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Varda for ever

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Oggi, a 90 anni, è morta Agnès Varda, regista pioniera della Nouvelle Vague, autrice di film cult come Cléo de 5 à 7 e Le bonheur, artista, documentarista e in gioventù magnifica fotografa. Il suo ultimo film, Varda par Agnès, è uscito quest’anno; del 2017 invece la sua partecipazione a Visages, Villages, corealizzato con l’artista JR.

Mi piace omaggiarla con il ricordo, scritto anni fa, di un suo film meno noto, fra i meno apprezzati: Les cent et une nuit de Simon Cinéma. [ot]

di Ornella Tajani

Nel 1995, per il centenario della nascita del cinema, Agnès Varda porta nelle sale una pellicola che è una lunga, estatica citazione di film preesistenti, una caleidoscopica composizione di attori, personaggi passati alla storia, giochi mimetici, scambi di ruolo, frasi famose, aneddoti, commenti, ricordi cinematografici e colonne sonore inconfondibili. Un film che è al contempo un omaggio e una dichiarazione d’amore.
Les cent et une nuit de Simon Cinéma sarà stroncato con recensioni catastrofiche, la più gentile delle quali recita: «Piacevole solo per cinefili dai capelli brizzolati e dalla memoria resistente».
In scena Michel Piccoli, il quasi centenario Simon Cinéma, nella sua vita celebre attore, regista e produttore [“ma che ingenuità personificare il cinema!”, ha tuonato la critica], che sta perdendo la memoria e dunque assume una studentessa, Camille, moderna Shahrazād, per fare un ripasso di ciò che di importante c’è stato nel cinema sino a quel momento. Simon però è al contempo Michel Piccoli stesso, quando rammenta la scena in Le mépris dove fuma il sigaro nella vasca da bagno per somigliare a Dean Martin, o quando muore un attimo prima di suicidarsi in La grande bouffe, o quando si ingelosisce nel vedere Catherine Deneuve tra le braccia di De Niro, durante un surreale giro in barca in quella che è poco più di una pozzanghera – o, ancora, quando battibecca con Mastroianni, che interpreta «l’ami italien», ma anche l’amant latin o amant-lapin, come si chiosa nel film. I dialoghi sono tutti frammenti di citazioni, e qui il critico diceva bene, è una gara tra cinefili per riconoscerli tutti: «Non capisco più niente, chi recita cosa, adesso?», esclama esasperata la pur preparatissima Camille, che anche parla con parole di film, attingendo a Les enfants du paradis. «Aveva ragione Prévert, gli attori non sono persone, sono tutti e nessuno», s’inalbera, mentre Piccoli si diverte di volta in volta con Depardieu, Jeanne Moreau, i fratelli Lumière, che di tanto in tanto appaiono in scena, muti e pieni di lampadine appuntate sulla giacca; a un tratto piomba in scena Sandrine Bonnaire, l’autostoppista di Sans toit ni loi, celebre film di Varda, che si trasforma dapprima in principessa, per ballare un valzer col goffo protagonista, poi in Giovanna D’Arco, per fuggire a cavallo nel parco. Intanto Alain Delon viene mandato via dal singolare segretario di Simon: «Il suo valletto, prego: polimorfo e polivalente», spesso vestito da Arlecchino, al cui fianco troviamo un’acrobatica cameriera cinese che se l’intende col vecchio giardiniere, e che cammina sui bordi dell’enorme e coloratissimo letto al centro del quale troneggia Piccoli, o Nosferatu, a seconda del costume che adotta.
Si passa da Cocteau, a Buñuel e al suo occhio tagliato in due, a Orson Welles, «considerato geniale soltanto perché ha cominciato da giovane», a Hitchcock che campeggia in sagoma cartonata nella camera da letto, a una serie di figure che, una volta evocate, compaiono fisicamente o in foto all’interno del castello stregato: Gina Lollobrigida vestita da fata, Jean-Paul Belmondo scienziato, che dovrebbe aiutare Simon a recuperare la memoria, o ancora Jane Birkin, Anouk Aimée e molti altri, mentre il leone della Metro Goldwyn Mayer passeggia indisturbato in giardino.
Il finale pirotecnico si sposta da una sfilata circense nel parco della villa al più noto défilé sul tappeto rosso di Cannes; un attimo dopo, i titoli di coda, con la lista interminabile dei nomi di chi ha prestato la sua amichevole partecipazione al film, iniziano a scorrere su un campo di grano che cambia colore a ogni attore.
Goliardico, sgangherato, pasticcione: Les cent et une nuit non è un vero film, né ne ha l’ambizione; è un gioco orchestrato ad hoc per essere metacinematografico al parossismo, ed è l’opera variopinta e funambolica di una magnifica regista che sembra essersi molto divertita nell’offrire il suo personalissimo omaggio al cinema, con una pellicola che può ancora incuriosire e forse divertire più di qualche cinefilo attempato.

ATLANTI INDIANI #01 Famiglia

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In occasione del discusso Convegno Mondiale delle famiglie, che si tiene a Verona, abbiamo raccolto un atlante di scritti pubblicati negli anni su Nazione Indiana, e che, piuttosto che offrire una visione unilaterale del nucleo familiare, ne esplorano la pluralità, gli intrecci, i temi al margine e le contraddizioni.
 

FESTEGGIAMOLE TUTTE

In Italia esistono tanti tipi di famiglie. Famiglie ricostituite, famiglie monogenitoriali, famiglie di fatto, famiglie adottive o affidatarie, famiglie aperte o allargate, famiglie caratteristiche di altre culture, famiglie omosessuali, famiglie transessuali, tutte con o senza figli – in una parola famiglie. [21 Maggio 2010]


«Infine i tribunali per i minori esprimono pareri sulle singole situazioni, ed è precisamente loro compito determinare l’idoneità dei possibili genitori adottivi. In definitiva, nonostante le opinioni di alcuni settori, crediamo che bisognerebbe permettere ai cattolici di sposarsi e di adottare dei bambino» [5 Aprile 2007]

Perché siamo favorevoli ai matrimoni tra cattolici, Un Manifesto-appello


La famiglia, all’epoca di Youtube di Alberto Brodesco

«Se prima la presenza della cinepresa stabiliva un’eccezione, ora l’ubiquità della videocamera o del videofonino è la regola, l’ordinario.» [4 Dicembre 2015]


«Tutto quanto ti posso dire è: ‘famiglia’. F.A.M.I.G.L.I.A. Tu non cercare di capire cosa significhi, io stesso non ne ho la più pallida idea. Ma essa è sacra, compatta, opaca come un minerale.» [14 Marzo 2007]

Prometeo, un racconto di Andrea Inglese


Le convitate di pietra di Deborah Ardilli

Deborah Ardilli ci parla di sfruttamento procreativo, abolizionismo, surrogazione e crisi nella rappresentazione della famiglia in occasione del primo convegno internazionale per l’abolizione universale della gestazione per altri. [2 Marzo 2016]


«Chiamatemi pure “senza patria”, chiamatemi “heimatlos”, scegliete se preferite l’elegante “deraciné” o lo strappo palpabile quando lo traduci in “sradicata”.» [20 Ottobre 2003]

La patria impura di Helena Janeczek


Denaturalizzare il corpo femminile. Futurismo e femminismo, tra utopie e tecnologie di Silvia Contarinni

«Si potrebbe celebrare il declino del significato unico che si attribuiva alla esperienza della maternità come un segno di crescita della libertà femminile» Silvia Contarini analizza i rapporti tra futurismo e femminismo, tra utopie e tecnologie [13 Febbraio 2016]


«La scoperta della pornografia coincise con la scoperta del corpo della madre. La pornografia sarebbe stata per me sempre una cosa castissima, essere lo spettatore delle passioni altrui. Una forma di pudore.» [24 Luglio 2014]

La Sacra Famiglia in fiamme di Giorgio Ghiotti

[ a cura di ⇨ Giorgiomaria Cornelio e ⇨ Orsola Puecher]

ATLANTI INDIANI

controversoincontro (#1)

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di Giacomo Sartori

Tic tac toc toc

tic tac
dentro la notte
tic tac
la tua capa
tic tac
fa patatrac

sono sdraiata
nella tomba
la pietra mi schiaccia
le braccia
dimeni le mani
svolti gli occhi

Vedovanza

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di Mirfet Piccolo

Alla fine – perché di questo si trattava, della fine che non lascia dubbi – avrebbe voluto baciarlo ancora o almeno poter stringere la bara che d’ora in poi avrebbe accolto il suo corpo per sempre. Sul volto di Lisa, che era un volto identico a tutti volti delle persone che piangono la morte della persona amata, e cioè corroso dal dolore, si disegnò un sorriso breve e amaro. Lui era stato un uomo leale e buono, lui era stato il grande amore della sua vita, e non era stata certo colpa sua se negli ultimi mesi le circostanze lo avevano costretto a stressanti ma necessarie mediazioni, esattamente come non poteva essere imputato a lui il dolo dell’incidente d’auto che lo aveva ucciso. Ci sono cose che accadono, pensò Lisa, imprevedibili e che non si possono controllare: così è l’amore e così è la morte.

Piuttosto, se c’era una colpa, se davvero una colpa andava trovata in quel pasticcio che è la vita di alcune persone quando vengono in contatto l’una con l’altra, ecco, se c’era una colpa quella era di Lisa: in quel loro ultimo piccolo litigio, lei non era stata in grado di controllare la frustrazione e ora era il cuore del suo rimprovero a se stessa, era il suo senso di colpa per non averlo amato incondizionatamente, per non avere avuto del tutto fiducia in lui. Lo sguardo di Lisa si posò su una foto di loro due, insieme: era stata una vacanza al mare di un giorno solo, un giorno rubato alle complicanze della vita.

Lisa aveva prenotato un taxi per le nove e trenta, e quando avvertì l’auto sostare e guardò il suo orologio da camera che in quel momento segnava esattamente le nove trenta, lei rallentò i suoi stessi movimenti: la verità di quella morte – era davvero morto? era successo a loro, tutto questo? – era in quella lancetta e lei voleva lasciarla correre ancora e ancora, ritardarne l’esistenza.

Finì di chiudere i lunghi capelli lisci in uno chignon e nel farlo si impose di non pensare alle sue mani tra i capelli quando la baciava e la stringeva dopo aver fatto l’amore e le diceva tu sei il mio angelo innocente, Lisa, il mio angelo, vieni ancora qui, sopra di me, e fatti guardare. Fallì, e infatti gli occhi le si riempirono di lacrime ma senza traboccare: rimasero sospese, la loro caduta andava rimandata e in questo Lisa fu determinata. Dopo, si disse, dopo; e ci riuscì. Una ciocca di capelli sfuggì alla costrizione e cadde nuovamente sul lato sinistro del suo viso; con un gesto della mano, Lisa la spostò dietro all’orecchio, ma poi la lasciò nuovamente cadere sul volto perché in fondo quella ciocca era uno scudo, una protezione. Con del fard mascherò l’ombra che dal giorno dell’incidente aveva iniziato a nascere tra le pieghe del suo viso, un’ombra che era il triste residuo di una gioia spenta prematuramente. Indossò le scarpe e s’infilò il soprabito. Ora Lisa aveva questo: un amore interrotto e un pianto da soffocare, un contegno da mantenere; e poi aveva un appartamento pregno di ricordi dove alla fine sarebbe tornata, inevitabilmente, senza più qualcuno da aspettare. Lo aveva amato, lo avrebbe amato per sempre e al contempo mai più.

Riflesso allo specchio, quello che si vedeva era una donna in abito scuro che stava facendo del suo meglio per celare lo strazio e mantenere un contegno, un contegno che tutti, là fuori, chiamavano dignità. Portare il dolore con dignità, essere una donna forte.

Fuori dall’appartamento, il cielo terso e luminoso conteneva un abbozzo di primavera e una coppia di merli. Lisa prese posto sul taxi e disse all’autista il nome della parrocchia e la via, ma di fare un giro largo, per cortesia, ché aveva bisogno di un po’ di tempo. Di solito vogliono che voli per paura del tassametro, rispose l’autista con fare meravigliato e ridente, e insieme al motore diede avvio al racconto di svariati aneddoti che negli anni di lavoro per strada lo avevano visto come protagonista o co-protagonista. Sul mio mezzo, raccontò, ho portato in giro gente di ogni tipo, sa? Insospettabili, davvero; ho visto di tutto e non mi meraviglio più di niente. Una volta un tizio sale e mi dice mi porti in questo posto, in fretta, che c’è mia moglie che vuole che le prenda assolutamente una cosa. Sa dove l’ho dovuto portare? Non indovinerà mai. Lisa non prestava attenzione, guardava fuori dal finestrino e teneva sotto controllo l’impulso di dire a quell’uomo che lei era, in sostanza, una vedova che si apprestava a seppellire il grande amore della sua vita, e quindi di tacere. Perché in fondo, date le circostanze, Lisa avrebbe voluto almeno questo: il diritto di far tacere il mondo circostante, di insultarlo e, perché no, di prenderlo a pugni; non aveva, lei, il diritto di essere arrabbiata per quella morte, il diritto alla disperazione? Sì, lei lo sapeva. Sì.

Ma poi, quando Lisa scorse le mura della Chiesa e la croce conficcata nel cielo, immaginò di percorrere la navata non come una vedova, bensì come una sposa e di urlare a tutti che si erano amati fino alla fine, cioè fino a trenta minuti prima di quel maledetto incidente. Varcò l’entrata della Chiesa e non fece nulla di ciò che aveva disperatamente immaginato. D’istinto, tentò di fuggire alla vista della bara, la scansò come se quel suo movimento degli occhi potesse essere davvero utile a scacciare quella morte; se non la vedo non esiste, si disse, non deve esistere. I posti in fondo, sia nell’ala destra sia quella sinistra della navata centrale, erano tutti occupati da quelli che erano stati gli studenti di lui, dei ragazzini di un istituto tecnico senza infamia né lode, perciò Lisa procedette un poco più avanti.

Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore.

Trovò un posto sul lato destro, non lontano dall’altare e anzi, forse troppo vicino: voleva vedere ma non essere vista. Lisa si guardò la punta dei piedi e poi su, dall’inginocchiatoio sino al poggia-gomiti e poi oltre la persona davanti, forse un collega o un semplice amico d’infanzia – chi sono tutte queste persone? chi sono io, ora? –, fino ad arrivare a non poterne più fare a meno: ecco la morte nel legno scuro e lucido, circondata di fiori; ecco i parenti e gli amici dei quali Lisa non conosceva nulla, a dire il vero, perché lui non ne parlava mai. E infine eccola, quella era certamente lei, seduta in prima fila che strozzava il pianto, e con il braccio dell’amica che la cingeva per consolarla: gli amici e i parenti tutti, ogni singola persona in quella Chiesa fredda e con l’aria satura di incenso e cera decomposta, avrebbero avuto le parole giuste da dire alla donna rimasta vedova a tutti gli effetti.

Se noi moriamo, moriamo per il Signore.

Baciarlo ancora una volta, sì, oppure (e questa sì che era una follia!) sostare vicino al suo corpo nudo, morto ma nudo. Così lui le aveva detto un giorno: quando morirò, mi piacerebbe essere seppellito nudo e dare uno vero scandalo lassù, il primo e ultimo della mia vita; riesci a immaginarlo? Era il ricordo di una sciocchezza detta dopo un orgasmo felice. Questo nessuno poteva saperlo, e lei non era nella posizione per poter far sì che quella volontà fosse rispettata.

Ad ogni modo, lui era stato un uomo generoso, un uomo che aveva deciso di sacrificare degli anni della sua vita per stare vicino alla moglie malata di cancro, e quindi no, forse, pensò Lisa, non aveva nulla da invidiare alla moglie e doveva, ora, cacciare via quella sorta di gelosia retroattiva visto che lei, di gelosia, non aveva mai provata, perché non si può essere gelose di una donna alla quale hanno detto che ha in corpo un cancro e che questo cancro è inoperabile, una donna con un marito compassionevole e che in realtà amava un’altra e dava a quell’altra il suo vero Io, la sua essenza. Era stata impaziente di averlo tutto per sé, impaziente di avere la sua felicità e quindi a volte, come nel caso del loro ultimo litigio, lei aveva dubitato della sua sincerità; ora l’uomo che amava era solo un corpo, carne vuota e morta, e Lisa non si sarebbe perdonata facilmente i suoi errori. Sentì nascere nel suo petto un pianto feroce, arrabbiato, ma non avrebbe potuto giustificarlo – che diritto hai, tu, di piangere così? qual era il vostro grado di intimità? – e allora strinse i denti e poi strinse forte le mani attorno al poggia-gomiti.

La cerimonia sarebbe terminata tra abbracci e condoglianze e ricordi sussurrati e lei, Lisa, non avrebbe saputo cosa dire per giustificare la sua presenza e il dolore che certamente, lo sentiva, era ben visibile. Chi sono io per aver pianto così tanto? E per la risposta mancante, tra gli amen e i lodato sia il Signore dei presenti alla cerimonia, Lisa silenziosamente rimproverò lui – uno di quei rimproveri carichi di amore che si fanno alle persone che non ci sono più, che più che rimproveri sono un atto estremo di riaverle in vita (non avresti dovuto andartene senza aver sistemato questa e quell’altra faccenda, accidenti a te amore mio, perciò ora torna per finire ciò che hai lasciato incompleto) –, rimproverò lui per non averle suggerito, quando era ancora vivo e nudo a scherzare con lei nel suo letto dopo aver fatto l’amore con foga, una risposta a una tale ipotetica evenienza. Ma lei avrebbe resistito dal dire chi era, sì, lei non lo avrebbe deluso proprio ora, avrebbe trovato la risposta giusta nel caso ci fosse stato bisogno. Erano ancora amanti e sarebbero rimasti amanti per sempre, e a questo pensiero Lisa provò uno strano orgoglio e vi ci si aggrappò; io lo conoscevo davvero, pensò.

Dona loro eterno riposo, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Il giusto sarà sempre ricordato, non temerà annunzio di sventura.

Il prete invitò la vedova a ricordare il defunto; la donna salì lentamente sull’altare e sollevò il viso ai presenti.

Anche lei, come Lisa, aveva gli occhi segnati dal pianto e le ombre tra le pieghe, quei residui di una gioia annientata. Eppure, pensò Lisa guardandola, quella donna aveva qualcosa di bello e di non malato. Era bella nei sui lineamenti morbidi e nel collo sottile, certamente, ma soprattutto nel modo nobile e dolce con cui portava il suo dolore. Cercò i segni del male che la stava spegnendo, e che aveva impedito a lui di porre fine al matrimonio anche se questo lui non lo aveva mai detto in maniera così cruda, è ovvio, perché si trattava pur sempre della donna che aveva sposato. Ma le aveva parlato, più di una volta a dire il vero, della promessa che aveva fatto alla moglie, con questo male incurabile, di esaudire ogni suo di lei desiderio con lealtà. In salute e in malattia; in ricchezza e in povertà. Forse il cancro era in quelle mani tremanti sul leggio, in quella magrezza innaturale e nel pallore, sì, certamente quel pallore era un segnale inconfondibile insieme ai capelli radi e spenti. Si sentirà in colpa, lei, di essere morta prima di lui, e a questo pensiero Lisa provò un senso di ingiustizia al quale, per pietà, avrebbe voluto porre rimedio: andare da lei, abbracciarla, dirle sai in fondo ti amava davvero, è la verità, credimi, non sentirti in colpa perché tu non hai colpe. Sarebbe stata una piccola menzogna a fin di bene, una bugia bianca con annessa la sua stessa amnistia.

Mio marito, esordì la vedova, è stata la mia fortuna e la mia roccia. Un uomo buono, lo sanno tutti, e generoso; un professore che amava il suo lavoro e suoi studenti, gli amici e la famiglia, un uomo lineare, ma questa sua linearità non lo rendeva affatto un uomo banale, un uomo qualunque, ed è anche per questo che era un uomo eccezionale. La vita, per lui, andava vissuta con pienezza; Barbara, mi diceva, che ce ne facciamo della nostra vita se non facciamo di tutto per essere felici, per godere del e nel mondo, io e te insieme? È stato un marito leale sino all’ultimo, in tutto, e ha fatto suoi tutti i miei desideri più insoliti, alcuni del tutto bizzarri. Ci sentivamo una coppia speciale, insieme eravamo speciali. Amavamo parlare di ogni cosa, anche della morte e c’è una cosa che lui mi diceva sempre: Barbara, amore mio, dobbiamo onorare la nostra lealtà, quella che unisce me e te, anche quel giorno, l’ultimo. Era un uomo che sapeva amare e io sarò con lui sino alla fine. Chiedo scusa se mi mancano le parole per aggiungere altro, per dire quanto la sua presenza abbia contribuito alla felicità non solo mia, ma di molti, fosse anche solo per qualche istante. Questa perdita mi devasta, perdonatemi.

La vedova abbassò il capo, e nello scendere dall’altare barcollò fino quasi a cadere ma fu prontamente sorretta da chi era seduto in prima fila. Dopo aver ascoltato attentamente quel breve discorso, e dopo aver assistito a quella scena, Lisa si sentì ignobile per aver contribuito all’inganno di quella donna, e ora l’unica cosa che desiderava era che la funzione finisse e con essa il suo essere la donna colpevole di aver inquinato un matrimonio.

Assolvi, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da tutti i vincoli dei loro peccati, possano meritare di evitare il giudizio finale per la tua grazia, e godano beati della luce eterna.

La funzione stava per terminare. La vedova e gli addetti dell’agenzia funebre iniziarono a comporre quei movimenti che dicono a tutti che è giunto il momento di accompagnare il defunto al luogo del suo riposo ultimo; la folla ubbidì subito a quella disposizione enunciata con i gesti di rito, e si diresse verso l’uscita.

Quando anche Lisa si alzò dalla panca e, a testa bassa, fece per uscire da quella costrizione alla preghiera, inavvertitamente andò a scontrarsi con le altre persone, sconosciuti uniti dal lutto, e questa calca, questo fiume di persone che scorreva lentamente verso l’uscita, le stava impedendo di fare in fretta, di correre a casa, nella sua camera da letto, a piangere sui ricordi e su se stessa e lasciarsi andare al dolore che solo lei, lì, conosceva: un dolore che doveva restare muto e solitario. Non poté fare altro che arrendersi alla lentezza della folla, e percorrendo la navata centrale verso l’uscita, Lisa immaginò di avere il feretro alle spalle, di poterlo scortare davvero e di stringersi alla bara come con ogni probabilità stava facendo la moglie.

Finalmente fuori, Lisa portò una mano alla fronte per proteggersi dal sole sfrontato e si divincolò per liberarsi dall’agglomerato di gente che ora era in attesa del feretro e di indicazioni sulla strada da percorrere per arrivare al cimitero. Voleva tornare da dove era venuta, e cioè nel suo bilocale senza impegno dove avrebbe ricominciato da capo e da sola, dove non sarebbe stata più l’amante. Eppure, qualcosa la stava trattenendo in quel luogo, qualcosa che era una presa dolce, una mano, e Lisa si voltò per vedere di chi fosse, tra tutte quelle persone sconosciute, quel tocco rivolto a lei, quella mano che le stava dicendo di fermarsi, di non andarsene. Fu così che le due donne si trovarono l’una di fronte all’altra, entrambe bellissime e immobili e con il respiro sospeso e la folla attorno che le guardava.

E lui sta quasi, quasi bene

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di Umberto Piersanti

(Pubblichiamo una storia da Anime perse di Umberto Piersanti, Marcos y Marcos 2018).

Nell’alto Montefeltro vi sono sei centri di recupero diretti da Ferruccio Giovanetti. Accolgono persone dalla provenienza più diversa, da quelle afflitte da gravi disturbi psichiatrici ad emarginati sociali ad autori di atti delittuosi. Le sei strutture sono diversificate in modo tale da poter dare il massimo risultato in una difficile opera di recupero. Umberto Piersanti conosce e ha frequentato questo mondo. Dall’incontro di Ferruccio Giovanetti e di Umberto Piersanti è nata l’idea di questo libro. Ferruccio Giovanetti ha narrato venti vicende che prendono spunto da episodi e persone reali conosciute all’interno di tali strutture. Umberto Piersanti le ha trascritte e interpretate sempre attenendosi ai dati reali, ma sconfinando apertamente in momenti e situazioni di pura invenzione. Il libro nasce dunque dalla stretta collaborazione dei suoi due autori. L’intento è quello di rendere la complessità di un mondo e di destini che supera qualsiasi forma di fantasia. E tutti questi destini si sono, almeno per un momento, intrecciati dentro uno stesso luogo, nelle alte colline del Montefeltro.

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Giovanni spazzava con cura quella parte della stanza che riguardava il suo letto, attento a non superare una invisibile linea di confine con la zona che riguardava il letto di Giuseppe. Lui con Giuseppe non parlava mai, non sapeva per quale motivo era finito lì in quel centro di cura. Giuseppe non era né grande né piccolo né grasso né magro, una figura anonima e intercambiabile, un uomo che puoi incontrare ovunque e sempre confondere, senza un minimo segno di riconoscimento.

Scese poi le scale lentamente e si mise ad innaffiare quella grande siepe di bosso che cerchiava la facciata dell’edificio. Era un giorno di prima estate, i rondoni sfrecciavano tra la siepe e i muri e dalle querce lontane gli uccelli facevano un gran concerto coi loro fischi e suoni cosìdifferenti. A Giovanni sarebbe piaciuto poterli distinguere, perché lui amava la precisione, distribuiva l’acqua alle foglie una per una e spazzava ogni fila di mattonelle sempre con lo stesso gesto e lo stesso ritmo, sempre con la stessa esatta misura. Ma il sole stava diventando troppo forte e lui si sedette nella panchina, la panchina dei pensieri come la chiamava. Pensieri, ricordi, fantasie, ma si possono distinguere? Tutto nella sua testa compariva dentro una luce violetta figure e vicende trapassavano veloci l’una nell’altra: lui che amava tanto la dimensione esatta, aveva sempre davanti gli occhi queste immagini confuse che si compenetravano l’una nell’altra come talora succede nei sogni.

La madre cantava sempre alla finestra, sempre davanti a quelle due gobbe del Vesuvio che tutto il mondo diceva lei ci invidia: erano canzoni dove c’entrava sempre il cielo e l’amore, anche i pesci erano innamorati, quasi sempre un po’ malinconiche, gli amori come si sa finiscono quasi sempre male. Ma la voce della madre era forte, intonata e serena: poteva raccontare le cose più terribili, ma era sempre luminosa come quel cielo e quel mare napoletani: almeno lo diceva la madre che a Napoli c’era il più bel azzurro di mare e di cielo di tutto il mondo.

Giovanni usciva poco, rare passeggiate tutt’attorno a quella casupola di periferia che aveva però quella gran vista sul Vesuvio. A vent’anni non gli interessavano né le donne né gli amici: gli piaceva stare dietro la madre al supermercato a tenergli aperta la borsa dove buttava spaghetti e i pomodori. Gli piaceva seguirla per la strada, entrare negli uffici quando pagava le bollette, aspettare seduto tranquillo nella panca. La madre era più del cielo e del mare, quelli esistevano solo perché c’era la madre, forse era la madre ad averli inventati.

Era al supermercato quando la madre cadde in terra senza dire una parola: e lui l’aveva alzata, ma questa era immobile, il volto quello di un manichino, morta, morta completamente in un solo istante e lui non sapeva cosa fare, a chi rivolgersi, con chi parlare; stava lì attonito e sconvolto, senza dire una parola. E quando la misero sul furgone lui la teneva per i piedi e non la voleva lasciar andare, lui non la voleva morta, lui non poteva stare senza la madre.

E’ passato il tempo: Giovanni è sbracato tra i cartoni alla stazione Termini. Tutt’attorno altri come lui, ma pieni di birra e alcol. Lui no, lui quando ha trovato qualcosa da mangiare, magari quello che gli hanno portato i volontari, resta immobile e tranquillo, beve solo l’acqua. Quel giorno i fischi dei treni sono più fitti ed insistenti e i tre compagni attorno più ubriachi e puzzolenti. Sono venuti da poco, non erano barboni abitudinari, raccontano di furti e di rapine, uno ha anche sparato, ma il colpo fortunatamente è andato a vuoto. Loro parlano sempre con Giovanni anche se lui non risponde, gli propongono cose strane, dicono che hanno le pistole, che lì vicino c’è una banca dove le carte sono così fitte che escono persino fuori dai cassetti e i cassieri paurosi e svogliati. Lì basta far vedere una siringa o un temperino e quelli ti riempiono di soldi come fanno i contadini quando mettono l’uva nei canestri. Lì bisogna andare, basta niente per fare i soldi, bere tutta la birra, dormire nei letti bianchi, scopare tutte le puttane del mondo. C’è il paradiso a tre passi e Giovanni non l’ha capito, se continua così resterà sempre tra i cartoni: quella è la sua occasione, non può perderla.

Bruno è il più ubriaco di tutti e rutta e sputacchia da fare schifo: “Vieni con noi Giovanni, ti diamo un taglierino, no una siringa che quelli hanno paura dell’Aids, sono fissati”.

“No, voglio stare qui per conto mio”.

“Domani facciamo il colpo, Franco si è quasi rotto una gamba, il posto è il tuo”.

“Te l’ho detto, non vengo”.

Bruno tira fuori una siringa dalla sua bisaccia: “Questa è la tua, se non vieni ti strozzo”.

E lo afferra nel collo, lo stringe forte, Giovanni si divincola, scalcia, prova a sputargli, ma non riesce, le dita di quell’altro gli serrano la gola. C’è una bottiglia grande, sarà di vino o di qualcos’altro e Giovanni la prende e sferra un colpo sulla nuca di Bruno. Esce un fiotto di sangue, i vetri conficcati nella carne: resta solo un pezzo di vetro in mano a Giovanni e lui lo conficca lì dove c’è il cuore e magari, un po’ più sotto, i budelli.

Gli altri due barboni sono fuggiti: dopo la madre, questa è la seconda volta che Giovanni ha d’innanzi un morto, un morto vero, ma questa volta è lui che l’ha ammazzato e ha fatto bene. Quello ne voleva troppe e poi stava per ammazzarlo e poi lui non vuole fare rapine, lui non vuole il male della gente. Restare disteso tra i cartoni, mangiare il pane con la mortadella dei volontari, guardare la gente e i treni, non conoscere nessuno, non sapere niente, questo è quello che piace a Giovanni. Nel mondo non c’è più la madre, dunque è solo e bisogna continuare a esserlo, non c’è donna o uomo che possa farti da madre.

Dopo sono venute le sbarre alle finestre, il cielo tutto nero, i corpi aggrovigliati dentro una specie di sgabuzzo. Si chiama manicomio criminale, Giovanni non sa se c’è l’inferno dopo la morte, ma quello è l’inferno, non ce ne può essere uno peggio.

Poi lo hanno liberato e hanno chiesto in giro se qualcuno se lo voleva prendere, ma lui nessuno lo voleva. E’ ritornato nelle stazioni, tra i cartoni, quello è il suo destino e non gli dispiace: lì non ci sono sbarre e il cielo, anche se affumicato, non è poi così nero e lì c’è anche qualcuno che canta come la madre. E poi ci sono i ragazzi che si baciano, quelli che corrono con le valigie, altri che si salutano col braccio alzato: no, a lui non interessa nessuno in particolare, non gli importa di sapere dove va e cosa fa, ma ci sono e gli fanno compagnia come le rotaie, i treni e i cartoni. E’ un mondo senza sbarre e questo basta.

Quella è una notte d’inverno, la stazione è piccola, Modena, ma il freddo no, quello è forte, molto più forte che a Roma. I volontari non sono passati, la fame è grossa e nessuno che ti dia uno straccio di coperta, che ti regali una bottiglia d’acqua. Del resto ognuno corre dietro la propria vita e come a lui non interessa chi passa, anche lui non interessa a chi passa. Arriva un altro barbone, è grosso, scuro, parla male, magari non è italiano.

“Lasciami i cartoni”.

Giovanni prova a resistere, ma quello ha un braccio di ferro, l’ha preso per la maglia e l’ha sbattuto via come niente fosse; non basta, adesso lo calcia e ride, ride come uno stronzo, sì, stronzo anche se Giovanni non ama le parolacce, lui non dice parolacce e non bestemmia, lui non si ubriaca e non rutta. Adesso l’altro dorme tranquillo: sì, una volta lui ha ammazzato un altro che lo voleva strozzare, strozzare senza motivo, anzi per fargli fare una rapina che è una cosa cha non bisogna fare e ti mettono anche in galera se ti prendono. Lui, invece, se lo strozza ha ragione: quello l’ha buttato fuori dai cartoni e poi gli ha dato i calci, con tutta la forza glieli ha dati. Bene, non potrà più calciare: lo afferra alla gola e stringe subito con tutta la forza, se l’altro fa a tempo a liberarsi lo massacra, se l’altro s’alza lui è morto. Stringe forte, con gli occhi chiusi e i denti stretti: no, quello non si rialza, quello crepa che non si sa se ancora dorme o si sveglia.

Ma non l’hanno riportato nel carcere, ma in questa casa grande dove c’è la siepe grande e dove puoi guardare i campi giù fino al mare. Qui si sta bene, ti danno da mangiare buono e puoi spazzare e pensare a tua madre come ti pare.

Nella panchina vicina si è seduta una donna, un po’ grassa, adesso c’ha la faccia che ride ma è di quelle che dopo piangono. Gianna ride e canta come la madre e lui la guarda fisso, senza sorridere, ma sta bene. Dopo, quella smette di cantare: “Vieni nella panchina, che gusto ti dà a stare sempre solo e sempre zitto?”.

Giovanni si siede nella panchina e lei gli tocca la mano. No, non è la madre, ma appena appena gli somiglia e lui sta quasi, quasi bene.

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Nota sul libro
Ero salito nell’alto Montefeltro dove il mio amico Ferruccio Giovanetti dirige il Gruppo Atena, una grande struttura di recupero. Davo una mano alle attività culturali degli ospiti, commentavo le loro fotografie che ritraevano le edicole sacre e i paesaggi cari anche a Tonino Guerra. Sono venuto così a conoscenza di una serie di storie drammatiche e inquiete e mi sono dovuto confrontare con un mondo che conoscevo ben poco. Memorie, natura, amori, certo anche dolori, erano stati gli argomenti delle mie opere. Questa volta era un mondo diverso e lontano col quale mi incontravo. Ferruccio Giovanetti m’ha raccontato lui queste storie e mi ha stimolato a scriverci un libro. Senza i consigli, l’aiuto, l’intervento diretto di Giovanetti queste pagine non sarebbero mai state scritte. A tutti gli effetti il direttore del Gruppo Atena è il coautore di questo libro. Poi ho anche osservato la vita degli ospiti, la loro vicenda quotidiana. Il luogo, Monte Grimano, e gli spazi attorno, è bellissimo. La vista si estende dagli Appennini al mare, dall’Urbino intravista tra i suoi colli al lontano grattacielo di Rimini. Le stanze sono belle, ordinate e pulite. I letti di ferro, ornati con disegni di rose come usava nelle nostre campagne. Il mulino ad acqua ancora funzionante, gli orti coltivati dagli ospiti. Il cibo buono, in gran parte biologico.

Questo scenario, quasi d’idillio, si scontrava però con traumi e dolori quasi impossibili da superare. Il contrasto tra la bellezza della natura e l’opacità del male mi ha coinvolto e commosso. Questo libro di racconti è l’opera più “narrativa” che abbia scritto. Sono più noto come poeta, ma sono l’autore di vari romanzi. In questi ultimi però c’era sempre un protagonista in cui proiettavo me stesso anche se la vicenda era ambientata negli anni della seconda guerra mondiale. Qui mi dovevo confrontare con un’umanità che mi era quasi estranea e sconosciuta. Ho cercato di penetrare nella mente di questi protagonisti delle mie storie, penetrare quasi nelle fibre nelle pulsioni profonde del loro essere. Le storie sono tutte rigorosamente vere: i fatti narrati sono realmente accaduti. Non si tratta però assolutamente di schede psichiatriche: pensieri, reazioni, inquietudini varie le ho dovute immaginare e interpretare. Siamo dunque di fronte a un testo di letteratura, ad un’opera di invenzione anche se basata sul reale, su persone e vicende reali e concrete.

In queste pagine non intendo giudicare e neppure assolvere. Rimane comunque sempre, al di là di ogni crudeltà, di ogni misfatto, la dignità umana che non può scomparire. Homo sum, humani nihil a me alienum puto.

Il libro e il cammino

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Di Silva Cascone

 

La poesia ci divertisce da molti delitti.

Torquato Tasso

 

Del vocabolo italiano divertire udiamo pure fioco – per lungo silenzio, solitudine claustrale della parola – il sussurro. «Distogliere, allontanare», assiste il dizionario De Mauro, «volgere altrove». E il Gabrielli, che registra l’uso raro e i pigmenti letterari nel preciso contenuto semantico, aggiunge: «far prendere un’altra direzione». Divertirsi (e sia: divĕrtĕre) vuol dire cambiare strada, affrontare un altro percorso, sperimentare un nuovo cammino: qui – Stefano Jossa lo indica (è il senso profondo di quei poemi) – versiamo, per agio di «fantasticazione», la luce su l’Inamoramento de Orlando di Boiardo e l’Orlando furioso di Ariosto che, nel fatato intreccio delle storie e dei personaggi, sono inviti «a percorrere tutte le strade, possibili e impossibili, per spostarsi, assumere una prospettiva diversa, cambiare sguardo». Ora, vorremmo dire, in leggerezza di cuore: divertirsi. Perciò senza troppa fatica comprendiamo la sorridente pertinacia con cui Celati marca e rimarca l’oralità di questi testi – aligera meraviglia di tessuti, tappeti di intrichi e capricciosi arabeschi –, la malia dell’ascolto, lo splendore vago della lettura ad alta voce.

Poemi cavallereschi, dunque, ingenerati per recite pubbliche; così di Boiardo torna all’orecchio la straordinaria sonorità linguistica, quasi d’orlo dialettale, libera da remore scolastiche, e immaginiamo quale doveva essere il felice e silvestre rigoglio dell’Inamoramento al sottile udito di dame e uomini di corte. Così lo slancio errante della poesia ariostesca scioglie il suo canto nell’ottava, miracolo vero di ariosa disinvoltura, e tra oceani, palazzi, deserti, sino allo sfavillante arcano della Terra vista dalla Luna. La comune lettura – pieno porgimento di suono – doveva essere lenta, affinché fantasia e memoria si mescolassero, lievi, non più atterrate dai logori calzari dell’opinione greve, e tutto restasse fluttuante nella vaghezza, ben oltre ogni puntuto e spaurito pregiudizio. Oggi è nella distensione assoluta della parola poetante che, d’improvviso, «volteggiando in su le carte», prestiamo fede alla geografia, al cozzare fanciullo e contingente di luoghi e poeta, alla cifra della nebbia, l’impronta propria della rorida terra, di quello sconcertante, immenso cammino in pianura.

Celati ancora, come in chiosa dell’anima sua e altrui, c’illumina quei campi tanto dritti e piatti: «Se penso ai grandi autori delle nostre parti, Ariosto, Boiardo, Folengo, fino a Zavattini, Delfini, Fellini o anche a Giorgio Manganelli (cresciuto nei dintorni di Parma), mi viene in mente una forma immaginativa che li accomuna, una stravaganza fantastica che non trovo in autori di altre regioni. Non so spiegare questa tendenza, ma so che tradizionalmente si parlava di varie forme di pazzia locale, e c’era la famosa pazzia di Reggio Emilia, la melanconia cupa dei ferraresi, la pazzia ombrosa dei romagnoli». Commovente, in questa sembianza nuova, più ricca, la definizione celatiana di poema cavalleresco: «piccola patria per la mente» che fa compagnia e dà contentezza, a patto che sia mantenuta intatta una primigenia ingenuità danzante – tra le parole – e obliata ogni superbia intellettuale. Sicché, se la lettura è l’«inseguimento di un’immagine che si sottrae, lasciando una traccia vuota da riempire con l’immaginazione, grazie a una proiezione di idee fisse nella mente» e ancor più l’«impresa del perdersi in un errore, l’incantato errare dietro a un’immagine fuggitiva, presi da un ardore insensato», del libro e del cammino è tempo di recuperare il divertimento e la grazia di follia. E del verso ritrovare la voce, la misura, lo Spazio.

 

cinéDIMANCHE #30 JOSEPH LOSEY Mr Klein [1976]

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IL BILICO DELL’IDENTITA’
Divagazioni da “Mr Klein” di Joseph Losey

di ⇨ Anna Tellini

Le stanze dell’amor furtivo

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di Antonio Sparzani

1.

Oggi ancora, lei, che splende inghirlandata
di magnolia d’oro,
volto di loto in fiore, tenue la linea della pelurie
sul ventre,
levata dal sonno, il corpo ardente turbato
dal desiderio,
magica sapienza come perduta per follia ripenso.

Ho di nuovo preso in mano un magnifico libretto che desidero farvi conoscere: Poesia d’amore indiana, a cura di Giuliano Boccali, Marsilio 2002: contiene, tradotti dal sanscrito dal curatore e da Daniela Rossella, tre dei maggiori capolavori della poesia indiana, Nuvolo Messaggero, di Kālidāsa, Centuria d’amore, di Amaruka e Le stanze dell’amor furtivo, attribuite a Bilhana. Qui citerò e parlerò, anzi, farò parlare Boccali, solo di quest’ultimo:

Il suono dell’assenza. Variazioni sul dolore

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di Elena Gigante

[Presentiamo un estratto da Il suono dell’assenza. Variazioni sul dolore, Moretti e Vitali, Bergamo 2018.]

 

Il lessico dell’assenza

Ci sono alcune parole importanti che, come in una costellazione inaudita, appaiono legate tra loro da congiunzioni – contemporaneamente – sottili e forti: Mancanza, Adorazione, Perdita, Desiderio, Bellezza, Disperazione, Movimento, Distanza, Vuoto, Presenza.

I legami che allacciano tra loro queste parole hanno a che fare con l’esperienza ineffabile dell’amore, nelle sue molteplici accezioni. Potremmo immaginare che queste parole rappresentino degli universi di senso, come se ciascuna di esse fosse un corpo celeste contenente al suo interno un mondo imperscrutabile.

Ku

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di Andrea Astolfi

 

cerchio

al centro

 

Una lettura di Libretto di transito di Franca Mancinelli

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di Leonardo Manigrasso

[Questo articolo è stato pubblicato su: «l’immaginazione», XXXV, n. 309, gennaio-febbraio 2019, pp. 53-54].

Libretto di transito, edito da Amos Edizioni, è il terzo libro di Franca Mancinelli, dopo le esperienze di Mala kruna (Manni, 2007) e Pasta madre (Nino Aragno, 2013), di recente riedite insieme in A un’ora di sonno da qui (italic pequod 2018). Composto di trentatré brevi prose, distingue tipograficamente due piani del discorso saldamente intrecciati. L’uno, in corsivo, dà conto dell’esile spunto narrativo che soggiace al libro, un viaggio in treno lungo una rotta che si intuisce familiare. L’altro, invece, alterna presenze molto eterogenee: voci spesso imperative, ricordi, meditazioni e immagini che si affollano alla mente dell’autrice. La complessa trama spazio-temporale del libro sembra dunque derivare dall’incontro fra due movimenti: quello lineare del treno/tempo e quello ricorsivo e oscillante di questa specie di memoria raziocinante. Ciò sembrerebbe impostare una serie di coppie antitetiche molto specifiche: veglia/sonno, presenza/assenza, superficie/profondità, retta/circolo, movimento/stasi; in realtà il dettato della Mancinelli scardina da subito queste coordinate esteriori, e si proietta su un piano di esperienza del tutto alternativo. L’esergo da Simone Weil («L’arbre est en vérité enraciné dans le ciel») implica infatti un’ipotesi di reversibilità degli opposti che offre preziose chiavi di accesso al libro. La prosa della Mancinelli sottopone infatti i propri materiali a un lavoro di stilizzazione in cui la circolazione del senso capovolge di continuo forme e significati. Ne derivano una peculiare mobilità pronominale e temporale, l’ambiguità tra il vedere e l’essere visti, la pluralità delle possibili identificazioni. In tal senso c’è forse una diffidenza di fondo alla base della scrittura della Mancinelli, una diffidenza verso l’“incostanza delle cose”, le quali, nonostante la loro folgorante chiarezza, sono da ultimo insolventi in quanto coinvolte anch’esse in un flusso che le rende continuamente cangianti. La scrittura dunque deve essere altrettanto plastica, mobile, aderente a una coscienza enigmatica perché, in fondo, ignota a se stessa («viaggio senza sapere cosa mi porta a te»).

Eppure Libretto di transito, nonostante questa natura fluttuante, ha una struttura internamente progressiva, direi quasi “narrativa”: le sue prose sembrano dare conto di un crocevia dell’esistenza, fedelmente a una nobile tradizione di poeti che hanno collocato fra i trentacinque e i quarant’anni un’occasione cruciale di bilancio e di ripensamento. I sintomi di una crisi sono in effetti numerosi nel volumetto, e in particolare le frane, i ruderi, l’«intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te», i tonfi «nella radura del petto», un universo che si sgretola. Sono spine la cui contropartita è il bisogno di «entrare nella taglia esatta della pena», lo sforzo centripeto di tenere faticosamente tutto assieme («Rimanere così, dentro una sagoma; incompiuta, perfetta per un lancio di coltelli»). Ma la lotta è impari: il soggetto è assediato da fantasmi reticenti, appuntamenti mancati, ricordi che non schiudono il proprio senso, presenze che lo «raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza». Il corpo, in particolare, soffre l’incongruenza con il circostante e i vestiti che lo fasciano– fatalmente fuori taglia– impongono mutilazioni invisibili e penose.

A questo stato di disintegrazione fanno da contrasto gli inviti al cambio di pelle che si infoltiscono nelle pagine finali. La prosa della Mancinelli tende così ad assumere le forme di un rito di iniziazione («Cospargiti un po’ di farina sul palmo delle mani, gli zigomi, la fronte. Così iniziano le guerre e i passaggi di stato. Prendi una padella, rigala d’olio. Allineato ai punti cardinali, in possesso di tutte le tue forze, concentrati: rompi un uovo»). La terra, il fango –non più sinistra dimora «di piante dal frutto velenoso» – tornano elemento ctonio e diventano «argilla dell’inizio del mondo» da cospargere sul volto, come in una sorta di cerimonia lustrale; al contempo si fanno più insistenti la verticalità delle forze elementari e le figure della natalità, ivi compresa la natalità del senso che si fa corpo e parola («credi che un nome possa avere luogo?»). Il rito presuppone una gestualità quotidiana e solenne, la cui intensità simbolica culmina nel momento in cui a essere tracciato è un segno puro, linguaggio sacrale sottratto alla storia («Ma se svolgessi il filo e tornassi a vedere, troveresti una croce sormontata da un cerchio»); certo il segno destinato a riconsacrare l’esperienza dell’autrice è però quello della scrittura stessa, al contempo testimonianza e strumento di questa esperienza battesimale. Il libro si chiude con l’immagine di una gemmazione, che è sia una fioritura vitale che la promessa di una parola nuova («Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te»). Il transito sembra compiuto.

Franca Mancinelli, Libretto di transito, Amos Edizioni, 2018, pp. 55.

 

 

 

 

Pantarèi, l’anello mancante

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di Romano A. Fiocchi

Ezio Sinigaglia, Il pantarèi, TerraRossa Edizioni, 2019.

Potrebbe essere la solita storia: decine e decine di rifiuti, l’uscita nel 1985 con una casa editrice semisconosciuta di Milano, SPS, poi Sapiens, visibilità pressoché nulla, infine la scomparsa, inghiottito nel mälström dei libri dimenticati del XX secolo. Invece no. Lo legge Giuseppe Girimonti Greco, lo legge Giovanni Turi, e tutto scorre… indietro, Il Pantarèi torna sugli scaffali, ora, trentaquattro anni dopo. È un sopravvissuto, come dire: l’ultimo dei mohicani. Ha attraversato più di un quarto di secolo trasportando nel tempo le sue idee e le sue storie proprio perché è un libro speciale. Un compendio teorico e pratico di letteratura del Novecento che il lettore amante dei classici contemporanei non può non leggere. Un metaromanzo sulla crisi-non-crisi del romanzo che esplose allora, negli ultimi decenni del secolo, e che continua ancora oggi nutrendosi di se stessa. Il romanzo è morto, viva il romanzo. Dirò di più: le due pubblicazioni – del 1985 e del 2019 – ne fanno un libro di sutura tra i due secoli, l’anello mancante tra il romanzo del Novecento e il romanzo del nuovo millennio.

Dopo l’attenta lettura di Eclissi (Nutrimenti, 2016), lo attendevo con curiosità, questo libro di Sinigaglia, perché sentivo che sarebbe stato un romanzo non solo da leggere ma da rileggere, da smontare e rimontare, da sviscerarne evocazioni e allusioni, citazioni e sedimentazioni letterarie. Ma soprattutto un libro nato dalla passione per quegli stessi autori che anch’io, in quegli anni, ho letto e amato.

Nel Pantarèi si parla, in ordine di apparizione, di Proust, Joyce, Musil, Svevo, Kafka. Cinque pilastri della letteratura, essenziali per comprendere il Novecento come le cinque dita di una mano per afferrare le cose. Nel raggiungere questa sintesi estrema il protagonista, Daniele Stern, opera una selezione drastica. Ma poi non può fare a meno di considerare altri tre giganti: Céline, Faulker, Robbe-Grillet. Quindi cita Gertrude Stein, Virginia Woolf, Hermann Broch, Robert Walser, il “conservatorismo letterario” di Thomas Mann, Balzac, Malraux, Hemingway. E i sudamericani? Stern non ama i sudamericani: “Ma caro Stern! – gli dice la redattrice Ghiotti – I sudamericani non me li doveva togliere! Le dirò: non servivano. Ma caro Stern! In base a cosa? Dottoressa mi creda: meglio non sbilanciarsi. Ma in base a cosa caro Stern? In base a me. Se permette”.

Stern, in fatto di letteratura, ha insomma le idee chiare. Ma nonostante il romanzo dedichi a Proust ben due capitoli, con il plauso del folto numero di proustiani presenti tra i lettori italiani, non ultimo lo stesso Giuseppe Girimonti Greco, il suo nume tutelare è James Joyce. In particolare l’Ulisse. Basti già confrontare l’incipit dei due romanzi: “Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio (…) Maestosamente avanzò e ascese la rotonda piazzuola di tiro”, così l’Ulisse nella storica traduzione di Giulio de Angelis, l’unica in circolazione all’epoca della stesura del Pantarèi. Questo invece Il pantarèi: “Dignitoso e raccolto, degnamente, Daniele Stern, poligrafo senza occupazione, sospinse la vetro porta e fu ammesso”. Ma saltano all’occhio anche le affinità tra i due protagonisti: Leopold Bloom, ebreo irlandese che vive occupandosi di inserzioni pubblicitarie sui giornali, Daniele Stern, ebreo italiano che vive di collaborazioni editoriali. Bloom, che in inglese è sinonimo di fiore, e Stern, che in tedesco significa stella. Bloom, consapevole del tradimento della moglie Molly e spinto a cercare altri affetti in un’amante epistolare (Martha) o in amori occasionali (la giovane e zoppicante Gerty Mc Dowell, le ragazze del bordello di Bella Cohen), e Stern, abbandonato e tradito dalla moglie Anna e spinto a cercare anche lui altri amori, da Carmen ai ragazzi di strada, in una vocazione bisessuale che fa di Stern un personaggio a tutto tondo anche nei sentimenti. E poi il vagabondaggio ondivago di entrambi, quello di Bloom per la vecchia Dublino, quello di Stern per una città innominata (o anonima?) che è la Milano di oggi.

Dal punto di vista della tecnica narrativa, c’è poi l’alternarsi continuo dei registri linguistici che mutano di capitolo in capitolo in entrambi i romanzi e, paradossalmente, conferiscono un’unità stilistica dalla compattezza simile a un mosaico. Nell’Ulisse, variando dallo stile giornalistico completo di titoli, a quello aulico dell’inglese medievale, alla forma gergale, alla disquisizione accademica, al testo teatrale, sino al “flusso di coscienza” del celebre monologo finale di Molly. Nel Pantarèi, variando dallo stile enciclopedico delle parti saggistiche, ai registri narrativi degli scrittori che Stern di volta in volta prende ad analizzare. Stern ci parlerà così adottando ora la prosa minuziosa di Proust, ora la precisione asettica e scientifica di Musil, ora l’escavazione psicanalitica di Svevo, ora il realismo magico e grottesco di Kafka, ora, ovviamente, il “flusso di coscienza” di Joyce. Ma non si tratta di un virtuosismo imitativo, sono le anime versatili e sperimentali del XX secolo che emergono, è l’amore incondizionato di Sinigaglia – scrittore figlio del Novecento – per i grandi del secolo che l’hanno preceduto, è l’ambizione di poter penetrare il loro linguaggio e il loro mondo.

Tutto questo è permesso dall’architettura stessa del libro. Ce lo spiega bene Sinigaglia nella prefazione, che è poi una postfazione scritta trentatré anni dopo, paragonando il meccanismo del Pantarèi a due ascensori affiancati: “Ciascuna delle due gabbie illuminate degli ascensori rischiarava via via il finestrone di vetro smerigliato di un pianerottolo e, mentre a sinistra si accendeva per esempio quello del quarto, del quinto, del sesto piano, a destra splendeva quello del terzo, del quarto, del quinto, in una sequenza ordinata della quale nessuno oltre a me poteva avere coscienza”. Di qui la struttura binaria del Pantarèi. Da un lato i romanzi, l’elemento saggistico, il testo divulgativo che Stern sta scrivendo su commissione, il montaggio e rimontaggio dei libri fondamentali del Novecento. Dall’altra i giorni, ossia l’elemento narrativo, non per nulla il titolo originale fu proprio quello, I romanzi e i giorni, poi confluito in un’unica espressione: tutto scorre, Il panterèi.

Mi sono allora messo nei panni di Stern e ho provato a smontare l’intero congegno. Il romanzo è diviso in nove capitoli più un prologo e un epilogo. Il capitolo nove contiene un romanzo nel romanzo scritto dallo stesso Stern, intitolato L’altro Sax, a sua volta suddiviso in due capitoletti e nove sottocapitoletti. Ciascuno dei nove capitoli ha dunque uno scrittore di riferimento, e in ciascun capitolo si muove uno Stern diverso: lo Stern innamorato di Anna, lo Stern innamorato di Fabio, lo Stern sarcastico e geniale, quello che si inventa il presidente delle Nuove Industrie E Nuove Tecniche Elementari, ossia di N.I.E.N.T.E., lo Stern ubriaco, quello visionario, quello che abbozza la storia surreale del ragionier Sperindio (che si sdoppia non nella personalità ma nella persona, due Sperindio al posto di uno). E poi lo Stern ludico, quello dei rebus, degli indovinelli, dei cambi di iniziale, degli anagrammi, degli spostamenti di accento, quello che indirizza ad Anna lettere orali, quello che vaga per la città e finisce al Balbec, “antro nerastro e lampeggiante percosso dalla musica come da uno squassante uragano e abitato da un folla di spiriti inquieti agitantisi come lingue di fiamma in un vapore denso”.

Solo alla fine ci si rende conto di quanto l’andamento del Pantarèi sia circolare: nel prologo Stern sta per entrare nel palazzo dove ha sede la casa editrice e dice: “Eccoci. Tempio della Sapienza. Fabbrica instancabile della Cultura”. Nell’ultima pagina appoggia la mano destra sul pomo d’ottone della stessa porta e pensa: “Ecco, ci siamo”. Tutto scorre, tutto torna allo stesso punto. Ma scorrendo e riscorrendo si ha l’impressione di una scrittura stratificata, densa e al tempo stesso dinamica, che semina qua e là più chiavi di lettura. Tra queste ce n’è una materiale e ingombrante: è una macchina per scrivere, emblema di tutta la storia, con il suo ticchettio musicale e il suo nastro di tessuto inchiostrato che scorre – ancora una volta – senza soluzione di continuità.

Un paragone da lettore sincero di Sinigaglia: se Eclissi è un piccolo gioiello formalmente compiuto, Il pantarèi è una macchina letteraria che ha nella complessità la sua bellezza.

Concludo con una nota sull’editore, pressoché sconosciuto perché attivo solo dal 2017. TerraRossa non è solo piccolo un editore coraggioso nella scelta delle sue collane, ma un editore dal gusto impeccabile nella grafica della copertina, nell’eleganza dell’impaginazione, nella scelta e godibilità di lettura del carattere tipografico. Segno che in Italia, nonostante le contaminazioni e le esigenze commerciali, non si è ancora dimenticata la lezione della nostra grande tradizione editoriale.

La Promessa Focaia (tre poesie)

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di Giorgiomaria Cornelio

 

[Le tre poesie inedite sono tratte da La Promessa Focaia. La prima parte di quest’opera sarà ospitata nella collana Opera Prima, diretta da Flavio Ermini in collaborazione con AnteremCierre Grafica.]

Quando la città respinge. Sui rischi della speculazione turistica a Napoli

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Torretta-Scalzapecora, 2019 - foto M. Moccia
Torretta-Scalzapecora, 2019 – foto M. Moccia

[SET – Sud Europa di fronte alla Turistificazione è una rete che coinvolge varie città, italiane e internazionali; i suoi obiettivi sono lo sviluppo di una riflessione critica sulla trasformazione che lo spazio urbano subisce a causa di modelli di turismo non sostenibili e la messa a punto di proposte alternative. Quello che segue è un contributo emerso durante una delle riunioni periodiche dell’assemblea napoletana. ornellatajani]

di Marilisa Moccia

A cinque chilometri dal comune di Villaricca (NA) esiste una frazione appartenente al comune ma senza che con esso vi sia un continuum geografico, se non attraverso un reticolo di strade, collocato oltre il comune di Qualiano e prima di quello di Quarto. Denominato dagli abitanti “Villaricca II”, questo luogo, dal nome evocativo, si chiama Torretta-Scalzapecora. Quando i miei alunni ne parlano lo fanno con spregio aggiungendo sempre: “ ‘Ccà nun ce sta niente!”. Un giorno mi hanno chiesto il motivo di quel nome che chiaramente deve aver a che fare con la vocazione un tempo agricola dell’area, oggi votata alla speculazione edilizia più scellerata. Ho chiesto loro di parlarne coi genitori e con i nonni che potevano magari conservare ricordi di un tempo in cui, immaginavo, ci fossero pecore portate al pascolo. A Mugnano è stato così fino agli anni ‘90. C’era un “capraro” che vendeva latte e si aggirava per il paese portando le capre a brucare fra le campagne incolte. Brandelli di una vita agreste che sopravvivevano tenacemente all’avanzata della colata di cemento che ha investito l’area a nord di Napoli dagli anni ’80 in poi. A Torretta-Scalzapecora abitano 4383 persone. 2500 bambini hanno meno di 15 anni. Tolte le casematte visibili sulla strada per Quarto, gli edifici censiti fino al 1946 sono pari a zero. L’area è stata edificata massicciamente negli anni che vanno dal 1971 al 2005, quando sono stati costruiti 419 edifici a uso residenziale.
Scopro presto che nessuno degli alunni, in una classe di 26 bambini, ha i genitori di Torretta-Scalzapecora e neppure di Villaricca, come invece mi sarei aspettata. La cosa mi incuriosisce. Chiedo ad altri ragazzi. Stessa risposta. Credevo che il quartiere fosse sorto per la spinta centripeta dell’espansione del comune di Villaricca ma non è così. Nessuno è di Torretta-Scalzapecora, pochissimi fra i loro genitori provengono dai comuni limitrofi. Da dove vengono allora questi bambini? Di quale terra sono figli i figli di Torretta-Scalzapecora?

Sono di Napoli. Quartieri popolari e popolosi: Sanità, Stella, Quartieri Spagnoli. Una media di 20 ragazzi per classe. Non un campione significativo, certamente, ma un sintomo. Il sintomo di una città che si svuota, che sradica e non assorbe coloro che fra le sue mura hanno vissuto per generazioni, respingendoli nella provincia o nella periferia della provincia.
Il costo in termini sociali è altissimo: chi vi abita è in una condizione di alienazione rispetto ai luoghi. Non vi sono infrastrutture. La scuola è un’oasi nel deserto. Il pomeriggio i ragazzi si incontrano nei parchi privati o nella villetta comunale; il sabato pomeriggio frequentano i centri commerciali come luogo di svago. Il territorio è conteso fra le diverse confessioni religiose: l’unica chiesa cattolica presente è una costruzione prefabbricata, la chiesa evangelica sorge in un garage poco distante e i testimoni di Geova fanno proselitismo all’uscita di scuola.
Se nel centro storico di Napoli la scuola media rispecchia i legami dei quartieri in cui tutti conoscono tutti, qui invece, tolti i casi di emigrazione di interi nuclei familiari (famiglie di coppie di fratelli spostatesi in blocco) che si ricongiungono per vivere insieme la solitudine della periferia, le relazioni parentali sono assenti. La contropartita è che nella periferia il tessuto sociale si sgretola e la marginalizzazione può generare casi di devianza.
Torretta-Scalzapecora è solo uno dei tanti hinterland cresciuto negli ultimi trent’anni eppure offre un punto di osservazione privilegiato per considerare un altro fenomeno dalla portata preoccupante: la turistificazione di Napoli. Un evento massiccio che rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza del centro storico e dei quartieri a esso contigui. La crescente richiesta turistica non si è accompagnata adeguatamente a politiche di regolamentazione delle locazioni.
A Napoli sono presenti 7169 annunci sul portale Airbnb e di questi il 59,3 % si riferisce non a stanze, ma a interi appartamenti locati talvolta da singoli soggetti che ne gestiscono più d’uno, godendo di regimi fiscali agevolati. La diretta conseguenza di questa improvvisa richiesta di appartamenti nel perimetro Unesco e nei quartieri limitrofi ha generato un rialzo dell’offerta, la compravendita è aumentata (fonte Tecnocasa) del 41% negli ultimi quattro anni. Gli appartamenti acquisiti dai gruppi immobiliari vengono locati di preferenza ai turisti generando l’espulsione degli abitanti storici che non riescono ad adeguarsi al rialzo dei prezzi. L’effetto è l’aggravarsi dell’emergenza abitativa in città e il conseguente numero di sfratti cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. Ben inteso, il problema non è il turismo, veritevole fonte di sviluppo e lavoro, ma la ricaduta che una mancanza di programmazione delle politiche abitative e di controllo delle piattaforme esercita sugli abitanti dei quartieri più appetibili di Napoli.
La nascita di Torretta Scalzapecora non si è di certo verificata a causa della recente turistificazione, come mostrano le date di costruzione degli stabili, eppure la turistificazione può accelerare l’edificazione di quartieri-satellite in altre zone periferiche della provincia, se non si inverte la preoccupante rotta che l’espansione acritica dell’industria turistica sta operando a Napoli. Se la situazione fotografata a Napoli è l’ondata di turismo prêt à manger con la proliferazione degli Airbnb, il negativo di questa condizione napoletana è la crescita bulimica della sua provincia e le pressioni sociali che essa vive.

L’invenzione del nemico. Le pratiche discorsive antisemite nel Cimitero di Praga di Umberto Eco

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Di Giovanni Palmieri

 

Un bel giorno Perceval, smemorato di sé al punto da non ricordare più neanche Dio né i giorni della settimana, se ne andava in giro armato di tutto punto nel giorno del venerdì santo. Incontrando una compagnia di tre cavalieri che scortavano dieci donne ed erano disarmati in segno di penitenza, viene rimproverato da costoro per aver indossato le armi nel giorno della morte di Cristo. Uno dei cavalieri gli dice tra l’altro:

 

Molto santa fu quella morte che salvò i vivi e risuscitò da morte a vita i morti. I perfidi Giudei, che si dovrebbe uccidere come cani, fecero il loro male e il nostro gran bene quando lo innalzarono sulla Croce: perdettero se stessi e salvarono noi. […] ogni uomo che crede in Dio, oggi, non dovrebbe portar armi[1]

 

Così nel Perceval di Chrétien de Troyes, scritto prima del 1190. A prima vista il brano sembra un omaggio di genere all’antisemitismo diffuso nella corte fiamminga del cattolicissimo conte Filippo d’Alsazia, committente e dedicatario del libro di Chrétien nonché suo protettore e fanatico crociato. A ben guardare però il sarcasmo implicito nel fatto che pacifici e disarmati cavalieri cristiani, pur ostentando penitenza e umiltà, si mostrano tuttavia assai ben disposti al massacro degli ebrei, mi fa sospettare che il brano citato sia in realtà una condanna, cautamente dissimulata, dell’antisemitismo e delle sue aporie. Forse Chrétien avrà pensato, prima di Rabelais, che era necessario essere coerenti con le proprie idee sino al rogo. Escluso! Andrebbe in questo senso anche la successiva esposizione della contraddizione logica (misinterpretazione d’un versetto di Giovanni, 4, 22) secondo la quale i giudei, nonostante la loro innata perfidia, persero loro stessi per salvare i cristiani.

Contraddizione ripresa nel 1892 da Leon Bloy nel suo celebre Le Salut par les Juifs, libro peraltro sottilmente antisemita come notò acutamente, primo fra tutti, Franz Kafka.[2]

Questa premessa era per dire che non sempre è  facile individuare nel testo letterario il pensiero dell’autore e oltretutto non sempre è utile. Senza sottovalutare l’intentio auctoris, come fece Borges suggerendo di leggere l’Imitatio Christi come se fosse stata scritta da Céline, trovo più efficace un’analisi letteraria basata sull’intentio operis e cioè sull’insieme coerente delle significazioni testuali che possono prescindere dalla volontà o dal sapere dell’autore.

Nel Cimitero di Praga di Eco[3], però, l’esemplarità della storia narrata toglie spazio a qualsiasi dubbio o sospetto di ambiguità circa il pensiero dell’autore. La condanna dell’antisemitismo, massicciamente messo in scena e letterariamente rappresentato, è fortissima e chi ha accusato Eco di ambiguità nella costruzione dell’eroe negativo e di involontaria complicità con il pensiero antisemita ha semplicemente confuso il soggetto dell’enunciazione con il soggetto dell’enunciato. Inoltre il protagonista del Cimitero di Praga, Simone Simonini, non è descritto come un luciferino genio del male, ma come una persona mediocre e come un semplice e squallido artefice della banalità del male.

Senza voler entrare nel dettaglio di una polemica giornalistica che sembra “usare” il testo di Eco senza saperlo “interpretare”, mi limito ad osservare che l’immedesimazione nell’eroe (e non l’identificazione) da parte dell’autore è meccanismo inevitabile; penso a Flaubert con Madame Bovary e a Svevo con Zeno. Tale immedesimazione però non comporta di necessità alcuna adesione ideologica o morale.

Ciò che invece mi sembra abbia seriamente disturbato alcuni lettori del romanzo di Eco, sia ebrei che cattolici[4], sia stato il dover prendere atto di qualcosa che è stato un po’ da tutti  frettolosamente rimosso: l’esistenza di un immenso “archivio” antisemita che in tempi moderni ha preparato e “giustificato” la Shoah. Immenso archivio che Eco ha romanzescamente selezionato e ricostruito. Alla scrittura e all’assemblaggio storico d’un tale archivio hanno inoltre collaborato categorie sociali apparentemente insospettabili: mi riferisco alla tristemente lunga teoria di socialisti e di ebrei antisemiti. E anche di questi il Cimitero di Praga si ricorda con dovizia di esempi.

 

Il socialismo degli imbecilli e l’antiebraismo ebraico

 

Dopo la Rivoluzione francese e la nascita degli stati liberali, a fianco del tradizionale antisemitismo religioso era sorto un antisemitismo per così dire secolarizzato che giungerà nel Novecento sino al razzismo biologistico. Si trattava di pratiche discorsive che legavano l’anticapitalismo, il mito del complotto giudaico-protestante-massonico e la depressione economica all’odio endemico per le comunità ebraiche. Simon Levis Sullam[5] ha in questo senso ricordato che già nelle vicinanze delle due rivoluzioni europee del 1789 e del 1848, Voltaire, prima, e Marx poi avevano trattato la “questione ebraica” ricorrendo ad alcuni dei più vieti stereotipi della tradizione antigiudaica. In seguito, con l’apporto teorico di Proudhon e di Toussenel (socialista fourierista nato nel 1803 e morto nel 1885)[6], tale antisemitismo laico, a partire dalla Francia, raggiunse presto i ceti popolari europei, diffondendosi negli ambienti socialisti e nei primi partiti operai. Nasceva così il «socialismo degli imbecilli», come lo definì nel 1893 al Congresso socialdemocratico di Colonia August Bebel. Questo nuovo antisemitismo anticapitalista si nutriva anche degli apporti scientifici della recente antropologia razziale (e razzista), della teoria della «degenerazione» e infine della nascente eugenetica. Ma in questo campo tout se tient

Con il termine «dégénérescence», nel 1857, l’alienista francese Bénédict Augustin Morel (1809-1873) aveva designato una non meglio identificata causa morbosa ed ereditaria che portava l’organismo umano ad un ingravescente decadimento biologico-cellulare.[7] Tale degenerazione riguardava sia aspetti fisici che aspetti psichici e morali. Morel, che partiva da premesse mistico-teologiche legate alla caduta dell’uomo causata dal peccato originale, spiegava così un enorme numero di patologie: dalla semplice alienazione mentale all’acolismo, dal cretinismo al delirio emotivo, dall’isteria alla tubercolosi, senza parlare di tutte le tare ereditarie, delle perversioni sessuali e naturalmente delle devianze sociali. Come si può facilmente intuire, benché nato in un contesto positivista ideologicamente neutrale, il concetto di «degenerazione» fu presto sfruttato dai settori più reazionari della psichiatria e dell’antropologia razzista. In un primo tempo, però, l’intero mondo intellettuale (ricordo solo Svevo e Mann che ne subirono l’influenza) credette a questo vero e proprio mito scientifico, e il brillante sociologo ebreo Max Nordau lo divulgò in tutta l’Europa con il suo trattato del 1892 intitolato semplicemente Dégénérescence.[8] «Era inevitabile che questo termine, già così emotivamente connotato di suo, uscendo dall’ambito strettamente clinico, subisse una deformazione semantica, arrivando a designare un generico, quanto pernicioso, processo di decadenza igienico-morale della società.».[9]

Nelle pratiche discorsive del socialismo degli imbecilli, prima dell’affaire Dreyfus, il mito della degenerazione costituì la principale giustificazione oggettiva e “scientifica” del pregiudizio antisemita. Si diceva: gli ebrei sono di necessità dei degenerati. Prima perché sono tutti ricchi e poi perché si sposano tra di loro e hanno pratiche religiose e sessuali aberranti. In quanto portatori di degenerazione, essi contaminano fisicamente e moralmente il tessuto sociale. Bisogna fermarli.

In questo dibattito si inserisce la singolare figura di Georges Vacher de Lapouge (1854-1936), uno dei padri dell’eugenetica. Antropologo, magistrato e per qualche tempo docente universitario francese, Lapouge, agli inizi della sua carriera si dichiarava ateo, socialista e libertario. Nel 1882 fu infatti tra i fondatori del Parti ouvrier (poi Parti Ouvrier Français), il primo partito marxista francese. Razzista e antisemita, muovendo da premesse socialdarwiniane, nel libro intitolato L’Aryen. Son rôle social (Paris 1899), Lapouge riteneva che gli ebrei fossero una razza artificiale perché sviluppatasi fuori dalla natura nella sola dimensione culturale. Essi erano pertanto da ritenersi gli unici avversari temibili dell’ariano e andavano soppressi attraverso graduali e opportune politiche eugenetiche.

Nel romanzo di Eco, oltre al socialismo antisemita, troviamo anche gli ebrei antiebraici. Si tratta spesso, anche se non esclusivamente, di assimilati o convertiti che per essere più cristiani dei cristiani sviluppavano un sottile ma ben visibile antisemitismo. Penso ad esempio a Weininger e alla teoria sulla (a suo dire) colpevole passività femminile degli ebrei ma penso anche a ben altri ritratti storici di questo tipo umano presenti, come vedremo in seguito, nel nostro romanzo.

 

Il discorso produttore della sua verità

 

Al romanzo di Eco, Anna Foa[10] ha rimproverato di avere fatto della costruzione del falso un’unica verità con il rischio di un’eterogenesi dei fini in base alla quale invece di smontare un falso lo si ricostruiva. A me sembra invece che nel Cimitero di Praga ciò che abbia inteso fare l’autore, o in ogni caso ciò che fa il testo, non sia stato contrapporre la verità al falso, ma mostrare le condizioni di possibilità sociali e culturali in base alle quali quella falsa “verità” è stata storicamente prodotta. Il che è ben diverso. Nelle descrizioni antisemite presenti nel suo romanzo, Eco ci mostra infatti come è stato costruito, o meglio, modernamente reinventato l’antico nemico.

Per quest’ordine di ragioni, invece di analizzare le pratiche discorsive antisemite come si fa di solito ricorrendo ad un criterio esterno di verità, mi sembra più opportuno, foucaultianamente[11], verificare attraverso quali regole sociali di esclusione e inclusione il discorso antisemita abbia prodotto la propria verità. Si tratta di una verità prodotta solo dall’enunciato e non dipendente dalla realtà. In termini linguistici si potrebbe parlare di una singolare performatività dell’atto linguistico antiebraico che si fa vero non per quanto dice ma, indipendentemente da quanto dice, per il solo fatto che si dice. Un buon esempio di ciò può essere l’affermazione di monsignor Jouin, protonotaro apostolico e traduttore francese dei Protocolli di Sion, secondo la quale: «Peu importe que les Protocoles soient authentiques; il suffit qu’ils soient vrais».[12] L’enunciato antisemita viene dunque creduto perché è già stato scritto e ripetuto miliardi di volte con minime sfumature e si è costituito perciò come parte di un patrimonio collettivo, accettato prima ancora di essere letto o ascoltato.

Quando nel Cimitero di Praga, il gesuita padre Bresciani dice a Simonini « – Guarda questo libro […] È La France juive di Edouard Drumont.  […] Ecco uno che evidentemente ne sa più di te»[13], Simonini sfoglia il volume e ribatte:

 

– Ma sono le stesse cose che aveva scritto il vecchio Gougenot, più di quindici anni fa!

– E allora ? – replica il gesuita – Questo libro è andato a ruba, si vede che i suoi lettori non conoscevano Gougenot. E tu vuoi che il tuo cliente russo abbia già letto Drumont? Non sei tu il maestro del riciclo?[14]

 

Un’altra regola di esclusione che appartiene alla pratica discorsiva antisemita è la mancanza di dati verificabili e in genere una costante impossibilità di verificare alcunché, comprese le paternità dei riferimenti e delle citazioni. Ci si muove sempre in universi discorsivi noti, dati per assodati e confermati dalla loro stessa eterna replicazione. Si varia cioè, con svariate contaminazioni, un patrimonio confuso di idées reçues e di mitologie collettive. Tra le regole d’inclusione, invece, vi sono l’aporia, l’entimema e la contraddizione che invece di ostacolare il discorso si pongono sul piano logico di semplici varianti tranquillamente compresenti.

Ma è tempo di cedere la parola ai personaggi non romanzeschi del nostro romanzo.

 

L’identità ebraica

 

Forse la prima regola che codifica la parola antisemita è una certa incertezza e confusione di base sull’identità dell’oggetto in questione.

 

Chi sono gli ebrei? – si chiede retoricamente Toussenel nella libreria di rue de Beaune – Tutti quelli che succhiano il sangue degli indifesi, del popolo. Sono i protestanti, i massoni. E naturalmente i giudei.

[…] È una razza che passa il tempo a ricordare la sua schiavitù, e sempre pronta a soggiacere al culto del vitello d’oro malgrado i segni della collera divina. La battaglia contro gli ebrei dovrebbe essere il fine principale di ogni socialista degno di questo nome. Non parlo dei comunisti, perché il loro fondatore è ebreo, ma il problema è denunciare il complotto del denaro. […] Vi sono popoli da preda che vivono della carne altrui[15]

 

L’imbecillità di Toussenel ci deve interessare perché rivela la difficoltà dell’antisemita e del suo discorso nel riconoscere il proprio nemico e cioè nell’assegnargli un’identità univoca. All’inizio del suo diario, Simonini, in piena crisi d’identità e già convivente con il suo doppio, l’abate Dalla Piccola, si chiede «Chi sono?». Non potendosi rispondere in modo positivo, finisce per chiedersi «Chi odio?».[16] Simonini è dunque colui che può dire di sé: «Io son colui che odia». Ma chi odia? La risposta questa volta è pronta ma ancora incerta:

 

Gli ebrei, mi verrebbe da dire, ma il fatto che stia cedendo così servilmente alle istigazioni di quel dottore austriaco (o tedesco) dice che non ho nulla contro i maledetti ebrei. Degli ebrei so solo quello che mi ha insegnato il nonno: – Sono il popolo ateo per eccellenza, mi istruiva. Partono dal concetto che il bene deve realizzarsi qui, e non oltre la tomba. Quindi operano solo per la conquista di questo mondo.[17]

 

Come si vede, non solo l’odio antisemita non sa giustificare se stesso se non con se stesso, ma non riesce neanche bene ad identificare il nemico. L’ebreo, per gli antisemiti, è soltanto lo stereotipo che su di lui è stato inventato… e infine coincide con lo stesso epiteto, connotato di razzismo, che a lui viene assegnato con particolari sfumature della voce: «ebreo!».

«Io gli ebrei – scrive Simonini – li ho sempre evitati perché sto attento ai nomi.».[18] Ecco: per l’antisemita che non riesce ad identificare in modo conforme al proprio pregiudizio il nemico, rimangono i nomi. A questo proposito, il narratore della Recherche proustiana, ci informa ad esempio che suo nonno, bonario antisemita, ogni volta che doveva ricevere un amico del nipote, sosteneva sempre che si trattasse di un ebreo.[19]

 

Prima ancora di averli visti –  prosegue il je  – semplicemente sentendo il loro nome che.molto spesso non aveva niente di particolarmente israelita, indovinava non soltanto l’origine ebrea dei miei amici che in effetti lo erano,  ma anche quel che di dubbio poteva esserci, a volte, nella loro famiglia.

– E il tuo amico che viene stasera, come si chiama?

– Dumont, nonno.

– Dumont… Eh, non c’è da fidarsi![20]

 

Quando l’ebreo, poniamo Freud, incontrato da Simonini a Parigi, non corrisponde al pregiudizio, il meccanismo retorico che sostiene la pratica antisemita non inquisisce il pregiudizio su cui si regge, ma preferisce negare l’identità ebraica della persona: «Froïde era facondo e spiritoso – scrive infatti Simonini con imprecisa grafia – forse mi sbagliavo e non era ebreo.».[21] In tal modo il pregiudizio viene salvaguardato dal contatto con una realtà che potrebbe smentirlo.

Anche l’identità religiosa non è un criterio così solido come gli antisemiti desidererebbero; non solo esistono ebrei non religiosi ma lo stesso Cristo era ebreo e ciò crea inevitabilmente un po’ di confusione. Questo spiega perché (in una scena del romanzo di Eco ambientata nella redazione della «Libre Parole illustrée», il giornale di Edouard Drumont, fondatore della Ligue Antisémitique) Jacques de Biez, cofondatore della Ligue, rispondesse così all’obiezione di un astante gaffeur che gli ricordava che Cristo era ebreo e del tutto disinteressato al denaro:

 

– Signori, che Cristo fosse ebreo è una leggenda messa in giro proprio dagli ebrei, come erano san Paolo e i quattro evangelisti. In realtà Gesù era di razza celtica, come noi francesi, che siamo stati conquistati dai latini solo molto tardi. E prima di essere emasculati dai latini, i celti erano un popolo conquistatore, avete mai sentito parlare dei gàlati, che erano arrivati sino in Grecia? La Galilea si chiama così dai Galli che l’avevano colonizzata. D’altra parte il mito di una vergine che avrebbe partorito un figlio è mito celtico e druidico. Gesù, basta guardare tutti i ritratti che ne possediamo, era biondo e con gli occhi azzurri. […] E se gli ebrei erano monoteisti, Cristo lancia l’idea della Trinità, ispirandosi al politeismo celtico. Per questo lo hanno ucciso. Ebreo era Caifa che l’ha condannato, ebreo era Giuda che l’ha tradito, ebreo era Pietro che l’ha rinnegato…[22]

 

Funziona molto male anche lo stereotipo fisiognomico; il colonnello Dimitri, dei servizi segreti zaristi, volendo raccogliere documenti compromettenti sugli ebrei russi esuli in Francia, si avvale come spia di Jakob Brafmann, un ebreo convertito alla fede ortodossa che si era all’uopo introdotto nell’ Alliance Israélite Universelle di Parigi. Bene: quando Simonini incontra Brafmann, rimane stupito:

 

Dai racconti del nonno mi attendevo di incontrare un individuo dal profilo di avvoltoio, le labbra carnose, quello inferiore leggermente sporgente, come accade coi negri, occhi infossati e normalmente acquitrinosi, la fessura delle palpebre meno aperta che nelle altre razze, capelli ondulati o ricci, orecchie a sventola… Invece incontravo un signore di aspetto monacale, con una bella barba brizzolata […] Si vede che la conversione trasforma anche i tratti del viso oltre a quelli dell’anima.[23]

 

Brafmann, ex rabbino e autore del libro Le livre du Kahal (edito in russo a Vilna nel 1869), sostiene la tesi del complotto ebraico contro il mondo cristiano e, al di là dei falsi documenti che esibisce, offre la propria origine ebraica come sola prova della verità delle sue accuse. La costruzione della verità dell’enunciato antisemita è dunque costruita qui non in base alla corrispondenza tra i contenuti del discorso e la realtà, ma solamente in base all’originaria identità religiosa del locutore. Dice infatti Brafmann a Simonini:

 

Io non mi batto contro gli ebrei, io che sono nato ebreo, ma contro l’idea giudaica che vuole sostituirsi al cristianesimo… Io amo gli ebrei, quel Gesù che loro hanno assassinato mi è testimone…

[…]

– I sentimenti fondamentali che animano lo spirito talmudico sono un’ambizione smisurata di dominare il mondo, un’avidità insaziabile di possedere tutte le ricchezze dei non ebrei, il rancore verso i cristiani e Gesù Cristo. Fino a quando Israele non si convertirà a Gesù i paesi cristiani che ospitano questo popolo saranno sempre considerati da esso come un lago aperto dove ogni ebreo può pescare liberamente, come dice il Talmud.[24]

 

Vale la pena a questo punto di ricordare anche la figura di Osman Bey, un altro ebreo fanatico antisemita di cui non si fida neanche l’Ochrana, cioè il «Dipartimento per la sicurezza» e i «Servizi di informazione riservata» dell’impero zarista. Chiedendo a Simonini di raccogliere negli ambienti intellettuali russi voci che potessero screditare gli ebrei, Rachkovskij, capo dei servizi segreti, si sente chiedere dal nostro protagonista:

 

– Quindi volete che gli ebrei siano distrutti, come – forse lo conoscete – Osman Bey.

– Osman Bey è un fanatico, e inoltre è ebreo anche lui. Meglio starne lontano.[25]

 

Per ragioni di spazio non posso qui passare in rassegna tutte le descrizioni antisemite presenti nel romanzo. Mi limiterò dunque a riportare la divertente tassonomia che, in riferimento a Drumont, ne dà la voce narrativa: «Drumont non era antisemita filosofico e politico come Toussenel, né teologico come Gougenot, era antisemita erotico.». Infatti «Egli odiava gli ebrei, come dire, per amore, per elezione, per dedizione – per un impulso che sostituiva quello sessuale.».[26]

 

Un’origine paraletteraria

 

Ricorrere ad una struttura narrativa di tipo affabulatorio tipica della letteratura popolare o paraletteraria, come quella del feuilleton, è una delle più importanti regole inclusive del discorso antisemita.

 

Il romanzo d’appendice – ha scritto Gramsci – sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti… In questo caso si può dire che nel popolo fantasticare è dipendente dal “complesso d’inferiorità” (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati ecc.[27]

 

Ecco perché le moderne pratiche discorsive antisemite sono largamente dipendenti dai romanzi d’appendice. Ma andiamo per ordine: che le fonti dei falsi Protocolli di Sion (usciti in Russia nel 1903 e successivamente) appartenessero in larga parte alla paraletteratura e al feuilleton, era noto ancor prima del 1921. Ancor prima cioè, di quando il corrispondente inglese da Istanbul del «Times», Philippe Graves, pubblicasse tre articoli nei quali dimostrava la falsità dei Protocolli, indicandone le fonti nel dialogo anonimo, ma scritto da Maurice Joly (1829-1879) ed edito a Bruxelles nel 1864, intitolato Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu… Tutta la questione è analizzata e ben documentata storicamente da un saggio del 2006 di Carlo Ginzburg, intitolato Rappresentare il nemico. Sulla preistoria francese dei Protocolli[28] e ideale complemento di lettura del Cimitero di Praga.

Il problema filologico e storico, allora, diventa quello di individuare i collegamenti tra l’ambiente francese e il contesto russo in cui furono confezionati i Protocolli. A ciò il romanzo di Eco dà un contributo interessante e assai valido anche sul piano storico-filologico. Faccio una premessa: Eco segue rigorosamente il “tessuto” lineare della storia e si limita (come già fece nel Nome della rosa)[29] a fare delle piccole “pieghe” immaginarie all’interno di quel tessuto per poi continuare a seguirne il corso. Nel Cimitero di Praga la sola piega presente è rappresentata dal ruolo e dagli interventi di Simonini, unico personaggio di fantasia, se si eccettua il notaio Rebaudengo. Nel dialogo di Joly, dietro ad un tenue velame allegorico, si attaccava Napoleone III e se ne immaginava un futuro complotto antipopolare. Non si parlava di ebrei. La principale fonte di Joly erano Les mystères de Paris (1842-43) di Eugene Sue, nel quale però il complotto era ordito dai gesuiti; in particolare Joly riprendeva dal testo di Sue la lettera che padre Rodin inviava a padre Roothaan. Eco immagina che Simonini, appassionato lettore di feuilleton, per confezionare i suoi falsi documenti antisemiti si sia servito della stessa fonte di Joly, autore ben noto ed elogiato anche da Drumont che Simonini frequentava assiduamente.

In seguito, il nostro ha modo di incontrare Hermann Goedsche (1815-1878), agent provocateur della polizia segreta prussiana e feroce antisemita tedesco. Questi, con abile mossa, riesce a impadronirsi di una copia del “documento” antiebraico pazientemente elaborato da Simonini. In esso, oltre alle ricordate influenze testuali di Joly e di Sue, il complotto degli ebrei per il possesso del mondo era stato ambientato nel cimitero ebraico di Praga. Simonini aveva avuto quest’idea sfogliando un libro di incisioni su quel celebre luogo e leggendo il Giuseppe Balsamo (1849) di Dumas. In una scena di questo romanzo, infatti, Cagliostro riunisce i suoi seguaci massoni sul Mont Tonnerre e con loro ordisce una congiura che avrebbe dovuto cancellare la monarchia francese di Luigi XVI.

 

Dimentichiamo il monte del Tuono, la riva sinistra del Reno, l’epoca – si era detto Simonini – pensiamo ai congiurati che provengono da ogni parte del mondo a rappresentare i tentacoli della loro setta protesi in ogni paese, raduniamoli in una radura, in una grotta, in un castello, in un cimitero, in una cripta, purché sia ragionevolmente buio, facciamo pronunciare da uno di loro un discorso che ne metta a nudo le trame, e la volontà di conquistare il mondo…[30]

 

Hermann Goedsche, sotto al nome di John Retcliffe, aveva poi pubblicato nel 1869 a Berlino Biarritz, un «Historisch Politischer Roman» il cui capitolo «Il cimitero di Praga e il Consiglio delle Dodici tribù di Israele», era semplicemente un plagio del documento di Simonini. Così un dialogo di Joly, un’opera di Sue per suo tramite, e il Giuseppe Balsamo di Dumas, per il tramite di Goedsche (o se preferite di Simonini) divennero le principali fonti narrative del nucleo centrale dei Protocolli.

Alla fine del suo romanzo, Eco, concordemente a molti storici, ipotizza  l’anello che avrebbe potuto collegare l’ambiente franco-prussiano in cui fu elaborato il nucleo centrale dei futuri Protocolli e quello russo in cui questi furono redatti. Simonini viene pesantemente ricattato da Piotr Rachkovskij (il capo della temibile Ochrana, il servizio russo per la sicurezza) che gli chiede un dossier antiebraico completo da far tradurre successivamente in russo da un uomo di sua fiducia, Golovinskij. Matvei Vasil’evic Golovinskij (1865-1920) era un aristocratico russo fedele allo zar e legato agli ambienti della destra monarchica. Violento antisemita, Golovinskij, di stanza a Parigi, collaborava con zelo con l’Ochrana nella ricerca di documenti che, diffamando gli ebrei, potessero salvare la monarchia stornando il malcontento del popolo russo sul presunto complotto ebraico. Dopo la Rivoluzione sovietica, Golovinskij si trasformò in acceso bolscevico, il che non stupisce. Ciò che Eco non dice e che ricavo dalle recenti ricerche di Vadim Skuratovsky[31] è che, insieme a Charles Joly, figlio di Maurice, Golovinskij collaborava attivamente al «Figaro» pubblicando frequenti e violentissimi articoli antisemiti. Tout se tient… dunque.

Ma torniamo al romanzo: pressato dal ricatto, Simonini si mette all’opera e dopo pochi giorni riceve la visita di Golovinskij. Riassunto il suo lavoro, il cui titolo ipotizzato da Golovinskij doveva essere I protocolli della riunione dei rabbini nel cimitero di Praga, Simonini conclude con alcune orgogliose citazioni dal suo testo. Al che Golovinskij, soddisfatto, esclama: « – Non male per un romanzo d’appendice».[32] Il che conferma quanto ho detto sull’origine paraletteraria del discorso antisemita.

Volendo ora chiudere l’anello della mia analisi mi sembra che con Il cimitero di Praga, Eco, pur non nominandola, ci abbia ammonito indirettamente a non distogliere lo sguardo dalla Shoah, a non distanziarla nell’evento mostruoso e unico e soprattutto a non occultarla dietro a veli olocaustici e sacrificali. Quei veli che – disse una volta Lacan[33] – costituiscono una perversa fascinazione per chi cerca sempre nel sacrificio il bisogno di corrispondere al desiderio di un dio… di un dio, però, oscuro e ingannatore, nascosto dentro di sé.

[1] Chrétien de Troyes, Romanzi, a cura di Carlo Pellegrini, tr. it. di Silvio Pellegrini, Sansoni, Firenze 1962, p. 582.

[2] In Gustav Janouch, Colloqui con Kafka, in Franz Kafka, Confessioni e diari, tr. it. e cura di Ervino Pocar, Mondadori,   Milano 1972, p. 1086.

[3] Umberto Eco, Il cimitero di Praga, Bompiani, Milano 2010.

[4] Vd. Anna Foa, La micidiale macchina del falso, in «Pagine ebraiche», in www.moked.it/paginebraiche/3/10/2010; Riccardo Di Segni, Domande senza risposta, in www.moked.it/blog/2010/10/20; Lucietta Scaraffia, Il voyeur del male, in «L’Osservatore romano» del 30 ottobre 2010.

[5] Simon Levis Sullam, L’archivio antiebraico, Laterza, Bari 2008. Vd. anche Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

[6] Cfr. Alphonse de Toussenel, Les Juifs. Rois de l’époque, Paris 1845.

[7] Vd. Bénédict Augustin Morel, Traité des dégénérescences, Paris 1857. Vd. anche Giovanni Palmieri, I miti europei della «nevrastenia» e della «degenerazione» nell’opera di Svevo, in «Autografo», n. 30, 1995, pp. 75-87.

[8] Max Nordau, Entartung, Berlino 1892; tr. fr. Dégénérescence, Paris 1892; tr. it. Degenerazione, Milano 1893.

[9] Giovanni Palmieri, art. cit., p. 80.

[10] Art. cit. qui alla n. 4.

[11] Cfr. Michel Foucault,  L’Ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, tr. it. di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1972.

[12] Traggo la citazione (e rimando per i riferimenti bibliografici) da Carlo Ginzburg, Rappresentare il nemico. Sulla preistoria francese dei Protocolli, in id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 197-98 e n. 38.

[13] Op. cit., p. 400.

[14] Op. cit., pp. 400-01. Cfr. Gougenot des Mousseaux, Le Juif, le judaïsme et la judaïsation  des peuples  chrétiens, Paris 1869; Edouard Drumont, La France Juive. Essai d’histoire contemporaine,  2 voll, Paris 1886.

[15] Op. cit., pp. 226-27

[16] Op. cit., p. 11.

[17] Ivi.

[18] Op. cit., p. 49.

[19] Marcel Proust, Dalla parte di Swann, in id., Alla ricerca del tempo perduto, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria, tr. it. di Giovanni Raboni, Mondadori, Milano 1983, vol. 1, p. 111.

[20] Ivi, pp. 111-112.

[21] Op. cit., p. 54.

[22] Op. cit., p. 409.

[23] Op. cit., p. 231.

[24] Op. cit., p. 233-35.

[25] Op. cit., p. 399. Cfr. Osman Bey, Gli ebrei alla  conquista del mondo (1880), L. Cappelli, Bologna 1939.

[26] Op. cit., p. 401.

[27] Antonio Gramsci, La letteratura popolare, in id., Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 108.

[28] Cit. qui alla n. 11.

[29] Edito a Milano da Bompiani nel 1980.

[30] Op. cit., p. 95.

[31] Vadim Skuratovsky,  La questione della paternità di “Protocolli dei savi di Sion” (titolo e testo in russo), Judaica Institute, Kiev 2001. Non ho visto il libro di Skuratovsky  (che non risulta tradotto in alcuna lingua) e ne ho avuto notizia solo da Wikipedia alla voce Protocolli dei Savi di Sion (http:// it.wikipedia.org). Si prenda dunque l’informazione con le dovute cautele.

[32] Op. cit., p. 498. Eco è anche autore di uno studio sul romanzo d’appendice intitolato Il superuomo di massa (Cooperativa scrittori, Roma 1976).

[33] Jacques Lacan, Le séminaire livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973, p. 246-47.

 

Sì, uscirne vivi

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di Walter Nardon

Non fosse venuto a sapere che, al termine della riunione, con ogni probabilità si sarebbe fatto vivo anche il responsabile amministrativo – il formidabile Elias, alla cui volontà da tre mesi era aggrappata la sua speranza – il nostro Carlo se ne sarebbe rimasto a preparare la relazione pensando alla cena di venerdì e al cane da sconsigliare a sua sorella, ormai decisa al grande passo.

Pasolini spiega una cosa semplice semplice a Tajani

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E sì che non ci vuole molto a capirlo:

“[…] le Opere del Regime non sono Opere del Regime. Sono soltanto Opere che il Regime non può non fare. Le fa, naturalmente, nel modo peggiore (e in questo senso la Democrazia Cristiana non si distingue dagli altri Regimi) ma, ripeto, non può non farle. Qualsiasi governo in Italia verso la fine degli anni trenta avrebbe bonificato le paludi pontine: il Regime Fascista ha elencato tale bonifica, di comune amministrazione, tra le proprie opere.”

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975.

 

Fespaco: il racconto sociale e politico di un’Africa che cambia

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di Giuseppe Acconcia

Ouagadougou

«È come sempre un festival rivoluzionario», è stato il commento dell’attore Al Assane Sy in occasione della chiusura della 26esima edizione del Festival di cinema pan-africano (Fespaco) di Ouagadougou. Se tutte le attese per i cinquant’anni (1969-2019) dall’avvio di una delle manifestazioni storiche e più significative di cinematografia africana facevano pensare ad una vittoria del film “Desrances” della regista burkinabé, Apolline Traore, accolto con grande calore dal pubblico del Cine Burkina e nella magnifica sala all’aperto dell’Istituto francese, a vincere l’Etalon d’oro di Yennenga è stato il film “The mercy of the jungle” di Joel Karekezi. «Un film di guerra e non sulla guerra» ci ha spiegato il critico senegalese, Baba Diop. Nel pieno del conflitto in Rwanda tra tutsi e hutu, il sergente Xavier, eroe di guerra ruandese, e il giovane soldato semplice Faustin si trovano in territorio nemico nel pieno della giungla. Soli e senza risorse, attraversando l’immensa e ostile giungla congolese, sono costretti a sfuggire ad agguati, alla malaria e alla violenza dei loro stessi commilitoni. Uno sguardo lucido e disincantato su un conflitto le cui ferite sono ancora aperte, che è valso anche il premio come migliore attore al protagonista, Marc Zinga. Il premio per la migliore interpretazione femminile è andato invece a Samantha Mugotsia per il film Rafiki del Kenya. Il lungometraggio, basato sul romanzo Jambula Tree, della scrittrice ugandese Monica Arac de Nyeko, racconta la storia di un amore tra due donne ed è stato proibito in Kenya.

Se l’edizione del 2017 aveva visto la vittoria del cineasta senegalese, Alain Gomis con Felicité, poi accolto in patria come un «eroe», è stato il cinema nord-africano ad avere ampio spazio in questa edizione, ricca di pubblico e con misure di sicurezza alle stelle del Fespaco, con ben due film premiati tra i migliori tre: l’egiziano Karma di Khaled Youssef, e il tunisino Fatwa di Ben Mohmound. L’allievo di Youssef Chahine in Karma racconta la storia di due uomini, entrambi interpretati da Amr Saad, che vivono uno, ricco imprenditore, tra gli agi più sfrenati nei quartieri satellite del Cairo e l’altro, disoccupato nella povertà più assoluta. Le vite dei due si incrociano continuamente, così come i loro modi diversi di vivere, le loro religioni diverse (il più ricco è musulmano, il più povero è cristiano) prima nei sogni e poi nella realtà, al punto che uno arriva a vivere la vita dell’altro in un continuo meccanismo dialettico che smaschera i pregi e i difetti della ricchezza e della povertà e che si risolve nella fine delle persecuzioni per il ricco agiato, dopo l’ingresso in una tomba abbandonata nel cuore della Cairo antica che lo riporta alla realtà e lo scagiona da ogni sua colpa. In Fatwa, il regista tunisino Ben Mohmound racconta invece del percorso di radicalizzazione del figlio del protagonista, Ahmed Hafien. Dopo la sua morte, il padre cerca di capire cosa sia accaduto a suo figlio che da mesi aveva perso di vista dopo il suo trasferimento a Parigi. E così scopre che lentamente aveva abbracciato la fede salafita pur tentando in ogni modo di salvare la madre, parlamentare interpretata da Ghalia Benali, dalla condanna a morte, decisa da islamisti radicali suoi amici, a causa dei contenuti del suo ultimo libro sulla violazione dei diritti umani nel paese. Infine, secondo la giuria del festival, il migliore corto metraggio è stato Black Mamba del tunisino, Amel Guellaty: la storia di una giovane, Sarra Hannachi, che avrebbe voluto vivere la sua passione per la box nonostante i limiti imposti dalla società.

Uno dei documentari più interessanti di quest’edizione è stato Jamu Duman del regista maliano Salif Traoré sull’origine dei patronimici nei paesi dell’Africa occidentale insieme al film che ha vinto l’Etalon d’oro come migliore lungometraggio documentario Le loup d’or de Balolé del regista burkinabé, Aïcha Boro Leterrier. In quest’ultimo film si racconta la vita durissima di 2500 persone, adulti e bambini, che abitano in una miniera di granito a nord di Ouagadougou. Nel 2014, sono riusciti in parte a riscattare la loro condizione superando il giogo degli intermediari per vendere direttamente il frutto del loro lavoro. In Against all odds, Poulain d’oro dei documentari brevi, i registi Charity Resian Nampaso (Kenya) e Andrea Iannetta (Italia) raccontano invece della lotta contro la mutilazione genitale femminile di Charity, ragazza del Masai Mara, che vincerà la sua battaglia grazie al sostegno della madre.

Liberi o liberati?

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di Giovanna Gammarota

Per una presentazione del libro «Tecniche di liberazione» di Mariangela Guatteri

 

Lìbero [dal lat. liber], che non è soggetto al dominio o all’autorità altrui, che ha facoltà di agire a suo arbitrio, senza subire una coazione esterna che ne limiti, materialmente e moralmente, la volontà e i movimenti.

Liberazione [dal lat. liberatio -onis], l’atto, il fatto di liberare, di liberarsi o di essere liberato da una soggezione, da un male, da un vincolo, da un controllo.

Questo è quanto dice l’Enciclopedia Treccani. Se però andiamo a leggere più a fondo la descrizione di libero ci accorgiamo che il termine sfugge al suo stesso senso.

Qualche esempio:

  • nell’antica Roma, liberi erano i cittadini che godevano di pieni diritti civili, distinti dagli schiavi e dai liberti (gli schiavi liberati).
  • Vi sono poi le Nazioni libere in senso politico: non asservite allo straniero; che si governano con leggi e magistrati proprî.
  • In senso spirituale, si dice di persona che in materia di opinioni o di fede afferma il diritto alla libera indagine dichiarandosi indipendente da dogmi e postulati confessionali.

Nei casi appena menzionati si tratta comunque di una libertà regolamentata e quindi di per sé non vera, non reale. Anche il cosiddetto libero pensiero sottostà a meccanismi di confronto più o meno razionali che prendono in esame altri pensieri generati da altri individui pertanto tale libertà di pensiero avrà sempre un confine.

Vediamo quindi che la parola libero assume una varietà di sfumature che lasciano dubitare del senso comune solitamente dato a questo termine. Se dunque nel caso della libertà si assiste ad un atto fisico o intellettivo che può procedere attraverso diverse strade, nel caso della liberazione si procede per un’unica via.

Ho voluto riportare queste due definizioni per evidenziare un quesito tanto semplice quanto complesso: qual è la differenza tra libertà e liberazione? Apparentemente i due concetti sembrano avere molto in comune, anzi sembrano l’uno la conseguenza dell’altro ma non è così e la motivazione è molto semplice: affermare “sono libero” equivale a sostenere di non essere dipendenti da qualcuno o qualcosa che sta al di fuori di noi; parlare invece di liberazione significa affrancarsi dalla dipendenza di ciò che sta dentro, nel profondo.

Quando diciamo di sentirci liberi di fare, dire o essere ciò che vogliamo diciamo una cosa falsa e forse anche un po’ presuntuosa, certamente senza grande fondamento. Nella società contemporanea il livello di libertà che possediamo è davvero molto basso. Non solo, qualsiasi atto di ribellione o qualsiasi opinione esternata come “nostra” è in realtà indotta. Crediamo di avere un nostro pensiero libero ma non è così: non può esserlo perché non ci siamo liberati. La nostra relazione con il mondo che ci circonda non tiene mai conto dell’insieme inteso come osservazione del Tutto consapevoli di farne parte; è una relazione che ci pone molto spesso al centro e di conseguenza il centro si compone dei nostri bisogni, delle nostre necessità: un punto di vista con un orizzonte molto ristretto. Allargare lo sguardo, proiettarsi verso un orizzonte più vasto porta invece a porsi delle domande che salgono dalle viscere, da un interiore melmoso, che non si vuole abbandonare perché pensiamo ci protegga nonostante la sua vischiosità. Dentro queste viscere siamo al riparo dall’ignoto; non rischiamo di perdere il contatto con una realtà precostituita che ci accaniamo a contestare senza renderci conto che ci tiene prigionieri, che abbiamo bisogno di liberarcene. Scivoliamo e ricominciamo daccapo.

Ma allora, come possiamo liberarci? Il libro Tecniche di liberazione di Mariangela Guatteri, prova a descrivere il processo.

All’inizio è il caos all’interno del quale c’è un nucleo. Il caos si muove e porta con sé il nucleo; questo muoversi ha una sua precisa funzione, quella di generare il nuovo non inteso come novità bensì come rivelazione dell’esistente. Il libro è introdotto da un testo breve che descrive la posizione yoga Siddhāsana che significa posizione perfetta, Si tratta di una postura meditativa che esige il controllo dei sensi, pratica che immerge il corpo e la mente in uno spazio “altro”, uno spazio che si allarga man mano che lo si frequenta. “Hanno origine nella memoria” – scrive Guatteri – è una continua scarica […] È doloroso”.

Affrontare lo spazio che si trova nel dentro profondo non è cosa da poco, si ingaggia una continua battaglia con quelle che possiamo definire “resistenze”. Tale battaglia priva completamente l’individuo della capacità di esistere in quanto parte dell’Unico. Egli sviluppa così una sorta di autodifesa che pone in primo piano il suo essere. Paradossalmente la battaglia che l’individuo conduce per essere libero lo priva della sua liberazione. Durante il percorso suggerito dal libro si vive una condizione di isolamento che lentamente diventa indipendenza necessaria e, infine, consapevole. Questo porta a una forza tanto chiara da essere presente in tutto lo svolgersi del quotidiano, una forza che non parla di superiorità dell’individuo su altri individui ma che deriva dall’essere compresente al Tutto.

Ma torniamo alle tecniche di liberazione. L’allenamento ad abbandonare le resistenze è una tecnica di liberazione. Non parliamo qui di un atteggiamento pseudo psicanalitico ma di una vera e propria “rinuncia” a combattere. Spesso sentiamo dire frasi del tipo: “sono abituato a lottare; nulla mi spaventa”: si tratta di una resistenza. Questa consapevolezza giunge in seguito a inevitabili stadi che occorre attraversare: non si possono saltare.

Uno degli stadi inevitabili è quello del “dolore” in quanto primo livello di relazione con l’idea di liberazione. Il dolore va attraversato e riconosciuto, oltrepassare il primo stadio significa iniziare il percorso di rivelazione.

 

Possono essere riconosciute, controllate e bruciate: passione, sentimento di individualità; l’attaccamento e la volontà di vivere. (Le classi sono dolorose)

Uscire dal circuito è doloroso.

 

A costo di apparire blasfema mi spingo a dire che tutte le situazioni in cui l’uomo si accanisce nel resistere sono in realtà inutili e deleterie: accadrà sempre di assistere ad un conflitto che porterà una parte a prevalere sull’altra e dunque a una inevitabile insoddisfazione. Tutto ciò avviene sia al di fuori sia all’interno, ma non sfiora in nessun modo il dentro profondo.

Per questo rinunciare a resistere non è una sconfitta ma una liberazione.

 

Orbene le scienze del linguaggio – scrive ancora Mariangela Guatteri – sono prime tra i mezzi di liberazione.

 

In questo libro vi sono quattro sezioni, quattro stadi, per un attraversamento che è anche metafora di evoluzione e tre linguaggi: la parola (suono), la fotografia (vista) e lo yoga (tatto). La parola unita alla fotografia ci è capitato diverse volte di vederla ma in questo caso la modalità di fruizione dei due linguaggi è parallela (non complementare): questa è una tecnica di liberazione precisa. Mantenere il controllo dei sensi, distinguere nell’insieme. L’introduzione dello yoga, disciplina che comprende l’uso del corpo, permette di unire i sensi che altrimenti sarebbero staccati e indipendenti ma l’effetto è contrario a quanto ho appena affermato poiché in questa unione è possibile ascoltare ogni singolo elemento e il tutto contemporaneamente, come in un’orchestra.

Possiamo guardare delle fotografie usando soltanto il senso della vista, isolato da tutti gli altri. Possiamo ascoltare il suono della parola impiegando il solo senso dell’udito ma in questo modo non riusciremo ad entrare nel dentro profondo perché per poterlo fare è necessario allargare l’orizzonte, usare tutti i sensi. Unendo i due linguaggi saremo inevitabilmente attratti con prevalenza dall’uno o dall’altro ed è proprio l’allinearsi della terza disciplina che permette all’individuo di usare tutti i sensi contemporaneamente fondendo i linguaggi stessi pur mantenendoli al contempo distinti. Non è affatto casuale che sia stata scelta la musica durante le presentazioni di questo libro, infatti la musica è la tecnica di liberazione per eccellenza, come la pratica yoga ci permette di entrare in contatto con tutto ciò che ci circonda in maniera totale. Perché? Perché non è stata creata dall’uomo, esiste nell’Universo e l’uomo è soltanto lo strumento attraverso cui passa e si rivela.

 

La censura lucida degli automatismi; la concentrazione sulla cosa,

Un punto: ferma e continua.

 

Lo svelarsi a poco a poco delle cose per come sono, della vita che le permea, implica capacità di concentrazione e di censura di tutto ciò che non accade consapevolmente. Il secondo stadio della liberazione abolisce gli automatismi lucidamente: torniamo a una “modalità vegetale”, la presenza nello spazio che ci circonda come cose insieme ad altre cose. L’accettazione anche qui della resa che pulisce lo sguardo mostrandoci il vero.

La metamorfosi avviene come per miracolo, il caos sta per stabilire un nuovo ordine. Affiora dal dentro profondo la verità e comincia a non farci più paura, abbandoniamo le viscere dense per entrare nella “nostra grandezza” emendata dall’individualismo.

 

Hanno un aspetto comune, l’inclinazione normale.

[…] Vogliono preservare la memoria, restare attaccati.

 

[…] i punti fermi. Senza penetrare

 

Il terzo stadio della liberazione ci porta ad un livello in cui tutto è intercambiabile, dove il sotto è il sopra, il dentro è il fuori, un’attraversabilità totale ma al tempo stesso consapevole degli elementi attraversati compreso il proprio corpo. La liberazione nasce dal corpo, per l’individuo un involucro, sostengono alcuni, in realtà una “cosa” che nasce, vive e muore, attraversa un ciclo fatto di provvisorietà, di passaggio e, infine, di scomparsa: un’evoluzione del tutto naturale.

 

Un modo di essere nuovo e paradossale

 

L’impatto dell’aria sugli organi, i suoni.    Il dormire sulla terra nuda;

il rimanere in acqua; il digiuno

 

Frutti particolari. Visibili, invisibili

 

Ci si è arresi ma paradossalmente si è posta in essere una modalità nuova di resistenza, di natura differente. Il ciclo è completo. Le resistenze costrittive che ci comprimevano sono evaporate per dar spazio a una nuova resistenza pulita, forte, grande che permette al ciclo stesso di compiersi, di arrivare al suo termine. Lo sguardo e le parole non ci confondono più, il corpo è stato liberato.

 

nudo              concreto.

 

*

 

[Dalla presentazione del libro avvenuta presso il Laboratorio di Cultura Fotografica di Città della Pieve, il 1 dicembre 2018]

 

Il monumento

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di Davide Orecchio

Molti italiani hanno amato Montanelli perché ha dato loro una grossa mano a mettere in parentesi il fascismo passato, a normalizzarlo e banalizzarlo. Sin dai primi libri, a regime ancora “fresco” (Qui non riposano, 1945) Montanelli fu “uno dei principali artefici di una memoria consolatoria del fascismo, che andava incontro al desiderio degli italiani di cancellare il ricordo delle passate responsabilità” (Luca La Rovere, L’eredità del fascismo: gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo, p. 314). 

Così il fascismo del singolo e della comunità diventava pochezza, debolezza, sotterfugio. Qualcosa di perdonabile senza necessità di processo. Una malattia non grave senza obbligo di de-fascistizzazione. Si potrà comprendere quanto rilevasse una simile posizione nel dopoguerra, nella società italiana postfascista. L’autorevolezza di Montanelli cresceva nello specchio di centinaia di migliaia di lettori che chiedevano strumenti di autoconsolazione e giustificazione. Si cercava come il pane una divulgazione che diluisse il fascismo, che lo riducesse tutt’al più a tentativo autoritario, e sconfitto, di modificare il carattere italiano: un carattere più ridicolo che criminale, e impermeabile a qualsiasi totalitarismo. 

Poi è nato il monumento. 

Certo, era un grande giornalista. E le sue battaglie e cronache, tra anticomunismo su scala globale (la Lettera 22 sulle gambe) e fustigazione morale del costume nazionale, alimentavano poi la credibilità della sua vena “storiografica”. Ma, a parte il fatto che proprio i grandi giornalisti, ancor più dei giornalisti normali, sono capaci di scrivere grandi sciocchezze, anzi più un giornalista è grande più corre il rischio di scrivere grandi sciocchezze, abbiamo capito in cosa consistesse parte del successo di Montanelli: era lo scrittore che una certa comunità, un certo pubblico, rendeva grande perché aveva bisogno proprio di quella versione lì per assolversi e andare avanti. 

Di nuovo: il monumento. Montanelli è diventato monumento in un’Italia che non ha mai fatto i conti col proprio fascismo, e che anzi l’ha fatto risuonare in continuità negli apparati, nell’amministrazione, nell’ideologia. 

Sulla guerra d’Africa, poi, le posizioni di Montanelli sono sempre state sconcertanti. Non si ricorda solo l’episodio della bambina comprata in moglie, giustificato da Montanelli in articoli e interviste e nella famosa apparizione tv con candore tra ipocrisia, pseudostoricismo e pseudoantropologia (“in Africa è un’altra cosa”, era usanza del tempo), e che gli è costata ora la vernice delle femministe milanesi. Ci fu anche la polemica assurda con lo storico Angelo Del Boca, dove Montanelli si ostinò a lungo a minimizzare l’uso del gas, mentre Del Boca produceva in prova i telegrammi di Mussolini con l’ordine di gettare l’iprite sugli abissini. Non era solo una difesa autobiografica, dovuta al fatto di aver partecipato a quella campagna. Il problema era che l’aggressione all’Abissinia, assieme alle leggi antiebraiche, era il fatto storico che più di altri sabotava il monumento al “fascismo macchietta”, al fascismo episodico. C’era dunque una Storia – e qualcuno si ostinava a raccontarla – che resisteva alle procedure di depotenziamento e riduzione dello scandalo fascista, che si opponeva agli espedienti e agli annacquamenti. Questa storia più veritiera c’è sempre stata. Anche in nuovi libri di storiche e storici, di scrittrici e scrittori, continua a parlare e a farsi leggere. Ma appunto non è monumento (o storiella): è storia. 

Mentre un monumento, imbrattato di vernice rosa o immacolato, difeso o contestato, per dirla con Alessandro Manzoni: “non è una storia: anzi talvolta è, non solo molto meno, ma qualche cosa di contrario alla storia” (Storia della Colonna Infame, cit. in Salvatore S. Nigro, La funesta docilità, p. 134).

Mondo, mistica e città. Intervista a Vanni Santoni

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di Marco Zonch

[Spoiler Alert – lo scambio che segue contiene informazioni sulla trama di alcuni dei romanzi dell’autore, tra cui Terra ignota 1 e 2, L’impero del sogno e La stanza profonda]

Questa intervista si colloca all’interno di un più ampio progetto di ricerca che ha per oggetto la produzione letteraria italiana, in prosa, del periodo che va dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso a oggi. Il tentativo è quello di affrontare i problemi connessi al cosiddetto “ritorno alla realtà” e, più in generale, le trasformazioni avvenute in questi vent’anni da una prospettiva ontologica e non, come è stato spesso proposto, attraverso l’impiego di categorie epistemologiche.

In questo senso, centrale appare essere la questione della spiritualità, pensata all’incrocio tra la riflessione di Michel Foucault e i risultati della riflessione sociologica contemporanea a proposito delle trasformazioni del panorama religioso occidentale. L’impressione, che questa intervista sembra supportare, è che molti dei più noti scrittori oggi attivi non si pongano problemi nell’ordine della possibile (o impossibile) corrispondenza tra parole e cose, tra mondo scritto e mondo non scritto, ma al contrario riflettano sulla possibilità di entrare in possesso di una verità di ordine spirituale.

Nelle risposte alle domande che, qui di seguito, l’autore mi ha cortesemente concesso, sembra inoltre possibile individuare una qualche forma di relazione tra “impegno” e spiritualità.[1]

Vanni Santoni (1978), esordisce con Personaggi precari nel 2007. Ha poi pubblicato, Gli interessi in comune (2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (2011) Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (2015), La stanza profonda (2017), finalista al Premio Strega e L’impero del sogno (2018). Scrive per il “Corriere della Sera” e dirige la collana narrativa di Tunué.

L’intervista si è svolta attraverso uno scambio di mail che ha avuto luogo tra il 30 ottobre e il 5 novembre del 2018. L’autore non è stato messo a parte della prospettiva di lavoro nella quale l’intervista si sarebbe inserita al fine di evitare l’influenza di questa sulle sue risposte. Ho tuttavia premesso che l’oggetto del mio interesse sarebbe stato di natura ontologica, e avrebbe avuto l’obbiettivo di chiarire alcuni punti problematici del lavoro che sto svolgendo.

Glossario:

RPG: Role Playing Game (gioco di ruolo), gioco “da tavolo” o videogioco in cui il singolo partecipante interpreta un personaggio, di sua invenzione o scelto tra quelli proposti dal gioco stesso. L’esempio più noto di gioco di ruolo è forse quello di Dungeons&Dragons.

Nelle versioni classiche di questi giochi i personaggi vengono abitualmente creati a partire da fattori quali: razza (umano, elfo, nano…), classe (mago, guerriero…), livello (il grado di forza del personaggio, che aumenta sconfiggendo mostri o completando specifiche missioni), allineamento (buono, caotico, malvagio, neutrale…) e da statistiche, espresse in valore numerico, quali: intelligenza, forza, destrezza ecc..

Il risultato delle interazioni tra personaggi, scontri ecc. è, in molti giochi di questo tipo, determinato dal lancio di dadi, all’incrocio con le scelte del giocatore e con le caratteristiche del personaggio interpretato.

MMORPG: acronimo di Massive Multiplayer Online Role Playing Game. Videogiochi come, ad esempio, World of Warcraft, in cui il giocatore guida le azioni di un singolo personaggio collaborando o scontrandosi con altri giocatori al fine di raggiungere alcuni obbiettivi proposti dal gioco stesso. Anche in questo caso, le caratteristiche del personaggio sono abitualmente espresse numericamente. Per esempio, un personaggio, prima di essere sconfitto, deve subire un ammontare di danni uguale o superiore ai propri punti vita.

Cyberpunk [Cyberpunk, Cyberpunk 2020]: gioco di ruolo di ambientazione distopica.

Vorrei partire da una cosa di cui, nei tuoi lavori, si parla sempre o quasi: le sostanze psicotrope. Indipendentemente dal genere testuale, che il mondo sia d’invenzione o no, mi pare tu attribuisca ad esse un medesimo ruolo assiale. Le droghe sono cioè asse, a un tempo, della narrazione e del mondo (nel senso che rimandano alla sua vera essenza). Per essere concreti, intendo dire che più di una volta l’assunzione di soma, in Terra ignota, mette in moto gli eventi e accade lo stesso, anche se certo con delle differenze, nell’Impero del sogno. Se questo è possibile, è perché i tuoi personaggi usano queste sostanze come mezzo – necessario? – a cui ricorrere per entrare in relazione con qualcosa che esiste ma che non è altrimenti percepibile, a cui non si può altrimenti avere accesso?

In Terra ignota è senz’altro vero quanto affermi, a patto che si stia parlando di psichedelici, e non di “droghe” in generale, categoria alla quale sarebbe peraltro una forzatura ascriverli. La protagonista Ailis ottiene uno stato superiore di coscienza – e anche un grado superiore di capacità magica – attraverso l’assunzione di una pozione che ricorda il soma dei Veda, e ne porta del resto il nome. Si noterà anche che il Cerchio d’Acciaio, l’ordine deviato di cavalieri che nel primo volume ha il ruolo di antagonista, sta cercando di eradicarne l’uso dal mondo, onde riservarlo a una sola casta di eletti.

Questa mia scelta deriva da una semplice aderenza storico-antropologica, sia pure virata in chiave fantasy: il soma vedico era con ogni probabilità una sostanza psicotropa – si dibatte sul suo essere stato la canapa, l’amanita muscaria, la psilocibina o un qualche decotto delle molte piante contenenti DMT – e anche nelle altre maggiori tradizioni mistiche, all’origine della comunione con gli dei (o col mondo spirituale) c’è l’incontro più o meno deliberato con qualche molecola di questo tipo. Senza arrivare alla “stoned ape theory”, che vuole l’intera spiritualità umana discendere dall’incontro degli ominidi con i funghi psichedelici, o alle teorie sul loro uso da parte dei paleocristiani, è noto che le due colonne intorno a cui si è sviluppato il nostro pensiero – quella greca e quella ebraico-cristiana – hanno avuto, nella loro componente più squisitamente spirituale, influenze di questo tipo: il ciceone dei misteri eleusini (che segnavano il massimo momento iniziatico per i cittadini) conteneva ergot, claviceps purpurea, la muffa da cui si estrae l’LSD, mentre secondo diversi antropologi il “cespuglio in fiamme” e in generale i primi contatti col divino raccontati nell’Antico Testamento avevano avuto come tramite fattuale piante quali la syrian rue, contenente DMT. Non c’è da stupirsi di tutto questo: basta guardare alla riscoperta della spiritualità avuta negli anni ’60 dalla materialista società occidentale in seguito alla diffusione di massa dell’acido lisergico. Allo stesso modo, non c’è da stupirsi del fatto che le religioni, una volta strutturate, tendano ad abbandonare il “fatto noetico” delle origini: nel momento in cui la religione è organizzata e amministra un potere anche politico, la possibilità dell’esperienza mistica non solo diventa inutile, ma addirittura pericolosa, dato che l’esposizione dei semplici fedeli al sapere iniziatico apre alla messa in discussione del ruolo di mediatore tra umano e divino assunto dal sacerdote.

Essendo Terra ignota una saga che si basa da un lato sull’intertestualità rispetto al canone fantastico e dall’altro sulla nostra tradizione mistica ed esoterica, è venuto logico inserire tali dispositivi, specie considerando che, nelle civiltà che hanno utilizzato o utilizzano psichedelici nei loro riti, questi in genere svolgono anche una funzione di iniziazione all’età adulta, che è poi ciò che capita alla protagonista Ailis con gli eventi del primo volume.

Per quanto riguarda invece L’impero del sogno, non è così. I soli agenti psicoattivi assunti dal protagonista Melani sono sonniferi e narcotici – quando realizza che per continuare il sogno che fa da “portale” per il mondo fantastico in cui è chiamato ad agire, deve dormire più ore possibile.

Si capisce dunque che tali sostanze non hanno in alcun modo la funzione di catalizzatori (non ne hanno del resto la possibilità chimica) ma sono utilizzate semplicemente per la loro funzione meccanica: far addormentare prima e più a lungo.

Nell’Impero del sogno la porta per l’altro mondo è appunto il sogno, e non si tratta di un percorso di accesso spirituale a dimensioni più elevate dell’essere, bensì di un vero e proprio passaggio, secondo una tradizione più popolare e “bassa” del fantastico. Il sogno di Melani non è in questo diverso dall’armadio delle Cronache di Narnia, serve solo ad “andare dall’altra parte”, ed ha del resto luogo anche quando il protagonista non è costretto dagli eventi a sedarsi.

Per quanto perseguita con mezzi meccanici, la volontà di sapere che cosa ci sia oltre “l’armadio”, che cosa sia il sogno, viene alla fine ripagata con un’esperienza che è, esplicitamente, descritta facendo ricorso al vocabolario della mistica (p. 102, Impero). Messo da parte l’armamentario psicoanalitico con il quale il protagonista tenta di spiegarsi, inizialmente, la natura del proprio sogno, e che nella nota conclusiva sembra assumere il ruolo dello strumento per dare ragione dell’intertestualità, la vera natura del percorso compiuto dal Mella sembra essere quella del viaggio iniziatico (p. 14, 111). Al centro, un’esperienza mistica. Mi riferisco al volto della bambina che incontra nel sogno per la cui descrizione, appunto, «Servono emblemi da mistico » (p. 102).

Una cosa è quanto accade nel romanzo, un’alta il modo in cui è descritto, e i dispositivi a cui si ricorre per farlo in modo efficace. Che L’impero del sogno abbia anche una chiave lettura esoterica, non c’è dubbio. Detto questo, è necessario considerare che la teofania di Melani non avviene a fine romanzo, come culmine e risoluzione di un percorso, ma a metà di esso, come inizio di un percorso invece nuovo e differente. Allo stesso modo, il lettore per così dire “introdotto” noterà che un percorso iniziatico completo avviene già nei prodromi del suo sogno, quella parte che non viene neanche narrata direttamente, ma raccontata da Melani all’amico studente di psicologia Iacopo Gori.

Quel dialogo iniziale ha pertanto una doppia funzione: da un lato permette, appunto, di archiviare le letture psicanalitiche per lasciare campo libero al fantastico; dall’altro suggerisce che già l’arrivo in quello spazio che Melani vede come un palacongressi è il compimento di un primo, e completo,  percorso iniziatico. La teofania giunge poco dopo, e non è “guadagnata sul campo” – né pienamente compresa: non c’è infatti integrazione, per dirla con Jung. Per quanto il suo voto al congresso, e quindi la sua assunzione di responsabilità, risulti in ultima istanza decisivo, Federico Melani si vedrà assegnata la bimba-dea per via di una sorta di complotto: alcune delle delegazioni scelgono lui per evitare di farla finire nelle mani di altri dai quali sarebbe più difficile poi strapparla. Ne consegue che la visione delle pp.102-104 non è tanto portatrice di un valore simbolico quanto, paradossalmente, di uno realistico: siamo di fronte a un ragazzo che per la prima volta guarda in faccia una dea. Come descrivere ciò che esperisce? Servono, appunto, “emblemi da mistico”, e dunque per rappresentarla in modo efficace ho attinto al mio bagaglio conoscitivo ed esperienziale in quest’ambito. Lo scopo finale del viaggio di Melani – che di fatto comincia lì – è del resto di altro registro: dopo aver compreso che gli immaginarî che ha frequentato possono aiutarlo a sopravvivere nella sua inattesa avventura, successivamente capirà anche che per diventare “davvero adulto” dovrà anche smantellarli, anzi distruggerli uno per uno, come ben mostrava Pintarelli in questa recensione uscita su Esquire. Per questo, credo, L’impero del sogno è stato visto da alcuni anche come la storia di un ritorno alla realtà.

Aiutami quindi a capire: se l’intertestualità, che va da Berserker di Kentaro Miura ai manuali di Cyberpunk, viene spiegata come “accidentale”, come riuso di figure per la costruzione del sogno, al contrario l’esperienza mistica (o spirituale) è qualcosa a cui l’essere umano può avere accesso; sia attraverso l’aiuto di psichedelici sia senza. Come dire, se i mondi che racconti sono d’invenzione, non esistono davvero, l’esperienza mistica al contrario esiste, è reale ed è inoltre portatrice di una certa carica anti-istituzionale.

Sono contento che all’Impero del sogno venga riconosciuta questa natura intertestuale, del resto qui molto visibile (non ve ne è tuttavia meno, ancorché più nascosta, in altri miei lavori di altro tenore, come Muro di casse o La stanza profonda: è una modalità che mi interessa sia perché qualunque espressione testuale è in ultima istanza intertestuale, sia perché il crollo ormai definitivo delle barriere tra generi (per non parlare di quelle tra le forme) apre nuove possibilità e pone nuove questioni in tal senso. La natura intertestuale di questo romanzo nasce però da esigenze del tutto pratiche, che poco hanno a che fare con l’omaggio a immaginarî che pure ho amato. Come è noto, per quanto evolutosi in modo autonomo, e per quanto accostato da molti, per il modo in cui affronta il nostro rapporto con gli immaginarî, a due miei romanzi realistici quali appunto Muro di casse e La stanza profonda, L’impero del sogno nasce come prequel dei due Terra ignota, romanzi fantasy usciti per Mondadori nel 2013 e 2014. Quella saga era invece pensata proprio come un omaggio al fantasy che avevo praticato, da lettore di romanzi e fumetti, spettatore di film, cartoni animati e serie, videogiocatore e giocatore di ruolo: mi interessava in particolare ripercorrere tutte le suggestioni di quelle opere, ritrovando però un collegamento forte – che mai era svanito, ma che molti facevano finta non esistesse, per via di un diffuso, e oggi in via di dissipazione, pregiudizio nei confronti del fantastico – con il canone fantastico “alto”, dal mito arturiano all’Ariosto, fino al Calvino delle Città invisibili. Tutto questo, che bene esplicita lo storico del fantasy Edoardo Rialti in questi due pezzi, è stato apprezzato e dibattuto, ma mi lasciava con un problema di ordine ontologico: perché quel mondo, il mondo di Terra ignota era così? Dal punto di vista del lettore – della nostra realtà se vogliamo –, la risposta era pacifica: perché l’autore di quei libri aveva letto determinati romanzi e fumetti, aveva guardato determinati film, serie e cartoni, aveva giocato a determinati giochi; ma da dentro, la domanda restava senza risposta. Ho lavorato allora alla costruzione delle premesse cosmologiche di quel mondo: il suo seme, l’Imperatrice che emana il mondo di Terra ignota sognandolo, altri non è che la bimba dell’Impero del sogno, che sogna quel mondo là (e non un altro) perché, nel periodo passato “presso di noi”, quando Federico Melani e Livia Bressan – ecco una sorta di sacra famiglia postmoderna, come ha notato di nuovo Rialti – dovevano difenderla dagli assalti delle varie delegazioni, ha avuto accesso alle “cose da nerd” di Melani e ai libri di esoterismo, storia e filosofia di Bressan.

Circa la carica anti-istituzionale dell’esperienza mistica,  premesso che non liquiderei come “inesistenti” i mondi creati dalla letteratura, da altri medium o anche soltanto dall’immaginazione – Plotino, Śaṅkara e Schopenhauer possono dirci qualcosa in tal senso – parlerei più di una sua extra-istituzionalità o sovra-istituzionalià: nel momento in cui la questione si sposta fuori dall’esperienza sensibile comune e la trascende verso un senso ulteriore, è inevitabile che gli affari degli uomini – o, peggio, le catene e. i gioghi che incessantemente creano e affibbiano a se stessi e a i loro simili – appaiano risibili.

Visto quello che mi dici, più che di un ritorno alla realtà parlerei di un ritorno alla città: nel senso che l’accesso al vero, l’esperienza di iniziazione, è ciò che in qualche modo premette la presa in carico di compiti che sono, in senso ampio, politici. Il percorso di Melani, dopo la sua “vittoria” ai voti e dopo aver visto il volto della dea-bambina, è un percorso di lotta. Combatte contro coloro che vorrebbero impadronirsi della bambina e usarne il potere per i propri scopi. Melani non sceglie, però, una delle parti e, anzi, alla fine si trova a combattere con la società stessa (p. 270, Impero).

È vero quello che dici, ed è altrettanto vero che Melani – spero che questa intervista abbia dei doverosi “spoiler alert”! – alla fine trova nell’Uomo in camicia, capo di quella che si rivela essere la delegazione più insidiosa, un possibile specchio del sé futuro. Una incarnazione, o se vogliamo allegoria, del minimo di compromessi necessario ad avere una qualche posizione nella società. E Melani, nello sconfiggerlo, sì, ma con un seppuku, esprime un rifiuto anche rispetto a questo, e non solo ad aspetti della società più facilmente condannabili, rappresentati dagli altri delegati. Anche per questa ragione non volevo che quello di Federico Melani fosse un tradizionale percorso di illuminazione: il suo è un percorso di rifiuto assolutamente radicale. Non etichettabile, anzi, come nichilista, solo in virtù del fatto che  a partire da tale sacrificio, Gemma potrà generare un mondo. Che questo derivi dall’appartenenza di Melani a una generazione a cui è stata negata qualunque possibilità rivoluzionaria? È possibile. Daniele Giglioli ha scritto che Muro di casse e La stanza profonda raccontano le nicchie dove è andato a nascondersi il desiderio utopico contemporaneo, altrove bandito: dato allora che, come si è detto, per i suoi temi (e, credo, anche per ragioni puramente cronologiche, da cui l’autore non riesce mai a prescindere del tutto) L’impero del sogno finisce per costituire una involontaria trilogia con questi due romanzi, più che con quelli a cui è narrativamente legato, non escluderei questa lettura.

Vorrei fare un passo indietro e ritornare alla questione dell’intertestualità, del worldbuilding. Se, da un lato, i mondi di Terra ignota e dell’impero del sogno, assomigliano a quella degli isekai – un genere nipponico in cui uno o più personaggi si ritrovano ad abitare il mondo di un videogioco, un mondo fantastico ecc. fattosi in qualche modo reale ma che spesso ha regole “fisiche” e sociali da mmorpg https://en.wikipedia.org/wiki/Isekai – dall’altro tu accosti a questa “giocosità ontologica” (B. McHale) tutta una serie di problemi, anche questi ontologici, nient’affatto playful. Faccio riferimento a una cosa che hai detto prima, sull’impossibilità di liquidare come inesistenti i mondi dell’immaginazione. Ma anche ad una certa idea che si ritrova nella Stanza profonda, di parallelismo tra dungeon, tra stanza profonda, appunto, e inconscio, al gioco come rito (p. 108, 109 stanza): qual è il rapporto tra il fantastico e il nostro quotidiano? In che rapporto stanno, tra loro, i mondi creati dalla letteratura, i mondi del gioco ecc. e le esperienze spirituali che racconti?

In Terra ignota sono presenti elementi che possono ricordare un videogioco o un gioco di ruolo anzitutto per ragioni di influenze transmediali, che nel fantasy si fanno anche più pressanti. È chiaro che quando si portano elementi da un altro medium, sia esso ludico, video o di altro tipo, in un testo scritto, si tratta, sempre, di un lavoro di “traduzione”, non di semplice riporto. Questo è quello che ho cercato di fare in quei due romanzi, dove la gamma delle influenze è davvero molto ampia: c’è Ariosto come Dragon ball, c’è il Mahabarata come il cinema di Milius e Boorman, e appunto videogiochi come Ultima o Zelda. Tale lavoro di traduzione richiede un’azione su tutti gli elementi, tale che possano stare assieme in modo armonico: per questo, ad esempio, Ailis, Brigid e le altre figlie del rito a volte appaiono tridimensionali, vive, altre più simili a personaggi di un manga che a persone vere, altre “larger than life”, come eroine del mito, e altre ancora più – diciamo così – “pixelate”, come fossero sprite di Final fantasy IV o Chrono trigger: hanno questa capacità di fluttuazione proprio per poter reggere una parallela varianza delle modalità operative e di rappresentazione del mondo in cui si muovono.

Nell’Impero del sogno, più specificamente nella seconda metà (ma non dimenticherei che, nella prima, il sogno di Melani, pur rifacendosi a tutt’altri immaginarî, ha caratteristiche strutturali simili a quelle di un MMORPG), l’influenza videoludica è più netta e deliberata: anche per questa sua centralità non volevo che fossero semplici omaggi, così ho rifuggito il citazionismo, per provare, piuttosto, a creare scene che assomigliassero a un videogioco anzitutto nella loro impostazione strutturale.

È vero che nella Stanza profonda e in Muro di casse si mette l’accento sulla dimensione rituale insita in fenomeni apparentemente molto diversi quali i giochi di ruolo e i rave party: per quanto in entrambi i casi si tratti di espressioni di liberà, anzi di vere e proprie epitomi della libertà, non si può non notare come alla base ci sia comunque un sistema codificato di regole e apparati rituali, che vengono liberamente scelte e accettate dai partecipanti, non imposte, ma che comunque organizzano l’entropia della “pura” libera espressione del sé entro forme simbolicamente coerenti, innalzando così la portata esplorativa, introspettiva e sperimentale dell’esperienza, e portandola dal semplice intrattenimento verso altri e più significativi ambiti dell’esperire umano.

Credo che sulla funzione salvifica dell’immaginazione, e sul modo in cui determinati medium e determinate esperienze possono attivarla, dica molto, e in modo molto acuto, questo pezzo di Antonella Francini scritto per Alfabeta2 proprio a partire dalla Stanza profonda e dall’opera intertestuale per antonomasia, La terra desolata di T.S. Eliot.

L’immaginazione, indipendentemente dalla forma – romanzo, film, videogioco ecc. –, ha insomma qualcosa a che fare con la salvezza, personale, prima, e collettiva poi?

Quello del potere salvifico dell’immaginazione è un tema classico della narrativa fantastica e non solo. Come detto, rimando all’articolo linkato poco sopra chi volesse approfondire questo aspetto dei miei lavori. Vale la pena però dire che quando si passa a una dimensione collettiva, non tutti gli immaginarî – e, soprattutto, non tutte le modalità di produzione di immaginario – sono uguali: nel momento in cui non si è soli con la nostra mente (o la nostra anima), ma sono in ballo interazioni con altri, risulta più significativo ciò che, come i giochi di ruolo o i free party, aiuta a disegnare nuove modalità di relazione umana attraverso logiche cooperative e inclusive, piuttosto che competitive e divisive.

È questo uno degli obbiettivi della tua scrittura? Intendo dire: pensi alla scrittura come a un modo per produrre comunità, o per offrire esempi di modi di essere alternativi a quelli della competizione?

È fondamentale per me sottolineare come queste considerazioni siano tutte fatte a posteriori, e in buona parte derivanti da riflessioni che altri hanno fatto sui miei libri. Non credo che l’arte debba avere obiettivi programmatici. Cerco di scrivere quello che voglio, nel modo che voglio, a partire da temi che mi interessano, esperienze che ho vissuto e altri libri che ho letto, e di farlo nel miglior modo possibile, secondo le mie capacità e le esigenze della vicenda. Al massimo, in alcuni casi, come quelli di Muro di casse e della Stanza profonda c’è la volontà di storicizzare un certo fenomeno e rifletterci sopra. Solo quando il libro è finito, è opportuno – e a dire il vero neanche necessario – che l’autore rifletta sui significati che quello cela: nelle arti, pensare prima a possibili obiettivi o messaggi da far pervenire, peggio che mai se politici (anche se positivi e/o in buona fede), è dannoso.

[1] Ho pubblicato alcuni dei risultati di questa ricerca, a cui mi permetto di rimandare, qui: M. Zonch, Il testimone di fede: verità e spiritualità nella narrativa di Saviano, in «Incontri. Rivista europea di studi italiani», 32(1), 2017. DOI: https://doi.org/10.18352/incontri.10206