa di Scientology. È questa setta di mangiatori di ali che mi rimprovera ciò che dovrebbe essere la sua unica virtù: la ricerca della verità.”

La ricerca della verità, dunque, sacra o scandalosa che sia, orrida o sublime o inaccettabile, e il confronto non è soltanto letterario e umano, cioè linguistico: è filosofico. “Sta venendo il mattino” dice l’Oracolo di Duma nel libro del profeta Isaia, nel passo 21:12, la sentinella di guardia, detta del Silenzio, “ma la notte durerà ancora, tornate e ridomandate, venite ancora, insistete…” Insistete e cercate; nel caso nascondetevi e aspettate la vera alba, la vera luce, la parola che si alimenta di deserto e che nel deserto si ravviva, come suggerisce Guido Ceronetti ne L’occhio del barbagianni, perché “la sfida della scienza alla filosofia è questa: ‘Fatti mia serva se vuoi sopravvivere’” – quindi per restare libera e non doversi umiliare “la filosofia si ritira nell’ombra e aspetta che tornino come proprio futuro i pensatori presocratici.”

La sfida della scienza alla filosofia si traspone anche nel narrare, nel romanzo e contro il romanzo, è un monito alla letteratura stessa (e all’arte: “Il mio eroe è il fisico Werner Heisenberg” diceva Dalí) e una sfida allo scrivere più autentico, vissuto, con centinaia e centinaia di romanzetti o di libri teorici che applicano le più semplici tecniche della narrazione alla scienza divulgativa, per esempio, sempre in voga, leggibile, esportabile, tradotta dall’angloamericano o anglicizzata dai nostri stessi autori, che perdono in stile e indeboliscono la propria lingua, inchinandosi al Dio anglofono della Scienza o al Dio della chiarezza e dell’amenità, come direbbe Roberto Bolaño, procacciando uno stilismo annacquato che tradisce il vero senso dello scrivere e il silenzio che ne deriva, l’imperfetto e sofferto silenzio che crea ogni autentica opera letteraria – e ogni ricerca.

Un altro autore che ha preso spunto da Anders Breivik e dalla strage di Oslo e Utøya, come Richard Millet, è l’italiano Giuseppe Genna, ne La vita umana sul pianeta terra, uscito nel 2014, seguito ideale del suo Hitler, opera che indaga sul male e sulle sue infinite sfaccettature umane, disumane, storiche, orrifiche. Il suo Breivik è un libro di tenebre, che alle tenebre si rivolge e alle cui tenebre risponde, trae voce e visione, struttura e storia. “Di cosa si ha paura?” chiede a un certo punto il narratore, interrogandosi su Breivik e sulla sua insensatezza, sulla sua immane perfezione. “Di avere paura e di finire di avere paura, morendo. Verso cosa stanno transitando tutti? Possiamo qui azzardare l’ipotesi che molto velocemente stiamo osservando lo sviluppo, la crescita e la raggiunta età adulta della vittoria postuma di Hitler…” La vittoria postuma di Hitler, dice Genna, rifacendosi a Emil Fackenheim e al suo stesso Hitler, pubblicato sei anni prima, non una biografia o un libro storico ma una visione/opera che indaga sulle radici della follia nazista, che vera follia non è, del Male eletto a simbolo umano e dello sterminio mutuato in normalità, perché “la normalità non è indifferente al genio: lo aggredisce, sogna il suo martirio” – così Genna a proposito di Hitler, a Vienna, nel 1908, rifiutato dall’Accademia di Belle Arti, uno studente frustrato che ignora o disprezza Klimt e Kokoschka, una non-persona e un non-artista che prescinde dal tempo e dagli altri e che metterà a fuoco e conquisterà l’Europa e che infine, nell’apocalisse ultima, si ucciderà. “Ancora arde ciò che fu il corpo del Fürher” scrive Genna.

Anders Breivik, a differenza di Hitler, non si ammazza, arrendendosi dopo il massacro, sessantanove morti innocenti sull’isola di Utøya. E di Europa e tenebre anche Richard Millet scrive, trascendendo Hitler e difendendo in qualche maniera la “visione postuma” di Utøya, di Breivik, il suo eccidio gridato, orrido perché perfetto, perfetto perché disumano. “Lontano dall’essere un angelo sterminatore o una bestia dell’Apocalisse” afferma Millet, “Breivik è al tempo stesso vittima e carnefice, sintomo del male e suo impossibile rimedio.” Sintomo del male, certo – ma quale male? E quale impossibile rimedio, soprattutto? Elogio letterario di Anders Breivik di fatto viene letto più in chiave nazionalista che culturale, più politica che letteraria o artistica, benché l’autore condanni più volte Breivik e i suoi atti, il suo orrore – che pure sono europei, che pure lo rendono un creatore a tutti gli effetti, un écrivain par défaut, scrive Millet, come peraltro definisce se stesso ne L’obbrobrio, écrivain par défaut, scrittore per difetto, per errore, Anders Breivik, simile al protagonista di Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, sebbene, a differenza di Hitler o dello stesso Drieu La Rochelle, non morto suicida, imprigionato nel carcere di Skien.

La guerra, come la solitudine e la morte, pervadono tutta l’opera di Richard Millet, i suoi silenzi e la sua tragedia, compreso il primo volume del suo diario, invero un semplice libro di appunti, dal 1971 al 1994, con riflessioni filosofiche e teoriche e romanzesche, in fondo non dissimile dal già tradotto L’inferno del romanzo, una raccolta di paragrafi numerati alla maniera di Cioran o di Ceronetti, scritti “tra le rovine della letteratura francese, specchio in frantumi della fine del romanzo…” – cioè nel trionfo del romanzo non europeo, per consumatori più che per lettori, internazionale, vendibile, tanto riproducibile quanto inutile. Difatti molti autori europei, specie in Francia, si rifugiano ormai nei taccuini, nei saggi o nei diari, come lo stesso Richard Millet, tralasciando il romanzare, la narrazione pura, o cercando nuove vie narrative, non sempre romanzesche, perdendosi spesso nei modelli d’oltreoceano, più venduti e vendibili e quindi più richiesti dagli editori, più riscritti; mentre altri cercano di restare a galla soppiantando il silenzio della scrittura con il caos degli “spazi prostituzionali online”, come ripete spesso Millet, blog e siti e social network – e “il making of di un romanzo diviene non un bonus ma una sorta di dovere più importante del libro stesso…” E le opere, la letteratura, ne risentono, e così gli autori. Ma poco importa, purché il libro venda, no? Perché si tratta soltanto di sopravvivere editorialmente e di esistere e resistere in quanto scrittori e artisti, in quanto creatori – o no? “Il mestiere di scrivere è popolato di canaglie, questo lo intuiscono più o meno tutti” diceva Roberto Bolaño. “Ma è anche popolato di stupidi che non si rendono conto dell’immensa fragilità dello scrivere, di quanto scrivere sia effimero. Voglio dire, posso stare con venti scrittori della mia generazione e sono tutti convinti di essere bravissimi e di poter durare. Questo è di un’ignoranza, oltre che di una superbia, mostruosa…”

Superbia e ignoranza dello scrivere, quindi. E riprendiamo ancora Millet e il suo grido di allarme nei confronti della lingua e del romanzo, dell’inferno del romanzo e della narrazione, perfino della poesia, inferno che riguarda innanzitutto lui stesso, sia in veste di ex editor che di scrittore, partecipe della sua stessa fine e del suo ultimo canto (o pianto) del cigno. Quanti autori infatti cascano nelle lusinghe e nei chiacchiericcii dei social network o nella trappola del caso forzato, del personaggio forzato e della vendibilità costretta, sperando nel chiasso proprio o altrui per vendere qualche copia in più o qualche copia e basta, per esserci, per restare, per non disilludersi e scrivere ancora o per rivolgersi al proprio sordo pubblico ma non per scrivere meglio, non per isolarsi e romanzare – quanti scrittori confabulano e tramano inutilmente?

E così lo stesso Millet si autoproclama le dernier écrivain, solennemente, l’ultimo scrittore prima del tramonto culturale europeo, mentre Bernard Henri Lévy gli rimprovera di cercare l’affaire a forza, il caso, lo scandalo, il suo quarto d’ora di celebrità warholiana, lucrando sui giovani morti di Utøya – e sulla letteratura. (Ma Lévy non lucra a sua volta sul non letto, come già lucrava sul non visto stroncando a priori Underground di Kusturica, dieci anni prima, pur avendo scritto un libro quale La pureté dangereuse, nel 1994, La purezza pericolosa, che anticipa e in qualche modo crea Breivik – salvo poi ravvedersi e raffrontare proprio Underground alle opere di Céline, al suo viaggio delirante nell’Europa in guerra?) E chissà se nei diari non ancora editi, dal 1999 a oggi, Millet risponde alle accuse di Lévy, che nel momento più difficile lo attacca pubblicamente, dandogli del geloso dei successi altrui, del cacciatore di scandali, mentre nel mondo letterario è tutto un rincorrersi di pose e cifre, di chi vende di più o strappa i migliori anticipi o ha più clic online o smuove più copie o fiuta il colpaccio, l’affaire, il premio, la chiacchiera, e la condanna, o la salvezza, è forse la solitudine e l’oblio, forse il silenzio della scrittura totale.

“Dividere i giusti, moltiplicare i malvagi” scriveva Richard Millet a Philippe Sollers su L’infini, nel 2011, prima di Lingua Fantasma, “ecco a cosa lavorano i nostri nemici, moltiplicando le pietre al posto del pane e rimproverandoci, a me e a lei, di pubblicare troppo, cioè di esistere.” Ma pubblica davvero troppo, Richard Millet, il cui testo più discusso, Elogio letterario di Anders Breivik, è in fondo incolpevole e assai meno importante di altre sue opere, dai romanzi di Corrèze ai diari appena usciti a libri di appunti quali L’inferno del romanzo o L’obbrobrio o Solitudine del testimone – pubblica troppo, scrive troppo, dice troppo? O è/era troppo l’affaire Millet, con Annie Ernaux che gli dà del fascista e Tahar Ben Jelloun che lo accusa di narcisismo destrorso e Patrick Besson che lo difende e rinfaccia a Jelloun il suo silenzio nei confronti di Hassan II e dei suoi “giardini segreti”, mentre molti firmano la lista Ernaux senza nemmeno leggere Langue Fantôme, Mathias Enard, Amélie Nothomb, Céline Minard (alias la papessa Maidalchini, da Olimpia, suo splendido monologo), e Gabriel Matzneff se ne dispiace e Le Clézio parla di sindrome Céline in Francia e si chiede se ormai basti essere più o meno scandalosi per sembrare “geniali” – e Richard Millet, che geniale non sembra, che scrittore rimane, si vede costretto a firmare una lettera di dimissioni dal comitato di lettura di Gallimard, senza resistere alla tentazione di migliorarla stilisticamente, come racconta nella Lettera ai Norvegesi, perché lo stile letterario oggi non è più di moda, spiega, essendo ogni stilismo considerato “di destra”, “fascista”, per ignoranza o ugualitarismo letterario… (ma Roberto Bolaño e molti altri non sarebbero d’accordo).

Richard Millet lascia dunque il suo ufficio da Gallimard, senza stringere mani, in un clima di guerra culturale, letteraria, lui che la guerra reale l’ha conosciuta e descritta in pagine atroci, combattendo e uccidendo o guardando uccidere e vivendo di ombre e demoni, di solitudine e scrittura. “Continuerò a essere solo” scrive nel Journal. “Poco frequentabile. Niente affatto amabile. Poco desideroso di prostituzioni letterarie o di massonerie.” E a Philippe Sollers, ne L’infini: “Non ho una posa da scrittore: scrivo. La guerra non è una posa ma un atto, come la scrittura. Solo lei mi definisce, o mi condannerà all’oblio. Almeno sarò rimasto fedele alla terribile dolcezza dell’angelo che è in me.”

La scrittura quale stato di guerra perpetua, quindi – e di disperazione. Perché disperate e vive sono le opere di Millet, il suo silenzio e il suo disprezzo trasposti sulla pagina, le sue battaglie culturali e i suoi cicli romanzeschi, le vite degli altri quali specchi scuri in cui vedere se stessi, il proprio io, Richard Millet o Pascal Bugeaud, la sua terribile dolcezza e le sue pose, uno scrittore in guerra salvato dalla purezza della parola e del romanzare, nei sentimenti e nel romanzesco.

Che il resto, o questo, da Anders Breivik ai fratelli Kouachi a Brenton Tarrant, sia letteratura? “Ho attraversato talmente tante tenebre” scrive Millet ne L’obbrobrio “che la notte ha per me la dolcezza del giorno; una forza immensa mi sospinge, malgrado l’angoscia e il dubbio, la paura; perché scrivere non è altro che ridere nella notte, poco prima dell’aurora…” – scrivere di veglia, in guardia, come la sentinella del profeta Isaia; scrivere perché “la notte durerà ancora” o perché ogni notte, come ogni alba, come ogni scrittura, dovrà finire: e aspetteremo il giorno.

di Edoardo Pisani

La città dei futuristi

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(È da poco pubblicato Secolo che ci squarti… secolo che ci incanti di Antonio Saccone, raccolta di saggi che attraversano il novecento letterario italiano, da Ungaretti a Luzi. L’autore ci regala un breve estratto che volentieri pubblico. G.B.)

di Antonio Saccone

«I caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città»: cosí è proclamato nel manifesto intitolato all’architettura futurista, anno 1914, autore Antonio Sant’Elia. Sono passati cinque anni dall’apparizione del futurismo sulla scena italiana ed europea. Il movimento fondato da Marinetti, inseguendo la tensione totalizzante iscritta, per cosí dire, nel suo codice genetico e, perciò, promulgando il diritto a invadere tutti i settori dell’attività umana, ogni versante culturale o aspetto del costume, ha già dettato le sue prescrizioni alla letteratura, alla pittura, alla scultura, al teatro, alla musica. Ha già avviato il collegamento della sua capillare e proteifore espansione con la ricerca di una comunicazione poliespressiva, nella quale e attraverso la quale far saltare le usuali frontiere tra le singole arti e, piú in generale, tra l’arte e la vita. Il ritardo con cui l’architettura è inserita tra i linguaggi da rivoluzionare sub specie futurista è, tuttavia, solo apparente. L’attenzione per la città come fondale su cui proiettare il dinamismo della vita futurista e intessere le nuove modalità di percezione dello spazio e del tempo è, in realtà, immediata e, sin da subito, tutt’altro che irrilevante. Ancor prima di sancire la nascita del futurismo, Marinetti mostra, nella sua produzione in lingua francese, di nutrire un forte interesse per il tema della città. Nel 1904 una delle tredici sezioni, dedicata al Démon de la vitesse, in cui è suddivisa Destruction, silloge di poèmes lyriques, si traduce in un’esaltazione criptofuturista dell’orizzonte urbano, non priva di favolistica inquietudine. Il culto della città tecnicizzata («la ville gorgée d’ombre et crépitante de lumieres») raccoglie ed esaspera, nei modi di un lirismo debordante, il filone celebrativo della vita contemporanea inaugurato dalle Villes tentaculaires (1895) del poeta belga Émile Verhaeren, precursore di molte idee futuriste, stando alle ammissioni dello stesso Marinetti. Nel 1908 La Ville Charnelle, terza raccolta poetica di Marinetti, dà vita, come già indicato dalla soglia dell’intitolazione, a una città carnale, emblema antropomorfizzato di un’esplosiva sensualità. L’uso abnorme delle immagini, la proliferazione di analogie, la fusione di metafore erotiche e metafore tecnologiche inscenano un paesaggio metropolitano, dischiuso al nomadismo dell’automobile, paradigma di aggressività e di rapidità intuitiva, capace di mettere in atto una liberatoria volontà desiderante, una dionisiaca esorcizzazione di tutto ciò che costituisce impossibilità e morte.

Siamo di fronte a veri e propri cartoni preparatori del manifesto fondativo, prossimo a inscenare la sua novità tematica ed espressiva. Il proclama del 1909 si apre, com’è noto, su un notturno, carezzevole interieur: il suo caldo arredo orientaleggiante («lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato», «opulenti tappeti») si accampa come figurazione del retaggio di una neghittosa condizione decadente («la nostra atavica accidia»), dal cui morbido torpore l’insonne compagnonnage futurista è smanioso di emanciparsi. È il salotto della casa milanese di via Senato, definito da Marinetti «attizzatoio di idee» nella sua autobiografia «parolibera aeropoetica», La grande Milano tradizionale e futurista. Il gruppo d’avanguardia è fiero di essere una minoranza impegnata in una titanica gara contro le norme imposte dall’ordine naturale. Unico punto di riferimento alla propria separatezza è la sintonia con l’alacre umanità che lavora e vive febbrilmente nei grandi insediamenti urbani:

Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città.

Quella futurista appare sin dal manifesto d’esordio come una prospettiva imprescindibile dalla cultura della megalopoli industriale, del cui inesausto movimento elettrificazione e meccanizzazione scandiscono ritmi e scenari.

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Antonio Saccone è professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Napoli «Federico II». Ha al suo attivo, oltre a numerosi studi in rivista, alcuni dei quali tradotti in lingua inglese e francese, volumi su Bontempelli, Palazzeschi, Dossi, Marinetti, Ungaretti e altri fondamentali autori e questioni della modernità ottonovecentesca. Ha tenuto lezioni e conferenze in molte università europee e nordamericane. Collabora alla pagina culturale del «Mattino» di Napoli.

Sogni e favole di Emanuele Trevi

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di Marco Renzi

Qualche anno fa, assieme ad alcuni amici, provai a metter su un cineclub, con la speranza di dar spazio a film penalizzati dalla pessima distribuzione nostrana. Già sapevamo, visti i tempi che corrono e la nostra collocazione provinciale, di andare incontro a un fallimento, sebbene alcune persone, quasi tutte intorno alla cinquantina e oltre, apprezzarono l’iniziativa e si fidelizzarono. Superfluo dire che l’esperienza non durò a lungo: si trattava più che altro di riportare in vita, da parte di noi non ancora trentenni, il fantasma di un Novecento vissuto solo con gli occhi dell’infanzia, rapidamente spazzato via dall’iper-connessione di un Terzo millennio che non poteva tener conto di certi residui, di certe romanticherie. Impossibile pretendere che molte persone fossero rimaste attaccate a quel modo di fruire e contemplare le opere d’arte, schiacciate com’erano dalla velocità contemporanea, dal «tutto e subito» imperante del nostro tempo.

Mi ha sorpreso in positivo ritrovare il cineclub nelle prime pagine dell’ultimo libro di Emanuele Trevi, dove lui riflette, tra i tanti temi, sullo scarto tra gli ultimi anni del Novecento e il presente, e lo fa ricorrendo, come già avveniva in Senza verso e Qualcosa di scritto, alla materia autobiografica. Negli anni tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, Trevi lavorava in un cineclub dove, al termine di una proiezione di Stalker di Tarkovskij, incontrò Arthur (o Arturo) Patten, fotografo col quale instaurò una profonda amicizia che sarebbe durata fino al 1999, anno della morte di Patten: un legame  fondamentale per la sua educazione umana, sentimentale e, alla luce di un testo così, anche letteraria. Le altre due figure che segnano la vita e il lavoro dello scrittore romano, in quest’ibrido tra romanzo, autobiografia e saggio, sono Cesare Garboli e Amelia Rosselli. Filo conduttore di Sogni e favole è invece Metastasio, o meglio ancora il sonetto a cui il titolo s’ispira, e che vale la pena citare per intero.

Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
più saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l’amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle, ch’io canto o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa ch’io trovi riposo in sen del vero.

L’artista su commissione per eccellenza, il più celebre e pagato autore italiano della sua epoca, visse “felicemente” fino alla veneranda età di ottantaquattro anni, tanto da scatenare in seguito l’indignazione di Alfieri e poi di De Santis per questa sua esistenza tranquilla, per questo io che mai si metteva a nudo ma che, le rare volte in cui lo faceva, come in questa poesia,  si confessava per il «fingitore» che era, per dirlo con le parole di Pessoa citate nel libro.

La sua «abitudine di fingere lo predispone a capire di che stoffa sono fatte tutte le altre cose», scrive Trevi. E sul rapporto tra realtà e finzione, sugli intrecci tra letteratura e vita, si concentra Sogni e favole: in una Roma magica, altra indiscussa protagonista della narrazione, città capace di nascondere ricordi, ispirazioni e brecce di memoria in ogni suo interstizio, si ambienta un non-romanzo che nel sottotitolo Un apprendistato trova la sua ragion d’essere.

Quello di Emanuele è un viaggio all’interno di se stesso: la ricerca di un equilibrio tra il professore universitario che in giovane età aspirava a diventare, tra il critico e lo scrittore che sarebbe poi diventato, e il desperado, parola che meglio di ogni altra esemplifica l’attitudine di questo straordinario narratore, tanto letterato quanto vagabondo, nonché sapiente ritrattista, così come lo erano, in ambiti diversi, Garboli e Patten.

L’amico fotografo, lettore onnivoro ed eclettico, dalle conoscenze trasversali, lo farà incontrare col «grande critico», dal quale riceverà in dono gli Scritti servili e il quesito sul sonetto di Metastasio, poi ricorrente nella loro frequentazione, che andrà ben al di là di quello allievo-maestro. Cesare Garboli, grande conversatore telefonico (telefono fisso, ovvio) come molti della sua generazione, esiliato volontario a Camaiore dopo il delitto Moro, firmò grandi capolavori della critica nonché, appunto, del ritratto: non solo i già citati Scritti servili, ma anche l’Introduzione ai Diari di Antonio Delfini, o l’ancor più celebre Cronologia pascoliana. Il grande critico, le cui righe su un giornale non solo valevano quelle di un abile prosatore, ma potevano stroncare o far decollare la carriera di un autore, è un altro simulacro novecentesco, una figura di cui si sente indubbiamente la mancanza, almeno tra coloro che ancora osano addentrarsi tra i meandri della letteratura. Viene però da chiedersi se oggi un Garboli verrebbe ascoltato come allora. E i poeti, invece, quanto sono presenti nel dibattito pubblico? Un tempo avevano un certo peso, ma oggi non è più così, e non perché ne manchino di bravi; semplicemente, il loro ruolo è divenuto sempre più marginale. All’epoca era ancora possibile creare una cornice come quella di Castelporziano, dove si tenne il Festival Internazionale dei Poeti, nel bene e nel male una pagina importante per la cultura italiana: in molti erano lì per Allen Ginsberg, altri giusto per curiosità. Di sicuro, il quindicenne Emanuele Trevi non era ancora interessato alla poesia, ma vi fu trascinato da un’amica più grande; e lì vide Amelia Rosselli, salita sul palco per leggere alcuni versi: la sua «apparizione […] rappresentò un vero dislivello, il manifestarsi di un piano di realtà totalmente diverso e inconciliabile con le circostanze». La poetessa, da Trevi definita uno dei maggiori «poeti» del Novecento italiano, fu presenza costante nella vita dell’autore: in quanto amica del padre, lo prese in braccio quando aveva soli quattro mesi; poi ci fu Castelporziano, e infine l’incontro con un Emanuele ormai innamorato della poesia e delle lettere, al quale seguirono una visita al suo piccolo appartamento romano di via del Corallo, l’avvicinamento a una donna amabile e intrattabile al tempo stesso. Fu una vita dolorosa, quella di Amelia Rosselli, riversata in un’opera comprendente Storia di una malattia, La libellula e altri testi indimenticabili, celebrata in alcune delle splendide pagine di questo libro, anche in una delle foto in bianco e nero presenti al suo interno, dove la donna è ritratta dallo stesso Arthur Patten, il cui obiettivo rivela la fragilità e la forza del suo sguardo.

«Chi li ha mai letti i poeti del Novecento, a parte un manipolo di disturbati?», si domanda a un certo punto il narratore. Chi leggerà mai i poeti e gli scrittori del nostro tempo?, c’è invece da chiedersi dinanzi alla riprova che è ancora possibile fare alta letteratura, con un racconto che non vuole essere conciliante o banalmente nostalgico. Trevi non si rammarica per un mondo che non c’è più: si limita a constatarne la fine, ripercorre gli ultimi respiri di un’epoca in cui si poteva godere di certi romanzi, poesie, film e arte in genere con un approccio critico oggi forse non più praticabile, o magari riservato solo a pochi eletti.

Oggi è ancora necessario riflettere su un’eredità tanto preziosa: un libro come Sogni e favole, con la sua prosa ricca eppure limpida, perfetta sintesi tra la penna del critico e quella dell’artista, è frutto di quella lezione novecentesca che s’immaginava la letteratura di domani rifacendosi alla tradizione: un insegnamento dal quale non si può prescindere se ancora si vuol parlare di letteratura.

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Emanuele Trevi, Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019)

Verumtamen in imagine pertransit homo

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Firenze, maggio 2018

 

Non lasciare in sé null’altro che una nebulosa di refettori, di coliche e viuzze smunte.  […]

L’afa ci pigia nel fondigliuolo della vita, tra l’asino quasi nolano, frontale allo sbalzo dei secoli, il pavone derviscio e ciascun’altra bestia inventata per noi da Benozzo Gozzoli: labirinto broccato, orificio, di chi ha già bevuto la sua eternità. E sotto gli angeli, nella scarsella, una fumigazione marmorea, un frangimento di colori come frotta di cesti gassosi in cui già fingiamo di calarci dentro la cecità del convento di San Marco, per cui poi siamo venuti, colla stanchezza metafisica di quattro telefonate al polo museale della Toscana, la flebo di benzina, i ravioli imburrati, la cartuccia Super 8 che si può sviluppare solo in Canada, e a costo di non far portare nulla sul bilancino di Michele l’Arcangelo, di non far quadrare niente, neanche il salmo 38 («verumtamen in imagine pertransit homo»), neanche la successiva visita a Santa Trinita per far nuovo l’oblio nelle stive del tempo.

Usciti all’aperto il cielo pare soltanto un arazzo oltraggioso, per giunta oziosamente cavato da una qualche caricatura digitale. Sicché, quando qualcuno ci toglierà la fede nel mondo mostrandocelo davvero una volta per tutte, che ne sarà del mondo stesso, se realtà è stata sino ad ora soltanto la paziente, incompiuta svelatura del suo originario nascondimento?   Comunque è maggio, mese del senso rosaio! Faremo lo sforzo di spingere il carretto sino alle lenzuola della sera. Nessun collirio di splendori liquidi, nessuna sophrosyne da macinare: soltanto la polpa ombrosa del mezzogiorno, i gettoni di liquirizia e l’abbraccio con la sinistra per quando duole lo stomaco in vista di tutte le indigestioni che verranno più avanti, a giugno, salutate -possibilmente- con due melagrane da marcire e calcinare sul volto del Battista nella notte di San Giovanni, come monito per le pupille. Perché -sia detto- dalla farmacia terreste non sgorga più rimedio alcuno, ma solo “l’ecco” dello sguardo, cioè: vedi, bada! È il segreto florifero di Ruusbroec, la cuccia della parola che latita, che manca davvero:

 «Per questo Egli pronunzia in eterno nel segreto del nostro spirito, senza intermediario e incessantemente, una parola profonda come l’abisso, e nulla più. In questa parola egli annunzia se stesso e tutte le cose. Questa non dice altro che: guardate.» Guardate.

Milano, via Mac Mahon

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di Roberto Antolini

Dei miei genitori mi è rimasto un album fotografico, un album all’antica, oblungo, rilegato in pelle, con le pagine di cartoncino colorato su cui, negli anni, sono state attaccate alla rinfusa molte fotografie della loro vita, da quelle degli anni ’30 di prima che si conoscessero, alla foto del matrimonio a Trento nella chiesa di S. Maria nel 1949, fino a quelle degli anni ’60. Ce n’è una che, guardata con gli occhi giusti, riporta al clima del primissimo boom economico italiano, anzi agli anni immediatamente precedenti, preparatori.

Adesso ne è rimasta una stampa in bianco e nero, ma ricordo di averne vista da giovane una stampa a colori: meraviglia delle meraviglie, colori trasparenti e luminosi, sicuramente una delle prime foto familiari a colori (la quasi totalità delle fotografie dell’album sono in b/n).

Dalla parte di Catilina

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di Pierluigi Cappello

Ama le biciclette e la polvere degli sterrati, la Repubblica. Magari una solida Bianchi con i freni a bacchetta. D’estate, quando si accendono interminabili veglie, si racconta sotto i bersò, davanti ad un bicchiere di rosso, pane croccante, salame ben stagionato.
La Repubblica preferisce le dozzine più che le unità, le voci a una singola voce, ma, del coro, distingue una voce dall’altra. La si è vista sedere sui gradini di pietra, vicino alle fontanelle, o sulle soglie di casa, fumare trinciato forte e ridere di una risata spessa, abrasiva, un pugno di sabbia che viene su dalla pancia. Però, quando sussurra, è capace di intenerire le teste dei bambini. Se racconta, ha casa nella linea retta, nello sguardo retto e prudente perché sa che la memoria è capace di uccidere come di curare.
Per questo si tiene lontana dalle parate dei reduci, indossa maglioni sformati di lana e tiene nel conto di un gracidare di rane scoppiate ogni forma di celebrazione.

ATLANTI INDIANI #03 Ora e sempre Resistenza

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Abbiamo raccolto in questo Atlante alcuni dei numerosi scritti pubblicati sul tema del 25 aprile e della Resistenza, con la profonda convinzione che, soprattutto in questo clima di estrema confusione politica, di intolleranza, di razzismo strisciante, sia ancora e sempre di più importante scrivere e raccontare del momento storico in cui forze diverse per credo e convinzioni ideologiche trovarono una via comune per opporsi al nazifascismo.


CORAGGIO, COMPAGNI di Franco Buffoni

«Perché molti italiani si sentirono offesi, toccati nel sentimento profondo, quando chi attualmente siede a Palazzo Chigi propose di trasformare il 25 Aprile nella Festa delle Libertà? Perché la Resistenza fu anzitutto antifascista. Cercare di annacquarla in una generica festa delle libertà (riecheggiante per altro quel Popolo delle Libertà all’interno del quale sono confluiti i post fascisti) ebbe per loro il sapore di una beffa.» [11 Gennaio 2010]


«Coloro che vorrebbero abolire la memoria del XXV Aprile vorrebbero dedicare una piazza di Milano al presidente del consiglio morto latitante. Perché non propongono anche l’erezione di un monumento? Coi due statisti insieme: quello che ha reso impronunciabile il termine socialista e quello che ha reso impronunciabile il termine liberale. Distruggendoci culturalmente.» [25 aprile 2011]

APRIL 25TH di Franco Buffoni


… nella notte lo guidano le stelle… di Orsola Puecher

«Nella notte d’inverno le stelle scintillano, ancora più nitide, fredde nel freddo apogeo. Al fuoco del bivacco, appoggiato alle pietre, nude, del muro a secco, il dottore [‘U Megu] non parla e dentro di sé sente la sventura vicina.» [25 Aprile 2012]


«Potremmo calarci negli anni. Accorgerci ad alta velocità della vita. Dieci, venti, trenta, sessant’anni dopo. Snobbare Praga, Budapest, Togliatti e Berlinguer, i matrimoni e i divorzi, la consistenza del divenire. Potremmo aspettare la morte. E, dopo, aprire il cassetto e la scatola. Trovare le carte. Tutte queste carte! Queste foto e queste lettere. Un passato insopportabilmente presente. Ma ne vale la pena, se raccogli un foglio scritto a macchina. Questo riesci a leggerlo?» [24 Aprile 2013]

Il 25 aprile di mio padre di Davide Orecchio


Dall’appunto al frammento.Raccontare la Resistenza oggi di Giacomo Verri

«Beppe Fenoglio appuntava, su fogli recuperati dalla vita quotidiana della famiglia, i propri ricordi partigiani. Ricordi accesi, ancora attaccati alla carne. Ma con parole cercate tra tante e tante per dire un’esperienza eccezionale. Eccezionali, le esperienze, solo per chi le vive.» [23 Aprile 2015]


«Quali sono le forze che muovono l’esistenza di un individuo? Verrebbe da rispondere – in un elenco tra l’evidente e l’ovvio – il carattere, la Storia (con le sue incisioni sul vissuto) e infine la più importante di tutte: la sorte. Ma forse, ragionando sulla straordinaria biografia di Ivar Oddone (1923-2011) – dapprima partigiano, poi pioniere della moderna medicina del lavoro italiana – si dovrebbe dire, prendendo in prestito le parole di Italo Calvino, che il suo motore fu «l’enorme interesse per il genere umano».» [25 Aprile 2015]

Il lungo viaggio del partigiano Kim di Davide Orecchio


Il pallone, la Citroën, l’antifascismo involontario di Helena Janeczek

«L’imminenza del 25 aprile mi ha fatto tornare in mente una storia. Non è una storia italiana, neppure una storia di resistenza in senso stretto. La trovo sorprendente, anzi bella, proprio perché è ambivalente e di profilo basso. Una storia tedesca. E di calcio.» [26 Aprile 2015]


«A due giorni dalla Festa della Liberazione, tornare a parlarne ha meno del post e più della considerazione inattuale. Ma tant’è. La parola resilience mi pare che ricorra più spesso in inglese, forse come conseguenza dei dibattiti in voga nelle scienze sociali anglofone, dalla psicologia del lavoro alla sociologia ambientale. In italiano salta subito agli occhi quanto pericolosamente i due sostantivi resistenza e resilienza si somiglino.» [27 Aprile 2015]

25 Aprile. Resistenza o resilienza? di Jamila Mascat


“Vivo, sono partigiano.” ANTONIO GRAMSCI [22 gennaio1891-27 aprile 1937] di Orsola Puecher

«“Vivo, sono partigiano.” scrive Antonio Gramsci l’11 febbraio 1917, quasi cent’anni fa, e in questo imprescindible sillogismo, in questo cogito ergo sum fra vivere, essere vivo e partecipare, parteggiare nella vita della πολις, in questa esistenza politica, in questa politica esistenziale, sta in nuce il primo seme della futura Resistenza. » [25 Aprile 2016]


«L’accadere di una tale scelta, il suo segnarsi nella coscienza individuale come una frattura originante, permette un recupero del concetto di anabasi come euristica positiva atta alla delineazione della nuova erranza che la Resistenza inaugura. La scelta infatti rinviene nella contingenza necessitante delle determinazioni storiche un registro valoriale, di giustizia, che le trascende, che assume la necessità al livello della decisione.» [24 Aprile 2017]

Errare è partigiano. Note sulla Resistenza di Matteo Cavalleri


“Non volevo servire i nazifascisti.” di Orsola Puecher

«Nella storia della mia famiglia ho portato su di me la Storia della prima metà del ‘900 quasi inconsapevole, per anni: la morte di mio zio Giancarlo Puecher fucilato dai militi della RSI a Erba dopo un processo farsa, il 23 dicembre 1943, partigiano di una brigata di ragazzi, che ancora non era riuscita nemmeno a compiere grosse azioni.» [26 Gennaio 2018]


«Alla manifestazione milanese del 25 aprile scorso ( 2017) ha destato disappunto e ironia il cartello portato da un militante del PD che inneggiava a Coco Chanel come madrina spirituale dell’Europa unita, dati i trascorsi antisemiti e collaborazionisti della celebre stilista che evidentemente gli estensori del cartello ignoravano.» [22 Aprile 2018]

Il paralogismo di Coco di Giorgio Mascitelli


[1938-1940] ILIO BARONTINI “vice-imperatore” dell’Abissinia di Orsola Puecher

«Ilio Barontini parte per l’Africa Orientale nel dicembre del ’38. La missione era stata preceduta da contatti con Di Vittorio, Grieco, Berti, la segreteria del Negus e le autorità francesi. Ha il compito di organizzare la guerriglia contro gli invasori e la propaganda antifascista fra militari e coloni italiani.» [25 Aprile 2018]


«Nel mese di marzo di settant’anni fa nell’Italia sconvolta dalla guerra si produsse un fatto inaspettato, che rappresentò la prima vera crepa della dittatura fascista e l’inizio del lungo e drammatico percorso di riconquista della democrazia e della libertà. Decine di fabbriche del nord, tra cui quelle più importanti per la produzione bellica, si fermarono.» [31 Marzo 2013]

Marzo ’43. La spallata operaia al fascismo di Claudio Dellavalle


  

«Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.»

Piero Calamandrei


Margot canta Pietà l’è morta [1944] di ⇨ Nuto Revelli
 
Lassù sulle montagne bandiera nera:
è morto un partigiano nel far la guerra.
 
È morto un partigiano nel far la guerra,
un altro italiano va sotto terra.
 
Laggiù sotto terra trova un alpino,
caduto nella Russia con il Cervino.
 
Ma prima di morire ha ancor pregato:
che Dio maledica quell’alleato!
 
Che Dio maledica chi ci ha tradito
lasciandoci sul Don e poi è fuggito.
 
Tedeschi traditori, l’alpino è morto
ma un altro combattente oggi è risorto.
 
Combatte il partigiano la sua battaglia:
Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia!
 
Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia!
Gridiamo a tutta forza: Pietà l’è morta!

[ a cura di ⇨ Orsola Puecher]

ATLANTI INDIANI

controversoincontro (#3)

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di Giacomo Sartori

Stasera invece

non potrei sopportare
di vederti
seduto a tavola
con loro
mi viene male
solo a pensarci
non ti accetterà
mai e poi mai
tra il resto
si chiama come te
non so se mi spiego
mi dicevi

Nuvolo: Nuntius Celatus nel suo splendido eremo

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di Bianca Battilocchi

 

È stato ed è tuttora arduo dipanare i fili intrecciati nelle opere di pittura aniconica, particolarmente in quelle realizzate da artisti lontani dai riflettori.

Dopo Variazioni: a visual polyphony, film sugli esordi di Alberto Burri, Giuseppe Sterparelli si è cimentato nuovamente in nome di un altro suo conterraneo, Giorgio Ascani, più conosciuto come “Nuvolo” (Città di Castello 1926- Città di Castello 2008). In un agile documentario dove si alternano immagini di opere inedite e allestimenti noti dedicati all’autore, si staglia incisiva la voce dell’amico, collaboratore e mentore, il poeta Emilio Villa (1914-2003), qui interpretata dall’attore Roberto Latini. Villa lasciò infatti vive e indelebili descrizioni del pittore umbro che dal primo venne eletto “Nuntius Celatus” –  messaggero clandestino – in quanto figura solitaria, “ospite del suo solo splendido eremo” (Villa, Attributi dell’arte odierna).

 

 

Non distante dall’approccio villiano, Nuvolo lavorava per se stesso, fidandosi del proprio istinto e isolandosi appena possibile dal mercato. Si prenda ad esempio la sua innovativa sperimentazione con la tecnica serigrafica, anni prima dell’avvento della Pop Art e di figure come Andy Warhol. Dal suo eremo in veste di laboratorio nascevano le Esoedizioni (1954-2005) o le Serotipie (1952-2008) –  altri titoli eletti da Villa –  le prime come libri d’artista in collaborazione con poeti e in militanza contro l’editoria canonica, le seconde come stampe su carta, tela, legno, cellotex e poliestere. Ognuna di queste opere sperimentali si presentava programmaticamente in copia unica, ponendosi in contrasto con la riproducibilità commerciale e quindi con la svalutazione seriale. L’unicità fungeva così da sigillo, in linea con l’imperturbabile distacco del pittore che dalle descrizioni villiane può ricordare la figura atemporale di un monaco.

È peculiare in Nuvolo l’interesse tecnico-scientifico, così come la sua sapienza industriale: orizzonti non comuni, votati a inventare nuovi strumenti di indagine; talvolta il telaio serigrafico oppure una macchina da cucire Vigorelli in condivisione con la moglie Liana. Proprio con la Vigorelli l’artista si appropriava di un nuovo attrezzo per il disegno e per la campitura pittorica. Adoperava materiali di diversa provenienza – fustagno, camoscio, velluto, cotone, ecc. –  e spesso restituiva vita a tessuti ricavati da abiti usati attraverso collages di grande rigore geometrico, che furono chiamati “Cuciti a macchina” (1958-1963). 

“Nuvolo mi inventava sotto gli occhi, sotto l’ipotesi d’assurdo, con strumento inedito (impiastrature sui relitti deperiti del telaio serigrafico), pareti e pareti e pareti sporgenti direttamente dalle ansie più precoci … silenziosi suburbi, popolazioni orticarie, tempeste … tentava materie non dicibili, svanite, forse tentava la dicitura stessa e l’energia delle tenebre… di torce in dissoluzione, ultimi abbagli.”

(Villa, Attributi dell’arte odierna).

L’amico e complice Villa lo descrisse inoltre come un inventore cieco del “paese della mente”, un luogo di tenebre continuamente da indovinare e ri-creare dal nulla. E sul nulla nell’arte non figurativa, e a proposito di Nuvolo, si sofferma lo studioso Aldo Tagliaferri che ne intravede relazioni con la concezione del “reale” in Lacan (Tagliaferri, Una materia controversa e cinque invenzioni di Nuvolo). Se la “realtà” è descritta dal simbolico e dal linguaggio, il “reale” al contrario “coincide con il nulla e la creazione dal nulla”. Posta in questi termini, distanti dal creazionismo occidentale, l’arte di Nuvolo è “sostituzione e imitazione del nulla”, inseguimento dell’enigma, poesia della sottrazione, intesa alla maniera del filosofo francese Jean-Luc Nancy:

 “Se in quale modo abbiamo accesso a una soglia di senso, ciò avviene poeticamente”.

 

 

A dieci anni dalla scomparsa di Nuvolo, il cortometraggio di Sterparelli, uscito lo scorso novembre per SkyArte HD (con produzione dell’Archivio Nuvolo e collaborazione con 3D Produzioni) riporta alla nostra attenzione la figura non minore di chi ha cercato nuovi segni visibili del nostro esserci.

“E veramente, con le diciture di Nuvolo, o anche attraverso le sue diciture, noi sappiamo quello che si sa, quel poco che possiamo conoscere, intorno alle cose che si presentano e rappresentano nel teatro della pittura: e cioè, che in ultima istanza, ogni cosa, ogni manifestazione, ogni parvenza è un segnale: e ogni segnale è un enigma; e l’oscurità dell’enigma è la sola vicinanza alla vita.” (Villa, Attributi dell’arte odierna).

 

La convalescenza

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Anna Giuba

Un libro non è un libro. È un attentato al dolore, magia oscura, frammento di universo. È pulsazione di stella morta che ancora ha luce. È un pezzo di vita spezzato come uno spaghetto.
Un libro salva la vita, a volte. Per me fu Steinbeck, L’inverno del nostro scontento. Stava nella mia libreria dall’anno in cui ero nata, apparteneva a mio padre. Fu mia madre a portarmelo, afferrato a caso tra i tanti, nel reparto di psichiatria dov’ero chiusa. I libri ti cercano, certi libri t’incontrano.
Aspettano sotto la polvere per anni, e poi ti scovano, nel momento in cui tu hai più bisogno di loro.
Quel quarto giorno di degenza Sabrina la rom, piedi scalzi per il reparto e occhi mandorle dolci, era scappata. Addormentandomi nel mio letto di ferro , avevo detto a Roberta, che era accanto a me – Chissà Sabrina, se è tornata nel suo campo… magari là accendono i fuochi. – e avevo posato il libro sul petto, scostato gli occhiali dal naso nella luce scabra della lucciola di neon.
– Probabile. – aveva risposto Roberta.
– Mangeranno carne alla griglia. Lo sai, i rom sono un popolo di pace. Li odiano perché sono sporchi e rubano, ma sono il solo popolo della terra a non aver mai fatto una guerra. –
Roberta aveva assentito nell’aria assorta della terapia della notte. Forse era troppo giovane per capire davvero. La giovinezza a volte è una gran fregatura.
– Tornerà? – aveva aggiunto.
– Forse, chi lo può sapere. Ha i piedi liberi, e qui la porta è chiusa. – e avevo riaggiustato gli occhiali sul naso e ripreso la mia lettura nella lucciola di neon sospesa sul letto di ferro.

Ero con Ethan. Niente poteva staccarmi da lui e Mary in quei primi giorni di degenza. L’urto era stato frontale. Bevevo e giocavo, e ci andavo anche a fondo, con quell’autodistruzione. Quando uno si autodistrugge, non sa mai perché, lo fa e basta. Va come un treno. Un amico alcolico una sera mi aveva detto, al bar degli spostati – Se non vedi la fine del tunnel, arredalo. – E mi ci ero sistemata anche bene, nel mio tunnel personale, ora avevo anche un letto in psichiatria. Nessuno aveva leggi per impedirmi di bere e di giocare, se non loro, i medici dell’anima. Ma come si fa a curare l’anima. Se non parla, l’anima, è solo per paura.
Come poco parlava Roberta. Oh, Roby, con i suoi tentativi di suicidio a ripetizione, con quel voler cercare la morte come un porto sicuro, l’unico dove si è realmente liberi. Ma per che sogni possano venire in quel sonno. Roberta non doveva morire. Se è vero che tutti hanno un compito, e non svaniscono nella polvere fino a che quel compito non l’hanno compiuto, Roberta doveva vivere.

La osservavo dormire, a volte, il sonno inspessito dei farmaci, trent’anni di zigomi alti e paffuti. La rivedevo bambina, come lei mi aveva raccontato, vittima di chi era meno fragile di lei, o forse lo era di più, soltanto sapeva nasconderlo meglio. E i bulli non avevano scherzato, con le sue sopracciglia spesse e i baffetti sulla sua faccia di bambina. Le era rimasto dentro quell’annullarsi, quello sciogliersi dentro il nulla, come le sue gocce in un bicchier d’acqua. Anche se ora i baffetti e le sopracciglia spesse erano spariti, Roberta si cullava nel ventre la morte. La cullava come avrebbe fatto con un sogno abnorme. Ma Dio le teneva una mano sulla testa, su quei suoi capelli lisci, e scuri, e lunghi, e le diceva – Figlia mia, bambina. Puoi ingoiare quante pillole vuoi, ma il tuo sangue resterà limpido, perché così deve essere. –

M’imbattevo nei suoi movimenti limpidi e tondeggianti. Le prendevo una mano, a volte. Così, come fosse la bambina che non avevo mai avuto. Roberta amava tutti, indistintamente. E quando l’io annega nel troppo amore è un po’ come pungersi con lo stelo di una rosa. Mi sembrava di vederla costantemente sola, esposta all’infinito infuriare delle tempeste dell’anima, dei venti dell’esistere.
Ma non erano fatti miei, così ritornavo a bere con Danny Taylor e la sua bottiglia, a chiedere un dollaro per ubriacarmi, a chiedere ad Ethan e Mary di salvarmi, ancora per una pagina.

Luis Garcia Montero, un poeta senza eroi

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di Lorenzo Pompeo

Un inverno mio, la raccolta di poesia di Luis Garcia Montero, appena uscita nella collana “Poesia” diretta da Giorgio Manacorda ( Eliott edizioni, 2018, euro 17,50) rimette a disposizione del distratto lettore italiano un altro tassello per conoscere meglio il poeta nato a Granada nel 1958. Nel 2000 era uscita per i tipi della fiorentina Casa Editrice Le Lettere la traduzione della raccolta del 1994 Habitaciones separadas (tradotto in italiano come Tempo di camere separate) il cui quarto di copertina riporta una dichiarazione di Octavio Paz nella quale veniva definita «opera di un giovane, ma già importante» (anche se al momento in cui il libro uscì in italia aveva già 48 anni!). Sempre in questa edizione Paz ricollegava l’autore al filone della “poesia dell’esperienza” («potremo chiamarla anche poesia della vita, poesia che tratta di esplorare la realtà di tutti i giorni, che confina da una parte con il meraviglioso e dall’altra con il quotidiano» – chiosava il poeta messicano).

Successivamente, nel 2012 è uscita per Di Felice edizioni Cinquantina, una personale antologia uscita per il cinquantesimo compleanno dell’autore (2008) con cinquanta poesie («Adesso che compio cinquanta anni ho sentito la necessità di fare un’antologia con le 50 poesie che mi lasciano più tranquillo» – scrive l’autore nella nota).

Quest’ultima raccolta, appena uscita in Italia (era uscita in Spagna nel 2011) rappresenta quindi una specie di consacrazione per un poeta che, evidentemente, non può più essere ignorato dalle nostre parti. Luis Garcia Montero esordì con la raccolta Y ahora ya eres dueño del Puente de Brooklyn nel 1980 (con la quale vinse il premio Federico García Lorca) mentre nel 1983 la sua successiva silloge El jardín extranjero si aggiudicò il premio Adonais. Dopo la laurea all’Università di Granada, si dedicò allo studio della poesia di Rafael Alberti, che fu anche suo amico (ne curò anche l’edizione delle opere). Nel 1983 firmò insieme agli altri due poeti di Granada Álvaro Salvador e Javier Egea, l’articolo La otra sentimentalidad, che viene considerato il manifesto della cosiddetta “poesia dell’esperienza”, termine sotto il quale si riconosceva un raggruppamento di autori che proponeva di arrivare a una nuova poesia adatta ai nuovi tempi rifacendosi alla lezione di Jaime Gil de Biedma (poeta protagonista della cosiddetta “scuola di Barcellona”) e di Rafael Alberti. Il concetto nel quale si riconoscevano i membri di questo effimero raggruppamento era la “storicità radicale”, secondo il quale la letteratura è il prodotto del soggetto, il quale a sua volta è il prodotto della storia. L’impegno politico, la dimensione collettiva e la vita privata del poeta si trovano, secondo questo postulato, all’interno della medesima circonferenza.

In Luis García Montero, poeta del nostro tempo Gabriele Morelli, il curatore del volume, così definisce la poetica dell’autore: «Diciamo che lo sguardo del poeta rivolto al lettore è condizione essenziale del discorso poetico di Luis García Montero in quanto coglie e rappresenta la realtà quotidiana. La persona con cui l’autore si confonde è il cittadino che vive a contatto con gli oggetti e i simboli lacerati della modernità, dove il sentimento di solitudine creato delle relazioni sociali sostituisce il senso del male baudelairiano, come indica il poeta nei componimenti della raccolta Las flores del frío (1991). Anche i libri precedenti e successivi affermano un tono monologante che oscilla tra l’autobiografia e i condizionamenti ideologici propri della collettività.» (pp. 7-8). Morelli coglie bene quello che in sostanza è il punto centrale della poesia di Montero: l’imprescindibile presenza dell’io dell’autore, impegnato in un fitto e incessante dialogo con il mondo che lo circonda, la circonferenza della contemporaneità nella quale la prima persona singolare diventa plurale, partendo da e tornando sempre all’io, al punto di vista del soggetto-autore, ma dopo avere realizzato un movimento circolare nel quale la circonferenza della sfera pubblica e di quella privata si sono perfettamente sovrapposte. Paolo Ruffilli, a proposito del granadino, scriveva: «Muovendo da una profonda esigenza interiore di verificare con se stesso e di comunicare agli altri la propria visione del mondo e della vita, Garcia Montero costruisce i suoi rigorosi quadri, mirando a isolare i tagli, le fessure, gli scollamenti, in cui si esprime e si dichiara il disagio personale del non-riconoscimento, del vuoto.»[1].

Le situazioni a cui le liriche fanno riferimento sono spesso scene di vita quotidiana e di ambientazione urbana, molto comuni, che però l’autore riesce a distillare e trasfigurare in modo originale come, ad esempio, in Ci sono aerei che partono da nessun luogo e non atterrano da nessuna parte in cui la scena di un passeggero che deve spogliarsi per passare i controlli di rito all’areoporto («Sulla vaschetta metto / l’orologio, il portafoglio, il cellulare / e la cintura») che diventa un pretesto per tracciare un bilancio della propria vita («La luna mi chiede, / chi sono io?, / scusate l’insistenza, / ma non so rispondere »). Oppure in Vivere è piegare le bandiere dove l’autore racconta il commiato da una casa nella quale ha vissuto.

Altrove l’autore ricorre all’espediente dello specchio per creare uno sdoppiamento che gli consente di passare dal monologo al dialogo con il riflesso («Lascio i vestiti sudici ai piedi della sedia / il letto disfatto, / i piatti da lavare, / gli asciugamani per terra, e nella stanza da bagno / lo specchio velato di nebbia / dove ancora appare / il nudo senza pelle dell’impostore / che ora esce in strada, / e saluta gli altri, / e attende chi lo chiama per nome» scrive in Forse usciamo da noi stessi, ma rimane quasi sempre una porta mal chiusa). in Gli specchi, (tratta da Tempo di camere separate) scriveva: “Non importa se hai dormito molto o poco, / gli specchi d’hotel non perdonano mai / e sono come gli animali di montagna  / che non accettano il contatto con gli uomini”[2].

La scelta di puntare il compasso della propria poetica sempre e solo sull’io costituisce il punto di forza e, nello stesso tempo, il punto debole della poesia di Montero, evidentemente sempre fedele a se stessa (in senso positivo o negativo, secondo i gusti e i punti di vista). Il teatro dell’io è quello in cui sono ambientate tutte le sue liriche, che appaiono sempre legate a un vissuto personale semplice e comune. Nell’epoca del “selfie” e dell’egolatria dilagante, tale scelta potrebbe sembrare puro autolesionismo, ma per fortuna l’autore sfugge a un vacuo autobiografismo attraverso scarti improvvisi e lampi, colpi d’ala che riscattano la banalità del pretesto che era stato il punto di partenza.

Quella di Montero è una proposta chiara e semplice: lavorare su materali presi dalla vita quotidiana. Mai alcun riferimento al mondo del mito o alla sfera del sacro o una ipotesi di trascendenza così come assente è la voce della natura, che non viene considerata un elemento dotato di un qualche ruolo autonomo o di una sua voce in quel panorama urbano in cui agisce l’io lirico.

Montero ci propone in sostanza una poesia che rinuncia all’epos, di impianto materialista, inscritta totalmente nel piano della sincronicità con il suo autore. Può piacere o meno, ma credo sia una proposta che vada presa seriamente in considerazione.

 

[1]Paolo Ruffilli, Premessa, da: Cinquantina,Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2012, p. 8

[2]da: Tempo di camere separate, Le lettere, Firenze 2000, p. 63, traduzione di Alessandro Ghignoli.

da “Omonimia”

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di Jacopo Ramonda

[Pubblichiamo alcuni estratti da Omonimia, Interlinea, collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, 2019.]

 

dalla prima sezione: Nomi

 

Mattia (#1)

I loro limiti personali non combaciano con i patti che hanno stretto, con le promesse di cambiare, più volte tradite. Una lunga serie di inadempienze caratteriali ha progressivamente ridimensionato le loro aspettative nei confronti di un matrimonio fondato sull’intenzione di manipolarsi a vicenda. La situazione si è complicata drasticamente quando hanno scoperto di non poter avere figli. Mattia non ha accolto con entusiasmo l’idea dell’adozione, e F. si è detta contraria a ricorrere alla fecondazione assistita.

 

Mattia (#2)

La conversazione procede a stento, in una sorta di traduzione simultanea. Mattia e F. tentano di manipolarsi a vicenda, trasformando la frustrazione in argomentazioni condivisibili e i torti subiti in crediti da riscuotere. È una trattativa estenuante, portata avanti con grandi sforzi; ma senza risultati apprezzabili e rallentata dalla necessità di continue puntualizzazioni, in direzione di un compromesso che lascerà insoddisfatti entrambi. Poco disposti a negoziare uno sconto della pena per i crimini di cui sono chiamati a rispondere, rispetto ai quali hanno più volte ribadito la loro innocenza, si vengono incontro a scatti, parlandone malvolentieri, maneggiando nervosamente qualunque piccolo oggetto venga attratto nel loro campo gravitazionale, tormentando cerniere, capelli, occhiali ed evitando, per quanto possibile, di incrociare i loro sguardi, che puntano fuori fuoco su dettagli periferici, come se fossero appigli a cui tentano di aggrapparsi per rallentare la caduta.

In attesa della resa dei conti finale, perennemente posticipata, Mattia e F. consumano la cena a tarda sera, dopo lo scontro, divorando a grandi morsi le carcasse delle reciproche accuse. A un tratto, nell’appartamento salta la corrente, e restano al buio. La televisione si ammutolisce, proprio come loro due. Sollevano la testa dal piatto. L’insegna luminosa della farmacia lungo la strada, al piano di sotto, inonda la cucina attraverso la finestra. Le pupille si adattano in fretta all’oscurità, squarciata a intervalli regolari dalla luce verde intermittente. Per qualche istante si fissano in silenzio. Dopo mesi di continui scontri, all’improvviso Mattia la riconosce di nuovo, quasi incredulo: è proprio lei.

*

dalla seconda sezione: Omonimia

 

#1042

Mi chiamo Andrea. Da un paio di settimane lavoro di notte, in un supermercato, all’interno di un grande centro commerciale. Sistemo i prodotti negli scaffali, lungo le corsie vuote, immerso in profondità nel silenzio straniante di un luogo che mi fa pensare a una città fantasma.

 

 

#489

Mi chiamo Andrea, e ho una sorella gemella. Da bambine nostra madre ci vestiva sempre uguali. Lo facciamo ancora, anche quando usciamo separate. Vivendo insieme, non è poi così complicato. I contenuti dei nostri armadi sono praticamente identici. La maggior parte delle persone che conosciamo non è in grado di distinguere l’una dall’altra. A volte mi chiedo cosa ne pensino realmente i nostri compagni. Uno di essi è figlio unico, e sono piuttosto diversi tra loro, sia sul piano fisico che a livello caratteriale. Non so se M. abbia mai provato ad affrontare seriamente l’argomento con mia sorella; anche se, in tal caso, lei me ne avrebbe di certo parlato.

 

 

#558

Mi chiamo Andrea. Sto guidando verso casa. Pochi istanti fa, il tizio davanti a me ha frenato bruscamente. Io ero distratto. Gli sono andato molto vicino. Ora sto pensando ai decimi di secondo che intercorrono tra l’avvistamento di un ostacolo e l’inizio della frenata, o l’attuazione di altre contromisure. La differita che ci tiene al riparo dal presente: un’era di durata infinitesimale. Vorrei poterla perpetuare e vivere in quella feritoia del tempo.

 

 

#1096

Mi chiamo Andrea. Attraverso lo spioncino della porta, osservo la mia vicina: reggendo con una mano due buste della spesa, infila con l’altra la chiave nella toppa e fa il suo ingresso in casa. L’ho sentita arrivare in ascensore. Rientra quasi sempre intorno a quest’ora.

 

 

#1022

Mi chiamo Andrea. Almeno per il momento, non posso fare altro che continuare a navigare a vista.

 

 

#1187

Mi chiamo Andrea e, dentro di me, so che non si è trattato di un incidente. Ero consapevole della gravità delle azioni che stavo per compiere, ma non sono riuscito a trattenermi.

 

 

#12

Mi chiamo Andrea. Sopraffatta dallo sconforto, faccio un passo indietro. Trovandomi subito con le spalle al muro, mi lascio scivolare verso il basso, forse in cerca di un punto di vista differente, e mi siedo sul pavimento, con il freddo del marmo che filtra attraverso i jeans consumati.

 

 

#71

Mi chiamo Andrea e, anche a queste elezioni, non ho votato; non solo per sfiducia nei confronti della classe politica. Domenica sono andato al mare e lunedì mattina dritto al lavoro. A dispetto del mio comportamento, trovo in un certo senso paradossale che in questi anni – in parallelo alla diffusione capillare delle tecnologie che hanno limitato il nostro spazio mentale, rendendoci perennemente reperibili e, allo stesso tempo, quasi ansiosi di condividere impressioni estemporanee, opinioni non richieste, in una cronaca piatta e continuativa della nostra vita quotidiana – si sia spesso registrata una crescita dell’astensionismo.

 

 

#779

Mi chiamo Andrea e ormai sono irriconoscibile.

 

Come nascono le parole di Adrián Bravi

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di Marino Magliani

Mi piacerebbe sapere come nascono le parole di Adrián Bravi, non dico le storie. Le parole, le cose che immagino dipendano in qualche modo da quella che come la chiama lui in un libretto stupendo, La gelosia delle lingua, è: “La maternità di una lingua [che] non ci insegna solo a parlare, ma ci dà uno sguardo, un sentire, un punto di vista sulle cose”.
Mi piacerebbe dunque essere lì e seguire quello sguardo (gli occhi che poi sorridono, perché), i polpastrelli sulla tastiera, il reticolato che si stende davanti a questo signore proveniente da oltre pozzanghera, da un luogo liquido quasi quanto lo è proprio l’oceano che separa i suoi mondi, luogo pieno di isole, di banchi di sabbia, di paesi talvolta inondati e riemersi diversamente, la terra del fiume che ha popolato le rive di silenzi e racconti, vite, per citarne un paio, quella di Haroldo Conti con Sudeste e di Juan José Saer con El río sin orillas, e dell’Adrián Bravi che sembra essersi caricato sulle spalle un’altra chiatta di letteratura anfibia. Dico mi piacerebbe scoprire come nascono le parole nelle sue storie, perché sta lì il segreto della sua prosa. In uno scarto (ce n’è poi un altro di scarto, quello dell’altra lingua, ma lo vedremo) ci dev’essere un attimo, dopodiché qualcosa è stato inventato. Quello scarto avviene fin dalle prime pagine ne L’idioma di Casilda Moreira, l’ultimo romanzo di Adrián Bravi, uscito da un mese circa per l’editore Exorma. La buona comicità è un ibrido, può contenere una miscela di più culture, lingue, soluzioni, paesaggi, e certe cose di queste che a Adrián Bravi riescono alla perfezione. Occorre essere andati via (non arrivare in un luogo, come sostiene lui, ma andarsene da uno), e andati via davvero, intanto, coltivare in quella lontananza, ne parla Antonio Prete, l’appartenenza. Ma oltre all’essere andati via, manca qualcosa, io ad esempio sono andato via da bambino e quello che chiamavo lo scarto dell’altra lingua non l’ho mai conosciuto, forse, un po’ sì, nel passaggio dal dialetto all’italiano, una forzatura assurda, l’ammissione per un bambino che la frutta dissetante non esiste solo in una lingua ma anche in un’altra, e che se altra frutta quindi, con altri nomi, riesce a dissetarti, allora tutto dev’essere possibile al mondo… Poi non più, il francese che giungeva dal prossimo confine, l’inglese della strada, il castellano tra Spagna e Latino America, il nederlandese degli ultimi miei trent’anni, no, lo scarto dell’altra lingua non c’è mica mai stato. La lingua è una corazza, ti difende, mi pare dicessero Todorov o Brodskij. Poi giri l’angolo e lo scudo non lo trovi più. Nabokov non lo trovò più, o lo scudo non era più lo stesso. Neanche per Konrad. Si può tradurre da una lingua, si può imparare a scrivere in un’altra lingua, ma sentirne una nuova come una corazza, una tartaruga che si disfa di una cosa o che su quella cosa sente crescerne un’altra… Adrián Bravi c’è riuscito, scrive ormai solo in una lingua, la cui bellezza sta quasi in una traduzione perfetta di gesti, stili, paesaggi. Comicità.
Il romanzo inizia in una terra che assomiglia a quella delle Marche, terra di adozione dello scrittore. Il professor Montefiori, a causa di un incidente di percorso in quell’habitat liquido (mare, pozzanghera, fiume, canale, catalogo acque dell’ossessione braviana) non può fare il suo viaggio in Argentina, nel Nord della Patagonia, specie di sud profondo della Pampa, alla scoperta degli ultimi due rappresentanti del popolo günün a künä: che pare parlino una lingua che si estinguerà, un’antichissima lingua, il günün a yajüch.
È questo l’elemento scatenante. Annibale è uno studente di etnolinguistica, che segue il corso del professor Montefiori. E Annibale compirà quel viaggio. Giungerà, in aereo, treno e camion, alla meta: Kahualkan, microcosmo di case, tettoie e lamiere, una stazione del ferrocarril, in quel vasto contenitore di pianure e venti, ben a sud del sud della Pampa, dove inizia la fine del mondo raccontata Arlt, Payró, Chatwin, Gimenez Hutton, Osvaldo Bayer. E a questo punto la narrativa braviana tradisce un po’ quello che è l’asse liquido, inondazioni ecc. ma è come se il mare, delta, e questo tipo di elementi in genere, fossero assorbiti da quello che a tutti gli effetti diventa il mare del romanzo: la lingua, o la questione della lingua.
La lingua va bene, ma poi in Argentina succederà un po’ di tutto. Ci sarà l’amore, la violenza, il paesaggio, la lingua si salverà, e ci saranno i personaggi, fantastici, e le cose che faranno saranno pure loro fantastiche, ci saranno persino venditori ambulanti che proporranno agli abitanti di quella fine del mondo l’acquisto anticipato della propria cassa funebre. E ci sarà la vita, con le sue assurdità e la sua comicità, come non mancano mai dalle pagine di questo narratore giunto da lontano, che ogni tanto esce di casa e alla svolta si ferma a guardare, mettendo le mani sulla righiera, per guardare l’Infinito esattamente dal punto in cui lo guardava Giacomo.