Ebbene sì: questo sito, Nazione Indiana, compie vent’anni (2003-2023) e inizia a festeggiarli a Parigi il 23 e 24 marzo prossimi, con una due-giorni tra Maison de la Poésie, Université Paris Nanterre e Librairie Tour de Babel. Vent’anni di vita per una creatura del web sono un tempo immenso, impressionante? Forse sì, in apparenza. Ma, in sostanza e molto banalmente, sono solo e semplicemente tempo, perché anche Internet vive nel tempo, si evolve, ha una storia. E così, per paradosso, il mezzo di comunicazione, tra i recenti, più soggiogato dal presentismo, dall’esserci qui e ora, ogni volta che agisce o scrive o si esprime alimenta già un archivio, una memoria di sé e degli altri.
Noi in NI siamo consapevoli di avere una storia alle spalle, e non a caso la valorizziamo in home con un oggetto del quale andiamo molto fieri (la macchina del tempo). Detto questo, gli appuntamenti di Parigi e gli altri che verranno in questo 2023 del ventennale non ci serviranno solo per fare il punto e guardare indietro. Perché l’aspetto forse davvero sorprendente dell’avere compiuto vent’anni è scoprirsi ancora vitali, seppure cambiati in una Rete che non è più la stessa, e ancora capaci di progettare e pensare futuro.
Dunque, in attesa del 2043, data in cui un’intelligenza artificiale festeggerà (bontà sua) i quarant’anni di Nazione Indiana, ecco il dettaglio del programma parigino:
Giovedì 23 marzo
Presso la Maison de la Poésie, alle 20.00, cinque poeti di Nazione Indiana, nati tra il 1967 e il 1981, incontreranno i poeti Benoît Casas e Martin Rueff. Quasi tutti i poeti italiani presenti sono già stati pubblicati in Francia e sono essi stessi traduttori dal francese. Casas e Rueff, invece, traducono dall’italiano e conoscono bene la poesia italiana contemporanea. La serata sarà dedicata alla lettura di testi in lingua originale e in traduzione.
Venerdì 24 marzo
La mattina e il pomeriggio, il Centre de Recherches Italiennes (CRIX) dell’Università di Parigi Nanterre accoglierà redattrici e redattori di Nazione Indiana per una giornata riflessiva, creativa e festiva di scambi, letture, performance. Si ripercorrerà la storia del blog rilanciando in varie direzioni, con dei focus su alcuni spazi cari a NI: la narrazione della storia, la traduzione, la multimedialità.
Si conclude la sera del 24, alle 20.00: le autrici e gli autori di Nazione Indiana incontreranno i lettori presso la libreria Tour de Babel, in rue du Roi de Sicile 10.
Immagine tratta dal sito della libreria Tour de Babel
1 maggio 2023. Abbiamo deciso di far concorrenza all’account parody di Internet Explorer. Loro annunciano l’elezione di Obama 15 anni dopo? Noi pubblichiamo le foto della festa parigina un mese e mezzo dopo. Tra un anno riveleremo anche cosa ci siamo detti, perché tutto siamo stati tranne che muti.
Definisco teoria del candore un sistema di affermazioni generiche, e per questo indimostrabili, sulla “natura” di un qualcosa, spesso un soggetto istituzionale o una superficie del potere, che viene descritto come moralmente ineccepibile, buono negli scopi e giusto nei metodi, per definizione e in maniera che si vorrebbe inconfutabile. Giusto un paio di esempi:
Come sappiamo, negli anni ’50 l’industria del tabacco inquinò la ricerca scientifica, finanziando studi farsa o decisamente fuorvianti, per evitare che la gente sapesse la verità sulla cancerogenesi del fumo. Il TIRC, un comitato per la ricerca finanziato dai diretti interessati, era la fucina propagandistica costruita per questo scopo. L’opinione pubblica era quindi divisa. C’era chi affermava che i potenti di turno manomettevano nell’ombra la ricerca scientifica, e c’era chi rigettava questa “ipotesi complottista” facendo leva sulla buona fede indimostrabile di quelle multinazionali. Fiorivano teorie del candore, secondo cui nessuno metterebbe in commercio un prodotto nella consapevolezza che provoca il cancro, perché semplicemente non sarebbe pensabile. In un paginone che nel ’54 apparve su 400 quotidiani statunitensi, firmato dai vertici di quelle aziende, il cosiddetto Frank statement to cigarette smokers, la teoria del candore assunse aspetti quasi istituzionali. A un certo punto, il documento dava per scontato “l’interesse per la salute pubblica come responsabilità fondamentale, superiore a qualunque considerazione” da parte delle aziende, perché il contrario non sarebbe pensabile. Anche le ricerche scientifiche finanziate dal TIRC dovevano essere utili e oneste, in quanto la ricerca scientifica in generale lo è, e dritti su questa strada.
La teoria del candore è un sottoprodotto arbitrario della presunzione di innocenza. In uno stato di diritto chiunque è innocente finché la sua colpevolezza non viene dimostrata (entro certi limiti e certe regole). L’innocenza è tuttavia una qualità neutrale, e non va confusa con l’innocenza nel senso del “carattere di ciò che è innocente per mancanza di malizia” (dizionario Gabrielli). Una teoria del candore attiva in noi l’immaginario giuridico della democrazia, cioè lo sfondo ideale sul quale ci stagliamo come cittadini. Abilmente trasforma in una giravolta retorica l’innocenza presunta in candore. Fa leva di solito su affermazioni generiche quanto all’umanità, al bene comune e via dicendo. Quando una teoria del candore si consolida nell’immaginario collettivo, e viene dunque ritenuta vera dai più (spesso senza che sia nemmeno possibile discuterla, perché agisce sullo sfondo di altre ipotesi e argomentazioni), tutto ciò che le si oppone assume facilmente i tratti di una teoria del complotto.
Ad esempio, come si sa, nel 1960 gli Stati Uniti cominciarono a bombardare Cuba truccando gli attacchi e gli aerei in modo che sembrasse una controrivoluzione interna al paese, in una delle tante operazioni CIA sotto copertura che gli storici conoscono bene (pure grazie ai documenti segreti declassificati successivamente in quel paese). La guerra sotto copertura continuò fino al tentativo di rovesciare il governo cubano, per i soliti motivi legati agli interessi di multinazionali americane, oltre che in una logica imperialista, come era stato fatto in Guatemala e in Iran negli anni ’50, e come sarà fatto in Nicaragua negli anni ’80 (il Tribunale internazionale dell’Aia ha condannato gli Stati Uniti per questo), e poi in altri paesi del medio oriente e dell’Europa continentale.
La teoria del candore, nei primi anni ’60, era che “gli Stati Uniti si impegnano da sempre a far progredire lo sviluppo economico e la democrazia in tutto il mondo”, pertanto era impossibile che fossero coinvolti negli attacchi illegali a un minuscolo stato che non aveva attaccato nessuno (e che fino a quel momento non aveva nemmeno un’alleanza strategica con l’avversario globale, l’Unione Sovietica). Il virgolettato, che viene da un ambasciatore all’ONU, è una delle tante teorie del candore che imperversano nel mondo a proposito degli Stati Uniti. Opporsi a una teoria del candore, anche attraverso fatti documentati, espone chiunque al sospetto di promuovere una teoria del complotto. Anch’io ora, nonostante stia parlando di fatti abbastanza ovvi, e in alcuni casi condannati da organismi internazionali autorevoli, sento l’ombra su di me di una teoria del candore, che non è, come detto, qualcosa di solido e dimostrato ma, piuttosto, una deformazione dell’immaginario collettivo che si basa su affermazioni generiche, risuonanti e iper-diffuse. Sento quindi di dover affermare queste ovvietà con più forza, per non cadere nella botola delle teorie del complotto. Questo accade perché, ovviamente, a una teoria del candore contribuisce l’immaginario cinematografico, narrativo, ancora più della disinformazione, e in generale tutto ciò che attraverso la finzione vuole imporre delle regole alla “realtà”.
C’è un ultimo aspetto, secondo me cruciale per la democrazia, che riguarda quel che scrivevo sopra. Una teoria del candore getta un’ombra su chiunque argomenti in senso contrario. È un’ombra che può essere difficile da gestire. Una specie di colpa preconfezionata che funziona da spauracchio. Vincerla nell’argomentazione richiede forza e controllo dei propri mezzi. Ci vuole insomma calma e distacco, condizioni emotive che non sempre sono a disposizione di chi argomenta (il più delle volte perché la situazione è emergenziale, o perché nell’opinione pubblica tutto è polarizzato e non si comprende quasi più nulla, o anche per la debolezza retorica di chi argomenta, per mancanza di strumenti). La mia ipotesi è infine la seguente. È una teoria del complotto sulle teorie del complotto, diciamo una meta-teoria di queste. Quindi ci andrò pianissimo. Non voglio passare per meta-complottista, o perderei la poca reputazione che ho guadagnato fin qui.
Una teoria del candore è portatrice di una tensione, diciamo sociale, nel momento in cui contraddice una credenza (vera o falsa) molto diffusa. O meglio: quanto più una teoria è candida, cioè viene percepita come inverosimile e al tempo stesso pervasiva da un gruppo sociale, tanto più è potente e agisce come tensore. Insomma, più una teoria del candore è forte nella società, più grande e pesante è l’ombra su chi ritiene di doverla contraddire. In altre parole, la teoria del candore offre una resistenza proporzionale alla forza. Andare contro una teoria diffusissima richiede una forza argomentativa grandissima, e anche un’altrettanto grande tenuta psicologica da parte dell’argomentatore. Chi non regge o non può reggere la tensione, rischia di esserne travolto. Sentimenti come rabbia, frustrazione e senso di ingiustizia producono distorsioni in chi argomenta: slittamenti logici, fallacie e procedimenti dialettici completamente sballati, cortocircuiti della ragione che portano nel territorio dell’insensato, dell’incoerente o, peggio, della paranoia. Non sto sostenendo ovviamente che la diffusione di una teoria del candore produca paranoia in chi sente di doverla contraddire. Sostengo semplicemente che colpisca, magari per la sfacciataggine con cui è enunciata o per l’ingiustizia che sottende, i nervi scoperti di un soggetto debole. L’effetto è appunto la rottura di un argine: l’uscita dal pensiero razionale verso credenze magiche o in ogni caso facilmente confutabili. E poi?
La teoria del candore si alimenta di questi effetti. Se è molto potente e molto sfacciata (nel senso di inverosimile), si attira argomenti ridicoli da parte di chi ne subisce l’influsso. Di chi non regge all’ombra di questo candore. Le nuove teorie del complotto che si oppongono a una teoria del candore, la rendono ancora più forte, e dunque più frustrante per chi sente di doverci argomentare contro. È una spirale abbastanza sicura, in grado di provocare una enorme distorsione democratica.
Infatti, una potente teoria del candore indurrà alla formulazione di potenti teorie del complotto. Queste ultime, una volta consolidate in seno a un segmento dell’opinione pubblica, autenticheranno la teoria del candore, perché chiunque vorrà mettere in luce la genericità e l’indimostrabilità di quest’ultima (o addirittura la falsità delle sue conseguenze) verrà etichettato semplicemente come complottista. Anzi, una teoria del candore non vede l’ora che nascano teorie del complotto assurde per potersi rinforzare alle spalle di queste. E per diventare ancora più potente e innescare reazioni ancora più sconnesse, che confluiranno nella sua forza. Fino a diventare insomma vera.
A volte, senza bisogno che si porgano esempi, si ha l’impressione che l’obiettivo sociale di una teoria del candore sia esattamente questo: attirarsi teorie del complotto che ne confermino indirettamente la validità. Per questo è sensato ipotizzare che la formulazione di una teoria del candore ragioni anche a partire dai suoi effetti. In uno schema:
Produrre una simile teoria, particolarmente generica e del tutto indimostrabile, esagerando proprio quanto a genericità e indimostrabilità, e diffonderla con l’appoggio di soggetti particolarmente autorevoli o potenti sul piano mediatico.
Attendere gli effetti di frustrazione che la teoria del candore induce in chi ha interesse a contraddirla ma non ne ha gli strumenti, il temperamento, ecc.
Se possibile, alimentare per via retorica questa frustazione sui media.
Raccogliere le teorie del complotto più confutabili o screditate e usarle per validare la teoria del candore, sparando cannonate dunque sul principio di falsificabilità.
Questo schema, che qualcuno potrà ritenere persino banale, spesso funziona anche per ragioni di dinamica. Le teorie del complotto assurde e screditabili sono più veloci. Sorgono quasi subito, in chiave irriflessa, perché non hanno bisogno di tempo di elaborazione. Vengono formulate direi immediatamente, come reazione scomposta dovuta in parte alla frustrazione di cui sopra. Si diffondono anche più velocemente, infatti non hanno bisogno di essere comprese davvero. Hanno dalla loro la velocità dell’intuizione, contro la pesantezza del ragionamento. Al contrario, gli argomenti più sensati che si oppongono a una teoria del candore, hanno bisogno di tempo per essere elaborati (e spesso vengono costruiti in un clima nero, inquinato dallo screditamento che è cominciato a causa di assurde teorie del complotto). Sono quindi più lente a formularsi, ma anche a diffondersi, in quanto necessitano di sforzo conoscitivo. Ecco perché soccombono, e diventano per comoda associazione teorie del complotto irragionevoli. Finiscono per divenire forza confermativa delle teorie del candore, e si perdono nell’irrilevanza. A questo punto il candore è potentissimo, e dovrà passare molto tempo prima che qualcuno possa metterlo in dubbio. Mesi, anni, o cambi di paradigma difficili a venire nel tempo. Non porto altri esempi, ma credo che alcune vicende legate alla guerra in Ucraina e alla pandemia di Sars-CoV-2 siano eloquenti a proposito dell’interazione tra teoria del complotto e ciò che qui chiamo teoria del candore – non porgo esempi in verità perché ne temo l’ombra.
[A gennaio, pubblicavo su NI un saggio dedicato a Charles Reznikoff, uscito sul n° 80 del “verri”. In seguito, ho invitato Giuseppe Nava – che è attualmente uno dei pochi autori, in Italia, a interessarsi al poeta statunitense – a proporci un suo contributo. Lo ringrazio per aver risposto con questo intervento, e ricordo che sue traduzioni di Testimony sono apparse qui e traduzioni di Andrea Raos da Holocaust qui. a. i.]
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Di Giuseppe Nava
A reviewer wrote that when he read Testimony a second time he saw a
world of horror and violence. I didn’t invent the world, but I felt it. [1]
L’operazione che Reznikoff mette in atto per realizzare le sue opere più famose, Testimony e Holocaust, è estremamente semplice, ma proprio in questa semplicità sta anche il segno della sua radicalità. Reznikoff attua quella che Genette definirebbe versification, ovvero la messa in versi di un testo in prosa già esistente – nello specifico, deposizioni testimoniali in sede di processo. Un’operazione che non prevede nessun altro intervento se non questa spezzatura (che peraltro rimane come unica traccia di una “mano” del poeta, insieme alla scelta dei materiali). Quindi, come già rileva Andrea Inglese nel suo saggio [link], non si tratta propriamente di un collage, né risulta da una qualche forma di decostruzione testuale. Il fulcro è tutto nello scarto che si crea tra il materiale di partenza, ovvero il documento legale, e il materiale di arrivo, ovvero il testo poetico. Uno scarto che crea straniamento, che costringe a rimettere continuamente in discussione la lettura del testo.
Sempre Inglese cita il saggio di Marie-Jeanne Zenetti in cui si sottolinea l’esitazione costante del lettore di fronte alla duplice natura – poetica e documentaria – di un’opera di come quella di Reznikoff. Con particolare riferimento a Testimony, trovo che ci siano due approcci alla lettura che agiscono alternativamente, provocando una sorta di continuo stop and go. Inizialmente ci si lascia trascinare dal flusso continuo dei tremendi episodi narrati: il lettore dopotutto si avvicina al testo in quanto poesia – è in versi, è rubricato come poesia pure se non “tradizionale”, l’autore viene definito poeta. Ma questo trascinamento viene continuamente interrotto dalla consapevolezza della natura originaria del testo, ed emergono allora i quesiti intorno a ciò che del testo non sappiamo: chi sta parlando? Quali sono gli effetti del suo parlare? E anche, volendo: potrebbe aver mentito? Il critico Todd Carmody afferma che «Reznikoff sembra disinteressarsi della scena della testimonianza ed esclude il contesto dell’aula del tribunale, traducendo le dichiarazioni alla sbarra […] in racconti fluttuanti del tutto avulsi dalle circostanze della loro enunciazione. Né ci trasmette alcuna sensazione che queste storie appartengano a soggetti distinti, che fanno esperienza del mondo in modi diversi. Ogni racconto è riportato in terza persona, con niente che ci aiuti a distinguere tra i vari lui e lei di cui leggiamo le esperienze»[2].
Quello che accade nell’incontro tra poesia e documento in Reznikoff è una reazione in cui ciascun elemento disinnesca gli aspetti statutari dell’altro. Da un lato, una “certa idea” di poesia – assertiva, portatrice di una qualche verità soggettiva – viene meno: il poeta non crea nulla, si limita alla selezione e alla versificazione. Dall’altro tutti gli elementi autoritativi del documento vengono eliminati dalla trasposizione: il contesto del processo, il dibattito, soprattutto la decisione del giudice. Forse, a volte, anche il linguaggio: Benjamin Watson, un bibliotecario americano specializzato in legge, sarebbe riuscito a risalire ad alcuni dei documenti originali lavorati da Reznikoff, e confrontandoli con le poesie di Testimony, avrebbe scoperto che in molti casi i termini troppo legati al contesto legale erano stati cancellati o modificati. Ho usato il condizionale perché non sono ancora riuscito a recuperare il saggio[3]; oltre che un interessante sguardo sul metodo del poeta newyorkese, questi interventi sarebbero un segno ulteriore dell’obiettivo perseguito da Reznikoff, cioè una poesia oggettiva, autosufficiente.
La sintesi della reazione documento legale/poesia in Reznikoff è dunque il fatto nudo, essenziale, senza interpretazioni né morali. Il fatto, e la musica dei versi, la cui disposizione e spezzatura segna, come già detto, l’unico indizio della cifra del poeta. Reznikoff non era certo indifferente all’aspetto musicale del testo – «what I wanted to do was to create by selection, arrangement, and the rhythm of the words used as a mood or feeling»[4]. Qui si possono ascoltare, tra le altre, due letture da Testimony da parte dello stesso Reznikoff.
Il lavoro di Charles Reznikoff si trova spesso citato tra i primi esempi di quella che negli Stati Uniti viene genericamente definita “documentary poetry” (o docupoetry). Secondo Jill Magi, è a circa metà degli anni novanta che si comincia ad accostare i due termini per indicare non tanto una corrente o un gruppo, quanto piuttosto una categoria di scrittura che fa del lavoro sul documento l’elemento fondamentale della costruzione dell’opera. Ma benché il concetto sia ampiamente sdoganato, con saggi e panel e corsi universitari, Magi rileva che gran parte della discussione critica su di esso «comincia e finisce con la domanda: “Che cos’è?”»[5].
Christophe Hanna ha dedicato un intero capitolo del suo libro Nos dispositifs poétiques al “fonctionnement documental” in poesia[6]: per Hanna il “documento poetico” non è un ibrido tra le qualità di due forme eterogenee, non è un documento che assomiglia a una poesia; ma è creato intenzionalmente, e risponde a un nuovo o diverso bisogno di informazione: «il documento poetico opera […] dando una nuova visibilità (una forma in una nuova sostanza) a un oggetto che ha già un nome (un’etichetta) nella storia o nell’attualità». E ancora, il paradigma enunciativo del documento poetico «non è l’enunciato privato (e indiscutibile) del tipo “io sento…”, “io credo che…” oppure “ho l’intenzione di…”. Al contrario, possiede una certa forma di veridicità, o perlomeno di effetto sulle nostre credenze collettive».
Le definizioni in effetti sono molteplici, e spesso in negativo, cioè dicono cosa non è la poesia documentaria. Ma si possono trovare delle problematiche ricorrenti: «la poesia documentaria transita in modo opposto alla poesia pura o “ispirata” dalla musa o dal numen […] nella poesia documentaria la coscienza si moltiplica o si riflette alla maniera di un gioco di specchi in altre coscienze, o meglio ancora, alla maniera del ventriloquo, in un enunciatore che dà voce ad altri. Quindi vale la pena dire che la poesia documentaria cerca di restituire la voce a coloro che ne sono senza, quelli senza possibilità di redenzione, perché non gli è stato permesso di prendere la parola o perché non sapevano come farlo; quelle voci che rischiano di essere spazzate via dall’oblio e dal silenzio»[7].
Questo porre l’accento sugli aspetti legati a un’idea di collettività, a un “ridare voce” ai vessati e dimenticati della storia, sembra tipico della documentary poetry statunitense, che infatti oltre che a Testimony guarda a The Book of the Dead di Muriel Rukeyser come a un antesignano. Inviata come giornalista in Virginia per raccontare quello che è passato alla storia come il disastro dell’Hawks Nest Tunnel (dove una società elettrica non ha protetto dai rischi dell’esposizione alla silice i propri lavoratori, impegnati nello scavo appunto di un tunnel, provocando di fatto una strage), Rukeyser raccoglie materiali documentari disparati che mette in versi e organizza in un poemetto, interpolandoli ai suoi propri versi. Ci sono estratti delle audizioni al Congresso, stralci dei processi, relazioni mediche, lettere e testimonianze delle vittime o dei loro famigliari. Diversamente da Reznikoff, che pure intraprendeva negli stessi anni la prima stesura di Testimony (The Book of the Dead è uscito nel 1938), Rukeyser non esclude soggetti e circostanze dai testi, ma anzi li esplicita, con nomi e riferimenti precisi.
Alcuni tra gli esiti più recenti della documentary poetry americana sembrano iscriversi nel solco di Rukeyser piuttosto che in quello del Reznikoff di Testimony. Mentre quest’ultimo, nel suo lavoro di selezione e allestimento e versificazione, restituisce un’opera che assume i tratti dell’epica (o di un’anti-epica, come ebbe a dire Charles Simic[8]), i contemporanei si concentrano su casi specifici, episodi e contesti precisi. Mark Nowak in Coal Mountain Elementary (2009) riprende il tema minerario a partire da una recente tragedia negli Stati Uniti, riportando le testimonianze dell’inchiesta, e mettendolo in una prospettiva globale con i resoconti paralleli di numerosi simili incidenti in Cina. One Big Self di Carolyn D. Wright (2007) racconta il mondo carcerario della Louisiana attraverso le voci dei detenuti, raccolte dalla stessa autrice; e ancora, H. L. Hix in God Bless (2007) accosta i discorsi pubblici di George W. Bush alle dichiarazioni di Osama Bin Laden, il tutto messo in versi. Questi sono solo alcuni esempi, ma si intuisce una decisa attenzione agli aspetti sociali e a una funzione politica militante della poesia: “poetry extends the document” dichiarò Rukeyser[9], ovvero laddove un documento può dire qualcosa del mondo, la poesia può amplificare questo effetto «sulle nostre credenze collettive»[10].
*
NOTE
[1] L.S. Dembo, Interview with Charles Reznikoff, in «Contemporary Literature», Vol. 10, No. 2 (Spring, 1969), p. 202.
[2] Todd Carmody, The Banality of the Document: Charles Reznikoff’s Holocaust and Ineloquent Empathy, in «Journal of Modern Literature», 32.1, 2008, p. 90. La traduzione di questa e delle altre citazioni è mia.
[5] Jill Magi, Poetry in Light of Documentary, in «Chicago Review», vol. 59, n. 1-2 (fall 2014-winter 2015), p. 249.
[6] Christophe Hanna, Nos dispositifs poétiques, Question Theoriques, 2010, pp. 177-203.
[7] Mijail Lamas, El estamento ontológico de la poesía documental, in «Guaraguao» 2020, a. 24, n. 63: LÍriCAS híBRiDaS. CoNtaMInACioNEs GenéRIcaS, iNteRMEdiALIdAD y pOlifonía en la pOeSía lAtiNOaMericAna rECiente, p. 86.
[9] Citata da Catherine Venable Moore nell’introduzione a The Book of the Dead, West Virginia University Press, 2018, p. 11.
[10] Cfr. le citazioni da Hanna. Non a caso, Nowak – come già Muriel Rukeyser prima di lui – svolge anche attivismo sociale, in particolare rispetto alle problematiche della working class statunitense.
Una raccolta di storie interconnesse in quattro sezioni: Coloro che amano, Ritratti in bilico, Tra le orecchie e Paesaggi sghembi. Ogni sezione dà corpo a un’idea di scrittura, o almeno tenta di farlo. In Coloro che amano l’azione si regge sull’imperfetto, che è il tempo della fiaba, e i protagonisti, come eroi fiabeschi vi precipitano all’interno animati da una mania, da un affanno, da un sentimento esclusivo. Ritratti in bilico, che è anche la sezione col maggior numero di racconti, tratteggia una galleria di personaggi insoliti, in sospensione, tra le pieghe di un’esistenza a tratti comica, altre volte amara e indigesta. Mentre Tra le orecchie dà voce a un flusso di coscienza/monologo – spesso travestito da dialogo – di un personaggio, vittima della sua pigrizia, recluso nello spazio asfittico di una stanzetta a pigione, loculo che coincide, in un cortocircuito semantico comico-umoristico, con la sua testa. Infine, i pochi racconti di Paesaggi sghembi hanno l’obiettivo di ribaltare la realtà, di renderla manifesta al lettore solo alla fine, ammesso che sia quella giusta.Ogni racconto ha una sua unità anche se si richiama sempre a qualche altro. A volte è il precedente o quello a venire, altre un racconto di cui il lettore sembrerebbe aver perso traccia. Il tutto avviene in un lieve gioco di specchi che, mi auguro, possa rendere più gustosa e coinvolgente la lettura.
ritratti in bilico
I previdenti
Ogni giorno la morte entra più volte nel suo negozio.
A volte è corrucciata, con delle vistose borse sotto gli occhi – segno evidente di notti in bianco –, con un passo lento e stanco; altre volte invece è più sicura e determinata, sempre seria, ma con una serietà più legata ai numeri e ai conti che a un’afflizione esistenziale. Ci sono giorni, invece, che quando arriva sembra essere tutta dedita ai piaceri dell’arte, soprattutto quella scultorea, ed è allora che le sue domande si fanno fitte sulle proprietà del marmo, i suoi colori, i luoghi di provenienza, e può stare anche un’ora a chiedere le peculiarità e le differenze che intercorrono tra un botticino classico e un travertino, o tra un bardiglio fiorito e una calacatta.
Lui la conosce da un tempo lontano; era ancora un ragazzo quando la incontrò per la prima volta. Ha imparato, con gli anni, a gestirla; a piegarsi al vento dei suoi malumori, a rispondere a tono e con calma alle sue domande, a farle uno sconto quando lo richiede, a essere malleabile verso il suo gusto spesso bizzarro, ad assecondarla senza essere servile, e a rassicurarla quando la nota incerta e indecisa.
D’altro canto il negozio di marmista che gestisce era di suo padre e, prima ancora, in una botteguccia fatiscente e lurida, del nonno. Tutti marmisti di lapidi funerarie. Una famiglia d’arte, mortuaria, ma sempre d’arte.
La morte ha dato da mangiare a tutta la sua famiglia per più di un secolo, con loro sicuramente è stata magnanima, tutt’altro che crudele e arpia e viscida e infingarda, come la si vorrebbe credere. Una gran signora capace di munifici slanci sempre ben accolti.
La morte, lui lo sa, si appiccica alla pelle degli avventori del suo negozio, e tramite loro si palesa. Ma solo a lui. Gli altri, quelli che non hanno l’occhio allenato da generazioni, non possono vederla. Per un estraneo, la vecchia moglie che viene a chiedere una lapide per il marito defunto, non è altro che una signora affranta dagli eventi dell’esistenza. Ma lui sa, invece, che in quel momento è la morte che parla con la voce della vedova, è lei che le ha scelto i vestiti, che ha deciso quale passo darle, quale umore, curiosità, negligenza o attenzione farle mettere in campo. Il campo funebre non è solo nell’obitorio. Comincia nel suo negozio e si estende poi per un tempo e uno spazio che forse solo Dio può dire quanto grande sia. Lui ne occupa un minuscolo segmento, ma di quella infinitesima parte lui è il re, o perlomeno il guardiano. Ha un titolo, un ruolo, e gli viene riconosciuto. Quando parla lo si ascolta, quando enumera ancor di più.
Negli ultimi mesi, con una frequenza molto maggiore che in passato, varie persone, perlopiù donne, sono venute nel suo negozio per commissionargli, in evidente anticipo, le lapidi che andranno a ricoprire le loro tombe. Era già successo, è vero, ma di rado, e la richiesta era sempre venuta da parte di persone alquanto eccentriche alle quali non aveva mai dato troppa rilevanza. Ora, era abbastanza normale che qualcuno volesse, con precisione e piglio organizzativo, definire tutti i dettagli della propria lapide funeraria: tipo di marmo, forma, incisione scultorea – spesso gli si chiedeva di intarsiare un ramo di rose a bordo lapide, pratica nella quale mostrava una certa abilità –, costi, collocazione nel campo santo e risistemazione della lapide in caso di futuri smottamenti del terreno.
Lui ascoltava, prendeva appunti sul suo taccuino, consigliava nel caso ve ne fosse bisogno, elencava i prezzi e, a volte, accettava di fare un piccolo sconto sul totale.
Anche adesso, se qualcuno avesse messo il naso nel suo negozio, avrebbe notato, in bella vista, una lapide realizzata con un marmo bianco leggermente striato di grigio – bianco statuario è il nome tecnico – sulla quale erano già state stuccate una a una le lettere di un nome e un cognome: Fiorella Braccialetti. Nell’epitaffio, inoltre vi era la data di nascita e lo spazio lasciato vuoto di quella che sarebbe stata la data di morte.
La signora Braccialetti aveva scelto con cura il tipo di marmo, il colore e la grandezza delle scritte, la foto affissa in alto al centro dove la si vedeva sorridente, presumibilmente illuminata da un sole primaverile, con le mani aperte in un gesto di pacificata accoglienza. La signora Braccialetti aveva già saldato il conto e preso accordi in dettaglio col negoziante per quando sarebbe giunta la sua ora. Lui sapeva esattamente dove sarebbe stata sepolta e cosa avrebbe dovuto fare.
La particolarità, rispetto ad altri casi simili, era che la signora Braccialetti godeva di ottima salute e, soprattutto, che aveva solo quarantaquattro anni.
«Un po’ presto per pensare alla propria tomba, no?»
«Meglio essere previdenti nella vita, finché ci è dato esserlo, non trova?» gli aveva detto, lapidaria.
Se n’era poi andata con passo sicuro, senza voltarsi indietro, restituendogli l’impressione di una donna determinata che non torna mai sulle proprie scelte.
Da allora ogni tanto ci pensava.
Avrebbe dovuto preparare anche la sua lapide? Deciderne il marmo e tutto il resto, comprare il tombino al cimitero, svolgere tutti i consueti atti amministrativi che, di norma, espletava per i suoi clienti?
Aveva moglie e figli, non era solo. Ci avrebbero pensato loro. E poi non era vecchio, gli rimanevano ancora parecchi anni prima che la sua morte potesse essere interpretata come un dato di normalità. Non era sconsigliabile accarezzare la morte, proponendole già tutto il pacchetto infiocchettato? Come se le dicesse che era pronto e che poteva anche prenderlo subito, senza dover attendere un minuto in più.
E così, con questi pensieri in testa, ogni sera chiudeva il negozio, senza decidersi sul da farsi.
Una sera d’inverno, mentre pensava ancora se facesse bene a preparare la sua lapide al più presto oppure no, prese la macchina e si tuffò, come di norma, in tangenziale. Il precoce buio delle troppo brevi giornate novembrine veniva rischiarato dai lampioni stradali. Si era attardato in negozio, a casa sicuramente la cena era già stata consumata e lui riusciva a immaginare in modo vivido i volti dei suoi familiari: corrucciati per i suoi numerosi ritardi e borbottanti più d’una caffettiera sul fuoco. In quel preciso istante pensò di fuggire, di andarsene via, di abbandonare tutto. Bastava lasciarsi guidare dalla luce dei lampioni, semplicemente, dalla loro regolare cadenza, seguirne la linea che si perdeva all’orizzonte. Queste lucciole meccaniche esercitavano su di lui un potere tranquillizzante; cominciò a fantasticare, fino a giungere in una zona di confine in cui la realtà non era imbrigliata nei laccioli delle con-venzioni sociali e neppure da quelle matrimoniali, ancor più costrittive – almeno nel suo caso –, ma gli si presentava in un’altra veste: un futuro vissuto sulla strada, nella notte, rischiarata con una tranquillizzante regolarità dalla linea senza fine dei lampioni. Così il suo sguardo andò al cielo, o meglio, un po’ più in basso delle nuvole, a quelle luci che lo catturarono così come d’abitudine succede con gli insetti. E si librò in volo con loro, vagolando libero da ogni affanno terreno.
La libertà ha un prezzo e nel suo caso fu la dispensa dagli affanni del quotidiano: sbandò con la macchina che, dopo varie capriole, si andò a schiantare contro la granitica barriera stradale.
Morì mezz’ora dopo sull’ambulanza diretta all’ospedale.
La scelta della sua tomba rimase in carico ai familiari che, essendo avari e poco inclini a ricordarsi di chi aveva lavorato per il loro agio, decisero per una lapide di quarzo a buon mercato, un avanzo invenduto di magazzino. Quando lo seppellirono, in fondo al camposanto, fu un giorno di pioggia, desolato, in cui anche i corvi non ebbero il coraggio e tanto meno il desiderio d’involarsi dai loro nidi.
Michele Mellara, documentarista, regista e sceneggiatore, condivide la quasi totalità della sua produzione artistica con Alessandro Rossi col quale da oltre vent’anni scrive e dirige. I loro film sono stati proiettati in centinaia di festival in tutto il mondo e trasmessi dalle emittenti televisive di oltre cinquanta Stati. È socio fondatore della Mammut Film. Insegna Cinema documentario all’Università di Bologna.
Christine Madrid French, The Architecture of Suspense. The Built World in the Films of Alfred Hitchcock, University of Virginia Press, 2022.
Bruno Zevi si fidava poco di piante e sezioni per capire l’intima essenza dell’architettura. Credeva, ottant’anni fa, che forse il mezzo cinematografico sarebbe stato il più corretto per rappresentarla, laddove non se ne potesse avere un’esperienza diretta. Tempo e spazio. Cioè architettura (e cinema). Gli architetti hanno sempre amato il cinema, dispositivo perfetto per rappresentare il mondo, più ancora della fotografia. Gli architetti scrivono di cinema da sempre (si consultino, per capire cosa intendo, i numeri di Domus o di Casabella degli anni Trenta, dove giovani avanguardisti ne scrivevano con passione e competenza). Chi scrive di cinema, invece, di architettura ne capisce poco. Ecco perché ho apprezzato questo lavoro di Christine Madrid French, pubblicato dall’University of Virginia Press.
The architecture of suspense è un libro che inverte la polarità sul tema. L’autrice si occupa di conservazione del patrimonio architettonico negli Stati Uniti, è insomma una specialista, che però ha compreso quanto il cinema non sia solo un dispositivo per l’interpretazione del paesaggio, ma il creatore perfetto di immaginari architettonici. E il maestro, il guru, l’architetto assoluto di questa disciplina è stato (ed è tuttora, a ben vedere) Alfred Hitchcock.
Gli edifici, nei suoi film, non sono solo scenari dove far muovere i personaggi, ma spazi attivi, attori partecipanti, snodi narrativi: scalinate oscure e minacciose, motel diroccati, ville decò incombenti, cortili urbani panottici, campanili vertiginosi. Spazi emotivi. Che nella maggior parte delle volte non sono mai esistiti, tutti ricostruiti negli studios hollywoodiani, ma così veri – più veri del vero – che sono entrati prepotenti nel nostro immaginario.
Caso esemplare, per capire cosa intendo, è quello raccontato da Christine Madrid French nel secondo capitolo del libro, dove si tratta della “tana del cattivo”. Hitch è praticamente il primo che forza il tropo narrativo dell’abitazione del vilain trasformandolo da castello gotico, oscuro, figlio di una letteratura ottocentesca (da Frankenstein a Dracula, gli esempi sono infiniti) a luogo limpido, razionale, organico, modernista, colto. Il mostruoso architettonico, correlativo oggettivo del suo proprietario, è algido e chic, raffinato e contemporaneo. In North by Northwest (il nostro Intrigo internazionale), Phillip Vandamm, l’antagonista di Cary Grant, vive in una villa lussuosissima e wrightiana alle pendici del monte Rushmore. Edificio, ci ricorda French, talmente iconico, da essere stato cercato da anni dai turisti di passaggio.
Senza mai trovarlo, dato che è un set disegnato dallo scenografo Robert F. Boyle negli studi della Metro-Goldwyn-Mayer a Los Angeles. Eppure, insisto, questa architettura più vera del vero, ha saputo diffondere a livello pop un’idea di modernismo (elegante e inquietante) che ha segnato ogni futura interpretazione dell’idea di spazio costruito contemporaneo. Grazie al grande architetto e illusionista che fu Alfred Hitchcock. Hitch, per gli amici.
(precedentemente pubblicato su Abitare, gennaio 2023, n 621)
Ho trovato Poesie per giovani adulti di Michele Zaffarano dentro una scatola. Se prendi un libro online delle volte ti mandano una scatola. Appena ho aperto la scatola ho visto che il libro c’ha la copertina riflettente che ti ci specchi. Argentata. E ci puoi cuocere sopra anche un uovo. Su YouTube ho visto che i soldati di Rommel cuocevano le uova sulla lamiera dei carri armati. Lamiera luccicante. Nel deserto. Ecco, che in Poesie per giovani adulti di Michele Zaffarano manchi il carro armato è la prima osservazione che mi sento di fare. Manca anche l’uovo.
2.
Prendilo il libro, ne vale la pena. Dentro c’è un poemetto. Ti chiederai: è autobiografico? A me piace pensare che lo sia. Zaffarano ti fa credere che il finto è vero, e il vero finto. Ti do però questo filo da tenere in mano durante la lettura: chiediti anche se l’autore sta parlando di te. Ho rivisto Michele a RicercaBO, dicembre 2022. Nuovi occhiali barba più magro. Capelli più corti. Leggendo Poesie per giovani adulti ho pensato: anche Michele di notte apre il frigo e trova sul ripiano uno yogurt già iniziato. SOLO. Ecco: in Poesie per giovani adulti non trovi lo yogurt già iniziato. Ma c’è il resto.
3.
Tema centrale? Te lo dice la parola fidanzata, ripetuta per cinquantatré (53) volte. Sono come cinquantatré battiti. Sempre un po’ diversi l’uno dall’altro. «Prossima» e «futura» sono gli aggettivi che li accompagnano più spesso, questi battiti, uno un po’ diverso dall’altro (ti dicevo). Ma solo un po’. In mezzo tanta vita: madre, scarpe, viaggio, nipote, sorella, vacanza e sempre la «prossima forse futura fidanzata».
4.
Ti metto però anche gli altri ingredienti che trovi nel piatto: ironia, morte, dolore, solitudine, sesso, Catullo, suicidio. Leggi/mangi e ti viene voglia di psicanalizzare l’autore, pensi che è un giochino bello e facile da fare. Ma stai attento alle trappole. Io c’ho provato, ho sottolineato, ho scritto parole sul libro con una biro rossa (mi sono sentito bravo!), poi ho chiuso tutto e mi sono fatto un caffè. Ti dico solo che di quanto ho scritto mi piace non dirti nulla.
5.
Leggendo le centoventicinque pagine – ma il poemetto è in fondo breve-brevissimo, fatto di una pioggia di piccoli versi – ho sempre aspettato che arrivasse il battito, che arrivasse la parola «fidanzata». Futura prossima forse. Ecco, questo battito è la cosa che mi interessa di più. Mi tocca. Zaffarano per me è quel battito, sento leggere o leggo Zaffarano, e quel battito c’è sempre.
6.
Così nel 2014. Michele è a Bologna, sera. Via Mascarella. Legge sue poesie e io sono lì per ascoltarlo (Paragrafi sull’armonia). Lo presenta Stefano Colangelo. Fra gli autori della Prosa in prosa, Michele è per me suono ritmo silenzio musica. E poi parole, ma le parole vengono dopo la musica il silenzio il ritmo il suono. Michele Zaffarano mi ipnotizza le orecchie, l’udito zittisce la vista. Michele ha una capacità ipnotico/incantatoria. La sera vado su YouTube e mi metto ad ascoltarlo in cuffia mentre legge. Michele Zaffarano è un aedo.
7.
Due cose in Poesie per giovani adulti mi sembrano nuove per Zaffarano: la volontà di darsi una storia per costruire una trama e lo scavo in profondità. Troppa trama uccide la sperimentazione, questo mi pare di poterlo dire. Qui c’è un poemetto fatto di undici testi numerati con lettere maiuscole. Undici lettere diverse e consequenziali. Le lettere che mancano, i vuoti della storia a cui allude l’autore, evitano l’asfissia e danno leggerezza. E poi lo scavo in profondità, dicevo. Pericoloso perché a rischio noia (quanto è bello talvolta essere superficiali!). Ma qui la noia è evitata, te lo assicuro.
8.
Di classe infine è l’idea di mettere un foglio rosa staccato all’interno del volume. Su di esso l’autore si rivolge a due tu. TU libretto e TU fidanzata. Forse la «prossima futura fidanzata» si innamorerà del libretto e fuggirà con lui. Aspettiamo di saperlo, sarebbe una fidanzata che si intende di poesia. Intanto bravo Zaffarano che è riuscito a parlare di amore in modo nuovo.
Otto Dix, “Il ritratto di Sylvia Von Harden” (1926; Parigi, Centre Pompidou)
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Da: Sergej Dovlatov, La marcia dei solitari, tr. it. Laura Salmon, Palermo, Sellerio 2006, pp. 229-230.
Io non discuto. Lo Stato sovietico non è il posto migliore al mondo. E laggiù c’erano tante cose spaventose. Tuttavia c’erano anche cose che non dimenticheremo mai.
Sgozzatemi, squartatemi pure, ma i nostri fiammiferi erano meglio di quelli americani. È una sciocchezza, tanto per cominciare.
Andiamo avanti. La milizia a Leningrado agiva più operativamente. E non parlo dei dissidenti. Delle malefatte del KGB. Parlo dei normali, banali miliziani. E dei normali, banali teppisti…
Se si urla su una via di Mosca «Aiuto!», la folla accorre. Qui ti passano accanto.
Là, in autobus, cedevano il posto agli anziani. Qui non succede mai. In nessuna circostanza. E va detto che ci siamo abituati in fretta pure noi. In generale c’erano molte buone cose. Ci si aiutava a vicenda un po’ più volentieri. E ci si azzuffava senza paura delle conseguenze. E ci si congedava dall’ultima banconota senza tormentosi indugi.
Non sta a me criticare l’America. Io per primo sono sopravvissuto grazie all’emigrazione. E amo sempre di più questo paese. Cosa che non mi impedisce, penso io, di amare la patria che ho lasciato…
I fiammiferi sono una sciocchezza. Sono altre le cose importanti. Esiste il concetto di pubblica opinione. A Mosca era una forza reale. Una persona si vergognava di mentire. Si vergognava di adulare le autorità. Si vergognava di essere venale, furba, cattiva. Le avrebbero chiuso le porte in faccia. Sarebbe divenuta uno zimbello, un reietto. E questo era peggio della galera.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
Più di un anno fa, “Cuore di seta” ha conquistato con immediatezza uno spazio nel mio cuore e nella mia libreria e ad esso sono molto grata: si tratta dell’autobiografia di un uomo cinese, mio coetaneo, arrivato clandestinamente in Italia all’inizio degli anni Novanta e oggi affermato attore. Shi Yang Shi ripercorre in esso le sue fatiche, a volte schiaccianti e frustranti, nell’integrazione in un contesto culturale, linguistico, sociale, radicalmente alieno rispetto a quello d’origine; basterebbe questo per definire “Cuore di seta” una lettura imprescindibile per ciascun insegnante. Ma potrebbe essere altrettanto imprescindibile anche per chi segue gli stereotipi in base ai quali gli immigrati tutti ci rubano il lavoro oppure che è meglio aiutarli a morire a casa loro. Vi si leggono le vicissitudini familiari sopportate per sopravvivere economicamente, in un luogo – il Bel Paese – dove la formazione medica dei genitori non ha contato assolutamente nulla; un luogo dove la vita è caduta in un “buco”, nonostante sia stato scelto pur di evadere da una società in cui alcuni diritti fondamentali non sono assicurati e pur di dare un futuro migliore proprio a Shi – come probabilmente auspicavano fino a qualche giorno fa le 68 persone morte a 150 metri dalla costa italiana.
Ma al di là degli elementi documentaristici, Shi Yang Shi – un ‘banana’: ovvero giallo fuori e bianco dentro – con pacatezza, umiltà e un pizzico di autoironia ci accompagna nel suo viaggio introspettivo alla ricerca della propria identità e di una possibile sintesi tra cultura cinese e cultura europea, regalandoci alcune perle filosofiche luminescenti. “Cuore di seta” ci consegna un esempio utile per tutti di spirito di sacrificio e forza d’animo ed è inoltre capace di parlarci dei molti coi quali conviviamo, figli di immigrati, cresciuti qui in Italia, spesso smarriti nel tentativo di identificarsi.
Un applauso va dunque a Cristina Palumbo, direttrice artistica di Echidna Cultura, per aver proposto domenica scorsa a Vigonza “Arle-chino. Traduttore-traditore di due padroni”, di cui Shi Yang Shi è interprete e pure regista (insieme alla scomparsa Cristina Pezzoli). Una novità forse assoluta nel panorama teatrale è che lo spettacolo è svolto in una formula bilingue, includendo una lingua extracomunitaria: ebbene sì, ogni battuta viene pronunciata due volte, una in italiano ed una in cinese, intendendo rivolgersi e coinvolgere anche un pubblico cinese. E finalmente, in una platea piacevolmente piena, si sono visti i primi ospiti cinesi. “Arle-chino” segna quindi una possibile direzione verso un orizzonte di integrazione che è urgente concretizzare, indicandoci che può e deve essere realizzata anche sdoganando gli spazi culturali dove si promuove un’aggregazione virtuosa ed aprendoli alla frequentazione di chi resta ai margini, di chi continua ad essere soltanto oggetto di narrazioni e raramente soggetto, di chi resta giustificazione di operazioni culturali ma di cui raramente si promuove la partecipazione effettiva.
Lo spettacolo integra il libro con ulteriori episodi, alcuni dei quali meglio fanno capire le contraddizioni del regime comunista, il fardello che pesa e minaccia la vita privata di ciascuna famiglia e anche la radicale solitudine e l’abnegazione di coloro che hanno scelto l’Europa. Uno dei più agghiaccianti episodi portati in scena rievoca un momento di grande tensione tra la comunità cinese di Prato e i cittadini italiani, tra cui Shi Yang Shi si trovò a svolgere il ruolo di traduttore, all’indomani del rogo di un capannone in cui alcuni lavoratori cinesi persero la vita e la loro vita perduta non ebbe affatto risonanza nei media.
Senz’altro è anche questo lato militante dell’autore, il suo stare dentro le cose, che rende la sua stoffa più solida, consapevole ed autorevole. Per quanto riguarda la composizione teatrale, pur con qualche ingenuità, è indubbiamente apprezzabile la capacità di portare in scena una materia corposa e densamente tragica, facendo prevalere il registro comico e la cifra della speranza.
Nel dialogo finale con pubblico, Shi Yang Shi ha fatto brillare senza diaframmi la sua autenticità e il suo spessore: un misto di delicatezza, coraggio, voglia di vivere, simpatia, profondità di pensiero. La sua voce testimonia come la cultura e un profondo lavoro su se stessi possano riscattare le sconfitte imposte dalle circostanze attraverso una crescita personale che ci fa sbocciare al mondo come un dono, semplicemente grazie al proprio radicamento, a prescindere dalla capacità di arrivare a risultati artistici così complessi.
Infine, va dato merito al Comune Di Vigonza per aver affidato la gestione del Teatro Quirino de Giorgio a una delle poche realtà indipendenti di organizzazione dello spettacolo dal vivo che restano in questo territorio, fagocitato da un monopolio che sta nuocendo gravemente alla salute degli spettatori e alla teatro-diversità.
Giamaicano d’origine, olandese d’adozione, Wayne Modest è docente di Critical Heritage Studies alla Vrije Universiteit di Amsterdam e direttore del Nationaal Museum der Wereldculturen, un complesso che raggruppa i principali musei etnografici d’Olanda: il Museum Volkenkunde di Leiden, l’Afrika Museum di Berg en Dal, il Wereldmuseum di Rotterdam e il Tropen Museum nella capitale. In questa intervista racconta la sfida di una missione non impossibile: decolonizzare i musei occidentali.
Da tempo il dibattito sulla decolonizzazione dei musei europei si è imposto all’attenzione di un pubblico più vasto della cerchia degli addetti ai lavori. Per i fautori si tratta di un’impresa necessaria, mentre i detrattori lo considerano un’aberrazione paranoica. Quando e come ha cominciato a riflettere su questo tema?
Mi sono posto per la prima volta il problema della decolonizzazione dei musei negli anni ’90, quando ancora vivevo in Giamaica, dove sono nato, cresciuto e rimasto fino al 2007, pur avendo soggiornato nel frattempo in Olanda e negli Stati Uniti in maniera intermittente per proseguire gli studi. Appena diplomato in chimica all’Università delle Indie Occidentali, a Kingston, mi fu proposto di progettare e costruire un laboratorio chimico all’interno di un museo locale. Accolsi volentieri l’invito, entusiasta di quel connubio che mi sembrava eccezionale: all’interno del museo la chimica poteva finalmente prendere corpo nella materialità gli oggetti.
Lavorando sul campo ho capito quanto la museologia fosse integralmente dominata dai canoni europei, a partire dalla centralità attribuita alla struttura museale come unico sito adibito alla conservazione del patrimonio. D’altra parte, i mezzi a disposizione erano limitati e la pretesa che le pratiche di conservazione in Giamaica dovessero conformarsi ai protocolli europei era fuorviante. A proposito di chimica e di materia, come si fa a pensare di conservare gli oggetti a 17 gradi in un paese in cui fin dall’alba la temperatura è già a 27, per di più con un’umidità fortissima? Eppure, l’ipotesi che in Giamaica si potesse contravvenire alla concezione made in Europe di cosa fosse e come dovesse essere allestito un museo era inconcepibile. Direi che proprio in questo scarto è emersa per me la questione della decolonizzazione: come un problema concreto prodotto dalle contraddizioni di una società postcoloniale.
In Europa – pensiamo ad esempio alla Francia, alla Gran Bretagna e all’Olanda, tre paesi che nei secoli scorsi sono stati alla guida di immensi imperi coloniali – come ha cominciato ad affacciarsi l’idea di decolonizzare i patrimoni nazionali?
Francia, Gran Bretagna e Olanda rappresentano tre realtà nazionali molto diverse, ognuna delle quali è erede di una storia distinta dalle altre. E le differenze politico-culturali affiorano chiaramente se paragoniamo i risvolti del dibattito sulle restituzioni in ciascuno di questi paesi. In Gran Bretagna la cultura dei musei è pedagogica; in Olanda individualista e molto poco comunitaria; in Francia nettamente elitista. Questo si traduce in approcci piuttosto divergenti alle teorie e pratiche della decolonizzazione.
Quando sono arrivato in Inghilterra nel 2007, mi sono reso conto che il tema del colonialismo era ancora un grosso tabù. Era l’anno delle celebrazioni del bicentenario dell’abolizione della tratta, che finalmente dissotterrava la storia sepolta della schiavitù, facendo solo qualche rara allusione all’esperienza coloniale britannica, ma senza mai prendere di petto la questione. Il museo etnografico presso cui lavoravo a Londra, l’Hornimon Museum, di cui dirigevo la sezione antropologica, è un museo relativamente piccolo, ma molto affascinante per la sua natura spiccatamente coloniale, e per il suo carattere fortemente didascalico. Non credo di aver mai visto un museo così tanto frequentato da famiglie con bambini, e così radicato nella vita delle comunità locali. La pratica curatoriale implicava il coinvolgimento delle comunità, i cui trascorsi migratori affondavano le radici nella storia dell’impero britannico. Il sentimento istituzionale dominante era la volontà di includere e riconciliare, anziché il desiderio di approfondire il lascito doloroso e conflittuale della storia coloniale. Mentre oggi in un museo etnografico la questione coloniale è semplicemente ineludibile, all’epoca si usavano altri termini per designarla: si parlava di ‘incontri’ e ‘relazioni’, parole che hanno il merito di dissipare la violenza e sovrascrivere la dominazione, cancellando tutte le ferite, quasi si fosse trattato di una bella avventura. Da alcuni anni però le cose sono cambiate e la Gran Bretagna ha adottato un approccio diretto e pragmatico alla questione, pur sempre all’insegna della conciliazione.
In Francia, invece, domina un certo elitismo, come dicevo, e una persistente difficoltà a misurarsi con il lascito del passato coloniale. Dall’esperienza inglese ho imparato l’importanza di radicare i musei nel tessuto delle comunità che abitano la città. In Francia siamo agli antipodi: l’arte è materia d’élite e come tale viene protetta dalla cittadinanza, perciò, l’intervento delle comunità interessate in particolare ai discorsi sulla decolonizzazione fa molta fatica ad essere accolto e guadagnare legittimità.
In Olanda la questione della decolonizzazione è affrontata con un discreto pragmatismo per rispondere alle esigenze crescenti che vengono dal basso, benché la cultura museale sia tradizionalmente individualista e non comunitaria. Quando sono venuto in Olanda per la prima volta durante circa un anno, nel 1998, per un seguire un master in museologia alla Reinwardt Academie di Amsterdam, la situazione era molto diversa da oggi: parliamo di un’epoca precedente all’11 settembre, quando non era ancora stata decretata la morte del multiculturalismo, e non era stata avviata la svolta destrorsa e nazionalista che i Paesi Bassi avrebbero conosciuto qualche tempo dopo. Quando sono ritornato nel 2010 per lavorare al Tropen Museum, ho trovato tutt’altra atmosfera. Nel corso degli anni si è imposta, non senza ostacoli e resistenze istituzionali e dell’opinione pubblica, una consapevolezza diffusa della necessità di fare i conti con la storia coloniale e di coinvolgere le comunità interessate, il cui presente è tuttora condizionato da quella storia. E ovviamente la questione si è posta in maniera ancora più urgente e bruciante per i musei etnografici, in Olanda come altrove.
Nei Paesi Bassi, invece, come ha preso corpo il dibattito sulla decolonizzazione dei musei?
In Olanda è da molti anni che artisti, intellettuali e attivisti hanno iniziato a sollevare critiche giuste e coraggiose a proposito della colonialità delle pratiche curatoriali dei musei. Hanno cominciato a farlo quando ancora un dibattito pubblico sulla storia coloniale del Regno era assolutamente impensabile. C’è stato però un punto di svolta, una scintilla che posso ricordare in prima persona, perché riguarda un progetto lanciato al Tropen Museum di Amsterdam nel 2015. È in questo contesto che, per la prima volta, la parola d’ordine #DecolonizetheMuseum è stata introdotta in un museo nazionale per iniziativa di un gruppo di tre attiviste decoloniali coinvolte nel progetto: Simone Zeefuik, Hodan Warsame, e Tirza Balk. Il progetto prevedeva di invitare artisti e attivisti a riflettere criticamente sullo spazio del Tropen: dalle collezioni, alla maniera in cui erano presentati gli oggetti, alle didascalie. Nel 2016 il gruppo di lavoro ha proposto di organizzare un evento pubblico, intitolato Decolonize the Museum, coinvolgendo curatori, artisti e ricercatori dall’Olanda e dall’estero. Per questa occasione gli organizzatori avevano predisposto una serie di pannelli con inserzioni di testo che facevano il controcanto ai pannelli ufficiali del museo, raccontando in parallelo un’altra storia. Alcune di queste inserzioni riportavano l’origine degli oggetti esibiti e le circostanze in cui erano stati acquisiti, ovvero rubati e strappati alla propria provenienza per esser trasportati nei Paesi Bassi. Altre richiamavano la storia coloniale, rievocando la tratta degli schiavi, le piantagioni, lo sfruttamento, e contestandone l’omissione intenzionale nelle didascalie ufficiali. Per noi responsabili del museo l’esito dell’iniziativa fu una sorpresa, esperita con un certo disagio. Il messaggio trasmesso al pubblico fu una critica senz’appello, ma ne accettammo le conseguenze, perché ritenemmo che fosse un battesimo del fuoco fondamentale: quando dirigi un museo è importante sapere cosa «vedono» i visitatori e cosa non va. Saper accogliere le critiche è il primo passo per poter riorientare lo sguardo. Questa è la principale sfida da accogliere rispetto alla decolonizzazione: accettare e rispondere al disagio generato da critiche e rivendicazioni legittime e comprendere che l’obiettivo di decolonizzare la società chiama in causa la natura stessa di processi sociali e regimi epistemici intrisi della matrice coloniale che non possono essere disfatti in un lampo.
Al Tropen non possiamo non fare i conti con il fatto che i nostri magazzini ospitano resti umani e oggetti rubati deportati dalle ex colonie olandesi. Il carattere etnografico di questi contenuti condiziona lo spazio e ogni mostra allestita qui dentro. Una tale consapevolezza deve spronarci ad analizzare criticamente la conservazione, la funzione che ciascun museo adempie naturalmente. Cosa significa conservare e cosa significa esporre questi materiali? C’è bisogno di riflessione, perché non c’è nessun decalogo della decolonizzazione pronto per l’uso e valido in ogni dove.
Una delle piste più dibattute in relazione all’impresa di decolonizzare i musei europei è quella delle restituzioni. Il «Rapporto sulla restituzione del patrimonio culturale africano» (2018) commissionato dal governo francese a Felwine Sarr e Bénédicte Savoy ha contribuito ad avvalorare questa opzione, che rimane tuttavia osteggiata da molti. Restituire è necessario?
È necessario, ma non sufficiente. Con la fondazione Museum van Wereldculturen, che raggruppa i principali musei etnografici dei Paesi Bassi, abbiamo cominciato ad affrontare la questione delle restituzioni già diversi anni fa. E nel tempo abbiamo avviato ricerche sulla provenienza e predisposto un sistema di tracciabilità consultabile online per fare in modo che le nostre collezioni siano aperte a tutti, disponibili e accessibili. Da anni collaboriamo con diversi musei in Indonesia, dal momento che una buona parte del nostro patrimonio, circa 140 mila oggetti, viene da lì. Nella nostra esperienza il rischio paventato che i musei etnografici europei vengano svuotati dalle restituzioni è chiaramente immotivato.
Quindi direi che restituire è sicuramente importante, ed è necessario, ma decolonizzare non significa solo restituire. Come lo sottolineano già Savoy e Sarr nel loro rapporto sottotitolato Vers une nouvelle éthique relationnelle, la decolonizzazione dei musei chiama in causa le relazioni che sussistono tra paesi, istituzioni e patrimoni e che passano per gli oggetti – i resti, gli artefatti e le opere d’arte. Si tratta di ripensare e riconfigurare queste relazioni, ma ciò non può avvenire senza rimettere in discussione i rapporti di proprietà e senza concepire un nuovo diritto alla circolazione delle collezioni. C’è bisogno di desacralizzare il ruolo del museo quale unico spazio adibito all’esposizione e la funzione della conservazione considerata come prerogativa esclusiva dei musei, e come un imperativo indiscutibile nell’ambito dei beni culturali.
Si tratta d’immaginare, ad esempio, che conservazione e fruizione di un patrimonio possano avvenire al di fuori degli spazi museali o all’interno di spazi museali concepiti diversamente rispetto a quelli europei. Significa pensare la conservazione e insieme la perdita possibile di porzioni dei patrimoni nazionali: dobbiamo conservare tutto, tramandare tutto e accumulare all’infinito? Forse no, è anche una questione di decrescita. Aprire alla restituzione vuol dire accettare la possibilità che un oggetto esposto diventi un oggetto privato, oppure un oggetto dislocato altrove, fruito altrimenti e da altri. Significa detronizzare la tradizione museale occidentale, e provincializzare l’Europa nei contenuti espositivi. Parlare di restituzioni implica anche questo.
Una cosa da sottolineare è che il dibattito sulle restituzioni ha portato alla ribalta l’idea di redistribuzione. La restituzione è una pratica redistributiva che consente di concepire un diverso ordine della proprietà e della circolazione. Le opere d’arte del British Museum devono poter circolare in Ghana e in Cambogia. Il Sud globale deve poter avere accesso alla fruizione dell’arte esposta nei musei europei. E questa ipotesi è complicata dalle disparita materiali che rendono la circolazione un processo a senso unico poiché i costi che comporta non possono essere sostenuti in paesi come la Giamaica o la Nigeria.
Ma se fossero finanziati dai paesi più ricchi in un’ottica di fruizione globale dell’arte? L’obiettivo di decolonizzare i musei non può che costringerci a ripensare la fruizione, privilegiando la circolazione per controbilanciare le asimmetrie che esistono tra Nord e Sud, determinate dalla proprietà e dalle risorse. Da due anni dirigo un progetto di ricerca intitolato Pressing matters. Ownership, Value and the Question of Colonial Heritage in Museums che indaga le forme e i rapporti di proprietà con l’obiettivo di reimmaginarne di nuovi, ispirati talvolta da altre culture, che possano essere implementati dalle istituzioni museali in diverse parti del mondo. Ci sforziamo di concepire proprietà condivise o transitorie, di privilegiare l’uso al possesso, riflettiamo sul valore degli oggetti. Quanto vale una maschera mortuaria? Quanto vale un cranio? Di chi è questo cranio di provenienza neozelandese, e di chi sono le foto che ne ritraggono la misurazione avvenuta nei Paesi Bassi? Queste sono alcune delle domande che ci poniamo e a cui proviamo a rispondere per complicare, ma anche per risolvere, le questioni sottese al dibattuto sulle restituzioni.
Negli ultimi anni ha collaborato alla grande esposizione «Slavernij» (Schiavitù, 2020) al Rijks Museum e ha curato più recentemente «Onze koloniale erfenis (La nostra eredità coloniale», Tropen Museum 2022 e ancora in corso). Che tipo di progetto o di idea di decolonizzazione veicolano queste mostre?
Da curatore credo fermamente che ogni esposizione sia una pratica del fallimento. Ogni mostra è intrinsecamente parziale e, nell’esibire quel che esibisce, rivela anche tutto quel che manca, tutte le promesse che l’esposizione non mantiene. Questo vale ancora di più per le mostre decoloniali. La decolonizzazione, però, non è solo disagio, è anche festa, celebrazione di un’alterità rimossa che ritorna, rivoluzione di un paradigma che muta. Il disagio deriva dal passato: siamo partecipi ed eredi di una storia coloniale di estrattivismo, sfruttamento e dominazione, che non può che metterci a disagio. E una consapevolezza del genere inevitabilmente destabilizza. Riflettere una tale consapevolezza all’interno di un museo significa smettere di concepire quello spazio come un sito edificante deputato alla fruizione del bello. Il museo decoloniale può nascere dal disfacimento e rifacimento del museo coloniale soltanto dentro questa consapevolezza.
*Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto del 24 febbraio con il titolo “Come decolonizzare i musei occidentali”. L’immagine in apertura è una foto del Tropen Museum ad Amsterdam.
Nella sala grande al centro del palazzo, flussi di codici producevano segni, testi, contesti, tempi fittizi, modelli proiettivi e interpretativi, bussole spazio-temporali, sistemi di pensiero coordinato. Di tanto in tanto, l’imperatore sporgeva dall’ingresso per controllare i processi: tutto – fin nel dettaglio – doveva seguire la geometria del suo progetto. Del suo dominio – lo sappiamo per certo –, aveva tracciato una mappa – prescrittiva e non descrittiva come le altre. Il suo impero doveva rispondere alla geometria delle sue intenzioni e alla coerenza del suo disegno. Ma, da qualche tempo, un tarlo lo assillava e sperava di trovare risposte tra gli schermi e gli scritti di quella sala.
Vagava di continuo, l’imperatore, attraverso sale tappezzate di verde, di rosso, di viola, di nero. Ognuna destinata a una funzione della giornata, ognuna a gruppi di persone diversi che si ritrovavano negli stessi luoghi a combinare nuclei di azioni e di discorsi, di opinioni e di consigli, di intenzioni e di progetti. Tutto – pensieri, parole, immagini, stanze – erano parte dello stesso sistema. Fare visita a queste sale era, per l’imperatore, come sfogliare i libri di una biblioteca: si poteva sempre ripartire da dove ci si era interrotti. Tra le righe di rodate composizioni, scorrevano note di odori conosciuti – tè verde e mela, tabacco e cioccolato alla menta –; di parole e intonazioni già sentite su politica, mondanità, pettegolezzo; di quartetti d’archi che parlavano di cacce e banchetti o di passioni omicide e folli; di letture intorno ad amori risolti nel veleno e di messinscena cervellotiche. I modelli di riferimento, capovolti o rigirati o invertiti, erano pochi e spesso uguali. Che fossero poi i linguaggi a tradurre questi sistemi concettuali in una rete reale, struttura vera del suo regno, gli sembrava un fatto abbastanza ovvio.
Fino a quanto si potevano spingere le influenze strutturanti e, quindi, portare agli estremi il disegno sulla mappa? Poteva davvero, l’impero, diventare una sola cosa col suo pensiero? Il palazzo aveva la forma di un asterisco. Al centro vi erano, al piano di sotto, la sala grande; a quello di sopra, lo studio del re. Passava molte ore seduto all’enorme tavolo in mezzo, sul quale stava posata la mappa. I muri, a forma di cerchio, erano ricoperti da librerie interrotte da finestre costruite negli spazi liberi tra un’ala e l’altra dell’asterisco.
Evidentemente – continuava a riflettere – il modo in cui il corpo era pensato e in cui era pensato relazionarsi col resto dell’esistente diventava modello di discorso sul mondo. Cambiare questa percezione voleva dire vedere l’universo in maniera diversa. Socializzare il tutto e comporre nuove mitologie combinando in maniera diversa i nuclei essenziali a diventare risposta per qualsiasi nuova domanda sull’esistenza. Osservava gli schermi, l’imperatore, e si chiedeva in che modo quegli habitat e quei miti potessero ancora evolvere e seguire il mutare del suo pensiero. Quali discorsi incentivare, quali storie d’amore far sognare tra i semafori delle grandi città e i filobus della circonvallazione. I locali fumosi con le luci blu e i ventilatori d’acciaio potevano ancora produrre significato congruente alle sue intenzioni?
L’intreccio andava riscritto. Parlava chiaro la mappa: ogni unità si definisce solo in relazione alle altre e ogni elemento trova il suo posto solo se anche gli altri lo trovano. Si catapultò sulla sua scrivania e, tra montagne di scartoffie, appunti dattiloscritti, cartoline di angoli esotici del mondo e di quadri con versi stampati sopra, recuperò storie abbozzate come una partitura contrappuntista in grado di comporsi col resto dei segni a testualizzare nuovi schemi da raccontare.
Quale poteva essere la struttura di una nuova narrazione? Bisognava intervenire sul materiale esistente, manomettere le parole, dare loro il significato che voleva, convertire i significanti a un nuovo significato, scegliere i segni di un mondo nuovo. Perché è solo il racconto del mondo che conta, non il mondo stesso. Manipolando ogni strato con interventi mirati, avrebbe potuto ricomporre l’impero secondo la mappa che stava ridisegnando. La concepì come una cipolla: un insieme di veli. O un insieme di fogli lucidi sovrapposti su una lavagna luminosa.
Passò notti, giorni, ancora notti, ancora giorni a lavorare finché non riscrisse ogni storia, ogni emozione, ogni ricordo, ogni visione, racconto, progetto, edificio, strada, quartiere.
Fu tra i sedimenti di uno scavo archeologico che trovai questi appunti e questi disegni. Erano contenuti in un prezioso astuccio di pelle nera. Tra le varie cose, vi erano anche gli abbozzi di colonnati e portici, piazze in cui gli uomini potevano discutere tra loro senza vedersi. Del palazzo non rimanevano che pochi resti, ma bastanti a immaginare come fosse strutturato il resto.
Evidentemente l’imperatore non era a conoscenza di quanto il suo impero fosse uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione era troppo incancrenita perché il suo disegno potesse rimetterlo in sesto e condurlo verso un nuovo avvenire. Forze di cui non era a conoscenza lo stavano consumando, come dei tarli, da dentro. Nuovi nuclei tumorali si stavano espandendo e mancava poco ormai perché giungessero al centro e lo facessero implodere.
Dai resti posso facilmente accorgermi di quanto ogni suddito dell’impero fosse collegato agli altri da fili che si intersecavano tra loro come una fittissima rete da pesca. Insensibili impulsi elettronici scorrevano attraverso questi fili veicolando nuclei significanti: informazioni, pettegolezzo, frustrazioni, desiderio, pensiero. Rapporti, funzioni e interazioni potevano essere di svariata natura: ufficiali, ufficiosi, istituzionali e non, politici, gerarchici, giuridici, economici, finanziari, sindacali, religiosi, fisici, sessuali, di forza, affettivi, sociali, culturali, commerciali, di impresa, mediatici, logistici, comportamentali, antropologici, intuitivi, poetici, sentimentali, accidentali, espliciti o impliciti, … e ancora, variamente combinati e interagenti nel tempo e nello spazio (storia e geografia), a scala nazionale o internazionale. La struttura era fatta di Elemento e Opposizione, ma non coincideva necessariamente né con l’uno né con l’altra, poteva identificarsi, sovrapporsi, essere sinergico, neutrale o antagonista. Tra le maglie, spesso, dei bachi intervenivano a ingurgitare impulsi o pezzi di reti e vomitarne di nuovi, digeriti, scomposti e ricomposti sotto nuova forma. L’intera rete, con i suoi impulsi, non era altro che l’enorme racconto in divenire di un impero e dei suoi popoli, la struttura di una visione del mondo progressiva.
Non è facile stabilire da dove partì la distruzione. Se fosse stato uno di quei bachi a impazzire oppure se una lucidità improvvisa abbia portato contemporaneamente ogni suddito a stracciare la rete. Ma una cosa è certa: non partì da un unico luogo. I nuclei del disastro erano sparsi per tutto l’impero. Ma forse sparsi non è la parola giusta: composti insieme, questi nuclei formavano un disegno coerente. È probabile che fosse una sua sottostruttura a impazzire, a ribellarsi, a incancrenirsi e sfracellare, con sé, il resto.
Eppure, la rete stessa possedeva il suo essere e le sue possibili forme, tutto ciò che avrebbe potuto essere e non era, ciò che poteva diventare e ciò che effettivamente diventava. Poteva, a suo piacimento, diventare ciò che non era.
Sono ben felice di annunciare l’uscita di un’opera che affronta temi a noi ben cari – l’espatrio che è anche esmatrio, esilio dalla lingua madre- con una proposta originale di rilettura del “valore” della casa dell’origine nella creazione letteraria attraverso un paradigma, il translinguismo, in grado di farci capire fino in fondo quella che Agota Kristof definiva “langue ennemie”. Qui di seguito potrete leggere l’ultima parte dell’accurata introduzione al volume che è possibile leggere e scaricare per intero, in open access qui. effeffe
L’homing e la nostra contemporaneità
di
Tiziana de Rogatis
Lo sguardo che questo libro rivolge alle storie di migrazione vuole essere quello dei miei studenti, cui questo libro è infatti dedicato. Da dieci anni a questa parte, durante i miei/nostri corsi all’Università per Stranieri di Siena, vedo che loro – i futuri mediatori linguistici e interculturali del nostro Paese e del mondo – guardano a queste narrazioni come a chiavi di lettura e risorse per capire la nostra attualità. Con il tempo, ho imparato a decifrare il loro sguardo e ho capito che non è solo sociologico: non vede cioè questi libri solo come un documento o un repertorio cui attingere per comprendere questioni linguistiche o antropologiche di oggi. Il loro sguardo è simultaneamente anche estetico, se per estetica si intende una forma di rappresentazione anche pre-linguistica e post-linguistica: un modo di raccontarsi e raccontare il mondo per poter sopravvivere ad esso, renderlo umano, abitabile. Da questa prospettiva essenziale e assoluta, generata al tempo stesso da un’emergenza e da una necessità, le storie di migrazione e di translinguismo diventano un repertorio più significativo di altri. Il loro sguardo mi dice infatti anche che oggi siamo tutti in cerca di homing, di ritrovarci.
Queste narrazioni chiamano in causa non solo la convivenza multiculturale ma anche le ragioni stesse del contratto sociale del mondo contemporaneo. Ciò che Salman Rushdie dice degli scrittori translingui postcoloniali, vale oggi nel bene e nel male per noi tutti. Come spiegherò nel secondo capitolo, ancor prima di scrivere in un’altra lingua, diversa dalla madre lingua, gli scrittori translingui postcoloniali provengono da generazioni di «individui tradotti» e cioè «portati di là dal mondo» (Rushdie 1991: 23): storicamente trasportati e inscritti nella lingua coloniale. La loro scelta di adozione rovescia però l’ancestrale subalternità in un atto di homing individuale e collettivo facendo di questo universo traduttivo una esperienza di acquisto e di signoria. In questo tipo di homing translingue, il modo dell’enunciazione può essere rappresentato come «un luogo in cui abitare […], un luogo capace di offrirti la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi» (hooks 2000: 128). Parafrasando il titolo dell’autobiografia linguistica di Eva Hoffman (Lost in Translation. A Life in a New Language) – una delle cinque opere qui analizzate -, la voce individuale e ancestrale è al tempo stesso persa e rinata nella traduzione. La scrittura translingue postcoloniale rende il più possibile familiare una lingua in certa misura estranea, perché storicamente padronale e nemica. E tuttavia, proprio perché una parte di quella lingua rimarrà anche straniera, questa familiarità va continuamente negoziata, aperta a nuove istanze, ritradotta, rinnovata. In modo analogo, questa età globale ci ha per molti versi sovradeterminato, imponendosi molto spesso come un cambiamento eterodiretto da scelte politiche neoliberiste imposte circa trenta anni fa, e accettate con troppa acquiescenza. Siamo viandanti spaesati, esposti ad un mondo globale al tempo stesso astratto e innervato negli interstizi delle nostre vite. In questo contesto, l’homing è una alternativa tra l’essere parlati dalle lingue imperiali dei padroni coloniali o globali e il rinchiudersi nella babele delle lingue locali e dei dialetti o nell’anacronistico purismo delle lingue nazionali. Homing vuol dire creare quello che Bhabha chiama un «Terzo Spazio»: un punto di vista che recuperi, per esempio, un progetto della modernità in grado di tenere insieme le particolarità – i loro eventuali vissuti di margine, i loro diritti e le loro visioni – con alcuni nuclei condivisi, con un linguaggio traducibile e tradotto. È il punto di vista di un universalismo delle differenze, su cui hanno lavorato studiosi del «cosmopolitismo radicato» come Ulrich Beck (2003) e Anthony Appiah (2007).
Guardare ai testi da tutti questi punti di vista non è un atto politicamente corretto, un paternalismo o maternalismo ideologico, ma vuol dire entrare in relazione anche con un’altra idea di estetica: una dimensione immersiva, antropologica e magmatica. Il mio intento è quello di aiutare a ripensare attraverso queste opere il concetto stesso di estetica della nostra contemporaneità, estendendolo a poetiche, opere e composizioni di mondi narrativi che finora sono stati esclusi da questo riconoscimento. Al tempo stesso, però, questa estensione non può essere ispirata a principi di riconoscimento politico, etico e pedagogico estrinseci alla esperienza narrativa e alle sue forme. Al centro dei miei close readings, c’è invece proprio la relazione tra le storie e i loro lettori: la capacità più o meno riuscita che queste storie hanno di immergere i lettori in uno storyworld. Riallacciandomi al dibattito che le discipline neuro-narratologiche stanno elaborando da venti anni, guardo a queste cinque opere dalla prospettiva dello storytelling, del worldmaking e della sua intensità immersiva (Herman 2009: 105-136, Meneghelli 2013: 144-162). Le storie di migrazione sono prima di tutto accomunate dal loro essere storytelling di un paesaggio corale. All’interno di questa dimensione, il worldmaking (il modo in cui si costruisce un mondo) e lo storyworld (il mondo della storia) sono oggi forme tardomoderne di estetica, decisive quanto quelle della decostruzione stessa delle storie, della loro disarticolazione sperimentale, del montaggio. Da questa prospettiva, non tutte le storie di migrazione raggiungono il livello altissimo o alto di coinvolgimento, immersività e densità figurale espresso da quelle incluse in questo libro. Tutte però gravitano intorno a istanze drammatiche, urti traumatici, immaginari e mondi simbolici che stanno contribuendo – in modi diretti o indiretti – ad allargare l’idea stessa di estetica e di letterario.
Il mio CD era OF-3 Cosimi, che rispondeva agli ordini del DGEUMS OF-10 Aresti. Alla SRCC c’erano COMAMFL OF-8 Lucca, quel giorno in VTC con OF-8 Gutierrez della SPAF per discutere della NFZ su MOW, quelli della R&D e OR-4 Falco dell’UGCT. Io ero un semplice VFP1: mi occupavo delle PEC, delle RT e degli SI, sia Ca.1 sia Ca.2, e redigevo i SB.
Mi ero arruolato l’anno prima ma, nonostante al TEEP avessi facilmente imparato ad usare tutti i TOPFAS, specie l’MG34, non mi piaceva uccidere, sebbene a volte lo ritenessi necessario. O forse ho iniziato a crederlo dopo aver sentito le parole di OR-6 Furlan: «Un uomo mezzo morto può ancora spararvi in testa e farvi saltare le cervella.» È da quel giorno che, quando OF-3 Cosimi mi spedisce in un WG o mi ordina di difendere l’OB, conficcò almeno due 7.92×57 mm Mauser del mio VMG27 nella testa dei nemici caduti all’interno della AOO.
Era febbraio e fuori dalla SRCC facevano -28 °C, la giusta temperatura per quel Cocito di ZAD. Due giorni prima eravamo stati costretti ad attivare una TBMD perché la SRCC era diventata il TO della RVSN CCCP. Alla fine, dopo due ore di Asslt, il loro CINC, un uomo che era stato insignito della Zhukov l’anno prima per il CASEVAC del suo CO, aveva ritirato le truppe. OF-3 Cosimi mi ordinò di redigere il SITREP: 13 KIA, 35 WIA, 7 DWRIA; gli RS-24 Yars non sono progettati per fare del bene.
Nonostante le temperature fossero proibitive pure per le ELINT (da venti minuti il SQS chiedeva di inserire il SBC), dentro la SRCC tutti lavoravamo in silenzio. Era un’atmosfera irreale, soffocante, la stessa di quando OF-3 Cosimi mi aggregò al 1° RGS per un CSS. Il TO era JKT, il che significava indossare AMW, essere pronti a un CW e non perdere mai di vista l’A/G. A JKT non si scende mai sotto i 33 °C, quindi il BICES ci informava costantemente della presenza di fonti d’acqua potabile. Avevamo percorso 17 Km senza vedere l’ombra di un TKR e iniziavamo a dubitare delle informazioni dell’OB. Il silenzio di quel luogo sfondava i timpani. Ancora oggi non saprei dire se per l’afa o per quella calma irreale, ma ricordo che VFP1 Nirboni di colpo puntò il suo MG34 e fece fuoco. Di ritorno all’OB, mi fu ordinato di redigere un BU per annunciare la morte di OR-6 Furlan. Da quel giorno, ho paura del silenzio.
Senza neanche accorgermene, avevo preso a battere in maniera compulsiva l’indice sul tavolo. Non mi ero reso conto che OF-3 Cosimi si fosse avvicinato alla mia postazione, quindi mi rizzai goffamente sull’attenti. «Il NAD dall’HQ ci ha mandato questo OPLAN. Prepara il GFE, è una CIMIC. Il TO è KZN. Guiderò io le truppe dentro l’AOO.» disse OF-3 Cosimi. Con un eccesso di impudenza, replicai che a KZN la gente muore per il CW. «In guerra, la gente muore e basta,» fu la sua laconica risposta. Aveva ragione.
Così ci dirigemmo verso KZN passando per le MSR. A OF-3 Cosimi era stato assegnato il Plt più piccolo: 10 VFP1 e 4 VFP4; quattordici uomini che avevano abbandonato le proprie famiglie per una guerra di cui sapevano ben poco. Alle OB non arrivano giornali, nelle SRCC la situazione non migliora di molto, così i VFP1, come me, e i VFP4 prendono semplicemente ordini da OF- 3, come Cosimi, o OR-7 o OR-8 che apprendono le notizie da OF-8 in VTC. Al TEEP te lo insegnano fin da subito: in guerra non ci si fanno domande, si agisce e basta. Ed è per questo che scoppiano le guerre.
Marciare per la steppa non è più facile di farlo nella giungla. Quelle vaste e brulle praterie non ti esporranno alle imboscate dei TKR o alle spire di un anaconda, ma -28 °C ti congelano gli ingranaggi dell’MG34 e ti appannano l’M40. Senza contare quei fottuti IED sepolti sotto terra. OF-3 Cosimi percepisce il nostro disappunto e ci promette un SO dal DGEUMS OF-10 Aresti se completeremo l’OPLAN in tre ore. Questo al TEEP non te lo insegnano, ma lo impari comunque: nessuno mette a rischio la propria vita gratuitamente. E, a giudicare dai sorrisi di quei VFP1 e VFP4, miei compagni di sventura, anche la vita umana ha un prezzo.
Dall’OB giunse la notizia che KZN distava ormai solo 3 Km. Nonostante i DPI, non mi sentivo più le mani. Inoltre, da qualche minuto, ero stato colto da una fortissima emicrania, che mi aveva costretto a gettare l’M40 a terra. Avevo freddo, ero stanco e indolenzito, e volevo soltanto tornare alla SRCC a mandare PEC, RT e SI. Provai a scrostare il ghiaccio dal mio MG34, ma fu inutile. Mi tornarono alla mente le parole di OR-6 Furlan, ma continuavo a pensare insistentemente al fatto che non fossi fatto per uccidere, che non volessi uccidere, neanche se a volte era necessario, neanche se un uomo mezzo morto poteva farmi saltare in aria le cervella. Ero circondato da VFP1 e VFP4 che avevano abbandonato le loro famiglie per una guerra di cui sapevano ben poco, ma era bastato che OF-3 Cosimi promettesse un SO per imprimere sul loro volto un sorriso ebete. Cosa ci facevo là, in mezzo alla steppa, a 3 Km da KZN, in mezzo a questa gente?
Un fischio mi trafisse le orecchie, poi il silenzio. Non sopporto più il silenzio, da quando VFP1 Nirboni puntò l’MG34 alla testa di OR-6 Furlan e mi fu ordinato di scriverlo sul BU. Ho paura del silenzio, il silenzio soffoca. Ma non riuscivo più a sentire. Vedevo i VFP1, i VFP4 e OF-3 Cosimi marciare verso KZN insieme a me, ma non li sentivo più. Non sentivo il sibilo del vento gelido che mi graffiava il volto scoperto dopo aver gettato via l’M40, non sentivo le comunicazioni dall’OB, non sentivo più niente. Sentivo però l’MG34 più leggero, come se avessi tra le mani, ora tornate a muoversi, l’M1911 che avevo usato al TEEP. Senza neanche accorgermene, puntai e feci fuoco.
La sfida è soltanto per gli altri.
Per chi resta in attesa, aspettando impaziente le novità, controllando ansiosamente il meteo, scrutando la roccia e i ghiacci con il binocolo.
La sfida è nelle parole di chi sta per partire e di chi riesce a tornare.
Ma una volta che ci si trova lassù non esiste più alcuna sfida.
C’è qualcosa di molto più prezioso in ballo, qualcosa la cui importanza supera di gran lunga qualsiasi gara e primato da raggiungere: ci sono lo spazio e il tempo, e ci sono uomini e donne che provano a sfuggire a entrambi. Consapevoli che nessun luogo da solo può regalarci una condizione tanto innaturale, privilegiata e terrificante, non le vette degli Ottomila, non lo spazio più remoto, ma soltanto un gesto. Il gesto, puro e definitivo, quello che continuamente spinge a rischiare la propria vita e altrettanto costantemente la salva.
Bisogna immaginare una linea perfetta, tracciata mediante una lunghissima successione di plotoni d’esecuzione scansati all’ultimo secondo, quando le traiettorie mortali sembrano sul punto di ferire e uccidere. E poi bisogna immaginare quella linea capace di uno sforzo se possibile ancora maggiore, bisogna immaginarla danzare, saltare da un punto all’altro, vittima e al tempo stesso complice di ogni soffio di vento, di ogni crepa nella roccia, di ogni raggio di luce riflesso dal ghiaccio verso l’alto, come a voler sfidare i consigli della ragionevolezza, supremo oltraggio alla virtù dell’obbedienza racchiusa nella legge di gravità.
Ogni gesto deve essere feroce e materno, ragionato e viscerale. Ogni muscolo, ogni porzione di tendine e ogni lembo di pelle, l’intera estensione del fiato e lo sguardo, il coraggio, la stupidità, e qualsiasi altra qualità si possieda o si creda di possedere: tutto è chiamato a partecipare e a superare il proprio limite, metro dopo metro, minuto dopo minuto.
Come una sfida che si rinnova ad ogni battito del cuore. Più che una sfida.
Questa è l’avventura magica e mortale dell’alpinismo. Questo è l’incantesimo che unisce chi decide che la parte più importante, la parte più veritiera della propria esistenza deve svolgersi lassù, nel regno dell’intensità assoluta. Un luogo chiaramente inadatto, inospitale, che non ci prevede e non ci vuole, e che proprio per questo regala, a chi è in grado di esplorarlo, la sensazione di essere sfuggito al gioco del mondo o, forse, di aver trascorso qualche istante all’interno del suo cuore nascosto.
Quando negli anni Cinquanta l’Università di Harvard offrì a John Cage la possibilità di visitare una camera anecoica, costruita in modo da ricreare al suo interno il silenzio assoluto, il geniale compositore statunitense colse al volo l’occasione. Ma il risultato di quell’esperienza si rivelò decisamente diverso da quello che Cage si sarebbe potuto aspettare. Invece del silenzio più puro, Cage riferì al tecnico che seguiva quel progetto come da subito si fossero palesati due suoni ben distinti, uno caratterizzato da una tonalità alta, l’altro da una tonalità bassa.
«Quella alta è prodotta dal sistema nervoso in funzione,» spiegò il tecnico «quella bassa dal flusso sanguigno». Questa esperienza portò Cage a fare i conti con l’impossibilità del silenzio assoluto e lo ispirò nella composizione di 4’33, una delle sue creazioni più celebri, in cui gli esecutori sono chiamati dalla partitura a non suonare i propri strumenti, lasciando che sia il suono prodotto dall’ambiente circostante a diventare esso stesso opera d’arte, la vera composizione. Ma a giudicare dai resoconti degli alpinisti, specialmente coloro i quali prediligono le salite in solitaria, viene da pensare che Cage abbia cercato il silenzio assoluto non tanto nel luogo sbagliato – la camera anecoica è acusticamente perfetta per il suo scopo – quanto piuttosto con la «predisposizione» errata. Per ottenere il silenzio assoluto sono necessari elementi che poco hanno a che fare con l’acustica: elementi come la fatica, il gelo, il pericolo, l’esaltazione e la disperazione, il vento, la linea del vuoto, la precarietà del ghiaccio.
Generalmente non è descrivendo il raggiungimento della vetta che agli alpinisti capita di citare il silenzio, quanto piuttosto nel resoconto dell’ascesa o della discesa, ovvero nei momenti più intensi e delicati: è allora che il silenzio assoluto fa capolino. E non viene prodotto dalla negazione di qualsiasi spettro acustico, bensì dalla tensione – insostenibile eppure in qualche modo sostenuta – racchiusa in quei gesti che per non diventare mortali esigono perfezione assoluta.
Osservando e ripercorrendo le imprese degli esploratori e degli alpinisti, è normale se non inevitabile domandarsi cosa li spinga a rischiare la vita arrampicandosi su pareti di roccia e ghiaccio. Cosa li spinga a cercare nuove vie o a ripercorrere quelle più esigenti, a trascorrere giorni e notti in situazioni estreme. Alcuni affermano che è il risultato dell’amore per la libertà e per l’assoluto, il desiderio di vivere una natura meno depredata. Altri, malevoli, sostengono che si tratti di un’ossessione fomentata da una forma smisurata di arroganza e ambizione, che spinge a esaltare la vita in una forma assurda, mettendola a repentaglio in modo apparentemente gratuito.
Come spesso accade, ogni risposta è sbagliata o parziale, ma nondimeno ospita al proprio interno un frammento di verità. Si può ben dire che la montagna, e la sua indagine più spericolata, l’alpinismo estremo, siano capaci di stregare indissolubilmente uomini e donne ai quali, in cambio, concedono momenti in cui la vita è più accesa, più intensa.
Al pari dei mistici, i cui occhi segnati dal bagliore passeggero della grazia inseguono la sua scia in un mondo di ombre, gli esploratori delle vie più impervie, dopo aver assaporato porzioni di vita al di fuori del tempo e dello spazio, le ricercano con l’ostinazione concessa soltanto agli amanti.
L’ossessione, infatti, è la forma d’amore più pura. La meno ragionevole, la più invivibile, ma anche l’unica in grado di modificare esistenze apparentemente consolidate in un battito di ciglia. E come tutte le forme d’amore più pure, è così intensa da risultare contagiosa.
Immaginiamo quindi la grande alpinista Alison Hargreaves mentre scala la parete nord dell’Eiger, il monte svizzero con cui tutti i grandi scalatori si sono cimentati, e immaginiamola incinta di sei mesi. Ai più una scena di questo tipo rischia di fare paura, persino orrore. Si tratta di una persona non soltanto disposta a rischiare la propria vita, ma pronta a mettere a repentaglio persino quella del proprio figlio non ancora venuto al mondo. Questa è una possibile, ragionevole chiave di lettura. Ma, trattandosi di una storia d’amore e di ossessione, è anche la risposta errata.
Abbiamo a che fare con una grande alpinista, la prima donna ad aver scalato il monte Everest in solitaria e senza l’ausilio di bombole d’ossigeno, e dunque sarebbe sbagliato percepirla come una persona che sta mettendo a rischio la propria vita mentre tenta di farsi strada lungo la ripida e insidiosa parete nord dell’Eiger; al contrario, dovremmo immaginare Alison come una creatura nel proprio ambiente ideale, intenta a compiere una serie di gesti impegnativi e perfetti, puri e decisivi, gli unici che possono consentirle di ottenere quella vita più pura e intensa che tutti quelli come lei inseguono.
E c’è forse qualcosa di più bello, e alto, che immaginare di poter condividere questa magia insieme a chi già abita il nostro corpo? Soltanto un’alpinista in gravidanza può sperimentare una sensazione del genere, e soltanto il figlio di una alpinista potrebbe tentare di decifrarne le conseguenze.
A noi, dall’esterno, resta soltanto da analizzare i dati in nostro possesso. Possiamo leggere la vita di Tom Ballard, il bambino che Alison portava in grembo quel giorno, come già iniziata ancor prima di emettere il primo vagito nella sala d’ospedale.
Già, ma la vita di Tom era iniziata, o forse era segnata? Come va interpretato quel gesto di amore e condivisione compiuto da Alison Hargreaves? È stato il regalo più grande, o al contrario una imposizione – come a voler tracciare la linea da percorrere non soltanto per sé stessa, ma anche per suo figlio?
Nuovamente, la risposta non può che comprendere entrambe le possibilità, e forse molte altre ancora. Questo non perché sia più semplice rifugiarsi nella vaghezza, ma poiché ha ragione Saba, quando afferma che «d’amore non esistono peccati, esistono soltanto peccati contro l’amore» per poi concludere aggiungendo: «e questi no, non li perdoneranno».
Noi non siamo giudici, a noi non spetta perdonare o condannare nessuno, però possiamo, dobbiamo permetterci di affermare che quella decisione di Alison Hargreaves di scalare la parete nord dell’Eiger con il figlio Tom in grembo non fu un peccato contro l’amore.
Fu un gesto d’amore.
E se ogni gesto d’amore è anche e soprattutto un gesto generatore, allora è una condanna alla finitezza, contiene inscritta all’interno un’avvisaglia della propria stessa fine. Non si dona l’amore, e quindi la vita, senza imporre anche la morte. Soltanto ciò che resta protetto nel nulla precedente e successivo alla vita possiede il diritto a preservarsi fuori dal tempo, in uno dei tanti infiniti possibili.
E chissà se Alison Hargreaves avrà mai avuto occasione di leggere i ricordi di Jung, e in special modo quel passaggio in cui il capo indiano pueblo di Taos gli domanda: «Non pensi che tutta la vita venga dalle montagne?». Probabilmente no, e probabilmente non ne ha avuto bisogno. Quella stessa verità deve averla intuita da sola, studiando il profilo e la composizione delle montagne, e meravigliandosi per come fossero in grado di far convivere qualità eterne e immutabili insieme a mutamenti repentini e incessanti.
Forse Alison ha perfino avvertito una strana forma di sorellanza con quelle creature aliene, molto più antiche del linguaggio, e potrebbe aver concluso che, nonostante la loro infinita pericolosità e un’apparente indifferenza, non esistesse luogo migliore per cercare rifugio dalla dittatura del tempo. Dove, se non all’interno di una montagna, dormono per secoli i Sette Dormienti di Efeso e i santi musulmani?
Nonostante il pericolo incessante e l’ambiente inospitale, la montagna rappresenta una figura che genera e protegge la vita. Ma gli alpinisti o, per meglio dire, gli esploratori non si accontentano di contemplarla. Loro salgono dove è quasi impossibile salire, o strisciano e penzolano quando non è possibile camminare, si appendono dove non c’è quasi altro che vuoto e oltre quel vuoto si lanciano, quando i ponti sono crollati e il ghiaccio precipita a strapiombo come il verso lontano degli animali, che mai e poi mai azzarderebbero quelle altezze assassine in cui l’ossigeno diventa rarefatto, vago come un sogno incomprensibile e crudelmente necessario.
I protagonisti di questa storia non sono martiri e nemmeno suicidi, tuttavia ricercano l’asprezza della montagna, hanno bisogno di percorrerla rischiando, di attraversarla sfruttando passaggi in cui l’esplorazione e la violazione si intrecciano e si confondono.
«Conquistatori dell’inutile»: questa la celebre definizione che Lionel Terray diede degli alpinisti, e quindi di sé stesso, essendo a sua volta uno dei più grandi alpinisti di sempre. Ed è una definizione che fa subito pensare alla filosofia zen, alla cui base c’è il culto dell’azione inutile. Ma se nello zen viene coltivato l’agire senza alcuna intenzione, l’alpinismo – il tipo particolare di esplorazione di cui l’alpinismo si occupa – poggia invece sempre su di una intenzione. Nasce dall’intenzione. Gli alpinisti, come i giocatori di biliardo arrivati all’ultimo colpo, sono chiamati ad annunciare i loro azzardi in anticipo. Prima dell’avventatezza e del coraggio vi è lo studio, la preparazione. Prima del contatto con roccia e corde, le dita sfogliano fotografie e mappe. Tutti i nodi ancorati e tutti i dadi inseriti nelle fessure della pietra hanno origini lontane, si nutrono dei tentativi riusciti e dei fallimenti che li hanno preceduti, per poi andare oltre, per poi superarli grazie a sangue nuovo, che porta con sé nuove intuizioni e nuove visioni. E in alcuni casi, inevitabilmente, nuovi sbagli, nuove lezioni che si pagano con la vita.
C’è una montagna che più di tutte le altre esercita un’attrazione irresistibile sugli alpinisti, nonostante la drammatica facilità con cui vi si rischia la morte. Quella montagna è il Nanga Parbat.
La Montagna Nuda, la Montagna Mangiauomini, la Montagna del Diavolo.
È lei la vera protagonista di questa storia, la calamita che fa convergere su di sé storie che hanno origini geografiche e temporali distanti tra loro.
Nanga Parbat. Ragione di vita e ragione di morte. Un miraggio di 8126 metri di roccia e ghiaccio nel Kashmir, in Pakistan. Il luogo in cui Tom Ballard finisce di ripercorrere quella linea tracciata per lui da sua madre trentuno anni prima, trovando la morte in compagnia di Simone Nardi sullo sperone Mummery.
Per provare a raccontare la storia di Tom, per ripercorrere la sua esistenza la cui scarsa durata è compensata da una intensità fuori dal comune, abbiamo tuttavia bisogno di uno slancio, dobbiamo prendere una lunga rincorsa e tornare indietro nel tempo. Ad Albert Mummery e alla sua epoca, la fine dell’Ottocento. E ancor più precisamente alla sua ultima spedizione, quella del 1895, che finì per legare indissolubilmente il nome di questo alpinista e gentiluomo inglese allo sperone su cui, centoventiquattro anni dopo, Tom Ballard e Simone Nardi perderanno la vita.
NdR Questo testo è il prologo del libro di Orso Tosco Nanga Parbat, pubblicato di recente da 66THAND2ND
di Antonio Sparzani
La prima puntata qui e la seconda qui.
Che cosa hanno in comune una Ferrari e il censimento della popolazione nell’antica Roma? Non molto, sembrerebbe, salvo che c’è una stessa parola che è implicata in entrambe. Nell’antica Roma, due millenni prima dell’epoca delle Ferrari, Tito Livio, storico di età augustea, scrisse un’opera immensa, cui si conviene di dare il titolo Ab urbe condita – dalla fondazione della città–per–eccellenza – un’opera che in 142 libri ripercorreva, con partecipazione e devozione intense per le sorti di Roma, la sua storia dalla fondazione all’inizio dell’impero, il tempo di Augusto. Mentre narra degli avvenimenti – in tempo di pace – della repubblica, Livio ha occasione di segnalare l’origine di un istituto importante nella storia di Roma, quello della censura che non designa, in quest’epoca, quel che oggi normalmente s’intende con questa parola (anche se non ne è poi così lontana, e forse tutto è cominciato da qui…), ma l’operazione di censire la popolazione, e censire significa, così ci racconta Livio, qualcosa di più che semplicemente contare e sapere nomi e domicili dei cittadini:
«In questo medesimo anno ebbe principio la censura, istituto che ebbe piccolo esordio, ma che acquistò di poi sì grande incremento. Ché il regolamento dei costumi e della disciplina Romana fu nelle mani del nuovo magistrato, ed il Senato e le centurie dei cavalieri ebbero il discernimento del loro onore o disonore in suo potere; e l’ispezione dei luoghi pubblici e privati, le rendite del popolo romano, furono al suo cenno ed arbitrio.»
(Tito Livio, Ab urbe condita, 4, VIII, trad. it. di Emilio Bodrero.)
Dunque un censimento non proprio neutrale, a quanto dice Livio: il potere del magistrato sembra andare oltre la mera registrazione dei cittadini; ma poiché, continua Livio, mentre diventava urgente eseguire questa operazione, i consoli avevano altre faccende più importanti da seguire,
«Fu presentata al Senato una memoria, nella quale si faceva presente che quella operazione, faticosa e poco consolare, aveva bisogno di un magistrato speciale, dal quale dipendessero gli scribi, i custodi e la cura dei registri, e che regolasse a suo modo la formula del censimento [cui arbitrium formulæ censendi subiceretur]»
(ibid.)
È proprio la parola latina formula, diminutivo di forma ma con un evidente slittamento di significato, che fa la sua comparsa, nel senso di insieme di regole enunciate (stavo per scrivere “formulate”) con precisione, da seguire nell’esecuzione del censimento. Insieme di regole, dunque, purché ben precisate e non soggette ad ambiguità; prescrizioni chiare e distinte.
E sembra anche, secondo il dizionario del Battaglia, che la prima occorrenza in un testo italiano della parola “formola” stia proprio in un volgarizzamento della prima metà del XIV secolo dell’opera di Tito Livio, in questa frase “Il banditore con un trombetta, secondo è costume, s’avanzò in mezzo l’arena donde con solenne formola suole intimarsi la festa.”
Se poi leggete la definizione che della voce formula dà il Battaglia stesso:
“Frase o insieme di frasi rituali che una norma religiosa o giuridica oppure la consuetudine impone di ripetere, secondo un ordine fisso, nelle circostanze previste dalla norma stessa.”
vi accorgete che essa è squisitamente letteraria, nessuna traccia viene menzionata di contesti anche vagamente scientifici.
E oggi la Ferrari non è, forse, per antonomasia, una macchina di “formula 1”? Anche qui la stessa parola è usata, si noti, in un senso molto simile: l’insieme di regole cui è soggetta una certa categoria di automobili per poter partecipare a un ben preciso tipo di gare.
E poi c’è la formula di governo, un insieme di regole, frutto di delicati equilibri ed alchimie, dalle quali è costituita quella che il linguaggio ufficiale chiama “la compagine ministeriale”. O la formula, spesso riservata, di una crema di bellezza, le regole ferree – e commercialmente segrete – con le quali deve essere composta quella crema, per poter avere quel marchio e quel nome.
Su questa strada ci si avvicina ovviamente alla formula chimica di un composto, quell’insieme di simboli, che funzionano secondo precise regole internazionalmente stabilite – N sta per azoto, O per ossigeno, Sb per antimonio, ecc. – e che vanno combinati in modo da esprimere esattamente quali elementi e in quali proporzioni formano il dato composto; H²O (il 2 andrebbe in basso, ma qui l’editor non lo permette) è la formula dell’acqua e ci dà una informazione precisa su quali sono i costituenti elementari dell’acqua: ogni molecola, minima quantità d’acqua che ne conserva le proprietà, è costruita con due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Non è naturalmente una informazione ancora completa su come l’acqua è fatta (problematica in verità non facilissima neppure per gli studiosi), però fornisce una informazione precisa, per quanto parziale, su un aspetto dell’acqua.
Fino ad arrivare alla formula fisica, o, in cima alla scala, alla formula matematica. Sì, la formula matematica di cui tutti i non addetti ai lavori hanno un sacro terrore – ah, io non capirò mai una formula, sono negato – eppure, provate a fare un respiro lungo e a chiedervi per lo meno perché si utilizzano le formule.
Pensate alla musica: se non l’avete mai studiata e guardate uno spartito, provate la stessa sensazione di completa estraneità, mentre se qualcuno vi ha invece iniziato a quest’altro codice, a questo nuovo modo di tradurre simboli in cose che fanno risuonare la vostra testa, allora lo spartito di nuovo acquista vita, ne carpite i segreti, che più tali non sono, esso rimanda anzi a una successione di suoni dei quali potrete innamorarvi o che potrete rifiutare, ma certamente avrà perso la sua natura di enigma. Perché è stato inventato questo codice? Perché sarebbe stato molto complicato usare le parole del linguaggio naturale per descrivere una melodia: ad esempio: si cominci con la nota, chiamata do3, corrispondente a tot vibrazioni al secondo di una corda metallica, poi si suoni la nota che ha i 9/8 della sua frequenza e poi… e poi… . Certamente infattibile. È stato necessario inventare dei simboli per quelle note, un modo per scriverle, usando la posizione rispetto a un rigo fatto di cinque linee parallele orizzontali come simbolo del valore delle loro frequenze, e poi codificare le pause tra le note, la durata di ognuna di esse, il ritmo da seguire, eccetera, eccetera. E tutto diventa chiaro e limpido.
La fisica ormai si serve con grande abbondanza delle formule matematiche<. forse la più famosa — e la più letteralmente disastrosa – delle formule, E = mc², a volerla dire solo in parole, suonerebbe così: “l’energia potenzialmente contenuta in un corpo di massa m è pari al prodotto del valore di tale massa per la velocità della luce elevata al quadrato”, tutto con le opportune unità di misura, naturalmente. Pur di sapere il significato dei simboli E, m, c, la formula riassume tutto ciò. E figuratevi poi cosa può succedere in casi davvero più complicati!
Le formule non sono che un’abbreviazione, talvolta inevitabile proprio per la comprensione, da parte di chi conosce il codice, di un’affermazione del linguaggio naturale. Il codice è lungo e complicato? Anche quello della musica non scherza, per non dire poi di quel codice che tutti siamo obbligati a conoscere, che è la nostra lingua naturale.
[Per Terra Rossa è uscito Sillabario all’incontrario di Ezio Sinigaglia, presentato al premio Strega da Lorenza Foschini. Ne pubblico la G di Giallo. ot]
di Ezio Sinigaglia
Per convincersi che la letteratura gialla è, o può diventare, una delle armi più sottili escogitate dall’uomo per carpire alla vita almeno un’ombra del suo segreto, non c’è poi bisogno di andar tanto lontano: basta Maigret, il più popolare di tutti gli esploratori dell’universo giallo della follia: un’indagine di Maigret ha sempre qualcosa in comune con la danza di Salomè: la progressiva rimozione dei veli non è finalizzata a quel che sembra: il denudamento di una bellezza, di una perfezione, il ritrovamento di un ordine naturale, lo spettacolo di una verità luminosa: se Erode ha sete della pelle di Salomè, del segreto del suo corpo senza veli, resterà deluso: la nudità del corpo non è che una fase di passaggio, effimera, destinata all’oblio: la verità di Salomè è custodita al di là dell’ultimo velo, e di fronte all’orrore di questa verità sottopelle lo splendore della pelle non conta più nulla: è l’ottavo velo che cade accanto agli altri sette, dei quali non si ricorda più nemmeno il colore: così il lettore di Simenon, che aspettava il premio della verità (lo svelamento del mistero), trova il castigo di una verità più profonda, di una nudità ulteriore: una sorta di squallore abissale e universale che informa di sé ogni ambiente, che si può respirare nell’aria di ogni interno come un odor di cavolo: il lettore resta su questa verità ultima, snudata dalla rimozione dell’ottavo velo: la disperazione della condizione umana non ha in sé nessuna grandezza, e quindi nessuna possibilità di riscatto: è un dolore meschino, turpe, viscido quello che si cela all’interno del delitto: un dolore sordido e ripugnante dal quale vorremmo distogliere gli occhi e dissociarci, quanto meno fisicamente, come dallo spettacolo dell’agonia di un verme: ma non possiamo: come Maigret, che ci ha portati a spasso per tutta la sua indagine losca e saporita, arrostendoci pian piano nel fornello della sua pipa, come Maigret, che ci ha assimilati al suo organismo fino a farci fiutare col suo naso e respirare coi suoi polmoni, come Maigret, per comprendere il delitto, dobbiamo identificarci con l’assassino: comprendere vuol dire far proprio, capire vuol dire contenere dentro di sé: qui non è questione di armonie, come nel caso dei delitti di Agatha Christie e delle indagini di Poirot: l’organo di senso chiamato in causa non è l’orecchio, ma il naso: di conseguenza prendere le distanze è impossibile: bisogna calarsi all’interno dell’ambiente in cui il delitto è maturato, e respirare l’odor di cavolo: Poirot non si pone affatto il problema di capire, bensì quello di dedurre: la sua somiglianza con l’assassino si arresta alla superficiale condivisione dei medesimi principi logici: e tanto basta per rendere l’intero plot piuttosto inverosimile: nelle inchieste di Maigret la verosimiglianza risiede nel capovolgimento della somiglianza: non punto di partenza, ma punto di arrivo: il libro è, a ben guardare, la storia di come Maigret e il lettore, progressivamente e quasi senza avvedersene, si trasformano da investigatori in complici del delitto. In una pagina che per me è rimasta memorabile, Maigret, eccezionalmente espatriato per l’occasione in Olanda, segue una notte un sospetto, a piedi, lungo la riva di un canale: lo segue sull’altra sponda: l’idea ha innanzitutto una sua efficacia narrativa: un pedinamento così anomalo, che si svolge su un terreno separato e non può quindi mai trasformarsi in congiungimento, offre l’opportunità di un’osservazione, paradossalmente, più ravvicinata: se Maigret seguisse la sua preda sulla stessa sponda del canale, dovrebbe mantenersi a una distanza di sicurezza, o di rispetto: avrebbe certo il vantaggio di non perderla mai di vista, di riuscire forse a scoprire dov’è diretta: ma nessun altro: l’interposizione del canale, rendendolo poco credibile come pedinatore, gli consente una maggiore audacia, una più acuta attenzione ai dettagli: in compenso il sospetto potrebbe svanire nella notte, in qualsiasi momento, infilare un viottolo, dileguarsi nei campi: per Maigret sarebbe impossibile corrergli dietro: questo modo di procedere è tipico di Maigret nella parte iniziale di un’inchiesta: la scena del canale offre, direi, una rappresentazione simbolica del suo metodo: fra lui e l’ambiente del delitto c’è ancora un fossato, un confine nettissimo, che non deve essere scavalcato troppo presto: per il momento si tratta di osservare, di orientarsi, ora arretrando per considerare da lontano tutto l’insieme, ora accostandosi per esaminare da vicino un singolo particolare: ma la scena del canale rende immediatamente chiaro al lettore che, per comprendere il delitto e identificare l’assassino, bisognerà ben presto passare dalla sua parte. Passare dalla parte dell’assassino: è questa necessità a rendere giallo il giallo, se davvero il giallo è il colore della follia: si tratta di oltrepassare una linea, una di quelle linee gialle che delimitano le zone proibite o di pericolo: al di qua, si è nell’area rassicurante che la società ammette e approva: al di là, si è nel mondo dei fuorilegge, degli esclusi. Ciò che mi affascina della letteratura gialla è proprio il modo caratteristico in cui mette in agitazione i contorni di questa linea di confine: il margine si allarga e si restringe di continuo: a tratti è così ampio da costituire per il lettore un comodo rifugio, dove sistemarsi beatamente come nel limbo degli ignavi: a tratti si assottiglia a un punto tale che sembra di poter marciare in perfetto equilibrio, con un piede su una sponda del canale e l’altro sulla sponda opposta: poi, all’improvviso, ci si accorge di aver valicato la frontiera, come se la linea si fosse ritratta sotto i nostri passi, lasciandoci di là: allora il mondo straniero diventa automaticamente l’altro, quello dell’approvazione sociale. Il romanzo giallo scava nella psiche umana fino a raggiungere e a mettere allo scoperto il nucleo di autenticità primitiva che vi si annida: un nervo mai addomesticato, pre-sociale, che si ribella all’odiosa necessità di essere perbene.
NdR: le quattro tavole che precedono, e quella iniziale (parziale), sono tratte dal romanzo grafico “Codex Rouge“, sceneggiato (in italiano) e disegnato da Marco D’Aponte, partendo da una sceneggiatura di Michel Hoëllard e Nathalie Neau, recentemente pubblicato da Töpffer Edizioni. La vita di Rubens, intervallata con una vicenda attuale …
[Per Castelvecchi è appena uscito Privati di Napoli. La città contesa tra beni comuni e privatizzazioni di Alessandra Caputi e Anna Fava, prefazione di Tomaso Montanari. Ne pubblico l’introduzione. ot]
di Alessandra Caputi e Anna Fava
Nella città di Napoli convivono, fianco a fianco, modelli urbani molto diversi tra loro. Le aree situate a Occidente e a Oriente hanno le sembianze spettrali di una città postindustriale che non è ancora riuscita a ripensare la propria identità. Una parte molto estesa del territorio è gravemente compromessa sotto il profilo ambientale, urbanistico e sanitario: le attività industriali hanno lasciato alle proprie spalle macerie e inquinamento. Circa un decimo dell’intero comune, che si estende su una superficie di 11.900 ettari, rientra tra i Siti di Interesse Nazionale (SIN) per le bonifiche. Le aree contaminate occupano complessivamente un’area di oltre 1.200 ettari: zone deindustrializzate mai risanate, discariche abbandonate al degrado ambientale, aree di sacrificio che languono nell’attesa di una nuova speculazione. Tutto ciò che non è funzionale al profitto resta immobile, recintato, si tramuta in rovine. Nel centro storico, invece, la recente accelerazione dell’industria turistica, avvenuta a seguito dell’avvento di piattaforme digitali per le case-vacanza come Airbnb e Booking, ha innescato un rapido processo di estrazione di valore economico. La persistenza di forme di vita tradizionali e l’assenza di marcati processi di gentrificazione hanno reso appetibili le case del centro, da sempre abitate da un mix sociale che comprende anche le fasce sociali economicamente più fragili; grazie ai prezzi più bassi rispetto ad altri quartieri della città, esse sono diventate l’infrastruttura chiave di una crescita turistica incentrata sulla ricerca di esperienze “autentiche”. Ciò ha innescato un incremento dei valori immobiliari, che, a sua volta, ha aumentato la rendita, attirando maggiori investimenti.
Anche il patrimonio culturale della città, ormai associato «al disimpegno e al divertimento»[1], è considerato unicamente come strumento di marketing territoriale. Dalla concessione di piazza Plebiscito a Ferrero per la festa della Nutella, alla promozione pubblicitaria di un fantomatico “brand Napoli” per attirare flussi turistici, fino alla recente, pericolosa idea di affidare il patrimonio culturale alla gestione di una fondazione, il patrimonio è adoperato come attrattore turistico. Il binomio “cultura-turismo”, cioè “cultura-economia”, ha soppiantato quello “cultura-cittadinanza”, in un clima di accondiscendenza acritica, in cui chi osa contestare è tacciato di arretratezza e ostilità al progresso. In pochi continuano a ribadire la funzione civile e politica della cultura e la centralità del pubblico.
Interrogarsi sullo stato del patrimonio e sulla sua funzione, sullo stato dell’ambiente, dei servizi pubblici, del verde, della città e dei suoi quartieri significa interrogarsi sullo stato della democrazia. È con questo spirito che qui cercheremo di tratteggiare le vicende di alcuni quartieri di Napoli e del suo patrimonio ambientale e culturale, con l’intento di fornire spunti utili per un’indagine ad ampio raggio che tocchi questioni relative a debito pubblico e dismissioni, scommesse finanziarie e commissariamenti, mancate bonifiche, turistificazione del centro cittadino e privatizzazione delle acque marine: processi accomunati da un’idea di spazio urbano come luogo chiave della produzione biopolitica del capitalismo contemporaneo. A questo modello, in cui a disegnare la forma delle nostre città è la mano invisibile del mercato, esiste un’alternativa. Negli ultimi anni, nella città di Napoli sono sorti nuovi movimenti di partecipazione civica legati al movimento per i beni comuni, iniziato a Roma con l’occupazione del Teatro Valle. Sulla scia dell’esperienza romana, i protagonisti di quella napoletana hanno rivendicato come bene comune, insieme all’acqua pubblica, anche una parte del patrimonio comunale dismesso o semiprivatizzato, creando spazi di mutualismo, condivisione e autogoverno aperti all’intera città, funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali. Una congiuntura politica favorevole ha consentito di istituzionalizzare questo processo in seno al pubblico, creando, negli interstizi di una macchina politica troppo spesso autoreferenziale e incapace di comprendere le energie vive della città, processi avanzati di «democrazia di prossimità»[2](face to face democracy, come la definisce Murray Bookchin). La nascita di beni comuni, consulte, assemblee pubbliche, osservatori civici ha irrorato il tessuto democratico di linfa vitale. Queste nuove istituzioni hanno segnato la riscoperta di un valore dell’urbano che si oppone al modello capitalistico del profitto e alla governance neoliberale fondata sull’individualismo competitivo[3]. Esse, al contrario, rappresentano una manifestazione concreta dell’idea di bene comune come fondamento della vita collettiva, della democrazia, dell’uguaglianza, della cultura, della libertà[4]. Un’idea che dovrebbe riprendere a guidarci e a illuminare le nostre città.
Note
[1] Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo, Einaudi, 2011, pp. 8-10.
[2] Mauro Pinto, Luca Recano, Ugo Rossi, New institutions and the politics of the interstices. Experimenting with a face-to-face democracy in Naples, «Urban Studies», anteprima online sul sito journals.sagepub.com, 1° maggio 2022 (https://bit.ly/3IMGNNb).
[3] Ugo Rossi, Il centro storico di Napoli e il valore urbano conteso: Turistificazione, beni comuni, innovazione, in Atti del XXXIII Congresso Geografico Italiano (Padova, settembre 2021), pp. 4-5.
[4] Salvatore Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2012.
Appunti su Cassandra a Mogadiscio. Memoir, romanzo epistolare, storia collettiva
«Waris said her grandmother rarely left their council flat in Wolverhampton any more (…), and she’s never stopped mourning everything she’s lost she lived a well-off lifestyle in Mogadishu until 1991, in a family where all the adult men worked in the family dental practice, until they were killed and she fled here with her daughters (…) I haven’t suffered, not really, my mother and grandmother suffered because they lost their loved ones and their homeland, whereas my suffering is mainly in my head (…) I’m not a victim, don’t ever treat me like a victim, my mother didn’t raise me to be a victim.» – Bernardine Evaristo, Girl, Woman, Other
«Jirro in somalo significa “malattia”, letteralmente è così, ogni vocabolario ti riporterà questa spiegazione. Persino Google Translate. Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, postguerra. Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente. Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellito le nostre ossa, e quelle dei nostri antenati, sotto un cumulo di kalashnikov.» – Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio
Poco meno di un anno fa, in un giorno d’esordio della primavera romana – tarda mattinata, da qualche parte tra il Campidoglio e il Teatro di Marcello –, la scrittrice Igiaba Scego mi raccontò che stava lavorando a un libro molto complicato per lei, e altrettanto necessario (l’aggettivo necessario affiora spesso, enigmaticamente, nelle recensioni o quando si parla e scrive di libri, ma in questo caso adoperarlo è corretto).
Eravamo seduti fianco a fianco nell’angolo di un tavolo ampio, in attesa che una riunione iniziasse. Scego indossava occhiali da sole, se ricordo bene; io lenti da vista che si appannavano sulla mascherina Ffp2. Paradossalmente tolsi gli occhiali annebbiati per vederla meglio, come se guardare e ascoltare fossero gesti complici, solidali in una sola intenzione, quella di capire cosa Igiaba cercava di spiegarmi.
“Voglio raccontare la storia della mia famiglia, di mia madre e mio padre, dei miei fratelli, del nostro paese di origine – la Somalia – e della guerra civile che l’ha distrutto”, mi disse.
“Quali archivi hai consultato?”
Subito chiesi quali archivi stesse consultando o avesse visitato, perché, quando qualcuno conversando con me evoca la parola storia, penso subito a biblioteche e archivi, a carte, documenti e libri, a parole scritte e tramandate: parole come pilastri, carte come mattoni sui quali edificare, appunto, una storia (e una lingua, e uno stile).
Ma ormai dovrei sapere che non funziona sempre così. Non esiste un metodo solo. Non esiste una sola ricetta per farlo. Soprattutto: non sempre si può disporre di un archivio, di un lascito familiare, di un deposito genealogico, di lettere o diari preziosi. In realtà avrei dovuto già saperlo mentre Igiaba raccontava il suo progetto. Ho letto ricerche di storia orale; e ho letto Città sommersa di Marta Barone, ricostruzione di un padre perduto senza che lui avesse lasciato una pagina, un solo rigo di eredità.
“Nessun archivio. Li hanno distrutti”
Eppure la risposta di Scego – “Non ho consultato nessun archivio. Li hanno distrutti. Non è rimasto nulla. Nemmeno un pezzo di carta” – mi sorprese molto, direi troppo, e lei se ne accorse. Nessun archivio? Nessuna biblioteca? Come farà? Come ci riuscirà?, devo avere pensato, e Igiaba deve averlo intuito fissandomi, tanto che ha poi deciso di riportare questo episodio nell’opera cui stava lavorando.
La riunione iniziò e smettemmo di conversare sul libro di Igiaba. Ma ormai mi ero convinto che a questa scrittrice toccasse un compito difficile e lungo, del quale avrei letto l’esito tra chissà quanti anni. Mi sbagliavo anche su questo. Cassandra a Mogadiscio (Bompiani 2023, 368 pagine) è appena uscito. Il lavoro era molto più avanzato e maturo di quanto avessi immaginato. L’ho letto, sottolineato, annotato per una decina di giorni. Poi l’ho posato sul mio tavolo. Poi me ne sono andato in giro nelle mie giornate, nel lavoro, nelle perdite di tempo, ma dedicando sempre al libro di Scego uno scompartimento dei miei pensieri; pensieri che adesso provo a organizzare in questi appunti.
Come ci sei riuscita?
Se qualcuno elaborasse una serie di quesiti condensati in una formula del genere: “Si può raccontare una storia senza possedere documenti, solo attingendo alla propria memoria e alla memoria delle persone che si è deciso di ascoltare? Si può dare voce a un passato ridotto in macerie?”; se qualcuno si ponesse davvero questa domanda, che implica un assillo morale oltre che metodologico, troverebbe la risposta – ed è “sì” – in Cassandra a Mogadiscio. Igiaba Scego l’ha fatto, ha visto e predetto il passato in luogo del futuro, è una Cassandra con gli occhi sulla nuca, veggente della storia, interprete dei fatti di ieri che l’hanno messa al mondo, figlia di una città e nazione distrutta (Mogadiscio come Troia), e ha scritto un libro struggente e prezioso.
Forse si è capito: senza carte a disposizione, l’autrice ha edificato il proprio lavoro sulle fondamenta di interviste e memorie personali. L’esito sulla pagina, però, è letteratura, è scritto, non compaiono quei brani esatti e incontaminati persino nelle sgrammaticature cui la storiografia orale ci ha abituati.
In un passo della postfazione Scego spiega il metodo adottato, quando precisa che in Cassandra a Mogadiscio:
«Ci sono il colonialismo, il trauma della dittatura e la guerra civile. Ci sono le tante ferite provocate alla Somalia da tanti colonizzatori differenti. In queste pagine spero di essere riuscita a cucire il mio pezzo di storia, a unire gli strappi dando un nome al tormento che chiunque abbia vissuto una guerra sperimenta, a quello che viene spesso definito trauma postbellico (anche se nella situazione somala non si può parlare veramente di “post”, perché purtroppo ci siamo ancora dentro): io ho preferito chiamarlo Jirro, usando la parola somala per “malattia Per dar voce al Jirro ho cercato di utilizzare il metodo di indagine memoriale che Alessandro Portelli, grande conoscitore della letteratura afroamericana e storico orale, ha diffuso».
Memoir, e lettera a una nipote
«Il nostro archivio è hooyo (mamma, ndr). E chiunque abbia visto la Somalia prima della distruzione. È così, nipote amatissima. Il tuo aabo (papà, ndr) è un archivio. Lo zio Abdul è un archivio. Zahra è un archivio. Mamma Halima è un archivio. E naturalmente lo era aabo. Il mio dolce aabo, che mi manca ogni giorno di più. E anch’io in un certo senso sono un archivio. Perché ricordo.»
Cosa è Cassandra a Mogadiscio? È, per molti versi, un memoir. L’autrice racconta la propria vita, come già le è successo in altre opere. Nata a Roma nei primi anni Settanta, figlia di due profughi somali fuggiti dalla dittatura di Siad Barre, dunque figlia dell’esilio e di un’improvvisa povertà. Separata, lei con i genitori, dal resto della famiglia, innumerevoli fratelli e altri parenti rimasti in Somalia o disseminati nella diaspora tra Europa e America. È dunque la storia di una ragazza italiana e somala che cresce negli ultimi trent’anni del secolo scorso tra pensioni malandate e appartamenti dimessi del quartiere Balduina, tra povertà, amori liceali e malattie, e dolori e sofferenze per la sorte della lontana Somalia (dove soggiornerà solo per un breve periodo) ridotta in cenere dalla guerra civile. Una ragazza che cresce fino a diventare la donna adulta che è oggi, la scrittrice che è oggi.
Ma è anche la storia di un uomo, il padre di Igiaba. Lo incontriamo in momenti molto diversi della sua vita. Giovane colto, intelligente, reclutato come “mediatore culturale” dai britannici nei primi anni Quaranta. Poi esponente politico di primo piano nella Somalia che, negli anni Cinquanta e Sessanta, prova a rendersi autonoma e democratica nonostante la tutela post- o neo coloniale dell’Occidente (attraverso l’amministrazione degli italiani, il colmo: i vecchi dominatori). Quindi messo in fuga dal regime di Siad Barre – che a oppositori e vecchia classe dirigente non consentiva altra scelta –, spossessato di tutto: agio economico, status, professione, figli; ramingo nei piani più bassi della piramide sociale italiana, quelli riservati ai migranti, a chi deve sbarcare il lunario. Infine anziano, malato, disincantato in anni vicini ai nostri e nel suo esito biologico.
Cassandra a Mogadiscio è soprattutto la storia di una donna, la madre di Igiaba, che apprendiamo nelle sue origini rurali, tra vita pastorale e cura dei dromedari nella boscaglia. La vediamo poi crescere: si urbanizza nella capitale, lavora, incontra il suo futuro marito, lo sposa e poi – a differenza di tante altre mogli di politici somali caduti in disgrazia – non lo abbandona, affronta l’esilio con lui, la vita dura di Roma, immigrata, africana, spesso sfruttata.
Attorno a questi tre personaggi ne ruotano molti altri, e in tutti loro risuonano le peripezie, direi le sventure, della Somalia, paese senza pace novecentesca tra dominio coloniale, dittatura, guerra civile, e nel nuovo secolo destinato a un fallimento che pare incurabile: «“Immondezzaio”, così i media chiamano la Somalia. Per il mondo siamo una latrina. Pestilenziale, unta, condannata all’eterno tormento», scrive Scego.
Insomma è una storia collettiva. E, in tutte le sue anime, porge il resoconto di un trauma che ha ferito irrimediabilmente una terra e un gruppo di persone, una grande famiglia articolata nelle sue generazioni. Maè anche una lettera. La sua forma è epistolare. Una lunga lettera rivolta a un’altra discendente della diaspora, la giovane nipote di Scego: si chiama Soraya e vive in Canada. Lei, rappresentante di tutte le ragazze e i ragazzi della sua generazione, è la destinataria della storia, colei alla quale il racconto deve essere trasmesso.
Indimenticabile madre
«Vedo quanta voglia ha la mia hooyo, la tua ayeyo, quella nonna che ormai è arrivata alla soglia degli ottant’anni, di raccontarti il mondo, il suo, per trasmettertelo. Ma non parla bene nessuna delle tue lingue. (…) E hooyo voleva (…) passarmi la sua vita. Perché non si trattava più di una storia famigliare e basta. Era qualcosa che andava oltre. (…) “Ascoltami,” mi ordina. “Degheso. Non c’è bisogno che annoti tutto. Usa la memoria. Usa il cuore.” (…) E io sono per te anche colei che traduce. Antenata dopo antenata. Virgola dopo virgola. Massacro dopo massacro. Viaggio dopo viaggio. Kalashnikov dopo kalashnikov. Sono la turjumaan, la traduttrice, di una storia ancora da scrivere.»
Dobbiamo questo libro al talento di Igiaba Scego. Ma lei lo deve alla forza e all’ostinazione di sua madre Chadigia. È la hooyo a esprimere il desiderio che la storia sia messa per iscritto e trasmessa. Vuole che la giovane nipote la conosca. Ma non può raccontargliela direttamente. Non hanno nessuna lingua in comune. Non il somalo, non l’inglese né il francese, non l’italiano. E la nonna non sa scrivere, e legge poco e male. È lei a costringere la figlia – la scrittrice, la traduttrice – al lavoro.
Chadigia è un personaggio indimenticabile, e sono indimenticabili le pagine che ce la mostrano: sia nell’atto di ricordare, anziana a Roma, al fianco della figlia e spronandola all’ascolto, sia nell’atto di esistere in questa storia, a partire dall’infanzia e poi nell’avventura della vita. Ma spiccano alcune pagine in particolare. Un cuore più vivido pulsa nei brani sulla guerra civile scoppiata nel 1991. Qui inizia una stagione lunga, silenziosa, pericolosa. Quando la madre, senza capire cosa stia per accadere in Somalia, decide di partire per Mogadiscio.
«Mise due stracci in valigia e approdò dalla sorella. Era l’unica ottimista in un paese in cui tutti erano diventati improvvisamente pessimisti. Lei credeva che la Somalia avesse un futuro.»
Di lì a poco Chadigia sparisce, «inghiottita dalla guerra. (…) Tradita. Dalla nazione. E dalla storia». Trascorrerà un anno nel paese lacerato dalla violenza, testimoniando atrocità e cercando riparo come può. La sua assenza trova un controcanto (e un vero e proprio biografema) nello strazio romano della figlia adolescente, che vede la tragedia somala incarnarsi in quella della madre, e in apprensione per lei contrae il Jirro per la prima volta nella vita, sulla soglia dell’età adulta. Una malattia che è davvero patologia storica, politica, dolore collettivo capace di incorporarsi nella carne della ragazza sino a farle perdere il corpo inducendola a un vomito continuo, a un quotidiano rigurgito. Si capisce allora perché sia questa madre l’energia di Cassandra a Mogadiscio, la forza di tutto: è attraverso la sua sorte (per fortuna benigna, Chadigia riapparirà a Roma nel 1992) che Scego prende coscienza della ferocia in cui è sprofondata la Somalia.
La forma e la lingua
«“Allora dille, a quella mia nipote scapestrata e dolcissima, che l’italiano è la lingua dei sogni. Anzi dille che l’italiano è la lingua del più grande sogno di sua nonna. Ritrovarci io e lei presto insieme e parlare. Guardandoci negli occhi. Senza intermediari. Con la forza dei nostri sospiri. Devi dirle che la aspetto. Che sono anni che voglio chiacchierare con lei. E superare l’oblio”.»
Accennavo sopra alla forma epistolare del libro. La lunga lettera di Igiaba a Soraya. Funziona benissimo. Porge una lingua intima e orale, conversazionale, e una narrazione mai lineare ma fitta, invece, di ripetizioni, digressioni, sospensioni, arresti e ripartenze. Esattamente come dovrebbe accadere in una lettera. Forse una lettera scritta a mano, penna e inchiostro su carta, e non scolpita e corretta davanti allo schermo di un computer.
Il tutto è controllato in un flusso che pare naturale nel suo perdersi e ritrovarsi tra presente e passato, tra personaggi, episodi e diverse epoche in un arco temporale che va dagli anni Trenta del Novecento a oggi. Ma è appunto architettura, scelta stilistica. Questo libro è un tessuto imprevedibile e irripetibile, esattamente come annuncia la sua copertina, là dove incontriamo una fotografia della madre di Igiaba, giovanissima, intenta a spiegare a una donna italiana come si cuce un paio di babbucce: mani e dita intrecciate, ago, filo, sguardi concentrati su una trama che non sarà mai geometricamente simmetrica ma, come rivendica la stessa autrice, caleidoscopica.
Infine la questione della lingua. Si sarà capito che a leggere Cassandra a Mogadiscio s’impara un mucchio di parole somale. Ma si apprende anche l’amore per l’italiano. Non è una questione irrilevante. Stiamo parlando della lingua degli antichi colonizzatori. E poi del gergo burocratico, brutto, ostile, indifferente che accoglie una famiglia di profughi e la umilia con la sua modulistica (permessi di soggiorno e via elencando).
Eppure è una lingua amata e adottata. Chadigia vorrebbe che la nipote Soraya la imparasse. Altro che inglese, francese o addirittura somalo: la nonna vuole parlarle in italiano. E Igiaba in italiano continua a scrivere, non lo “tradisce” per altri idiomi – più appetibili sul proscenio editoriale globale – che un’autrice cosmopolita come lei potrebbe tranquillamente frequentare. È un affetto che colpisce ed emoziona. Forse contiene una specie di perdono storico, non lo so. Sicuramente rivela una superiorità rispetto a chi, italianissimo e razzista, dall’altra parte della barricata storica, fu protagonista di violenze e sopraffazione.
Italiano. Ecco cosa scrive Igiaba Scego al riguardo:
«Una lingua un tempo nemica, un tempo negriera, ma che ora è diventata, per una generazione che va da mia madre a me, la lingua dei nostri affetti. Dei nostri più intimi segreti. La lingua che ci completa nonostante le sue contraddizioni. Lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio, Elsa Morante e Dacia Maraini. Lingua di Pap Khouma, Amir Issaa, Leila El Houssi, Takoua Ben Mohamed e Diarah Kan. Lingua un tempo singolare e ora plurale. Lingua mediterranea, lingua di incroci».
Hooyo – Chadigia, la madre – non può leggere il libro di Igiaba. Immagino e spero che la figlia lo abbia declamato per lei ad alta voce, dalla prima all’ultima pagina. Immagino l’emozione dell’ascolto, la memoria e la storia che riempiono il tinello di un’abitazione romana, il ricordo di chi non c’è più, la fiducia e l’amore in chi ancora c’è.
Cassandra a Mogadiscio consente un ingresso lieve in una storia importante e cruenta. Pagine colme di amore per la Somalia e per l’Italia insieme (che forse questo amore non se lo merita) offrono un testo privo di rabbia; davvero un miracolo.
[A fine 2022 è uscito per Astarte Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria di Karima Lazali, tradotto da Barbara Sommovigo, con prefazione di Roberto Beneduce e Simona Taliani. È un volume ricco e complesso, in cui l’autrice, alla luce della propria esperienza di psicanalista, rilegge la storia psichica e sociale del paese e indaga forme e conseguenze del trauma della colonizzazione. Pubblico le prime pagine dell’ultimo capitolo, dal titolo “Uscire dal patto coloniale”, ringraziando l’editore. ot]
di Karima Lazali traduzione di Barbara Sommovigo
Che cosa ci fa fare, la stronza!
Di chi stai parlando? chiese a Bouzid.
Della libertà.
– Malek Haddad, La dernière impression
Non inventare nuove ferite, ma nuove profondità ai sorrisi e alle gioie:
il mondo è lì, posto nel tuo gesto, come la stella disegnata dall’astro della mano.
– Nabile Farès, L’exil et le désarroi
Ancora oggi l’“Algeria”, significante, oggetto e luogo, è associata a una devastazione e a un’esplosione, in un disconoscimento degli effetti a lungo termine della sua storia coloniale. Questa situazione è il riflesso di una colonialità che ha organizzato una sospensione del tempo, una compressione dello spazio e una cancellazione del memoriale per tutti i suoi membri. In Francia, questa storia intesse tanto i mormorii dei discorsi quanto il loro pesante silenzio. Il coloniale e le sue tracce assumono l’aspetto di un’assenza di memoria o, per riprendere l’espressione di Daniel Mesguich a proposito della guerra di liberazione, di un “grande vuoto di memoria”[1]. Questi fruscii, avvertiti nel profondo, che riguardano l’“Algeria” indicano che c’è dell’impossibile da dimenticare, innominato ma pienamente attivo. Ed è per questo che è ancora difficile, dopo molte generazioni, entrare in una storicizzazione e in un racconto degni delle memorie e del tempo del passato: la violenza persiste a vuoto, sorda e assordante. Deve rimanere?
Questa difficoltà di archiviazione, fortemente attiva, va di pari passo con l’oblio. Come abbiamo visto, la colonialità produce uno strano fenomeno in cui, come scrive il romanziere Salim Bachi, «la nascita della memoria è iniziata con l’assenza di tracce»[2]. Si tratta di un paradossale tumulto della memoria, che cattura la Storia nel politico: al lavoro degli storici viene impedito di aprire un dibattito pubblico che avrebbe conseguenze sulla società civile. La passione per l’“Algeria” continua a ossessionare il politico, anche in Algeria attraverso un “nazionalismo” svuotato di progetto politico, evidenziando un “amore incondizionato” per Lei, la patria. Il minimo scarto rispetto alla causa “nazionale” è trattato come un appello al tradimento e al rilancio del colonialismo. L’immaginario della hogra persiste come stimolo al pensiero e al con-vivere.
Dopo la liberazione, l’instancabile reiterazione della colonialità in seno alle soggettività e alla politica
La colonialità è per il politico portatrice di guerra civile. In diverse occasioni, intorno all’Algeria, si è verificata in Francia un’incrinatura negli apparati politici che organizzavano la società coloniale. Ricordiamo che, anche per la “metropoli”, la cosiddetta “guerra d’Algeria” fu guerra civile per via dell’inclusione della colonia nel corpo della Repubblica. Ha altresì portato a un’importante destabilizzazione della politica francese e a un grave rischio di guerra civile sul suo territorio. E infine, questo scontro ha avuto luogo sul territorio algerino in una guerra interna al suo microcosmo, prima nell’estate del 1962 e poi durante la guerra civile degli anni Novanta.
Il fratricidio, strumento della colonialità, indica così una pericolosa filiazione tra essa e il politico. Questa situazione si sposta, e al momento sta minando il Medio Oriente dove, in nome della “democrazia”, si sta dispiegando l’immortalità dell’impero. Il capitalismo veglia sulla sua eternità e sulla sua conservazione, provocando guerre civili e lotte tribali. Viene anche qui confermato il fatto che la colonialità sposti altrove il fratricidio sopito in seno alla Repubblica. Le logiche attuali dell’impero e i suoi attacchi in Medio Oriente sono inoltre quotidianamente e molto vivacemente commentati dai soggetti degli ex paesi colonizzati, tanto che questo legame tra colonialità e politica è diventato per loro una banalità. Mentre, anche all’interno delle ex potenze coloniali, è troppo spesso dimenticato, ricoperto dalle buone intenzioni della “democrazia” e dal pensiero, ancora corrente, di civilizzare il “mondo” attraverso la democrazia, ignorando completamente i presupposti storici.
È quindi comprensibile che a partire dagli anni Duemila, i discorsi e gli atti di guerra dei leader delle maggiori potenze occidentali in Medio Oriente abbiano ravvivato nella popolazione algerina l’idea che la loro ricorrente invocazione alla “democrazia” indicasse un ritorno alla colonialità. Fra le altre cose, questo ha avuto come effetto quello di rafforzare la sfiducia nei confronti di qualsiasi richiesta di democratizzazione a livello della società civile. La domanda dei cittadini di avere accesso alla pluralità politica e al fatto di essere cittadini ne è uscita indebolita. Il dietro le quinte della “democrazia” made in France nasconde infatti, in Algeria, un potenziale di inibizioni e paure di fronte alla prospettiva di porre fine a un certo tipo di schiavitù. Poiché la colonialità – è importante ricordarlo costantemente – si è basata sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. In Algeria, questo aspetto rientra nell’indimenticabile, poiché questa dichiarazione per molto tempo è servita come copri-miserie per ben altre poste in gioco: la politica dell’universale è stata solo uno strumento di oppressione e di giustificazione di diverse forme di segregazione. Ciò che ne rimane è una grandissima sensibilità al motivo dell’universo e alla “cosa” democratica come viene praticata oggi dalla politica francese.
L’attuale situazione dei paesi del Medio Oriente rafforza quindi in Algeria la parte indimenticabile della storia coloniale. Qualsiasi cambiamento strutturale del politico comporta un rischio di degenerazione con molteplici poste in gioco. Nel 1959 Frantz Fanon scriveva:
[…] un bambino di sette anni, segnato da profonde ferite provocate da un filo d’acciaio con cui è stato legato mentre i soldati francesi picchiavano e uccidevano i suoi genitori e le sue sorelle. Un luogotenente lo ha costretto a tenere gli occhi aperti, affinchè vedesse e ricordasse a lungo…. […] Ebbene, crediamo sia facile far dimenticare a questo bambino l’assassinio dei suoi genitori, e il suo enorme desiderio di vendetta? Questa infanzia orfana, che cresce in un’atmosfera da fine del mondo: è questo il messaggio che lascerà la democrazia francese?[3].
Come uscire da quella logica di ciò che non si può dimenticare, marchiata da un ferro rosso che ha instaurato nel tempo un’atmosfera di minaccia e di suscettibilità?
Da un lato, in Algeria, la colonialità è diventata una matrice storica: continua a occupare le soggettività e il politico, e funge da causa univoca per ogni questione legata alla responsabilità. D’altro lato, in Francia, tende a scomparire dalla Storia pur essendo pienamente attiva negli spazi bianchi dei discorsi e delle pratiche politiche. A questo proposito, un esempio è il modo in cui il politico cerca di spogliarsi, in Francia, della storia coloniale, preferendo pensare che si tratti solo di un affare degli ex “colonizzati”. Qui e là, la colonialità continua quindi la sua opera di “annullamento” [mise à blanc] attraverso l’espropriazione, la cancellazione e la sparizione.
In Algeria, la questione dello spossessamento è al centro della governance e del rapporto con l’altro. Il gesto coloniale è ribadito dal potere politico, ma questa situazione si ritrova anche e soprattutto al centro delle soggettività, qualunque sia l’appartenenza sociale degli individui. Spogliare l’altro di un presunto potenziale di cui potrebbe disporre rimane una costante nelle relazioni interpersonali: non si tratta solo di monopolizzare il potere al fine di accumulare profitto, ma quasi di spogliare per il gusto di spogliare. Tutto accade come se il tempo si fosse fermato nel momento in cui si trattava di sottrarre all’altro qualcosa che possedeva. Lì risiede la vera traccia invisibile dell’opera coloniale, che si trasmette tale e quale, generazione dopo generazione.
Il politico è dunque la traduzione in atto delle deflagrazioni lasciate nelle soggettività. Viceversa, i soggetti in quanto cittadini partecipano alla costituzione degli apparati di potere, come diceva Frantz Fanon nel 1961: «Un governo e un partito hanno il popolo che si meritano. E a più o meno lunga scadenza un popolo ha il governo che si merita»[4]. Uno strano monito sul modo in cui i cittadini, chiunque essi siano, si adattano e soprattutto partecipano alle scelte del regime, quand’anche lo denuncino e gridino costantemente al “tradimento nazionale”. Non basta quindi evocare la possibilità di un’identificazione con una posizione di coloni dei detentori dell’attuale potere politico algerino, occorre anche pensare al modo in cui le soggettività dei cittadini sono esse stesse attrici dell’assoggettamento al quale contribuiscono al fine di riaffermare nel microcosmo il tempo iniziale dello spossessamento.
Ecco perché la liberazione acquisita non significa un’uscita dalla colonialità. L’indipendenza può ricreare una modalità di legame coloniale che funge da bussola nel legame sociale. La liberazione è un momento fondamentale per accedere al senso dell’esistenza e della cittadinanza. Ma questa liberazione può trasformarsi in un rifiuto di separarsi dal momento traumatico dell’irruzione coloniale. Qualcosa impedisce di emergere definitivamente come un essere separato, preso nella Storia senza essere identificato con essa. Questa non-separazione con lo spirito del coloniale fa della Storia un fatto del presente.
Lo spettro coloniale ritorna dunque a invadere la psiche e il politico. Questo aspetto è essenziale, poiché, in Algeria come in Francia, l’interferenza memoriale è al servizio di un rifiuto di separazione, che mantiene inaffrontabile la passione “Algeria”. La cancellazione e le difficoltà di archiviazione danno a questa passione i suoi pieni poteri. Lo spossessamento della Storia e del senso delle responsabilità è la continuazione dell’ordine coloniale nell’epoca contemporanea. Significa forse che i coloni e i colonizzati vi restano aggrappati? Come abbandonare, allora, il gesto coloniale di spossessamento che opera come memoria e Storia su entrambe le sponde del Mediterraneo?
Il lavoro storico perde di continuo la necessaria autonomia, a volte spogliato del politico in Francia, a volte messo sotto il sigillo del politico in Algeria. Lo spossessamento in Algeria, come abbiamo visto, ha colpito gli ancoraggi simbolici per indurre un ripopolamento delle menti attraverso lo spazio bianco. Questo meccanismo ancora operante è una memoria in atto, celebrata e condivisa da tutti i membri della colonia, anche se i crimini, la distruzione e l’ossessione della sparizione fanno parte dell’indivisibile. Qua e là, questa vicenda attraversa il tempo e lo spazio inalterata. Esiste forse uno strano “patto coloniale” (Frantz Fanon), firmato in bianco senza autori né responsabili? E come pensare allo stesso tempo alla simmetria del patto e all’asimmetria che lo ha costituito? Infatti, se c’è stato un patto tra coloni e colonizzati, questi non lo hanno stipulato né allo stesso modo né allo stesso tempo. La violenza dell’effrazione coloniale è stata infatti la prima e senza precedenti nel suo grado di distruzione e nella sua trasmissione alle generazioni successive. A posteriori possiamo porci questa domanda: a che cosa acconsente la parte colonizzata ribadendo il gesto coloniale all’indomani di una liberazione?
Una lettura eccessivamente militante degli scritti di Frantz Fanon ha spesso contribuito a schiacciare i suoi contributi decisivi come psichiatra. Tuttavia, è proprio dalla pratica clinica con gli “indigeni” oltre che con gli “Europei” affetti da disturbi psichici che, dal 1953 al 1956, ha messo in discussione le posizioni del colono e dei colonizzati come operatori del sistema e non semplici esecutori testamentari o vittime[5]. Così, quando nel 1961 scrive che «il colonizzato sogna sempre di impiantarsi al posto del colono»[6], ritaglia un’altra porzione di comprensione. Perché l’invidia funziona come corollario dello spossessamento, in assenza di un ricordo che restituisca la vicenda come risultato di uno shock vissuto in passato. La reiterazione si ripete infatti in assenza di un testo memoriale su cui potrebbe basarsi per creare punti di sosta. L’indebolimento degli ancoraggi simbolici comporta che l’iscrizione ricercata, non potendo essere incisa, scompare a sua volta.
Si è quindi verificata la falsificazione del luogo di ancoraggio (e della Storia) e la cancellazione delle filiazioni per far scomparire un popolo. Le conseguenze di questa «ferita genealogica»[7] sono un attacco al simbolico, come ciò che tiene insieme il corpo, la lingua e lo psichismo. La distruzione del luogo ancestrale nella colonialità ha spinto ogni “indigeno” in varie forme di malinconia e abbandono. Scrive Nabile Farès:
Ho spinto la porta del luogo e qualcosa si è spezzato in me. Come una lama. O un piacere. Disarmato. Ho spinto la porta del luogo e sono riuscito a raggiungere l’interno della mia durata, perché l’interno si era appena incrinato[8].
Un colpo di genio, spontaneo e rapinoso come ne capitano agli artisti, ha fatto scegliere ad Alice Rohrwacher di trasporre al femminile testo e tema di una lettera che Elsa Morante scrisse a Goffredo Fofi, fraterno amico e mordace critico ma in nuce, non noto e prolifico come oggi, per quanto già allora vivacissimo interlocutore, anche in senso polemico, della scrittrice. Era vicina ai sessant’anni e presumibilmente stava lavorando al romanzo “La Storia”, Elsa Morante, quando pensò di offrire come dono natalizio all’amico, sotto forma di lettera, un apologo, contenuto in una vicenda da lei sentita dire, risalente a quasi cinquant’anni prima, e dall’evidente contenuto allegorico / morale. Le risonanze che le suggerivano quell’omaggio epistolare erano due. Si trattava di un regalo di Natale (la lettera data 21 dicembre 1971) che narrava qualcosa occorso intorno a natale; e poi, la storia riportata si svolgeva in Umbria, stessa regione di cui Fofi è originario. Inventare un convento al femminile, per Alice Rohrwacher sembra avere avuto funzione propulsiva, dinamizzante, e anche di inveramento: guardando i trentasette minuti del suo film “Le Pupille” (ora candidato agli Oscar) tutto pare più credibile e fluido rispetto alla versione originaria dell’epistola di Elsa Morante, quella al maschile. Più efficace, la resa filmica, non tanto per mera questione di genere, quanto perché le dinamiche di repressione / colpevolizzazione contenute nella vicenda, calate nel consesso di donne si fanno se possibile più sottili, e cruente. Così per la rigida, severissima temibile madre superiora (Alba Rohrwacher), così per il personaggio esterno e inventato di una donna, un’elegante signora (Valeria Bruni-Tedeschi) che in segno di richiesta di prece da dedicare a un uomo che ama, offre al Convento la sontuosa torta zuppa inglese che subito diventa oggetto di desiderio per tutte le ragazzine, e dinamo scatenante dell’intera narrazione.
Altra invenzione, questa anche insolita ed efficace sia visivamente che da un punto di vista narrativo, la scelta di “animare” la lettera – in clima natalizio, per brevi momenti inscenando un coro che ha molto del presepe vivente. “Caro Goffredo” intonano in coro le ragazzine all’inizio del film, e di nuovo alla fine, declamando l’incipit e la chiosa della lettera morantiana, e dando vita alla stessa missiva/apologo. Quella che viene a crearsi è un’alternanza tra parlato e cantato il cui effetto da lontano può ricordare i film dl Jacques Demy (Les demoiselles de Rochefort quantomeno), uno schema dove, nella sua parossistica levità, il cantato acquista autorevolezza e forza – forza morale soprattutto, trattandosi di apologo. Un piccolo film pieno di grazia, e che accanto alla grazia conta la virtù della compattezza, di un ritmo che non si smarrisce neanche un momento, e il nitore cromatico: tutto è nitido, intonato nei colori nelle luci nell’ambientazione, senza che mai venga perso di vista il contesto storico e il frangente umano, né mai si noti un sovrainterpretare o eccedere in soluzioni visive. Misurato, appassionato quanto lucido traporre guardando, ovvero mai perdendo di vista un contesto inventato e tenuto sempre vicino, tenuto accanto, chiarissimo e scandagliato e amato . Trasposizione visiva di un testo letterario dove le immagini rendono più vivido ancora l’affresco prodotto dall’infallibile “pennello” della penna di Elsa Morante, e non solo per già detta armonia cromatica, anche perché nella brevità della misura “tutto si tiene”, ovvero nulla è in eccesso, nemmeno un fotogramma, analogamente a come nel testo originario della missiva avrebbe potuto essere per una virgola di troppo. L’osmotico confronto di cinema e letteratura insomma in un congegno del genere, così preciso e compatto, è fluidamente chiaro: personaggi, dinamiche, snodi, scenografia, tutto invera quel che sulla pagina restava da finir di immaginare. Una bellissima favola natalizia, che lascia, come fanno le favole, attoniti e incantati, custodi in qualità di spettatori della memoria di un luogo che diventa luogo della mente, di un’atmosfera che, a distanza di tempo dalla visione, resta dentro come un punto di luce, un punto reimmaginato a.cui quando lo si vuole poter fare ritorno, in libertà, ogni volta rinnovando stessa sorpresa intatta. Impressioni che riuniscono qualcosa di infantile e assolutamente adulto insieme, come infanzia e maturità asintoticamente si toccano quando si ascolti, si legga, si guardi raccontata una storia che in sé contenga una riflessione o insegnamento morale. Evviva “Le pupille”, trentasette minuti girati in stato di grazia.