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Su “Solenoide” di Mircea Cărtărescu

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di Fabio M. Rocchi

L’annullamento della logica temporale e la visione trasfigurata. Su un oggetto ricorrente in Solenoide di Mircea Cărtărescu – Il Saggiatore, 2021, traduzione italiana di Bruno Mazzoni

Come opera una delle logiche di racconto preponderanti nell’ultimo fluviale romanzo di Mircea Cărtărescu, Solenoide?

La storia si concentra sulle ossessioni e sulla non-vita del protagonsita, un anonimo professore di scuola secondaria che presta servizio nella Romania degli anni Ottanta e che si trascina senza scopo da casa al lavoro, spostandosi in tram in una Bucarest periferica e allucinata.

La sua esistenza si consuma tra il chiacchiericcio dei colleghi e la maniacale registrazione delle proprie angosce notturne. Un manoscritto, popolato di frammenti già precedentemente annotati e adesso recuperati in forma commentata, costituisce la sua occupazione quotidiana. Il professore vuole comprendere la vera natura del mondo che lo circonda, risolvendo enigmi di tipo matematico e affrontando un assillante quesito di matrice filosofica: quello della presenza di una quarta dimensione, un universo parallelo in cui una seconda esistenza, direttamente posta in connessione con la realtà tridimensionale, si manifesta attraverso presenze brulicanti e multiformi.

Molto spesso i capitoli prendono spunto da un fatto, del tutto realistico e legato al presente del protagonista o ad episodi della sua infanzia. Il racconto però va incontro sempre ad una svolta inattesa. Ad un certo punto, senza alcuna transizione che prepari il lettore, la logica temporale viene spazzata via e, letteralmente, veniamo trascinati all’interno di un mondo diverso, sorretto da leggi differenti a quelle che vigono nel quotidiano.

Queste vere e proprie epifanie stranianti e magiche spezzano in due il ritmo della pagina e la rendono senza mezzi termini straordinaria. Al loro interno il personaggio di Cărtărescu si trova di fronte a visioni declinate secondo un immaginario molto riconoscibile, in cui elementi quali il labirinto, la larva, l’ampolla di formaldeide che contiene un corpo ancora vivo, l’idra gigante e le creature dalle molte membra ritornano con coerenza.

È da notare come un luogo istituzionale e legato all’assetto dell’organizzazione comunista sia sempre lo scenario che contiene i presupposti anche spaziali affinché il disvelamento avvenga. Si tratta di edifici bui, costruiti su un dedalo di corridoi e porte, secondo una architettura sovietica ben riconoscibile. Il luogo in cui viene esercitato il potere, assieme all’organizzazione burocratica che ne permette la suddivisione, appare come invalicabile: oscuro, squadrato, pura esaltazione della logica del controllo. E invece proprio in quei contesti, spesso con improvvisati o casuali compagni di viaggio, il protagonista trova inaspettatamente accessi nascosti e pertugi che gli regalano la visione di un altrove sensoriale e a un tempo metafisico.

Accade nell’episodio della fabbrica abbandonata con il collega Goia; accade nella Caserma, in compagnia di una bambina incontrata per caso in sala di attesa. Accade nella grande scena della protesta presso l’obitorio, con la professoressa Caty. Accade con Traian nel sanatorio di Voilà, la notte in cui l’apertura di un armadio offre uno squarcio su un mondo alternativo e proteiforme che è poi quello al quale tende l’ambizione dello scrittore in questa opera.

A riprova della tenuta di questo immaginario, nel romanzo un oggetto più di altri, inanimato e all’apparenza privo di connotazioni ultra-terrene, determina alcune scene dal particolare valore simbolico e viene riproposto agli occhi del destinatario come una sorta di refrain rivelatore. Si tratta della poltrona del dentista.

Nel capitolo ottavo della prima parte del romanzo (pp. 78-102) il protagonista – un anonimo professore di lingua e letteratura romena – decide di andare a vivere da solo e di staccarsi dalla famiglia.

La ricerca di un appartamento si conclude quando, in via Maica Domnului, il giovane docente si imbatte in una stravagante costruzione a forma di nave, che completa il suo profilo con una torretta munita di ringhiera, alla quale si accede tramite una porta di accesso situata su un piccolo terrazzo. Si tratta della ex dimora del vecchio Mikola, che gliela ha venduta senza troppe complicazioni e a un prezzo più che ragionevole.

Da questo momento hanno inizio le esplorazioni in quella che si propone come una vera e propria casa delle meraviglie, luogo del magico e del soprannaturale così come, ambivalentemente, dello squallore e della solitudine. L’ambiente si presenta come un labirinto incantanto: molteplici porte si aprono sui corridoi mentre spazi sempre nuovi e inattesi si rivelano al giovane proprietario. In quella sorta di iper-cubo, edificato su un tronco di piramide rovesciata, egli vive esperienze ultra-terrene, poste cioè al di là di una realtà fenomenica e immaginabile secondo i normali parametri con i quali siamo soliti esperire il mondo. La forma geometrica del cubo, nella serie delle ricorrenze simboliche del romanzo, accoglie del resto in sé un ampio spettro di significati: si tratta di un solido che può trasformarsi in un poliedro polidimensionale e che ha alle spalle una cospicua trattazione matematica che passa dal pensiero di George Boole (1815-1864) per arrivare a quello di Charles Howard Hinton (1853-1907).

Il protagonista finisce per identificarsi pienamente con quello spazio. Si legge a un certo punto: «Se ogni casa è l’immagine di colui che la abita, per quanto anamorfica e ingannevole possa essere, ho saputo anch’io che là, in quell’iper-cubo, in quel tesseratto di cenere, avevo incontrato il mio più completo autoritratto» (p. 88). Il professore vive dunque le contraddizioni della casa e ne coglie, seppur per brevi momenti, i privilegi. Il tempo diacronico, il clima, la luce – per gran parte della storia rappresentati come monotoni e tendenti al grigio, opachi, intonati al contesto di una periferia oppressa dalla dittatura e dall’industrializzazione nella Bucarest degli anni Ottanta – mutano improvvisamente di segno, aprendo come degli squarci sulla superficie di un velo. Si tratta di fessure che permettono di guardare oltre e di entrare in contatto con una prospettiva esistenziale amplificata.

A generare il flusso di energia che sospende la realtà, così come il peso della materia e dei corpi, è un solenoide, ovvero una elettro-calamita composta da una bobina di rame avvolta in spire che, se posta a contatto con una fonte elettrica, può dare luogo a inversioni del campo magnetico. Tutto parte da qui, da un consistente fulcro di senso che peraltro dà il titolo al romanzo. La cosa veramente particolare, tale da rendere l’immaginario di Cărtărescu unico, è che il solenoide si trova posto, in seguito ad antiche vicende che avevano riguardato gli esperimenti del vecchio Mikola, proprio sotto la casa del professore, in particolare corrispondenza con la torretta con cui termina la costruzione a forma di nave alla quale prima facevo riferimento. Nel momento in cui il protagonista si rende conto della relazione tra un interruttore quasi nascosto e l’attivazione del ronzante solenoide, egli si trova curiosamente sdraiato su una vecchia poltrona da dentista. Cosa ci fa questo oggetto, del tutto decontestualizzato, all’interno di quell’edificio?

La capacità immaginifica di Cărtărescu sorprende il lettore e lo costringe ad uno sforzo di comprensione che va oltre le regolari associazioni semantiche. Si direbbe, in virtù di analoghi accostamenti forzati che si riscontrano nel romanzo e più in generale nell’intera opera dell’autore romeno, che questo particolare procedimento si regga sullo straniamento di sklovskijana memoria e metta in relazione particolari volutamente irrelati, in cui le categorie del desueto e del defunzionalizzato giocano senza dubbio un ruolo importante. Per questo motivo, nel corso di una delle sue prime esplorazioni, il professore si trova di fronte a questa poltrona dentistica attrezzata di tutto punto, posta al centro dell’ultima stanza della casa, appunto all’interno della torretta, in uno spazio interamente vuoto che diventa simbolico. Lì, assieme alla compagna Irina, attivando l’interruttore che dà il via all’azione del solenoide, i corpi potranno fluttuare nell’aria leggeri e, soprattutto, potranno disvelarsi alcune visioni che permetteranno di ricostruire un senso secondo e più veritiero sull’ordine universale.

La poltrona del dentista, privata delle sue funzioni e della sua principale destinazione d’uso, diventa oggetto mediatore all’interno di una estetica perturbante che ha evidenti tradizioni ottocentesche, specie se ci riferiamo al filone del racconto fantastico che prende avvio con Poe e prosegue con Hoffmann. La sua silenziosa presenza diventa varco che mette in connessione la realtà con l’iper-realtà. Si crea una zona di sospensione, di soglia, in cui i due mondi – sovrapposti senza che in condizioni normali se ne possano immaginare le tangenze – riescono finalmente a dialogare.

Se la poltrona del dentista è senza dubbio un oggetto straniante, colpiscono allo stesso modo la sua ricorrenza nel romanzo e le associazioni che nell’immaginario di Solenoide vengono ad essa attribuite, con la valenza come si diceva di elemento connettore tra i due emisferi del noto e dell’ignoto. Una circostanza desunta dalle memorie protagonista bambino ci restituisce una immagine cruciale, senza dubbio la fonte che ispirerà successivamente alcune visioni dell’io narrante. Nel capitolo diciannovesimo, dedicato alla rievocazione dei problemi di salute che ne avevano afflitto l’infanzia, il professore ricorda i momenti di disagio fisico vissuti proprio su una poltrona di uno studio dentistico, rappresentandola attraverso una raffigurazione dominata dall’espressionismo: «Tutte le volte che mi liberavo dalla morsa della poltrona dentistica, completamente stordito, col volto bagnato di lacrime, notavo immediatamente che le mattonelle del pavimento su cui erano fissati, con enormi bulloni, i quattro sogli del dolore, non erano levigate, come avrebbero dovuto essere, ma avevano lunghi rigonfiamenti ramificati, come le radici che increspano la terra attorno ai rami più vecchi» (p. 309).

Alla lettera, il supporto centrale su cui poggia la poltrona del dentista affonda nel terreno e ne rivela un rigonfiamento sospetto, indice di una vita pulsante posta appena sotto il livello del pavimento. È una immagine senza dubbio ricorrente, che si chiarisce appieno nel corso della straordinaria scena della protesta all’Obitorio, in cui proprio una poltrona dentistica gigante, alta oltre venti metri e posta al centro di una immensa sala, rivela il punto di connessione tra sopra e sotto, o per meglio dire tra realtà e iper-realtà. Man mano che il drappello dei contestatori si addentra all’interno dell’edificio leggiamo: «Ovunque sotto i nostri piedi si poteva scorgere questo sistema circolatorio, con vasi dello spessore di un braccio che si ramificavano all’infinito, fino a formare una sorta di fitto tessuto di capillari, non più spessi di un capello. […] Ci camminavamo sopra ora, affascinati dalla gigantesca poltrona dentistica posta sotto la volta, fatta per chissà quale genia di giganti. Sembrava il trono di un dio malvagio …» (pp. 436-437). Ulteriore corrispondenza testuale: un inquietante déja-vu permette al protagonista di ricordare una scena avvenuta quando era bambino (ancora una volta), ricoverato al policlinico Maşina de Pâine. Nei meandri di un edificio buio e spettrale, in cui spezzoni di memoria si sovrappongono al tempo reale, il professore apre una porta e si trova di fronte quattro poltrone dentistiche ben piantate nel pavimento in linoleum. Il loro poggiatesta in vinile corrisponde ai requisiti già illustrati nel corso del romanzo, mentre è altrettanto identica la sensazione di tortura e di mistero che riescono a trasmettere (pp. 804-812).

Una immagine privata, una banale poltrona da dentista su cui nell’infanzia si è sofferto il castigo di una operazione dolorosa, si trasforma grazie alla potenza affabulatoria delle dinamiche narrative nel «trono di un dio malvagio», in una porta aperta su un altrove. Da questi esempi si possono desumere non soltanto la capacità di produrre dettagli stranianti in questo romanzo fluviale e onnivoro, ma anche la tenuta di un immaginario tanto stravagante quanto coerente e dotato di significato. L’analisi di Cărtărescu affonda le radici, proprio come nell’allegoria appena analizzata, oltre i confini del percettibile, nel tentativo di ricostruire un mondo parallelo, brulicante di vita, dominato da forme e pulsioni primordiali che liberano epifanie e squarci sul possibile, assegnando implicitamente alla letteratura il compito di spiegare attraverso la coerenza dei significanti il senso di una originale metafisica.

L’uomo post-storico

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[Questo è un estratto dal volume Le trasformazioni dell’uomo di Mumford uscito per Mimesis a cura di Massimo Rizzante. Del curatore abbiamo pubblicato anche il saggio introduttivo su NI qui.]

di Lewis Mumford

L’uomo post-storico ossessiona da molto tempo l’immaginazione moderna. In una serie di romanzi sui possibili mondi futuri Jules Verne e il suo successore H.G. Wells hanno descritto, ciascuno a suo modo, come sarebbe una società se una tale creatura, fanaticamente votata alla macchina, fosse al posto di comando. In una delle sue ultime opere, The Shape of Things to Come (1933), H.G.Wells esprimeva qualcosa di vicino all’adorazione quando dipingeva una razza di tecnocrati volanti che avrebbero messo ordine al caos causato da una guerra atomica finale. Si potrebbe dire, in realtà, che in tutta la teoria del progresso (così come fu concepita nel XIX secolo dai suoi interpreti più eminenti) i miglioramenti istituzionali proposti avevano come fine l’uomo post-storico. Presentando le invenzioni delle macchine come i principali strumenti e gli ultimi benefici del progresso – concezione che risale a Francesco Bacone –, tale teoria suggeriva che i perfezionamenti non legati alle macchine, introdotti dalle arti e dalla letteratura, appartenevano all’infanzia della specie. L’esistenza dell’uomo post-storico sarà interamente consacrata al mondo esterno e alla sua incessante trasformazione: le tendenze primitive dell’uomo, così come il suo io storico, saranno definitivamente eliminate come “impensabili”. In più di un passaggio, H.G. Wells, uomo sensibile, sensuale e “troppo umano”, appartenente per professione all’antica setta dei veggenti e dei sognatori, parla con impazienza di ogni forma di introversione e di soggettività, denigrando l’emozione, il sentimento e l’immaginazione, cioè i doni stessi che lo hanno reso uno scrittore. Il controllo delle forze naturali e della vita umana attraverso l’uso di quelle forze: questa è la sola esigenza dell’uomo post-storico. Non gli viene in mente che l’egemonia dell’attività cerebrale sia solo una specifica manifestazione dell’autonomia dell’uomo e che svolga uno scopo che supera la sua espansione. H.G.Wells e i suoi tardivi discepoli dovrebbero porsi l’antica domanda: Quis custodiet ipsos custodes? Chi controllerà i controllori? Incapace di rispondere, l’uomo post-storico dimostra di non avere altra concezione della vita che quella di fare un uso sempre più esteso dei poteri della “magia naturale”: comunicazione istantanea a grande distanza, rapido movimento attraverso lo spazio, pulsanti che a comando attivano risposte automatiche e, infine, la realizzazione suprema: la riduzione delle capacità e degli appetiti organici e delle loro infinite manifestazioni a equivalenti meccanizzati e uniformi. Qual è, in realtà, il sogno più grande che ossessiona tutti i fautori dell’uomo post-storico? Non ci sono dubbi sulla risposta: resuscitare l’antico entusiasmo del Nuovo Mondo per l’esplorazione terrestre, creando missili che permettano questa volta di esplorare lo spazio extraterrestre. Dai primi schizzi presenti in Dalla terra alla luna di Jules Verne o dalla descrizione proposta da H.G. Wells dell’invasione del nostro pianeta da parte dei Marziani, fino alle pletoriche stravaganze della fantascienza, è questo il sogno che predomina. Perfino i romanzi di anticipazione di C.S. Lewis, che si suppone siano stati scritti con intenzioni umaniste o religiose, dipingono la vita come uno stato di guerra tra creature planetarie che hanno esteso il loro territorio attraverso le galassie, ma la cui natura non è diversa da quella dell’uomo se non per un dettaglio: quelle creature sono implacabilmente più intelligenti. Se passiamo dalla finzione alla realtà, vediamo l’astrazione scientifica e l’abilità tecnica più avanzata poste al servizio di un ideale infantile che si inventa bizzarri congegni al solo fine di sfuggire a problemi con cui degli individui adulti e una società adulta dovrebbero confrontarsi. Gli antichi sogni di evasione per mezzo di esplorazioni e colonizzazioni di mondi lontani avevano almeno il merito di spronare gli avventurieri alla conquista di terre realmente prospere e utili alla vita. Le ricchezze del Catai, di cui parlava Marco Polo, non erano un sogno e le concrete meraviglie scoperte nelle Americhe superavano quelle, immaginarie, promesse dall’eterna fonte della giovinezza. Ma nessuno può sostenere, senza falsificare i fatti, che l’esistenza su un satellite spaziale o sul lato oscuro della luna assomiglierebbe minimamente alla vita umana. Coloro per i quali l’unico senso della vita consisterebbe nel continuo movimento attraverso lo spazio rivelano i limiti dell’intelligenza impersonale. Mostrano che una tecnica altamente sofisticata può essere il prodotto di ciò che, umanamente parlando, è uno spirito impoverito, capace solo di sorvegliare davanti a uno schermo di controllo realtà isolate dalla complessità della vita organica. Ai nostri giorni queste fantasie post-storiche, sorte dall’inconscio, hanno smesso di essere semplici profezie: sono già agli ordini della meccanizzazione e sono state convogliate dalla più devastante, patetica e obsoleta delle istituzioni umane: la guerra. Da parte sua, in accordo con il nichilismo esistenziale dell’uomo post-storico, la guerra stessa, da azione violenta ma circoscritta di distruzione, si è trasformata in uno sterminio sistematico e senza remore: in altre parole, in un genocidio. È davvero casuale se tutti i trionfi che annunciano la nascita dell’uomo post-storico sono trionfi di morte? Ciò che anima questa ideologia è la volontà di negare le attività vitali e soprattutto la possibilità di uno sviluppo della vita, a tal punto che il genocidio o il suicidio collettivo costituiscono il suo solo scopo – non formulato, implicito, ma non sempre nascosto. L’impresa post-storica comincia in modo innocente con l’eliminare dalla scienza quella fonte di errori che sono i sentimenti umani: essa finirà con l’eliminare dalla realtà la stessa natura umana. Nella cultura post-storica la vita è ridotta a un movimento prevedibile, condizionato e diretto in modo automatizzato, dove è proscritto tutto ciò che è incalcolabile, ovvero tutto ciò che è creativo.

Alessio Paiano: s’inceppa tutto il discorrere

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Ospito qui -in anteprima- alcuni estratti da Punti di fuga di Alessio Paiano, pubblicato da Arcipelago Itaca, insieme alla postfazione di Andrea Donaera.

 

da CRONACHE CITTADINE (UNA VISIONE) o la solitudine di un poema impossibile

 

Scena: Basilica di San Marco, interno 

III.

Accanto a te si raggruma un volto,

la forma decifrata della morte,

non più tassello ma lacrima scura

sul volto raggelato della madre;

 

e quegli occhi che ruotano a rovescio

rifanno tracce di strade celesti,

le vie di traballanti carovane

che hanno seguito le rive del mosaico.

 

V.

La scena dell’Apocalisse dice:

dal tuo grembo, madre, partorirai un re,

e ai piedi giungeranno sette teste

alate a divorarti il pube e il figlio.

 

Per mille duecento sessanta giorni

vagherai al suono di una triste voce;

visioni di serafini eccitati

chiederanno il perdono dei peccati.

 

Cronaca III dei conquistatori

 

Per tre giorni passavamo gli abitanti a fil di spada, uccidendoli tutti, alcuni di noi presi dalla fame infilavano i bambini negli spiedi e li divoravano dopo averli arrostiti

Il giorno dopo percorremmo tutte le stradine appiccando il fuoco a ogni casa, tagliavamo i seni alle donne che rifiutavano di essere vendute e col sangue alle ginocchia ringraziavamo colui che lo volle, la folla cadeva a terra come un frutto marcio

Gli uomini lontani non volendo che alcuno toccasse i loro beni presero a trangugiare le loro monete, alcuni le nascosero in bocca dietro le gengive, e allora quando qualcuno dei nostri li colpiva con un pugno sul collo, questi sputavano dalla bocca monete d’oro

 

da PUNTO DI FUGA (GEDÄCHTNIS)

 

IV.

– Tu scrivi e inventi una contromisura

che ti destituisca, le coordinate

di una decifratura da ricomporre

in caratteri, scribacchi un passato

espulso nel fiato, un esorcismo

 

– scrivi e s’inceppa tutto il discorrere

nel punto di fuga, il tra tra

 

– una sezione trasversale

il filo rosso della memoria,

come cavalcare la spina dorsale

del tempo, e tu sprofondi di punto in punto…

 

 

Fare finta, farsi male: finalmente abbiamo un tutorial poetico

di Andrea Donaera

 

Se nell’esordio L’estate di Gaia (Musicaos, 2019) la poesia di Alessio Paiano emergeva come un canto gustosamente sguaiato tinto da un elegante polemismo nei confronti del “fare poesia” post-novecentesco, in questo nuovo libro troviamo solo pochi reperti di quel mood: in Punti di fuga c’è il ridimensionamento di chi si è già schiarito la voce con rumorosissimi colpi di tosse, e dunque può finalmente dire la sua – anche perché, nel panorama poetico circostante (nel mondo in cui tutto è “I-qualcosa”, tutto è un “Io”, anche gli oggetti), scrivere corrisponde fondamentalmente a un prendere la parola, ritagliarsi uno spazio di alcune pagine brossurate, e intervenire – a dire «Io», insomma, anche senza dirlo, anche nascondendosi dietro l’ormai raggrinzito (ma tutto sommato in forma) dito della scrittura in versi.

Punti di fuga, però, letto nel suo complesso, è molto più di un intervento, va ben oltre la partecipazione allo spazio letterario: è un progetto di scrittura, che per compiersi decide di affidarsi al medium poetico. Sembra poco: ma chi segue un po’ la poesia degli ultimi anni sa bene che non lo è affatto. Tra vaghe “raccolte poetiche” e nebulosi testi poematici dal tema incerto basati su rarefatte intuizioni, quello che compie Paiano è un esperimento sostanzialmente eccezionale – una eccezione.

La prima sezione accoglie chi legge facendolo cadere in un tranello. Sembra a tratti di sentire il Paiano dell’esordio, con la pretesa legittima di realizzare un poema impossibile, con il tentativo (che ci si trascina ormai dagli anni Sessanta del secolo scorso) di ridimensionare il famoso “Io” che ossessiona chi studia poesia e poi prova a scriverne. Eppure qualcosa scricchiola splendidamente: la lingua ora è liscia, le immagini tasselli di un tempio/basilica abbacinante mai (troppo) lisergico o intangibile – anzi, il tono si fa addirittura gustosamente epico (e dal piglio straniante e civile) nella riscrittura di gesta medievali provenienti da fonti riguardanti le Crociate e la Reconquista.

E infatti le sezioni successive aprono a un pianeta letterario differente, dove l’autore sembra togliersi la giacca, arrotolarsi le maniche della camicia, lanciare via la carta ingiallita adatta al “poemare impossibile”: e si getta a capofitto nel gorgo del linguaggio, abbrancandosi al più affidabile (e trasversale) poeta del secolo scorso, Giorgio Caproni – anche se il Caproni più intangibile, quello di Res Amissa.

Qui, dopo solo una ventina di pagine, facciamo una scoperta raggelante e preziosa. Paiano non è un poeta. È di più. È uno che scrive con il progetto di fare (a noi, a sé stesso, a nessuno) del male. Ce lo dice. E lo fa così: «Tu scrivi e inventi una contromisura / che ti destituisca, le coordinate / di una decifratura da ricomporre / in caratteri, scribacchi un passato / espulso nel fiato, un esorcismo».

Paiano fa «abbozzi», «tentativi». In queste prime sezioni siamo con l’io poetico a Venezia: luogo letterario di morti celebri, nascite preziose, vite impossibili. E la persona che osserva il circostante in questi versi è sdrucita dai luoghi e dalla Storia che gli invade il cervello, creando smottamenti semantici e lessicali. La poesia non può fare altro che non compiersi (abbozzarsi) – nel tentativo (impossibile?) di compiersi.

Ed ecco che questo tentare e abbozzare assume un procedere già caro alla storia della poesia: il fluire, esile e tortuoso – quel fluire che genera una mimetizzazione mai invecchiata (nonostante la sua illustre genealogia resa finanche scolastica da Ungaretti), cioè quella con i fiumi.

La sezione Memoriale del fiume è uno sbattere placido e tormentato di versi tra le sponde di acque andaluse: l’Andalusia si conforma come archetipo di un meridione socialmente strattonato dal potere, e meravigliosamente sfigurato da una luce perennemente giallastra di sole o di pietra. Emerge, da lontano, la provenienza dell’autore, cioè quel meridione italiano, spento e appassito nel cuore e incartato in una confezione luminescente. Quel sud sintetizzato nel verso: «nessuna antica voglia o nostalgia del male» – e che sembra geneticamente e geologicamente connesso con la distantissima placca sudamericana (già nelle scritture di uno dei più noti autori salentini, Vittorio Bodini, questa visione era tematizzata e alimentata).

Si fluisce, nel testo: come «un tassello sconnesso / che dimenticato ha percorso le piste fluviali» si esonda per andare a finire in un altro fiume, verso il Po torinese, in una delle sezioni meglio riuscite dell’opera, Le cose perdute. Torna il soggetto-tassello, che va a comporre e comporsi, guardandosi ancora in una a-patica (ma non inerme) seconda persona dal sapore di Perec, racchiudendo una serie di versi che forse sintetizzano tantissimo della poetica più profonda di questo Paiano fluido: «Ti sommergi in questo tuo trapassato: / il corpo ti fa peso verticale, / sei tu l’antico relitto sul fondo / che sparge la sua storia nelle pieghe / di un foglio corallino, / e allora andiamo».

La svolta all’interno della raccolta, però, arriva imprevista e paradossale nella sezione Periferie. Imprevista perché il fluire si interrompe brusco, si fa ticchettio di tasti e picchiettio di schermi, si fa nevrosi tutta contemporanea. Paradossale perché avviene nell’aggancio più deliberato con l’opera d’esordio, quella che in qualche modo sembrava archiviata, quella dove il digitale veniva trattato come cigno nero che coglie di sorpresa il reale scardinando le precarie esistenze dei soggetti che provano a popolare un pianeta terra che sembra abitabile soltanto se si compiono un susseguirsi di restrizioni – e allora si esonda, ci si fa ulteriori, ci si immerge in quell’inedito Grande Altro lacaniano rappresentato dalla possibilità di sdoppiarsi in uno spazio intangibile eppure esperibile. E vengono alla mente le parole di Teresa Ciabatti: «l’immaginazione è una forma di esperienza» – quello che Paiano sembra urlarci in un poetare che, se avessimo voglia e coraggio di non giocare a far finta di essere critici letterari, potremmo definire frutto di una “poetica #nofilters”: «I corpi che ammassati sullo schermo / producono gesti ossessivi / annunciano una nuova umanità / che cerca la sua lingua e non ci sa parlare / e noi non sappiamo cosa dire loro».

Finora si è evitato di delineare uno degli aspetti che rende l’opera che avete tra le mani qualcosa di poderoso nel novero scomposto e disordinato della poesia circostante: la questione tecnica – o formale, o stilistica… insomma, l’howness, come Paiano ottiene le immagini che vanno a comporre i suoi tasselli fluidi che, per comodità, chiamiamo poesia. E si procederà con questa strategia del silenzio attorno a tale argomento, perché non è possibile fare altro: la scrittura di questo autore è mossa da un carburante tecnico-stilistico che lascia sbigottiti, tanto che bisognerebbe parlarne troppo, occupando lo spazio di un saggio. C’è una robustezza compositiva che è evidentemente frutto di un training intenso – prova che abbiamo davanti un’opera costruita con lo stesso impegno con cui si realizzano certi romanzi. E ogni testo emana una eccellente consapevolezza dei mezzi della tradizione poetica, proveniente in modo chiaro dal magistero (accademico o privato) a cui moltissimi millennial (ah, sì, Paiano è un classe ’92, va soltanto verso i trenta) hanno oramai facile accesso – ma pochissimi sono capaci di capitalizzare i gorghi argomentativi nei quali ci si ritrova inghiottiti quando si studia letteratura all’Università. Insomma, Punti di fuga si staglia tra i vari libri di poesia di questo periodo anche per questo meccanismo di revisione, assimilazione e personalizzazione del sapere tecnico afferente alla scrittura in versi, dove anche eventuali parentesi di epigonismo avvengono seguendo il percorso di una scelta coerente con il discorso di scrittura messo in moto.

La questione stilistica però a un certo punto finisce per esplodere, sparpagliando in un altro idioma la lingua poetica presente finora nel testo: avviene nella sezione Hydrus, scritta in dialetto salentino, acme vertiginoso di questo Punti di fuga – opera che, arrivati a questa altezza, fa sentire chi legge come una sorta di ennesimo Pinocchio, un individuo post-umano stavolta tutto anima e niente corpo che è costretto a inseguire un destino testuale tessuto dall’autore.

Il dialetto qui esiste come unica possibilità: l’esaurimento di un discorso – interiore del poeta, non solo quello esteriore della poesia – che però non vuole o non può avere fine («tutto è bene quello che non finisce mai», recita in una celebre scena laforghiana quel Carmelo Bene che in tutto questo libro aleggia come soggetto fantasmatico, sfuggito da un inconscio tutto estetico e che salta tra i rami delle poesie come quel folle di san Giuseppe Desa da Copertino). Allucinante e allucinogena, questa sezione deflagra in un’atmosfera come è accaduto poche altre volte in tutta la poesia pugliese fino a oggi.

Quest’ultima sentenza è uno sbilanciarsi consapevole e, per chi scrive, tutt’altro che eccessivo. Basta con questo andarci cauti, non siamo più ciechi, vediamo benissimo che la poesia di questo territorio non ha mai assistito a versi che in nuce hanno il germe della commozione più cruda come: «Riccujimune, stasira ede tutta na malesciàna,/ la via ne mmoscia nu filaru de croci: / mbascia la capu, ca sti rami suntu ugne de macàra, / te chiedine cose ca te fannu chiangìre».

Il libro – che a questo punto ha ormai assunto la forma di una cerimonia – si conclude con una sezione di prose, La natura del dolore, presentata dall’autore come un «tentativo» (di nuovo) di ri-scrittura, stavolta del De Rerum Natura lucreziano – classico riportato da alcuni anni nell’alto dei cieli della poesia italiana grazie alla formidabile ricognizione critica divulgata da Milo De Angelis. Ma in questa porzione di libro avviene altro, non c’è connessione con il lavoro di De Angelis, e l’opera di Lucrezio è un espediente, un tessuto su cui poggiare uno sciorinamento poetico che non ha bisogno di versificarsi nel suo gelo concentrico lessicale e concettuale.

È uno scrivere che è figlio bastardo di poesia e filosofia, dove si svela l’ossessione che ha mosso l’autore dalla prima parola all’ultima: il «tentativo» (ovviamente) di scrivere (di) «cose impossibili».

Seguiamo il fluire in questo fiume di significanti che a ogni respiro significano qualcosa di enorme e impossibile, perché «se noi vogliamo capire cosa sia l’identità dobbiamo andare alle fondamenta, poiché la natura del dolore è tutta nelle fondamenta, / e allora andiamo», e allora scendiamo, e ci scontriamo contro un flusso che si fa uragano, e Paiano è un Mago di Oz, e ci dice: «non esiste un destino ma solo cose che devono accadere, e l’unica cosa da fare è accettare che qualcosa si stacchi con dolore, e quel momento non può essere rimosso perché irrisolvibile, e quando non possiamo risolvere una cosa essa non si dimentica, e allora tutte quelle cose che ricordiamo perfettamente sono irrisolvibili».

E capiamo.

Capiamo che questo era, alla fine, tutto un libro del dolore.

È un ricordare che fluisce, irrisolvibile, in un comporsi tesserina dopo tesserina in un mosaico luminoso e nero, dalle chiese veneziane alle acque andaluse, dalle luci di ogni sud immaginabile agli antri delle macàre: dalle guerre sante, dalle terre saccheggiate e conquistate.

Fino alle guerre di un io contro un altro (magari nella stessa persona).

Fino alle terre inermi dove ci sediamo a leggere – e a tentare un abbozzo di comprensione, un punto di fuga. Qualcosa del genere.

Intervista a Giorgio Ghiotti

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Marino Magliani intervista Giorgio Ghiotti

MM In “Atti di un mancato addio” un gruppo di ragazzi cresce – o almeno tenta di farlo – attorno alla sparizione di uno di loro, Giulio. Questa assenza, invece che oscurare, sembra illuminare i personaggi che la vivono. Allo stesso modo la voce si intensifica grazie alla rarefazione: sottraendosi, la parola si ispessisce. Qual è stato il tuo lavoro con il vuoto, con l’ellissi, nella trama e nella scrittura?

GG Nell’ultimo racconto del mio precedente libro di racconti (“Gli occhi vuoti dei santi”), scrivo che “crescere è un buco arrugginito e bellissimo, un solco lunare”, insomma un grande vuoto. Dove c’è un vuoto qualcuno ha fatto spazio, ha estirpato, ha fatto un passo indietro. Il vuoto è la possibilità per le cose di compiersi. Quindi anche per le persone, per le scelte, per i desideri. Per questo amo di più i vuoti e meno i pieni: più la provincia e meno le città (Roma fa eccezione, ogni quartiere è come fosse un paese), più il silenzio e meno il chiacchiericcio continuo ch’è proprio del nostro tempo. Ricordo dei bellissimi versi di Valerio Magrelli, allora ventitreenne al suo esordio con “Ora serrata retinae”, che dicono “Preferisco venire dal silenzio / per parlare. Preparare la parola / con cura, perché arrivi alla sua sponda / scivolando sommessa come una barca…”. Così si comporta questa storia – viene da un’assenza per poi proseguire il cammino –, così si comporta la scrittura di questo libro – illumina immagini senza spiegarle, preferisce seminare indizi, che non sono misteri, ma pietre d’appoggio. Bisogna tornare dal buio con la luce per potersi riappropriare delle storie, e della propria storia. Lo dice perfettamente Silente in Harry Potter: “Anche nei tempi più bui è possibile trovare la felicità se solo uno si ricorda di accendere la luce”. Nel caso di questo romanzo, la felicità è un tono minore ma fondamentale per i protagonisti: è capire che si può continuare a vivere anche quando il tuo testimone viene meno, quando il tuo grande amore si trasforma in fantasma e i fantasmi si fanno più veri che mai.

MM C’è un intreccio di relazioni in “Atti di un mancato addio” che ha a che fare con la scrittura: molte sono infatti le citazioni, celate e palesi, che intarsiano il racconto. Scrivere per te è anche inscenare un discorso letterario?

GG Scrivere è per me sempre un discorso in sospeso che si riprende a ogni riga, e si porta avanti. Non credo possa darsi una discendenza senza una genealogia. Nelle pagine dei libri le storie cantano, e non solo le storie: le parole, i nomi, i gesti, si richiamano e poi si innovano. L’aggettivo ‘ricciuto’ o ‘riccioluto’, per esempio, è per me immediatamente Natalia Ginzburg; le contrade di Firenze mi portano subito al vociferare delle Ragazze di San Frediano di Pratolini; ogni banda di ragazzini selvaggi, spettinati, è in egual misura Il signore delle mosche e il Peter Pan. I libri cantano, ecco. Come le città. È che credi di guardare e ti rammenti. Non esistono un tanto di citazioni al lordo e un tanto al netto da mettere in un libro, sarebbe un libro falso, goffo, di studio eccessivo. È tutto naturale, tanto che a volte mi fanno notare dei possibili rimandi che ignoravo proprio. A volte ci sono, a volte no, ma ognuno nei libri legge quello che vuole.

MM La tua è una scrittura che si nutre del linguaggio poetico. Quale il confine tra le due scritture, se esiste, anche materialmente: due tavoli, due emisferi cerebrali, due momenti della giornata?

GG La prosa si nutre della poesia, cioè di quegli aspetti della poesia che, in qualche modo, possono sostenere entrambe le forme: una certa idea di ritmo, e di musicalità interna al verso/alla frase. Un immaginario d’infanzia e di giovinezza, un’infanzia e una giovinezza “complete come mondi” – scrisse quello straordinario scrittore che è stato Paolo Zanotti; il suo romanzo Bambini bonsai è per me l’opera di un grande poeta, è un libro di poesia. Perché la poesia la senti, ha un respiro inequivocabile, immagini feroci, parole taglienti. Insomma dal grande serbatoio della poesia la prosa non scaturisce (perché ha una sua vera e propria indipendenza), ma attinge a piene mani, per me.
Non scrivo mai, o quasi mai, poesia e prosa contemporaneamente. Non c’è un motivo preciso, semplicemente i versi non escono quando scrivo un racconto o un romanzo e viceversa. Anche se poi, come ho appena detto, l’una e l’altra sono sempre presenti in modi diversi. E questa alternanza di tempi tra la scrittura in prosa e quella in poesia è tremenda: ogni volta che ho un romanzo fuori e devo presentarlo, sto in realtà lavorando a un nuovo libro di poesie, così che devo fare uno sforzo di memoria (e di immaginazione) per ricordarmi com’era, per me, stare nell’onda di quella storia. Di recente sto scrivendo molta poesia, e (novità dell’autunno, ora ormai inverno) quasi sempre al mattino. Una sezione del nuovo libro di poesia l’ho chiamata allora Le mattutine su consiglio di Vivian Lamarque, e la prima poesia semplicissima, fa così: “Ora scrivo poesie quasi solo al mattino. / Ecco una probabile spiegazione. / L’oscurità me la lascio alle spalle, / i versi mi escono semplici, chiari / a prova di bambino”.

 

Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

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di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi


Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta guerra culturale su politicamente corretto, cancel culture (CC) e Critical Race Theory. Sul New York Times e sui grandi media liberal, si discute di questo. Ci sono posizioni scettiche, come quella di John McWorther – prontamente recensito sui media italiani, senza alzare lo sguardo sulle questioni che mettono in crisi il proprio punto di vista. Ma, in genere, si cerca anche di cogliere il nesso tra razzismo e strutture economiche, come la famosa inchiesta sulla storia delle radici razziali degli Stati Uniti ha mostrato – anche qui destando l’attenzione dei nostri media solo per le critiche che l’inchiesta ha ricevuto, ignorando le bibliografie sterminate che esistono sul capitalismo razziale negli Stati Uniti e altrove. Anche le violenze di piazza e le rivolte vengono discusse in modo critico – ad esempio da Robin D.J. Kelley– e non solo secondo i soliti schematismi a cui i nostri media ci hanno abituato. Le ragioni di chi chiede, oltre al definanziamento, l’abolizione della polizia possono essere lette su giornali mainstream e non solo sulle riviste della sinistra socialista statunitense. Non si può dire che in Italia il livello del dibattito sia lo stesso.
Da Repubblica al Foglio, dal Sole a Micromega e a Linkiesta, non c’è quotidiano, di carta e digitale, che non abbia occupato pagine e pagine sull’annosa vicenda della CC, la cultura della cancellazione, la messa all’indice di pensatori, politici e libri del passato e del presente abbattuti, censurati, dannati ex post. Buona parte dei media italiani denunciano con terrore l’avvento dell’era della suscettibilità. In un loop paradossale, sulla stampa generalista si susseguono opinioni accalorate di chi viene urtato dalla possibilità che le sensibilità di qualcuno vengano a loro volta urtate. Per arginare questa deriva, si dice, bisogna colpire chi mette in pericolo la libertà di dire cose scomode e scorrette, di analizzare le parti peggiori di noi e della nostra società. Bisogna ripubblicare Defoe, Hawthorne, von Kleist e tutti gli autori maschi bianchi prima che gli intersezionali li acciuffino e li mandino al macero, nel “terroristico”, “totalitario” e “neomaoista” attacco portato all’Occidente. Per farlo, ogni mezzo è ammesso, in una santa alleanza che unisce centro liberale, sinistra “illuminista” fiera della tradizione occidentale, ed estrema destra. Apparentemente, il fatto che per resistere alla “cultura della cancellazione” venga dato spazio a voci a dir poco imbarazzanti non scandalizza; si veda l’esempio di Jérôme Delaplanche, ex responsabile artistico di Villa Medici, che sul Foglio scriveva:”La colonizzazione è il movimento naturale della storia. Ora, ed è questa la posta in gioco, il progressismo è riuscito a imporre alle menti occidentali una mutazione paradigmatica cruciale: la forza non è più un valore positivo. Di conseguenza, i concetti di conquista, avventura, potere non sono più compresi e moralmente accettati.” Forse che i liberali preferiscano la nostalgia per l’età degli imperi?

Leggi sulla rivista Gli asini l’intero articolo, appositamente aggiornato e ampliato per Nazione Indiana.

L’arte segreta di diventare umani

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[Questo testo introduce l’edizione italiana di Le trasformazioni dell’uomo di Lewis Mumford, in uscita per Mimesis e pubblicate originariamente nel 1956 e 1972.]

di Massimo Rizzante                                                                             

La corsa è truccata

E se avessimo puntato tutto sul cavallo sbagliato?

Voglio dire sull’uomo plasmato dalla scienza e dalla tecnica? Non abbiamo dato per scontate troppe cose?

E se ci fossimo sbagliati anche quando, non riconoscendo più nell’uomo che ci passa accanto nessun tratto distintivo, abbiamo cominciato per amore verso i cavalli e l’erba che calpestano a puntare gran parte della posta sul fatto che in fondo siamo tutti esseri viventi? Uomini, cavalli, ciuffi d’erba calpestati, insetti e perfino quegli scommettitori tanto incalliti quanto entusiasti che se ne stanno tutto il giorno nei laboratori della Silicon Valley a programmare l’erba, il cavallo o l’uomo del futuro?

Certo, secoli e secoli di falso umanesimo e di filosofico accanimento nel tentativo di conoscere ogni mistero, ci hanno condotto ad avere più fiducia nel fiuto del nostro cane, nella sensibilità di un ficus, o nella ricerca del gene della felicità che in noi stessi. Chi, dopo una separazione, o la morte di un figlio, ha mai pensato davvero che Leibniz, Hegel o Goethe potessero essergli di aiuto? “Le antenne della specie”, come una volta Pound definì pensatori e artisti, oggi sono quelle dei ripetitori di telefonia mobile in 4H. C’è chi ha anche messo in dubbio con buoni argomenti che l’educazione, a parte ciclici fallimenti delle riforme scolastiche e universitarie, sia in generale un valido sostegno. E la risposta è no, è sempre stata no, nel XVI come nel XIX secolo, se si desidera a tutti i costi applicare le grandi lezioni della cultura alla vita di ogni giorno. Ed è no, anche quando, a partire dalla seconda metà del XX secolo, la scienza e la tecnica hanno preso sempre più il posto della letteratura, dell’arte e della filosofia. Di fronte allo squallore di una città degradata non mi è di conforto sapere che la Cina, battendo sul tempo Google, ha recentemente creato Jiuzhang, un computer quantistico che usa particelle di luce per eseguire in duecento secondi un calcolo che richiederebbe seicento milioni di anni. Jiuzhang riuscirà forse a battere sul tempo i nostri battiti di ciglia e a ricreare una splendida città rispetto a quella che siamo soliti vedere. Ma si tratta di una macchina. Si tratta di cifre, il cui scopo è letteralmente quello di confonderci: confondere la realtà numerica con quella organica dei corpi affinché i corpi smettano di reclamare affetto, cura, condivisione, smettano di essere organi senzienti e si trasformino in pure funzioni tracciabili, o in pazienti da medicalizzare. Si tratta di comprendere che il fascino per il  numero e per la macchina è tanto antico quanto l’uomo ed è frutto della sua immaginazione e della sua realtà. Di quello stesso uomo che, assistendo all’agonia del suo cane, non si consola con la lettura né di Cartesio né di Montaigne. E neppure si mette a sfogliare un trattato di etologia o si balocca con la speranza che il suo cane possa ritornare a scodinzolargli tra le gambe grazie all’intervento provvidenziale di una stampante 3D.

O, forse, non è così. Forse mi sto illudendo.

Forse la mia innocenza non è più quella dell’odierno padrone nei confronti del suo cane moribondo. Forse non esistono più padroni e cani, ma solo esseri viventi e macchine. E padroni e cani che, in quanto esseri viventi che sognano di diventare macchine, per quanto storicamente transeunti nelle prime decadi del XXI secolo, sono tutti affetti dalla stessa malattia romantica che ha corrotto l’innocenza esaltandola in modo esagerato e rendendola una forma di fuga dalla realtà, mentre essa, per quanto mi riguarda, non esprime che la mia ammirazione per quello che è stato creato. La mia è l’innocente ammirazione di un realista per quello che c’è, mentre forse uomini, cani e scienziati che desiderano diventare macchine, oggi, preferiscono la copia di quel che c’è, o c’è stato, meglio se in 3D, meglio ancora se prodotta da un computer quantistico cinese. Meglio se una “bella copia”, migliorata, aumentata, imperitura. Non è un caso se gli animali-robot stiano diventando in molti paesi civilizzati un ottimo metodo di formazione negli asili nido e nelle scuole materne. Al loro contatto, leggo in un recente articolo di una zoologa di Auckland (Australia), i bambini sono costretti a giocare responsabilmente: “hanno la gioia di entrare a contatto con una macchina, che per quanto elettronica, è zoomorfa e possiede un’intelligenza artificiale”. Se la rompono, vengono ripresi. Sanno che la prossima volta dovranno stare più attenti. “Imparano che non si distruggono le cose, tantomeno le persone e sperimentano la socialità con il diverso da sé. E tutto questo, naturalmente senza fare davvero del male a nessun essere vivente”. La stessa équipe di Auckland ha testato anche diverse case di riposo per anziani. Bene, i cuccioli-robot si sono dimostrati molto più validi del bingo e delle gite in città per alleviare solitudine e depressioni.

Per Cartesio l’uomo era poco più di una macchina. Per Montaigne le bestie erano in grado di provare sentimenti. Molti animali, è noto, sembrano a volte manifestare una certa sensibilità e perfino una coscienza elementare: i lupi ululano alla luna; elefanti, scimpanzé ed orche si riconoscono guardandosi allo specchio; i delfini giocano per ore, mentre le cornacchie dispongono sulla strada file di noci, di cui vanno ghiotte, affinché le auto, schiacciandole, le aprano al posto loro. Gli animali, sebbene con un paio di secoli di ritardo rispetto agli uomini, sono riusciti ad ottenere una carta universale dei loro diritti. Non importa che né l’una né l’altra siano granché rispettate. Ciò che importa è che l’uomo stia a fianco degli animali e che lotti per i diritti di ogni essere vivente. In una vera democrazia, ovvero in una bio-democrazia planetaria, tutti gli esseri viventi hanno diritto di esprimersi, di votare, di essere liberi, di associarsi. Per i doveri c’è sempre tempo. Ed anche per la vera innocenza nei confronti della natura e il senso dell’umorismo.

Tuttavia, oggi dobbiamo cominciare a fare i conti, oltre che con i diritti degli animali e in generale di tutti gli esseri viventi, anche con quelli dei robot. In Giappone da alcuni anni insigni giuristi stanno preparando un nuovo codice civile e penale che comprenda crimini o abusi di o a danno delle intelligenze artificiali. L’Europa, dal canto suo, non è affatto in ritardo. Di recente ho letto alcune raccomandazioni della Commissione europea in materia di copyright nel caso di “opere di ingegno create da intelligenze artificiali alle soglie della quarta rivoluzione industriale”. In altre parole, la Commissione si pone il problema se un robot possa essere considerato autore di un’opera, divenendone titolare dei relativi diritti di utilizzazione economica. La Commissione sta cercando, insomma, di elaborare dei criteri per definire una “creazione intellettuale propria” da parte della macchina, suggerendo la creazione di un nuovo “genus giuridico” titolare di proprietà intellettuale: il soggetto digitale. Ma le cose non sono semplici. Il soggetto digitale può essere ritenuto direttamente responsabile nel caso in cui le sue opere risultino plagio di opere create da terzi, cioè da esseri umani o animali? E di conseguenza: che cosa ne è delle nozioni di copyright e di plagio, nate con la carta dei diritti dell’uomo e del cittadino più di due secoli fa?

A questo proposito c’è una storia, o storiella, che ho letto un paio di anni fa durante un mio soggiorno a Montréal, in Canada. Nemmeno i canadesi scherzano quando c’è da spendere il denaro pubblico per “la ricerca e l’innovazione”. Dopo il Giappone e gli Stati Uniti, il Canada è il “terzo ecosistema di intelligenza artificiale per numero di esperti in robotica e apprendimento automatico”. La storiella, comunque, data 2014 e ha come protagonista David Slater, un fotografo naturalista inglese, e un macaco indonesiano. Il buon David, mentre sta realizzando un servizio fotografico su un gruppo di scimmie, lascia per alcuni minuti incustodita la sua macchina fotografica. Un macaco, come fanno tutti i macachi in presenza di qualsiasi oggetto, la prende, se la mette a tracolla e inizia a scattare una serie di fotografie, tra cui diversi selfie. Il caso fa sì che due selfie riescano perfettamente. A quel punto il fotografo naturalista si pone pubblicamente una domanda che lascerà il segno nella storia della specie umana: di chi sono i diritti di utilizzazione economica di quei due selfie? Il fotografo, che aveva predisposto la macchina fotografica in modo che potesse accadere quel che poi è accaduto, oppure il macaco? Ma un macaco può considerarsi “un soggetto animale proprietario di diritti d’autore”? La vicenda arriva nelle aule giudiziarie. In primo grado i giudici decretano che “degna di tutela è solo una creazione frutto di lavoro intellettuale”. Perciò attribuire a un soggetto diverso dall’essere umano la qualità di autore di un’opera dell’ingegno (mind) è impossibile. La querelle non finisce e alla fine il fotografo, spinto  dall’opinione pubblica, dai partiti ambientalisti e forse da un certo senso di colpa, decide di donare  una percentuale dei proventi dei due selfie scattati dal macaco a un’associazione animalista. Così vanno le cose con i macachi. Tutt’altra faccenda quando entra in gioco l’intelligenza artificiale con i suoi “soggetti digitali”. L’evoluzione tecnologica sta portando alla creazione di macchine intelligenti pronte a prendere decisioni in modo autonomo dagli umani e a superare presto le nostre capacità intellettive. Come si può negare a un robot le cui prestazioni intellettuali saranno ben presto molto superiori alle nostre il copyright sulle sue opere con relativi diritti d’autore? È notizia dell’anno scorso che un robot ha creato una serie di opere musicali che formeranno parte di un album destinato a essere commercializzato, mentre un altro robot ha appena terminato una sceneggiatura e un altro ancora una vera e propria opera letteraria.

L’intelligenza artificiale corre, corre, corre molto più di un uomo e anche di un cavallo lanciato al galoppo. Del resto, si tratta di un cavallo-macchina e per giunta la corsa è truccata. Il cavallo-macchina, infatti, corre senza veri avversari. I bookmakers “della ricerca e dell’innovazione” di tutto il mondo danno la sua vittoria 100.000 a 1. Per batterlo ci vorrebbe solo un miracolo!

Un cavo teso al di sopra di un abisso

Vi ricordate il buon vecchio Nietzsche? Prima del suo ultimo periodo e del collasso mentale avvenuto a Torino il 3 gennaio del 1889 davanti allo sguardo lucido di un cavallo – non un cavallo da corsa, ma un vecchio cavallo preso a calci e a frustate da un cocchiere – aveva scritto Così parlò Zarathustra (1885), che lui stesso definì il libro “più profondo che sia mai stato scritto”. Con quel tono biblico da Discorso della Montagna che gli è proprio, già nel celebre prologo Zarathustra annuncia uno dei suoi grandi temi. Rileggendo il brano, ho sostituito mentalmente a metà della prima frase la parola “superuomo”, con la parola “macchina”. Così:

“L’uomo è un cavo teso tra la bestia e la macchina, — un cavo teso al di sopra di un abisso.

Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.

La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto.”

E subito le parole di Zarathustra hanno assunto i tratti di una vera profezia. Tutto mi è parso più chiaro. Forse Nietzsche valuta la “grandezza dell’uomo” nell’essere solo un ponte e di non avere nessuno scopo se non quello di tramontare in quanto essere umano in modo da compiere finalmente quel passaggio “periglioso”, ma decisivo, verso la sua ultima trasformazione in una macchina. Solo così, mi sembra di capire, l’uomo smetterà di essere un “cavo teso” sopra l’abisso del nichilismo, terrorizzato dal suo passato animale e incerto sulle gambe a causa di un presente il cui annuncio “rabbrividente” della morte di Dio, cioè della morte di ogni “realtà dietro la realtà”, risulterebbe privo di ogni prospettiva.

Questo vorrebbe dire allora che l’uomo, se davvero desidera superare l’abisso che egli stesso ha scavato dentro e fuori di sé, non ha altra scelta che scomparire? Non ha altra chance che abbandonare la sua specie, la sua storia, i suoi tratti distintivi, il suo corpo?

Beh, calma. Conosco un po’ le sirene del post-umanesimo e quelle, ancora più cacofoniche del trans-umanesimo, ma in giro, mi chiedo, non c’è più nessun Ulisse, o almeno qualche Telemaco privo di complesso di Edipo, in grado di tapparsi le orecchie? Il terrore di fare scalo nell’isola di Circe e vedersi trasformati in un branco di porci non è poi così lontano da quello di ritrovarsi un giorno in una casa di riposo del Vermont o della bassa padana con un cucciolo-robot come unica compagnia.

O non è così? Forse, come spesso mi capita, sopravvaluto i miei contemporanei. Come si fa a non vedere che tribalismo e high-tech vanno a braccetto in ogni angolo di strada? Del resto, dovremmo saperlo che il culto della macchina, se spinto agli estremi, fa sorgere dalle profondità dell’inconscio i nostri istinti più primitivi e violenti. E qui, mi sa, crolla l’idea che un superuomo-macchina possa farci fare un balzo al di là dell’abisso del nichilismo. Per il semplice fatto che il superuomo-macchina è quell’abisso. E l’uomo che aspira a quell’ideale, anche se non fosse armato di ogni sorta di bomba nucleare e di arma biologica, sarebbe già in grado di determinare la fine della specie grazie solo al suo rapido galoppare sulla strada maestra, inaugurata nel XVII secolo, e che in realtà è un vicolo cieco. Tuttavia, la situazione in cui viviamo ormai da diverse decadi non ha nulla a che vedere con quella del XVII secolo, e neppure con le rivoluzioni economiche, politiche e sociali del XVIII e del XIX secolo. Il vero abisso nichilistico inizia con la prima guerra mondiale. E, se stiamo alle profezie di Nietzsche, durerà almeno due secoli. Ciò significa che siamo in mezzo al guado. Siamo al centro di un cavo teso tra la bestia e la macchina, con in più una sola consapevolezza – una consapevolezza che è la più grande eredità del XX secolo: che la frontiera tra l’una e l’altra non è soltanto labile. L’umano non è qualcosa che si può definire una volta per sempre. Sta all’uomo di ogni epoca storica decidere che cos’è umano e che cosa no, che cosa lo differenzia dall’animale e, oggi, dalla macchina. L’uomo non è l’animale più nobile del creato per il semplice fatto che si è emancipato dalla sua animalità. Divenire umani è un’arte segreta, è una conquista faticosa, un compito infinito. L’uomo può trasformarsi in un macaco che si fotografa in qualsiasi momento. E, oggi, anche in un “soggetto digitale”. Quel che dovremmo fare è non dimenticare che siamo corpi e menti naturali e che viviamo all’ombra dei nostri sensi, lottando con i fantasmi delle cose e perciò dobbiamo essere consapevoli della nostra instabilità, della nostra cecità, della nostra ignoranza. Del resto, che cos’è la cultura, ci direbbe Lewis Mumford, “se non una potente messinscena attraverso cui l’uomo cerca di rafforzarsi nella sua illusione originaria di non essere, in fondo, un semplice animale?”. Ma, se l’esistenza dell’uomo sarà sempre più interamente consacrata all’incessante trasformazione della natura attraverso il perfezionamento della macchina, le tendenze animali dell’uomo, così come le sue molteplici manifestazioni storiche dall’epoca primitiva fino alle grandi civiltà, o saranno eliminate come impensabili o faranno esplodere l’intera struttura. Non si tratta di scagliarsi contro la scienza o la tecnica, ma di non soccombere a un’idea di ragione che denigra come irrazionale, visionario, o semplicemente inutile, l’immenso spettro delle potenzialità umane. Quando la razionalità riduce tale spettro, si trasforma in quella sorta di delirio raziocinante secondo il quale solo ciò che è impersonale ed empirico, oggettivo e quantificabile è degno di essere conosciuto. Così la neuroscienza (dopo il comportamentismo, dopo il cognitivismo) ha preso il posto dello studio dell’inconscio, la neuro-estetica (dopo lo strutturalismo, dopo la semiotica) quello dell’arte. Gli dei della scienza e del “realismo filosofico” banchettano in tutte le università e negli istituti di ricerca, accompagnati da code di esperti il cui unico standard di comprensione è basato sui fatti. I fatti! Perfino gli scrittori hanno capitolato di fronte alla forza dei fatti e non si sentono più in dovere di abbracciare il mondo con l’immaginazione! Intanto le nostre esistenze si riducono al conteggio delle vittime, al superamento di test elaborati da un algoritmo, o ad accumulare ogni giorno una valanga di informazioni nel tentativo di non provare vergogna – la terribile e ridicola vergogna di fronte alla macchina di cui parlava Günther Anders –  davanti alle capacità superumane del nostro computer. La grande differenza tra la nostra epoca e quella in cui Nietzsche si lamentava dei danni che un eccesso di Storia poteva produrre alla vita è che oggi non è il passato che minaccia di seppellirci vivi, ma piuttosto un presente continuamente sollecitato dal cambiamento. Un cambiamento che, sebbene tutti – politici, giornalisti, professori, ecologisti, top-model e stelle di Hollywood – facciano a gara nel dirci quanto sia insostenibile, non riesce a darsi un limite. Il fatto è che il nostro presente, non essendo più in grado di compararsi e perciò di pensarsi (penser est comparer, dicono i francesi) in relazione con altri presenti storici, ha perduto la stessa nozione di limite. Il pericolo non deriva da un eccesso di forme tradizionali, per altro moriture o vissute senza alcuna ritualità. La Storia non è solo un incubo – lo può essere, lo è stata –, ma anche una consolazione: una terra da riscoprire e in cui trovare possibilità di vie di uscita dal nostro presente già sperimentate con successo.

A proposito di profezie, sentite che cosa diceva Paul Valéry, un poeta che non amo molto, ma anche, soprattutto nei Cahiers, un grande fenomenologo che non mi stanco di leggere, più o meno all’epoca dello scoppio della prima guerra mondiale:

“La nuova era produrrà ben presto uomini che non saranno più attaccati al passato per mera abitudine. Per questi uomini la Storia non sarà altro che un insieme di strani, incomprensibili racconti; non vi sarà nulla nel loro tempo che si sia mai visto prima – e nulla del passato sopravvivrà al loro presente. Tutto ciò che nell’uomo non è puramente fisiologico sarà alterato, poiché la nostre ambizioni, le nostre idee politiche, le nostre guerre, i nostri costumi, le nostre arti attraversano una fase di rapido cambiamento; dipendono sempre più dalle scienze positive e di conseguenza sempre meno da ciò che in passato determinava l’esistenza. I fatti nuovi tendono ad assumere l’importanza che un tempo apparteneva alla tradizione e ai fatti storici.”

Il pericolo non è nell’adorazione del passato, ma nel rifiuto del passato, e nell’aver dimenticato che nessuna generazione è in grado, nella sua limitata esperienza, di misurare la dimensione delle potenzialità umane. Noi non siamo gli ultimi, e neppure i primi. Sebbene ogni nuovo nato ricominci daccapo il cammino dell’uomo, ogni nuovo nato non è mai solo se stesso, ma parte di un discorso, parte di un patrimonio antropologico, storico e spirituale. Il fatto di essere un italiano che vive nel XXI secolo cancella forse il mio essere anche un greco, un romano, un cristiano, un europeo? Cancella tutti i miei ego storici vissuti e scomparsi dal neolitico alla civiltà cosiddetta dell’informazione? Il passato, il presente e il futuro non devono essere concepite come fasi temporali successive, ma come un continuum organico in cui il passato è ancora presente in un futuro che è già all’opera in modi imprevedibili nelle menti degli uomini sotto forma di sogni, fantasie, idee.

Ma c’è un effetto ancora più devastante provocato dalla nostra fede nella sacra alleanza tra novità e sapere tecno-scientifico, per cui ci sentiamo più infantilmente adulti e più liberi di tutte le generazioni che ci hanno preceduti. Si sente ancora dire da qualcuno, probabilmente non del tutto colonizzato dal verbum dell’informazione, che il tempo farà il suo corso, che con il tempo i valori verranno ristabiliti e che, al limite, dopo la morte ciascuno troverà il suo posto, sarà riconosciuto. Ebbene, credo che anche qui si sia superato un limite. Al dolore della morte di qualcuno, si aggiunge un dolore tanto più intenso quanto più il cambiamento di costumi, di idee, di significato delle parole si fa vorticoso, permanente, senza sosta, establishement. Morire fisicamente non basta. Bisogna diventare incomprensibili a coloro che restano. Animali estinti, fossili, esseri spiritualmente obsoleti, essendo la rapida obsolescenza delle macchine – e loro relativa intercambiabilità – l’unico criterio rimasto.

Sto esagerando? Sono un pessimista quando osservo come il sistema tecnologico del XX secolo ha distrutto l’autonomia individuale, le basi della democrazia e la stessa civiltà? Se l’arte segreta di coltivare l’umanità è sul punto di perdersi? Se il disastro, allo stesso tempo ecologico, sociale e soggettivo, non mi fa presagire che una sola alternativa: o l’inizio di una post-umanità in cui saremo asserviti completamente alle macchine o una nuova epoca che avrà come scopo l’unità tanto dell’uomo in quanto specie quanto dell’uomo come individuo?

Non so. In ogni caso l’idea di trovarmi a vivere nel punto più basso e degenerato della storia umana è qualcosa che rigetto, come rigetto il mio infantilismo e il mio desiderio “umano, troppo umano” di fuggire la realtà. E allora? Allora, dato che accrescere le conoscenze senza al tempo stesso imparare che uso farne avvelena l’esistenza, meglio ingoiare qualche antidoto contro la religione del progresso che, dopo la “morte di Dio”, sembra essere il nostro pane quotidiano che spezziamo per non morire di fame, ma che speriamo non diventi il nostro unico alimento.

Per questo mi sono messo a tradurre, che è sempre il miglior modo di leggere, Le trasformazioni dell’uomo. Leggete questo libro del 1956. Vi sembrerà più nuovo dell’ultima versione di Apple. E non dimenticate: “Non abbiamo imparato nulla dall’esperienza storica finché non abbiamo imparato che l’uomo non vive facendo ricorso alla sola intelligenza”. Parola di Lewis Mumford. E, per qual che vale, anche mia.

I cambiamenti climatici dentro di me

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di Giacomo Sartori

Dentro di me c’è un io che tanti anni fa ha deciso di studiare agronomia, vallo a sapere da dove gli è venuta di preciso l’ispirazione, molti aspetti di noi stessi restano un mistero. Questo io si occupa da quarant’anni di suoli, e ha sempre pensato che la cosa migliore che potesse fare per l’ambiente, anche quando di cambiamenti climatici pochi ne parlavano, è fare bene il proprio lavoro, mettendoci tutto l’impegno possibile, per arrivare a dei risultati convincenti e per far capire che i terreni sono fragili e essenziali, e che vanno quindi difesi e curati. Questo infaticabile io si è imposto di prepotenza nella mia vita, anche perché era lui che portava i soldi a casa, tutti gli altri ii vivevano sulle sue spalle. Per molto tempo ha indagato i suoli di montagna, che sono molto belli, soprattutto quelli che se ne stanno sui graniti e sulle altre rocce vulcaniche acide: sono leggeri e lievemente umidi, con colori arancioni o gialli, e un delizioso odore di funghi o muschio. Confrontando cosa succedeva alle varie altitudini, lui e i suoi colleghi raccoglievano informazioni che possono adesso aiutare a capire cosa succederà nei boschi, visto che il clima sta cambiando a passi da gigante, non sono più solo delle ipotesi degli addetti al mestiere.
A partire dalla crisi finanziaria del 2009 il mio io studioso dei suoli non ha più trovato soldi per queste indagini da cui nessuno traeva un guadagno immediato, quindi ha abbandonato i parchi naturali e le foreste alpine. Ha ripiegato sui terreni dei meleti e dei vigneti, che devo confessare all’inizio gli piacevano molto poco: erano sporchi e sfiancati, sciatti e tristi, portavano le tracce dei maltrattamenti e dell’incuria dell’uomo. Anche l’odore non aveva nulla a che fare con quello delizioso di porcini e sfagni, spesso era anzi respingente, con sentori di prodotti chimici o di lubrificante esausto. A volte erano talmente appestati da risultare paralizzati, tramortiti. Solo in profondità, dove gli aratri e le malversazioni non arrivavano, il mio io trovava qualcosa di vagamente simile alle terre libere e fiere che rimpiangeva. Poi però ha finito per affezionarsi anche a quelle schiave bistrattate, è anzi diventato un loro fedele difensore, un loro appassionato portaparola. Considera che hanno bisogno che qualcuno porti avanti i loro diritti, come tutti i derelitti che subiscono delle violente ingiustizie e i perseguitati che non possono esprimersi.
Per un decennio il mio io scientifico ha raccolto insomma campioni sotto i meli e le vigne, li ha fatti analizzare, e ha definito meglio che poteva i tratti somatici e il carattere dei vari tipi di terreni della parte coltivata della regione dove è cresciuto. Ha disegnato le carte della loro distribuzione sul territorio, cercando di convincere gli addetti al mestiere che bisogna prendere molto più seriamente la terra, che la nostra sussistenza dipende dalla sua ricchissima e complicata vita biologica, e che la sua buona salute è centrale anche per i cambiamenti climatici. Lottava contro i mulini a vento, perché nel modo di vedere che domina adesso è tutto questione di sacchi di concime chimico, e di trattamenti con deleterie sostanze chimiche, tutto il resto conta molto poco. Il clima muta, e le teste formattate rimangono uguali, o più precisamente fingono di cambiare e non cambiano. I governanti parlano adesso di transizione energetica e di svolta verde, e i dirigenti degli istituti di ricerca agronomica volano alto nella stratosfera dei loro sogni tecnologici, ma nessuno si cura davvero dei poveri terreni, nessuno cerca di capirli e aiutarli. Tutti sostengono che sono importanti, ma nei fatti si continua a considerarli dei limoni da spremere per massimizzare i redditi, dei limoni che per qualche magia saranno sempre disponibili. Rinfocolando gli impazzimenti del clima.
Il mio io studioso di provincia con tendenze donchisciottesche è stato sconfitto, questa è la verità. Se fa un bilancio oggettivo deve ammettere che i suoi studi non sono utilizzati, anche adesso che il clima è effettivamente partito per la tangente, e che il terrore latente delle persone affiora sotto forma di intransigenze e di arroccamenti nella rimozione edonistica. Si rende conto che non può continuare a mettere l’accento solo sui ridicoli passi che sono stati fatti: è adesso in profonda crisi. Prova disagio e si domanda cosa deve fare, si rode a rimanere con le mani in mano, si sente impotente.

In me c’è poi un io militante, che si è distinto quando ero molto giovane, ma che poi è rimasto in sordina, come un’acqua che senza affiorare in superficie, lasciando secco il letto del torrente. Nel corso della mia esistenza ha sempre cercato di tenersi al corrente e di documentarsi, e si è indignato tante volte per questa o quella ingiustizia, con una particolare attenzione alle questioni ambientali, ma non è mai passato all’azione. Non ha preso contatto con delle associazioni o dei gruppi vicini alle sue idee, anche se ogni tanto gliene veniva la tentazione. Non è nemmeno quasi mai andato a una manifestazione, sebbene poi si sentisse in colpa per non averlo fatto, percorrendo i ben noti va e vieni di qualsiasi nevrosi. E a me sostanzialmente andava bene quel suo fare così discreto, per non dire sotterraneo.
Vista la velocità con cui si sciolgono i ghiacci e l’altalena di desertificazioni e alluvioni, questo mio io militante adesso ha però alzato la cresta. Vuole dire la sua, o meglio ambirebbe a prendere in mano lui la situazione: ha degli argomenti molto solidi, e è testardo, mi è molto difficile tenergli testa. Trattandomi con malcelata commiserazione mi dice che non posso andare avanti così, devo prendere atto che la linea ingenua del mio io studioso non paga: devo fare qualcosa, se non voglio sentirmi un completo fallito. Di fronte alla gravità della situazione ambientale, mentre i governi fingono di operare per cambiare le cose, e nei fatti fanno di tutto per continuare esattamente come prima, o insomma per non rallentare la macchina impazzita sulla quale viaggiamo, non posso più rimanere con le mani in mano. Devo tirarmi su le maniche e lanciarmi nella mischia, mi dice il mio io battagliero. Se non lo faccio vuole dire che sono corresponsabile.
Incassando queste recriminazioni e questi ragionamenti tanto stringenti che mi colpiscono in profondità, io subito mi agito, e a forza di agitarmi mi viene male di testa. E mi va giù la pressione. O meglio, le medicine che prendo contro il mal di testa mi fanno calare la pressione, adesso la novità è questa. Mi gira la testa, mi sembra di avere il cervello in una lavatrice, e non sto più in piedi. La prima volta pensavo di avere un cancro al fegato o chissà quale malattia, invece il medico mi ha detto che avevo semplicemente la pressione bassa. Il che è pur sempre un grosso handicap, quando ci si vuole lanciare nella battaglia, o anche solo si vuole conciliare lavoro scientifico e scrittura. Quel generalista già un po’ anziano me l’ha provata anche nell’altro braccio, la pressione, e poi di nuovo nel braccio destro, e poi anche in piedi: non ci credeva che l’avessi tanto bassa. Io invece non ero stupito, perché so bene quanto posso fare male a me stesso, quando mi ci metto, anche se certo sarebbe stato complicato spiegarlo a quel dottore con una impostazione così tradizionale. In ogni modo il mio io attivista se ne frega della mia pressione bassa e dei giramenti di testa, e anzi si direbbe che si goda che io non stia bene. E va avanti per la sua strada: milita dentro di me, mi suggerisce cosa dovrei fare, mi fornisce degli esempi di attivisti e di persone che si battono, mi dice sgarbatamente che devo muovere il culo. Come tutti i contestatori è un po’ velleitario, per non dire un po’ invasato, ma io non posso farci niente, non posso certo cambiarlo.
Questo mio io militante mi urla sempre più forte – alle volte ho l’impressione che siano delle vere e proprie manifestazioni di piazza, con megafoni e tutto -, che devo mettere a disposizione degli altri il mio sapere: devo scrivere degli articoli, prendere contatti, collaborare con questa o quella organizzazione ambientalista. Io adesso finisco per cedere, perché dentro di me penso che abbia perfettamente ragione lui. Qualche giorno fa ho mandato un lungo articolo a una rivista culturale della sinistra sulla centralità ontologica del suolo, che è una parte essenziale della natura, e sull’assoluta necessità di un approccio rispettoso, e insomma non riduttivistico, vediamo se me lo prendono. Ci ho messo molto a scriverlo, perché non sono un buon saggista, e appunto a forza di spremermi le meningi mi è venuto mal di testa e poi mi è andata giù la pressione. Quest’ultima settimana avevo difficoltà a stare in piedi, e avevo anche una nausea di fondo, dopo aver finito quel lungo intervento. Sono però contento, e mi sembra importante che lo abbia fatto, anche se le mie forze sono limitate, e il mio tempo anche. Mi sento meno in contraddizione con me stesso, più coerente. Mi dico che d’ora in poi non devo più aver timore a sottrarre del tempo alle altre cose, come ho sempre fatto. Mi dico che adesso non è più il momento. Pazienza per il mal di testa, pazienza per la pressione bassa.

Dentro di me c’è però anche un io scrittore. È un me simile a un feroce coccodrillo, che si batte per avere da mangiare e essere libero. È abituato a vincere, spesso sbranando in un solo boccone i suoi avversari, quindi è una bestia assai temibile. Questo io scrittore-coccodrillo ritiene che quella dell’impegno è una cavolata, mi dice che quello che devo fare io è continuare a scrivere i miei testi, che hanno immancabilmente a che fare con l’intimità viscerale degli individui, senza occuparmi di niente altro. Già faccio molta fatica così, mi sbraita con la sua voce da perfido rettile cretacico, sottintendendo che il mio talento è quello che è, figuriamoci se adesso ci aggiungo anche la militanza come ambientalista. Ci mancava solo questo. Senza contare che non ho la stoffa del militante, insinua, sono sempre stato incerto e dubbioso. Gli attivisti sanno sempre cosa si deve dire e fare, mentre io non lo so mai, e mi chiedo sempre se quello che penso è giusto. Gli agitatori trascinano le folle con una voce carismatica, mentre la mia voce sfilacciata e fioca non ha mai trascinato nessuno, pena anzi a farsi intendere. E non è certo adesso, alla mia età, che cambierò dal giorno alla notte.
Quello che devo fare io è scrivere i miei romanzi e i miei racconti, mi dice, cercando che non siano troppo mediocri, senza preoccuparmi che il clima cambi o non cambi, e senza badare alla nuova illusione prometeica di asservire la natura, senza ascoltare nessuno. Andare avanti a scrivere nella solitudine, come faccio da decenni, sacrificando le mie amicizie e le mie attività sociali, rovinandomi la salute. È in questo modo che sono arrivato a qualche risultato, mi dice, devo seguitare così, buttando le mie velleità ambientaliste nel bidone del residuo non riciclabile. L’impegno non ha mai giovato alla scrittura, sono il primo a saperlo, mi dice, pungendomi sul vivo. E tanto meno gioverebbe a me, che non ho la stoffa del coerente intellettuale, e che nei miei romanzi e nei miei racconti ho sempre indagato i meandri contradditori, compresi quelli più orribili, della psiche umana.
Questo io-coccodrillo permeato dall’individualismo che domina nella cultura contemporanea, e con ascendenze forse nel tardo romanticismo, si nasconde, o forse si limita a nasconderlo a me, che nei miei ultimi romanzi i problemi ambientali sono sempre più presenti, sono anzi diventati via via i protagonisti indiscussi. Glissa sul fatto che il romanzo che ho appena scritto si chiama “Terra”, e il suo tema è per l’appunto la vicenda di uno specialista della terra a cui nessuno da retta. Come è noto non è raro che i materiali autobiografici finiscano nei romanzi, per quante attenzioni ci si metta. O meglio, i potenti governanti gli danno retta solo quando i loro metodi intrinsecamente distruttivi si sono rilevati disastrosi, quando è troppo tardi. Il coccodrillo romanziere che è in me ignora questa evidente contaminazione, parla come se la scrittura e il mio lavoro sulla terra fossero ancora due compartimenti stagni, come lo sono stati per decenni. Con i suoi metodi poco cortesi, o per meglio dire brutali, mi dice di continuare a scrivere di uomini e donne fuori di testa, senza curarmi di nessuno.
Non vede, o finge di non vederlo, che volente o nolente lui stesso ha preso qualcosa dal mio io militante, e ne è stato influenzato. O forse lo vede, e proprio per questo ce l’ha su così tanto contro di lui, e non può sopportarlo, come succede in quelle coppie che si fanno una cruentissima guerra di posizione, senza accorgersi fino a che punto si sono estese le influenze reciproche. Non vorrei che la qualità scendesse ancora, visto che siamo vicini alla soglia del dilettantismo, sarebbe un disastro, mi dice, mostrandomi le sue zanne sarcastiche. Io cerco di non ascoltarlo, dicendomi che spara fuori delle cavolate, ma in realtà sono molto sensibile ai suoi argomenti.

In me c’è poi, come in chiunque altro cittadino di un paese di indiscusso capitalismo, un io consumatore. Questo io da anni compra quasi solo cibi biologici, non solo perché ci tiene a non avvelenarsi più del necessario, ma anche perché ritiene che questo sia un modo di prendere posizione a favore dell’ambiente. Pensa che se ora le coltivazioni biologiche, che non appestano e massacrano le terre e i paesaggi come fanno quelle convenzionali, sono diventate tanto importanti nei due Paesi in cui vive, è anche grazie a lui, o insomma grazie a quelli come lui, che da anni acquistano i prodotti bio, anche se sono più cari. E se c’è un modo per combattere il cambiamento climatico, o insomma per non favorirlo, è proprio questo. Senza essere un attivista, e con una incresciosa tendenza anzi ai piaceri del corpo e all’oblomovismo, è un po’ fiero di questo risultato, sente di essere impegnato in una vera e propria lotta fianco a fianco con altre persone, checché ne pensi l’io militante (sempre ipercritico su tutto).
Questo io pacioso e surrettiziamente godereccio vorrebbe essere anche vegetariano, perché ha imparato dall’io studioso dei suoli che la produzione della carne si pappa da sola la maggior parte delle derrate agricole prodotte a livello planetario, producendo più gas a effetto serra di autoveicoli e aerei messi assieme. Vorrebbe non mangiare mai carne, ma non è abbastanza determinato e coerente con sé stesso, e è goloso. Quindi ogni tanto la mangia, pur limitandosi in genere a quella che viene considerata meno nociva, i pollami. Per mettere a tacere i suoi scrupoli di coscienza si inventa dei pretesti, si dice che le analisi del sangue che ho fatto due anni fa mostravano un livello molto basso di vitamina B12, e che ho una tendenza all’anemia. Si dice, e mi dice, che una persona nelle mie condizioni deve starci molto attenta, evitando di mettere il culo nelle pedate, basterebbe una minima dose di buon senso per capirlo. Io so bene che i suoi argomenti sono pretestuosi, perché se faccio attenzione e doso bene la mia dieta non c’è nessunissimo problema di vitamina B12 e di anemia, ma insomma ogni tanto cedo, attirato da certi odorini o da certe irresistibili ricette. E quando mi invitano, o anche al ristorante, mi tengo per me i miei scrupoli, e mangio pure la carne rossa, quella che richiede più derrate agricole e maggiori quantitativi di acqua. In poche parole questo io consumatore-golosone non è un io affidabile, un giorno pensa una cosa e un giorno l’altra, o comunque ne fa un’altra.
Forse proprio per dimostrare agli altri e a sé stesso che è attento ai problemi ambientali e climatici, e che non è quella banderuola che si potrebbe pensare, spesso e volentieri si impunta poi su dettagli che non hanno senso. Fino a pochi anni fa nessuna auto aveva l’aria condizionata, ora invece sembra che le persone debbano schiattare, se fanno anche solo due chilometri senza refrigerare l’abitacolo nel quale viaggiano, e questo anche nelle regioni alpine o del nord Europa, dice. Ha insomma voluto che comprassimo un’auto senza aria condizionata (va detto che per una volta anche tutti gli altri ii erano d’accordo, visto che così risparmiavamo seicento euro, e non era un periodo molto florido). Non più tardi della settimana scorsa la mia compagna sull’autostrada non smetteva però di farmi notare, con parole intrise di irritato sarcasmo, che eravamo l’unica automobile con i finestrini abbassati. Io ho preso posizione per il mio io capricciosamente ecologista, nonostante il picco di calore, legato appunto alle nuove intemperanze del clima, fosse davvero notevole: abbiamo finito per bisticciare. Ma anche negli alberghi nascono spesso analoghi problemi, quando lei mi dice che sta male, se non accendiamo l’aria condizionata, che è lì apposta per essere accesa. Perché anche lei ha un problema di pressione bassa.
Va detto che questo io così intransigente sulle carote e sull’aria condizionata non è poi così rigoroso come vorrebbe mostrarsi, perché non ha niente in contrario per esempio che io prenda l’aereo nei frequenti spostamenti tra i due paesi in cui vivo. O meglio negli ultimi tempi mugugna un po’, e sotto sotto si vergogna, ma non pone un vero proprio veto, e quindi monta sull’aereo con me. Devo anzi precisare che questo io accomodante, che spesso e volentieri vorrebbe però fare la lezione di morale all’universo intero, adora l’odore di cherosene mentre l’aereo rulla sulla pista, mandando a palla i motori e buttando fuori paurose fumate piene di gas a effetto serra e altre porcherie. In quel momento dimentica tutte le sue menate, e pensa solo alla gioia di essere su una pista di decollaggio, e di stare per ricevere l’accelerazione che porterà al volo, come un vero e proprio bambino. In quei casi mi fa proprio pena, il mio io anticonsumista e fustigatore degli sprechi.
Lo stesso io paladino della morigeratezza è contrario che io mi compri dei vestiti nuovi, e ignora con disdegno le vetrine dei negozi, ma ogni tanto corre a comprarsi un paio di scarpe di marca. E soprattutto considera le tante centrali nucleari di uno dei due paesi in cui vive un enorme pericolo, una aberrazione ambientale, e non crede che le pale eoliche e i pannelli solari potranno agire come una bacchetta magica: pensa che la via giusta sia quella di impegnarsi tutti per consumare meno energia. L’inverno alza però il riscaldamento del mio studio, perché non gli piace avere freddo. Si inventa il pretesto che la nostra esistenza è già anche troppo difficile, ci manca solo che ci becchiamo su qualcosa: abbiamo il diritto di scaldarci come si deve. Sa bene che dietro alla presa cui è attaccato il radiatore elettrico accanto alla mia scrivania, ben nascosta dietro ai due buchini, c’è in realtà una vituperata centrale nucleare, e sa bene che tenendo la temperatura più bassa si risparmierebbe energia, ma in quei momenti si allea con lo scrittore marginale e con lo scienziato outsider, sobillando quelle due entità che hanno in comune una esistenza precaria con l’argomento che con la loro incompresa grandezza meritano una eccezione alla regola. E loro ci cascano, vanitose come sono, e mi obbligano a arrendermi, frastornato da tanta biodiversità all’interno di me stesso, da tanti cambiamenti climatici nel mio cervello di ominide.

NdA: questo pezzo è stato pubblicato il 17 dicembre 2021 sul blog della Massachusetts Review, per iniziativa e nella traduzione di Jim Hicks (che ringrazio!), in occasione di un numero dedicato dalla rivista ai cambiamenti climatici

Printed in Beirut di Jabbour Douaihy

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di Giuseppe Acconcia

“Nel pieno di una delle estati roventi che hanno travolto Beirut nella seconda decade del ventunesimo secolo, un giovane uomo con le sopracciglia alte e arcuate come se le sollevasse in continuazione per dire di no, scese da un minibus sulle cui fiancate era stata appiccicata la scritta “Non dimenticatevi dei dispersi, dei sequestrati e dei mutilati di guerra”; eccolo, stringe al petto, all’altezza del cuore, un grosso quaderno con la copertina rossa e ha tutta l’aria di uno che si porta appeso al collo un braccio fratturato o ferito durante una sparatoria. Mentre tira dritto martellando il selciato con i tacchi delle sue scarpe nuove, gli alberi vizzi e i passanti troppo lenti paiono ostacoli messi lì per intralciare la sua galoppata verso traguardi indifferibili. Si infila in un palazzo con la facciata impreziosita da una lastra di basalto scuro il cui decoro risulta ancora più astratto per via di un vecchio colpo di mortaio, si sistema la cravatta rosso vivo davanti allo specchio dell’ascensore e poi entra nell’ufficio di un uomo dall’età indefinibile, che ha abbellito una parete con la locandina in tedesco dell’Opera da tre soldi. Seduto alla scrivania, gli occhiali spessi sul naso, quell’uomo stava ingannando la noia fin dal mattino, sottoponendo alla prova dei fatti la leggendaria memoria che tutti gli amici gli riconoscono: con un dito solo e senza copiare, batteva al computer l’ode preislamica di Zuhayr ibn Abi Sulma. Metteva tutti i segni vocalitici e per ogni strofa sceglieva un font diverso dal menu proposto da Word. Con il carattere Andalus Regular, era arrivato a metà del celebre verso La guerra è quella che avete conosciuto e assaporato. / Nulla di quel che si dice su di essa è inventato, quando si ritrovò davanti il giovane spilungone. L’indice destro sospeso a mezz’aria, lo fissò mentre si presentava:
– Buongiono, mi chiamo Farid Abu Sha’ar.
– Abu Sha’ar? Cos’è, si è scelto un nome d’arte?
Il ragazzo non apprezzò la battuta ma l’editore, guardandolo dritto in faccia, gli stava già prendendo di mano il quaderno; dopo averlo aperto alla prima pagina, strabuzzò gli occhi, emise un fischio di sorpresa, lesse ad alta voce: “Il libro a venire” e glielo restituì aggiungendo contrariato: “Questo qui è il titolo del saggio di Maurice Blanchot.” Avevano smesso di accettare testi scritti a mano da almeno dieci anni e non pubblicavano più raccolte poetiche, in magazzino ce n’era un’enormità, tanto che le davano gratis a chiunque le chiedesse. Lui obiettò che il suo non era un libro di poesie ma l’uomo seduto alla scrivania lo stoppò emettendo il verdetto definitivo:
– Abbiamo smesso di pubblicare anche la prosa.
[…]
Il periplo terminò alla “Tipografia F.lli Karam, fondata nel 1908” mentre il sole tramontava tra i minareti della Grande Moschea Blu. Dopo aver percorso un’angusta viuzza in salita, entrò in un’oasi di lillà che gli diede l’impressione di trovarsi fuori dai confini urbani; vide due gatti giocare nella corte esterna e sentì odore di inchiostro. Lo ricevette un uomo con una cicatrice sulla guancia, una ferita profonda che aveva avuto bisogno di molti punti di sutura; si chiamava ‘Abdallah, o anche Dudul, era l’ultimo erede della tipografia, e lo ascoltò squadrandolo per bene.
Quando Farid disse che voleva far pubblicare il suo libro, la risposta gli arrivò da dietro, da un angolo della stanza, in un arabo striminzito:
– Cosa c’è nel libro?
Non l’aveva notata, quand’era entrato; era seduta su una poltroncina di pelle e stava leggendo Il buio oltre la siepe in edizione francese.
– Ci ho spremuto dentro ogni fibra del mio essere.
‘Abdallah ripeté la frase in francese perché la moglie capisse, e lei, d’istinto, tese la mano destra verso il manoscritto come se il semplice fatto di sfogliarlo le potesse rivelare in cosa consisteva la “spremuta”.
– Abbiamo bisogno di un correttore di bozze per l’arabo…
La proposta del proprietario della tipografia lo mandò in confusione; sentendo con chiarezza che, alle sue spalle, la donna lo stava guardando, chiese un po’ di tempo per pensarci; ‘Abdallah gli rispose che si augurava non ce ne volesse troppo. E lui tornò all’inizio della settimana seguente, con il suo quaderno sottobraccio.”
(tratto da Printed in Beirut, pp. 7-13)
(Printed in Beirut, Francesco Brioschi Editore, traduzione Elisabetta Bartuli, pp. 262, 18 euro)

“Don’t look up”, o come abbiamo tergiversato di fronte al mutamento climatico

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di Andrea Inglese

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In Losing Earth (Perdere la Terra. Una storia recente) del 2019, lo scrittore e giornalista statunitense Nathaniel Rich ricostruisce la storia del decennio (1979-1989) che ha visto emergere l’allarmante verità sul riscaldamento climatico all’interno delle istituzioni scientifiche e politiche internazionali, e che si è concluso con un nulla di fatto, con una ottusa e sciagurata incapacità di agire, di prendere decisioni vincolanti per la riduzione delle emissioni di carbonio. Scrive Rich nel capitolo introduttivo del suo libro: “Nel corso dei dieci anni passati tra il 1979 e il 1989, questa opportunità [d’intervenire sul cambiamento climatico] si è veramente offerta a noi. A un certo momento, alle principali potenze mondiali non mancavano che poche firme per instaurare un quadro giuridico vincolante in grado di ridurre le emissioni”. Mai dopo di allora si è stati così vicini all’obbiettivo. Prima, insomma, che l’Antropocene diventasse un soggetto di dibattito “culturale” sui social e prima che si costituissero partiti più o meno spontanei di negazionisti, illustri scienziati avevano fornito ai dirigenti politici delle grandi potenze mondiali tutti i dati necessari, per stabilire tempestivamente una coordinata e condivisa correzione di rotta sul piano industriale ed economico. In questa vicenda, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo primario, in particolar modo in occasione del Summit della Terra, tenutosi a Rio nel 1992, il più grande raduno di dirigenti politici che la storia abbia conosciuto. Oggi, in maniera quasi unanime, Rio 1992 è considerato l’imprescindibile punto di partenza nella battaglia contro il riscaldamento globale, il momento in cui si sono elencati i principi fondamentali in materia di ambiente, di sviluppo sostenibile e di effetti nocivi che il sistema produttivo umano causa sul clima dell’intero pianeta. E, come sappiamo, questi principi hanno trovato una loro prima applicazione concreta, ossia vincolante (con obbiettivi specifici da raggiungere) solo con l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto nel 2005 per gli Stati firmatari. In sostanza, tra l’enunciazione dei principi in difesa dell’ambiente e l’accettazione di sottoporre a vincoli concreti e quantificabili le proprie politiche di sviluppo sono passati tredici anni. Quello che il libro di Rich ci ricorda è che Rio, in realtà, arrivava tredici anni dopo la prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra del 1979, nel corso della quale gli scienziati di più di cinquanta nazioni si erano già trovati unanimemente d’accordo sulla necessità di prevedere e prevenire i cambiamenti climatici che dipendessero dell’attività umana e i cui effetti fossero negativi per il benessere dell’umanità. Per quanto riguarda l’esito del Summit di Rio, Rich scrive: “In qualsiasi momento, Bush [senior] avrebbe potuto esigere la firma di un trattato giuridicamente vincolante, e avrebbe indubbiamente ottenuto successo: dopo lo smantellamento dell’Unione Sovietica non solo gli Stati Uniti dominavano economicamente e militarmente il mondo, ma erano responsabili di più di un terzo delle emissioni di carbonio dell’umanità”. Nulla di tutto ciò avvenne, ma in quegli stessi anni l’industria del petrolio e del gas statunitense passò da posizioni difensive e attendiste a un’offensiva massiccia per imporre, a suon di propaganda, l’idea che le cause umane del cambiamento climatico fossero soggette a controversia dal punto di vista scientifico.

È impossibile guardare Dont’look up di Adam McKay (Netflix 2021), senza coglierne l’aspetto non semplicemente satirico, ma anche allegorico. Sei mesi e qualche giorno separano la scoperta di una cometa diretta sulla terra dall’impatto catastrofico che essa avrà una volta giunta a destinazione. È una finestra temporale stretta, situata tra l’annuncio di un fatto “verificato scientificamente” di assoluta gravità e la sua altrettanto “prevedibile” realizzazione. In questo lasso di tempo, è dato all’umanità, attraverso i capi di Stato che dirigono le maggiori potenze mondiali, agire rapidamente e efficacemente, per evitare con tutti i mezzi possibili l’impatto letale del corpo celeste contro il nostro pianeta. L’intreccio tragicomico – difficile eludere l’ombra cupa che la meccanica ridicola proietta dietro di sé – è incentrato sul continuo incepparsi di ogni più razionale e condivisa risoluzione. Dapprima è lo sfavillante alone della futilità mediatica (televisiva e social) che vela ogni comprensione reale delle circostanze. Ad esso si aggiunge, quale ulteriore coltre offuscante, la dinamica dell’azione politica, dominata da una ottusa e feroce spinta di pura autoconservazione, incapace di stabilire minime gerarchie di valore e visuali temporali appena più ampie del calendario elettorale. Infine, è l’intervento dell’interesse privato, ossia dell’imprenditore visionario e monopolista, a minare definitivamente ogni operazione sensata, facendo prevalere un’avidità ormai sganciata da qualsiasi contesto reale.

Ventisei anni sono passati, nella realtà, tra la prima World Climate Conference di Ginevra e l’attuazione del protocollo di Kyoto, dal momento, insomma, in cui si avvistarono i gravissimi problemi generati dall’uso dei combustibili fossili a quello in cui si è giunti alle prime risoluzioni concrete per limitarlo. Il riscaldamento climatico è parso un fatto altrettanto lontano, seppure scientificamente accertato, dell’esistenza, nel film di McKay, di un asteroide del diametro di alcuni chilometri che finirà per schiantarsi sul pianeta. A differenza di quanto alcuni amano pensare in tempi pandemici, i fatti continuano a esistere, e si prestano ancora ad accertamenti scientifici, ma è indubbio che, se qualcosa di simile a una verità circoscritta esiste, essa non è di per sé facilmente traducibile, comunicabile e dotata di una intrinseca forza di persuasione sulla mente umana. Da buon autore satirico, McKay possiede un’efficace sguardo sociologico e coglie perfettamente l’effetto di diffrazione che l’enunciato scientifico subisce una volta che è calato nei tre “campi” – per utilizzare a proposito la lezione di Bourdieu – che dominano la vicenda narrata: quello politico, quello dei media tradizionali e delle piattaforme elettroniche, e quello dell’economia. Ognuno dei tre campi funziona – lo sappiamo – secondo logiche in parte autonome, ma in questo caso le leggi del potere politico (incarnate dalla presidenza della Casa Bianca), della comunicazione giornalistica e digitale (incarnate dai conduttori televisivi e dal popolo dei social) e del profitto economico (incarnate dall’imprenditore Peter Isherwell) funzionano a pieno regime e in disconnessione completa con gli altri piani di realtà. Ciò a cui assistiamo non è il dissolversi dei fatti in un puro gioco d’interpretazioni, ma il tentativo di ognuno dei soggetti dominanti nei rispettivi campi d’imporre al resto della società il proprio punto di vista, la propria interpretazione del fatto d’interesse generale, ossia l’arrivo della cometa. La società contemporanea ha trasformato l’ego individuale in un organo proliferante e impazzito, che non è più in grado di essere bilanciato da alcun principio di realtà. Il diniego di tutto quanto intralcia la sacrosanta realizzazione di sé costituisce allora uno dei punti di convergenza tra governati e governanti, che si riconoscono ad un certo punto nello slogan “Don’t look up”. La verità che la cometa insopportabilmente ribadisce, però, è che qualunque sia la posizione di vantaggio relativo che occupiamo in una data società, tutti apparteniamo in definitiva a una sola e medesima Terra, e se questa è minacciata non ci sarà un altrove nel quale rifugiarsi. La permanenza delle ineguaglianze sociali e di classe ha legittimato per secoli l’idea che i privilegiati potessero accaparrarsi uno spazio di vita migliore, lasciando dietro di sé, alla maggioranza dei poveri, un mondo di miseria e violenza. L’asteroide che si abbatte nell’oceano pacifico – così come gli effetti del riscaldamento climatico – non risparmieranno i privilegiati neppure nei loro rifugi ipersecuritari, ipertecnologici, iperconfortevoli. Ma se c’è un momento in Don’t look up – che arriva ovviamente troppo tardi –, in cui anche le masse più obnubilate sono costrette ad accettare l’orribile realtà della fine, questo non accade per la cerchia più ristretta dei ricchi e potenti. Essi soffrono fino alla fine di quella che potremmo chiamare la sindrome di Elon Musk, ossia l’irresistibile desiderio di salvarsi, proiettando l’altrove sociale in un altrove planetario, e di essere pronti a lasciarsi dietro di sé non solo quasi otto miliardi di poveri cristi, ma anche l’unico pianeta dotato di vita che l’uomo abbia conosciuto.

(Ne approfitto per rinviare a un bell’articolo, dedicato da Marco Mancassola, alla figura di Musk, e per citare un passo dall’ultimo libro di Bruno Latour (Où suis-je? Leçons de confinemnt à l’usage des terrestres, La Découverte 2021), dove è ancora questione dell’imprenditore d’origine sudafricana : “C’è da chiedersi se l’espressione ‘coscienza planetaria’ piuttosto vuota fino ad ora, non abbia cominciato a caricarsi di senso. Come se si percepisse in lontananza questo slogan imprevisto, ma ogni giorno meglio scandito: ‘Confinati di tutti i paesi, unitevi! Avete tutti gli stessi nemici, ossia coloro che vogliono scappare su di un altro pianeta’.”)

Don’t look up s’inscrive nella migliore tradizione del cinema satirico statunitense e, pur mancando della fastosità di Kubrick e del genio comico di Peter Sellers, è accostabile al Dottor Stranamore (1964) o al più recente War the Dog di Barry Levinson (1997), con la coppia De Niro e Hoffman. L’efficacia di un film satirico è data, mi sembra, dall’ampiezza dei meccanismi sociali “malati” che riesce a trattare, ed è evidente che gli Stati Uniti, per il ruolo egemonico e di superpotenza planetaria che ancora svolgono, offrono un osservatorio straordinario, in cui anche le realtà più periferiche finiscono per riconoscersi. È fin troppo facile, realizzare satira su realtà culturali e politiche periferiche, minori, provinciali. Ovviamente, i quattro anni delle presidenza Trump, ma anche il ruolo crescente delle piattaforme elettroniche nella vita della popolazione mondiale, hanno preparato il terreno per quel trionfo dell’idiozia, che il film di McKay inscena. La satira ben riuscita, poi, ha una funzione fondamentale: essa permette di disidentificarsi dai modelli sociali vincenti e di rinnegare il tono serio e convinto con il quale assumiamo, facciamo nostri – come fosse una conquista dell’intelligenza (della mente aggiornata e “progressista”) – i discorsi dominanti, i temi del giorno, le opinioni d’ultima fattura, che sarebbe imperdonabile lasciar macerare nei meandri del dubbio e dell’esame critico.

Tra le prime scene del film, ve n’è una che riguarda un evento minore, assolutamente trascurabile a fronte delle vicende cruciali che si svolgono in seguito e che hanno portata mondiale. I due scienziati responsabili dell’identificazione della cometa e della sua orbita, accompagnati da un terzo scienziato che lavora per la NASA, sono spediti a Washington per parlare direttamente con il presidente (donna) della loro scoperta sconvolgente. Alla Casa Bianca sono accolti da un generale pluridecorato del Pentagono. Questi, dopo aver passato con loro lunghe ore di attesa fuori dalla stanza ovale, compare ad un tratto con bottigliette d’acqua e qualche pacchetto di patatine. Li distribuisce agli scienziati esausti e affamati, lamentando però il loro costo eccessivo: “Qui qualsiasi cosa costa un braccio”. Viene, quindi, da tutti rimborsato prontamente. Il personaggio più giovane, la dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky – è lei che ha dato il nome alla cometa –, scopre però qualche ora dopo che snacks e bibite sono gratuitamente a disposizione di tutto il personale e degli ospiti della Casa Bianca. Nel frattempo il generale li ha mollati, per partire per Okinawa, dove lo attende qualche faccenda apparentemente più importante della probabile fine del mondo, di cui si dovrebbe discutere a Washington. Durante tutto il seguito della storia, fino a pochi giorni da quella che è ormai l’inevitabile e certa distruzione del pianeta, Kate Dibiasky non smetterà di chiedersi incredula per quale motivo il generale del Pentagono ha voluto truffarli, sottraendo loro una somma che di certo non lo ha arricchito. Non solo nessuno può garantire – come già insegnava Hume – che domani il sole sorgerà, o che la Terra sia ancora integra e preservata da un incidente cosmico, ma nessuno è neppure in grado di spiegare perché un generale del Pentagono sessantenne, all’apice della sua carriera, faccia pagare a tre scienziati che non hanno mai messo piede nella Casa Bianca qualche pacchetto di patatine e bottiglietta d’acqua, che ha prelevato gratuitamente nel bar a disposizione di tutti. Se il destino del cosmo è imprevedibile per la limitatezza del sapere umano, l’idiozia dell’uomo è impenetrabile, anche quando si manifesta nei gesti apparentemente più irrilevanti e banali, come la piccola truffa che il generale, dall’aria per altro garbata e cortese, ha realizzato alle spalle della Dibiasky e dei suoi due colleghi.

Scurati vs Evangelisti (la finale dei campionati mondiali di letteratura storica)

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di Mauro Baldrati

Valerio Evangelisti, Gli anni del coltello, Mondadori, Milano 2021, pagine 252 € 19

Antonio Scurati, M, il figlio del secolo, Bompiani, Milano 2018, pagine 848 € 24

È un romanzo on the road. Come altri di Evangelisti del resto, dove i protagonisti sono in perenne movimento, da Eymerich, che gira per palazzi, caverne, cancelli temporali; o Pantera, che visita tutte le bettole, incontra persone ovunque, torna più volte negli stessi luoghi; o il popolo della trilogia Il sol dell’Avvenire, in continuo spostamento, attacco e poi fuga, senza fine.

Potremmo dire che Gli anni del coltello è il prequel del Sol dell’Avvenire. Evangelisti sta scrivendo una monumentale opera storica in narrativa, ambientata tra le classi subalterne e proletarie dell’Italia otto/novecentesca. Ci fornisce, attraverso il racconto, uno spaccato della miseria, della lotta per la sopravvivenza, delle istanze rivoluzionarie soffocate nel sangue dal potere dominante, quello dei padroni e dei dominatori: l’Impero Austro-Ungarico e lo Stato della Chiesa – ovvero le due potenze transnazionali che, come scriveva Gramsci, hanno smembrato il paese per secoli, impedendo al nostro popolo di elaborare un concetto di sovranità nazionale. È un romanzo di impianto tolstoiano, dove i personaggi sono non solo i rivoluzionari, nel nostro caso i repubblicani mazziniani furiosi per la sconfitta della rivoluzione del ’48, ma anche gli eventi: le continue microinsurrezioni, nelle città della Romagna, a Genova, a Milano, spacciate (o forse sognate?) per l’ennesima, risolutiva rivoluzione che finalmente scaccerà l’invasore e permetterà la creazione di una repubblica. E i personaggi portanti sono non solo le decine di attivisti, tutti realmente esistiti, a parte il protagonista, il forlivese Gabariol; è anche il personaggio collettivo austriaco, che in quegli anni dominava nel Lombardo Veneto, dove avverrà una delle più sballate “rivoluzioni”, invocata dall’Apostolo Mazzini come definitiva, che porterà invece a una disfatta annunciata.

I rivoluzionari sono decisi a tutto, come il dominatore è disposto a tutto. In attesa della rivoluzione attaccano il nemico con ogni mezzo. Anche se i mezzi sono maledettamente scarsi. Non ci sono più armi da fuoco dopo la sconfitta del ’48. Allora si ricorre al pugnale. Lo stesso Mazzini, nei suoi appelli incendiari da Londra, lo definisce “la spada del popolo”. Pugnalano gli esponenti del regime, soprattutto i collaborazionisti, i traditori al soldo dell’invasore che sono responsabili di arresti, torture e impiccagioni di tanti fratelli. Non c’è morale di fronte all’assassinio politico, e come potrebbe? Gli austriaci e i papalini (questi ultimi mai di persona, l’uccisione e la tortura la delegano agli austriaci, proprio come i loro antenati dell’Inquisizione la affidavano al Braccio Secolare) impiccano persino ragazzini di 16 anni, e il popolo marcisce nella miseria. Ogni omicidio serve a diffondere il terrore tra i nemici, che devono temere ogni volta che escono di casa. E quando il tempo arriverà, con gli invasori indeboliti dallo stillicidio degli attentati, il popolo sarà pronto per la rivoluzione risolutiva.

Gabariol è un killer. Uno dei più famosi, rispettati ed efficienti del popolo rivoluzionario mazziniano. Non si tira mai indietro, è sempre pronto a intervenire con un accoltellamento dove e quando è necessario. È uno dei cavalieri senza macchia, votati senza ripensamenti alla guerra agli invasori, a costo della loro stessa vita. E come tale non ha casa, né famiglia. Deve lasciare continuamente le città dove ha ammazzato qualcuno, deve fuggire perché il nemico scatena rastrellamenti e esecuzioni sommarie. Dorme dove gli capita, mangia quando glielo offrono, passa da Imola a Faenza, a Ravenna, emigra a Milano, dove partecipa alla grottesca “rivoluzione” (siamo nel 1853). I dirigenti politici e militari della città affermano di essere pronti. Abbatteranno il potere austriaco, forti di un poderoso esercito rivoluzionario. E le armi? chiede Gabariol. Nessun problema, per ora ci sono i coltelli, ma prenderanno i fucili degli austriaci man mano che conquisteranno i presidi. Ma all’ora zero si presenta solo un pugno di militanti, ma guai a tirarsi indietro. Guai a essere vigliacchi. Si risolverà in un tragico disastro. Ci sarebbe da ridere, non fosse che è costata la vita a decine di “fratelli”.

Con la sua scrittura materialista, mai enfatica e tanto meno didascalica, Evangelisti ricostruisce gli ambienti della plebe rivoluzionaria, i manovali, i soldati votati a tutto, le discussioni politiche. Qua e là usa dei personaggi, come Marietta, la compagna di Gabariol, per smantellare l’impalcatura romantica-terroristica di cui fa parte il suo uomo, votata a azioni omicide che hanno come unico risultato arresti e impiccagioni. Oppure gli appartenenti alla upper class, nobili e borghesi che fanno parte del popolo mazziniano, che contestano gli appelli vulcanici di Mazzini, che da Londra non esita a mandare al massacro migliaia di persone male armate e male organizzate. Gabariol reagisce, si indigna, li insulta, L’Apostolo non si tocca! Ma il tarlo lavora, incrina le certezze.

Lo ritroviamo a Ravenna, con Marietta e addirittura un figlio. Sembra essersi calmato, dopo anni e anni di sconfitte, di morte sfiorata, di fughe rocambolesche, ma… in un finale che non si può raccontare sembra di scorgere la faccia ghignante dell’autore, mentre con un guizzo il romanzo vira in una conclusione degna di uno dei più “tosti” film anni Settanta della nuova sinistra americana.

 

È un altro grande affresco tolstoiano, che parte dal primo dopoguerra, segnato da una dicotomia tra vittoria e sconfitta, per cui alla grande guerra, vinta, segue un ritorno da perdenti, da poveri, da dimenticati. Con una spettacolare scrittura novecentesca, alta, orgogliosa e generosa, Scurati segue la formazione degli Arditi, i reduci delle forze speciali, i principali fautori della vittoria, mentre sprofondano nella disoccupazione e nel vituperio generale, sommersi dagli insulti dei socialisti che fino all’ultimo si erano opposti all’intervento. Sembra essere la scintilla che accenderà un piccolo fuoco incerto, questa frustrazione; ma le esili fiamme si sprigionano in un ambiente ricco di materiale combustibile: lo sfacelo del sistema, una classe politica “malata”, imbelle, rinchiusa nei palazzi del potere. E poi la situazione nelle campagne, in un paese a vocazione agricola ancora dominato dal latifondo, dilaniate dal conflitto tra i vecchi “parùn”, schiavisti che considerano ancora i contadini e i braccianti come servi della gleba, e le rivolte, la creazione delle leghe, gli scontri, gli incendi.

In questa situazione di altissimo conflitto, nascono, come larve che emergono dallo schiudersi di strane uova mai viste prima, tante creature apparentemente deboli e vulnerabili, in realtà depositarie di una spietata forza vitale. Scurati li rappresenta uno a uno, fruga nella loro formazione, li fa muovere, parlare, fa rivivere il loro rancore, la loro violenza. Sono i primi fascisti, riuniti nei neonati Fasci di combattimento, fondati da un ex socialista rivoluzionario che ha “tradito” i suoi compagni per il suo ardore interventista: è l’ex direttore de l’Avanti, il figlio di un fabbro romagnolo, Benito Mussolini.

È male in arnese, senza una lira, indossa vestiti lisi, vecchie scarpe sformate (per camuffarle, qualche anno dopo, quando inizierà ad affacciarsi negli ambienti che contano, le coprirà con le onnipresenti ghette bianche). Ha cercato fortuna in Svizzera, poi, siccome è un giornalista dotato, ha fondato un nuovo giornale, Il popolo d’Italia, che nel 1922 diventerà l’organo ufficiale del PNF (Partito Nazionale Fascista). Lo conosciamo, attraverso la narrativa investigativa dell’autore, riviviamo la sua brutalità, la sua tenacia, il suo retaggio di socialista estremista rivoluzionario; seguiamo la metamorfosi dei vecchi ideali socialisti (dei quali, col passare degli anni non resterà più nulla – forse perché non c’è mai stato nulla?) in una tensione in crescendo che lo porterà a esaltare la violenza dei neonati squadristi, una violenza “sana” e “giovane”, una violenza “chirurgica” che bonifica le terre malate da una politica corrotta, esausta, morta.

Mentre sul mondo aleggia una cappa di tragedia, l’autore fa emergere i personaggi, ci porta nell’espansione inesorabile dell’oscuro, ma anche dell’eroico e dell’epico. Il narratore non ci nasconde la sua ammirazione per i valorosi, disprezzati Arditi, per il fascino dark di Gabriele D’Annunzio, un personaggio gigantesco, contraddittorio; ci porta dentro Fiume, conquistata dopo una incredibile spedizione, capeggiata da D’Annunzio e sostenuta da Mussolini, una babele dove ogni follia era permessa, popolata da ogni genere di umanità: anarchici, socialisti, sindacalisti rivoluzionari, arditi, fascisti, avventurieri vari. Una “città di vita”, dove vigevano tutte le libertà e le uguaglianze, con uno statuto, “La Reggenza del Carnaro”, che faceva pensare alla Comune di Parigi, tanto da ricevere il sostegno addirittura di Lenin.

E soprattutto segue lui, il fulcro dinamico, il mutante, il doppiogiochista traditore compulsivo: mentre finge di sostenere D’Annunzio e la sua Reggenza, Mussolini tratta con Giolitti per sgomberare la città liberata, addirittura prenderla a cannonate. Quello del traditore sarà un marchio che si porterà dietro per tutta la vita. Mentre esalta la platea dei fascisti, durante le adunate fatte di urla, canzonacce, esibizioni di pugnali e bastoni, con invocazioni contro il parlamentarismo porco, corrotto e smidollato, tratta sottobanco coi vari presidenti del consiglio per avere qualche ministero. E intanto che lui tratta, in segreto, coi liberali e i cattolici, persino coi socialisti, i teppisti ferraresi di Italo Balbo partono per Ravenna per distruggere il grande palazzo delle cooperative rosse. “Una notte terribile”, scrive lo stesso Balbo nel suo diario. Il ritorno dura un giorno e una notte, 24 ore di incendi, di devastazione e di sterminio. Tutta la pianura romagnola brucia.

Il racconto segue il Duce e i suoi “ninfomani della violenza”, li accompagna nella marcia su Roma, dove, come riflette lo stesso Mussolini, sarebbe bastato un nulla, l’esercito schierato, per mandare tutto all’aria; ma il colpo di stato viene permesso dall’ignavia di un governo che non esiste, e dalla complicità del re. Il narratore condivide lo sconcerto generale, l’orrore per il vile assassinio di Matteotti, quando il neonato regime vacilla, e di nuovo sarebbe bastato un passaggio all’atto da parte delle opposizioni in ritiro sull’Aventino per abbatterlo.

Il romanzo si conclude nel 1925 con Mussolini solo e in stato abbandono, accartocciato sul pavimento nei suoi appartamenti nel Grand’Hotel di Roma, gemebondo per un attacco di ulcera. Lo ritroveremo nel secondo volume, L’uomo della provvidenza, e nel terzo, non ancora pubblicato.

M è una grande saga epica, eroica e maledetta, ma soffre di una ambiguità strutturale, soprattutto nella prima parte, che provoca effetti collaterali inevitabili. Dipende dal fattore di posizione. Evangelisti piazza la sua storia nel mondo antagonista dei rivoluzionari, degli idealisti, degli arrabbiati. È quello il mondo. Ne sviscera le speranze, le delusioni, le sconfitte. Traccia i profili dei personaggi, li fa interagire, li accompagna nella miseria e nella tragedia. Non entra nelle camerate degli austriaci, non canta con loro le canzonacce della soldataglia. Non impersona Radetzky, non lo descrive come un aristocratico raffinato, spadaccino provetto, esperto ballerino di valzer e seduttore di signore; no, il feldmaresciallo resta quello che è: il fucilatore, l’impiccatore, il torturatore dei ribelli e dei patrioti.

Scurati invece ci mostra un Mussolini bifido, traditore, violento, selvaggio, barbarico, virile. Grande seduttore, puttaniere e sciupafemmine. Bastano queste qualità per farne un eroe negativo, ma un eroe. Lui stesso ne è consapevole, lo afferma in una intervista: «La mia paura è quella che in gergo viene chiamata empatia negativa. Succede spesso nelle serie e nei film che il pubblico empatizzi con i personaggi negativi. Guardate cos’è successo a Gomorra, non al libro né al film, che è un capolavoro, ma alla serie. La gente empatizzava con i camorristi. Il rischio di trasformare Mussolini in un eroe tragico con cui il pubblico poteva empatizzare c’era e mi sono sforzato in tutti i modi di evitarlo.» È vero, non fa sconti ai fascisti. In un crescendo degno di un noir ce li mostra in tutta la loro bestialità, masnade di picchiatori e di assassini al soldo degli agrari; eppure il posizionamento tra le loro schiere e nella mente del loro duce la produce, la temuta empatia negativa. Quando, durante il Consiglio Nazionale dei Fasci di combattimento, il 7-9 novembre 1921, il narratore entra nel teatro Augusteo di Roma, noi sentiamo le urla, ascoltiamo le canzoni gridate dalle camice nere col braccio alzato: «Me ne frego è il nostro motto, me ne frego di morir, me ne frego di Giolitti, e del sol dell’avvenir, un vessillo nero nero, che ci stringe intorno a sé, me ne frego del questore, del prefetto e anche del re.» Sentiamo su di noi la vibrazione della violenza che crepa l’aria come i fulmini nel cielo plumbeo. Subiamo, nostro malgrado, il fascino oscuro del male.

Scurati si espone, consapevolmente, al rischio di un terzismo che segna la nascita dell’intera opera. La sua epopea è grande e tragica, ma necessita di un attento lavoro di deterritorializzazione e di filtro da parte del lettore evoluto. Ricorda un altro grande romanzo, infiltrato dallo stesso errore, Le Benevole di Jonathan Littell, che entra addirittura nelle vite e nelle menti dei nazisti e delle SS. Sono romanzi selvaggi, avventurieri, che sfidano l’ignoto, ma in fondo sono dei ribelli verso quel normal dot che è l’etica di base. Perché a un certo punto, un punto estremo, la letteratura si trova di fronte a una linea di confine. Forse dovrebbe fermarsi, rinunciare al senso di onnipotenza, e fare una scelta di campo.

Per questo, per la loro grandeur, per la qualità della ricerca, i due finalisti sembrano perfettamente allineati, ma il fotofinish non mente: per il rischio non pienamente calcolato dell’empatia negativa Scurati subisce una penalità, pertanto Evangelisti lo batte per un millesimo di secondo, e si conferma campione mondiale di letteratura storica.

Corpi aperti

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di Francesca Matteoni

(pubblicato su Frute n°6, Inverno 2021/2022)

Durante l’estate appena trascorsa ho sperimentato sulla montagna pistoiese un nuovo laboratorio per bambini, “La mia casa è un corpo”. Per realizzarlo ho utilizzato vari elementi da laboratori ed esperienze fatte negli anni, affinché i partecipanti immaginassero il loro corpo come un paesaggio, popolato da animali, alberi, mare, montagne, ma anche robot, strade urbane, palazzi, pianeti. Ci siamo presi qualche minuto iniziale per vincere l’imbarazzo e dare sfogo alla fantasia, poi li ho divisi in coppie, affinché ognuno ritraesse la sagoma dell’altro su un foglio bianco di grandi dimensioni steso a terra. All’interno della sagoma hanno disegnato il loro mondo e le creature che ospita, facendo emergere uno spazio dove ritrovare quelle stesse vite presenti là fuori e dare corpo a quelle sognate. C’è chi ha visto l’interno della sua persona come un fiume. Chi come una galassia. Una montagna al tramonto. Una terra di cavalli. Il paese dell’acqua e dei pesci, degli unicorni, delle bolle di sapone. Ciò che mi prefiggo con laboratori come questo è di trasmettere ai più piccoli l’idea di un confine labile fra noi e il mondo, dove abitiamo nella stessa misura in cui siamo abitati, dove l’identità è mutevole e molto più disposta all’altro, di quanto la cultura occidentale, prettamente antropocentrica e verticista, porti a credere. Con il gioco diventiamo possibilità, facendo dell’incertezza identitaria un punto di forza ed entusiasmo, il punto iniziale dell’esplorazione. È un invito a camminare nei luoghi con sorpresa, addentrandosi con lentezza, pronti a perdersi e a cambiare strada, invece che dirigerci ottusamente verso una meta che forse non raggiungeremo mai. Comprendere che non siamo strutture rigide, dove la mente decide un obbiettivo e il corpo agisce di conseguenza, ma plasmabili, dove il linguaggio con cui ci raccontiamo il destino, la terra, la vita, mostra le sue crepe, le sue approssimazioni, si fa strumento di imperfezione, pronto a cedere il passo al non detto, all’inesprimibile, a linguaggi altrui. Se nel mio corpo ospito cavalli, sarò più disposta a interrogarmi sulla loro sensibilità. Se nelle vene mi scorre un fiume comincerò a riflettere sull’intelligenza dell’acqua. E anche io sarò meno solida e più aperta. La consuetudine culturale ci insegna a considerare tutto ciò che è incerto come instabile e sbagliato, a cercare una definizione esauriente del sé e delle relazioni che risolva la precarietà. Credo invece che ciò di cui abbiamo più bisogno sia un’identità felicemente precaria, capace di dissoluzione, contatto con le cose solo in apparenza esteriori. Avvertire questa esistenza fragile quale resa gioiosa, senza nessuna edulcorazione della natura opposta alla nostra umanità, poiché l’umano è nella natura, è natura come tutto il resto. Permettere un movimento circolare fra le persone, qualsiasi sia la loro provenienza, forma, lingua.  Che cosa ci consolerà nei momenti di crisi, nell’ombra? I beni che abbiamo accumulato, la posizione raggiunta o quanto riusciamo a stare minimi in una terra vasta che continua nella sua crudeltà e meraviglia, che crea vincoli di morte e affetto, dove sempre vale l’aver amato e l’amare, una terra in cui siamo inclusi?

Penso alle parole di Barry Lopez, il grande scrittore americano della natura, contenute nel libro Attraverso spazi aperti, da pochi mesi tradotto e pubblicato per Black Coffee. Mentre si trova nel Grand Canyon sperimenta questo abbandono del sé al luogo.  Scrive:

Vivere la vita, qualunque vita, implica una sofferenza grande, intima, che perlopiù taciamo. In luoghi come l’Inner Gorge questa sofferenza ci scivola via dalle dita. Lì non regna un silenzio tale, né si è così lontani da tutto da riuscire a sentirsi pensare; quello viene dopo. Prima senti il cuore che batte. Prima senti la vita.

Sospendere il pensiero e stare, sentire, lasciare entrare il paesaggio che prende il posto del dolore senza annullarlo: richiudendo in noi la sua ferita nel rilievo di una radice che affonda, si allunga, cerca nutrimento molto lontano dai confini più evidenti dell’albero emerso. È possibile, mi chiedo, trovare conforto da qualsiasi angoscia ci stia percorrendo non nel monito “ricorda chi sei”, che suggerisce qualcosa di deciso e inamovibile, ma piuttosto nel “ricorda di cosa (o chi) sei parte”?  La domanda sottende al lavoro coi più piccoli nello stesso modo in cui si relaziona al mio stare presente.

Salgo al bosco sopra il paese appenninico da cui proviene la mia famiglia paterna. Ho in me la sofferenza di un abbandono, che rimescola e manda in confusione tutte le mie lotte e conquiste, che mi annienta nell’assenza dell’altro amato. Ho le domande feroci sulle mie responsabilità, le mie insufficienze. Ho il biasimo per questo mio crollo, io che dovrei aver imparato, dopo i lutti improvvisi e lancinanti della mia storia umana, a tenermi salda. No, mi scompongo, vado in pezzi. Tutti i luoghi comuni puntano il dito contro di me, contro la mia età anagrafica che supera i quaranta, contro i miei azzardi, contro la facilità con cui mi affido e mantengo la fiducia, qualsiasi cosa accada. Perdo. Perdo il sonno, la lucidità, perdo le certezze per le ossessioni, perdo così tante lacrime da sentire soltanto la stanchezza dove prima c’era la mia persona. Perdo interesse, vitalità. Soprattutto perdo lo sguardo e poi gli altri sensi, quelli che sanno riconoscere lo spazio e il tempo intorno alla disperazione.  Poi accade, in modo semplice, nel solito rumore del vento fra gli abeti che sembra il frangersi di un’onda su una riva. Alzo la testa, respiro, sono sola e sono insieme al pezzetto di terra che mi conosce da sempre, che ha visto tutte le crisi, che ha pazientemente accolto e fatto sparire tutti i miei dialoghi solitari ad alta voce. Mi ricordo di loro. Del vento, della bellezza di sapere i tetti e le case laggiù, ignari della mia passeggiata, del cavallo che si intravede fra i castagni, delle farfalle galatee che volano per una stagione, a luglio. Perdo lentamente qualcosa d’altro. La convinzione che questa pena e questa inquietudine siano più forti di tutto. No. Il mondo è più forte. Nella sua grazia, nella sua incessante trasmissione di esistenze e leggerezze e violenze minuscole o enormi e di cielo e pietra e acqua come preghiere aspre e avvolgenti che non necessitano di essere dette da nessuno, da nessun io a nessun dio. Mi ricordo soprattutto dello stupore e con quello decido di tornare ai bambini.

Nel libro di Barry Lopez, leggo ancora:

Lo sguardo più commovente che abbia mai visto comparire sul volto di un bambino nei boschi è stato quello provocato dalla vista delle impronte di un airone su una sponda melmosa. Eravamo in ginocchio con le scarpe zuppe d’acqua, a imprimere la forma delle nostre mani nel fango. Si sentiva il ruscello respirare nel limo e nella sabbia. Il sole ci picchiava sui capelli. Quello sguardo diceva: Non sapevo di aver bisogno di qualcuno molto più grande di me per avere conferma di questo, di tutta questa vita che sento scorrere qui, adesso. Adesso posso crescere, ma non dimenticherò.

Adesso posso crescere, dice. Lo scrive mentre in altre pagine racconta della morte di quarantuno capodogli spiaggiati e destinati a morire in Oregon, o del rapporto fra la scienza, la salvaguardia dell’ambiente e delle specie e il diritto che abbiamo (o non abbiamo) di prenderci una vita animale, un esemplare di foca, per studiarlo come un oggetto. Davanti al dolore di un altro animale alcuni riescono a sviluppare un moto empatico, altri si difendono puerilmente dietro la credenza che siamo gli unici possessori di anima e diritti. Altri ancora si rivoltano con accuse verso l’umano. A me viene da dire senza rassegnazione che le cose accadono. Alcune possono essere evitate. Altre fanno parte di sistemi e contaminazioni vitali in cui siamo comunque coinvolti quali esseri vulnerabili, e che fanno di realtà efferate o insopportabilmente tristi il fulcro della sopravvivenza. Adesso posso crescere, senza dimenticare lo stupore, perché è nel mio corpo e si riverbera negli altri, ma anche senza chiudere gli occhi davanti allo sconvolgimento, allo spavento, al pianto dell’animale accanto a me. Questo crescere non riguarda solo i bambini. È un coltivare l’infanzia in noi, non quale momento felice, ma quale momento di fluida scoperta. Dai bambini possiamo ancora apprendere la facilità con cui si rifugiano in mondi e persone spesso invisibili ai nostri occhi e tuttavia non meno veri. Come adulti possiamo accompagnarli nella consapevolezza che il primo spazio aperto ha inizio in noi. E l’apertura implica la caduta, l’errore, l’errare, il non comprendere per molti giorni o anni cosa diventeremo. L’apertura non ferma il dolore. Ma suggerisce sempre dove siamo. Ci splende addosso con le sue lame, ci rende inermi. In questa inermità ci spinge nel corpomondo, dove accanto alla pelle squarciata spuntano la menta e le fragole. Ci sussurra: guardate, ascoltate, piangete, cadete, incespicate, tornate a un passo sostenibile e sognante, state. Non siete poi così importanti. Vivete però in ogni cosa e ogni cosa vi riconosce. Là fuori.

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Una questione aperta: per il centesimo anniversario della nascita di Beppe Fenoglio

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di Giorgio Mascitelli

Se c’è una cosa che non si dovrebbe fare, è parlare degli scrittori che si amano nei loro anniversari, come mi accingo a fare a proposito di Beppe Fenoglio, ma l’occasione è troppo ghiotta per poter tacere ( e io sono un ghiottone e non sono neanche molto originale, lo so) perché penso che il maggiore scrittore italiano della Resistenza proprio in questi tempi cominci a parlarci pienamente. Eppure la sua visione politica della Resistenza è sicuramente lontana da quella che con tutti i limiti del mio senno di postero nutro io, valutando la sua visione di monarchico badogliano come distante da quella necessità di rottura radicale con l’Italia compromessa col fascismo per inaugurare un vero rinnovamento. Certo Fenoglio non è un autore, e probabilmente non era un uomo, che poneva in primo piano la politica, ma l’evidente sollievo con cui Johnny approda ai partigiani azzurri e l’altrettanti evidente fastidio, se non disprezzo, nei confronti dei garibaldini sono un dato ineliminabile del suo romanzo principale e della sua opera. Si sa che di problemi di questo genere si era occupato a suo tempo Engels, quando nell’esprimere il suo apprezzamento per il monarchico e reazionario Balzac, spiegava che la rappresentazione delle forze della società nei suoi romanzi era fortemente realistica e indipendente dalle sue posizioni politiche, tuttavia la forza estetica della narrativa resistenziale di Fenoglio non è certo nella sua descrizione mimetica, anche se non mancano elementi di notevole impatto realistico, quanto nella capacità di proiettare su un piano allo stesso tempo epico e antiretorico una dimensione esistenziale, basata su un rifiuto morale del fascismo. Potrei allora sostenere che  esiste probabilmente qualcosa come un valore estetico di un’opera disgiunto da valutazioni storiche e politiche.
E tuttavia valore estetico è una formula vaga che bisogna precisare meglio: per esempio potrei dire che la lingua di Fenoglio mi piace moltissimo e lo trovo una delle migliori prose italiane nell’ambito del Novecento. Ecco una formulazione del genere suggerisce già qualche sostanza all’affermazione, soprattutto perché comporta il presupposto che i valori stilistici e linguistici del testo sono separati dalla sua valutazione storica e politica. Eppure per me non esiste un’astratta bellezza linguistica, un ideale assoluto rondesco per così dire, la bellezza della lingua letteraria è sempre una bellezza funzionale al tipo di narrazione, prendiamo allora un esempio di Fenoglio:

“La nuova scarica dei fascisti arrivò corretta, ma tanto che rasò gli alberi sulla cima. I partigiani rispondevano più con un fuoco che pareva diretto più all’eventualità che alla sostanza e località dei fascisti, frettoloso e bisbetico, come mirante soltanto a svuotare le giberne. Era chiaro che i fascisti non stavano subendo perdite più di quanto ne infliggessero ai partigiani, ma tutti gli uomini erano posseduti dalla libidine del fuoco e dal suo sostegno morale.” ( da Il partigiano Johnny, p.176, Einaudi, 1994).

Si tratta di un passo che descrive uno scontro in cui però il tiro da entrambe le parti è impreciso: questo evento è rappresentato da un misto di termini tecnici ( ‘corretto’ riferito a una salva che non colpisce nessuno, che però giunge nel quadrante di tiro giusto dalla posizione in cui si trovano i fascisti), da metafore psicologiche ( il fuoco dei partigiani è ‘bisbetico’) e da perifrasi che a prima vista possono sembrare ironiche ( e vi è senz’altro una sfumatura di questo genere), ma che in assenza di un assetto retorico complessivo tendente all’ironia sono stranianti. Infatti se il fuoco mirante più all’eventualità che alla sostanza dei fascisti sta per ‘sparare alla cieca’ e la frase potrebbe chiudersi con un abbassamento comico, il periodo successivo con la sua constatazione retoricamente neutra e superflua degli effetti nulli del reciproco sparacchiamento, mantiene questo passo in un registro insolito, né comico né eroico né eroicomico, che va a sottolineare gli aspetti psicologici, il parossismo, e quelli morali, la virtus necessaria a sostenere l’orgasmo della battaglia che nel contempo, tuttavia,  spinge ad aprire il fuoco con imprecisione, dell’esperienza del combattimento. Quando Fenoglio parla di ‘sostegno morale’, non allude alla dimensione morale alta del combattimento che sarebbe epica, al “ quo moriture ruis maioraque viribus audes?/ fallit te incautum pietas tua” ( ‘ dove ti precipiti a morire osando cose superiori alle tue forze?/ il tuo amore di figlio ti inganna, imprudente.’ Aen.X, 812-813) con cui Enea incalza, descrive e comprende il coraggioso gesto del figlio di Mezenzio intervenuto a salvare il padre, e nello stesso tempo ne decreta la morte prossima, ma a una postura morale funzionale alla combattività, di minore profondità e finezza spirituali ma di maggiore dimensione praticamente collettiva.
Sebbene nel Partigiano Johnny si possano rintracciare facilmente esempi ancora più belli dello stile di Fenoglio in certi periodi vertiginosi che mescolano sintassi e lessico inglese e italiano, il gergo militare, parole inventate dallo scrittore e reminiscenze dell’epica classica, questo esempio di lingua più standard illumina bene il fatto che la scelta stilistica di Fenoglio determina un livello fondamentale di lettura in cui l’argomento è non il significato storicopolitico della Resistenza, ma la sua dimensione di esperienza esistenziale che non può essere tematizzata né all’interno della storiografia né della psicologia. Paradossalmente e direi ironicamente per l’antiideologico Fenoglio, è proprio il lettore ideologico, a patto che non sia dominato dai pregiudizi, che può accorgersi meglio di questo valore della sua scrittura. Infatti l’alterità del giudizio ideologico rende più facile percepire quello spazio che la scrittura di Fenoglio occupa, dove la Resistenza non è un problema storicopolitico né, tanto meno, un monumento da additare alle giovani generazioni, ma un vissuto che non è solo individuale ma anche collettivo e per questa via, si sarebbe detto sui libri di scuola di una volta, universale. Ma se il vissuto diventa potenzialmente universale, significa che c’è un’elaborazione simbolica che distingue i testi di Fenoglio dalla memorialistica.
Si può capire meglio quest’ultima osservazione, se si nota che nella narrativa di Fenoglio c’è anche una vena quasi sapienziale dove l’esperienza sembra condensarsi in brevi giudizi, sentenze o apoftegmi che  definiscono una situazione o una vicenda o un personaggio. Per citare l’esempio più celebre basterà ricordare l’inizio de I ventitre giorni della città di Alba:

“Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944” ( Una questione privata I ventitre giorni della città di Alba, Einaudi, 1990, p.159)

In questo inizio folgorante, in cui si riassume già l’esito della vicenda e dunque il finale del racconto perché evidentemente il lettore implicito di Fenoglio conosce già per i fatti suoi la storia dell’occupazione partigiana di Alba, si condensa non solo il giudizio su un’azione poco giustificata dal punto di vista militare agli occhi dell’esperto partigiano Johnny e anche un’allergia a un certo tono celebrativo resistenziale, ma una regola antropologica che esula dal contesto specifico dell’episodio e della Resistenza in generale per diventare legge umana che possiamo cogliere in tante situazioni di natura diversa, nelle quali al momento della difficoltà restano sempre i soliti duecento quando fino a un attimo prima si era in duemila e forse più. La narrazione nel racconto, improntata a un’ironia realistica in cui si mettono in luce tutte le incongruenze dei liberatori,  non nega una dimensione epica, ma la delimita appunto a quella finale della battaglia in cui si arriva al nucleo epico autentico ossia, al di fuori di ogni orpello letterario e celebrativo, l’esperienza individuale di fronte al momento del pericolo e la scoperta della verità morale della sconfitta, che è invece superamento della condizione individuale. Ne è un esempio, nel racconto appena citato, il momento in cui nella giornata del contrattacco fascista i quattro giovani partigiani che dovrebbero essere di guardia non si accorgono del passaggio del fiume da parte del nemico, vengono sorpresi dai repubblichini in un cascinale mentre stanno giocando a poker e vengono freddati. Qui la giovanile idiozia diventa in un attimo innalzamento epico non diversamente da Eurialo che si ferma un istante di troppo a depredare  i latini uccisi nel sonno nel loro accampamento e a rubare l’elmo che lo tradirà, invece di essere leggero nella fuga come il più esperto compagno. Qui però si può notare una peculiarità di Fenoglio e cioè che il polo realistico non ha una funzione antiepica di abbassamento comico, ma al contrario è per così dire propedeutico all’esperienza esistenziale che si traduce nel momento epico, che non significa mai astratto eroismo, ma confronto con la morte in tutte le sue sfaccettature. Questo però significa che Fenoglio ha letto Virgilio e gli altri classici come rielaboratori di esperienze effettive, quasi come specialisti del rendere in termini letterariamente credibili la situazione umana che si produce dentro l’azione bellica, e non come monumenti scolastici del passato. E questo dettaglio spiega la peculiare e vincente posizione di Fenoglio nella letteratura resistenziale: da un lato egli supera la memorialistica, anche di alta qualità letteraria, con la consapevolezza che la natura letteraria dei suoi testi crea una fitta rete di rimandi e confronti che contribuiscono a definire l’esperienza della guerra partigiana nei suoi aspetti meno immediati ed esistenziali in maniera più assoluta, dall’altro il richiamo realistico all’esperienza vissuta impedisce non solo il quadretto celebrativo, ma anche la proiezione della vicenda in uno spazio epico astratto.
Ricordando la tesi di Benjamin della caduta del valore dell’esperienza nella modernità e nel Novecento in particolare ( svolta nel saggio Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov contenuta in traduzione italiana in Angelus Novus, Einaudi, 1982), si potrebbe affermare che l’opera di Fenoglio si colloca al di qua di questa crisi. Certo se ‘l’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto i narratori[…] i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi” ( Benjamin op.cit. p.248), la voce di Fenoglio è inconfondibile, ma questa voce non solo nasce dall’esperienza ma presuppone un mondo che comunica di bocca in bocca l’esperienza degli anni in montagna, un mondo di discorsi corali, entro il quale lo scrittore di Alba modula e fa emergere la propria voce. Il piccolo mondo delle Langhe rende possibile questa centralità dell’esperienza perché non vi è mai l’anonimato della condizione metropolitana tipica della modernità, ma allo stesso tempo questo piccolo mondo è il centro dell’epopea e in un certo senso (precisamente nel senso di sineddoche) della storia. E’ grazie a questo radicamento che un’operazione letteraria come quella di Fenoglio risulta credibile e riuscita nel contesto novecentesco.
Oggettivamente questa caratteristica rende Fenoglio un caso quasi unico, non solo nella realtà italiana. Se tuttavia dovessi indicare uno scrittore, che in libreria metterei sullo stesso scaffale di Fenoglio, prescindendo da quelli i cui apporti nella sua opera sono stati messi in luce dalla critica, indicherei senz’altro il Babel de L’armata a cavallo. Non si tratta solo di quel misto di rappresentazione realistica, antiretorica e ironica di una grande epopea storica, ma anche dell’avere dietro la coralità di un mondo, anche qui in prevalenza contadino, la cui sostanza linguistica si riverbera nelle pagine del racconto. Per quanto in Fenoglio ci siano anche altre dimensioni importanti come quella individuale, esistenziale e in alcuni punti perfino lirica, lo accumuna a Babel proprio questa natura di scrittore dell’esperienza e dunque della storia bella e terribile del Novecento, colta proprio prima di diventare storia. E’ insomma una scrittura sempreverde che preciserà sempre di più questa sua caratteristica man mano che gli anni passeranno.

 

Martine Broda, Lacan e il desiderio. Una poesia

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ph. Mauro Quirini

 

ph. Mauro Quirini – Lido di Ostia, Dicembre 2021

 

di Ornella Tajani

Ce n’est pas la question du moi que pose le lyrisme, mais celle du désir.
Martine Broda

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tintinnio dell’oggetto desiderio
scintillante di perduto

splende il sole splende sopra il vuoto
il paesaggio morto di

Pierre              mi hai lasciata nella pietra
(l’inferno è nudo di dolore)

la tua mano mi ha insegnato tutto la tua mano è un deserto
il tuo respiro ha guidato tutto

splende il sole splende sopra l’onta

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tintement de l’objet désir
miroitant du perdu

il fait beau il fait beau sur le manque
le paysage mort de

Pierre            tu m’as laissée dans la pierre
(l’enfer est nu de douleur)

ta main m’a tout appris ta main est un désert
ton souffle a tout conduit

il fait beau il fait beau sur la honte

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Gran parte della bellezza di questo componimento sta, io credo, nella litania tragica e infantile del terzo e dell’ultimo verso: «il fait beau il fait beau sur le manque/ il fait beau il fait beau sur la honte»: il terzo verso stabilisce il punto focale, l’ultimo spalanca il desertico orizzonte, dove non c’è che vuoto e vergogna.
Il ritornello doloroso e cantilenante di questi versi mi accompagna da quasi dieci anni: da quando, nel 2012, ho dovuto scegliere due poesie di Martine Broda da tradurre per la Revue Italienne d’études françaises e ho scartato questa che preferivo, perché non riuscivo ad accettare di tradurre quel «manque» con «mancanza», alterando – mi sembrava – l’equilibrio ritmico del componimento. Oggi trovo strano che una soluzione così semplice e lacanianamente intuitiva come quella qui adottata (manque/vuoto) non mi sia venuta in mente, e Lacan è un riferimento teorico importante nella poetica dell’autrice; d’altronde, non ci si stancherà di ripeterlo, la traduzione è anche soggettività traducente, e il pensiero, la maniera di ragionare di un soggetto mutano nel tempo.
Mi sono anche chiesta quanto opportuna potesse essere la scelta di tradurre «manque» con «assenza»: ma credo che sia il vuoto a plasmarsi e modellarsi su un’immagine, producendo il desiderio, quel vuoto che in Lacan rappresenta la “Chose”, laddove l’assenza è sterile, perché presuppone dicotomicamente un’unica possibile presenza. Inoltre il «vuoto» rimanda a qualcosa di esperibile sul piano sensoriale (il «senso di vuoto»), laddove l’assenza denota perlopiù uno stato di fatto. «Je remplis d’un beau nom ce grand espace vide», scrive Broda citando Du Bellay in un bellissimo saggio dal titolo L’amour du nom. Essai sur le lyrisme et la lyrique amoureuse (1997, inedito in italiano).
La poesia di Broda è condensata e sanguinolenta. Versi come «miroitant du perdu» scuotono il terreno delle categorie grammaticali, ed è il motivo per il quale ho lasciato questo frammento il più ellittico possibile, senza sciogliere il participio presente in una relativa, come da prassi traduttiva: quasi come un unico blocco minerale, cangiante ma impossibile da intaccare. A seguire, «le paysage mort de» potrebbe essere uno dei suoi molti versi troncati – un precipizio preposizionale che nasconde una ferita, un’amputazione – oppure completarsi in enjambement con «Pierre», la cui sola lettera maiuscola lascia intendere che si tratta di una persona e non di un’anticipazione della successiva «pierre».
Dopo Pierre, il vuoto, un bianco tipografico: il desiderio che scintilla di ciò che è perduto.

Come scrivevo nella nota di traduzione pubblicata sulla RIEF, la mancanza è al centro della poetica di Broda. Per lei la vera questione della poesia lirica passa attraverso l’invocazione di un «tu» che deve darsi come necessariamente mancante, perché è tale condizione a farsi produttrice di senso, come l’autrice stessa argomenta nel saggio già menzionato. Anche l’incontro – scriveva Michèle Fink nell’articolo Le haut lyrisme de Martine Broda, apparso su Critique nel 2003 – si manifesta solo tramite la sua trasmutazione in perdita. La lirica della mancanza, del vuoto, si rivolge «à la personne aimée, par moi inventée et vraiment fausse», come Broda dice attraverso Pierre Jean Jouve, autore del quale è specialista. Del resto proprio il primo verso di questo componimento, «Il fait beau sur», è ripreso da una poesia di Jouve (tradotta qui da Antonio Sparzani e Andrea Raos): «il fait beau sur les crêtes d’eau de cette terre», e poi «il fait beau sur le plateau désastreux nu et retourné»; versi in cui, come scrive l’autrice, il segmento «il fait beau sur» racconta il movimento di spersonalizzazione del desiderio – motivo ulteriore per non trasformare il «manque» in una più specifica «assenza».
In chiusura è stato quasi inevitabile scegliere il termine “onta”, di certo più ricercato della “honte” francese: ma le due dentali nel finale dei versi quasi gemelli (vuoto/onta) mi sembravano richiamare simmetricamente i bisillabi con suono nasale del testo di partenza (honte/manque), andando a sigillare il componimento.

Non siete stati ancora sconfitti: gli scritti dal carcere di Alaa Abdel Fattah

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di Giuseppe Acconcia

Tra le figure simboliche che hanno segnato le rivolte di piazza Tahrir del 2011 in Egitto, spicca l’attivista socialista Alaa Abdel Fattah. Non solo perché si tratta di un leader indiscusso del movimento, una figura di riferimento che fa paura al regime di al-Sisi tanto da essere stato condannato per l’ennesima volta a cinque anni di reclusione con l’accusa di diffusione di notizie false lo scorso 20 dicembre, ma perché continua a far sentire la sua voce critica anche in sua assenza. Non potendo più accedere ai suoi account Facebook e Twitter, Alaa ha gridato il suo dissenso questa volta con il libro “Non siete stati ancora sconfitti” (Hopefulmonster 2021, traduzione di Monica Ruocco, 272 pp, 23 euro), pubblicato anche a Londra da Fitzcarraldo. Il libro parte dai primi articoli pubblicati sulla stampa egiziana sul dibattito sulla nuova Costituzione da Alaa, in carcere in varie occasioni prima, durante e dopo le rivolte del 2011. Il racconto lucido del cronista si aggiunge a frammenti inediti dei cadaveri dei martiri, degli attacchi delle forze di sicurezza contro i manifestanti che dagli scontri del Maspiro alle proteste di via Mohammed Mahmud (2011) hanno segnato la sanguinosa transizione appena abbozzata in Egitto. Tra intense esortazioni agli attivisti di tutto il mondo a mostrare solidarietà per i movimenti sociali in corso nel suo paese e incredibili racconti dal carcere dove Alaa era costretto a “dormire per terra con otto compagni in una cella lunga quattro metri e larga due”, lo spirito del giovane attivista si forgia nella personalità di un rivoluzionario. Un intellettuale che confronta il movimento egiziano con quello tunisino, che critica le modalità con cui avvengono i dibattiti all’interno dell’Assemblea costituente, che critica l’esercito che ha preso in ostaggio lo Stato. Ma Alaa è anche un padre che non può vedere crescere suo figlio Khaled: “in mezz’ora mi ha dato così tanta gioia da riempire il tempo in carcere per una settimana”. La raccolta di scritti dal carcere continua con il racconto di Gaza in stato di assedio e i Tweet di Alaa nei pochi periodi di libertà a pochi giorni dalla grande manifestazione del 30 giugno 2013 che aprirà le porte al colpo di stato del 3 luglio 2013. E così l’attivista di sinistra non può che piangere la morte di Asmaa el-Beltagy, nonostante appartenga alla Fratellanza musulmana scrivendo: “la tua morte mi conforta perché, malgrado il trionfo della follia, la morte è ancora lucida e sceglie i migliori tra noi”. Con estrema chiarezza Alaa è stato capace di criticare l’uso indiscriminato della violenza da parte delle forze di sicurezza contro gli islamisti nel massacro di Rabaa al-Adaweya dell’agosto 2013 preconizzando un “futuro cupo” a causa del sangue versato con migliaia di morti. Le analisi politiche si concatenano a episodi di vita familiare tra la morte del padre, l’avvocato a guida del Centro Hisham Mubarak, Seif al-Islam, la madre Aida Seif el-Dawla sempre al fianco del figlio durante le udienze e alle porte del carcere, le sorelle Mona e Sanaa anche loro più volte arrestate. Quest’ultima è uscita dal carcere solo pochi giorni fa così come lo studente dell’Università di Bologna, Patrick Zaki, in attesa della prossima udienza. Tutti gli ideali della rivoluzione sono stati disattesi dalla giustizia sociale alla richiesta di diritti civili, dall’estensione delle proteste dal centro ai quartieri popolari, fino alla continua tortura nelle carceri e all’approvazione di leggi incostituzionali. E se la cella può diventare un incubatore di odio, per Alaa ha assunto tutt’altro significato come il luogo in cui elaborare la sconfitta, rivendicare il diritto di leggere e avere accesso alle informazioni, alla vita in ogni occasione, anche durante le udienze di fronte ai magistrati. “Per quanto mi riguarda da un decennio di rabbia ho appreso alcune semplici lezioni, la più importante delle quali è che ogni passo sulla strada della lotta o del dibattito all’interno della società è un’opportunità. Un’opportunità per capire, per fare rete, un’opportunità per sognare”.

Quattro romanzi: Dard, Carlier, Réal, Castellanos Moya

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di Gianni Biondillo

Frédéric Dard, Il montacarichi, Rizzoli, 2019, 139 pagine. traduzione di Elena Cappellini

Un uomo torna a casa dopo anni. Una casa vuota. La madre è morta da tempo, lui non ha più nessuno. Gira per il quartiere, è la vigilia di Natale, alla ricerca di vita. Decide di fermarsi al tavolo di un ristorante, qui incorcia una donna con sua figlia, tristi, in un momento che dovrebbe essere familiare, gioioso, condiviso. L’uomo, che si chiama Albert, riconosce in quella donna la sua stessa solitudine. Un po’ per caso, un po’ per volontà, passerà la serata con lei. Ma quello che succederà, l’incredibile sucessione di colpi di scena che conviene non svelare, cambieranno radicalmente la sua esistenza.

Frédéric Dard è considerato un maestro del noir francese. Il montacarichi è un romanzo che uscì oltralpe nel 1961. Bisogna riconoscere che i quasi sessantanni, dal punto di vista della scrittura, spesso ingenua, si sentono. C’è un pudore nei dialoghi, sopratutto nelle scene più erotiche o sentimentali, che oggi fa sorridere. Il Dard del Sanantonio più maturo, quello ironico impastato di argot, qui ancora non ha fatto breccia.

Ciò non toglie che la macchina narrativa non sia mirabolante. Il romanzo, mai come in questo caso, si legge davvero d’un fiato. Dard mette in scena una rappresentazione al limite dell’inverosimile, eppure precisa e ineluttabile, grazie a una attenzione maniacale dei particolari.

Quando Dard dimentica le emozioni e lascia che il racconto si sviluppi per immagini diventa imbattibile. Leggendo il romanzo sembra quasi di vedere un film del miglior cinema francese in bianco e nero. Il montacarichi ha tutti gli elementi e i meccanismi di un giallo classico ma la risoluzione e il mood sono già quelli del noir più fecondo. D’altronde i quattrocento titoli da lui prodotti nella vita stanno a dimostrare quanto Dard fosse una vera e propria macchina immaginativa al servizio del lettore.

Christophe Carlier, Saluti (poco) cordiali, Guanda, 2019, 176 pagine, traduzione di Luciana Cisbani

Forse è vero che finita l’estate, andati via i turisti, su un’isola non c’è molto da fare. Almeno così pare su quest’isola bretone, sferzata dal vento, dove con l’arrivo dell’autunno tutto pare pronto al letargo. Chissà, forse è stata questa la ragione che ha fatto spedire ad un abitante dell’isola una lettera ad un altro abitante dell’isola. Persone che si conoscono, che potrebbero chiacchierare tranquillamente al bar La Marine. Ma in un periodo in cui nessuno ormai conosce più l’arte della corrispondenza ecco che una delle sue più perverse derive riappare fragorosa: la lettera, insomma, è anonima. E non sarà l’unica. Con cadenza ineluttabile, abitante dopo abitante, chi più chi meno, riceverà la sua dose d’insinuazioni maliziose. Così, in un posto dove non succede niente, succederà di tutto.

Con Saluti (poco) cordiali Christophe Carlier sembra scrivere un saggio scientifico, illuminista. Mette in gioco i suoi piccoli, meschini personaggi e lascia che le buste anonime diventino le cartine di tornasole per raccontare la piccineria umana. L’isola è il suo laboratorio protetto, il luogo perfetto per un delitto a camera chiusa. Il crimine è la perdita di fiducia nel prossimo, la soffocante retorica della provincia, l’abisso che è presente in ogni comunità, anche piccina, anche graziosa.

Carlier scrive come se ci stesse raccontando una fiaba, no, di più: un apologo. La lingua è minimale, di puro servizio. Bastano i suoi pupazzi per la messa in scena. Che sianogiovani o anziani, uomini o donne nulla cambia. Là dove il mondo è perfetto, dove ci si conosce tutti, dove non capita mai niente, può bastare una busta anonima a far cadere la prima tessera del domino. L’effetto finale, sarà travolgente. E l’inverno, quanto meno, sarà passato.

Grisélidis Réal, Il nero è un colore, Keller editore, 2019, 277 pagine, traduzione di Yari Moro

All’apparenza sembra semplice raccontare questo libro: Il nero è un colore è l’autobiografia di Grisélidis Réal, la storia, cioè, di una ragazza inquieta che fugge da una Svizzera sonnolenta con due dei suoi quattro figli, per seguire l’amante in Germania. Qui, in una puntuale descrizione di come un essere umano possa sprofondare sempre più, conoscerà miseria, fame, stenti, clandestinità, accattonaggio, fino all’esito finale, quello della prostituzione.

Eppure neanche una riga del libro è affetta da rimorsi. Grisélidis, alla ricerca della sua libertà, con spirito antiborghese, rivoluzionario, libertario, racconta la prostituzione, la fuga dalla polizia, dagli assistenti sociali, il suo amore per i soldati afroamericani (al contempo clienti e divinità sessuali), la sua vita in un campo di zingari, gli incontri notturni con clienti perversi e violenti, la sua iniziazione allo spaccio di hashish, il suo viaggio picaresco in Marocco per procurarselo, l’inevitabile esito finale, quello del carcere, racconta tutto ciò senza mai prospettare una consolatoria morale d’emancipazione, di ritorno alla normalità borghese.

Quella di Grisélidis Réal è un’estetica punk alla quale è escuso il nichilismo. La sua voce è inebriante, erotica, eccessiva. È forse l’ultima vera esponente di una bohème fuori tempo massimo. La più allucinata, simbolica, spudorata. È difficile in realtà parlare di questo libro. Che racconta la libertà, la sessualità, la violenza, l’anelito di vita oltre ogni limite. È difficile capire come una ragazza colta, borghese, amante dell’arte, possa aver raggiunto tali livelli di abiezione, eppure tutto nelle sue parole è vero, potente, credibile. Il nero è un colore è un inno alla libertà, all’amore per la diversità, i dannati, i dimenticati, i difformi. Kitsch e sublime al contempo. Indimenticabile.

Horacio Castellanos Moya, La serva e il lottatore, Rizzoli, 252 pagine, traduzione di Enrica Budetta

La serva e il lottatore racconta un’ordinaria giornata d’inizio anni Ottanta a San Salvador. C’è Rita la Gorda, che gestisce una bettola nei pressi della caserma militare, servendo cibo a facce poco rassicuranti, sbirri che sembrano criminali. E c’è sua figlia Marilù, adolescente preda degli sguardi lascivi degli uomini. C’è El Vikingo, un ex lottatore, avanti negli anni e sfatto nel fisico, che puzza già di morto, ma cerca di nascondere le sue condizioni di salute continuando il suo sporco lavoro di torturatore. C’è El Chicharròn, obeso e violento componente di uno squadrone della morte. Ci sono Alberico e Brita, rampolli della meglio borghesia del paese, figli di ricchi imprenditori e illuminati intellettuali, di ritorno dopo anni di esilio a casa e subito rapiti per essere portati nel Palazzo Nero, dove verranno torturati. C’è María Elena, anziana domestica di famiglia che deve rassettare la casa dei due rampolli, per poi trovarla vuota, comprendendo subito che i due giovani sono stati rapiti. C’è sua figlia Belka, infermiera che non vuole saperne di politica né dei sermoni del vescovo Romero, pensa solo a trovare un lavoro migliore per mantenere la sua famiglia. E c’è suo figlio Joselito, il nipote di María Elena, un ragazzo poco più che adolescente, con troppi grilli per la testa e troppo attratto dalle sirene della guerriglia.

Un’ordinaria giornata di violenza irrazionale, gratuita, ferina, angosciante. La lingua di Horacio Castellanos Moya è asettica come il suo sguardo sulla guerra civile salvadoregna. È uno sguardo anestetizzato dall’orrore. Ogni personaggio porta con sé una colpa, comprese le vittime. Ogni protagonista una ragione, compresi i carnefici. Tutti sono pupi nel grande teatro dell’assurdo di una America Latina metafora del buio dell’umanità.

(pubblicati precedentemente su vari numeri di Cooperazione nel 2019)

Elogio della perdita: Scompartimento n°6 (Hytti Nro 6) di Juho Kuosmanen

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di Daniele Ruini

Lo spirito diventa libero soltanto quando cessa di essere un appoggio
(Franz Kafka, Aforismi di Zürau) 

“Dobbiamo conoscere il passato per sapere chi siamo”: è questo un adagio che sentiamo ripetere più volte durante Scompartimento n°6, secondo lungometraggio del regista finlandese Juho Kuosmanen, vincitore del Grand Prix all’ultimo Festival di Cannes. Tuttavia, il film –ispirato all’omonimo romanzo di Rosa Liksom– sembra funzionare come una smentita dell’assunto di partenza: se alla fine del suo lungo viaggio in treno Laura, la protagonista interpretata da Seidi Haarla, avrà raggiunto un nuovo livello di consapevolezza, sarà proprio perché avrà imparato a prendere le distanze dall’immagine passata di sé stessa.

Ambientato alla fine degli anni ’90 (a un certo punto si cita Titanic), ovvero una decina di anni più tardi rispetto al romanzo di Rosa Liksom, Scompartimento n°6 racconta l’improbabile incontro tra la finlandese Laura e il russo Ljoha (Yuriy Borisov), costretti a convivere per alcuni giorni e alcune notti nello stesso scompartimento ferroviario lungo la tratta Mosca-Murmansk (città dell’estremo nord-ovest della Russia, al confine con la Norvegia). Turbata dall’incontro con il suo compagno di viaggio –un trentenne piuttosto burbero, sciatto e volgare–, Laura cede inizialmente allo sconforto: ma se il tentativo di trovare un’altra cuccetta si rivela vano, la tentazione di tornare a Mosca durante la prima sosta del treno a San Pietroburgo viene respinta dopo una telefonata deludente alla sua fidanzata, Irina (Dinara Droukarova), una professoressa di letteratura più grande di lei che l’ha accolta nella sua casa moscovita. L’amore tra le due donne, che vediamo insieme all’inizio del film, è turbato dall’evidente senso di inferiorità di Laura verso la compagna intellettuale, e dal fatto che Irina, presa dal lavoro e dalle sue tante conoscenze, non sembra disposta a concedere all’altra uno spazio davvero rilevante nella sua vita. Lo capiamo dalla malinconia con cui Laura sale sul treno per un viaggio a cui avrebbe dovuto partecipare anche Irina, la quale tuttavia vi ha dovuto rinunciare per impegni di lavoro. E durante il film, man mano che la diffidenza e la repulsione iniziali di Laura per Ljoha si trasformano in comprensione e tenera vicinanza, ad aumentare sarà la distanza tra Laura e Irina, che risponde sempre freddamente e distrattamente alle poche telefonate che la giovane fidanzata riuscirà a farle. A questo proposito, come ha dichiarato lo stesso regista, il fatto che la vicenda si svolga in un’epoca pre-cellulari e pre-smartphone costituisce un elemento decisivo: e non solo perché ciò determina un autentico vuoto tra persone fisicamente distanti, ma anche perché consente di arricchire il viaggio della protagonista di tutti quegli imprevisti –seccature, disagi, frustrazioni, ma anche aperture e incontri inattesi– di cui la tecnologia ci ha ormai in gran parte privato.

A questo proposito, al di là della descrizione dell’affettuosa amicizia tra due anime in cerca di sé stesse, il vero tema del film sembra essere proprio la celebrazione dell’imprevisto, che acquista un valore considerevolmente più rilevante rispetto all’evento programmato o atteso. Ecco allora che il fugace incontro tra Laura e un altro ragazzo finlandese salito per una breve tratta sullo stesso treno, un incontro che –contrariamente a quello con Ljoha– si preannunciava come improntato alla più grande cordialità (gli scambi tra i due sono gli unici dialoghi del film in finlandese), lascerà alla protagonista l’amaro in bocca. Così come una patina di delusione sembra derivare a Laura dal faticoso raggiungimento della meta del suo viaggio, ovvero gli antichi petroglifi di Murmansk. Tuttavia in entrambi i casi qualcosa lo si è comunque guadagnato: se il furto della telecamera subìto dal giovane finlandese, che priva Laura dei suoi ricordi moscoviti, sembra in realtà alleggerirla di una parte di sé forse troppo ingombrante, il modo con cui, grazie a Ljoha, Laura è riuscita a raggiungere l’impervia regione dei petroglifi le hanno regalato una giornata di avventurosa immersione in una dimensione sospesa fuori dal tempo. Tra l’altro la scena che vede i due protagonisti giocare in mezzo a una tempesta di neve richiama uno dei film più celebri di Eric Rohmer, Ma nuit chez Maud (La mia notte con Maud, 1969): il colbacco indossato da Laura fa infatti pensare a Maud che, sul Puy-de-Dôme innevato, flirta col personaggio interpretato da Jean-Louis Trintignant. D’altra parte la citazione non sembrerebbe davvero casuale: anche nel film di Kuosmanen si racconta di un amore solo sfiorato che rappresenta, allo stesso tempo, una relazione rivelatoria in grado di aprire nuove prospettive.

Se il viaggio al centro del film permetterà quindi a Laura di prendere la giusta distanza dal suo recente passato, anche Ljoha, diretto a Murmansk per lavorare in una miniera, non uscirà indenne dall’incontro con la ragazza. Evidentemente bloccato in una figura stereotipata –lo sbruffone dedito all’alcool, che vive di espedienti e inneggia alla grandezza della Russia che è stata capace di sconfiggere i nazisti[1]–, Ljoha nasconde dietro la sua malinconica irrequietezza da sbandato il bisogno di un autentico contatto umano. E non sorprende che l’unica figura amica che può vantare sia un’anziana signora che vive in un villaggio vicino a Petrozavodsk (città in cui il treno si fermerà per una notte intera), e in casa della quale riuscirà a portare la recalcitrante Laura. Perché egli insiste tanto a volerla condurre dalla sua amica sarà chiaro quando le due donne rimarranno da sole a bere e la più grande consegnerà a Laura una raccomandazione tanto semplice quanto rivelatrice: quella di obbedire sempre al suo animale interiore.

Grazie ad una recitazione intensa, amplificata da una macchina da presa spesso addossata agli attori, Scompartimento n°6 accompagna lo spettatore in un percorso di spaesamento in cui si incrociano solitudini, miserie e desideri. E il tutto sotto lo sguardo di un’altra anima inquieta cara agli amanti di cinema, ovvero Marilyn Monroe; appartiene infatti a lei la frase citata da Irina all’inizio del film e che può fungere da epigrafica chiave di (in)comprensione di tutta la vicenda: «Only parts of us will ever touch only parts of others». È con queste tangenze momentanee, sembra volerci suggerire il regista, che dobbiamo fare i conti: avere il coraggio di seguire il proprio animale interiore può essere l’unica strada per riuscire a perdersi e a ritrovarsi.

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[1] Un “precedente storico” che è ancora «fondante dell’attuale identità della nazione russa» e «che ha assunto elementi di culto tali da divenire una sorta di religione civile» (Adriana Castagnoli, Vladimir Putin e l’immagine di zar buono e forte, in «Domenica, IlSole24ore», 12/12/2021, p. VIII).

Gianni Celati [1937-2022] “Mondonuovo”

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12.53
Ci sono quelli che scrivono i romanzi per riraccontare il passato e dicono “La signora entrò alle cinque e in quel momento il fattore le disse… eccetera… eccetera…”. Ecco quelle lì sono le cose più tremende che ci sono al mondo… e proprio ti fanno… non si riesce neanche a immaginar più niente.

13.32
Ci sono delle storie che valgono solo per quello che non è immaginabile e… le storie valgono di più se… se sono… se c’è tutto un in… non immaginabile che sta dietro le parole e le cose. Perchè credo che sia quello il regno dei narratori: quello che non è immaginabile. Quello che uno non ti può far vedere. Nello scrivere delle cose del genere, a partire da questo punto di vista, cominci a sentire un’altra storia al contrario e cioè che l’inimmaginabile è dappertutto intorno a noi.
Non credo per niente a quelle cose che la gente… che si chiamano testimonianze e non credo per niente alle memorie ufficiali e non credo all’identità locale, la lascio… quella la lascio per degli altri. E non credo all’appartenenza a un territorio e non credo alle cosiddette “radici” e mi dispiace dirlo.

GIANNI CELATI

Prima di morire

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Foto di Max Andrey da Pexels

di Fausto Paolo Filograna

“Posso dubitare che questo colore si chiama “blu”? C’è forse solo un ordine per le mie parole, ed è questo. Quando stavo bene vorticavano nella mia testa senza forma. Ora Wittgenstein le ha messe così, o forse sono stato io. Non lo so più. Forse mi sono sbagliato, ma anche i miei errori ora hanno creato un sistema. E se qualcosa è sbagliato, be’.

Stavo terminando di leggere le Ricerche filosofiche quando ci prendemmo la mamma malata e ce la portammo in casa. Come ogni cosa importante furono i sogni ad anticipare questo fatto (o questa frase, non so ancora se fu un fatto o una frase la malattia di mia madre), e a seguirla: i fatti, quelli davvero importanti, si pensano poco o quasi niente; tuttavia li sogniamo di continuo e questa è la decadenza della mia e nostra memoria. Quasi per sbaglio, come si entra sbadatamente nella porta di casa propria senza guardare dentro, come non si fa caso alle chiavi che si tengono in mano (se si inciampa in una frase, in un mobile troppo vicino alla porta che si conosce troppo bene?) la andammo a prendere in macchina io e mia moglie. Come mi guardavano, ora, le Ricerche filosofiche in copertina sbiadita, poggiate sul cruscotto come terzo passeggero… Dovevo apparire ridicolo nella mia camicia sbottonata e sudata, a guardarmi da lì; non più ridicolo di chiunque altro, senz’altro, e poi… ero io quello? Con addosso una camicia di mio padre, per non aprire le valigie ancora chiuse dall’imminente trasloco di me e mia moglie nella nostra nuova casa.

Del viaggio di andata, dottore, non ricordo nulla, se non l’equilibrio dell’auto sulle corsie dell’autostrada. Non ricordo nemmeno chi guidasse, anche se so che ero io (io lo so, dico, senza pensarci ma con una certezza enorme, ma come posso esserne così sicuro, chi mi ha convinto, di chi è che mi sto fidando, Vergine Maria?).

Del viaggio di ritorno invece ricordo solo gli occhi liquidissimi, omerici e stampati di Wittgenstein sulla copertina delle Ricerche che mi guardavano dal cruscotto. Forse scrutavano mia madre sul sedile di dietro, e il suo viso che girato verso sinistra sul finestrino, anche nel moto apparente della macchina sembrava squadrare ogni problema di lato, conscia del fatto che tutto quel movimento e quella velocità non le costava nessuna fatica e non toccava nemmeno a lei mantenerla; e infine il silenzio di Caterina – gli occhi di Wittgenstein, dico, come due biglie in un acquario blu: il viaggio era lungo, e per questo, e per la sua intelligenza suprema e la sua importanza nella tradizione filosofica ecc… speravo che in essi si formulasse un’ipotesi sulla mamma, su chi fosse esattamente quella lì dietro dopo la malattia; eppure in essi non  notai nulla, se non un contrasto indicibile con la primavera che faceva gesti di nascere intorno a noi, a due passi eppure così misteriosa nel suo involucro di gelo e fango. Ricordo nulla, in fondo. Nulla. Accucciato tra le mie mani sul volante, ferito e sano, conscio eppure stordito, dormiente e eccitato come un baco; guidavo, e l’essere dentro di me si sentiva come se fosse nella stiva di una nave, dondolato a sua insaputa nel mare calmo della malattia.

Così, giunti a metà di quella che ormai è solo la nebbia della mia geografia interiore, posso solo fare ipotesi sul luogo che attraversavamo, solo per darla a lei come un regalo in questo testo, e farla sentire seduta al centro del mio male, sulla polvere dell’asfalto; ipotesi basate sui terrapieni che nella nebbia facevano da confine dell’autostrada e sparivano come se a divaricarli fosse la nostra auto. Forse in tutto ciò la mamma parlò tutto il tempo, rendendomi tutto ancora più confuso di quanto non sembri, ma a me cosa importa… Il paesaggio attrae tutto, e ad esso si fonde anche il tono generico della gola della mamma a cui non badavo più, ma che ora attraversa le mie orecchie come un lamento troppo cristiano, cordiale, monastico, conventuale, ipocritamente vaticano, ovvero il suono che fanno le malattie quando sono percosse dal vento, una cosa italiana: sì, no, dicevano queste voci, sì e no insieme, nel loro tono falso e anfibio come quello dei giocattoli, fondendosi al suono maschio del carburatore e a quello della radio, che avevo acceso per pensare meglio alla sua nuova natura, mentre la sua voce risaliva i miei timpani come una colonna di formiche la mia verticale fisiologia. Oh Maria Vergine, più parlo della natura e più questa mi si confonde. Più parlo di lei (della mia mamma) e della natura e più queste mi si confondono insieme. È questo che mi angosciava, dottore. La mano della natura mi entrava dagli occhi e mi toccava i neuroni, e dalle orecchie invece mi entrava la mano della mamma e io, fior fiore dell’intelligencija italiana, le sentivo intrecciate nel cranio senza saperle distinguere. Perché due sono le mani, ma una sola è, per ora, la mia testa.

La primavera cresce e si prende la mamma, pensai, attorcigliando il mio pensiero allo sciabordio delle ruote. La natura quasi primaverile che ci sfilava ai lati dell’autostrada. I terrapieni. I fiori dei pioppi predisposti alla diffusione.

Poi quando ci fermammo a lato, forse per un’urgenza, tutto il paesaggio si condensò nella mia mente e si concretizzò sul faccino di una volpe che vidi rintanata sopra un terrapieno, riparata nei cespugli a qualche metro di altezza da noi, scura e distante. Bella era, soprattutto perché non ne avevo mai vista una di giorno ma solo di notte. Avevo già letto che fossero piccole, ma quando lo vidi, be’. Dicevo, era accucciata e rivolta verso uno dei tanti cespugli sul lato destro dell’autostrada, con la schiena alta, arcuata come i denti di una forchetta e il faccino e il muso verso il cespuglio, timida ma al contempo incuriosita da qualcosa. Mentre la guardavo il suo piccolo sistema nervoso analizzava milioni di odori, guardava in un tenue bianco e nero un universo senza colpe, forse una cucciolata di gattini lasciati lì temporaneamente da una gatta randagia, e per lei piccoli e grandi fa differenza solo perché i piccoli sono più semplici, non certo perché sono innocenti, senza peccato, senza disordine. Sicuramente era lì dopo aver fatto qualche saltello, e infatti le sue zampe posteriori, rizzate più delle anteriori, erano ancora tese e esprimevano la danza e lo sforzo dei momenti prima. Solo un attimo, credo, si girò dalla mia parte, e ho visto le ciliegie degli occhi, anche se non ero io a interessarle, né noi della macchinata. Se no, avrebbe visto tre persone in macchina, tre poverini, fermi a lato per la quarta volta, nel bel sole del Norditalia, dottore. Uno sportello che si apre come la porta di un forno. Avrebbe visto una faccia che spunta in basso, non da un cespuglio ma dallo sportello di una macchina. L’avrebbe vista spalancare la bocca – e son sicuro che la bocca la riconoscerebbe perché gli occhi sono occhi dappertutto e significano viso, anima, anche per gli animali – spalancare la bocca e tirare una striscia di vomito in fuori con un piccolo urlo. Uno scoppio di fucile in lontananza. E poi lo sportello che si richiude. E poi la mamma rientrare. Nient’altro, di suo interesse; di ciò avrebbe capito ben poco, se non dei quattro merli, che prima ancora che ripartissimo si fiondarono sulla pozza di vomito lasciato dalla mia mamma, becchettandone i bordi, e iniziando a bisticciare tra loro mentre altri due arrivavano da lontano con lo sguardo appuntito, solleticando il suo interesse ancora in volo. Li vidi nel retrovisore. Il muso della volpe fece una U nel cielo per seguirli, tre o quattro volte quanti erano loro. Finché non dovettero volare via, e la volpe non lo so, che fine ha fatto. Forse il bordo strada era troppo anche per lei. Ciò avviene nel silenzio, nel paesaggio stepposo e verde scuro sopra la congrega degli uccelli, dove la nostra auto aveva impedito alla polvere di depositarsi per qualche momento; e a nulla serve aggiungere adesso il rumore di macchine (anche questo lo so, che c’era, ma come?), lasciamolo così. Senza niente.

Mi chiedo infine se quella piccola volpe avesse guardato la mia mamma, forse. Magari l’avrebbe guardata come si guarda il proprio fratello? Come si guarda l’unico ulteriore animale in un deserto di pietre? Volpe a volpe nella devastazione del mondo, o come i due ladroni in croce ultimi rimasti di questo mondo distrutto. Avrebbe notato quanto di germogliante, di erbaceo, di metabolico e di nutriente stava accadendo dentro di lei da tempo? No ripeto, non c’è dettaglio che ha senso aggiungere. Basta.

Com’è che puzzi di vomito, eh, ma’? Ho detto. Proprio ora che ti portiamo al Nord? È vero che la portavamo verso Nord. A te fa schifo il Nord. A te il Nord fa schifo non perché è il Nord, ma’. A te fa schifo il Nord perché tu vuoi morire a casa come la nonna. E lei poi è non è neanche morta a casa. E il tumore ce l’aveva al pancreas, lei. Altra roba. Altra riabilitazione. Sopravvivenza. Pensavo alla mamma prima, poi adesso. Ancora provo forte colpa, forte colpa per una frase che le dissi sicuramente, perché non l’ho mai dimenticata: anzi, ne ho dimenticato la forma, ma la sostanza era: che c’era tempo per vomitare a casa, quando non disturbava nessuno. Ma tu continui a fare di testa sua. Tu continui a fermare tutto. Se avessi saputo quanto avrei pensato in seguito non le avrei detto così, e se avessi saputo quante cose sporche avrei tenuto nella testa dopo l’avrei cominciata da allora a tenerla pulita, e forse è per questo che sogno spesso di bucarmi il cranio, e mi sa che l’ho bucato ed è da lì che parlo. Credo che, non so se prima o dopo, mi disse di fermarmi ancora perché voleva prendere il suo fazzoletto che era nel cofano. Proprio quello ti serve, eh? Dovetti dirle. Voleva il suo, quello col ricamo a uno degli angoli. Perché devi farmi arrabbiare già prima di arrivare, ma’? Almeno fai in fretta, ho detto. Almeno fai in fretta, ho detto. E ne ho approfittato per riposare il piede della frizione, è vero, l’ho detto a Caterina e lei mi ha detto: riposato? O forse non hai fatto in tempo, forse non c’è stato il tempo? No, certo, chiaro che se ci fosse traffico sarebbe un’altra storia. Ma sembra che siamo soli stamattina.

Pensavo ad Arturo Belano, in macchina nel romanzo di Roberto Bolaño. Lei dottore non lo sa di sicuro, ma neanch’io lo sapevo prima. Arturo Belano attraversava spavaldo il deserto Sonora per ritrovare una poetessa scomparsa, la famosa Cesárea Tinajero, che forse non era mai esistita, chissà, ma forse per questo era da ricostruire, come una funzione della mente che non si è mai avuta, o una lingua o un ponte su un fiume che non si è mai visto o una volpe scorta in una pietraia. La ricostruzione in quell’anima libresca che avevo letto pochi mesi prima, in questo brano, ecco, le faccio vedere dove ce l’ho scritto, sta qui, ecco, che dice con queste parole del suo ultimo viaggio che mi spiegano bene:

E quando fecero il nome di Cesárea io alzai gli occhi e li guardai come se li vedessi attraverso una tenda di garza, garza da ospedale per essere esatti e dissi non mi chiamate signore, chiamatemi, non mi ricordo come mi dovete chiamare

e poi

…E come ci sono donne che vedono il futuro io vedo il passato, vedo il passato del mondo quando non ero morta ma per questo neanche viva, e vedo la schiena di questa donna che si allontana dal mio sogno, e le dico, dove vai, Cesárea? dove vai, Cesárea Tinajero…

Così dal suo fazzoletto la vedevo nel retrovisore, mentre si puliva il naso, trasformata in un reticolo col fazzoletto tutto sulla faccia. A volte mi chiamava senza toglierselo dalla bocca, per poi dirmi niente. Hai chiamato, ma’? No no. E allora sono pazzo. Il mio stomaco è nel profondo di una stiva.

Ora mi chiedo solo: quand’è che hai smesso di accettare qualunque fazzoletto e hai ostinatamente voluto il tuo? Poi lo laviamo, ma’, anche se è il mio, anche se è quello di papà. Macché. Macché. Vuole il suo. A casa vomiterai. Ma quale casa? C’è una casa dove va bene se vomito? Dove si mettono i malati non troppo gravi e non troppo in salute? Il mio fazzoletto perché non voglio che mi si screpoli la pelle, fa ancora freddo mi pare che disse per farmi chiudere i finestrini – e altre cose, disse. Ma no, ma no, che dici, ma’, quale freddo, dissi.  Si riparava col fazzoletto.

Qualche uccello lo vedemmo ancora, forse che andava verso la pozza da cui la mamma stava dando da mangiare ai merli. Forse avevamo fatto non più di due chilometri, ma una cosa che c’è, c’è ovunque tu sia. La mamma è un’altra cosa, mi sa. E poi la portammo come una cosa, come quel che rimane di una cosa perché mi pare che c’era altro dentro di lei, c’era qualcosa in qualcuno di cui mi sono accorto solo ora. Forse al termine del viaggio fu solo una donna visibile solo attraverso un fazzoletto per il naso.

Quella sera stette male e a me venne la febbre. Sognai le falene attorno a una luce spenta.

Lo sberleffo di Badiucao: come bucare il bavaglio cinese

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La Cina (non) è vicina BADIUCAO – opere di un artista dissidente

di Daniele Ruini

True democracy begins
With free confession of our sins
(W.H. Auden, New Year Letter)

Che l’aria che si respira in Cina non fosse particolarmente salubre lo si sapeva già: basterebbero a dimostrarlo le notizie delle ultime settimane. Dagli sforzi ufficiali del presidente Xi Jinping per aprirsi la strada verso un terzo mandato, alle provocazioni militari ai danni di Taiwan (della cui possibile riunificazione alla Cina è tornato esplicitamente a parlare lo stesso Xi Jinping), fino alle recenti elezioni per il Consiglio legislativo di Hong Kong nelle quali Pechino ha avuto gioco facile nel far vincere tutti i seggi a disposizione ai candidati più vicini al regime. Per non parlare dell’aggressività commerciale della Repubblica Popolare, accresciuta dopo lo scoppio della pandemia, o del mai sopito nazionalismo, ormai pronto a sfidare ad armi pari il gigante americano.
Ma per entrare nel corpo vivo del regime cinese il pubblico italiano ha a disposizione –almeno fino al 13 febbraio 2022– un’occasione da non perdere: mi riferisco alla bellissima esposizione dedicata all’artista cinese Badiucao La Cina non è vicina, allestita nel Museo di Santa Giulia di Brescia per la cura di Elettra Stamboulis.

Nato a Shangai nel 1986 e noto con lo pseudonimo di Badiucao, questo artista-attivista si è fatto conoscere soprattutto attraverso il suo account Twitter, con il quale diffonde le sue opere cercando di tenere desta l’attenzione sulle politiche repressive del governo cinese. Ciò che muove tutta la produzione di Badiucao –che contempla quadri, poster, sculture, ready made, video, affissioni e performance in luoghi pubblici– è infatti una vera e propria ossessione: ovvero fare di tutto per mantenere viva la memoria dei molti lati oscuri del Comunismo cinese. Una delle opere più eloquenti visibili a Brescia, intitolata non a caso Legacy, ritrae per esempio i grandi leader comunisti –da Mao Zedong a Xi Jinping, passando per Deng Xiaoping, Jiang Zemin, e Hu Jintao– come dei veri e propri compagni di merende. E sia il padre della Cina comunista sia l’attuale presidente sono fatti oggetto di varie forme di dissacrante irrisione: dalla rappresentazione di Mao come un felino che recide con i denti il filo penzolante di un mouse, a Xi Jinping che abbatte con un fucile l’orsetto Winnie the Pooh (la cui immagine è censurata da alcuni anni in Cina a causa dei meme che ne hanno fatto l’alter ego del presidente).

È importante sapere che La Cina non è vicina è la prima mostra monografica mai dedicata –almeno in Occidente– a Badiucao: un precedente tentativo era stato fatto a Honk Kong nel 2018 ma, a pochi giorni dall’inaugurazione, l’esposizione era stata cancellata a causa delle minacce che avevano raggiunto sia la sua famiglia in Cina sia lo stesso artista, che da una decina di anni vive in Australia. Dopo quel fatto Badiucao ha deciso di rinunciare alle maschere che utilizzava per celare la sua identità e ha scelto di mostrare apertamente il suo volto; e la data scelta per farlo, il 4 giugno 2019, non è stata certo causale, trattandosi del trentennale dei fatti sanguinari di Piazza Tienanmen. La consapevolezza circa la pochissima conoscenza che la sua generazione aveva del massacro compiuto dal governo cinese nel 1989 è stata proprio ciò che ha spinto Badiucao ad iniziare il suo percorso di artista dissidente: d’altra parte i fatti di Piazza Tienanmen, che la Cina ha sempre continuato ad avvolgere in una cortina di fumo– coincidono con il momento in cui il Paese ha iniziato un’apertura verso l’economia di mercato imponendo, in cambio, ai propri cittadini di evitare di occuparsi di politica.

L’attualità della critica di Badiucao, così come la continuità della censura governativa, sono dimostrate dalla reazione stizzita della Cina per la mostra bresciana: l’ambasciata italiana della Repubblica Popolare ha infatti inviato, lo scorso ottobre, una lettera ufficiale al comune di Brescia chiedendo la cancellazione dell’esposizione. Secondo l’ambasciata, «le opere in mostra sono piene di bugie anti-cinesi, distorcono i fatti, diffondono false informazioni, fuorviano la comprensione del popolo italiano e feriscono gravemente i sentimenti del popolo cinese mettendo in pericolo le relazioni amichevoli tra Cina e Italia». Fortunatamente il comune non si è fatto intimidire, e ha rivendicato il diritto all’accoglienza degli artisti dissidenti in nome del valore supremo della libertà di espressione. D’altra parte la mostra fa parte della quarta edizione del Festival della Pace, che nel 2019 aveva dato spazio all’artista curda di nazionalità turca Zehra Doğan, incarcerata tra il 2017 e il 2019 in quanto accusata dalla Turchia di “propaganda terroristica”.

Allievo di Ai Weiwei, un ritratto del quale possiamo vedere nella mostra, Badiucao affronta i molteplici aspetti in cui si dispiega la censura cinese, allargando lo sguardo anche alle ingiustizie che avvengono in altri paesi come il Myanmar e concentrandosi in particolare sulla situazione delle rivolte di Honk Kong, a sostegno delle quali l’artista si è speso in prima persona. La denuncia della repressione del dissenso tocca poi la persecuzione da parte del governo cinese della minoranza turcofona e musulmana degli Uiguri, stanziata da millenni nella regione dello Xinjiang; e non risparmia nemmeno i fatti più recenti legati alla pandemia: alcuni poster ironici mostrano il modo in cui, in nome dello slogan “Silence is Health”, il governo cinese avrebbe tenuto a bada il Covid.
Tra i pezzi forti presenti a Brescia si possono citare l’inquietante ritratto –utilizzato come poster della mostra– in cui Badiucao ha sovrapposto il volto di Xi Jinping a quello di Carrie Lam, la Chief Executive di Honk Kong colpevole di aver provocato le proteste del 2019 con la sua proposta di legge per rendere più agevole l’estradizione verso la Cina; o la Tiger Chair, una tradizionale sedia di tortura usata dal regime che l’artista ha modificato facendola apparire coma una sedia a dondolo. E oltre alle già citate opere dedicate a Mao, caratterizzate dal colore rosso acceso e da un’estetica pop che rimandano allo stile iconografico adoperato dalla propaganda cinese, si segnalano i geniali poster di finta pubblicità delle prossime Olimpiadi invernali –evento di cui Badiucao promuove il boicottaggio– liberamente scaricabili in rete.

Ma il cuore pulsante della mostra, quello in cui si possono davvero percepire le ferite inflitte alla società cinese dalla Repubblica Popolare dell’Amnesia (come si intitola un libro della giornalista Luisa Lim dedicato a Piazza Tienanmen), è certamente rappresentato da tutte quelle opere che si sforzano di tenere viva la memoria degli oppositori che hanno pagato con la vita la loro dissidenza. Parliamo del premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, morto nel 2017 in regime di detenzione, e di sua moglie Liu Xia, tuttora costretta agli arresti domiciliari dopo aver fatto visita al marito in prigione. O di Li Wenliang, il medico di Wuhan che per primo lanciò l’allarme sul nuovo Coronavirus, andando incontro alle reprimende del governo e morendo poi di Covid a soli 33 anni. Centrale, in questo, è anche il documentario del regista australiano Danny Ben Moshe che accompagna la mostra e che ci permette di cogliere i motivi profondi che hanno attivato l’arte di Badiucao: dal ricordo del nonno, morto in un campo di lavoro all’epoca della Rivoluzione Culturale, all’incontro tra l’artista e uno degli attivisti che presero parte alle proteste di Piazza Tienanmen durante le quali perse le gambe (maciullate dai cingoli di un carro armato dell’Esercito Popolare di liberazione). Proprio i fatti del 4 giugno 1989 e il loro occultamento costituiscono l’assillo personale di Badiucao, che ha elevato a proprio feticcio il Rivoltoso Sconosciuto (il cosiddetto Tank Man) che ebbe il coraggio di opporre il proprio corpo ai carri armati delle milizie mandate a sedare la rivolta; è il gesto di quell’uomo, che l’artista cinese ha omaggiato in video e fotografie ambientate in varie città del mondo, a continuare a guidare la mano di Badiucao: affinché l’oblio non spenga la sete di verità.

Mots-clés__Tacchi

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Tacchi
di Elisa Ghia

The Rolling Stones, Hi-Heel Sneakers -> play

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ph. Frank Horvat, “Shoes and Eiffel Tower”, Paris, 1974

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Da Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, trad. Martina Testa, Roma, SUR, 2019

Carole arriva alla sede della banca, affacciata sul fiume, dove è stato chiaro fin dal suo primo giorno di lavoro che ci si aspettava si presentasse tirata a lucido come le sue controparti delle serie tv americane sulle avvocate, le politiche e le ispettrici di polizia
donne che miracolosamente passano la loro giornata di lavoro dentro gonne strette da bondage e scarpe coi tacchi vertiginosi e destabilizzanti dentro cui i piedi sembrano infilati a forza
le zone erogene fatte di muscoli contratti e ossa bloccate, avvolte in calzature da spogliarelliste d’alto bordo
e se deve menomarsi in questo modo per segnalare la sua istruzione, il suo talento, la sua intelligenza, le sue capacità e il suo potenziale come leader, così sia

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Come il Sole s’impigrì

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Scrive il domenicano lionese Guglielmo Peraldo, (citato nel capitolo dedicato all’accidia del bel libro di C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali, Einaudi, Torino 2000, p. 90), vissuto intorno alla metà del XIII secolo e autore di uno dei più diffusi manuali medievali di vizi e virtù, la Summa virtutum ac vitiorum, che un grande esempio di operosità è dato innanzitutto dall’universo intero: in particolare dal Sole, che ogni giorno viaggia da Oriente a Occidente, e ogni notte torna indietro, non concedendosi mai un momento di riposo né in estate né in inverno, senza peraltro aspettarsi alcuna remunerazione per il suo lavoro. Un simile esempio deve indurre – secondo Peraldo – a rendere il vizio dell’accidia sommamente esecrabile.
Affermazione questa, del nostro buon domenicano, se mai ve ne fu una, il cui rovesciamento caratterizza il passaggio dalla scienza antica alla nuova scienza della prima età moderna. Il contenuto più autentico della prima rivoluzione scientifica, che ha preso avvio nel cuore dell’Europa nel corso del Rinascimento, può infatti essere visto come un sostanziale allargamento dell’idea di inerzia. E inerzia è appunto uno dei nuovi nomi che vennero dati, a partire da quest’epoca, al capitale vizio dell’accidia.
Il Sole dunque, secondo Peraldo, è quanto di meno accidioso si possa pensare, con tutta quella fatica del girare di giorno e di notte. Ma sarà sempre così? Non si stancherà egli forse di tutto quel correre? Ecco che nel 1543, l’anno della morte di uno dei grandi scienziati del mondo – il polacco Mikołaj Kopernik – e anche l’anno della prima pubblicazione a Nürnberg, presso Johann Petreius della sua opera fondamentale, il De revolutionibus orbium coelestium, qualcosa comincia a cambiare, come credo tutti ben sappiamo. Ma io vorrei che a raccontare questo rovesciamento fosse un altro grande, stavolta della letteratura italiana, sempre perché la letteratura, bisogna ormai convincersene, entra e interagisce, talvolta prepotentemente, nella scienza. Alludo a una delle più divertenti, oltre che istruttive, Operette morali di Giacomo Leopardi, intitolata appunto Il Copernico, scritta in forma di dialogo fra vari personaggi. Sentite come comincia:

L’Ora prima e il Sole:
Ora prima. Buon giorno, Eccellenza.
Sole. Sì: anzi buona notte.
Ora prima. I cavalli sono in ordine.
Sole. Bene.
Ora prima. La diana è venuta fuori da un pezzo.
Sole. Bene: venga o vada a suo agio.
Ora prima. Che intende di dire vostra Eccellenza?
Sole. Intendo che tu mi lasci stare.
Ora prima. Ma, Eccellenza, la notte già è durata tanto, che non può durare più; e se noi c’indugiassimo, vegga, Eccellenza, che poi non nascesse qualche disordine.
Sole. Nasca quello che vuole, che io non mi muovo.
Ora prima. Oh, Eccellenza, che è cotesto? si sentirebbe ella male?
Sole. No no, io non mi sento nulla; se non che io non mi voglio muovere: e però tu te ne andrai per le tue faccende.
Ora prima. Come debbo io andare se non viene ella, ché io sono la prima Ora del giorno? e il giorno come può essere, se vostra Eccellenza non si degna, come è solita, di uscir fuori?
Sole. Se non sarai del giorno, sarai della notte; ovvero le Ore della notte faranno l’uffizio doppio, e tu e le tue compagne starete in ozio. Perché, sai che è? io sono stanco di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono in su un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di non volere altra fatica per questo; e che se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i loro fuochi accesi, o proveggano in altro modo.

Sta diventando accidioso il Sole, non ha più voglia di fare tutti quei giri, vuole concedersi quei momenti di riposo che Peraldo menziona nel suo elogio. Anzi, il Sole progetta di non faticare assolutamente più, ed escogita a questo scopo un trucco straordinario: chiede alle Ore, sue essenziali collaboratrici, di andar a cercare un uomo che sappia far muover la Terra; che fatichi un po’ questa, ora, a girare attorno. E sguinzaglia dunque l’Ora Ultima, che chiami “il Copernico”, gli spieghi di che si tratta e quel che ci si aspetta da lui, e glielo porti davanti, senza tanti complimenti, per convincerlo. Il che avviene così:

Copernico e il Sole:
Copernico. Illustrissimo Signore.
Sole. Perdona, Copernico, se io non ti fo sedere; perché qua non si usano sedie. Ma noi ci spacceremo tosto. Tu hai già inteso il negozio dalla mia fante. Io dalla parte mia, per quel che la fanciulla mi riferisce della tua qualità, trovo che tu sei molto a proposito per l’effetto che si ricerca.
Copernico. Signore, io veggo in questo negozio molte difficoltà.
Sole. Le difficoltà non debbono spaventare un uomo della tua sorte. Anzi si dice che elle accrescono animo all’animoso. Ma quali sono poi, alla fine, coteste difficoltà?
Copernico Primieramente, per grande che sia la potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia grande tanto, da persuadere alla Terra di darsi a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; e darsi ad affaticare, in vece di stare in ozio: massime a questi tempi; che non sono già i tempi eroici.
Sole. E se tu non la potrai persuadere, tu la sforzerai.

Copernico oppone lunghe argomentazioni per rinunciare ad un incarico così gravoso, ma il Sole non si dà certo per vinto; così che Leopardi ne approfitta per dire la sua sulla rivoluzione copernicana.

Sole. Che vuol conchiudere in somma con cotesto discorso il mio don Niccola? Forse ha scrupolo di coscienza, che il fatto non sia un crimenlese?
Copernico. No, illustrissimo; perché né i codici, né il digesto, né i libri che trattano del diritto pubblico, né del diritto dell’Imperio, né di quel delle genti, o di quello della natura, non fanno menzione di questo crimenlese, che io mi ricordi. Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere.
Sole: Figliuol mio, coteste cose non mi fanno punto paura: ché tanto rispetto io porto alla metafisica, quanto alla fisica, e quanto anche all’alchimia, o alla negromantica, se tu vuoi. E gli uomini si contenteranno di essere quello che sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano: che essi ne staranno più consolati, e a me con questi loro giudizi non daranno un dispiacere al mondo. [ . . . ]

Ed infine, malgrado le ultime obiezioni di Copernico:

Copernico: Ma considerando solamente l’interesse vostro, dico che per insino a ora voi siete stato, se non primo nell’universo, certamente secondo, cioè a dire dopo la Terra, e non avete avuto nessuno uguale; atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in questo nuovo stato dell’universo avrete tanti uguali, quante saranno le stelle coi loro mondi. Sicché guardate che questa mutazione che noi vogliamo fare, non sia con pregiudizio della dignità vostra.
Sole: Non hai tu a memoria quello che disse il vostro Cesare quando egli, andando per le Alpi, si abbatté a passare vicino a quella borgatella di certi poveri Barbari: che gli sarebbe piaciuto più se egli fosse stato il primo in quella borgatella, che di essere il secondo in Roma? E a me similmente dovrebbe piacer più di esser primo in questo mondo nostro, che secondo nell’universo. Ma non è l’ambizione quella che mi muove a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l’amor della quiete, o per dir più proprio, la pigrizia. In maniera che dell’avere uguali o non averne, e di essere nel primo luogo o nell’ultimo, io non mi curo molto: perché, diversamente da Cicerone, ho riguardo più all’ozio che alla dignità.

Il mondo di Peraldo è crollato, l’accidia ha definitivamente contagiato lo stesso Sole.

Notate quante cose davvero sapesse il nostro Recanatese, sull’Universo e le stelle: del resto la sua prima opera erudita fu per l’appunto una assai accurata Storia dell’Astronomia, scritta nel 1813, a 15 anni.
[Per notizie un po’ meno fantasiose però forse anche meno divertenti, sull’argomento si può rileggere questo post che scrissi in occasione dell’invito a papa Ratzinger di tenere nel 2008 una lectio magistralis all’Università di Roma]