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Incontenibile. Wittig e il corpo lesbico

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di Simonetta Spinelli*

«In questa geenna dorata adorata nera dà i tuoi addii mia bellissima mia fortissima mia indomabilissima mia sapientissima mia ferocissima mia dolcissima mia amatissima, a ciò che esse chiamano l’affetto e la tenerezza o il grazioso abbandono »

Monique Wittig, Il corpo lesbico, Milano, Edizioni delle donne, 1976, p.13 **

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Il corpo lesbico (1998)***

Wittig è il rimosso dell’analisi femminista. Rappresenta il punto di rottura sul quale non ci siamo soffermate, che ritorna, non ancora analizzato, e disgrega trame di percorsi e di relazioni politiche, che volevamo fondate sul riconoscimento, ma contenevano un disconoscersi di cui abbiamo, allora, colto istintivamente i nessi, senza riuscire a dargli parola. Non sciolto, quel disconoscimento ritorna e costruisce nuove barriere tra donne.
Piombò, letteralmente, Wittig negli anni Settanta sui nostri gruppi di autocoscienza e sulla fatica di uscire dall’analisi dell’oppressione, tentando di ricostruire un linguaggio altro. Sessuato, diremmo oggi. Allora, in un abbozzo di analisi, tentavamo strade che partissero da noi, dai nostri corpi, e a noi tornassero. Prendevamo distanze da un linguaggio codificato e ci riappropriavamo di corpi che non conoscevamo, di complicità negate. Costruivamo le parole per dirci. Donne lesbiche o eterosessuali. Insieme, in un “Donna è bello” che ci lanciavamo reciprocamente come una sfida e come una rete.

Non c’è stata in Italia, come in altri paesi europei o come negli U.S.A., una frattura nel movimento femminista tra donne lesbiche e eterosessuali. Il lesbismo è uscito allo scoperto e si è nominato come lesbismo femminista. Luogo di costruzione di rapporti, di teorizzazione sul “personale è politico”, il femminismo è stato il naturale approdo delle donne lesbiche politicizzate, che trovavano nei collettivi e nei gruppi un’apertura di discorso che le prevedeva e le rendeva partecipi e protagoniste. La loro presenza ha, parallelamente, spostato l’analisi femminista sulla sessualità. Materializzato nei loro corpi un desiderio non eterodiretto, la loro stessa esistenza metteva in discussione le pretese onnivore del codice e nominava il corpo femminile come corpo desiderante. Perché per una donna dire: il corpo del mio desiderio è una donna, è nominare un indicibile, esplicitare che quel corpo segue strade di desiderio solo sue, di cui solo quel corpo di donna conosce e sa la sua necessità.

Siamo rimaste ai margini di un discorso sulla sessualità. Bloccate in un irrigidimento comune, delle donne lesbiche e delle donne eterosessuali. Come se, invece di ridarci spazio, l’avessimo perimetrato. E abbiamo cominciato a giocare con le parole, limandole mediandole. Le une timorose di una spaccatura che le avrebbe lasciate, ancora una volta, orfane; le altre intimorite da un sospetto di un’egemonia, della messa in mora delle proprie scelte. Tutte a ripetersi parole caute. Su questa cesura è piombata, letteralmente, Wittig. Tracotante Wittig, incurante delle convenzioni letterarie e linguistiche, che stravolge e di cui si riappropria, caricandole dei significati dell’eccesso. Irrecuperabile Wittig, scardinante, incontenibile. Così altro dal codice le sue immagini e il suo linguaggio da rendere impensabile ogni tentativo di addomesticamento. L’iperbole nel suo testo è una lotta a corpo a corpo ingaggiata con le parole, con la struttura sintattica, con i generi. L’iperbole e l’eccesso sono le parole per dire il corpo lesbico, corpo selvaggio, ininquadrabile in termini convenzionali, corpo stravolto, smembrato, ricostruito e poi ancora smembrato.

Il soggetto di quel desiderio e di quel percorso è, a sua volta, un soggetto che si smembra e si ricompone, al di fuori delle categorie date: j/e, né femmina, né maschio, perché il femminile e il maschie sono il portato di una convenzione sociale codificata che il corpo lesbico, nella sua ricostruzione di sé per sé, cancella e rende insensata.

Wittig è stata il nostro primo totale spaesamento culturale. Non si poteva accettare a metà. O si rifiutava il suo testo o ci si cadeva dentro. E spesso il rifiutarla è stata una difesa che ha solo procrastinato il catturamento. Perché da lei siamo state catturate. Noi lesbiche per una parola orgogliosa e potente che riscriveva il mondo della nostra visione, e urlava una storia che eravamo abituate a tenere segreta. Le donne eterosessuali per la fascinazione di un testo che diceva un corpo di donna trionfante, desiderante e impudente. Un corpo non definibile in termini di ruoli.

Eppure de Il corpo lesbico mai abbiamo parlato. Abbiamo discusso, polemizzato su The Straight Mind,[1] sul genere come costruzione sociale – e le giovani lesbiche, ancora oggi, lanciano il suo “le lesbiche non sono donne” per radicalizzare una polemica. Ma sullo spaesamento culturale che tutte aveva colpito, mai ci siamo confrontate. Perché individuava un punto dolente che non volevamo/non eravamo in grado di affrontare. Al punto da rimuovere proprio la diversa valenza che il pensiero di Wittig ha rappresentato per le donne lesbiche e per le donne eterosessuali.

Mi colpisce, oggi, la prefazione di Elisabetta Rasy all’edizione italiana, che non ricordo di aver letto – cosa improbabile – e che mi sembra significativa della divergenza di analisi che andava maturando. Rasy scrive:

«Dietro il romanzesco del lessico anatomico, e seguendo esclusivamente la corporeità degli oggetti e delle sensazioni, Monique Wittig recita il percorso di una ricognizione del corpo che è “lesbico” e non “femminile”, perché il corpo femminile è il corpo della donna visto e usato dall’uomo – un feticcio, cioè, per la donna – e il corpo lesbico è il corpo della donna visto e vissuto dalla donna: come nei sogni l’omosessualità è autoerotismo, cioè ancora una ricognizione, una scoperta» (pp.9-10)

Per Rasy, la decostruzione/ricostruzione che dà origine al corpo lesbico è riappropriazione di un corpo di donna visto e vissuto da una donna, di una dimensione autoerotica, e l’omosessualità è un traslato, “come nei sogni”.

Negli anni Ottanta, in altro contesto, Teresa de Lauretis, teorica lesbica. Studiosa di femminismo e di semiotica, sullo stesso testo scrive:

«E cosa si svolge qui? Lo smembramento e la lenta decomposizione del corpo della “donna”, arto dopo arto, organo dopo organo, secrezione dopo secrezione. Nessuna saprà sopportarne la vista, nessuna accorrerà in aiuto durante questa spaventosa, atroce e esilarante fatica d’amore che smembra il corpo e lo rimembra, lo ricostituisce in una nuova economia erotica, lo ri-conosce in un’altra semiotica… lo riscrive con desiderio in-verso, diverso, lo ritrova diversa-mente: un corpo lesbico»[2]

Non sono due interpretazione tra le tante possibili, sono due ottiche completamente diverse. Rasy, in Wittig, legge “il recupero politico del sociale che la donna vive all’interno del proprio corpo, territorio di colonia sconosciuto e ostile”, o la metafora del viaggio solitario, puntualizzato dalle “stazioni anatomiche del corpo lesbico”, verso la riappropriazione di sé e l’uscita dalla logica dell’oppressione. Per de Lauretis, il corpo lesbico segna il percorso di una “fatica d’amore”, una ricerca del desiderio che, proprio perché è desiderio di una donna per una donna, costruisce una diversa economia erotica. Ma perché questa economia erotica si instauri, non è sufficiente una donna. E’ necessaria una lesbica, cioè una donna amante/amata, desiderante/desiderata da un’altra donna. Consapevoli l’una e l’altra del desiderio e motivate, proprio da quel desiderio, a costruirne il linguaggio e la pratica, a “riconoscerlo in un’altra semiotica”.

“In questa geenna dorata adorata…”: il j/e, soggetto decostruito/ricostruito, è soggetto di una relazione sessuata e sessuale che contempla un tu, soggetto decostruito/ricostruito, smembrato/rimembrato dalla stessa ricerca di senso, dallo stesso desiderio non addomesticato e inaddomesticabile. Un desiderio di donna per donna.

Wittig è il rimosso dell’analisi femminista perché per prima ha nominato il desiderio come unica forza capace di ridislocare simultaneamente tutti i parametri sui quali poggiano le codificazioni sociali, forza fondante che ha in sé la sua necessità, ma il suo testo è stato ridotto a eccentricità letteraria, a provocazione che abbiamo lasciato cadere.

 

Note

[1] M.Wittig, The Straight Mind, in «Feminist Issues», I,1 (1980), pp. 103-112 [trad. di R. Fiocchetto, in «Bollettino del CLI», IX,2 (1990), pp. 5-14].

[2] T. de Lauretis, Sexual Indifferences and Lesbian Representation, in «Theatre Journal», XL,2, pp. 155-177 ; [trad.it. Differenza e indifferenza sessuale. Per l’elaborazione di un pensiero lesbico, Firenze, Estro, 1989].

 

*Avevo chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le avevo anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto finora, di questo le sono grata. Purtroppo Simonetta ci ha lasciato  più di un mese fa. Altre – più vicine e con maggior cognizione di causa – sapranno dare alle sue riflessioni la risonanza e la continuità che meritano. Qui ci limitiamo a continuare a ritrasmetterla come un segnale radar. La scelta di ripubblicare questi testi in serie spero sia sempre evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

Gli altri articoli di Simonetta Spinelli su Nazione Indiana:

Passioni a confronto. Mario Mieli e le lesbiche femministe

Una donna lesbica femminista

Queering Wittig?

Pratiche lesbiche e vincoli ciechi

Wittig e la lingua proibita

 

** Monique Wittig, Le corps lesbienne, Paris, Les Editions de Minuit, 1973.

*** Questo articolo intitolato “Monique Wittig: Il corpo lesbico”, è stato pubblicato in Cento Titoli, Guida ragionata del Femminismo degli anni Settanta, a cura di A.Ribero e F. Vigliani, Ferrara, Luciana Tufani editrice, 1998, pp. 191-194.

 

Il giro del miele

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di Edoardo Zambelli

Sandro Campani, Il giro del miele, Einaudi, 2017, 242 pagine

Fin qui, non oltre.

Nel corso della lunga notte raccontata da Sandro Campani nel suo ultimo romanzo, questa frase ritornerà di continuo. La tacca sulla bottiglia di grappa e poi la frase: fin qui, non oltre. È il modo che i due protagonisti, Davide e Giampiero, hanno di misurare il tempo di questo loro (forse ultimo) incontro.

I due, in un passato non troppo lontano, sono stati molto legati. In fin dei conti, lo sono ancora. Nonostante la differenza d’età, in qualche modo sono stati addirittura figli dello stesso uomo, Uliano, che per Davide – il figlio biologico – è stato un padre distante, incapace di grandi slanci, mentre per Giampiero – suo apprendista – è stato un maestro generoso, gli ha insegnato un lavoro e, si potrebbe quasi dire, lo ha reso ciò che è.

La narrazione si apre, quindi, con Davide che una notte si presenta a casa di Giampiero e chiede di essere ascoltato, portando con sé l’urgenza di un conflitto da risolvere. Inizia da qui un lungo dialogo e presto il tempo della narrazione si sdoppia, il lettore si ritrova a seguire tanto il confronto tra i due quanto la ricostruzione delle loro vite.

L’abilità dell’autore, soprattutto nella prima parte, è nel suo continuo mostrare e nascondere, accennare a un problema, a un qualcosa di irrisolto, per poi portare l’attenzione da un’altra parte, lasciando al lettore una tensione continua che lo spinge ad andare avanti, a guardare nelle vite dei protagonisti, cercando le origini di questo o quell’evento, aspettando lo svelamento di un segreto.

Sarebbe sbagliato, però, pensare il libro come un vero e proprio incontro/scontro tra due personaggi. In realtà, almeno secondo me, si tratta piuttosto del racconto di una caduta, di uno smarrirsi. Certo, ci sono ferite e conflitti tra Davide e Giampiero che verrano precisandosi solo nel proseguo del racconto, ma non è quello il punto centrale della narrazione.

Non stavo insieme a lui in una stanza da chissà quanto tempo, da quando ancora lavorava con le api, quando ancora era sposato con la Silvia e le cose gli andavano bene. Avevo detto all’Ida “Adesso arrivo”, ma dallo sguardo che Davide aveva, venendo a questo modo, dopo anni e a quest’ora di notte, ho capito che non avremmo finito finché lui non si fosse liberato del peso sotto cui strabuzzava gli occhi; a questo gli servivo io.

Davide è stato un ragazzo (un ragazzone, anzi) benvoluto da tutti, per il suo aspetto rassicurante, per un certo candore nei modi e nel suo rapportarsi al mondo, poi pian piano è cambiato, è diventato un altro, e ha finito col perdere quanto di più caro abbia mai avuto: Silvia, sua moglie.

Ecco, è nella faticosa conquista dell’amore e nella sua dolorosa perdita che il romanzo trova il suo centro, perché in questo è contenuto tutto il resto. Silvia, che Davide conosce da sempre, ha vissuto quasi da sola gli anni dell’adolescenza, priva di qualcuno con cui poter condividere i propri turbamenti. Poi si è spostata a studiare a Bologna e lì ha trovato un’amica importante, Adele, che la seguirà per il resto dei suoi giorni. Allo stesso tempo, però, ha trovato anche un ambiente, quello universitario (fatto di feste e concerti, piccoli e grandi eccessi) che se all’inizio ha avvertito come accogliente dopo un po’ le ha provocato solo repulsione. Proprio in quello snodo della sua vita, incontra nuovamente Davide e pare quasi guardarlo per la prima volta. In lui riscopre tutta una serie di cose che le appartenevano e che aveva dimenticato. Silvia, allora, lascerà Bologna e tornerà a casa, pronta a iniziare una nuova fase della vita assieme all’uomo che ama.

Di questa storia vengono raccontati i dolci momenti iniziali, gli attimi di felicità e i progetti per un futuro assieme. E poi dopo, accompagnati dal tracollo di Davide, le incomprensioni, i tentativi disperati di tornare al passato, i silenzi che si fanno pian piano più ostili fino a diventare aperta avversione.

E Davide, intanto, continua a cadere. Forse proprio a causa del candore cui ho accennato prima, forse per un mai superato complesso di inferiorità nei confronti di sua moglie, non riesce ad arrestare in tempo la sua discesa.

E poi si è alzata, e ha cominciato a scendere, sbagliando strada, ma io dietro stavo zitto e la seguivo, anche quando s’è andata a incasinare in mezzo a dei reticolati, a dei recinti abbandonati di pastori, un’orbara di faggi ingombra di pattume, buio come se fosse notte. Poi finalmente siamo sbucati fuori, e fino a casa non abbiamo più detto niente. Solo che arrivati giù alla baita io son dovuto entrare, per ripicca, a bere due grappe alla goccia, e nel tornare a casa non ero più in me. Avevamo tutti e due la testa sbalinata, piena di cose sinistre, per via di quel bosco che avevamo attraversato.

Ho volutamente tenuto fuori tante cose, tante sfumature, tanti personaggi. Quello che non posso tenere fuori è la capacità di Campani di costruire una voce narrante tanto credibile da riuscire ad evocare tutto un intero mondo, quello delle piccole comunità, di un modo di parlare carico di espressioni gergali, di uno sguardo periferico nei confronti del resto del mondo. La prosa di Campani è potente, musicale, precisa e ricca. Alla fine se ne esce con l’impressione di avere ancora nelle orecchie il ronzio di un’ape e nel naso l’odore di segatura o quello di un giubbotto di pelle.

Come ho già detto, in questo romanzo c’è tanto altro. Ci sono personaggi secondari, c’è il mondo della falegnameria, quello delle api e della produzione del miele, ci sono rivelazioni, piccole e grandi violenze, incendi, odiose bassezze e inattesi momenti di tenerezza.

E infine c’è una lince che si aggira fuori, nel buio. Ma un personaggio, in questo libro, giura non si tratti solo di una lince…

Notte umbra

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di Giorgio Mascitelli

Nella raccolta poetica di Paul Celan Di soglia in soglia ( von Schwelle zu Schwelle, 1955) si trova una poesia dedicata al mito di San Francesco, intitolata appunto Assisi. Frutto di un’esperienza autobiografica, quale un soggiorno nella città umbra con la moglie dopo la morte del figlio neonato, potrebbe essere definita come la poesia dell’inconsolabilità, sia nel senso di un suo rifiuto sia nel senso di un’impossibilità.

Lo scontro con il senso di pace francescano non potrebbe essere più forte, ma per comprendere tale scontro non bisogna pensare a una critica ideologica o filosofica della figura del santo, che non si trova nella poesia. Se Celan critica l’irenismo francescano e il senso d’armonia che nasce da quell’esperienza, è perché innanzi tutto li sente e li coglie nella loro importanza culturale e umana che travalica i caratteri specifici religiosi e storici del santo di Assisi, nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad una delle esperienze più profonde dell’animo umano (” Notte umbra/notte umbra con l’argento delle campane e del ramoscello d’ulivo/ Notte umbra con la pietra, che portasti qui”) . Per Celan in qualche modo la notte umbra su Assisi è la possibilità stessa di armonia con il mondo. Ma per lui questa armonia è irraggiungibile: innanzi tutto per ragioni private ( “Muto, ciò che pervenne alla vita, muto: travasa le brocche”), ma questo dolore privato si collega alla tragedia generale dell’umanità che per Celan, e ovviamente non solo per lui, è l’orrore dei campi di concentramento. Così la brocca con le ceneri del figlio rientra nelle brocche con le ceneri di tutte le vittime e lo stesso poeta vuole che sia così ( “ brocca di terra con il sigillo dell’ombra”): ciò si capisce meglio nell’originale tedesco perché in italiano si può scambiare quel travasa, seconda persona dell’imperativo, per una terza dell’indicativo presente. Ma il tentativo di seppellire i morti ( ovviamente i morti di morte ingiusta e innaturale) e di superarli, di riconciliarsi con il mondo è impossibile, perché il poeta vede solo pietra intorno a sé, la stessa pietra che portava con sé quando arrivò ad Assisi. Anche il tentativo di far entrare l’asinello dello spirito francescano si risolve in irriducibilità del conflitto perché alla fine l’asino bruca il sonno  dalla mano e quindi non dà riposo (“ Bestia trotterellante davanti alla parola che si chiuse da sé./ Bestia trotterellante, che bruca il sonno dalla mano”). Il riposo e dunque la conciliazione non sono possibili perché, nonostante lo splendore della vicenda francescana, i morti continuano a implorare ( “Splendore, che non vuole confortare, splendore./ I morti- loro implorano ancora, Francesco”).

Certamente si tratta di una poesia di un ateo che non crede alla salvezza, ma in qualche modo questo è un problema secondario, perché la profondità della proposta di san Francesco è quella di una conciliazione anche nell’esperienza terrena e nella consapevolezza della potenzialità di gioia della vita, così almeno il Francesco del Cantico, nel quale la morte prima ancora che passaggio in senso cristiano, è prospettiva del tutto naturale della vita. Piuttosto ciò che conta è quella sorta di spirito guerriero che pervade tutta l’opera di Celan, come ha messo in luce il suo più profondo lettore, Jean Bollack,  che lo porta addirittura a scegliere come lingua il tedesco, lui ebreo nativo delle zone più orientali di quello che era stato l’impero asburgico e dunque formalmente cittadino rumeno e poi sovietico e infine per tutta la sua maturità parigino, per far scontare ai carnefici della shoah la loro colpa nella loro lingua.

In realtà ciò che Celan vuole è di restare ai morti, la sua polemica antifrancescana non è determinata dal fatto che ci siano conciliazione e pace e perdono, perché se anche ci fossero  vendetta o punizione, la quale in qualche misura c’è stata  quando Celan scrive, ciò non cambierebbe il movimento della vita, a cui anche Francesco appartenne, verso il superamento dei morti. Il fatto per Celan inconciliabile è che i morti sono morti e Celan vorrebbe restare a questo, non partecipare al fluire della vita. Anche chi chiede giustizia per i morti lo fa in nome di una prospettiva futura che vuole archiviare lo scandalo dei morti ( archiviarlo in maniera seria e giusta, ma pur sempre archiviarlo). Ciò che Celan rimprovera allo splendore francescano non è la conciliazione con i carnefici, ma la conciliazione con se stessi: qualsiasi forma di rielaborazione del lutto, anche la più alta come in questo caso, è per Celan inaccettabile, una prova dell’inconsistenza della società umana. E del resto c’è nel processo di civilizzazione la pretesa di conferire a ciò che è tendenzialmente mutevole e istantaneo istituzioni uniformi e durature, che però non possono discostarsi troppo dalla natura di partenza,  ed è qui che il conflitto di Celan assume aspetti inconciliabili. Infatti i monumenti alla propria memoria che una civiltà edifica restano estranei al fluire della vita, che cancella impietosamente il loro significato, accadimento intollerabile per il poeta. E’ lo stesso tradimento di cui parla lo Zanzotto di Verso il 25 aprile, allorché descrive il tema del tempo fisico e sentimentale che cancella le “friabili forme” dei cippi dei partigiani morti. Una contraddizione più estrema percorre Assisi: ciò che è morto è muto all’inizio della poesia e alla fine implora però, letteralmente mendica, dunque in qualche modo parla. E’ una contraddizione irrisolvibile per chi vuole restare in vita e contemporaneamente restare ai morti, è una contraddizione che presa frontalmente, come fa Celan, distrugge. Francesco conosce il dolore della vita, compreso lo scandalo delle morti ingiuste, ma non si vuole fermare a questo. Celan sì, perché lui non vuole ricordare i morti, vuole che essi parlino ancora.

Si tratta di una poesia postprofetica, a patto di ricordare che l’accezione originaria, veterotestamentaria,  del termine profeta non è quella, oggi corrente, di colui che prevede il futuro,  ma di colui che contesta il potere dominante a partire dalla comprensione del vero significato, negletto dai più,  dell’esperienza del proprio tempo. In questo senso il restare ai morti è l’unica forma di radicale attaccamento alla giustizia quando è tramontata la fiducia, che il profeta deve avere, nella parola di Dio o di qualche suo equivalente secolare. Questo restare ai morti, tutt’altra cosa che ricordarli, è nel contempo un falso movimento  perché contrasta i fondamenti della vita stessa. Sarebbe bello poter collocare questa temperie etica nei lutti che stentavano a rimarginarsi nel secondo dopoguerra e nella figura, fragile e forte in una sola volta, di un poeta atipico come Celan, ma in realtà questa situazione postprofetica riguarda lo spirito del nostro tempo.

 

Le maschere dell’Impero nella poesia di Bruno di Pietro

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di Daniele Ventre

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L’immagine dell’Impero Romano come metafora politica dell’Europa, quale compare nella nuova raccolta di Bruno Di Pietro (Impero, Oedipus, Salerno/Milano 2017), è connotata da una plurivoca unità tematica. Le molte voci che la compongono rappresentano a tutti i livelli le dramatis personae della società antica, riproposte in una dimensione lirico-narrativa connotata da un caratteristico trompe-l’oeil storico ed esistenziale.
In tal modo la poesia di Impero rappresenta “i chiaroscuri di chi ha governato” in antico “i luoghi più belli e civili della terra” come recitano i versi del Proemio con la loro più che evidente citazione gibboniana. A parlare sono, di volta in volta, sia gli attori primari della politica dell’Impero, cioè quei principi che con le loro bizzarrie e il loro modo più o meno deforme, più o meno equilibrato, di incarnare la sovranità popolano la memoria storica del mondo latino, sia personaggi più defilati o meno noti, quando non inventati (ma di un’invenzione quasi più verosimile del vero).
Con la loro luce ambigua, questi personaggi proiettano la loro immagine sul presente, contribuendo a costituire un sistema figurale atto a interpretarlo, sul piano culturale, politico, economico e giuridico (particolarmente caro all’autore quest’ultimo aspetto, data la sua formazione originaria). In tal modo, tappa dopo tappa, attraverso un percorso tramato di una necessità implicita, frammento per frammento, si delinea una mappa interrotta del vasto arco dell’ordinato impero, a valle della sua rovina storica, in cui come nota nella prefazione Marcello Carlino, “gli io narranti appaiono recare in sé la premonizione della fine, quasi che il loro sguardo abbia gli stigmi di una condizione postuma”.
Questi narratori, parti integrate di una costellazione di voci e di focalizzazioni, eppure di volta in volta portatori di singole infra-storie in sé concluse, divengono così, proprio per tale condizione postuma, voci profetiche: “Si indebita il popolo, si indebita Roma, l’impero cresce/ su un cuore d’argilla pulsante di debito/ di monete appena coniate e già inflazionate.// Fortunati i mercanti!”, un quadro in cui la correlazione fra debito ed economia, con l’oraziano compiacimento dei mercatores/traders, lascia ben intendere de quo fabula narratur; “Per risanare l’Impero servono tasse e lavoro/ (è bandito l’alloro)”, un fulmen in clausula in cui detona stridente, in una delle rime facili parcamente soffuse nel trompe-l’oreille dei versi solo apparentemente liberi, l’opposizione fra l’immagine mediatica del potere (l’alloro) e la sostanza e l’effetto dell’organizzazione politica (tasse e lavoro); “quale filiazione, quale adozione, quale legione/ l’Impero necessita di una Costituzione”, gnome in cui si condensa per contrasto la critica alle forme di dominio liquide, non formalizzate giuridicamente, dunque incontrollabili e non migliorabili, proprie dell’egemonia delocalizzata contemporanea. La cifra costitutiva delle fulgurazioni ideali che si materializzano in ciascuna delle maschere balenanti fra gli spazi bianchi di Impero, nell’assoluta semplicità e nudità della forma fisica che il libro assume, appare in buona sostanza l’enucleazione, dal cuore antico dell’Occidente, di quel che manca al costrutto sociale mondialistico contemporaneo per assestarsi in una durata storica degna di questo nome. La capacità di finalizzare la tassazione a un sistema gestionale che non sia mera predagione; la potenzialità del dominio di farsi diritto, e di assimilare e integrare pienamente una pluralità di etnie, tacitando la gratuità becera dei razzismi (“Ci pensi, Aboudat: un iberico e un ellenico!/ Siamo chiamati a costruire l’Impero/ (forse è questo il suo segreto/il suo mistero)” ) e dei fanatismi religiosi: tutte le molteplici sfaccettature di auctoritas e ius che l’imperium, al di là del suo centro geografico e della sua antropologia oppositiva fra civiltà e barbarie, al di là del crogiuolo di ferocia che lo origina, finisce per assumere; tutte le molteplici strutture costitutive di un ordine politico sovranazionale decente, o quanto meno responsabile, che mancano al tempo attuale e ai suoi poteri onnipervasivi e irresponsabili.
Ne risulta, espressa attraverso il dettato di una lingua semplice, venata di ironia e di ottimismo tragico, e volutamente estranea alle mode letterarie, una visione della storia che se non tocca propriamente l’ucronia o l’utopia, prefigura quantomeno una proposta di inquadramento dell’orizzonte culturale di cui la modernità liquida, nel suo buio denso, difetta; se ne ricava al contempo, per esemplificazione concreta più che per arida enunciazione critica, una proposta di poesia fortemente radicata nel senso forte della storia, pur fra la complessità degli slittamenti di prospettiva che la tecnica della maschera e dell’eteronimo, tipica da sempre dell’opera di Bruno di Pietro, di per sé stessa comporta.

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Da Bruno di Pietro, Impero, Oedipus, Salerno/Milano 2017 (pref. di Marcello Carlino).

V. Publio Quintilio Varo. Teutoburgo

“Lentamente il giorno è andato via
Ora dopo ora avanza la mia notte a Teutoburgo.
Nel novilunio il buio rimanda il buio
mentre il presagio della cometa s’invera
il disagio nelle parole di Segeste
Guardati dalla selva, guardati dalla belva germanica
oggi romana per convenienza

Piove e la palude ingoia se stessa
la luna è nella palude
non si distingue terra
non si distingue cielo
al di là del silenzio il precipizio.

Sono ai margini nell’interstizio
fra l’eco e il suo spegnersi
fra il suono e il suo svanire.

Nell’infanzia mi dicevano
che la sera la paura va a dormire
ma qui a Teutoburgo la paura non ha sonno.
Ho paura di avere paura.

Ora che devo combattere
scopro che non ne sono capace
vedo un arcano in me che mi sfuggiva.

Sarò l’imbelle, il responsabile, il perdente
ma quello che sta per accadere
è il compimento di quanto già scritto:
l’Europa romana è morta nei pugnali di Cassio e Bruto
né vi sarà mai una Germania latina:
altri percorreranno la via dell’ambra
dal Baltico all’Egeo”.

Così Publio Quintilio Varo
avvocato, generale improvvisato
perse la vita le aquile e le legioni
ma ebbe in dono dalla paura
il privilegio raro
di vedere in anticipo la sciagura.

* * *


XIII. Nerone

Al mio nome è legato il vilipendio
al mio nome è legato un incendio
che non ho mai appiccato

Se davvero lo avessi fatto
avrei distrutto tutto
sopra tutto questa idea dell’Impero

Spero di essere ricordato come artista
come l’Imperatore esteta
magari come poeta:
gli artisti devono pur avere qualche vizio
(così dicevo davanti al precipizio)

* * *

XLV. Gnosi

Eupsichio di Alessandria
cristiano dalla fede traballante
deciso a farsi gnostico approdò nell’Urbe.
Conobbe Valentino e lo sentì affermare
che Gesù non evacuava gli alimenti:
così che lui cominciò a non mangiare
pensando che la via della gnosi
fosse fatta di stenti.
Dopo meno di venti giorni
si diede fuoco al centro del Foro.
Nulla di grave gli era accaduto,
salvo il digiuno forzato,
né altro che lasciasse presagire tale gesto.
I più dicono avesse appena evacuato un testo
(quello di Ireneo, contro le eresie)

Overbooking: Bosnia e Erzegovina

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Copertina_BosniaLa post-fazione al libro di Cathie Carmichael Bosnia e Erzegovina
Alba e tramonto del secolo breve ( Beit casa editrice)

di Azra Nuhefendić

Ottobre 2016. Sto scrivendo sulla Bosnia Erzegovina, incerta se quello che scrivo sarà un necrologio per un paese che sta per scomparire, oppure se è dettato solo dalla mia eccessiva ansia e dall’amore per il mio paese. Negli ultimi venti anni la Bosnia Erzegovina è stata attaccata dall’interno, dai suoi figli, dai nazionalisti serbi e croato-bosniaci, che la ripudiano e la stanno distruggendo con la politica e l’ostruzionismo. Non rinunciano agli obiettivi bellici, vogliono dimostrare che è un paese che non sta in piedi e che va smembrato.

Spero che la Bosnia Erzegovina supererà anche questa crisi, come ci è riuscita nella sua storia millenaria continuando a vivere dopo il crollo di imperi e di regni, sopravvivendo a invasori e colonizzatori e continuando a esistere dopo conquiste, divisioni e sconfitte. Tutti quelli che erano venuti per restarci per sempre non ci sono più. Tuttavia la Bosnia Erzegovina è rimasta lì dov’è sempre stata. Ci sono nata in Bosnia Erzegovina, ci ho vissuto più di metà della mia vita. Fino al 1992 ero convinta di vivere in un paese solido, durevole, libero, forte e stimato. Il futuro mio e del mio paese mi appariva sicuro e prospero.

All’inizio della guerra nel 1992, sorpresa e indignata, come la maggior parte delle persone che conoscevo, dichiaravo “Questa non è la mia guerra!”. L’aggressione era, secondo me, un equivoco, un atto barbaro, quelli che sparavano non erano altro che criminali comuni. Credevo che niente e nessuno mi avrebbe reso partecipe. Ma quando ti bussano alla porta con i fucili, ti cacciano via dalla tua casa, dal tuo paese, ti mettono nei campi di concentramento, ti portano via i figli, uccidono, violentano, ti mettono sotto assedio e ti costringono a soffrire la fame, il freddo e a essere esposti a spari ed esplosioni continue, capisci per forza che – sì – è anche la tua guerra.

Ci abbiamo messo un po’ di tempo noi bosniaci musulmani, tutta la primavera e l’estate del 1992, a capire che eravamo il primo bersaglio e le principali vittime. Ma a quel punto, due terzi del territorio della Bosnia Erzegovina erano stati ormai occupati dai nazionalisti serbi e ripuliti dalla presenza dei musulmani bosniaci. La comunità internazionale faceva piani per fermare la guerra accettando l’aggressione, le conquiste e la spartizione della Bosnia Erzegovina come un fait accompli. Erano state inviate le forze per mantenere la pace, che non c’era.

Consapevoli che l’aggressione e le conquiste serbe erano passate senza sanzioni, i croati si affrettarono a occupare una parte della Bosnia Erzegovina. Gli aggressori non avevano alcuna giustificazione né storica né territoriale. Quello che in Bosnia Erzegovina succedeva negli anni Novanta era il seguito delle vecchie pretese nazionalistiche.

La guerra in Bosnia Erzegovina non è stata un conflitto spontaneo, è stata eseguita seguendo un piano ben preciso, ideato e sostenuto dalla Serbia e poi dalla Croazia. Ad attaccarci erano proprio quelli che, fino al giorno prima, consideravamo i nostri fratelli. L’Armata Popolare Jugoslava (Jna) che avrebbe dovuto proteggerci, ci metteva sotto assedio e ci bombardava. Tutti i pilastri su cui si poggia la sicurezza, l’indipendenza e la libertà di una persona, di una società o di un popolo non c’erano più.

Prima mi consideravo jugoslava, poi bosniaca e infine sono diventata un bersaglio. Puntavano il dito contro di me “musulmana”, accusandomi e condannandomi per questo. Da un giorno all’altro non eravamo più i padroni di noi stessi né del nostro paese. Si discuteva della nostra vita e del nostro futuro e noi non avevamo alcuna voce in capitolo. Il nostro destino veniva deciso da emissari che non ci conoscevano, da diplomatici e politici che tiravano le conclusioni basandosi su pregiudizi e cliché, dagli stati europei che basavano le proprie azioni sulle vecchie amicizie e alleanze tradizionali.

“Non farò mai, e poi mai la guerra ai serbi”, dichiarò il presidente francese Mitterrand. Il diplomatico norvegese Thorvald Stoltenberg ripeteva quella che per i serbi era una giustificazione dell’aggressione: “I musulmani bosniaci sono, in effetti, serbi”, mentre il Segretario generale dell’onu Boutros Boutros-Ghali liquidava la guerra in Bosnia Erzegovina dicendo che “è la guerra dei ricchi”.

Traditi e attaccati dai fratelli credevamo, fermamente, che il mondo “grande e giusto” ci avrebbe aiutato e che sarebbe bastato solo informare i potenti di quello che stava succedendo, che ci stavano facendo. Io stessa telefonavo alle varie ambasciate e consolati a Belgrado per informarli! Che inganno! Che illusione! Loro sapevano ancora meglio di noi, proprio come indica il titolo del libro This Time We Knew. Western Responses to Genocide in Bosnia di Thomas Cushman e Stjepan Meätrovic.

Il ponte di Višegrad - su gentile concessione Beit casa editrice
  Il ponte di Višegrad – su gentile concessione Beit casa editrice

Gli autori del libro affermano che, a differenza dall’Olocausto del quale si diceva che “non sapevamo, e non potevamo reagire”, la guerra in Bosnia Erzegovina si è svolta letteralmente sotto i nostri occhi e che questa volta nessuno poteva dire “non sapevo”.

La nostra guerra fu seguita dai media mondiali più di qualsiasi altra guerra prima e dopo. Le immagini dei morti, dell’assedio, della pulizia etnica, dei campi di concentramento e infine del genocidio furono trasmesse in diretta TV. Eppure “il grande mondo”, per quasi quattro anni, continuò a ripetere che non si sapeva cosa stesse succedendo, che tutti erano ugualmente colpevoli, che si trattava delle solite tribù bellicose che si odiano e uccidono da sempre.

In Bosnia non c’erano le “parti coinvolte”. C’erano gli aggressori (i serbi e poi i croati) da una parte e le vittime (i musulmani bosniaci) dall’altra. Non eravamo tutti uguali: armati fino ai denti, ci attaccavano i serbi che si erano impossessati della maggior parte delle armi della quarta potenza militare in Europa, la Jna. Dall’altra parte c’erano i bosniaci musulmani, messi sotto assedio ancora prima che cominciasse il conflitto, disarmati, principalmente civili. Le prime armi le facevano utilizzando i pali della segnaletica stradale.

Conosco una persona che oggi fa il medico a Trieste, che, allora, a quindici anni, scambiava con gli amici le gomme da masticare per le pallottole che poi consegnava allo zio combattente sul fronte. Anche quando i bosniaci avevano i carri armati, erano pezzi da museo, trofei della Seconda guerra mondiale. Nella città di Maglaj, nella Bosnia centrale, dieci mesi sotto l’assedio, l’unico carro armato era un T34 “che aveva i cingoli lisci come galosce” e l’unica granata in loro possesso non poteva essere lanciata dal carro armato.

Già nel 1993 le cancellerie europee, secondo le testimonianze, si mostrarono infastidite dalla resistenza dei musulmani. Nessuno si aspettava che i musulmani bosniaci avrebbero combattuto così disperatamente e che avrebbero resistito così a lungo. Si credeva, o sperava, che sarebbero stati sconfitti in un attimo, e che in questo modo la crisi si sarebbe risolta da sola. Si continuava a parlare delle “parti coinvolte” anche quando i treni dei musulmani, cacciati dalle loro case e deportati, si ammassavano sul confine con l’Ungheria. Dicevano che non si sapeva cosa stesse succedendo anche davanti alle immagini dei campi di concentramento dove i musulmani bosniaci erano maltrattati, uccisi e fatti sparire. Già all’epoca gli europei chiudevano i confini davanti alle poche migliaia di rifugiati che riuscivano a scappare dall’inferno bosniaco; sostenevano che eravamo tutti uguali anche quando i serbi avevano conquistato Srebrenica e avevano compiuto il genocidio.

La solitudine dei bosniaci in quella guerra fu cosmica! Accerchiati, bombardati, abbandonati a sé stessi, sull’orlo dell’annientamento. Tra i pochi che stavano dalla parte delle vittime c’erano i giornalisti. Il giornalista e scrittore americano David Rieff (autore del libro Slaughterhouse: Bosnia and Failure of the West) fu mandato in Bosnia dal suo giornale. Prima non sapeva nemmeno dell’esistenza della Bosnia, tanto meno che fosse abitata da musulmani europei autoctoni. Quando è arrivato sul posto si è accorto cosa stava succedendo e ha detto: “Questa non è una guerra, è un macello.”

La giornalista Janine di Giovanni dal «The Atlantic» spiega perché i giornalisti stessero dalla parte delle vittime: “… L’assedio aveva isolato i suoi abitanti dal resto del mondo. Abbiamo voluto mostrare alla gente di fuori i nostri colleghi bosniaci, così come i combattenti che difendevano la loro città sotto un penalizzante embargo sulle armi, la gente comune che sfuggiva dai colpi dei cecchini. C’era poca speranza che qualcuno venisse a salvarli, ma abbiamo pensato che se li avessimo lasciati anche noi, avremmo dato loro un chiaro segnale: che erano davvero abbandonati.”

La guerra degli anni novanta ha incoraggiato molti a scrivere sulla Bosnia Erzegovina, sulla sua storia, il suo popolo, le usanze, i costumi, la lingua, le religioni. Molti, spesso gli autoproclamati “orientalisti” o “esperti” si basavano su dati e documenti falsi, sviluppavano le teorie del complotto per giustificare l’aggressione, l’ostilità, o l’amicizia e l’ammirazione per gli altri. Andavano così lontano da collocare la Bosnia in Medio Oriente.

Non ci sono incognite sulla storia della Bosnia Erzegovina, ancora meno sulla guerra degli anni Novanta. Dopo sedici milioni di documenti, milioni di ore di testimonianze dei diretti interessati, delle vittime, degli assassini, dei soldati semplici e dei comandanti che rilasciavano gli ordini, non ci sono più incertezze.

Eppure ancora oggi, venticinque anni dopo la fine della guerra, spesso mi chiedono: “Non ho capito bene, cosa è successo veramente in Bosnia Erzegovina?”. Il libro di Cathie Carmichael “Bosnia Erzegovina. Alba e tramonto del secolo breve” è in grado di fornire delle risposte.

 

Malerba

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9788804669340_0_0_1642_80di Massimiliano Manganelli

Quando le sue opere giungono a essere raccolte in un Meridiano, in genere vuol dire che quel determinato autore è più o meno definitivamente canonizzato. Non assunto in un ideale paradiso della letteratura, sia chiaro, bensì molto più semplicemente (e nel rispetto dell’etimologia) acquisito in un canone: diventa, in sostanza, un classico, o qualcosa di analogo. Perché Luigi Malerba diventasse un classico non era ovviamente necessario un Meridiano, che, pur meritevole, resta sempre e comunque una antologia; Malerba un classico lo era già. Anzi, sarebbe ora di dargli la giusta collocazione nel nostro Novecento, giacché almeno due dei suoi romanzi – Il serpente e Salto mortale – costituiscono delle tappe fondamentali nella storia del romanzo italiano del secolo scorso.

Spinalonga o della lebbre del potere

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di Giorgio Mascitelli

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Vincenzo Frungillo Spinalonga, Zona, 2016, euro 12

Spinalonga, piccola isola vicina alla coste cretesi, che, dopo essere stata sede di una fortezza prima veneziana e poi turca, ospitò tra il 1903 e il 1957 l’ultimo lebbrosario d’Europa, è l’ambientazione scelta dal poeta Vincenzo Frungillo per lo svolgimento del suo primo dramma.

L’azione si svolge proprio nel lebbrosario che con lieve anacronismo viene immaginato ancora in funzione durante la dittatura dei colonnelli ( 1967-74). Nella comunità guidata da un medico in odore di filantropia, che ha rinunciato a una carriera universitaria di primo piano per trasferirsi nell’istituto,  fervono i preparativi per l’annunciata visita ufficiale dei colonnelli nel corso della quale il degente Epaminonda si dovrà esibire come cantante. Sbarcherà invece sull’isola soltanto un capitano, che in realtà è alla ricerca di una studentessa fuggiasca, dopo la rivolta del Politecnico, storicamente avvenuta nel novembre del ’73,  e sospetta con ragione che sia nascosta dal dottore, suo ex amante, sotto mentite spoglie nel lebbrosario.

Questo testo si occupa, per esplicita indicazione dell’autore nella premessa che precede la scrittura drammaturgica, di corruzione: è comprensibile che la corruzione delle carni a opera della malattia e anche degli antichi edifici dell’isola a opera del tempo si presenti benjamininianamente a Frungillo come un’allegoria di un processo di corruzione storicamente dato, ma questo termine non va letto nella sua accezione più consueta oggi ossia quella giudiziaria. Si tratta al contrario della natura corruttrice del potere nel senso morale che gli è propria in ogni epoca e di quella specifica contemporanea del mercato con la sua capacità di desertificare e scarnificare la società. “Il re è senza occhi. Il re adesso è ovunque” sono le prime parole dell’azione scenica pronunciate dal capitano al momento del suo sbarco sull’isola quando vede il Leone di San Marco in pietra della fortezza veneziana ormai danneggiato dal tempo. In questa considerazione si condensa la consapevolezza del capitano della natura microfisica, relazionale e produttiva del potere neoliberista così diversa dai dispositivi e dalle pratiche dei tempi in cui c’erano le forche e quindi anche la sovranità, per dirla con Paul Celan.

Tutti e quattro i personaggi principali ( il dottore, il capitano, Epaminonda e la studentessa, che per gran parte dell’azione si presenta nascosta sotto un sacco di juta con il nome parlante di Meteco ossia lo straniero della polis), visto che in senso tecnico non vi è un vero protagonista, si dispongono lungo un asse relazionale con il potere, nel quale, se verità e inganno occupano le due estremità, nessuno dei personaggi riesce a collocarsi esattamente in queste posizioni. Il capitano, naturalmente, si pone più dal lato dell’inganno, ma la sua franchezza di servo, teorico ed esegeta del potere raggiunge livelli di autocoscienza impensabili  per gli altri personaggi ( “Ci diciamo nichilisti, ma in fondo crediamo vilmente al lieto fine.”, p.77). Anche il dottore, falso filantropo compromesso con il potere dei colonnelli, ha la sua quota di verità umana nell’illusione tardoadolescenziale che la sincerità del suo amore e la disponibilità al sacrificio delle proprie ambizioni possano riscattare la sua corruzione carrieristica presso una donna coinvolta in uno scontro totale con il potere. A sua volta, Elena la ribelle, la studentessa, colei che rappresenta la verità politica contro lo scandalo dei colonnelli, rivela un pragmatismo leninista nell’ingannare il dottore circa i veri motivi della sua venuta all’isola, sfruttandone i sentimenti d’amore e di colpa con spregiudicatezza. Perfino Epaminonda, personaggio ispirato a un omonimo ricoverato del lebbrosario, ma che forse deve qualcosa anche al suonatore di cetra protagonista assente di Ultime parole di Werner Herzog, cortometraggio dedicato all’ultimo abitante dell’isola evacuato a forza dalla polizia a Creta dove suona la cetra nei caffè  rifiutandosi di parlare, trova la forza del silenzio solo alla fine del dramma dopo aver promesso di cantare per i colonnelli, pur nella sua condizione esibita fin da principio di non ricattabilità per assenza di speranze (“ Amo le parole bisillabiche, non posso farci nulla./Vedo/vero/ meno/ spero”, p.23). E proprio il silenzio conquistato da Epaminonda alla fine del testo sembra rappresentare l’unico tentativo di fuoriuscita da questo asse di rapporto con il potere in una sorta di cupo anarchismo pessimistico, che più che un dato ideologico di Frungillo pare una risultanza di quel senso di impotenza storica che è lo spirito rabbioso che circola nella nostra epoca.

La qualità letteraria di Spinalonga fa sì che esso sia pienamente godibile anche alla semplice lettura, la quale viene impreziosita da quattro dense illustrazioni di Davide Racca che scandiscono l’articolazione del libro ( la prima di esse illustra il presente post). Si tratta di un testo che trattiene in sé qualcosa della tragedia classica, peraltro le tre unità aristoteliche vi sono rigorosamente rispettate, in alcuni dialoghi stentorei che hanno il sapore di lettere capitali scolpite nella pietra.

Spinalonga, benché non sia una drammaturgia di tipo storico in senso stretto, interroga il presente a partire dalla storia con una felice autonomia dalla rigida ricostruzione documentaria e, talvolta, antiquaria che caratterizza i testi letterari di genere storico del nostro tempo e in ciò, a mio avviso, consiste il motivo del suo maggiore interesse. Frungillo evoca con libertà una situazione storica ben precisa, quella di un fascismo classico come fu la dittatura dei colonnelli, e la mette in rapporto con il presente non in ragione di un’analogia di struttura, ma seguendo piuttosto dei fili che collegano il presente e lo anticipano allegoricamente. La corruzione del potere è infatti efficace solo in ragione della sua pervasività nelle vite, che è precisamente il filo rosso o meglio nero che lega il nostro presente alle forme novecentesche del totalitarismo. Il rapporto con la storia viene quindi costruito a partire da un’attualizzazione che richiama alla nostra condizione di esistenza odierna la continuità con i dilemmi morali che caratterizzarono altre epoche. Un rapporto siffatto con la storia è un rapporto politico, che individua come via d’uscita dal caleidoscopico citazionismo postmoderno non una generica riproduzione letterale del passato, ma la rivendicazione di quei nodi di esso che parlano al nostro presente.  E, tra i meriti della drammaturgia di Frungillo, questo non mi sembra certo l’ultimo.

 

La violenza fantasma – o della violenza psicologica

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di Mariasole Ariot

Bisogna spegnere la violenza piuttosto che l’incendio.

Eraclito

 

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Esiste un forellino collocato nella zona occipitale : da lì qualcuno entra, s’incista come una larva, emette uova, prolifera. Questo forellino, nella lingua della psichiatria odierna, è chiamato “ferita narcisistica”. Là, il narcisista patologico, il manipolatore perverso, trova la forma adatta per inserire il piccolo marchingegno che ha fabbricato negli anni, come nel gioco dei bambini, il cubo forato – e ad ogni foro corrisponde un oggetto. L’oggetto del manipolatore è un oggetto preciso, ha bisogno del foro corrispondente per poter inserirsi con precisione.

Un breve articolo del Corriere della Sera del 2 febbraio s’intitola(va) “Anche la violenza psicologica uccide. Fermiamola ora!”. L’articolo, seppur breve, un trafiletto, illustra rapidamente i danni che la vittima di violenza psicologica può subire e invita alla luce, a far luce, alla parola, alla denuncia. Di per sé è cosa buona : non esiste, infatti, solo violenza fisica : la violenza esiste anche in altra forma, in altre forme – e le ferite invisibili all’occhio (ma rilevabili ad uno sguardo attento, che indaga oltre la superficie del visibile) possono essere talvolta anche peggiori : possono anche, in ultima istanza, condurre alla morte del soggetto che la subisce – sia essa una morte reale (spingere l’altro verso il passaggio all’atto, fino anche al suicidio), sia essa una morte di spirito, una morte psichica, una morte-in-vita.

Una morte in vita che può virare nella completa distruzione dell’autostima, nella vergogna dell’esistere, nel vissuto di indegnità, nella auto-nullificazione. L’articolo, in cui viene fornito anche un numero verde apposito, invita alla denuncia, ma non prende in considerazione un presupposto necessario da cui partire e per cui ogni possibile messa in luce o in parola delle condizioni del soggetto vittima di violenza psichica viene a cadere : perché quel soggetto , nella maggioranza dei casi, porta già le tracce, nella sua personale biografia, di altre violenze, di altri abusi (forse preistorici), o anche di vere e proprie patologie per cui è già in cura o che non ha ancora affrontato e con cui prima o poi dovrà fare i conti. La vittima non è una “vittima a caso” : è scelta accuratamente : deve avere, appunto, quel forellino in cui ci si possa introdurre.
Non è un caso che la maggior parte delle donne e degli uomini vittime di narcisisti patologici (che operano attraverso la produzione dell’angoscia nell’altro), soffrano già (o siano predisposte a) depressione, anoressia, bulimia, tossicomania, disturbi d’ansia generalizzata, autolesionismo – e la lista potrebbe continuare a lungo.

Questo particolare, che può sembrare in prima istanza trascurabile, è in realtà radicalmente influente : al cospetto di un terzo che possa ascoltare o che possa accogliere la sofferenza della vittima e – chiaramente – di fronte all’altro che la violenza l’agisce, la persona diventa “incredibile”, “increduta” : sei tu la/il malata/o! – come accade nel film Gaslight del 1944 diretto da George Cukor, in cui la luce delle lampade a gas si affievolisce, i quadri e altri oggetti spariscono per mano di Gregory, il marito di Paula, che fa credere a Paula di essere l’arteficie degli accadimenti, portandola a credersi folle, conducendola a un lento isolamento da luoghi e relazioni, e dalla relazione con i luoghi. Il titolo Gaslight è infatti tradotto in italiano con : Angoscia.

La perversione rappresenta un mettere con le spalle al muro, un prendere alla lettera la funzione del Padre, dell’Essere supremo. Il Dio eterno preso alla lettera, non già nel suo godimento, sempre velato e insondabile, ma nel suo desiderio in quanto interessato all’ordine del mondo – sta qui il principio in cui, pietrificando la propria angoscia, il perverso si installa in quanto tale.
Lacan

gaslight gif 3Questo meccanismo perverso (che di perververtimento si tratta) non solo produce doppiamente senso ed esperienze di colpevolezza e vergogna nella vittima, ma preclude ogni possibilità di essere davvero creduta, di essere presa in considerazione nel suo dire, nel suo appello – là dove ci sia ancora la forza di pronunciarlo.
Se i segni della violenza fisica (per quanto anch’essa produca nel soggetto che la subisce – specialmente se agita all’interno delle mura domestiche, non estemporanea ma perpetrata nel tempo, quotidiana – vissuti di vergogna, di automortificazione, di perdizione, di umiliazione) sono verificabili e di-mostrabili all’altro, quelli della violenza psicologica non lo sono affatto. Non c’è sangue versato, tutt’al più il sangue è coagulato in una zona scura all’interno del corpo, si annida nella testa, crea ematomi interni, sacche di dolore ammuffite nel costato. E’ allora davvero possibile che la vittima sia in grado e nelle condizioni di poter denunciare, se la vittima stessa (già “vittima” prima ancora di diventarlo), è stata prescelta proprio perché non munita degli strumenti che permetterebbero di non cadere nella trama dell’altro, nella ragnatela tessuta dal narcisista manipolatore?

La risposta vorrebbe essere: sì, è possibile. La realtà sfortunatamente dimostra il contrario. L’isolamento in cui cade (è una vera e propria caduta) il soggetto che fa esperienza di manipolazione e violenza psicologica, è un ulteriore elemento che va considerato : l’altro che agisce tende infatti ad escludere la propria vittima dalle relazioni che questa intratteneva prima di incontrarlo, cerca di sottrarla al e dal mondo – e questo per due principali motivi : da un lato, per la tendenza propria del manipolatore ad agire sull’altro attraverso istanze di potere, decidendo per lei/lui ciò che deve vivere e con chi deve vivere, dall’altro lato perché così facendo aumenta il grado di dipendenza della vittima nei suoi confronti. Il soggetto che subisce si ritrova così, paradossalmente, all’interno di un mondo in miniatura in cui il contatto avviene quasi esclusivamente con la persona che lo sta lentamente distruggendo, a credere (o illudersi) di poter vivere solo con il proprio carnefice, solo se supportato dal carneficie, al punto limite in cui l’unica persona a cui potrebbe realmente chiedere aiuto è proprio la persona da cui dovrebbe fuggire.

Tutto ciò non ha minimamente a che vedere con la formula sadismo-masochismo : la coppia narcisista manipolatore (o, per usare un termine più affine alla psicoanalisi : perverso)/ vittima non vive di quello che talvolta, con un ghigno e molta superficialità si cerca di dimostrare, e cioè che la vittima resta lì, resta nella posizione frustrante e dolorosa perché gode nel lasciarsi fare del male : la vittima di violenza psicologica non è (questo è bene ricordarlo) un masochista che ama farsi sottomettere e che ha bisogno di un sadico che compia il suo dovere. E’ portatrice – lo ripeto – di una ferita che attira, attrae e su cui il perverso può cominciare a lavorare. E’ infatti di un lavoro che si tratta, un lavoro meticoloso, talvolta urlato, talvolta messo in atto attraverso il “gioco del silenzio”, in cui tutto deve restare immobile e immutato, nulla deve scomporsi, pena la morte. Ciò che chiamo gioco del silenzio è una delle posizioni preferite assunta dal soggetto perverso : fabbricare l’angoscia nell’altro, lavorare affinché si produca angoscia nell’altro, fino al punto limite in cui – com’è noto nel mito di Narciso – l’altro si dà alla morte : anche Eco muore.

E’ una terra sconosciuta, impopolata, fatta di crani abbassati, di piegamenti sulle ginocchia, di bocche cucite, di fili sottili, di tremori notturni, di impossibilità, di nebbia, è la terra dei senza gambe, di ciglia strappate, dei portatori di vischio nelle pupille.

Partendo quindi dal presupposto che il soggetto oggetto di violenza psicologica non sia una vittima casuale ma una donna (o un uomo) con determinate e precise caratteristiche, partendo dalla constatazione che quel soggetto venga scelto non con una partita a dadi ma con una profonda (conscia o inconscia poco conta) consapevolezza, la questione del come agire, cosa fare, dev’essere rivista e rivalutata.

Si tratterebbe allora non tanto (non solo) di educare la persona che sta già subendo violenza a denunciarla, quanto piuttosto educare preventivamente a riconoscere le mosse compiute dal potenziale manipolatore prima che queste riescano – come farebbe un ragno – a tessere la ragnatela attorno alla vittima prescelta da cui questa non può o non vorrà più uscire per il timore della caduta nel vuoto e in ultimo della morte. Morte del Sé, morte della vita, caduta fuori dalla scena del mondo.

Prevenire il “cattivo incontro”, spalancare l’occhio al possibile, là dove quell’occhio è già stato ferito. Riaprire quindi la ferita non con il bisturi di chi la violenza l’agisce, ma con la cura e la grazia di chi ha gli strumenti per farlo, per poter ripulire i detriti e gli elementi putrefatti che offuscano la vista : pulviscolo biografico, strutturale.

 

CaLibro Festival 2017

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calibro 70x100 - 2017-01di Francesca Fiorletta

Anche quest’anno torna CaLibro, Festival della Lettura a Città di Castello, promosso dall’Associazione culturale “Il Fondino”, con il patrocinio e il sostegno del Comune di Città di Castello e della Regione Umbria, oltre che di numerose attività imprenditoriali di rilievo.
Tanti gli eventi in programma e gli incontri previsti, che animeranno i luoghi più suggestivi della città da giovedì 30 marzo a domenica 2 aprile.
Il festival, giunto con successo alla quinta edizione, continua a conservare un’attenzione particolare all’incontro di varie forme espressive, dando spazio a letteratura e poesia, ma anche al cibo, al fumetto, allo sport…

Leggere Wendell Berry o dell’essere parte della terra che abitiamo

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di Francesca Matteoni 

Ho conosciuto Wendell Berry poeta attraverso il regalo di amici. Era l’autunno del 2015 e insegnavo il corso Italian Life and Culture a un gruppo variegato di studenti californiani, di età compresa fra i diciannove e i settant’anni, accompagnati nella loro avventura italiana dai due insegnanti di fotografia e letteratura contemporanea italiana, Kate e Scott. Proprio loro, prima di salutarci nell’ultima settimana del corso, mi hanno regalato un libro che tengo molto caro, uno dei One Poem Books curati da Kate, che conteneva le sue fotografie e The Wild Geese una poesia di Berry. Questo regalo racchiudeva e sanciva quanto abbiamo vissuto insieme in meno di tre mesi ben oltre il contenuto delle lezioni: la scoperta e l’attenzione per la diversità dell’altro, la storia dei paesi che non è mai unica, una nuova e antica premura dei rapporti fra di noi e con il tempo e i luoghi di cui, consapevoli o meno siamo responsabili. Soprattutto, quando mi capita fra le mani, ripenso alla nostra gita all’Orsigna, sulle montagne pistoiesi, alla visita al caniccio per essiccare le castagne, al Molino d Giamba, il pranzo con i prodotti locali, le parole di alcuni dei più giovani guardando i monti bruniti: “Vorrei vivere qui per sempre”. Potrei dire che, senza che ci abbia mai ragionato su, un castagno per me è casa. Ma vedere luoghi familiari attraverso lo sguardo stupito di altri riempie di uno strano orgoglio, un sentimento di riconciliazione per mezzo della condivisione. Siamo qui ora, parliamo lingue differenti, ma il nostro sentimento è simile, una forma di gratitudine verso la terra su cui sostiamo, che possiamo ancora conoscere con le nostre mani o i racconti che passano dai boschi al lavoro umano e che una tenace minoranza della nostra specie tenta di preservare.

Molino di Giamba, Orsigna
Molino di Giamba, Orsigna

Nello stesso periodo la mia vita si radicava in un modo insospettato nella frazione collinare dove vivo  dall’ottobre del 2013, data del mio rientro dall’Inghilterra. Si radicava o forse si ritrovava: l’area da cui provengo è comunque questa, la mia bisnonna era nata in un borgo vicino; io sono cresciuta  poco più a valle nella casa materna; a  qualche centinaio di metri più in alto, sull’Appennino, si trova invece la casa paterna – il mio passato e il mio presente quali luoghi collegati da una strada con un nome proprio: Riola. Territorio e comunità sono pian piano diventate la mia concretezza quotidiana. Queste sono le cose minime che mi accadono:  i rapporti di vicinato non sono più una mera formalità; gli anziani del posto formano la mia altra famiglia,  le loro vicende e i prodotti dei loro orti mi entrano in casa;  fare la spesa nelle due uniche botteghe non è un lusso, ma un altro essere parte di un paese e non farlo morire. Quando c’è una festa ognuno contribuisce come può, quando qualcuno muore tutti, indipendentemente dalla fede personale, si ritrovano davanti e dentro la piccola chiesa… e quando il paese ti accetta dovrai accettare che il tuo campanello sia una semplice decorazione o un capriccio per i corrieri postali: qua si vocia da strada a finestra, non si suona. Non voglio cadere in un ritratto edulcorato, ma è certo che vivere in un simile territorio aiuta nell’immaginare, addirittura amare, la gente “per come dovrebbe essere”, parafrasando una celebre frase di Adorno, poiché inesorabilmente parlare di loro è dire di noi, attraverso una trama sottile di storie passate e presenti che si incontrano accidentalmente, poi sempre più secondo una volontà precisa, une responsabilità che ci tiene insieme nelle nostre solitudini.

Santomoro, Valle delle Due Buri
Santomoro, Valle delle Due Buri

È grazie a queste due vie che mi è sembrato prima utile, poi necessario avventurarmi nei libri di Wendell Berry, scrittore, poeta, agricoltore che si occupa di agrarianismo e territorio, dove il territorio è soprattutto l’insieme dei vivi e dei morti che abita, a volte da generazioni, un luogo, serbandone la memoria nei corpi e nei gesti.  Berry è una figura singolare, radicale e coerente nei temi della sua scrittura come della vita – definisce se stesso il contadino pazzo, è profondamente cristiano, ma in aperto contrasto con un certo attivismo bigotto, con l’intolleranza che le chiese stesse  vedono bene di promuovere. Forse perché i valori spirituali che lo scrittore persegue sono la compassione, la fiducia, il senso di responsabilità verso se stessi e la terra, il “nostro unico mondo” come recita il titolo di una sua raccolta di saggi.  E se la sua visione resta antropocentrica lo è in modo molto disincantato – gli esseri umani di cui scrive sono fragili, vengono da un mondo che scompare, un mondo ideale e concreto insieme, dove il provvedere alla propria sussistenza non coincide affatto con lo sfruttamento della natura fino al suo esaurimento (come se esaurendo lei non esaurissimo anche noi stessi), ma con la fatica di imparare dai ritmi naturali, lavorare e conoscere una terra come una comunità, sapere che senza di lei siamo molto poco, spiritualmente infelici, mutilati. In “Suolo e salute”, uno dei saggi contenuti in Mangiare è un atto agricolo, scrive Berry che “La natura è il valore ultimo del mondo reale e di quello economico” – sembra un’affermazione quasi scontata, ma non lo è quando si è perso di vista la nostra provenienza, quando non siamo più in grado di tracciare mappe affettive dei luoghi, quando la nostra memoria non viene più distillata nell’esperienza, nel tempo, nel racconto dei simili, quando pensiamo la natura come un grande magazzino di scorte inesauribili, senza il minimo interesse per i cicli e le stagioni, senza la cura per la terra, le piante, gli animali che in silenzio hanno cura di noi – ci mantengono in vita. Aggiunge:

“Il benessere è un aspetto contemporaneamente qualitativo e quantitativo, e richiede al tempo stesso benevolenza e quantità sufficiente. È inclusivo (è sinonimo di integrale) perché non esclude nulla. Ed è, senza alcun compromesso, locale e particolare. Riguarda il sostentamento di luoghi, creature, menti e corpi umani specifici”.

Nella corsa al globale Berry è uno di quelli che sta dalla parte della lentezza e del particolare, dunque dei legami profondi tra un umano e l’altro, tra un umano e il suo abitare.  È una scelta che proviene da una formazione culturale, ambientalista e letteraria consolidata in America – è impossibile non pensare ai trascendentalisti, al Thoreau del selvatico e della vita nei boschi, anche se nel nostro autore è il coltivato, la cooperazione evidente fra umano e suolo a emergere -, ma anche dal fondersi della scrittura con il lavoro agricolo: lo scrittore ha infatti di sua volontà lasciato la carriera accademica per far rientro nel Kentucky, riprendere l’attività di famiglia, coltivare i campi. Questo lo rende credibile e affascinante: il suo pensiero e l’utopia della scrittura devono ogni giorno fare i conti con la difficoltà dell’addomesticamento di una terra, della restituzione di sé a un luogo e a coloro con cui viene condiviso.  Nelle sue parole:

“Il regionalismo cui personalmente aderisco potrebbe essere definito soltanto come vita locale consapevole di sé stessa. Tende a sostituire ai miti e agli stereotipi su una regione la conoscenza specifica della vita del luogo in cui un individuo vive e intende continuare a vivere. Riguarda la vita tanto quanto riguarda la scrittura, ma riguarda la vita prima di riguardare la scrittura. Il tema di questo genere di regionalismo è la consapevolezza che la vita locale, per la sua qualità ma anche per la sua continuità, dipende in modo complesso dalla conoscenza locale”. ( Da “Il tema regionale” in La strada dell’ignoranza).

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Abitare un territorio, come scrivere, ha a che fare con la realtà perché si nutre dell’antico nodo fra i viventi, del senso di reciprocità di tutte le cose, dell’essenziale. Non siamo fatti per i grandi centri e i grandi spazi, ci possono attrarre, possiamo visitarli, possiamo errare al loro interno, ma perfino il concetto di nomadismo, come lo percepiamo oggi, viene da un fraintendimento: storicamente, antropologicamente i nomadi non sono i senza fissa dimora, sono piuttosto quei popoli che si sono adattati alla loro terra, viaggiandoci dentro e spostandosi a seconda delle stagioni e del clima, che non hanno tracciato confini e reclamato proprietà, perché istintivamente consapevoli del confine di rispetto, conoscenza o addirittura devozione che la natura traccia in noi. Sono, in altre parole, i primi regionalisti: si muovono sulla terra d’origine imparando a difendersi da lei e a coglierne i doni come dobbiamo fare con il nostro corpo e le sue molte possibilità, i suoi vari tradimenti. Gli esseri umani tendono naturalmente alla dimensione del villaggio, hanno bisogno di ritrovarsi in piccoli gruppi che superano la famiglia, che a volte includono gli alberi, le piante coltivate, il paesaggio attorno. Allora in quel mondo noto perché curato, amato, recuperato, non solo il terreno torna fertile e non viene devastato dalla società della produzione e del consumo a tutti i costi, anche le persone tornano fertili, più capaci di sviluppare il settimo senso, che a me piace chiamare il senso della grazia. La grazia del mondo che è, di chi mantiene i saperi antichi, di chi impara non a vincere, ma a tornare – che vuol dire, forse, accettare che la parola io diventi noi, “fare comunità”, come scrive ancora Berry in un pezzo bellissimo, qualcosa per cui

“la gente non ha bisogno di centri d’incontro, strutture ricreative e tutto il consueto armamentario commerciale per la valorizzazione della comunità. Ha bisogno invece di coltivare l’affetto, la collaborazione e la fiducia nel prossimo. E non è facile. Sappiamo bene che nessuna comunità si muoverà in quella direzione senza sforzi o difficoltà, ma sappiamo anche che quegli sforzi e quelle difficoltà racchiudono più speranze di tutte le meravigliose ricette per espandersi e arricchirsi sfornate dalle università e dalle grandi aziende private negli ultimi cinquant’anni”. (Da “In difesa della piccola fattoria” in Mangiare è un atto agricolo).

Coltivare, insomma, l’intimità con chi ci capita accanto, decidere che vogliamo riconoscere qualcuno, che oltre al progresso o al regresso ci sono altre vie laterali, circolari, vie che uniscono famiglie e persone, che riconducono le analisi di studiosi e accademici alla sostanza di cui siamo umilmente fatti, non al grande progetto, ma al crescerle davvero quelle zucchine negli orti, al tacere di più o parlare con più convinzione perché il nostro interesse è l’interesse dell’altro, perché ciò che ci trattiene dall’esprimere sentenze o che ci spinge a esporci è di volta in volta la paura di ferire l’amica o l’amico, il compaesano, o il desiderio di dire ciò che lei, lui non sa dire. Non ho paura di suonare ingenua – anche io credo come Berry che sia inestimabile il valore di ciò che si conosce tramite la compassione, tramite lo sforzo costante di metterci al pari, di avvertire l’importanza di ognuno e che ognuno è infine piccolo, poca cosa, leggero, come sono leggeri i disprezzati insetti che tutto trasformano. Ma i piccoli quando si uniscono sanno essere sciame indistruttibile, specialmente se difendono la loro provenienza. Così l’autore invita a “una rivolta dei piccoli produttori e consumatori locali contro l’industrialismo globale delle corporation” e continua:

“Penso davvero che esista la speranza che una rivolta di questo tipo sopravviva e abbia successo, e che possa avere una considerevole influenza sulle nostre vite e sul nostro mondo? Sì, lo penso davvero”.

È una rivolta che non avviene solo attraverso il lavoro agricolo, ma anche nella parola – i tempi fagocitanti, l’iperproduttività, il mercato, sono forze che alienano l’individuo dalla natura del suo corpo come da quella del suo linguaggio, portandolo a esprimersi per slogan e formule, per commistioni di lingue diverse, apprese male e digerite peggio, per condanne e giudizi invece che per frasi meditate, capaci di esprimere spirito critico, ragionevolezza, l’ironia di un dialogo aperto con l’altro e col mondo. Nel suo saggio “In difesa della lingua” (La strada dell’ignoranza), scrive:

“la competenza linguistica – la padronanza della lingua e la conoscenza dei libri – non costituisce un ornamento, ma una necessità. Si tratta di una conoscenza priva di praticità soltanto dal punto di vista del profitto facile e del potere immediato. Una prospettiva più ampia dimostrerà che soltanto questo genere di competenza può preservare in noi la possibilità di un giudizio fedele su noi stessi, la possibilità di correggerci e rinnovarci.  Senza di essa restiamo alla deriva nel presente, tra i relitti del passato, nell’incubo del futuro”.

Restiamo nell’inconsapevolezza e in un coro senza voce, dove nessun volto è identificabile, nessun vincolo autentico di amicizia può essere stretto. Proprio dal bisogno di raccontare storie corali, che resistono anche quando chi le ha composte invecchia e muore, nascono i romanzi di Wendell Berry, una serie dove ogni libro corrisponde alla vicenda di un abitante del villaggio fittizio di Port William nel Kentucky, ispirato a Port Royal, luogo d’origine dell’autore. Ogni romanzo ci dona un punto di vista diverso su un mosaico di gruppi familiari uniti nella famiglia comunitaria. Le parabole che abbiamo alla fine non sono ritratti di esseri umani vincenti, ma minoritari, di quelli che verranno classificati come nostalgici, ostinatamente attaccati al passato e all’asprezza della terra, condannati a morire. Eppure io resto convinta che i messaggi più duraturi sono quelli sottili, che migrano da singolo a singolo, che sembrano non penetrare le masse, che hanno il rumore dell’acqua dei torrenti presso cui capita di prendere dimora: sempre lì, sempre fruscianti e indispensabili, anche se dimenticati. È la vecchia Hannah Coulter che scelgo per concludere. Dice Hannah che la comunità si compone dei vivi e dei morti e che “i vivi hanno il dovere di proteggere i morti”. Il dovere di far spazio al loro silenzio, di chinarci sulle radici che da loro si diramano e ci sostengono e divenire forti: i protettori di quello che è stato, i protettori del primo pezzo d’erba su cui abbiamo camminato, della prima storia ascoltata, mandata a mente. È in questo che siamo più grandi delle nostre minuscole vite, quando le proiettiamo nell’eredità – non dei possedimenti e delle onorificenze, ma dei veri beni materiali: l’amore, la solidarietà, il ricordo dove il passato non era, ma è, dove siamo restituiti ai luoghi del nostro potenziale, i luoghi dove ci immaginiamo e ci modelliamo migliori, come si restituisce la cenere di una persona cara allo zoccolo del cavallo più amato, alla polla e al sole, al suolo.

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Tutti i libri di Wendell Berry sono pubblicati in Italia da Lindau. Ringrazio Edoardo Rialti che per primo mi ha messo in contatto con la casa editrice e Francesca Ponzetto dell’Ufficio Stampa per la sua gentilezza e il suo entusiasmo.

Diorami. Intervista a Massimiliano Borelli

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AutoritrattoPetrassidi Francesca Fiorletta

Nasce per Mucchi Editore una bella collana: DIORAMI. Testi su artifici, mondi nuovi e altre invenzioni.
Il primo volume verrà presentato sabato prossimo, 25 marzo, alle ore 13:00, all’interno dell’evento Book Pride, a Milano.
Ne parliamo col curatore, Massimiliano Borelli.

1. Caro Massimiliano, la descrizione di questo nuovo progetto recita:
“Come nei diorami ottocenteschi, quelle piccole porzioni di mondo ricostruite con sapiente artificio per produrre nell’osservatore una meraviglia mediata dalla tecnica, nelle gabbie di questi volumi abitano metatesti, la cui lingua e le cui parole sanno dare forma a universi tanto circoscritti quanto mossi dalle loro ombre e risonanti della loro eco.
Testi dunque costruiti a bella posta con materiali eterogenei e di seconda mano, con la consapevolezza che in letteratura, come del resto nelle altre dimensioni del vivere umano, non ci si può che trovare sempre e soltanto in casa d’altri.
Testi che parlano di scrittura, musica, arte, paesaggio, storia, vita da una prospettiva riflessa tra il saggio e la narrazione, dal cui punto di fuga si sprigionano le feconde tensioni della critica, dell’invenzione e dell’esperienza.”
Ci spiegheresti, allora, com’è nata l’idea dei Diorami?

Formiamo le poesie digitali – parte prima

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[L’autore di Poesie Elettroniche propone un primo articolo tecnico-divulgativo sui formati digitali per leggere poesia. Una riflessione su cosa voglia dire oggi fare e leggere un ebook di poesia elettronica dal punto di vista delle specifiche. JR]

di Fabrizio Venerandi

Nello scrivere una poesia tradizionale conosciamo il media con cui verrà fruita, sia nella sua versione scritta, sia in quella orale. Possiamo pensare che verrà stampata e letta su un foglio, all’interno di una silloge, in una rivista. Oppure ascoltata durante un reading o in uno slam poetry.

I contenitori in cui una poesia tradizionale viene sviluppata e creata sono – appunto – tradizionali e sommariamente conosciuti da tutti coloro che leggono o scrivono versi.

Il discorso si fa più complicato quando iniziamo a parlare di electronic poetry, non solo perché l’electronic poetry in realtà ingloba al suo interno cose molto diverse in quanto a progettazione e fruizione, ma anche perché la poesia elettronica si appoggia a media elettronici i cui formati e le cui specifiche non hanno raggiunto uno stato dell’arte, come nel caso del libro. Anzi, proprio per sua la natura elettronica, è possibile che questa instabilità di forma sia una caratteristica naturale di questo tipo di scrittura.

Essendo – voglio dire – legata a una serie di strumenti tecnologici in continuo divenire, essa stessa deve avere con questi strumenti un dialogo costante nel tempo.

È quindi importante, ancora prima di parlare della natura della poesia elettronica, capire quali sono le forme con cui essa si è sviluppata e si potrà sviluppare in futuro.

Guardando le interessanti collezioni dell’ELO si può notare che esista una grande varietà di strumenti utilizzati per fare poesia elettronica.

In questo post non voglio entrare nello specifico di ogni singolo lavoro, ma possiamo trovare alcune ricorrenze che ci permettono di mappare tendenze di utilizzo e buone pratiche.

La prima è quella del video. Molte poesie elettroniche appaiono come video. Questo per diversi motivi:

  • il video viene scelto come strumento per la animazione dei versi nello spazio (come avviene ad esempio per la poesia cinetica). Un esempio è Code Movie 1;
  • il video testimonia una poesia elettronica nata con strumentazioni informatiche che non sono più accessibili (computer obsoleti, performance con elettroniche non più utilizzabili). Un esempio è Endemic Battle Collage, programmata su un Apple II del 1985 e fruibile oggi come video.

Quello che caratterizza questo tipo di lavori è una bassa interattività con il lettore/utente, che guarda/legge l’opera nella sua evoluzione temporale o spaziale.

Aumentando l’interazione si entra nel campo del codice. La seconda tendenza è quella di offire dei lavori eseguibili. Applicazioni, script, programmi che vengono interpretati sul momento dal computer. Si tratta di un passaggio molto importante. Codice significa programmare il computer perché faccia cose quando il poeta non c’è. Non si tratta solo di animare una poesia, o di aumentarla con elementi multimediali o sonori, ma di progettare algoritmi che scrivano, manipolino, modifichino la poesie al nostro posto. Ovvero, nella sua visione più estrema, il poeta non scrive più i versi, ma scrive le parti di codice che generano i suoi versi. Tra i linguaggi più utilizzati all’interno delle collezioni ELC:

  • Flash. Molti lavori di poesia elettronica, specie se connotate da elementi visuali, sonori e di animazione, usano in maniera massiccia Adobe Flash. Un esempio è Thoughts Go;
  • html & javascript & css, ovvero i sistemi di marcatura e scripting con cui sono costruite buona parte delle pagine Web. Un esempio è il semplice Sample automatic poem;
  • Ipertesto, ovvero l’utilizzo dei link per spostarsi all’interno di più atomi testuali, grafici o sonori. Un esempio è High Muck a Muck: Playing Chinese;
  • altri linguaggi, videogiochi, server online, applicazioni vere e proprie.

Il confine tra gli strumenti utilizzati per queste poesie elettroniche è molto permeabile: la scelta è legata non solo a esigenze espressive, ma anche alla conoscenza del programmatore di questo o quel linguaggio, alla possibile distribuzione on-line dell’opera, al pubblico di riferimento, al periodo storico in cui le opere sono state scritte.

Oggi alcuni linguaggi sono obsoleti (Applesoft Basic) e alcuni sistemi anche molto utilizzati come Flash stanno lasciando sempre più spazio a specifiche aperte come HTML5, Javascript e CSS.

Da notare che nessuna delle poesie che ho citato e di quelle che trovate collezionate nel sito dell’ELO è un libro elettronico. Tra le keywords di catalogazione delle opere del terzo volume dell’ELC non appare né “ebook”, né “ePub”.

Paradossalmente il libro digitale non è stato fino ad oggi uno strumento reputato adatto per la creazione e la raccolta di electronic poetry.

Per capire il perché è necessario avvicinarsi e scoprire quali siano i formati utilizzati oggi per fare libri elettronici, quali le loro caratteristiche tecniche e quali le loro possibilità espressive.

Questo sarà il tema del prossimo post.

Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Terza e ultima parte.

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di Angelo Petrella

[Pubblico qui la terza e ultima parte del saggio di Angelo Petrella. Si tratta di un ritratto critico di Edoardo Sanguineti apparso nel 2005 sulla rivista Belfagor, n.359, pagg. 543-546. La prima puntata si trova qui e la seconda qui. La cartolina di Carol Rama è stata inviata all’autore del saggio da Sanguineti. B.C.]

5. La poesia didattica di Sanguineti

L’istanza allegorica e morale, a partire da un sostrato fortemente figurativo, solca tutte le sezioni de Il gatto lupesco. Se in Alfabeto apocalittico il senso di tragedia sociale investe primariamente il piano dell’espressione, già in Fanerografie si avverte il recupero di una certa ideologia esplicita volta a mostrare al lettore le contraddizioni della società esistente e contemporaneamente ad educarlo a valori alternativi. Non è un caso che tra il 1987 e il 1997 Sanguineti pubblichi più d’un testo critico su questioni gramsciane, in particolar modo a proposito del concetto di egemonia culturale ai tempi della globalizzazione. L’esigenza di educare il lettore a una maggior coscienza ideologica, d’altronde, affonda le radici già negli anni Sessanta, nei saggi di Ideologia e linguaggio e nelle «favole didattiche» (Tibor Wlassics 1974, 1929).

Si è già accennato alla presenza di critica politica nei testi di Fuori catalogo: è il caso innanzitutto di alcune prove quali Vota comunista, Le ceneri di Pasolini e Ballata delle Controverità. I componimenti degli anni Ottanta ripartono proprio da quel potenziale e si condensano sempre più spesso in illustrazioni esemplari di dinamiche o di contraddizioni sociali, in particolar modo mescolandosi alla sperimentazione formale nelle raccolte poetiche d’occasione. La capacità di persuasione di questi testi trova la propria efficacia soprattutto nell’adozione di un impianto figurativo fortemente comunicativo: le otto Ballate raccolte in Senzatitolo, ad esempio, sono vere e proprie allegorie del potere in ogni sua forma, ma si presentano anche come esaltazione materialistica dell’esistenza contro ogni sua falsificazione ideologica. Molto forte è l’influsso teorico e poetico di Bertolt Brecht, che permette di modellare il realismo allegorico innestandolo su di un tessuto altamente icastico; ma altrettanto lo è la lezione dantesca, cui Sanguineti ha dedicato lunghi anni di studi e ricerche. Il punto di riferimento, più che il concetto statico e rigido di «figura», è semmai quello di exemplum, ovvero quel tipo di allegoria morale nato con le origini del cristianesimo e divenuto nel Medioevo strumento di edificazione, che stimola alla riflessione e invita il lettore all’azione. La didattica dei componimenti sanguinetiani agisce dunque attraverso la dimostrazione di alcuni teoremi e la proposta di valori alternativi, utilizzando un lessico e un materiale tematico che appartengono a un altro contesto. Si prenda ad esempio una sola strofa della Ballata del vento:

 

l’apostolo romano vaticano

triplice tiara si sostiene in testa:

all’angelo cornuto fa la festa,

ma muore come muore il sacrestano:

quando ha esaurito tutte le sue preci,

via se ne va con vento forza dieci:

 

Gli endecasillabi dall’andatura favolistica e rattoppata, ma non per questo incomprensibile, trasfigurano il patrimonio iconografico medievale attribuendogli un senso polemico e tendenzioso tutto contemporaneo. Come accade per altri autori del secondo Novecento (si pensi a Pasolini, Edoardo Cacciatore o Nanni Balestrini), la forma lirica e avvolgente per eccellenza viene rifunzionalizzata in vista della protesta sociale e ideologica: ma è proprio la grande comunicabilità del verso poetico a tracciare un affresco etico e a permettere la lettura critica della storia, altrimenti impossibile.

Qualcosa di simile accade anche in Novissimum Testamentum (Manni, 1986), considerato da molti critici come summa del pensiero e della prassi poetica sanguinetiana. Nelle prime strofe l’autore dichiara di rinunciare al mondo e di comporre il poemetto a mo’ di lascito esistenziale. In realtà, la presunta eredità testamentaria rivela ben presto la sua natura beffarda: nessuna verità è regalata al lettore, che riceve al limite l’insegnamento di un modus vivendi critico, ovvero di un metodo di pensiero fondato sulla diffidenza rispetto ai falsi valori dell’assetto sociale vigente. Sanguineti, ancora una volta, promuove un’anti-morale clownesca che ben ha cognizione della miseria in cui versa il mondo:

 

ma non vi lascio che non dico, prima,

quel diabolico detto in storta rima:

ho visto venti e quattro gambe crescere,

in sei stalloni, a uno sgorbio di storpio:

per oro, farsi un ridere di un gemere,

per oro, orrenda orchessa farsi Venere:

e farsi paradiso un cimitero,

e fiasco un fischio, e il falso farsi vero:

 

A parte la trasformazione delle ottave classiche dal sapore epico in un’invettiva tutta carnevalesca e corrosiva, c’è da sottolineare il carattere affatto saltellante degli endecasillabi rimati, pieni di assonanze, allitterazioni, figure del significante, voci gergali, errori sintattici e frasi proverbiali. Il tono che sarebbe più confacente a un testamento poetico (si pensi al Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni) è da Sanguineti scompaginato e trasformato in una «tiritera» cantilenante. Come già notava Filippo Bettini nell’introduzione alla prima edizione del poemetto, ogni elemento retorico è tutto teso a rovesciare il senso del concetto di testamento e ad esprimere l’insufficienza della poesia in un mondo mercificato e ridotto ormai a puro valore di scambio. La costruzione singhiozzante eppure piena di riferimenti coltissimi, a un tempo dissacra l’esistente letterario e informa di rinnovato giudizio etico. Ne viene fuori dunque un anti-testamento spirituale, stoico ed epicureo, condotto attraverso un verseggio basso-popolaresco e mirato a enunciare il senso della vanità dell’esistenza. Probabilmente è questa una delle più incisive risposte poetiche fornite, nell’ultimo ventennio del Novecento, alle presunte previsioni della fine della modernità.

Tutta la produzione successiva alla pubblicazione di Novissimum Testamentum risentirà della tematica testamentaria e si presenterà in qualche modo come «postuma». L’approssimarsi del nuovo millennio è in effetti il tempo della piena maturità: oltre alla pubblicazione di traduzioni, travestimenti teatrali, testi per musica, de Il gatto lupesco e della recentissima antologia poetica personale Mikrokosmos, Sanguineti abbandona nel 2000 l’insegnamento universitario. Il professore-poeta, l’avanguardista accademico, l’eversore inserito nelle istituzioni sente ormai di poter tirare le somme di oltre un cinquantennio di vita e di esperienza poetica, vissuta sempre in modo volutamente contraddittorio, proprio perché è la contraddizione a impedire l’acquiescenza e a generare il pensiero dialettico e antagonista. La produzione sanguinetiana, partendo da premesse avanguardistiche, attraversa in realtà tutte le difficoltà della poesia italiana e, in generale, della comunicazione letteraria del secondo Novecento. I problemi del discorso poetico sanguinetiano sono poi gli stessi della grande modernità. Questo è il motivo per cui appare attesa e imprevista, al tempo stesso, la celebrazione della Neoavanguardia 40 anni dopo, che ha ovviamente il sapore d’un rinnovato e antichissimo testamento:

 

niente rinnego e di tutto mi pento,

me stesso mi sconfesso e mi confermo,

sono ghiaccio bollente e incendio spento:

 

ero un altro, ma identico, a Palermo:

tremulo scoglio al più flebile vento,

vegliardo infante, palestrato infermo:

 

Opere poetiche di Edoardo Sanguineti

L’intera produzione sanguinetiana fino al 2001 è disponibile in due «raccolte di raccolte»: Segnalibro. Poesie (1951-1981), Milano, Feltrinelli, 1982 e Il gatto lupesco. Poesie (1982-2001), Milano, Feltrinelli, 2002. Si rimanda al testo del ritratto critico per il chiarimento delle vicende editoriali e della composizione dei volumi. Ad essi vanno aggiunte le antologie: Opere e introduzione critica, Verona, Anterem, 1993 e Mikrokosmos. Poesie (1951-2004), Milano, Feltrinelli, 2004, che include la sezione di poesie inedite Varie ed eventuali (2001-2004).

Vanno infine segnalate le due celebri antologie collettive che contengono testi di Sanguineti: Alfredo Giuliani (a cura di), I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Torino, Einaudi, 1972 e Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani (a cura di), Gruppo 63. L’antologia, Torino, Testo & Immagine, 2002.

 

Studi critici di carattere generale su Sanguineti

Tra i principali saggi sulla poesia e la poetica, in volume o su rivista, si segnalano: Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, «Il Verri», n. 1, 1962; Alberto Arbasino, Sanguineti-poesie, «Corriere della Sera», 3 agosto 1972; Elisabetta Baccarani, La poesia nel labirinto. Razionalismo e istanza “antiletteraria” nell’opera e nella cultura di Edoardo Sanguineti, Bologna, Il Mulino, 2002; Giorgio Bàrberi Squarotti, La poesia del Novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1985; Renato Barilli, Viaggio al termine della parola. La ricerca intraverbale, Milano, Feltrinelli, 1981; Fausto Curi, Metodo, storia, strutture, Torino, Paravia, 1971, Parodia e Utopia, Napoli, Liguori, 1987 e Struttura del risveglio. Sade, Sanguineti, la modernità letteraria, Bologna, Il Mulino, 1991; Umberto Eco, Notizia su Edoardo Sanguineti, «Il Menabò», n. 5, 1962; Enrico Falqui, Novecento letterario italiano, Firenze, Vallecchi, vol. I, 1973; Gian Carlo Ferretti, Sanguineti, «Rendiconti», nn. 11-12, 1965; Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Torino, Einaudi, 1991; Elio Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Milano, Librex, 1986; Luigi Giordano (a cura di), Sanguineti. Ideologia e linguaggio, Salerno, Metafora, 1991; Niva Lorenzini, Il presente della poesia (1960-1990), Bologna, Il Mulino, 1991 e Poesia del Novecento italiano. Dal secondo dopoguerra a oggi, Roma, Carocci, vol. II, 2002; Romano Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Loescher, vol. II, 1981; Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1996), Roma, Editori Riuniti, 1996; Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1996; Antonio Pietropaoli, Unità e trinità di Edoardo Sanguineti. Poesia e poetica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991 e (a cura di), Per Edoardo Sanguineti: good luck (and look), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002; Silvio Ramat, La pianta della poesia, Firenze, Vallecchi, 1972; Gabriella Sica, Edoardo Sanguineti, Firenze, La Nuova Italia, 1974; Giacinto Spagnoletti, La letteratura italiana del nostro secolo, Milano, Mondadori, vol. III, 1985; Adriano Spatola, Poesia del Novecento, «Quindici», n. 19, 1969; Tibor Wlassics, Edoardo Sanguineti, in Gianni Grana, Letteratura italiana. I contemporanei, Milano, Marzorati, vol. VI, 1974.

Tra le numerose interviste e dichiarazioni poetiche rilasciate da Sanguineti si segnalano in particolare: Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Lerici, 1965; Fabio Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi, Milano, Anabasi, 1993; Giulio Nascimbeni (a cura di), Questa mia poesia si può leggere così, «Corriere d’informazione», giugno 1964; Edoardo Sanguineti, Per chi si scrive un romanzo, per chi si scrive una poesia, «Rinascita», 5 gennaio 1968.

 

Studi critici su aspetti specifici dell’opera sanguinetiana

Sui rapporti con la Neoavanguardia: Luciano Anceschi, Di un’antologia impaziente, «Il Verri», nn. 33-34, 1970; Alberto Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia, 1973; Renato Barilli e Angelo Guglielmi (a cura di), Gruppo 63. Critica e teoria, Torino, Testo & Immagine, 2003; Michel David, L’ultima generazione: sperimentali “novi” e “novissimi”, in La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1966; Roberto Esposito, Le ideologie della Neoavanguardia, Napoli, Liguori, 1976; Angelo Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964; Guido Guglielmi, Controrealismo dei Novissimi, «Rendiconti», nn. 4-5-6, 1962; Niva Lorenzini, Eliot e i “Novissimi”, «Nuova Corrente», n. 103, 1989; Massimiliano Manganelli, Lo spettro del surrealismo: Sanguineti e l’avanguardia storica, «Avanguardia», n. 6, 1997; Pier Paolo Pasolini, Il neosperimentalismo, «Officina», n. 5, 1956; Giovanni Raboni, A proposito dei Novissimi, «Aut aut», n. 65, 1961; Walter Siti, Il realismo dell’avanguardia, Torino, Einaudi, 1975; Ciro Vitiello, Teoria e tecnica dell’avanguardia, Milano, Mursia, 1984; Andrea Zanzotto, I Novissimi, «Comunità», n. 99, 1962.

Sulle raccolte poetiche incluse in Catamerone (1951-1971): Cecilia Bello, Il realismo di Purgatorio de l’Inferno, «Avanguardia», n. 1, 1996; Lidia Bertolini, Memoria del viaggio dantesco agl’Inferi in Pasolini e in Sanguineti, «Letteratura italiana contemporanea», n. 23, 1988; Giuseppe Cavatorta, Dall’Hermaphrodito al Laborintus: lasciti saviniani alla poesia della Neoavanguardia, «Studi novecenteschi», n. 58, 1999; Fausto Curi, Ordine e disordine, Milano, Feltrinelli, 1965 e La forma, l’informe, il deforme, «Lingua e stile», n. 3, 1973; Guido Davico Bonino, Con Sanguineti dentro il caos, «La Stampa», 12 maggio 1972; Costanzo Di Girolamo, Wirrwarr, «Belfagor», n. 4, 1972; Elio Gioanola, Psicanalisi, ermeneutica e letteratura, Milano, Mursia, 1991; Stefano Giovanardi, Di alcuni inserti ritmici nella poesia di Edoardo Sanguineti, «Quaderni di critica», n. 1, 1973; Alfredo Giuliani, Laborintus, in Immagini e maniere, Milano, Feltrinelli, 1965; Guido Guglielmi, Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974; Armando La Torre, Letteratura e comunicazione, Roma, Bulzoni, 1971; Francesco Leonetti, Un’analisi semantica: Sanguineti, «Paragone», n. 124, 1960; Niva Lorenzini, L’“effettuale ragione pratica” della poesia nel “Catamerone” di Sanguineti, in Il laboratorio della poesia, Roma, Bulzoni, 1978; Pier Paolo Pasolini, Recensione a Sanguineti, «Il Punto», 22 dicembre 1956; Walter Pedullà, Edoardo Sanguineti. La poesia verso la prosa, in La letteratura del benessere, Roma, Bulzoni, 1963; Silvio Ramat, Recensione a “Triperuno”, «La Nazione», 5 gennaio 1965; Erminio Risso, Un nuovo fabbro per nuove questioni di fabbricazione. Cinque bagattelle per Laborintus, «Poetiche», n. 1, 2000; Luciana Rogozinski, Un poeta sotto l’intonaco: “Reisebilder” di Sanguineti, «Altri termini», n. 11, 1976; Amelia Rosselli, Recensione a “Wirrwarr”, «Il Verri», n. 1, 1973; Giovanni Sechi, Il risultato differito dell’opera letteraria. (In margine a una lettura non sistematica della poesia di Edoardo Sanguineti), «Nuova corrente», n. 70, 1976.

Sulle opere poetiche successive (1972-2001): Epifanio Ajello, Le cartoline di Sanguineti, «Allegoria», n. 38, 2001; Filippo Bettini, La “scrittura materialistica” di Edoardo Sanguineti, «L’ombra d’Argo», nn. 1-2, 1983; Raffaele Cavalluzzi, Corollari di Sanguineti, «Critica letteraria», n. 108, 2000; Fabio Gambaro, Continuità e discontinuità nella poesia di Sanguineti: il caso di Novissimum Testamentum, «Testuale», n. 7, 1987; Niva Lorenzini, Scartabellando Sanguineti: anatomia di una scrittura mise à nu, «Il Verri», nn. 26-27, 1982; Antonio Pietropaoli, Sanguineti Angelus Novissimus, «Lingua e stile», n. 2, 1995; Corrado Ruggiero, L’ultimo Sanguineti, «Problemi», n. 60, 1981; Vittorio Spinazzola, “Bisbidis”, il mormorio dell’esistenza, «Autografo», n. 17, 1989; Luigi Weber, Traducendo Pascoli: la passeggiata “novissima” di Edoardo Sanguineti, «Poetiche», n. 1, 2000.

 

Notizie biobibliografiche relative a Angelo Petrella.  

Angelo Petrella è nato a Napoli nel 1978, dove vive. Scrittore, poeta, traduttore e sceneggiatore, ha studiato presso le università di Roma, Parigi e Siena, conseguendo un dottorato di ricerca in letteratura italiana. Si è occupato dell’opera di Pirandello, della poesia delle neoavanguardie e del postmoderno, pubblicando saggi in riviste e volumi collettivi. Suo è il volume “Gruppo 93. L’antologia poetica” (Zona 2010). Come narratore ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi “Cane rabbioso” (Meridiano zero 2006), “La città perfetta” (Garzanti 2008) e “Pompei. L’incubo e il risveglio” (Rizzoli 2014). Le sue poesie sono raccolte in “Vogliamo niente e lo vogliamo adesso!” (Zona 2015). Ha collaborato con giornali e riviste quali Vanity Fair, Il Mattino e la Repubblica. Nel giugno 2017 uscirà per Baldini&Castoldi il suo nuovo romanzo, la spy-story internazionale “Operazione Levante”.

Bob Dylan non esiste. Tradizione popolare e anonimato dal folk al social network.

2

di Francesca Palazzi Arduini

Il 13 ottobre Bob Dylan viene eletto Nobel 2016 per la letteratura. Le motivazioni lo descrivono come “un grande poeta nella tradizione della lingua inglese” ed un “artista che ha creato una nuova poetica nella grande tradizione della canzone Americana”
La cerimonia si svolge il 10 dicembre, Patti Smith accetta di essere presente al suo posto. La Smith rimedia al trambusto creato dal diniego di Dylan, con vaghe motivazioni, al ritirare il Nobel di persona.
Scrive Patty Smith circa la sua decisione di esserci e cantare il brano di Dylan “ A hard rain’s a-gonna fall. “: “l’ho scelta perché combina la sua maestria di linguaggio alla Rimbaud con una profonda comprensione delle motivazioni che stanno dietro la sofferenza e la resilienza umana“.
Una canzone da sempre considerata antimilitarista viene quindi presentata all’agiato pubblico di Stoccolma  per volontà dell’inventore della dinamite. Accompagnata da parole che sottolineano il senso della vicinanza di un poeta alla gente comune, quella che pratica la “resilienza”, termine che potremmo definire prosaicamente come l’arte di sopravvivere ai soprusi e alle guerre, e andare avanti.
E’ simbolico che pochi giorni prima del successo di Trump negli Stati Uniti, il Nobel venga assegnato a un artista considerato idolo del movimento pacifista statunitense. Ma cosa è la “vicinanza” tra un artista e un movimento? Nel caso di Dylan non abbiamo, come ad esempio per la Baez o anche per Lennon ed altri, un coinvolgimento palese, bensì la grande corrispondenza delle sue parole con la realtà vissuta in quegli anni, sia da coloro che facevano scelte pacifiste evidenti che da quelli che semplicemente pensavano che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’aria…perlomeno se diventava radioattiva. In “A hard rain’s a-gonna fall” Dylan dice di aver riversato l’angoscia per la crisi Usa-Cuba, ma non ha mai affermato che la “dura pioggia” significasse il Fall-out. La pioggia che cade può essere quella del blues, che bagna le schiene dei lavoratori nei campi, “quando piove sui poveri piovono pietre”.
Nella sua lettera indirizzata alla platea del Nobel, attraverso una serie di ripetizioni, quasi fossero il ritornello di una canzone, Dylan fa capire che il suo non è il mestiere dello scrittore, che la sua arte, come quella del teatro elisabettiano, usa “parole scritte per il palco. Destinate ad essere recitate, non lette.”
Poi, mentre esprime modestia mandando a dire che lui non si sente alla pari degli scrittori che hanno ricevuto il Nobel (cita Kipling, Shaw, Thomas Mann, Pearl Buck, Albert Camus, Hemingway), si paragona a Shakespeare ed al suo tempo, scrivendo di avere le sue stesse preoccupazioni, quando sale sul palco, ad esempio le questioni pratiche della messa in scena: “Ci sono abbastanza buoni posti a sedere per i miei finanziatori?” “Dove posso procurarmi un cranio umano?”.
L’insistenza con cui Dylan, nella sua lettera, parla di Shakespeare, mi ha fatto pensare al teatro popolare inglese, quello in cui nobili e popolino assistevano alle stesse storie, e mi ha convinto non solo del valore simbolico dell’assenza di Dylan dal palco del Nobel, per qualsiasi motivo l’abbia scelta. La sua assenza era simbolo di qualcosa di altro, un messaggio inconsapevole, un non detto, ma di cosa?
Leggendo le affermazioni di Dylan, nella lettera al Nobel, sul modo in cui un artista percepisce il pubblico, ho ricordato finalmente un saggio incompiuto di Virginia Woolf, l’ultimo scritto che ha lasciato. Si tratta di “Anon” (1), abbreviazione di Anonymous ma anche avverbio che significa fra poco, subito, qualcosa che mescola l’essere anonimi al senso della fruizione immediata, qualcosa che arriva presto per poi svanire, nella folla, tra il vociare, tra una strada e una piazza.
Scrive la Woolf :”Fu l’invenzione della stampa a uccidere infine Anon. Eppure fu proprio la stampa a salvarlo dall’oblio. Quando, nel 1477, Caxton pubblicò i ventuno libri della Morte D’Arthur, fissò la voce di Anon per sempre. Da là attingiamo la riserva di credenze comuni depositata in profondità nelle menti dei nobili e dei contadini”.
Un sentire comune al di là del ceto sociale, nei canti che si sentivano ovunque “nelle ballate, nelle chiacchere da taverna, alla porta di servizio”, che iniziava a differenziarsi solo allora e che usufruiva di pubblico ristretto, spesso casuale.
Pubblico casuale e dalle diverse identità, così come per Dylan le ballate tradizionali degli Usa sono differenti se cantate al pubblico di un grande concerto o in un pub: “Come artista ho suonato per cinquantamila persone e ho suonato per cinquanta persone, e vi posso dire che è più difficile suonare davanti a cinquanta persone. Cinquantamila persone hanno un’unica identità, a differenza di cinquanta spettatori.”
Anche la Woolf sottolinea come il mestiere di Anon fosse quello di cantore per pochi, perché cantava nei sobborghi, “per i braccianti e le domestiche, nel rozzo gergo della lingua nativa”, o sul retro delle case. Ciò che cantava veniva ricordato, e cantato sua volta, il nome dell’autore originario non era importante. Restava quel modo del canto popolare, per cui “tutti contribuivano alla sua storia”, così come nel blues.
Dylan ripropone, con la sua assenza alla premiazione e forse senza volerlo, l’anonimità e invisibilità del menestrello, o dell’oscuro ideatore di uno standard folk, l’uomo con la fisarmonica a bocca o la chitarra, o ambedue, che sparisce dietro l’angolo del mercato rionale dopo aver dato spettacolo.
La storia del movimento pacifista, beat, studentesco degli anni ’60 e ’70 americani si intesse col successo di Dylan ricordandoci però che “tradizione musicale” significa musica fornita solo della capacità di replicarsi nella fantasia della gente per i propri bisogni espressivi.
La tradizione musicale popolare si rompe quindi col successo pop, inteso come popolarità, perché si separa dal racconto di una storia reale: altrimenti la gente ricorderebbe, ad esempio, il nome di Bill Haley & His Comets, autori della famosa “Rock Around the clock”, nel 1954. Vendettero 30 milioni di copie…ben più di quelle di Dylan, ma il loro successo musicale e commerciale non si basava sul racconto di una “storia” ma sulla comunicazione e vendita di un ritmo, è sensazionale ciò che resta una sensazione.
Joan Baez ha cantato durante le presidenziali 2016, a un comizio per Bernie Sanders a San Jose, la canzone di Bob Dylan “The Times They Are A-Changing”, riaffermando ciò che Peter Dreier scrive sull’Huffington Post nel suo “The Political Bob Dylan”: “L’impegno politico off-and-on di Dylan con la politica è intrigante. Ma le sue canzoni di pace e giustizia hanno avuto una loro propria vita. “Blowin ‘in the Wind” e “The Times They Are A-Changin'”, in particolare, saranno sempre legate ai movimenti progressisti degli anni 1960 e utilizzate per radunare la gente a protestare per un mondo migliore.”
Dreier ricorda che già in passato Dylan aveva avuto difficoltà ad accettare premi per il suo lavoro. Nel 1963 al Tom Paine Award, stupì una folla di “1400 tra liberal e radicali nella hall” consigliando loro di togliersi di lì ed andare in spiaggia. Concludendo poi un discorso alticcio contro la politica: “There’s no black and white, left and right, to me anymore. There’s only up and down, and down is very close to the ground. And I’m trying to go up without thinking about anything trivial, such as politics.”
Questo essere “su o giù”, è un’altra intuizione poetica e pragmatica oppure l’ammissione di aver perduto ogni interesse diverso da quello per il benessere personale? E’ una intuizione dello spirito popolare più basico tanto da sembrare populista, quel guardare ai risultati, oppure una chiusura nella sfera personale?
Comunque sia, anche il lavoro seguente di Dylan non smentisce la sua sensibilità per tematiche popolari, operaie, per le storie del proletariato del blues, per l’antirazzismo e tutti gli argomenti sensibili dei movimenti di protesta. Scrive Dreier: “Anche dopo il 1964, Dylan ha rivelato il suo tocco per le canzoni politiche. Il brano del 1965 “Subterranean Homesick Blues” fa riferimento alla violenza della polizia sui manifestanti per i diritti civili ( “Meglio stare lontano da quelli / che portano in giro una manichetta antincendio”), ma riflette anche il suo cinismo crescente (“Non seguire i leader / guarda il parchimetro “). L’ala estrema degli Students for a Democratic Society ha preso nome ,Weatherman, da una frase di quella canzone (“Non hai bisogno di un meteorologo per capire da che parte soffia il vento”). Altre canzoni, sino a “Licenza di uccidere” (1983), e “Clean Cut Kid” (1984) indicano che Dylan aveva ancora capacità di indignazione politica.”
Nel luglio del 1963 la canzone “Blowin ‘in the Wind” ha raggiunto il milione di copie vendute, e in quell’agosto Dylan canta alla marcia su Washington che vede Martin Luther King pronunciare il suo discorso più famoso, “I have a Dream”. Ma la popolarità di Dylan come artista, quella che lo ha condotto, suo malgrado, al Nobel, consiste principalmente nel suo ininterrotto lavoro di interpretazione della poetica popolare americana.
In questo discorso su Anon, sulla voce popolare, scrive Virginia Woolf: “Il drammaturgo anonimo è irresponsabile”, la sua è saggezza pre-politica, al contempo basilare e irriverente verso ogni forma di strutturazione formale, e Dylan ha avuto la fortuna di reinterpretare lo spirito della canzone popolare in un’epoca in cui ancora la frammentazione e distrazione di massa consentiva di convogliare questi contenuti in grandi fruizioni di massa, attraverso il passa-parola, attraverso grandi manifestazioni. Oggi, momento in cui paradossalmente i mezzi di comunicazione sociale consentirebbero maggiore coesione, l’offerta di una miriade di contenuti differenziati per classe sociale e livello di sofisticazione difficilmente potrebbe riproporre la creazione di sintesi artistiche così coinvolgenti, al contempo riprendendo un fraseggio tradizionale.
Certo abbiamo un certo tipo di Rap, anche italiano, che riprende e ricrea strofe popolari, abbiamo giovani tramandatori di canzoni di lotta, ricercatori di canti e ripetitori di storie. Ma quanto sofisticati sono, e quanto ci riconosciamo nei loro ritornelli?
Ma se la consapevolezza non aveva ancora levato il suo specchio, quegli uomini e quelle donne siamo noi, visti senza prospettiva; allungati, di scorcio, comunque molto vecchi, consapevoli di tutto il bene e tutto il male possibili. …questo è il mondo che sta al di sotto della nostra coscienza; il mondo anonimo a cui possiamo ritornare ancora”. Sembra quasi che la Woolf voglia tornare indietro nel suo percorso di scrittrice raffinata e pioniera, tornare alla ricerca di qualcosa di comune a tutti. Lei, che ha scritto con “la sottigliezza solitaria di un’unica anima” su tematiche profetiche, scrive “Anon” per cercare di capire come sia possibile, in quegli anni di ascesa del nazismo (che proprio mentre lei scriveva minacciava di invadere anche l’Inghilterra) tornare a far cantare la voce di tutti non i canti di guerra ma le sue rime di resistenza civile, come quelle che  farà rivivere nel suo “V per vendetta” negli anni Ottanta.
Proprio quel “V” che rivive, isolato e anonimo ma capace di ispirare le masse, con la sua maschera disegnata da David Lloyd che diverrà poi un logo nel raffinato network degli hacker di Anonymous.(2)
Anon cerca di riaffiorare tra i fasti della società dell’informazione, quella in cui ciò che è popolare si conta solo, giorno dopo giorno, nelle statistiche, e le individualità umane, abitanti più nei luoghi virtuali che nei luoghi reali, quelli dove si cantava senza un palcoscenico, fluiscono nella scellerata convinzione di poter essere tutte protagoniste.
L’anonimità è quella che ci dà la forza di avere libertà di parola anche in situazioni d’oppressione, è quella che ci consente di unire i nostri sforzi per una causa comune senza volere fama o potere in cambio, ma è anche la perdita della memoria, della conoscenza del percorso che ha fatto un “meme” per giungere a noi ed essere reinterpretato, e la perdita di memoria fa perdere anche la direzione.
Se pensiamo all’oggi, in termini di “meme”, cioè di significato o comportamento tramandabile, potremmo usare, come scrive il suo teorico, il biologo Richard Dawkins, questo metro di giudizio per definirne l’importanza di una canzone, contare quante persone la fischiettano per strada. Oggi invece si usano le visite a Youtube per valutare la popolarità di una canzone, anche nel tempo. Il tormentone “Gangnam Style”, ad esempio, uscito nel luglio 2012 è giunto in 158 giorni ad un miliardo di visualizzazioni: ed oggi è oltre i due miliardi e mezzo. La popolarità però subisce nel tempo uno sgonfiamento, e di certo sono ben poche le persone che oltre alla musica ricordano il ritornello. Passando a quest’ultimo, dubito che il testo, definito dagli estimatori del rapper coreano Psy “satirico”, possa essere considerato più che una descrizione salace, e sessista, del nuovo modello di vita “all’americana” dei giovani coreani ricchi del quartiere di Gangnam: “Ehi, Sexy Lady, Oppa è lo stile di Gangnam Hey Sexy Lady-oh oh oh oh”. Il rapper, nota bene, è lo stesso che cantava “Uccidete quei maledetti yankee che hanno torturato i prigionieri iracheni / Uccidete quei maledetti yankee che hanno ordinato le torture / Uccidete le loro figlie, le loro madri, le loro nuore, i loro patri / Lasciateli morire una morte lenta e dolorosa”. Se questo è linguaggio popolare, diciamo che siamo molto lontani da quello di Anon, dal blues, dal folk e più vicini alle canzonette da branco.
La semplicità delle parole di una canzone infarcita di riferimenti ai movimenti culturali e politici, come “Give Peace a Chance”, ci ricorda che è possibile restare nel tempo e replicare un’idea al di là di tutti gli –ismi, formalismi logorroici dei nuovi idoli popolari.
Mentre tutti “parlano”, qualcuno “chiede”.
Ev’rybody’s talking about /Revolution,/evolution,/masturbation,/flagellation, regulation, integrations,/meditations, United Nations,/Congratulations./All we are saying is give peace a chance”.
Proprio dal fare domande si sviluppa lo standard usato da Dylan in Una dura pioggia cadrà: dove sei stato, cosa hai visto, cosa farai?
La visione “morale” di una umanità fondamentalmente saggia, è quella che è giunta sino alla Smith: “I awakened to the cry /that the people have the power/ to redeem the work of fools/ upon the meek the graces shower/it’s decreed the people rule” (People have the Power, 1988). Una visione satirica ma ambigua, della brama di notorietà e potere è quella che ci martella oggi dai social network, come il testo di Fabio Rovazzi infarcito di non-sense,: “Col trattore in tangenziale /Andiamo a comandare/ Scatto foto col mio cane/ Andiamo a comandare /In ciabatte nel locale /Andiamo a comandare/Sboccio acqua minerale…”, quasi 118 milioni di visualizzazioni ad oggi. Oltre 69 milioni di visualizzazioni su Youtube per lo stesso Rovazzi che canta alla sua fidanzata (ovviamente bionda e carina) “il c***o che me ne frega”, canzonetta dal ritmo accattivante che, con la sua satira sui selfie e sui call center, ammanta di parvenze anticonformiste e anti-mainstream musicale la propria stessa essenza di trastullo. Non è un caso che Rovazzi ci sia poi rimasto male quando il leader della Lega Nord si è esibito in una versione leggermente ritoccata del suo Hit, del resto già la politica ‘mainstream’ aveva già attinto dalla classifica per i suoi riti (3). Forse in futuro qualcuno penserà che Dylan è stato creato in video, e non è mai esistito, magari è per questo che non era a Stoccolma, e la risposta vola nel vento.

*

(1) ANON, Virginia Woolf, saggio incompiuto, 1941. Ultima edizione italiana, Nuova editrice Berti, Piacenza 2015.

(2) “We do not forgive.” Non perdoniamo. Recita il gruppo nella sua presentazione.

(3) Il PD ha invece usato “Canzone popolare” di Fossati, Renzi “Mi fido di te” di Jovanotti, Bersani “Inno” di Gianna Nannini. Il testo di Jovanotti non ha portato bene al leader delle scommesse: “Forse fa male eppure mi va/Di stare collegato/Di vivere di un fiato/Di stendermi sopra al burrone/Di guardare giù/La vertigine non è/Paura di cadere
/Ma voglia di volare”.

*

La punizione

2

di Gian Piero Fiorillo

La sorella s’è tolta il cilicio!

Oh! la sorella. S’è tolta il cilicio.

Come se un folle si togliesse la camicia di forza!

Prendetela, ordinò la Madre.

 

La sorella senza cilicio correva leggera per i corridoi le stanze e il chiostro di quel convento che conosceva bene. Aprì una porta e fu nell’orto del contadino Ezechiele, scese pochi gradini ed eccola in un sottoscala senza pareti, coperto da fronde di palma, dove si poteva giocare a nascondino. Ma le inseguitrici erano tante e la presero. Sentì mani che la afferravano e frugavano sotto le vesti. Sentì che erano avide, ansiose. Percepì gli odori della clausura e gli affanni della rincorsa. Si lasciò andare alla tentazione del gioco, rise. Venne punita personalmente dalla Madre ai piedi dell’Altare. Pianse di dolore, non di pentimento. Pianse perché non riusciva a pentirsi. Pianse sentendosi lasciata sola a subire il flagello. Chi avrà cura della tua anima, serva di Satana? disse la Madre quando si stancò di colpirla. Lei tornò in ginocchio fino alla cella, trascinando il residuo di vita dolorosa risparmiato dalla punizione. Cercò di dare sollievo al corpo martoriato lavandolo con acqua fredda e si abbandonò alla preghiera. La notte stessa la sua Anima fuggì nel bosco, sotto una pioggia battente che non la disturbò. Incontrò altre anime fuggitive e cantò col respiro del vento. Il corpo rimase nel monastero senza parlare, senza nutrirsi, senza mai alzare lo sguardo da terra, in nessuna circostanza. Lo fa per umiltà, dicevano le sorelle. Lo fa per superbia, disse la Madre. Diventò irriconoscibile. Cadde davanti all’Altare dopo la funzione serale del Venerdì Santo e le ferite ripresero a sanguinare.

 

L’esorcista rimase sconcertato. È pura materia semovente, sospirò. Argilla senza principio. Il medico non riconobbe i segni di nessuna  delle trecentosessantacinque malattie mentali classificate. È un caso unico di vivente senza psichismo, sentenziò. Tutti gli psichiatri interpellati confermarono le sue parole. La Madre era molto agitata. Già diverse sorelle avevano abbandonato il monastero credendolo infestato dal maligno, e prima o poi avrebbero parlato con qualcuno. Interpellò un professore di fisica, restando però sul vago e avventurandosi in disquisizioni astratte. Chiese se potessero esserci energie ignote capaci di muovere funzionalmente un organismo senza l’intervento dello spirito e della volontà. Credendo si trattasse di un avvicinamento alla scienza da parte di quella donna austera e retriva, il fisico la ascoltò con interesse. Più, però, per l’inattesa svolta psicologica della religiosa che per gli argomenti in questione. Si divertì molto a inventarsi scrutatore di labirinti mentali, ma fu il solo a trovare dilettevole quel colloquio chiasmatico. “La forza di cui mi parla, Madre, non può essere che Dio.” “Non intendo quello” si urtò la Madre e mise fine alla disquisizione lasciando di stucco lo scienziato.

 

Vedendola tormentata, le sorelle rimaste cercarono di portarle conforto: Sia fatta la volontà del Signore, dissero. Qui si farà la sola volontà che conta, cioè la mia! se ne uscì lei al colmo dell’esasperazione. Subito dopo, rendendosi conto della somma blasfemia di quelle parole, si ritirò in preghiera. Trovò la sorella senza cilicio inginocchiata davanti all’Altare, immobile. Dal profilo della tunica si poteva indovinare che aveva lo sguardo rivolto a terra come al solito. La Madre non osò avvicinarsi. Ad onta di un innato senso pratico si era lasciata andare ultimamente a congetture superstiziose sulla consorella e ne aveva paura. Si inginocchiò sul lato opposto dell’altare e chiese al Signore la grazia della preghiera. Una preghiera sentita, non rituale: Fa’ che venga dal profondo.

 

Forse Dio la esaudì. Per la prima volta dopo lunghi decenni rivide la ragazza che era stata, libera ancora dalle costrizioni dell’abito. Correva sulla spiaggia e nuotava nell’acqua del mare. Si addormentava sfinita vicino ai genitori. Ebbe allora curiosità di se stessa. Provò a immaginarsi nuda. Adesso, da vecchia. In fondo non si conosceva. I lavacri quotidiani si svolgevano pezzo per pezzo nella più certa ignoranza delle fattezze corporee. Sentì il desiderio di un bagno. Sentì il corpo non come un nemico ma come un parte di sé.

 

Scattò in piedi. Fantasie, disse, nient’altro che fantasie del demonio. Corse nel suo ufficio, cadde spossata su una poltrona. Respirava a fatica. Prese un mazzetto di fogli bianchi, su ognuno di essi ripeté più volte le stesse frasi: Sono posseduta, il demonio mi regala immagini e voglie. Sono la sua seconda vittima. Quello che accadrà stanotte sarà frutto della sua azione e della mia resistenza. Lotterò perché nessun’altra, dopo me e la nostra sorella perduta, venga arsa dalla voracità del male. Questo luogo sarà redento.

 

La mattina dopo il suo corpo carbonizzato giaceva nell’androne principale, fra la cappella e il refettorio. Nessuno aveva sentito nulla e nessuno, neppure dopo le indagini dei magistrati e le perizie tecniche, fu in grado di ricostruire la dinamica dell’incidente. Seguirono anni di sospetti,  insinuazioni, ricerche. Infine il caso venne archiviato insieme alla vicenda della sorella senza cilicio, scomparsa la stessa notte.

 

È rimasto solo l’abito

Cantarono le sorelle

Abitato dal Buio

Domani riprenderà il cammino

 

 

gpf,

nelle notti insonni di febbraio 2017

 

 

 

Note Movie: Indivisibili

0

di

Francesca Bianchi

( Francesca mi aveva parlato di questo film in modo entusiasta. Raramente l’entusiasmo è foriero di sviste e infatti quando sono andato a vederlo ho provato le stesse emozioni. Poiché lei scrive divinamente di cinema, le ho chiesto di mandarmi la sua “nota” pubblicata sul Blog de Zazie da lei curato e dedicato per lo più al cinema. effeffe)

C’è speranza per il cinema italiano?

A giudicare da alcuni film usciti l’anno scorso nelle sale, si direbbe proprio di sì.
Sorrentino e Garrone a parte, cominciano a spuntare qua e là – finalmente – nuovi tipi di film, nuove storie, nuove facce di attori, nuovi generi. Qualcuno comincia ad avere meno paura, qualche produttore più coraggioso si fa avanti per mettere dei soldi in opere tutt’altro che scontate. Speriamo solo che il pubblico segua questa bella tendenza e riempia un po’ le sale, dando coraggio a questa sorta di nouvelle vague nostrana.
Giovedì scorso sono stata al Cinéma Arlequin per la presentazione di una rassegna di film italiani: De Rome à Paris, Le Cinéma italien rencontre le cinéma français, che in quattro giorni ha permesso al pubblico francese di vedere dei nuovi film italiani per ora totalmente inediti da queste parti.

Il primo film della rassegna era un’opera di cui avevo sentito moltissimo parlare e che ero molto curiosa di vedere: Indivisibili, di Edoardo De Angelis.
E ho dovuto constatare, con gioia estrema, che è stato superiore a qualsiasi mia aspettativa (vedi post precedente).

Dasy e Viola sono due gemelle siamesi di 18 anni che vivono nella orrenda no man’s land tra Napoli e Caserta. Si guadagnano da vivere cantando a feste patronali, matrimoni e altre manifestazioni procurate dal padre, loro manager ufficiale, particolarmente dotato per sperperare quello che le ragazze guadagnano al gioco, aiutato dalla madre, una ex prostituta che passa il tempo a bere e farsi canne. Quando, per caso, le ragazze incontrano un medico che le assicura del fatto che ci sono le condizioni fisiche per poterle separare, Dasy inizia a scalpitare per riuscire a fare l’operazione. Osteggiata dal padre e dalla madre, che vedrebbero sfumare la loro fonte di guadagno, e in un primo tempo anche dalla sorella gemella che ha paura della separazione, la ragazza farà di tutto per arrivare a conquistare la sua “libertà”.

Ingiustamente escluso dalla competizione ufficiale dell’ultimo Festival di Venezia (ma come è stato possibile??!), ed in compenso reclamato nei più importanti festival in giro per il mondo, come quello di Toronto, Indivisibili è un’opera straordinaria per la storia che racconta, per come la racconta e per la bravura di tutti i suoi attori, con menzione speciale alle due gemelle Angela e Marianna Fontana, al loro primo ma si spera non ultimo film e ad Antonia Truppo, ormai una certezza.
Girato con mano santa da Edoardo De Angelis (alla sua terza prova di regia), ha il dono di mostrare una realtà terribile e crudele con una leggerezza di tocco che la rende ancora più insopportabile da guardare. La camera segue con uno sguardo quasi innocente i paesaggi post-atomici (quando e chi ha permesso di ridurre il paesaggio ad un tale orrore?), i preti che cantano e si arricchiscono alle spalle della povera gente, i genitori ignoranti, ottusi e senza scrupoli, la bruttezza delle case piene di oggetti inutili, le comunioni faraoniche per bimbette obese vestite da principesse, e la vita in simbiosi di Dasy e Viola, il loro farsi forza a vicenda di fronte all’orrore, il loro conflitto interiore quando una delle due vuole viaggiare, vedere il mondo e fare l’amore, possibilmente senza la sorella attaccata a lei.
Il ritmo è incalzante e la storia a tratti inquietante, ma non mancano sprazzi meravigliosi di ironia partenopea, che danno il giusto respiro al tutto.

Insomma Indivisibili è un film che il resto del mondo ci dovrebbe invidiare.
Spero che la Francia decida di comprarlo e distribuirlo e, lo so che in Italia è uscito lo scorso autunno, ma se a qualcuno venisse voglia di recuperarlo in DVD, sarebbe proprio una gran cosa.
Italy’s got talent, lo sapevate?

Destino volle

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di Gabriele Drago

destinovolle_web

Sono incastrato tra i corpi del mattino. Tengo il mento in alto per non alitare su questo sconosciuto che sto abbracciando come fosse mio padre, ma cedo fino ad appoggiare la mia guancia sulle sue spalle. Non si accorge del peso della mia testa. Io invece sento una signora anziana che spreme i suoi grossi seni sulla mia schiena. La punta di una borsa mi sta scavando le costole. Due grandi narici nere pendono sul mio orecchio insufflandomi aria calda a intermittenza.

Cerco in tutti i modi di sottrarmi all’incastro ma ogni azione è annichilita da questo blocco umano che mi nega e mi ingloba. Resistere, spingere, trovare anfratti liberi non serve a nulla. Perciò mi rassegno. Rimango sdraiato sulle spalle dell’uomo e guardo fuori dai finestrini, nella città. Vedo scorrere le macchine, i monumenti, le persone libere di muoversi nell’aria fresca del giorno che a grandi falcate attraversano le strade ampie, che girano per le piazze, che cambiano direzione, che allargano le braccia, mentre io, con il torace costretto, inalo l’aria già respirata che ristagna nel tram.

Penso che l’unica cosa da fare è aspettare che qualcuno scenda, riporre negli altri, come ho sempre fatto, la possibilità di essere libero. E intanto continuare a lamentarmi per far capire a tutti che comunque anch’io sto soffrendo, che siamo sulla stessa barca, sullo stesso tram, che possiamo considerarci vittime e morire asfissiati ma senza colpa.

Alle fermate non scende nessuno. Sembra che il tram giri a vuoto e quando si blocca guasto sulle rotaie, l’immagine di un mondo ossigenato al quale mi sto avidamente aggrappando scompare definitivamente sotto i colpi degli eventi. Le porte a soffietto, agitate da una ossessione compulsiva, si aprono e chiudono per pochi millimetri fino a serrarsi definitivamente. Là fuori, la città libera si dissolve dietro i vetri appannati e una luce filtrata cala su noi come un gas mortifero.

Stiamo tutti in silenzio ad attendere che il tram riprenda la corsa.

Uno scossone ci sorprende e ci fa sguazzare compatti come un piede in una scarpa larga. Si riaccendono i motori. Pochi metri, nulla. Anche i rumori di una possibile ripresa delle attività si spengono.

Tutto intorno diventa unto. Dal giubbotto di pelle sul quale la mia faccia è spalmata vedo trasudare una patina vischiosa. Alzo la guancia. Piccole placche nere come grafite, sedimentate tra le rughe del cuoio, mi si incollano sul viso. Nessuno si lamenta o cerca di ribellarsi alla tenaglia dei corpi. Tranne me che ho la nausea, e più cerco di ostacolare le cose più queste si fanno grandi e insormontabili.

La situazione si impone come un tiranno. Bisogna sperare nell’arrivo di un tecnico e penso che sia benedetto il giorno in cui non avremo più speranze perché le nostre vite saranno perfette.

Quando al secondo scossone una punta di ombrello si incastrata dentro la mia scarpa, asportandomi dal piede un lembo quadrato di pelle, capisco che qualcosa ancora può esser fatto e che l’unico modo per imprimere la mia volontà al destino è volere ciò che lui vuole. E allora dico si. Si, al piede che brucia insanguinato. Si alle tette enormi che porto sulla schiena, voglio che mi schiaccino per terra queste sacche di grasso. Si alla borsa che mi scava le costole, voglio che mi perfori come la lancia di Longino. Si al fiato che mi scalda l’orecchio come fa il bue col bambinello, arrostiscimi la staffa e il timpano. Voglio sprofondare la mia faccia nelle spalle di questo uomo e premere la fronte tra le sue scapole, scavargli sotto la cervicale, strisciargli il naso sulla pelle e dargli delle testate per aprirmi varchi nella sua gabbia toracica. Che’ se alla macchina lanciata in corsa si rompono i freni io accelero, e non si dica che destino volle ma sia io ad aver voluto schiantarmi. Perché sono il padrone degli eventi e la mia ragione farà ragionevole questa massa informe che mi sovrasta.

Quando riapro gli occhi sto penzolando nell’aria dentro al tram vuoto. È un relitto arrugginito dai finestrini sfondati, una scatola di latta nuda e senza porte. C’è puzza di piscio. Il mio materasso sottile e sporco giace sotto i due sedili rimasti. Scendo in un deserto con altre carcasse di tram sparse per chilometri. Mi guardo in uno specchietto retrovisore opaco di terra e scopro di essere vecchio. Un dolore mi sfonda lo stomaco. Ho fame e mi chiedo se è questo ciò che ho voluto.

  • disegno di Serena Schianaia

Virtuale e Reale, virtuale è reale. Intervista a Giuliana Altamura

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copertina OdSdi Francesca Fiorletta

Da poco edito da Marsilio, “L’orizzonte della scomparsa” è l’ultimo romanzo di Giuliana Altamura, che affronta un tema spinoso e quanto mai attuale: le derive del mondo del web.

Ho fatto qualche domanda all’autrice.

Commedia nera n.1

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recamidi Edoardo Zambelli

Francesco Recami, Commedia nera n.1, Sellerio, 2017, 224 pagine

Era talmente terrorizzato dalla realtà esterna che preferiva una simile routine, in fondo passava tutta la giornata, dalle nove di mattina quando Maria Antonietta usciva di casa, fino alle sei, sette di sera, quando lei tornava, da solo, senza contatti col mondo, che non desiderava e gli facevano paura. Trascorreva molto tempo a guardare la televisione.

L’ultimo libro di Francesco Recami è, a dirla in breve, la messa in scena di un tentativo di fuga. Antonio Maria è prigioniero in casa sua. Prigioniero di sua moglie (commissario di polizia sadico e autoritario, che lo sottopone ad ogni tipo di umiliazione, sia fisica che mentale), di una non ben precisata malattia (forse la depressione), e della propria totale incapacità di ribellarsi allo stato delle cose.

Ogni tanto commetteva qualche errore, che scombinava il difficile equilibrio con la moglie. Lei lo metteva in punizione, nella cosiddetta cella di rigore, per qualche ora o più, lui si pentiva e lei lo perdonava.

Ormai da anni le cose funzionavano così.

Questo, almeno, fino a che non decide di provare a scappare. E qui si innesca il meccanismo del romanzo. Non c’è una vera e propria trama, piuttosto la narrazione si muove per episodi che di volta in volta ci mostrano i tentativi di fuga del povero protagonista. Fuga che assume significati via via sempre più estremi con l’avanzare della frustrazione di Antonio.

Non è un caso che qui e là nel testo il protagonista si ritrovi a guardare in tv i cartoni animati di Wile E. Coyote. In effetti, la chiave di lettura del romanzo sta tutta lì. Recami ha messo in scena un coyote umano, ha realizzato un romanzo-cartoon. Tutto è portato all’eccesso. Più si va avanti e più le situazioni si fanno paradossali e improbabili. Vediamo Antonio Maria ingegnarsi a costruire macchinari e piani di fuga sempre più complessi, tutti destinati, ovviamente, al fallimento (i congegni si inceppano, le fughe rocambolesche terminano in altrettanto rocamboleschi rovesci del caso).

L’intuizione di Recami sta proprio nel chiedersi: se Wile E. Coyote esistesse davvero, se avesse l’aspetto di un uomo qualunque, farebbe poi così ridere? L’idea è affascinante e la messa in atto di tale presupposto è, a mio avviso, pienamente riuscita. Se gli stratagemmi di Antonio si rivelano effettivamente comici, sono i suoi fallimenti a darci l’idea di una tristezza e di un dolore che hanno del commuovente.

Non ce la farò mai, il mio destino è segnato: anche se decidessi di abbandonarmi all’inedia più completa, all’immobilità, all’apatia totale, fallirei pure in quell’obiettivo.

Forse, è anche possibile vedere il romanzo come una riflessione sulla coppia. Il grande nemico di Antonio è in effetti Maria Antonietta e il luogo da cui cerca di evadere è tanto la casa quanto un matrimonio che ha preso ormai derive da campo di concentramento. Poche, in realtà, sono le memorie di un felice passato insieme. Il matrimonio si è incrinato quasi subito, quando Maria Antonietta ha scoperto l’inadeguatezza del marito a soddisfarla sessualmente. Poi è arrivata anche la misteriosa malattia di Antonio, e lì è iniziato il vero disastro.

Le torture che Antonio è costretto a subire sono varie: prima fare da cavia a un aspirante infermiere (prestando quindi il suo corpo all’esercizio delle iniezioni), poi da cavia a un aspirante tatuatore con una bizzarra inclinazione per le simbologie di estrema destra, infine la tortura peggiore di tutte: la cella di rigore. Quando Antonio sbaglia, la moglie lo chiude lì, in uno stanzino minuscolo, e lo costringe ad ascoltare senza sosta un disco di Donatella Rettore. E questo per limitarsi a quelle fisiche. Quelle psicologiche, poi, non si contano.

È interessante notare come Recami sia riuscito, esagerando, estremizzando, a rappresentare un qualcosa che è tristemente presente nelle cronache nere recenti e non. La violenza nella coppia, i rapporti che diventano malati, la dipendenza psicologica che diventa rifugio e prigione insieme. Se questa cosa sia voluta o meno è difficile dirlo. Fatto sta che così facendo, un romanzo all’apparenza leggero, genera anche un livello di lettura più profondo che è capace non solo di far riflettere ma anche di far paura.

Tutto questo Recami lo fa con un linguaggio pulito e semplice, che non cerca mai il virtuosismo e non ne ha bisogno. I dialoghi sono volutamente sopra le righe, funzionali alla messa in scena di umanissimo cartone animato. Commedia nera n.1 è un romanzo che ha insieme le caratteristiche dell’assurdo kafkiano e l’umorismo sadico e inquietante di un film di Polanski.

Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Seconda parte

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di Angelo Petrella

[Pubblico qui la seconda puntata del saggio di Angelo Petrella. Si tratta di un ritratto critico di Edoardo Sanguineti apparso nel 2005 sulla rivista Belfagor, n.359, pagg. 543-546. La prima puntata è qui. La terza e ultima è programmata per il 15 marzo 2017. L’immagine si riferisce ad una cartolina di Carol Rama inviata all’autore del saggio da Sanguineti. B.C.]

3. Trilogia del saltimbanco

Stracciafoglio (Feltrinelli, 1980) e Scartabello (Colombo, 1981), raccolte gemelle di quarantasette componimenti, costituiscono assieme a Cataletto una sorta di trilogia dialettica tesa a smantellare del tutto l’identità borghese ancora presente in Postkarten e a costruirne una nuova, un’identità non-identitaria da sabotatore e saltimbanco. Questo progetto è in sincronia con la ripresa del dibattito teorico in Italia, soffocato da circa un decennio di riflusso, che sfocierà nella fondazione del Gruppo 93. A una prima lettura, in specie di Stracciafoglio, spicca subito all’attenzione un copioso utilizzo della prassi metapoetica: Sanguineti tenta costantemente di definire la propria attività, presentando il processo della poesia durante il suo svolgimento. Ma il discorso poetico non ha il tempo di autodefinirsi che subito il suo valore s’annulla: «il mio lascito è questo stesso rogito». La messa in opera di questo procedimento tende sia a denigrare l’assolutezza lirica, illuminandone i meccanismi compositivi materiali e razionali, sia a denunciare l’insufficienza e la pochezza della poesia nei confronti della realtà. L’irripetibilità del sublime si ribalta nell’occasionalità quotidiana ed effimera del gesto poetico. Questo è il motivo per cui i componimenti appaiono sempre come pagine di taccuino, come appunti provvisori di un diario di lavoro tutt’affatto aperto. L’effetto sul lettore è quello di una forte presa di distanza ironica dalla letteratura.

Ma la distruzione dell’aura poetica è perpetrata anche attraverso la ridicolizzazione del soggetto, messa in opera già a partire da Postkarten. La spersonalizzazione della figura del poeta raggiunge il suo apice: i gesti, le azioni e gli oggetti della realtà vengono catalogati e parcellizzati nei singoli elementi costitutivi. L’individuo che domina tutti i testi poetici, dunque, è un soggetto in esplosione, polverizzato così come lo è la realtà sociale. Il senso di quest’operazione non è solo il porre l’accento sulla materialità dell’esistenza per svuotarla di qualsiasi residuo spirituale, ma è anche il forzare l’identità borghese, gonfiandola e facendola deflagrare dall’interno al fine di distruggerla definitivamente. Il risultato sul piano espressivo è choccante: la verbosità, sottolineata dal ricorso sempre più frequente a figure del significante, dà l’impressione di una continua metamorfosi emorragica dei sintagmi (Niva Lorenzini 1991, 177-8). Da qui deriva l’effetto grottesco della percezione di un io così ostentato eppur così intimamente scisso. È chiaro che la forte espressione di questa corporeità in disfacimento richiamerà la tematica della morte e del decadimento fisico per altro già abozzata in Postkarten: anche se Michail Bachtin non rientra tra i teorici preferiti da Sanguineti, la morte va qui intesa in senso carnevalesco, come fine che prelude a una rigenerazione e pertanto non cede a possibili derive patetiche o vittimistiche. Il movimento distruttivo dell’identità borghese, infatti, cede il posto alla costruzione di una nuova identità affatto diversa: da buon gramsciano, a partire da Stracciafoglio, Sanguineti si prefigge lo scopo di «lavorare astutamente in bilico tra decostruzione e ricostruzione dell’io; ovvero costruirsi un sosia paradigmaticamente proteso a superare quei limiti borghesi dai quali siamo inizialmente partiti» (Antonio Pietropaoli 1991, 102).

La gestazione che porta alla liberazione della nuova identità si compie con Cataletto, il nuovo smilzo ciclo di tredici componimenti. Il penultimo testo, in particolare, è considerato da molti critici essenziale per la definizione di questa fase della poesia sanguinetiana:

 

a domanda rispondo:

lo ammetto, ho messo in carte, da qualche parte, con arte, questa mia

storia così: faccio il pagliaccio in piazza, sopra un palco:

 

Il cataletto, ovvero la bara in cui ormai riposa il soggetto borghese, diventa contemporaneamente il trampolino di lancio della nuova identità di pagliaccio: questa trasformazione porta alla scoperta di una seconda natura, coincidente col corpo, che si giova sarcasticamente della caricatura dell’istituzione letteraria. Ma, per dirla in chiave adorniana, l’essenza antiborghese del nuovo personaggio può esistere solo se resta dialettica, ovvero se nega costantemente ciò con cui è in antitesi. Questo è il motivo per cui la voce del poeta ci viene spesso presentata come proveniente da una bara, da un pozzo, da una qualche profondità (come accadeva per il narratore del romanzo Il giuoco dell’Oca). Essere vivi come pagliacci significa essere morti come individui borghesi: simile al saltimbanco di Aldo Palazzeschi, il sabotatore sanguinetiano non può che dissacrare cinicamente i consueti attributi di purezza e incontaminazione, a partire dalla propria stessa consistenza. Ci troviamo di fronte a un individuo rovesciato, in cui «l’esistenza stessa della vita psichica è di colpo cancellata, giacché il poeta lascia sopravvivere soltanto la corporalità» (Fausto Curi 2001, 65).

Questa svolta tematica coincide con una novità prosodica che andrà rafforzandosi fino a divenire la vera e propria nuova maniera sanguinetiana: l’insistenza sul piano del significante, che riutilizza misure metriche tradizionali e si abbandona volentieri a veri e propri bisticci linguistici. Si tratta di una narrazione poetica in cui ogni sintagma sembra rovesciarsi costantemente nell’altro, in un giuoco fonetico ricco di paronomasie, allitterazioni, omoteleuti, assonanze e rime interne. L’abbassamento stilistico e divertito è però frutto di una sapiente elaborazione sotterranea. Il progetto implicito in questa prassi è chiaro: da ora in poi la poesia potrà darsi solo sottoforma di giuoco, pur trattandosi di un giuoco elaboratissimo e dissacrante. Al convegno di Palermo del 1984 su ­Il senso della letteratura Sanguineti esponeva i cardini della nuova poetica concentrandosi sul concetto di «odio al poetese» e di sabotaggio letterario, realizzato non in senso anti-letterario ma, paradossalmente, grazie a un supplemento di letteratura. Tutta la produzione successiva a Cataletto sarà pertanto dominata da questa componente fortemente ludica ma regolamentata.

 

 

  1. Il sabotatore e il giuoco poetico

 

Il volume Segnalibro (Feltrinelli, 1982) raccoglie tutti i testi poetici sanguinetiani dal 1951 al 1981: l’ultima sezione, Fuori catalogo, include poesie d’occasione e componimenti variamente pubblicati su riviste o plaquette in collaborazione con amici musicisti e pittori. Nonostante il rigido schematismo di cui spesso soffrono, alcuni di questi testi sono decisivi per comprendere gli elementi fondamentali della successiva poesia di Sanguineti: innanzitutto la sperimentazione metrica e formale, da intendersi ovviamente come smascheramento dell’artigianalità del fare poetico; quindi la presenza di una forte componente ideologica, didattica e polemica contro l’egemonia del cosiddetto «pensiero unico». Questi elementi già sono visibili nelle raccolte feltrinelliane immediatamente successive a Segnalibro: Bisbidis (del 1987, che contiene Codicillo, Rebus, L’ultima passeggiata, omaggio a Pascoli e Alfabeto apocalittico) e Senzatitolo (del 1992, che riunisce Glosse, Novissimum Testamentum, Ecfrasi, Mauritshuis, Ballate, Fanerografie e Omaggio a Catullo). La produzione dei due volumi è suddivisibile in tre percorsi fondamentali: il primo, che muove dalla versificazione libera propria di Cataletto e si concentra sui temi dello smembramento corporeo e della povertà poetica; il secondo, che si compone di testi d’occasione e punta alla complicazione formale grazie al ricorso a misure tradizionali (endecasillabi, novenari, sonetti, ballate, quartine, acrostici); il terzo, infine, che associa alla ricerca metrica una forte presa di posizione ideologica e morale.

Il percorso della versificazione libera passa per Codicillo, Rebus e Glosse: queste sezioni lasciano essenzialmente inalterato il tessuto verbale di Cataletto, ma ne incrementano l’omofonia regolata dall’aggiunzione ripetitiva. La sensazione è quella di uno scivolamento continuo del linguaggio misto a un ricco gonfiamento lessicale, al punto da poter chiamare in causa il manierismo e il barocco. I componimenti di Codicillo, in particolare, non si distaccano dalle tematiche dello smantellamento corporeo e dell’insufficienza della poesia trattata in modo metapoetico: la novità consiste però in un piccolo nucleo di testi che dissacrano gli eccessi, i miti e i riti della neonata società dello spettacolo. La sola strada critica percorribile nel presente è quella di una lenta e paziente ridicolizzazione dell’esistente, in un mondo che sembra azzerare qualsiasi manifestazione di antagonismo: si affaccia qui il tema del postmoderno, che sarà approfondito in sede di dibattito dal Gruppo 93 e verrà sempre strenuamente combattuto da Sanguineti sotto le insegne provocatorie del rimbaudiano motto «bisogna essere assolutamente moderni». Un’altra novità la si può scorgere nella sezione Rebus, in cui alcuni testi si presentano sottoforma di veri e propri giuochi enigmistici, con tanto di chiave e di illustrazione didascalica. Eccoci di fronte a una benjaminiana allegoria della poesia tout court, intesa come enigma da decifrare piuttosto che come mistero da cogliere intuitivamente:

 

esamina (se vuoi sapere, in sogno, dove sono) questi brutti (10,11), questi

[orrendi

anatroccoli da fatua fiaba, contrassegnati da un’N, da una T: (corrono a

[nuoto,

quieti, verso un adulto chiaramente occulto):

 

Nonostante le invenzioni formali, in questo primo percorso di ricerca si percepisce un sottofondo dilagante di sconforto per la perdita del potere della parola poetica, costretta a divenire mero giuoco linguistico, mero bisbiglio anonimo: accanto all’apoteosi carnevalesca del sabotatore e del pagliaccio in piazza viene ad affacciarsi un neonato senso del tragico che sempre più si mescolerà alla critica della società esistente, invasa dalle comunicazioni di massa.

Il secondo percorso, quello del giuoco poetico, emerge a partire da L’ultima passeggiata (omaggio a Pascoli), redatta nel 1982 in occasione di un intervento alle celebrazioni del settantesimo anniversario della morte del poeta. Qui ci troviamo di fronte a un vero e proprio travestimento, cioè a un procedimento straniante di riscrittura che trasporta l’originale in un nuovo contesto. Nel confrontarsi col modello delle Myricae Sanguineti muove dal lessico pascoliano ma ne stravolge completamente il senso: anziché essere luoghi incontaminati da «fanciullino», le uniche schegge di realtà che sopravvivono nel testo sono intimamente contaminate e macchiate dal declino storico. Sanguineti mette in campo proprio ciò che Giovanni Pascoli reputa impoetico: come nota Tommaso Pomilio, si assiste qui ad una «sostanziale estremizzazione e dunque sovversione del procedimento pascoliano. L’umanizzazione del paesaggio, così strutturante per l’opera di Pascoli, vertiginosamente si trasmuta in una anatomizzazione del paesaggio» (Luigi Giordano 1991, 242). Nuovamente è in scena il corpo, guidato da una furia erotica ed esploratrice di ogni suo risvolto; finanche la tendenza mimetica ed onomatopeica di Pascoli viene assorbita nello stile basso-oniroide sanguinetiano, da cantilena popolare. La prassi del travestimento si rinnoverà anche in altri omaggi a poeti antichi o stranieri: è il caso soprattutto dell’Omaggio a Catullo del 1986, dove il contenuto licenzioso dei versi del poeta latino viene trasposto nel presente e sottolineato dallo scorrere di endecasillabi pieni di frasi proverbiali e gergali, di zeppe e di errori sintattici. Ma è il caso anche di tante altre traduzioni teatrali, narrative o poetiche, più o meno travestite, che costellano la produzione sanguinetiana.

Il giuoco poetico continua anche nella sperimentazione formale di Mauritshuis, Ecfrasi e Fanerografie: la maggior parte dei testi sono poesie d’occasione dedicate ad amici artisti, spesso in forma d’acrostico. In genere, domina la tecnica della catalogazione con un certo gusto surrealista per l’accostamento onirico di figure inusitate, in specie quando si tratta di testi destinati ad hoc a cicli pittorici. Ma domina anche un senso carnevalesco della lingua che, oltre a mescolare alto e basso, racimola il proprio lessico da una molteplicità di vocabolari differenti e lo inserisce in compatti schemi metrici. Più che nelle raccolte precedenti, assistiamo qui a una copiosa esplorazione di testi e autori antichi e moderni, da cui vengono estratte citazioni nemmeno tanto velate. Non parliamo solo di travestimenti o imitazioni, ma di componimenti costruiti quasi totalmente su di un sostrato citazionistico: si ricordino almeno Requiem italiano o Erothypnomachia, che si presentano sottoforma di attraversamenti di macerie linguistiche. Come s’era osservato per Codicillo, Rebus e Glosse, la realtà sociale degli anni Ottanta appare ormai intimamente compromessa: c’è un presentimento della catastrofe e un senso di sconforto per lo sfacelo in cui è sprofondato il mondo. La lingua iperletteraria di Sanguineti interviene proprio a insistere su questa condizione lacerata, tentando di sfruttarla al massimo per fini propriamente politici. Questa è la distanza enorme che separa il postmoderno da Sanguineti: deflagrata la storia e scomparse le ideologie, il postmoderno crede che ogni frammento del passato e del presente sia citabile in modo indiscriminato per esaltare apologeticamente la nuova condizione di presunta liberazione dei linguaggi. Sanguineti invece, pur convinto dello scacco dell’ideologia avanguardistica, mostra di aver bene appreso la lezione di Walter Benjamin relativa all’uso politico e polemico del frammento. I detriti recuperati dalla realtà e ricontestualizzati hanno la funzione di fornire un senso diverso alla storia scritta dai vincitori. A tale proposito Pietropaoli nota come in Factum est, costruito su brani dell’Apocalisse di Giovanni, i frammenti letterari vengano sottoposti «a forme di restauri stranianti al fine di estorcere loro una promessa di progettazione del futuro» (Pietropaoli 1995, 438). L’apice di questa prassi è elaborata con l’ultima sezione di Bisbidis, l’Alfabeto apocalittico del 1982: questo tour de force linguistico è probabilmente il limite massimo del rapporto tra sfigurazione intraverbale, schematismo metrico e unità semantica della parola. L’apocalisse cui il titolo allude è propriamente l’esplosione finale del linguaggio referenziale: la ricerca verte infatti non tanto su di una lingua automaticamente inconscia, magari satura di nonsense, quanto piuttosto su di un linguaggio costretto a crearsi da sé le proprie regole. Già Vittorio Spinazzola sottolineava che «la crisi della convenzioni linguistico-letterarie è davvero sintomo e prodotto d’una crisi generale di civiltà che investe tutti i rapporti dell’individuo con se stesso e con il mondo» (Spinazzola 1989, 16). Ne viene fuori una composizione che rimanda all’assolutamente negativo, dove proprio il linguaggio conduce per mano alla nullificazione dell’essere. La reiterazione delle iniziali è tutta compressa nel rigoroso schema di endecasillabi a rima baciata, al punto da far quasi esplodere fuori il potenziale semantico:

 

tutto il tartareo trono è tuoni & trombe,

toccheggiano & tocsinano le tombe:

tintinnano, tra i tonfi, le teorie,

tremano le tremende tricromie:

tiroidite ti tiene con trombosi,

tricosi & tifo con tubercolosi:

ti trottano le tenie, & i tic, & i trac,

traumi & tumori, è il tempo del tuo tac:

 

Nel 2002, le raccolte poetiche finora esaminate confluiranno nel volume feltrinelliano Il gatto lupesco, che completa l’opera di Segnalibro riunendo tutta la produzione poetica sanguinetiana dell’ultimo ventennio. Questa seconda macro-raccolta include le nuove sezioni di Corollario (Feltrinelli, 1997) e Cose (Pironti, 1999, in versione parziale). Anche qui le tecniche dominanti sono l’omofonia e il giuoco poetico, che raggiungono però una sorta di stabilizzazione tematica e formale, per altro già visibile a partire dalla strutturazione interna: ciascuna raccolta si compone infatti di un ciclo eponimo e di un nucleo di testi d’occasione, rispettivamente intitolati Stravaganze (1992-1996) e Poesie fuggitive (1996-2001). I contenuti dei cicli eponimi non presentano grosse novità rispetto a Rebus o Glosse: vi ritroviamo i consueti temi del resoconto quotidiano, del dismembramento anatomico, dell’erotismo e dell’amore visti da un’ottica corporea. È però interessante notare come, a un livello espressivo, il discorso poetico adotti un certo plurilinguismo e si frantumi in modo straniante, scompaginando la lettura agevole a cui le ultime raccolte ci avevano abituato: sembra quasi di tornare indietro nel tempo, agli anni Sessanta di Purgatorio de l’Inferno. Le vere novità poetiche vanno semmai rilevate nei giuochi linguistici, ovvero nei nuclei di poesie d’occasione: non tanto per l’adozione di nuove forme chiuse o di tecniche particolari (di inedito c’è solo l’haiku), quanto piuttosto per l’assunzione di codici mediatici e per la trattazione di miti, realtà ed eventi cronachistici del mondo globalizzato. Il linguaggio e i temi delle comunicazioni telematiche o televisive vengono introiettati e riadattati in senso polemico. È il caso di alcuni testi (quali, ad esempio, Malebolge 1994, Filastrocca doc e dop e FILM/A/TO) il cui obiettivo è informare i lettori della barbarie in cui versa la società borghese. Questa componente tendenziosa, che affonda le origini in Triperuno, costituirà il punto di congiunzione tra il secondo e il terzo percorso di ricerca sanguinetiano, quello della poesia didattica e politicamente antagonista.

 

[continua]

Il coraggio dell’ossessione

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Valerio Adami - Musa
Valerio Adami - Musa
Valerio Adami – Musa

 

[E’ uscita per Il Saggiatore una nuova edizione del Diario del ladro di Jean Genet, nella traduzione di Giorgio Caproni. Pubblico la prefazione al testo di Walter Siti, col gentile accordo dell’editore. ot]

di Walter Siti

Domando scusa se comincio questa prefazione con un extravagante e imprevisto Epicedio per Erik Rhodes:

Monumentale e rosa mentre finge di lottare
(Cristo alla colonna) con due manigoldi
tanto bruni quanto lui era biondo; un sorriso di rose e un gioco con la bottiglia, a darsi e a prendersi
il naso breve e il ciuffo –
“fammi come a lui!” sotto gli specchi liquidi
della doccia. Marcellino
che mi chiedeva il massimo per la seconda volta (video o non video) in quell’Hotel Sole
che dopo il terremoto giace tra sterpi.
Erik Rhodes si chiamava l’angelo dei pixel
ritrovato ora su internet: “Memorial
of gay pornstars dead” – morto per overdose
(altri per hiv, suicidio, pochissime le altre cause), eroe capovolto, soldato di quel disordine
che per una notte illuminò anche me
prima del crollo, e l’uomo che mi dormiva accanto – due vigliacchi ancora vivi.

Chi ha conosciuto l’ossessione erotica non può rileggere Genet senza sentirsi personalmente coinvolto ma anche, purtroppo, senza sentirsi un disertore: al di là delle differenze caratteriali e di talento, ambientali e biografiche, Genet lo interpella direttamente, gli chiede conto degli escamotages con cui ha cercato di morire per rinascere, venendo a patti con la normalità della maggioranza e col passare degli anni. Genet scrive a partire da una condizione psicologica del tutto particolare e minoritaria, incontra personaggi estremi ma la sua scrittura tende al generale, all’assoluto: ha l’intemporalità di un classico. Il romanzo della sua autobiografia non si intitola “diario di un ladro” ma Diario del ladro: non importano l’esattezza o la completezza delle informazioni, né la consequenzialità temporale e logica delle vicende, né tantomeno la giustificazione del medico o del sociologo, importa la fissazione di un mito. «La sua autobiografia» scrive Sartre «è una cosmogonia sacra: non racconta fatti, ma riti.» La scrittura di Genet non si abbassa alla cronologia, disprezza il servilismo della chiarezza, la banalità dei tessuti connettivi: va dritto a ciò che gli tronca il fiato. L’ossessione erotica è un esercizio prolungato di apnea, è l’attesa spasmodica e senza fine di quel che può solo deludere; l’ossessione nega la realtà ma ha bisogno di rinfacciare continuamente alla realtà la colpa di non essere sufficiente; è l’intensità vitale proiettata su ciò che è morto da tempo, o non è esistito che come mitica mancanza.

Genet ha trentaquattro anni quando conosce Sartre ed è stato scarcerato da pochissimo (gli resta qualche mese di condanna che non sconterà mai, e i suoi nuovi amici intellettuali gli otterranno, per l’ennesimo furto, la grazia presidenziale); ha già conosciuto Cocteau, folgorato dal poema Condannato a morte, e la sua fama di “scrittore criminale” si diffonde rapidamente a Parigi – le signore lo invitano nei loro salotti, deliziosamente titillate dal brivido di poter essere “rapinate” di qualche soprammobile. Genet gioca la sua parte col misto di astuzia e imbranata ingenuità che gli è proprio; per essere un cronico, naturale dropout il suo successo editoriale sarà sorprendente: grazie a un abilissimo agente letterario le sue opere sbarcheranno negli Usa verso la metà degli anni cinquanta e influenzeranno la beat generation. Ma Genet è fisicamente, quasi geneticamente refrattario all’integrazione; lui stesso ne chiama a testimone la propria faccia, quel «naso schiacciato non dal pugno d’un uomo ma per aver urtato contro i cristalli che ci tagliano fuori dal vostro mondo». (Il “noi” si riferisce contemporaneamente ai delinquenti e agli omosessuali, in un nesso causale, elettrico e amoroso che Genet non metterà mai in discussione.)
Ma con Sartre le cose si fanno più complicate: non è solo un mentore, un protettore, un maestro; per Sartre, Genet è anche una cavia su cui applicare quel metodo di “psicanalisi esistenziale” a cui affida un ruolo notevole nella sua visione filosofica complessiva. Ci ha già provato con Baudelaire, si porta dietro da anni il progetto di un lavoro monumentale su Flaubert; l’esplosione improvvisa del “caso Genet” lo porta a scrivere (uscirà nel 1952) un libro di settecento pagine, Saint Genet comédien et martyr, che sarà per Genet stesso un segno di gloria raggiunta e una formidabile trappola. Genet, che da tipico trovatello ha molto elucubrato sul proprio cognome (il cognome della madre che l’ha abbandonato), sa già che “genêt” con l’accento circonflesso significa “ginestra”, e il dialogo coi fiori è diventato un punto fermo del suo universo culturale; forse non sa che “genet” senza accento è il “ginnetto”, cavallino spagnolo agile e veloce; ma da Sartre impara che “Genêt”, col circonflesso e la maiuscola, è invece Genesio, l’attore che sotto Diocleziano si convertì al cristianesimo mentre recitava e per questo venne martirizzato, secondo il dramma di Jean de Rotrou (Le véritable Saint Genêt, comédien et martyr) a cui Sartre si è ispirato per il titolo.
Il rapporto di dare e avere tra Sartre e Genet, nelle conversazioni tra il 1944 e il 1952, è molto complesso: a Sartre appartiene l’invenzione del “mito originario”, fissato nell’episodio di quando, all’età di dieci anni, il piccolo trovatello viene sorpreso a rubare dalla famiglia adottiva. Quello, per Sartre, è l’istante che tornerà sempre nella vita di Genet, inchiodandolo all’icona del “ladro”, costringendolo a diventare ciò che gli altri vogliono che sia, a recitare continuamente la parte di se stesso; da lì deriverebbero anche i modi della sua sessualità, “bloccata” sull’apparenza e attratta da esseri deboli che a loro volta recitano la parte dei bruti, in un claustrofobico gioco di specchi. Lo sdoppiamento sarebbe la figura tipica della sua letteratura, la negazione di sé in quanto soggetto libero. L’acume critico è indubbio, coglie con precisione violenta il nodo centrale: e Genet lo riconosce, lo fa proprio, esagera in sartrismi. Nel Diario parla del «bisogno di diventare quel che m’avevano accusato di essere», dice cose come «non basta aver commesso un delitto, bisogna meritarlo»; l’aneddoto di Stilitano smarrito al luna-park nel labirinto di specchi, che Sartre cita proprio dal Diario rendendolo emblematico, verrà ripreso da Genet nel balletto ’Adam Miroir; un’eco sicura di Roquentin e della Nausea, col valore metafisico dei dettagli straniati, è nel passo del Diario in cui il protagonista si incanta su «una molletta per stendere i panni abbandonata su un fil di ferro». E ancora: l’evocazione sartriana della santità lo convince di avere «nelle budelle l’idea di Dio», sia pure stravolta nell’impeto blasfemo; e il suo universo unicamente maschile (fatta la sacra eccezione della madre, di cui parlerò più avanti) perde l’innocenza cameratesca sotto la pressione del femminismo ideologico della coppia Sartre-De Beauvoir (oltre che a Sartre, il Diario è dedicato “al Castoro”, che era il soprannome di Simone). Eppure, con la sorda ostinazione dell’autodidatta di fronte a uno dei maggiori intellettuali europei, Genet resiste a Sartre, gli oppone le proprie verità; su una cosa soprattutto non cederà mai, sull’asserita (da Sartre) priorità del furto rispetto all’attrazione omosessuale; se di una cosa Genet è certo, è che lui si è sentito attratto dagli uomini prima di cominciare a rubare, e che il furto è una conseguenza del proprio essere omosessuale, non viceversa; glielo confermano il suo polso, il suo cazzo, il suo cuore. Delle tre “virtù teologali”, tradimento furto omosessualità (affascinanti attributi della Gestapo francese), la prima è la più clamorosa e pubblica, la seconda è poco più di un risarcimento, ma la terza è la più intima e sorgivamente poetica.

Ho idea che Genet abbia ragione: più del mito sartriano conta forse un mito soggiacente, più antico e di molto precedente i dieci anni, voglio dire il racconto rimosso e luttuoso di una madre che abbandona il figlio (una madre immaginata come ladra-mendicante o regina-prostituta, comunque sopra o sotto la società) e di un figlio che mediante il procurato disprezzo vuole diventare la madre. Quel che colpisce nell’ossessione di Genet è l’inestricabile complementarità tra autolesionismo spettacolare (simile a quello di certi mistici, Jacopone o i “santi folli” bizantini) e attrazione per l’autoritarismo assoluto e tirannico (i guardiani del bagno penale, i poliziotti, le ss); sadomasochismo, certo, ma intinto in una tenerezza che lascia esterrefatti. I muscoli spietati sono fatti di gelatina e Genet li accoglie come solo una madre saprebbe fare; lui che aiuta il magnaccia monco Stilitano a infilarsi l’unico guanto, o lui che nel Miracolo della rosa (ce lo racconta nel Diario) assume su di sé, dicendo “io”, l’umiliazione di un altro ergastolano, come una madre che soffrendo preserva il figlio da un dolore. Sartre, incaponito sullo stereotipo del pedé passivo in adorazione della “rigidezza”, non capisce di quanta dolcezza sia anche composta la sessualità di Genet, vedi per esempio l’istantanea di Lucien che «strofina il naso sulla mia barba, dandomi così delle delicate testate, come un vitellino che poppi la madre». La “santità” genetiana non è solo l’altro polo della criminalità ma nasce da una gratitudine più profonda, da una gioia (anzi, da una “letizia”) che solo l’ossessione può dare quando ti regala l’assoluto incarnato in un corpo; il culo di Stilitano è davvero (senza un’ombra di ritorsione blasfema) un “reposoir”, cioè la pisside che contiene l’eucarestia, e nel gesto di un piccolo giostraio si può nascondere davvero, come nell’Aleph di Borges, «la città di Anversa che lo conteneva, la Terra che girava con precauzione, l’Universo che custodiva un fardello così prezioso, e io stesso lì, sgomento di possedere il mondo e di sapere che lo possedevo». Sartre ha inteso benissimo la tragedia di Genet, ma non la sua allegria.

Secondo Sartre, tutto preso dal proprio sistema filosofico e che di omosessualità non sa niente, la biografia di Genet non può essere che immobile, chiusa per sempre in un’eterna coazione a ripetere. Così non si accorge (o non gli dà peso) che il Diario ha la struttura di un romanzo di educazione, per non dire addirittura di un Bildungsroman. Per riassumere rozzamente questo percorso possiamo dire che il protagonista sperimenta la passività (sessuale e psicologica) con Stilitano nella prima parte del libro, per poi passare a un ruolo protettivo e virile col fragile Lucien; ma scopre, quando ritorna Armand (il “bruto perfetto”), che questi della sua nuova virilità e maturità non sa che farsene, tutt’al più può ormai trattarlo da amico e non da amante; allora Genet desidera con tutte le forze tornare passivo, rifrequentare i luoghi sordidi, abiurare la propria crescita; progetta di lasciare Lucien e sogna di farsi possedere da un negro gigantesco che «più immenso della notte, mi coprirà mi schiaccerà la sua notte, dove a poco a poco mi diluirò». È una resa alla coazione nevrotica, certamente, ma è anche il lieto fine di chi sceglie la fedeltà a una Legge che lo supera; è il coraggio eroico di obbedire al proprio destino di ossessione (consapevole che per lui, fuori dal mito, non c’è desiderio), senza cercare scappatoie o fughe nella guarigione, credente in quell’assoluto di seconda mano che è il sesso, ma non per questo credente con meno fervore. Se un mutamento ci sarà, non sarà né perbenista né astrattamente ideologico ma etico in un senso più serio e creaturale: «Se la forza e la bellezza non possono unirsi in me, che almeno la mia bontà, da sola, fuori di me, riesca un nodo di perfezione». “Fuori di me” vorrà dire, per il Genet degli anni sessanta e settanta, la vicinanza con le Pantere Nere americane e coi fedayn palestinesi, l’interesse per il terrorismo del gruppo Baader-Meinhof; ma niente a che vedere con gli engagements degli intellettuali, per lui sarà sempre una questione di carnalità e di sesso, fino a quell’agghiacciante e sublime tu-per-tu con i cadaveri nel 1982 a Chatila, primo europeo a camminare per le viuzze della strage.
«Il mio libro» scrive alla fine del Diario «divenuto la mia Genesi, contiene i comandamenti che non potrò trasgredire»; il Diario non è una biografia romanzata, è il romanzo della scoperta di sé, anzi dell’invenzione di sé. I fatti empirici sono trattati con disinvolta sprezzatura: il periodo spagnolo è molto dilatato rispetto al vero, sui sei anni di servizio militare sostanzialmente si sorvola, si narra una diserzione dalla Legione Straniera in realtà mai avvenuta. Conta il succo, non la cronaca, il momento della memoria e quello della scrittura presente si confondono; hegelianamente (ma anche proustianamente) il reale conta solo in quanto è razionale.Tutto questo varrebbe ben poco se non fosse sostenuto dalla scrittura abbagliante di Genet: uno stile fastoso, barocco, di una ricchezza metaforica che sfida l’eccesso a ogni pagina; un francese eccessivo e magnifico che deriva da un originario complesso di inferiorità («quel che avevo da dire al nemico, bisognava dirlo nella sua lingua») – ma oltrepassando il segno la lingua si esibisce, si pavoneggia, diventa fiore e gioiello. Una lingua transessuale che avviluppa i corpi e li incorona, riscattando l’infamia con lo splendore, «carica di prestigio più che di senso».
«Le palme! Un sole mattutino le dorava. Fremeva la luce, non le palme. Erano le prime che vedevo. Orlavano il mar Mediterraneo. La brina sui vetri, d’inverno, aveva maggior varietà, ma al pari di essa le palme mi precipitavano, meglio di essa, forse, nell’intimo di un’immagine natalizia nata paradossalmente dal versetto sulla festa precedente la morte di Dio, sull’ingresso a Gerusalemme, sui rami di palma gettati sotto i piedi di Gesù. La mia infanzia aveva sognato palmizi.» L’estetismo non si vergogna di mostrarsi ma è bruciato da una radicale, prelinguistica vocazione alla poesia. C’è un’analogia sostanziale tra la condizione psicologica di Genet che si sente “vissuto dall’esterno» e il poeta che “è parlato” dalla lingua; il parlante è immaginario e le parole sole sono autentiche, quindi non resta che lasciare l’iniziativa alle parole. Genet è intrinsecamente poeta prima ancora di scrivere un verso, ed è così sicuro di essere abitato dalla poesia che la contamina senza scrupoli con la grazia sbilenca del non-finito: il Diario è pieno di puntelli, di lacune, di note di lavorazione, senza perdere nulla della sua perfezione di classico. Le metafore barocche portano in sé la metamorfosi; tutto è in trasformazione nelle pagine del Diario: la Spagna diventa Belgio, gli uomini diventano donne, le galere dimore regali, l’inverno diventa primavera, i corpi altari, santi gli assassini – «la santità consiste nel costringere il diavolo a essere Dio». Ottenere il riconoscimento del Male per via di bellezza, questa è la missione di Genet: «Del male imporrò la visione candida, dovess’io, in tale ricerca, lasciar la pelle, l’onore e la gloria». In un’epoca poststilistica come la nostra, in cui la «forma delle parole» sembra impallidire o si trasforma al massimo in un hashtag, leggere Genet significa ritrovare uno dei compiti fondamentali della scrittura, che è quello di farci complici dell’inaccettabile. Un’opera nata dalla paura e dalla frustrazione onanistica attraversa la storia come un’iniezione di coraggio.

Pochi cenni infine sulla traduzione di Caproni: datata, un po’ inamidata forse, qualche volta è impacciata da preoccupazioni censorie “d’epoca”. A p. 140, per esempio, «vous n’avez qu’à aller vous faire balader» (traducibile senz’altro, dato il contesto, con «non dovete far altro che andarvene affanculo») è tradotta con un gentile «non vi resta che andarvene… a spasso»; a p. 20 un riferimento sessuale esplicito («J’ai bandé pour le crime») diventa più nobilmente «ho spasimato per il delitto», e altri esempi si potrebbero addurre. Ma non è questo che conta, né importa lo sforzo con cui il gergo malavitoso ha dovuto cercare appigli in tutti i dialetti italiani, non nel toscano solamente; quello che importa è che Caproni, da poeta vero, ha saputo mantenere la materia preziosa e antiquotidiana della lingua di Genet, senza banalizzarla in un fiacco italiano standard né (peggio) drammatizzarla artificialmente in un hard boiled di volgarità un tanto al chilo. È giusto che la lettura di un classico sia ad ogni riga una fatica e una sorpresa.