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Colonna (sonora) 2022

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di
Claudio Loi

2021. 15 DISCHI DA TENERE IN CONSIDERAZIONE

Anche quest’anno è arrivato il momento dei bilanci, di partecipare allo stupido giochino delle playlist che come al solito non serve a niente ma proprio per questo ci piace e ci diverte. E un po’ ci angustia e ci turba perché scegliere in un’infinita massa di produzioni discografiche è sempre un gran casino e poi dispiace togliere scegliere persino dimenticare. Ma queste sono le regole e questa è la cruda realtà della vita. Ecco quindi 15 bei dischetti in rigoroso ordine alfabetico che mi sembrano degni della massima considerazione e se vi avanza del tempo potete anche divertirvi a fare la vostra selezione della specie. Che dire? Buon ascolto, buona selezione e buon 2022 e se posso aggiungere un dischetto di ottimo new jazz (che clamorosamente quest’anno manca nella mia lista) acchiappate l’ultimo dei Sons of Kemet che è bellissimo è ha un titolo ancor più bello: Black to the Future!

Paolo Angeli. Jar’a (PA Records)
Dopo anni trascorsi a scrutare diversi orizzonti e a capire in che direzione andare Paolo Angeli è tornato al centro della sua isola dove ha ritrovato emozioni e sorprese. Si sa, la Sardegna è un mondo che nasconde tante emozioni che vanno riesumate con la certosina applicazione dell’esploratore impenitente. E Paolo Angeli questa attitudine ce l’ha ben radicata. Tutta la sua storia è un continuo avvicendarsi di scoperte e nuove ipotesi di creazione: dal suo strumento in continua evoluzione alla disperata voglia di riappropriarsi di una tradizione che talvolta sfugge, si nasconde, depista anche i più attenti studiosi della materia. Jar’a ci racconta proprio di questo periplo e di un ritorno a una terra che è storia di vicende millenarie ma anche evoluzione e superamento. Un disco gravido di emozioni, di sensazioni forti e tangibili e un manifesto di dialettica condivisione di umori, profumi, ricordi, animali e natura senza freni.

Big Red Machine. How Long Do You Thinks It’s Gonna Last? (Jagujaguwar)
Un progetto estemporaneo che nasce nella cantina di casa National grazie a uno dei due gemelli (Aaron Dessner) che ha trovato in Bon Iver un partner ideale. Già l’anno scorso Matt Berninger ci aveva stupito con un delizioso lavoro solista a significare che in quell’ensemble c’è gente molto seria. Il progetto Big Red Machine si sviluppa su un versante compositivo piuttosto classico: ballate di pop evoluto con grande risalto all’aspetto melodico ma con una prospettiva leggermente laterale. Diventano fondamentali in questo contesto le collaborazioni (Anaïs Mitchell, Fleet Foxes, Taylor Swift, Ilsey, Naeem, Sharon Van Etten, Lisa Hannigan, My Brightest Diamond) che rendono questo lavoro più strutturato e complesso di quanto non si aspetti e le composizioni tutto sembrano tranne divertissement dell’ultima ora.

Black Country, New Road. For The First Time (Ninja Tune)
Quando gli inglesi decidono di fare sul serio non c’è storia. Questo 2021 è stato un’esplosione di imberbi formazioni che hanno riportato alle cronache il vecchio e caro post-punk. Ora su questo termine ci sarebbe da disquisire a lungo. Il primo a usarlo mi pare sia stato Simon Reynolds e da allora viene ab/usato un po’ dappertutto, spesso senza ragioni valide. Quando Reynolds attaccò il post al punk per molti fu inteso in senso temporale ovvero quella ondata di creatività che segui alla deflagrazione del punk primigenio. In realtà – ma questo si è capito dopo – quel post andrebbe inteso come “oltre”, come superamento dialettico di uno stile, evoluzione di suoni e colori verso un nuovo sistema semantico che non si è ancora definito. E questi ragazzini sono la nuova svolta di questa piacevole rivoluzione. Tutti li aspettiamo per il secondo passo che ci confermerà quanto di buono traspare da queste canzoni.

Black Midi. Cavalcade (Rough Trade)
Anche questi giovanotti si divertono a riscrivere la trama del rock dei propri genitori con una strana, nervosa, instabile e frizzante proposta sonora. Pescano da diverse fonti: dal protopunk al metal passando persino nei territori infestati dal prog. Ci vuole coraggio e sangue freddo e anche una certa dose di perizia strumentale per affrontare questi viaggi ma li sostiene una sfrontatezza giovanile che nel rock è sempre stata carburante indispensabile. Anche in questo caso sarà il futuro a chiarirci meglio dove potranno arrivare ma questo presente è già abbastanza pieno di buone vibrazioni.

Vasco Brondi. Paesaggio dopo la battaglia (Cara Catastrofe)
Vasco Brondi ha trascorso molto tempo a Ferrara e si sa che da quelle parti le cose si fanno sempre molto seriamente. Pensate alla salama da sugo e tutto il tempo che ci vuole a prepararla e la cura nella scelta degli ingredienti e tutte le minuzie che vanno rispettate e così via. Anche il nostro caro Brondi ama fare le cose per bene e ci ragiona e ci rimugina, si prende i suoi tempi e solo quando il momento è propizio si fa sentire. Questa nuova operetta morale, pubblicata sotto forma di libretto con dischetto allegato, contiene 10 belle canzoni da ascoltare durante la lettura ma anche in perfetta solitudine o come preferite voi. Note a margine e macerie è il racconto di questa avventura musicale ma è anche il resoconto di una vita dedicata alla musica nella sua forma più sincera e passionale. “Dopo la battaglia c’è una pace incerta, piena di ferite e piena di sollievo. C’è qualcuno che chiama un nome tra le macerie, qualcuno che risponde”. E se le luci della centrale elettrica sembrano flebili fiammelle all’orizzonte ci consoliamo con il potere delle parole e della musica.

Dry Cleaning. New Long Leg (4AD)
La più bella sorpresa di questo 2021 è questo quartetto composto da solidi musicisti e da una voce che riesce a compattare le varie influenze dei singoli. Su una base elettrica e disfunzionale la voce di Florence Shaw si staglia lucida e impavida e racconta cose che tutti noi già sappiamo e proprio per questo diventano parametri di autorappresentazione universale. Uno spoken word che rimanda a tante altre cose, troppe per essere citate, tutte intrise di emozioni che arrivano da lontano. E in questo universo di citazioni e rimandi a piè di pagina ci si ritrova a sognare sempre lo stesso sogno in un loop emozionale che stordisce e lascia attoniti. Dal vivo la loro proposta è ancora più pregna di pathos e sembra quasi impossibile che tutto ciò sia possibile. Saranno il bastone della nostra vecchiaia? Quello a cui attaccarci quando sfiniti cercheremo riparo e supporto umano? Forse si forse no ma godiamoci questa meraviglia che nessuno si aspettava.

Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra. Promises (Luaka Bop)
Qualcuno tra i puristi ha storto il naso di fronte a questa improbabile commistione di storie, come se si trattasse di speculazione pseudo commerciale per racimolare qualche consenso. In realtà ci troviamo di fronte a una creazione che appare tanto sincera e coerente quando azzardata e coinvolgente. Pharoah Sanders è uno che ha scritto pagine gloriose di jazz contemporaneo, il suo sax ha attraversato le correnti più intransigenti della ricerca, ha flirtato con la tradizione, ha fatto i conti con i suoi fantasmi e con gli spiriti dell’inconscio. Non stupisce quindi trovarcelo in età avanzata a condividere la scena con uno dei più intelligenti sperimentatori della scena attuale e mettere a disposizione la sua esperienza in un progetto che spinge verso qualcosa di nuovo e inconsueto. La materica rappresentazione del jazz di Sanders trova cittadinanza nel caos della liquidità elettronica e qualcosa di magico si manifesta, qualcosa che solo le menti aperte riescono a concepire. E il supporto della London Symphony aggiunge un ulteriore chiave di lettura per un lavoro che rimarrà un punto di riferimento per chi ha bisogno di scrollarsi la polvere del tempo e sterili categorie merceologiche.

Iosonouncane. IRA (Trovarobato)
Attenzione: contiene moltitudini. Jacopo Incani ha trovato il coraggio di scrivere la sua recherche e ci vorrà del tempo, tanto tempo per decifrare a pieno la massa incombente di suoni e umori contenuti in questo disco. La metafora più ricorrente nel cercare di esplicare i contenuti di Ira è stata quella geologica-mineraria. E ci sta! Lui che viene da Buggerru conosce bene il peso della terra e delle sedimentazioni storiche, del lento lavorìo della materia, di quel silente mutare delle forme. La sua musica è la logica rappresentazione di una complessità in continua mutazione, di una concezione del tempo che non trova spazio nelle logiche del presente e si posiziona fuori dalle divulgazioni didascaliche. Complessità quindi ma anche ricerca interiore, speculazione filosofica, metamorfosi e rinascita. La visione di Incani è stratigrafica e difficile da penetrare. Avremo bisogno di tempo e di pazienza per capire queste composizioni forse non ci basterà e forse non tutto verrà alla luce ma ne varrà la pena.

Kings of Convenience. Peace Or Love (EMI)
Quando tanti anni fa si presentarono al mondo si capì subito che si trattava di qualcosa di speciale. Il loro sound venne identificato con l’inizio del New Acoustic Mouvement che riapriva scenari di quieta beatitudine e una predisposizione alla calma interiore e al relax senza peraltro finire nelle paludi dell’easy listening o delle musichette per tramonti in qualche isola inesistente. Poi si è capito che – a parte qualche sussulto estemporaneo – quella roba lì la sapevano fare solo loro nonostante sembrasse così facile da replicare e persino superare. Invece ci sono cose che non sono riproducibili e allora ogni loro disco diventa qualcosa di unico e prezioso. Loro se la prendono calma, non hanno l’assillo di essere sempre presenti, non sentono il fiato sul collo e neanche ansia di prestazione. Il loro suono rimane essenziale e limpido come un paesaggio nordico e allo stesso tempo caldo e intimo come il sole del sud. E come sempre si divertono a spiazzare tutti con geniali giochi di parole che hanno bisogno di un certo impegno per essere decodificati.

Low. Hey What! (Sub Pop)
Due anni fa sbaragliarono tutte le classifiche di fine anno con un lavoro che pareva destinato a rimanere il top di una carriera irripetibile. Poi arriva questo nuovo lavoro e lo stupore diventa enigma e viene da chiedersi come sia possibile restare sempre così lucidi e in tiro dopo tanti anni di onorata carriera. Hanno pure perso il bassista storico e sono rimasti in due Alan Sparhawk e Mimi Parker a spartirsi l’onere di continuare. Hanno persino il coraggio di deturpare le loro canzoni con violenti inserimenti elettronici, con arrangiamenti che spesso disturbano quando potrebbero semplicemente proporre le loro creazioni senza troppi patemi d’animo. Ma loro sono fatti così. Amano il rischio e amano demistificarsi. Sanno quanto sia facile ripetersi e vivere di rendita e godersi il giusto climax che chiunque si terrebbe stretto. Ma questi sono i Low: immensi, irripetibili (persino a se stessi), unici e necessari. Sarà l’aria di Duluth?

Gianni Maroccolo / Antonio Aiazzi. Mephisto Ballad (Contempo)
Maroccolo è uno che non si è mai fermato. È sempre li che si guarda intorno per capire da che parte proseguire, dove stare, quali nuove prospettive scrutare, sembra un adolescente in cerca delle prime emozioni, uno che si lascia coinvolgere quando ci sono le giuste inclinazioni. Insomma una di quelle figure che danno un senso compiuto al fare musica ma anche al piacere di poter ascoltare e partecipare e farsi trascinare dai suoni e dalle idee. Una storia che arriva da lontano senza cadute di stile o falsi proclami sempre sottotraccia ma con la giusta dose di saggezza e partecipazione. Spesso lavora in solitudine (Alone) spesso è in mezzo alla gente e tra la gente. Le ultime profonde manifestazioni di gioia le ritroviamo nel disco inciso di recente con Edda (altro transfugo del nostro miglior rock) e in questa con Antonio Aiazzi storico batterista dei Litfiba e compagno di lungo corso (quant’erano bravi i Beau Geste…). Mephisto Ballad appare come una sorta di viaggio verso quello che è stato per ripercorrere 40 anni di vita comune e di passioni condivise e in particolare rimanda a un concerto del 1982 a Firenze con la mente che si intinge di ricordi, venature dark, miti più scuri dell’oscurità di quegli anni.

Mogwai. As The Love Continues (RockAction)
Da sempre considerati come la migliore espressione del post-rock europeo (viviamo in un mondo sempre più post) eccoli al loro decimo album in studio con la forza di chi ha ancora tante cose da raccontare. Il loro sound è subito riconoscibile ma si sente che in tutti questi anni molte cose sono cambiate e questo disco è la perfetta manifestazione di un nuovo modo di fare musica e di interagire con se stessi e con tutti gli altri. E poi la pandemia che ha scombussolato tutto e ci ha obbligati a essere più smart più ubiqui più connessi ma anche più soli. Ma si continua si va avanti si incespica e il post-rock è ancora una bella medicina per lenire i patemi d’animo e le nostre piccole catastrofi quotidiane.

Salmo. Flop (Sony)
Il potere dell’immagine, la forza dei suoni, la provocazione come opera d’arte e l’immedesimazione totale dell’artista con la sua arte. Niente di nuovo sia chiaro e la società dello spettacolo è lo scrigno ideale per avvallare queste ipotesi de/costruttive. Salmo conosce bene queste dinamiche e sa che la provocazione è uno stimolo e uno strumento utilissimo da sfruttare. Sta a noi, umili spettatori, governare il sottile discrimine che separa il nulla dall’infinito. Sta a noi verificare la qualità di una proposta artistica e svelare i facili illusionismi che gli scenari della contemporaneità mettono a disposizione. Ma Salmo è lucido assai nel verificare le sue gesta, rischia con fervida partecipazione e non trascura il valore del suo messaggio. In lui convivono la ricerca musicale e il suo apparire, la messa in scena e il substrato testuale, la teoria e la praxi. Flop è una contraddizione sin dal suo titolo e le contraddizioni sono le parti più nobili di ogni artista, soprattutto in Salmo che ne ha fatto scienza e incoscienza.

Squid. Bright Green Field (Warp)
Un altro esordio per una nuova band che per comodità abbiamo inserito in quel soffice contenitore chiamato post-punk ma che disvela più complessità di quanto questa terminologia lasci intendere. Si sente effettivamente la spinta della prima new wave anni Ottanta ma si respira altresì l’aria dei nostri tempi e la capacità ormai intrinseca di citare, mescolare, sintetizzare e globalizzare. Non stupisce quindi il richiamo a certe esperienze punk funk e alle migliori espressioni del math rock. Insomma ritmo, composizione e piacevoli scosse elettriche per dirla con parole più umili. Un lavoro che ci aiuta a capire i luoghi, gli spazi, gli eventi e le architetture di questa strana realtà che ci circonda. “We’re still dance, dance, dancing today to the global groove / We’re still tap, tap, tapping away to the global groove”.

Vanishing Twin. Ookii Gekkou (Fire)
Il gemello scomparso è un omaggio a tutte quelle cose che non sono ma sarebbero potute essere, all’imprevedibile caos della vita. Questo progetto nasce dall’unione di tante anime differenti, quasi inconciliabili eppure pronte a fare fronte comune. Phil MFU, Susumu Mukai, Cathy Lucas e Valentina Magaletti (che nomino musicista dell’anno) hanno dato vita a un progetto multiforme, fluido, quasi impalpabile, un creatura che sopravvive alla selezione della specie: quel fantasma mai nato che finalmente trova spazio e forme. Ecco perché (anche grazie alla collaborazione con Malcom Catto degli Heliocentrics) in questi solchi ritroviamo l’energia del miglior afro-funk, il jazz più esoterico, le divagazioni spirituali di Alice Coltrane e persino l’ingaggio fuori tempo massimo di certe sperimentazioni esotiche del primo Holger Czukay. Ma si rincorrono persino echi di certa library music di provenienza italica e varie altre declinazioni di difficile catalogazione. Per Pitchfork “Una band che fluttua senza paura nello spazio nebbioso tra il mondo reale e quello immaginario, offuscando il confine tra calorosamente nostalgico e inquietantemente infestato”. Questo disco è un’epifania che ci riporta a quell’istante in cui siamo tutti solo idee, desiderio e immaginario mai realizzato. E comunque segnatevi il nome di Valentina Magaletti e di tutti i suoi progetti artistici per un futuro più policromo e instabile.

 

Jean Starobinski: l’inesauribile richiamo del segreto

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di Lucia Amara

 

Il 2021 ha sancito i cinquant’anni dalla pubblicazione di Les mots sous les mots di Jean Starobinski, uno studio dedicato, come recita il sottotitolo, alla ricerca sugli anagrammi di Ferdinand de Saussure. Uscito nel 1971 per le edizioni Gallimard Les mots sous les mots riorganizzava, con l’aggiunta di qualche inedito, la «sostanza» di un grappolo di articoli che, tra il 1964 e il 1970, Jean Starobinski aveva pubblicato in diverse riviste tra cui «Mercure de France» e «Tel Quel».

L’operazione messa in atto da Starobinski sui Cahiers di Saussure in Les mots sous les mots non è di tipo filologico ma prevede la selezione e l’estrazione di alcune parti dei Cahiers dedicati all’anagramma utilizzando un criterio di tipo tematico e intervallando regolarmente i passi di Saussure con commentari. L’innesco è a tal punto efficace che qualcuno potrebbe osare definire il saggio di Starobinski un apocrifo. Alla sua uscita Les mots sous les mots ebbe una fortuna immediata per aver mostrato un lato del tutto inedito della produzione di Saussure, indiscusso padre dello strutturalismo e della linguistica moderna ; e una fortuna più duratura, divenendo in un certo qual senso il capostipite, se non addirittura l’autorevole nume tutelare di una nuova epoca dell’analisi del testo, in virtù della quale si poteva legittimare l’inizio della semiotica letteraria. L’anagramma, per definizione, è un procedimento, di origini remotissime e rintracciabile anche nella cabala ebraica, basato sulla permutazione di lettere o sillabe di una parola, in modo da ottenere altre parole o frasi di significato diverso. Ferdinand de Saussure nutrì l’intuizione che l’anagramma, con tutto l’insieme delle complesse procedure al termine delle quali si produce la versificazione, fosse il congegno testuale alla base della poesia di molte letterature antiche . L’anagramma consiste nello smembrare lettera per lettera un nome, solitamente quello di un dio o di un eroe, a cui segue la «disseminazione», lo spargimento dei fonemi tra le sillabe dei versi producendo l’effetto che Saussure chiama «armonia fonica». Questo procedimento, che ha le regole di un computo di tipo matematico, poteva mettere in crisi o far luce sulle dinamiche volontarie e involontarie che soggiacciono alla creazione poetica. Starobinski rimarca che Saussure nell’abbozzare la teoria sugli anagrammi non aveva la pretesa di definire l’essenza della creazione poetica, tuttavia questa teoria ha il merito di segnalarci ciò che concepiamo come «il nascosto», ciò che in un testo si configura come latente. Saussure delimitò il campo di ricerca sugli anagrammi e lo circoscrisse alla poesia classica (dalla poesia greca omerica a quella latina, dalla poesia germanica a quella vedica) e alla versificazione in latino di poeti contemporanei come Giovanni Pascoli. Nonostante non abbia in alcun modo cercato sotto il nome del dio nascosto un livello simbolico, o un’origine religiosa, la ricerca di un «antecedente sonoro della trama di un testo» – come lo definisce Starobinski – fa capo a una serie di dispositivi estendibili oltre il verso classico ad altre tipologie di produzione poetica e linguistica. Ferdinand de Saussure aveva cominciato la sua ricerca sugli anagrammi nel 1906 e vi si dedicò almeno fino al 1909, riempiendo un numero corposo di quaderni e producendo una mole di lavoro impressionante. Gli anagrammi formano un insieme di più di cento quaderni di scuola insieme a circa 2500 foglietti di note. Una ricerca minuziosa che per la sua maggioranza giace tuttora inedita dentro i Cahiers che formano la collezione, conservata nell’Archivio della Biblioteca di Ginevra, negli ultimi anni arricchita di nuovi manoscritti. La cautela, quasi ossessiva, davanti alla scoperta del procedimento anagrammatico, attestata dai dubbi più volte espressi nella corrispondenza con i suoi amici e allievi, tra cui Antoine Meillet, fu probabilmente il motivo per cui il linguista affidò la ricerca sugli anagrammi alle minute dei suoi quaderni senza mai trarne una vera e propria pubblicazione. Spesso si dice che con gli anagrammi Saussure abbia messo alla prova una modalità della produzione del discorso che in un certo qual senso avrebbe potuto far barcollare la monumentalità di una relazione comprovata, quella tra significante e significato, che si produce nell’articolazione tra langue e parole e che il linguista sviluppò negli anni tra il 1906 e il 1911 nel Cours de linguistique générale, considerato la summa del suo pensiero e pubblicato postumo nel 1916.

Quando nel 1971 esce Les mots sous les mots di Jean Starobinski, fu la prima volta che un pubblico più vasto poteva leggere stralci direttamente estratti dai Cahiers di Saussure sugli anagrammi e l’impressione suscitata fu importante e ricca di conseguenze. La prima ricezione venne dall’ambiente della teoria del testo e soprattutto in ambito francese, tra i nomi più rilevanti Barthes, Kristeva, Todorov; poi tra i filosofi, come Derrida e Baudrillard; infine nell’ambiente della psicanalisi con Lacan e Irigaray. Il silenzio della maggior parte dei linguisti dell’epoca fu squarciato da rare voci provenienti dalla linguistica di stampo più interdisciplinare interessata soprattutto a questioni di poetica, primo tra tutti Roman Jakobson.

A lungo, e ancora oggi in molti casi, la ricezione degli anagrammi di Saussure è filtrata da Les mots sous les mots di Jean Starobinski e questo ha depistato la ricerca saussuriana fuori dai binari della linguistica favorendo almeno due tendenze, la prima è quella di utilizzare gli anagrammi saussuriani come strumenti di analisi della poesia moderna a partire da Mallarmé; l’altra tendenza si rintraccia nella ripresa della teoria saussuriana laddove il linguista l’aveva abbandonata cercandone lo sviluppo in altri autori, quali Freud, Bakhtine, Benveniste.

Se si indaga la ricezione del libro di Starobinski e degli anagrammi di Saussure in Italia, il panorama non è così fulgido ed evidente come in Francia e le influenze appaiono più magmatiche, forse perché ancora poco indagate. Tuttavia ci preme ricordare qualche dimora emblematica in cui questa ricezione ebbe luogo, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, consapevoli di averne dimenticate di altrettanto importanti. Del 1968 è l’articolo di Aldo Rossi, Gli anagrammi di Saussure: Poliziano, Bach e Pascoli, pubblicato nella rivista «Paragone». Nello stesso anno, Giuseppe Nava pubblica il ritrovato carteggio tra Saussure e Giovanni Pascoli nei «Cahiers Ferdinand de Saussure», la rivista ginevrina che si produce attorno al Cercle Ferdinand de Saussure e che ancora oggi è il punto di riferimento più autorevole degli studi filologici dell’opera saussuriana. Nel 1979 la rivista «Il piccolo Hans» dedica il numero 22 agli anagrammi, contenente in apertura un saggio di Carlo Ossola e una dichiarata attenzione e aderenza, come si legge nella nota del curatore, all’«ordine del significante» di marca lacaniana. La parola dipinta di Giovanni Pozzi è del 1981 e porta traccia degli anagrammi saussuriani scelti e commentati da Starobinski. Ma il fatto più significativo della ricezione italiana risulta la pubblicazione della traduzione di Les mots sous les mots, uscita nel 1982, in pieno dibattito ‘anagrammatico’, per la casa editrice il Melangolo. La traduzione italiana ha una firma celebre, quella di Giorgio Raimondo Cardona, glottologo e linguista, studioso di oralità e raffinatissimo traduttore di opere fondamentali nel dibattito del secondo novecento (tra cui Franz Boas, di cui curò lo studio sulle lingue degli indiani d’America e John R. Searle, di cui tradusse Atti linguistici), prematuramente scomparso nel 1988. In virtù delle importanti aggiunte di Cardona all’apparato di note di Starobinski, sottoforma di note del traduttore (ntd), l’edizione italiana potrebbe essere a tutto merito considerata un’edizione augmentèe. La versione italiana si chiude con un breve ma acutissimo ed erudito saggio di Enrica Salvaneschi, da cui crediamo bisognerebbe ripartire per rintracciare il portato della tradizione e della ricezione Saussure/Starobinski.

Nell’ultimo ventennio gli studi di Saussure hanno intrapreso le strade del rigore filologico e del confronto diretto sui manoscritti, di certo più attinente al metodo adottato dallo stesso Saussure. Eppure permane intatto il fascino suscitato da Le parole sotto le parole, soprattutto per l’incanto che ti coglie di fronte a un’esegesi capace di creare altri testi.

Così concludiamo con Starobinski: «… accade che ogni linguaggio sia combinazione, senza che nemmeno intervenga un’arte combinatoria. I decifratori, siano essi cabalisti o fonetisti, hanno il campo libero: una lettura simbolica o numerica, o sistematicamente attenta a un aspetto parziale può sempre fare esistere un fondo latente, un segreto dissimulato, un linguaggio sotto il linguaggio. E se non ci fosse cifra? Resterebbe l’inesauribile richiamo del segreto, quell’attesa della scoperta, questi passi sperduti nel labirinto dell’esegesi».

 

Mani e piedi per spiccare il salto

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di Silvia Ferrara

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(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Silvia Ferrara, Il salto. Simboli, disegni, lettere e la nascita del pensiero, Feltrinelli. Un viaggio all’origine dei primi simboli del mondo.)

Cominciamo. Ogni salto inizia con una rincorsa. La rincorsa è l’unico modo per elevarci da terra e opporci alla forza di gravità. Ed è per questo che il salto che faremo prenderà l’abbrivio dalla cosa più ancorata a noi, più intimamente connessa al nostro esistere: il corpo, l’impronta fisica che lasciamo con i polpastrelli, le dita, le mani e i piedi, il nostro stato quaggiù, di cui fa segno il suol che premiamo. Quanta ragione aveva Leopardi.

Il corpo, dopo millenni di evoluzione, ci fa guardare l’orizzonte con lo sguardo dritto davanti agli occhi, parallelo alla terra, non con il naso sempre costretto all’insù. Ci fa muovere per occupare lo spazio ed esplorare le cose con la vista e con il tatto. Ci fa radicare, ci fa lasciare stampi intorno a noi, ci fa emettere suoni e ascoltarli e comporre gesti nell’aria. Non c’è niente da fare: tutto, ma proprio tutto, parte dal nostro corpo. Della mente parleremo più in là, ma forse Cartesio aveva sbagliato, non ci sono divisioni. Siamo un tutt’uno di corpo, membra e mente.

Quando ci muoviamo, lasciamo le nostre impronte un po’ su tutto, anche su quello che percorriamo solo nella mente, dove i nostri neuroni creano e depositano i percorsi del ricordo e le sue sensazioni, tante piccole madeleines degli spostamenti fisici e reali e anche immaginati della vita.

Piedi

Non siamo solo seminatori, siamo anche cacciatori di tracce. Che lo vogliamo o no, ci piace ricostruire il percorso che porta da A a B, e poi anche a C. Facciamo Hansel e Gretel con le mollichine di pane quando calcoliamo un percorso con il navigatore o con la memoria, quando andiamo a correre al parco o a far scodinzolare il cane sotto casa. Ricostruiamo percorsi ogni giorno, itinerari e distanze, andate e ritorni, viaggi proiettati e sognati dentro e fuori dai cassetti, tra le corsie del supermercato o per vedere quanto ci mette questo treno ad arrivare a casa. Quanto manca? Che distanza c’è? Quanto ci impiego?

Alcune impronte fisiche sono impresse nel fango di una capitale mezza europea e mezza asiatica, attraversata dall’acqua del Bosforo e da milioni di persone, tra miliardi di altre impronte e calchi che nella storia hanno parlato decine di lingue diverse. E queste impronte fisiche sono lì e sono tantissime. Non sono certo le più antiche (quelle del sito di Laetoli in Tanzania sono vecchie di 3,7 milioni di anni), ma queste sono davvero speciali.

Yenikapı è un quartiere non lontano dal centro di Istanbul, vicino al porto di Teodosio, in cui si è cominciato a scavare nell’impazienza di costruire una linea metropolitana e un tunnel avveniristico da far passare sotto il Bosforo. Che ci si potessero trovare i resti del passato era quasi banale, una predizione da scavatore-raccoglitore dilettante e primitivo più che da archeologo o ingegnere moderno e progredito. Infatti, sono state trovate navi dell’impero bizantino, con tutte le loro masserizie, anche oggetti che il tempo non restituisce con generosità, come tessuti e legno. Fin qui, bella scoperta, belle navi, tante e ricche. Ma sotto? Scavando, e chi inizia a scavare non si ferma, un villaggio neolitico di ottomila anni fa, con le sue sepolture ad inumazione e a cremazione, mix esplosivo, rarissimo, perché la cremazione sembrava essere pratica più tarda. E remi di canoe, cucchiaini di osso. Cose che servivano in vita. Fin qui, di nuovo, bellissima scoperta, belle cremazioni, tanti e vari sepolcri.

Yenikapı però aveva ben altro da mostrare: uno strato di più di mille impronte di piedi, di adulti, di ragazzi, sagome stampate sulla terra essiccata e sigillata per millenni. A vederle sembrano il gioco Twister che facevamo da bambini, posizioni di piedi che si intersecano e attorcigliano su sé stesse, imbrigliate nel fango. Non vanno da nessuna parte, alcune sono saltellanti perché spaiate, altre sono sovrapposte. Alcuni sono stampi di calzature, altre della pianta dei piedi nudi. E sono un mare di piedi, un villaggio di piedi, talmente tanti che non si riescono a contare, su un palcoscenico cristallizzato, fermo.

Il fango su cui sono impresse doveva essere poroso, forse da lì passava un viottolo umido, forse lì era stata fatta una danza, a piedi nudi, sul letto del fiume, e poi la patina del terreno si è seccata, solidificata, e gli strati di vita e di depositi alluvionali successivi hanno ricoperto tutto. Che fosse stato un ballo rituale o delle passeggiate estemporanee e per niente solenni ha poca importanza.

Quel che importa è che di tutto questo movimento, noi, migliaia di anni dopo, vediamo il fermo-immagine e la sua intenzionalità, arrivata a noi quasi per sbaglio. Seppur bloccate nel fango, fisse, sono orme che brulicano, che fremono di vita. Non sono le uniche in quella zona, altre sono state trovate a Barcın Höyük, nel nord-ovest dell’Anatolia nella Turchia moderna, di qualche secolo ancora più antiche, e con gli stessi connotati simbolici. Ma di queste, a Yenikapı, tra i sibili della metropolitana, in mezzo al rumore degli umani, immaginiamo il rumore di quel momento. Con un po’ di fantasia riusciamo a vedere i piedi in aria e i piedi che ricadono battendo sulla terra. Forse il loro percorso non era definito, e comunque per noi sono solo piedi fermi. Eppure, quanta strada sembrano aver fatto le loro impronte.

Mani

È notte. Anzi è giorno, ma sembra notte fonda. La luce fa fatica ad arrivare lì dentro e quell’uomo sa che cosa voglia dire stare al buio in pieno giorno, quanta paura faccia all’inizio.

Arrivarci ogni volta è un viaggio, di fatica fisica e mentale, un tour de force. Ogni volta che mette piede fuori da quel buco, ne esce distrutto.

Lì entrano solo riflessi pallidi, il sole è alto nel cielo, e il contrasto luce/ombra, chiaro/scuro brucia gli occhi. Quando entra un filo di luce, si insinua tra le onde delle rocce, e lui le conosce, sa come sono fatte perché le ha studiate, palmo a palmo, letteralmente. Sa che sono state sagomate dall’acqua negli anni e che tutti quei segni sono stati fatti dagli orsi delle caverne (Ursus spelaeus). Ne ha visto uno l’altro giorno, di straforo, ma è stato velocissimo, entrato e uscito in un baleno.

Quando entra lui fa fatica a distinguere un passo dall’altro, il terreno è sconnesso e incerto, è sempre difficile. Anche se non è mingherlino e si è quasi abituato al buio, si fa spesso male. Solo suo figlio saltella dentro come uno stambecco (Ibex pyrenaica), tutto di filato. E poi arrivarci. La valle è aspra e rigida, le pareti sono dure, ed è sempre popolata da animali che scendono giù dalla montagna da quella parte, dove il sole sparisce. Sono tantissimi, fanno rumore, il suo gruppo ha imparato a cacciarli.

Cavalli selvatici (Equus ferus) e bisonti soprattutto, ma anche quello splendido animale che noi non abbiamo più, l’uro (Bos primigenius).

Ma oggi è venuto qui con uno scopo diverso. Ha una specie di missione, deve scendere in fondo, dove le pareti non hanno orizzonte. Sono proprio le pietre di calcare che lo guidano con le loro sagome, e le gobbe e le rientranze sono i profili che segue per tracciare le linee, la roccia lo aiuta a crearle.

Non voglio dirvi troppo prima di entrare, perché descrivere quello che vedrete non ha senso. Dovete usare la vostra immaginazione. Intanto seguitelo, vi porta dentro. Attenzione alla testa, attenzione alle stalattiti. Aggiustate la vista, riprendete fiato. E ora guardate a destra. Questo pannello è il suo work-in-progress, ha appena iniziato a lavorare. Prende il pigmento di ocra, lo sparge sul palmo della mano e poi lo imprime sulla roccia. Qui vedete anche un dito perché il suo mignolo è un po’ storto e non riesce a creare un’impronta precisa. Tante volte sbafa, e non è semplice fare le impressioni lì sopra, si deve arrampicare sul muro. Per ora ne ha fatte più di quattrocento su quattro pannelli, gli piaceva la simmetria dei numeri, e forse li ha anche contati tutti, tutti fatti con l’ocra. Questa galleria l’ha chiamata “galleria dei pannelli rossi”, rende bene l’idea secondo me, ogni tanto è utile essere descrittivi, anche se, diciamoci la verità, sembra una parete spalmata di sangue.

Più in là ha disegnato un profilo di bisonte con una tecnica che ha inventato lui, usando una serie di punti rossi chedelineano la sagoma dell’animale, grandi punti a macchia tonda, fatti premendo solo il palmo della mano, senza le dita.

Ma questi disegni devono essere spiegati meglio, un’altra volta, più in là in questa lettura.

Per le mani, invece, ha trovato anche un’altra tecnica, che sembra una magia, invece è solo tecnica. Prende il pigmento e con una cannuccia lo soffia intorno alla sua mano appiccicata sulla parete, che diventa tutta rossa sul dorso, le dita sono accarezzate dalla pittura. Quando solleva la mano e la stacca, i contorni dell’impronta sulla roccia sono dello stesso colore della sua carne. Carne viva, circondata dallo spruzzo rosso.

Ha fatto tutto questo da solo.

L’occhio di Joyce

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Testo (la postfazione alla raccolta) e illustrazioni di Vittorio Giacopini

 

Nelle foto più tarde sembra un pirata, o un cameriere. Una benda o la bandana di sbieco sugli occhi, nero pece, e il cravattino a farfalla, sbandierato come una beffa o un distintivo. E naturalmente gli occhiali, inevitabili, a pince-nez o con le stanghette normali d’ordinanza. Il cravattino, non so, ma la benda e gli occhiali non erano una posa, c’era obbligato. Dai tempi di Trieste, James Joyce aveva combattuto con mille problemi agli occhi – miope come una talpa, fu vittima di attacchi di irite, glaucoma, cataratta – e agli occhi l’avrebbero operato almeno una decina di volte, senza successo. Per essere un ‘maestro della sguardo’, è molto ironico: la sua scrittura è una metafisica della vista che gioca sul paradosso, sull’estinzione. Il suo sarà sempre un vedere velato, un vedere a rischio. Anche da ragazzo doveva averlo intuito, oscuramente: dato che tutto che ciò che è solido svanisce nell’aria sottile e fugge via, il segreto è bloccare il reale che sfuma, fermarlo in volo e fissarlo su una pagina di quaderno, o nel labirinto della mente, trasfigurato. Le sue ‘epifanie’ sono ostie di realtà, transustanziata. Frammenti di mondo catturati da uno sguardo che si spegne, diventa cieco.

Da lettore, e da scrittore, sono più di quarant’anni che l’occhio di Joyce è un’ossessione che mi fa compagnia. Nel laboratorio degli attrezzi di chiunque prenda in mano una penna, oggi, questo suo vedere velato è indispensabile. Un vedere oltre la vista, senza la vista, un vedere che scava dentro le apparenze e si perde nel chaosmos onirico e nelle immagini batuffollanti e ambigue e ingannevoli ma perfettamente vere e complete del sogno. Leggendo Joyce uno guarda il mondo coi suoi occhi e i suoi erano occhi malati, destinati a spegnarsi. Scrivendo, si cerca di scrivere tramite il suo sguardo. E torna anche quell’immagine, quella frase: la questione chiave è la modernità, il modernismo nel senso dello shakespeariano “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria sottile” che risuona anche nel Manifesto di Marx e Engels, in un passo chiave, e ancora una volta è questione di sguardi, visioni, occhi: “Tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi si dissolvono; e quelli che li sostituiscono diventano antiquati ancor prima di cristallizzarsi. Tutto ciò che era solido e stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene profanato: costringendo, finalmente, gli uomini a considerare le loro condizioni di esistenza ed i loro rapporti reciproci con occhi disincantati”.Il rapporto che molta letteratura ha avuto con Joyce è stato nel segno della ripresa sperimentalistica, come avanguardia, appunto, sperimentazione, gioco letterario oltre gli steccati e i confini della letteratura. Ma il tempo degli epigoni è finito. Non si è concluso però il bisogno di fare i conti con un autore dopo il cui passaggio sulla terra è cambiato tutto. La letteratura, dopo Joyce è diventata futile, perché ha scritto l’Ulisse. Non c’era più niente da fare. Restava – e il nodo è tutto qui – molto da dire.

Tendo a pensare che oggi scrivere significhi ripartire sempre da quel punto, rifare quel lavoro, in qualche modo (la verità è che dentro le mille turbolenti, divergenti correnti della letteratura novecentesca ci sono autori che hanno capito e seguito la lezione di Joyce senza imitarlo, dal Malcolm Lowry di sotto il vulcano al Guimares Rosa del grande sertao, dal Grass del Tamburo a Rushdie, a Pynchon, a Alasdair Gray). Ma entrare nel dibattito letterario su filiazioni, eredità, influenze in fondo è ozioso. Joyce ci ha lasciato un metodo o un compito (e un rebus da risolvere, quasi impossibile): potremmo definirlo il programma dell’ iper-realismo (ma è una formula come tante, irrilevante). Captare il reale e salvarlo dentro un contesto in cui la realtà si dissolve, altera, muta, essicca, e, forse… purifica. Astrarre, complicare, trasferirsi in una dimensione diversa, meno ovvia. Io continuo a usare lo sguardo (velato) di Joyce come un filtro, molto opaco, come una lente sporca. Non se ne scampa: è il mio orizzonte, è il nostro orizzonte. Le metafore legate alla vista – e alle ombre – sono decisive.

*

A sessant’anni, dopo non so più quanti traslochi, appartamenti in affitto, casse di libri che fanno su e giù per Roma, e a volte si perdono, sarebbe un esperimento curioso, da palombaro: provare a ricostruire quel primo scaffaletto che tra i quindici e i vent’anni, ospitava i primi libri davvero tuoi, non cose di scuola, tascabili che magari avevi comprato al Remainders di San Silvestro, per poche lire, quando ancora c’erano i capolinea dei bus, con le pensiline verdi e i gabbiotti dei bigliettai grigio-cemento, peraltro a pochi metri dal palazzo dove Joyce lavorava a Roma, a inizi Novecento, e quando s’affacciava in piazza non c’erano i bus ma il palco per la banda e si suonavano marce e arie d’operetta, e si ballava. Da ragazzino, ovviamente, compravo ovviamente pochissimi libri (qualcuno, magari, l’avrò pure sgraffignato, spero che siano reati che cadono in prescrizione) e, come un fesso, ci scrivevo su nome e data. Qualcuno di quei libri ce l’ho ancora con me, piuttosto malmesso. Dedalus, i Dublinesi e una raccolta di saggi sul Finnegan’s con un testo di Beckett li ho comprati nel 1979. Avevo 18 anni e venivamo un po’ tutti fuori da anni di sogni andati a male, grandi passioni e illusioni, sconfitte, delusioni. L’aria attorno era abbastanza meschina, ricattatoria.  Altoparlanti invisibili ci intimavano di disoccupare le strade dai sogni e io pensavo ‘ma neanche per idea, neanche… per sogno’. Chiuso in casa, adesso che le piazze erano vuote, le strade abbandonate, i cortei muti, leggevo e vivevo dentro a sogni già sognati e raccontati da altri, e, in qualche modo, la letteratura per me era una continuazione della politica, con altri mezzi e altre voci, e per quanto fosse sbagliato quello era, non dico il mio metodo, ma certo il mio punto di vista, la mia ‘passione’.

Leggevo, rimuginavo, mi emozionavo, mi identificavo. Sicuramente i problemi formali a quel tempo non mi interessavano granché, non li capivo. Joyce mi entusiasmava – per usare una parola orribile – per il contenuto e non c’è da scandalizzarsi, è inevitabile. Tra i libri che mi hanno segnato di più, tra i libri che forse non mi hanno insegnato niente ma mi hanno cambiato la vita, oltre allo Straniero di Camus c’è senz’altro il Dedalus di Joyce, e davvero per motivi del tutto esistenziali, personalissimi. Non era un romanzo, e non era solo un libro: aprivo quella vecchia edizione Adelphi nella (dubbia) traduzione di Pavese e entravo in un’altra dimensione dell’esperienza e mi ci ritrovavo, disorientandomi. Leggevo e sapevo che leggere, in quel modo, mi serviva per crescere, ovvero per inventarmi e diventare quello che ero sempre stato, o quello che avrei dovuto essere, senza saperlo.

Me ne rendo conto: è abbastanza inadeguato esprimersi così a proposito dello scrittore in teoria più ‘formale’ che ci sia mai stato. Joyce – mi era chiaro già allora anche se allora non ci badavo – è fondamentalmente un acrobata del linguaggio. Beckett nel saggio su Vico e Bruno in quell’altro libretto talismano che ho ancora con me, lo dice perfettamente:

Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Mi si opporrà che ‘sta roba non è scritta in inglese. Non è scritta affatto, non è fatta per essere letta – o meglio, non è fatta solo per essere letta. Bisogna guardarla, ascoltarla

Beckett in quel saggio definisce Joyce un “biologo della parola” e fa il paragone decisivo, quello con Dante. Scrivere per uno come Joyce significa mettersi all’origine del linguaggio, creare una lingua. Dante “adottò il volgare” ma non per una forma “di sciovinismo locale”. Dante, per Beckett, si trova in una situazione in cui “il decadimento, comune a tutti i dialetti, rende impossibile sceglierne uno piuttosto che un altro…per cui chi scriva in volgare dovrà raccogliere gli elementi più puri di ciascun dialetto, onde edificare un dialetto sintetico”. Insomma, osservava Beckett, Dante scrive in volgare ma crea l’italiano. Il suo “volgare in realtà non era parlato allora né mai lo era stato prima”. Joyce è Dante oltre Dante, aggiunge Beckett. Se alcuni elementi, se parti del volgare di Dante erano effettivamente parlate nelle strade d’Italia, “non c’è creatura, in cielo o in terra, che si sia mai espressa col linguaggio della work in progress”, cioè del Finnegans’. Insomma, il tema della lingua è tutto. Nello stesso libro di saggi, Eugene Jolas solleva il medesimo argomento, lucidamente:

Il vero problema metafisico, oggi, è quello della parola. L’epoca in cui lo scrittore fotografava la vita attorno a lui mediante un meccanismo verbale che sapeva di dagherrotipo è finita, per fortuna. Il nuovo artista della parola ha riconosciuto l’autonomia del linguaggio e prova a forgiare una visione verbale che superi la separazione di tempo e spazio.

 Ecco, io di tutto questo, a 18 anni, non avevo la minima idea. Certo, erano le parole a catturarmi ma la “quidditas” (per fare il verso a Joyce quando fa il verso ai tomisti) per me stava decisamente da un’altra parte. Dedalus, ovvero Joyce, come vittima delle convenzioni, della religione, del conformismo. Ed era una vittima che…  si ribellava. Con buona pace di Beckett e di Jolas per me il punto era quello, poco da fare.  A inizio Novecento nella letteratura ci sono state fondamentali figure di adolescenti che entrano nella vita e decidono, combattendo, qual è, anzi quale vogliono che sia, il loro posto nel mondo. Tra queste – il Tonio Kroeger di Thomas Mann col suo dissidio tra arte e vita, esistenza borghese e vita artistica, il K. di kafka, il Toerless di Musil – per me il più fraterno e vicino era proprio il Dedalus di Joyce (forse l’unico altro esempio di immedesimazione senza resti che posso fare è con il personaggio delle Opinioni di un Clown di Henrich Boll, un’altra storia cattolica, e non è un caso). Avevamo lo stesso problema: un paese cattolico, una mesta cappa di oppressione tutto attorno, il conformismo. Io Dedalus l’ho letto come un grande romanzo di formazione ma anche come una lettera scritta apposta per me da un giovane irlandese molto arrabbiato che a un certo punto sceglie l’esilio come unica strada possibile.Riuscire a scappare, evadere, emanciparsi. Joyce stesso misurava la sua vita e il suo lavoro con questo metro. Da Roma, nel 1906 scrive in una lettera al fratello:

Penso che il processo che ho intrapreso per sottrarre me stesso e alla mia progenie all’influenza della chiesa sia troppo lento.

È un tema che ritorna di continuo in tutta la fase che lo porta all’Ulisse. Combattere contro le convenzioni per diventare sé stessi.

Non ho intrapreso la lotta alle convenzioni che sto conducendo attualmente tanto come una protesta contro le convenzioni stesso quando con l’intenzione di vivere conformemente alla mia natura morale

 Lavoro e vita, vita e arte sono la stessa cosa per Joyce.   Sempre in una lettera da Roma racconta di essere andato a vedere la messa in una chiesa evangelica, con un prete inglese. E lui ascolta quella lingua, quelle parole, e le preghiere e le formule della religione, e si chiede: ma se nel pozzo del mio spirito calo un secchio che acqua trovo? E, ammette: temo di trovarci la religione: “e farò questo nel mio romanzo (inter alia): porrò il secchio davanti alle ombre e sostanze summenzionate e vedrò che effetto fa, e se è un cattivo effetto non so che farci. Sono nauseato dalle menzogne idiote sugli uomini puri e le donne pure e l’amore eterno: menzogne sfacciate in faccia alla verità”.

Ecco, a me colpiva questo doppio movimento. Voler denunciare menzogne, convenzioni, ipocrisia, e sapere di essere imbevuto di questa roba, di essere cattolico, e irlandese (o romano, per quanto mi riguarda) fino al collo. Nel Dedalus c’è un passo davvero esemplare in questo senso. Stephen e Cranly parlano della Pasqua, dell’eucaristia, dei preti, della religione e, a un certo punto, Cranly gela Stephan con una battuta tremenda, definitiva:

E’ curioso come la tua mente sia soprassatura  della religione in cui dici di non credere. Ci credevi quando eri a scuola? Scommetto che ci credevi

Per me questo è un passo capitale. Non si capisce la posizione di Joyce, il suo atteggiamento di fondo verso il mondo senza passare di qui. Di sé del resto diceva, “sono un gesuita”. Un gesuita con la mentalità di un bottegaio. Nella prima pagina dell’Ulisse d’altronde c’è quel fantastico “vieni su Kinch, vieni su spaurito gesuita”. E ancora nelle sue lettere da Roma, a un certo punto, parlando di cosa significa scrivere, Joyce si inventa un’espressione stupenda: “lo spirito santo nel calamaio”. Detta altrimenti, si può essere blasfemi solo se si ha creduto. Solo se si prende sul serio la religione.

 

NdR Questo testo di Vittorio Giacopini è la postfazione alla traduzione (di Carlo Avolio, che ha redatto anche l’introduzione) delle Epifanie di Joyce pubblicata recentemente da Racconti Edizioni. Le illustrazioni che accompagnano i testi sono dello stesso Giacopini.

 

L’industria della polvere – una mostra di Carlo Vigni

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di Ornella Tajani

A Siena, presso il complesso di Santa Maria della Scala, è aperta ancora fino a fine gennaio la mostra fotografica “L’industria della polvere” di Carlo Vigni, dedicata all’ex impianto Idit (Industria di Disidratazione Isola Tressa), conosciuto anche come “Torre dei pomodori” di Isola d’Arbia (frazione di Siena), uno scheletro architettonico che tuttora si erge come un colossale fallimento in mezzo alle colline toscane.

Inaugurato nel 1961, l’impianto fu attivo per soli due anni.

Qui un video dell’Istituto Luce, visibile anche nel percorso proposto dalla mostra, in cui l’allora Ministro Emilio Colombo visita la struttura e scopre, come la voce in sottofondo racconta entusiasta, «[questo] procedimento [che] consente la conservazione e la durata praticamente eterna dei succhi di frutta e di verdura, del latte crudo, del caffè, del tè, ecc.»

 

La Roma di Ljubov’ Dostoevskaja

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di Ljubov’ Dostoevskaja

Ma poco alla volta Irina rimase coinvolta nell’allegra vita italiana. La società italiana è una delle più affascinanti e interessanti al mondo. Non si può non amare questa gente dolce, allegra, simpatica, spiritosa. Che differenza tra le loro serate piene di vita e le tediose riunioni pietroburghesi! In nessun luogo Irina aveva incontrato quelle tetre figure taciturne, che si aggiravano per i salotti pietroburghesi in attesa della cena. A Roma non ce ne sono, come non esiste la cena stessa. Nei ricevimenti più brillanti viene organizzato solamente un buffet per il tè con gelati, vino e bevande rinfrescanti. Ma molti non vi si accostano, preferiscono invece ritornarsene a casa, bere un bicchiere d’acqua fresca, di cui i romani sono forse più orgogliosi che del Colosseo e del Foro. Si recano alle serate non per bere e mangiare, bensì per la conversazione, brillante e spiritosa, per flirtare e ridere.
Quasi a ogni serata ci sono musica e recitazione. Tutti recitano: sia i poeti, sia le poetesse, sia i comuni mortali. La lingua italiana con la pronuncia romana è pura musica e la recitazione dà piacere perfino a chi non ne capisce il contenuto.
La recitazione è di vario tipo. Ecco che si alza un vecchio poeta, chiede di spegnere in parte l’elettricità, si mette in una posa efficace e comincia ad abbassare e alzare teatralmente la voce, in breve canta più che parlare. Lo ascoltano con attenzione, ma la gioventù sorride sprezzante. “Vecchia maniera!” dicono.
Dopo di lui si esibisce una rappresentante della “nuova” maniera, una giovane poetessa dell’Italia settentrionale, che soggiorna a Roma. Vestita con un costume verde decadente, che le sta molto bene, con spigolosi gesti decadenti, comincia a recitare i suoi versi, con semplicità, senza cantare. Questa semplicità è studiata, e in certi punti passa al manierismo. Ma la gioventù è contenta, specie gli uomini, che guardano la bella poetessa con evidente entusiasmo.
Ma ecco, al centro del salotto arriva un’appassionata, una ragazza giovane, la figlia del prefetto, e recita dei versi di d’Annunzio[1]. Questa non è né la vecchia né la nuova maniera, bensì l’ardente anima italiana, semplice e cordiale, che richiama una tempesta di applausi.
Gli italiani ascoltano ancora più attentamente il canto e il suono del pianoforte. Nessuno parla, tutti vanno in estasi e tacciono, gustandoseli con tutto il proprio essere. I cantanti, le cantanti, i pianisti sono una moltitudine. Nessuno fa il prezioso, non si fa pregare; al contrario ciascuno arde dal desiderio di mostrare il suo talento. Essi stessi godono della propria arte ed elettrizzati dall’attenzione quasi religiosa dei propri ascoltatori, cantano superbamente, come non potrebbero cantare nel freddo nord.
L’arte, l’inchino davanti alla bellezza è l’unica religione dei romani. “L’arte per l’arte”[2] dicono, e ridono della letteratura “impegnata”.
— Ogni volta che vogliamo esprimere la lotta spirituale dell’essere umano, le sofferenze religiose, l’amore per il prossimo, la critica ci mette in ridicolo e dice che imitiamo gli scrittori russi, — si lamentò con Irina una nota romanziera italiana[3].
Dire a uno scrittore romano che la sua opera è pervasa di spirito cristiano significa offenderlo profondamente. Aspira a un’unica cosa: che i suoi versi o la sua prosa ricordino l’arte antica. L’autentico romano disprezza profondamente il Cristianesimo, e ai suoi occhi esso è innanzitutto la fede dei vili schiavi, e non di un essere umano bennato. Il romano è pagano e ne è orgoglioso. Per lui diciannove secoli sono passati inosservati. Roma con le sue antiche rovine e le sue antiche sante memorie lo tiene fortemente con le sue catene. Nel Nord Italia sono possibili altre fedi, altre idee, ma Roma era e rimarrà eternamente pagana.
Con questо si spiega in parte anche quella forte impressione che essa produce su alcuni stranieri. Al mondo ancora adesso non sono pochi i pagani, e per loro la vita nei Paesi cristiani è difficile. Prendendo parte alle conversazioni sull’amore verso l’umanità, sul lavoro a beneficio del prossimo ecc., involontariamente si ritengono bugiardi e, da persone per bene, sono imbarazzati per l’inganno. Recandosi a Roma, che si dichiara apertamente pagana e non se ne vergogna, si sentono nel proprio elemento e spesso vi si stabiliscono per sempre.
La cosa più comica è il fatto che tutto questo mondo pagano vive e prospera all’ombra del soglio papale. Ma il Papa non è mai stato agli occhi dei romani il primo sacerdote cristiano. Per loro egli resta come prima il Sommo Sacerdote, il Pontifex Maximus, e desiderano che tutti lo guardino con i loro occhi. I romani si spicciano a deludere qualsiasi straniero di indole religiosa, e deridono tutto quello a cui si inchina. Se uno straniero ritorna commosso dopo la preghiera sulla tomba di San Pietro, si affrettano a comunicargli che, conformemente ai dati storici, l’Apostolo Pietro non è mai stato a Roma e non si sa dove riposi. Quanto all’Apostolo Paolo e agli altri martiri cristiani, i loro resti mortali erano stati riesumati e sparpagliati già al tempo delle invasioni barbariche, e a Roma non è rimasto nulla di loro.
I romani fanno dello spirito per quanto riguarda le proprie immagini miracolose, ridendo dei miracoli, raccontando aneddoti scabrosi su cardinali, sacerdoti, monaci e raffigurandoli in modo buffo sulla scena. Non a caso molti devoti pellegrini hanno perso la loro fede a Roma.
Una delle credenze più profondamente pagane che si conserva nella società romana consiste nel timore degli iettatori, come lo pronunciano i romani, gli “ietatori”. Vivendo in Russia, Irina pensava che gli iettatori fossero temuti solo dall’incolto popolo napoletano. Quale fu il suo stupore, quando le capitò di imbattersi in questa paura nell’istruita società romana!
Ogni volta che una persona dimentica di inchinarsi a qualcuno quando lo incontra o non lo invita alla sua serata oppure in generale lo offende in qualche modo, l’offeso si vendica, dandogli dello “ietatore” e la società immediatamente si allontana da lui con terrore. Alle serate (se trova una persona coraggiosa che lo invita da lui) il povero iettatore rimane da solo. Tutti lo evitano, tutti hanno paura di guardarlo e, cosa principale, Dio ci scampi, di sedersi accanto a lui. Nessuno va da lui, nessuno parla di lui, poiché perfino nominare il nome di uno iettatore può portare disgrazia.
Solo una grandissima ricchezza e nobiltà può salvare dall’accusa di iettatura.
La cosa dolorosa è che lo iettatore contagia con la sua influenza nefasta la moglie e i figli, e tutti li evitano spaventati. A Irina capitò di presenziare a una colazione a cui era stata per caso invitata la moglie di un simile iettatore. Due donne, che sedevano non lontano da lei, si ammalarono quel giorno stesso, una di un disturbo al fegato per lei usuale, l’altra di raffreddore, essendo uscita troppo presto dopo una grave influenza.
Entrambe le malattie si potevano spiegare facilmente e nondimeno furono immediatamente attribuite alla povera donna, che da quel momento smisero di ricevere.
Irina era meravigliata dal fatto che questa insensata superstizione la condividessero non solamente i romani, ma la maggioranza degli stranieri. Arrivati a Roma, subito ne erano contagiati e ne guarivano non appena uscivano dalla Città Eterna. Spiegare tale stranezza era possibile solamente con quella forte impressione, per molti irresistibile, che produce Roma. Vivendo nelle grandi città, la gente rimane per tutto il tempo nel XX secolo. Giungendo a Roma era costretta a vivere, al tempo stesso, in un mondo antico chiaramente e fortemente caratterizzato, con le sue stupende opere d’arte; nel non meno definito mondo medievale del Vaticano, delle chiese, dei monasteri e degli antichi palazzi; e infine nel mondo contemporaneo, ultra alla moda. Tutti questi mondi confluiscono insieme e nel corso di uno stesso giorno bisogna passare dall’uno all’altro. La mente umana non è in grado di combinare tutte questa epoche così differenti. L’essere umano perde temporaneamente il buonsenso ed è pronto a credere alle più incredibili sciocchezze.
Un altro tratto pagano dei romani consiste nell’amore appassionato per la propria città. Allo straniero arrivatovi per la prima volta tutti fanno una sola domanda, sempre la stessa: gli piace Roma? Guai all’ingenuo forestiero che risponde negativamente! Con quale ira scintillano i neri occhi dell’offeso romano! Con quale disprezzo guardano il sempliciotto! Inutilmente egli si affretta a correggere il proprio errore, comunicando ingenuamente che in cambio gli piacciono molto Firenze oppure Venezia. Che cosa ha a che spartire il romano con quelle città? Nonostante le apparenze esteriori, l’Italia è costituita come un tempo da una moltitudine di Stati. L’amore per Venezia o per Napoli può solamente offendere un romano. E lo straniero cerca invano di spiegargli che non si può amare una città che non possiede la cosa principale, l’armonia. Dove su un’enorme superficie sono disseminati monumenti delle più diverse epoche e architetture; dove i nuovi edifici eretti dal governo sono in grado di portare una persona alle convulsioni, a tal punto essi feriscono spietatamente l’occhio con il loro candore e la loro novità sullo sfondo della vecchia città gialla. Invano lo straniero dice che, avendo nel suo Paese viali ampi e luminosi, gli ripugnano questi stretti corridoi tortuosi, tetri e umidi, dove si può a malapena scorgere, dopo aver sollevato la testa, una striscia di cielo azzurro. Che alla gente, abituata alle strade pulite, innaffiate con cura, dà fastidio quella polvere gialla, spessa e attaccaticcia, che si solleva a Roma quando c’è il minimo alito di vento.
Il romano ascolta cupamente tutto questo, ma si rifiuta tenacemente di vedere le mancanze del suo idolo. Non lo consola la convinzione degli stranieri che Roma sia la città più originale del mondo e che ogni persona istruita sia tenuta a visitarla. Il romano esige amore verso la Cara Roma[4], questa ammirevole bellezza per cui è pronto a morire. E, ascoltando i romani, Irina invidiava questo amore appassionato che costringeva il popolo a bere, prima di partire, l’acqua della celebre Fontana di Trevi e a gettarvi del denaro per ritornare a Roma. Una sola nazione al mondo aveva creato una così poetica credenza!
Grazie al proprio paganesimo, il romano è un padre tenero e un figlio rispettoso. Non comprendendo l’amore cristiano verso l’umanità, deridendolo come si fa con un’assurdità, dona alla famiglia tutto l’amore del suo cuore ardente. Per le feste si incontrano ovunque padri che tengono per mano i propri minuscoli figli agghindati, offrendo loro cioccolata e dolcetti nei caffè e conversando teneramente con loro. Oppure i giovani coniugi che passeggiano accompagnati dalla balia che tiene sul cuscino con aria d’importanza un bimbo di tre settimane, imbacuccato nel pizzo. Non lo nascondono lontano dagli occhi, nel retro della stanza, come si fa in altri Paesi. Dal momento della nascita il bimbo acquisisce i propri diritti e nei giorni di festa riceve gli ospiti in braccio alla nutrice.
Ma se i romani amano e rispettano i propri bambini, non si abbassano però davanti a loro, non si trasformano giammai nei loro schiavi. I romani si inchinano ai propri genitori, vedendo in loro i principali rappresentanti della propria stirpe. A Roma non pochi vecchi padri e madri vivono in un palazzo, viaggiano con i propri equipaggi o automobili, mentre i loro figli abitano in piccoli appartamenti e vanno a piedi.
A nessuno passa per la testa di privare di qualcosa i vecchi genitori a vantaggio proprio o dei propri figli, cosa che ahimè non di rado avviene in Russia. In questo amore per la stirpe, per la famiglia, è cresciuta e si è rafforzata tutta la Civiltà latina. Nei paesi nordici, che hanno ricevuto la propria civiltà attraverso il Cristianesimo, questo amore non è così forte. Il Cristianesimo non incoraggia stretti interessi familiari, al contrario esige che l’essere umano veda in tutte le persone i propri fratelli e sorelle. I romani rimangono sordi a queste richieste. Hanno conservato il loro antico carattere latino. A chiunque sia stato nei musei romani appare chiaro fino a qual punto gli antichi busti e statue siano simili ai loro discendenti contemporanei.
Il romano è rimasto fedele alla passione pagana per lo splendore, il lusso, lo sfarzo. In nessun luogo si possono incontrare così tanti equipaggi privati come a Roma. Il romano che si rispetti non può andare a piedi. Ha bisogno di un equipaggio per passare sul Corso, per mostrarsi sul Pincio all’ora della passeggiata alla moda. Non ostentano l’eleganza della posa, bensì le ruote rosse e gialle, i tamburi e i valletti vestiti di chiaro. Entro profonde carrozze, le romane si muovono con enormi cappelli con le piume, coperte, anziché dal tradizionale plaid, da un’intera tigre o da un orso, le cui zampe ricadono sulle ruote.
I prezzi al teatro Costanzi sono rovinosi. Una loggia costa 200 lire e ciò nonostante l’opera è sempre piena. A teatro si presentano in frac, in lussuosi abiti da ballo e brillanti.
Lo stesso amore del sud per lo splendore si nota nelle toilette femminili. Le romane non si abbigliano, si mettono in costume con luminosi abiti scarlatti, gialli, verdi, cappellini dorati, boa dorati. Quasi su tutte si possono vedere collane, pettini, braccialetti a imitazione della lavorazione antica di cui si gloriano i gioiellieri romani. Una simile maniera di vestirsi sarebbe ridicola nel nord, ma si confà straordinariamente alle bellezze romane.
Ma nonostante il paganesimo, la società romana appartiene comunque alla compatta e amichevole famiglia europea, da cui la Russia è divisa non da una sola linea di confine, ma da interi secoli di cultura. Irina osservò come una scrittrice straniera arrivata a Roma allo scopo di scrivere un racconto sulla vita romana, incontrasse appoggio e attenzione in tutti i circoli romani. Tutti la vollero aiutare, aprirono le porte chiuse, organizzarono incontri con persone interessanti per lei. Nessuno chiese se avesse talento e se il suo libro sarebbe stato tradotto in italiano. Aveva espresso il desiderio di lavorare e questo era sufficiente perché i romani le offrissero aiuto.
Allo stesso modo aiutarono un americano, noto in Europa con il nome di “Re del libro” a fondare una biblioteca. Questo americano rappresenta il tipo più curioso del Nuovo Mondo. Nessuno sa dove vivesse e di cosa si occupasse in gioventù. Nacque, per così dire, a quarant’anni quando, creatosi una sostanza, attraversò l’oceano e dopo essere stato a Parigi, si rese conto di voler avere una biblioteca con le opere degli scrittori contemporanei, con la clausola che su ciascun libro non ci fosse solamente la firma dell’autore, ma anche la sua spiegazione di quello che voleva dire esattamente nella sua opera.
La cosa più interessante di tutto era il fatto che l’intraprendente yankee era profondamente ignorante, non leggeva mai nulla e non conosceva nomi noti in tutto il mondo. In aggiunta: era estremamente privo di tatto, come la maggioranza dei suoi conterranei. Ma con la testardaggine americana, si rivolse a tutti, seccò tutti, e riuscì davvero a raccogliere una biblioteca molto interessante. Questa doveva rimanere per sempre in America e ciò nonostante, quando egli fece la sua apparizione a Roma, tutti cominciarono a mettere insieme elenchi di scrittori italiani e organizzargli degli incontri letterari.
Osservando questo aiuto amichevole, Irina si ricordò senza volere della sua patria. Ahimè! Là le cose andavano diversamente. A esclusione di una piccola cerchia di persone educate all’europea, gli altri si presentavano come degli orsi pigri e incolti, che per tutta la vita se ne stavano sdraiati nelle proprie tane, leccandosi la zampa, sputando di rado verso il governo, e guai a chi avesse voluto uscire dall’amato far niente nazionale, osando avere la propria idea e esprimendo il desiderio di lavorare su di essa. Quale ululato si leva da tutte le tane! “Come!” — bruiscono gli orsi — “rinunciare all’ozio, alla noia, al sempiterno piagnucolio russo! Оh, tradimento! Оh, inganno! Che sia coperto d’ignominia! Che sia fatto fallire!”
L’intelligente Europa aveva compreso da tempo che qualsiasi lavoro, anche microscopico, unito ad altri lavori simili, dà come risultato un’opera enorme, utile a tutto il mondo. Ahimè! Passerà ancora molto tempo prima che gli stupidi orsi russi comprendano questo pensiero tanto semplice.
A Irina le italiane piacquero particolarmente. Queste dolci donne non conoscono né capricci né nervi. Sono gentili e affabili, fanno facilmente amicizia e sono pronte ad aiutare qualsiasi straniero. Nelle serate romane Irina non incontrò mai quei visi allarmati che le capitava si vedere tra le fanciulle pietroburghesi.
— Troverò l’uomo amato, avrò una famiglia, mi toccherà la mia parte di felicità? — domandano i loro visi pallidi e dolenti.
La ragazza italiana è allegra e buona. Gioisce per il sole, i fiori, la propria primavera. Non ha nulla da temere per il suo futuro: per ogni italiano l’amore è indispensabile come l’aria e non può vivere senza di esso. Non è l’infelice pietroburghese, che cerca di spremere con zelo almeno una goccia d’amore dal suo cuore di ghiaccio e così muore pure, senza sapere che cos’è.
Irina si stupiva del proprio innamoramento per la società italiana. Slava, con un’altra lingua, altre credenze, qui si sentiva a casa. Irina ricordava come la irritassero le serate pietroburghesi e con quale amara sensazione di insoddisfazione rientrasse da esse. Qui, in queste sensuali riunioni, in mezzo a musica appassionata, canto, recitazione, Irina si deliziava con tutto il suo essere. Respirava felicemente, uscendo nella tiepida aria notturna e sperimentava quella contentezza e quel languore, che sperimenta il viaggiatore stanco dopo un bagno tiepido e odoroso. “Questo come si spiega?” chiedeva con stupore a se stessa Irina. Ahimè! Come la maggioranza della gente, Irina non comprendeva se stessa. Non sospettava nemmeno che da molto tempo, dalla sua stessa infanzia, era semplicemente pagana. Ma se il paganesimo dei romani si spiegava con l’ereditarietà, la perseverante pluriennale venerazione nei confronti del mondo antico, come davanti a una cultura superiore, invece in Irina, cresciuta in condizioni diverse, il paganesimo era un fenomeno morboso. Come le persone malate di paralisi progressiva ritornano gradualmente alla belva primitiva, così ogni persona psichicamente malata non solo non può fare progressi, ma non è nemmeno in grado di mantenersi allo stesso livello dei propri contemporanei: inevitabilmente tornerà indietro alla civiltà precedente.

[1]     La Dostoevskaja scrisse, qualche anno più tardi, una lettera a d’Annunzio chiedendo il suo aiuto per pubblicare in Italia la biografia del padre. [N.d.T.]

[2]     Ovvero il motto latino ars gratia artis. [N.d.T.]

[3]     Si tratta certo di Grazia Deledda, che la Dostoevskaja conobbe in occasione del suo soggiorno romano. [N.d.T.]

[4]     In italiano nel testo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdR: questo è il tredicesimo capitolo del romanzo “L’emigrante – Tipi moderni” della Ljubov’ F. Dostoevskaja, tradotto da Marina Mascher, e pubblicato con testo russo a fronte (2019) dalla Associazione Culturale Rus’, in occasione del 150° della nascita della scrittrice. Il volume può essere richiesto tramite la sezione “contatti” del sito dell’associazione, che gentilmente autorizza la pubblicazione dell’estratto. La fotografia della Dostoevskaja, che fa parte dell’iconografia del libro, è di van Bosch (Parigi).
Qui di seguito l’introduzione di Natal’ja Ašimbaeva, direttrice del Museo F.M, Dostoevkij di San Pietroburgo.

Il 26 settembre 2019 ricorrono i 150 anni dalla nascita di Ljubov’ Fëdorovna Dostoevskaja (1869-1926), scrittrice russa, figlia del grande Fëdor Dostoevskij. Per questa data l’Associazione Rus’  ha curato l’edizione del romanzo L’emigrante (Èmigrantka, 1912), che, al pari delle altre opere in prosa di Ljubov’ Dostoevskaja, è praticamente sconosciuta ai lettori. Tra i contemporanei esse suscitarono interesse esclusivamente perché furono scritte dalla figlia di Dostoevskij. Il suo nome raggiunse la notorietà solamente dopo la pubblicazione del libro di memorie Dostoevskij nei ricordi di sua figlia (prima pubblicazione, in lingua tedesca, nel 1920).
La vita di Ljubov’ Dostoevskaja si è in gran parte svolta sotto l’influenza del padre, accanto a cui ella trascorse gli anni della sua felice infanzia e che rimase per sempre un’enorme autorità per lei. Nelle sue novelle e nei suoi racconti Ljubov’, come seguendo le opere di Dostoevskij, tratta costantemente di problemi etici e religiosi, di discussioni sulla Russia e l’Europa. Tuttavia questi temi assumono il carattere di opinioni puramente personali delle sue eroine autobiografiche, vale a dire della stessa Ljubov’ Dostoevskaja, ma si rivelano essere addirittura l’opposto dei pensieri e delle convinzioni di Fëdor Dostoevskij.
L’eroina di Èmigrantka, Irina, ammira il modo di vivere europeo, esprimendosi costantemente in modo negativo sulla Russia, come su di un paese barbaro. Si accinge a passare dall’ortodossia al cattolicesimo, e solamente l’incontro con il possidente russo Gžatskij, che l’avvince con il sogno di una felice vita familiare, manda a monte il progetto di farsi suora in uno dei conventi cattolici. Attraverso i ragionamenti di Irina sembra trapelare una polemica interiore con Dostoevskij, un dialogo occulto. Ljubov’ Dostoevskaja non diventò una seguace, un’adepta delle convinzioni del proprio padre, ma la sua immagine, il suo ricordo furono costantemente presenti nella sua vita e nella sua opera. L’eroina di Èmigrantka si ricorda dell’infanzia, della messa in una piccola cittadina russa, e in questi ricordi si riconoscono dei particolari della vita di Ljubov’ stessa a Staraja Russa. I romanzi e i racconti di Ljubov’ Dostoevskaja, benché non possano essere paragonati alle opere di suo padre, custodiscono una propria quieta rilevanza letteraria.
Il romanzo Èmigrantka è disseminato di descrizioni della vita italiana, dei quartieri poveri di Roma e dei suoi monumenti antichi, di cattedrali e monasteri. Queste pagine sono scritte in maniera vivace e interessante. Ljubov’ Dostoevskaja era dotata di un indubbio, seppur non grande, talento letterario, di spirito d’osservazione, di amore per l’arte. Quasi 13 anni della sua vita sono stati legati all’Italia. La tormentata vita di Ljubov’ Dostoevskaja terminò nella piccola località alpina di Gries, un sobborgo di Bolzano. Nel cimitero comunale si conserva la sua tomba. Sul monumento funerario si può leggere questa scritta: “Aimée Dostoevskaja — scrittrice russa”.
Un grazie all’Associazione Rus’, che perpetua la memoria dei russi in Alto Adige. Tra di essi uno dei nomi più importanti è quello di Ljubov’ Dostoevskaja.

Natal’ja Ašimbaeva

I viaggi di Ulisse – 2

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Giuseppe Maria Iacovelli*

 

«Ripartimmo il giorno dopo, appena fatto rifornimento. La rotta per la nostra amata isola passava però da un luogo di cui avevo sentito parlare, le Terre Nere, e volli vederle con i miei occhi. Il nome non è un eufemismo: il mare che circonda l’arcipelago è una distesa di petrolio, dovuto in parte a perdite accidentali di petroliere e piattaforme, in parte a fuoriuscite di stabilimenti estrattivi dei dintorni, che non rispettano alcun criterio di sicurezza. Non vi sono animali che abitino quelle terre, né pesci in un mare che non è più mare, né uccelli in un cielo completamente impregnato di idrocarburi e sostanze nocive. Terribile era il tanfo che la superficie liquida esalava, tutti dovemmo mettere un panno davanti al viso; ma era nulla, meno di nulla a confronto di quel che aspettava i nostri occhi.

«La massa nera non soltanto circondava i dintorni, ma a causa della diversa densità, che creava una sorta di movimento a ondate, era riuscita a spingersi sulla terra, era avanzata gradualmente ma inarrestabilmente sulle spiagge, uccidendone tutti gli animali, e continuava a sommergere gli spazi dove un tempo sorgevano i villaggi, i campi che le popolazioni coltivavano o usavano come pascolo, le foreste che circondavano i villaggi e ricoprivano gran parte delle isole in agonia. Questo rimane oggi, una parte di quelle bellissime foreste ricche di alberi straordinari e piante rigogliose mai viste altrove, liane e arbusti che ormai si stringono l’un l’altro per paura, giacché il petrolio non smetterà mai di avanzare, e prima o poi spargerà il suo buio colore su ogni spazio ancora verde.

«Eravamo testimoni impotenti di una tragedia indescrivibile, che strappò lacrime di dolore e attonimento a uomini che credevano di aver conosciuto ogni specie di nefandezza. Ma niente di quanto vedemmo nelle nostre peripezie poteva paragonarsi a quello spettacolo: in basso un flusso nero, che sembrava pulsare di vita propria, in alto un mondo ancora vivo ma mortalmente assediato. Moriranno tutti gli alberi, i fiori, i pochi animali che ancora riescono a sopravvivere nei boschi, un habitat unico al mondo che sembrava creato dagli dèi per abitarvi e trascorrere il tempo nel piacere, o per accogliervi i più fortunati fra i mortali.

«E quando le isole moribonde saranno sommerse, anche la memoria di ciò che per tanto tempo furono, svanirà; gli uomini che verranno vedranno soltanto un obbrobrio, diranno che quel luogo era maledetto dagli dèi, e troveranno per esso un nome odioso. Così la parola, invece di salvare i fenomeni e garantire la libertà del pensare, confermerà la forza cieca degli atti.

«Proseguimmo come ci aveva indicato il trafficante di armi, sperando di trovare tempo propizio, ma anche questa volta restammo delusi. Una tempesta furiosa, non insolita per la stagione, ci sorprese e spinse le nostre navi completamente fuori rotta. Vagammo settimane prima di avvistare terra, un luogo che non avremmo mai voluto vedere. Nessuno di noi aveva idea della sua esistenza, perché, come poi venimmo a sapere, i suoi costruttori intesero mantenerlo segreto. Scendemmo in spiaggia io e alcuni compagni; eravamo armati, ma che valgono le armi contro ciò che risveglia la paura ancestrale che giace in fondo al cuore umano?

«D’un tratto ci trovammo accerchiati da creature che credevamo esistere solo nella fantasia dei poeti, che la lingua umana non permette di chiamare: uno aveva quattro braccia, un altro due corpi su un torso, un altro era squamoso come un serpente e strisciava senza gambe, un terzo aveva braccia e mani come quelle di un enorme granchio, l’ultimo aveva testa, ali ed estremità simili a un uccello rapace; non appena ci catturarono, l’uomo-uccello volò rapidissimo a informarne i mandanti. Costoro ci attendevano nella sala centrale di una vasta costruzione che fungeva da laboratorio, dove, a compenso per la prigionia e la sorte che ci aspettava, ricevemmo spiegazioni esaurienti.

«“Nei Regni della Miseria e della Sciagura” dissero “sorgono molti laboratori come questo. Vi si svolgono esperimenti genetici e batteriologici proibiti dalle convenzioni internazionali: li finanziano i loro stessi sottoscrittori, impegnati in una gara segreta a perfezionare armi e tattiche alternative all’olocausto nucleare che minaccia pur sempre il mondo, ma che viene prudentemente tenuto come extrema ratio. Le creature che avete visto sono una sorta di supersoldati, ognuno dotato di una specifica abilità. Soltanto il loro apparire, lo avete sperimentato da voi, paralizza il nemico, che resterebbe comunque disorientato dalla tecnica d’assalto: buon per voi che non abbiate opposto resistenza, non sareste durati un minuto. Quando i vostri compagni verranno a cercarvi saranno catturati e potrete rivederli; ma siete destinati comunque a fare da cavia ai nostri esperimenti, come già i molti selvaggi che razziamo nelle terre vicine, o i rari stranieri che per disgrazia giungono qui, come voi”.

«Così restammo prigionieri per mesi, dividemmo con molti sciagurati il rigore della reclusione e il terrore di essere prelevati da un momento all’altro. Venni a sapere che molti degli esperimenti più audaci fallivano, e non oso immaginare lo strazio dei malcapitati. Udii tuttavia di altre ricerche condotte in quel luogo infernale: armi batteriologiche, mutazioni virali, sviluppo di patogeni letali, ma anche progetti di nuovi gas nervini, di sostanze da spargere nell’atmosfera o nelle falde acquifere, della creazione di insetti in grado di svolgere vere e proprie operazioni di guerra o sabotaggio con effetti devastanti, di ordigni che inducono terremoti, cataclismi climatici e altro ancora. Compresi con orrore il grado di sviluppo raggiunto dall’uomo, trasformare la natura in arma e annientare se stesso con lei. Per alcuni dei miei compagni giunse un’ora tremenda: vennero prelevati da quei mostri e sottoposti a esperimenti innominabili; di loro non seppi più nulla, e prego solo che abbiano sofferto il meno possibile.

«Accadde tuttavia quel che i nostri carnefici, prigionieri della loro stessa disumanità, non avevano previsto: il nostro spirito combattivo si trasmise a molti prigionieri, che si dimostrarono pronti a tentare il tutto per tutto, anche a rischiare la vita, pur di sottrarsi al giogo. Organizzammo una rivolta, la lunga pazienza e cautela furono ripagate, poiché riuscimmo a uccidere molti di quei mostri e a incendiare gran parte del laboratorio: ora i torturatori giacciono sotto le rovine del loro mattatoio. I prigionieri liberati costruirono imbarcazioni con cui guadagnare la patria; noi, ridotti a tre navi delle quattro salpate da Ilio, ripartimmo da quel luogo inumano, affranti dalle perdite ma anche sollevati per lo scampato pericolo.

«Dopo molti giorni di mare fummo in vista di una terra che, già in lontananza, appariva deserta e arida. La riconobbi presto, e ne parlai agli altri. Era chiamata in molti modi, la Terra della Pazzia, perché i suoi antichi abitanti avevano preso decisioni folli che ridussero il loro Paese a una landa screpolata, su cui non poteva crescere nulla, o la Terra della Punizione, perché le conseguenze di quelle scelte furono appunto una punizione terribile che condannò quegli uomini a sofferenze atroci e infine a emigrare, o anche la Terra della Vergogna, perché il suo misero aspetto faceva vergognare chiunque la vedesse, ma inorridiva anche il sole che ogni giorno la flagellava con i suoi raggi. E io pensavo si dovesse chiamare proprio così, la Terra Flagellata dal Sole.

«Ma una volta il sole era amico e alleato di questi luoghi, quando i suoi abitanti coltivavano il suolo con rispetto e vivevano dei suoi prodotti: allora il sole splendeva come oggi, ma su un terreno curato che donava abbondanti raccolti, anche tre volte l’anno, assicurando riserve di cibo e surplus per gli scambi. I compagni mi chiesero cosa fosse successo. Non lo sapevo con esattezza, ma potevo immaginare la dinamica dei fatti. L’accumulo di ricchezza dovuto a una fiorente agricoltura favorì il passaggio ad attività di tipo manifatturiero e industriale, che assunsero dimensioni sempre maggiori e innescarono processi trasformativi sia del corpo sociale sia dei costumi e della mentalità. Lo sviluppo progressivo dei mezzi produttivi divenne il vero elemento trainante della vita collettiva, la società cessò di essere il luogo di interazione di forze in equilibrio per diventare la coda di una cometa impazzita che puntava tutto sul progresso tecnico e il concomitante potere economico.

«Così anche l’agricoltura, ormai non più base dell’alimentazione e degli scambi, venne integrata nella produttività scatenata, si adattò a criteri impropri di sfruttamento che favorivano piuttosto i meccanismi del produrre che non il prodotto, sempre più visto nel suo mero controvalore economico; ciò ebbe un costo di cui la società, accecata dalle forme esteriori del benessere e stordita dai suoi infaticabili cantori, non si avvide: il terreno si esaurì, danneggiato anche dall’inquinamento dovuto allo sviluppo, si dovettero importare alimentari dall’estero, cosa che ebbe conseguenze non solo nella struttura economica ma anche in politica. Un tragico paradosso del progresso fu di aumentare la ricchezza circolante nel Paese ma impoverendo strati sociali sempre più vasti, che di fatto restavano esclusi da meccanismi basati su competenze specialistiche e per di più privi di indotto; ciò accrebbe l’esclusione economica e politica, trasformò lo svago in una forma di vita e restrinse il potere decisionale a poche elite, col risultato di accentuare i processi in corso.

«La terra, maltrattata e poi trascurata, subì l’offesa del sole e di condizioni climatiche in via di mutamento: venne punita con desertificazione e siccità senza che avesse colpe, e senza che vi fossero rimedi. Ma finalmente i veri colpevoli furono raggiunti dal castigo. Capirono troppo tardi che non potevano più vivere in una terra arida e improduttiva, e che il progresso cui si erano fiduciosamente abbandonati era stato un’illusione: dovettero emigrare, chi in Paesi vicini chi molto lontano, i pochi benestanti vennero accolti con favore, poiché denaro e sapere non hanno identità, mentre i molti poveri si mescolarono ai poveri, suscitando malumori e contrasti, da cui politici e altri parassiti trassero vantaggio. Di tanta prosperità non resta che un terreno arido e sgretolato, monito pauroso per chiunque antepone il profitto all’umano.

«Navigammo settimane lungo una rotta incerta, fra tempeste che ci disorientavano e bonacce che ci esaurivano, così fummo lieti di avvistare un luogo dall’ampia spiaggia, dove si trovavano edifici vari e molti approdi. Non sembrava pericoloso, alcune piccole imbarcazioni venivano allestite e messe in mare, a prima vista sovraccariche di persone: doveva essere povera gente, pensai, possiamo scendere a terra e trattare. Parlando con alcuni pescatori scoprii che la tranquilla normalità di quel luogo celava una delle piaghe più vergognose dei nostri tempi, la tratta degli esseri umani.

«Le imbarcazioni che vedevo salpare erano cariche di migranti venuti da ogni dove e diretti verso i Paesi del benessere; partivano con ogni tempo o stagione affidandosi alla fortuna, uomini, donne e bambini speranzosi di ottenere un briciolo di quell’opulenza che oggi è la massima aspirazione sulla terra. Gran parte di essi riesce a raggiungere una meta fra quelle agognate, e dopo molte difficoltà si inserisce nel nuovo tessuto sociale e lavorativo, con l’intento di consolidare la propria posizione e garantire ai figli un futuro migliore. E costoro possono reputarsi fortunati e prediletti dagli dèi.

«Non sono pochi infatti quelli che una fine orribile aspetta durante la traversata: anche una piccola tempesta o il freddo prolungato bastano a trasformare quegli esili gusci in bare galleggianti. Nessuno conosce con esattezza il numero dei morti, perché il mare non sempre è disposto a restituire le sue vittime, né ci si premura di contarli alla partenza: proprio questa rappresenta per quei poveri disgraziati il momento della liberazione. Ciò che hanno passato fino al momento di imbarcarsi fa desiderare loro la pur pericolosa traversata come la cosa più preziosa. Questa fu la parte più interessante del racconto dei pescatori, giacché anch’io ne sapevo pochissimo.

«La maggior parte dei migranti proviene dall’interno, che è molto esteso, oppure da Paesi assai distanti; non sono tutti poveri, in patria avevano un’attività, ma un insieme di circostanze li ha spinti a emigrare. A eventi irreparabili, come la desertificazione che sta divorando moltissimi territori cacciandone gli abitanti, si aggiungono il malgoverno per lo più intenzionale di un establishment diviso in fazioni e manovrato da Potenze straniere a proprio vantaggio, il duplice cappio del debito estero e degli aiuti internazionali, messi a punto per mantenere i beneficiati in uno stato di sottosviluppo, i risultanti malessere e tensioni sociali, spesso aggravati da contrasti etnici e religiosi, non di rado uno stato fluido di guerra alimentato dall’esterno e caratterizzato dall’assenza di veri obiettivi strategici che non siano il mantenimento di un caos autodistruttivo utile a quei pochi che lo manovrano.

«Milioni di persone che hanno perso tutto raccolgono i loro risparmi e fuggono; molti non si allontanano da casa, sperano in un prossimo normalizzarsi delle cose e si arrangiano in Paesi limitrofi, una parte invece si mette in viaggio verso i paradisi della ricchezza e del consumismo, e per raggiungerli sono disposti ad affrontare un inferno. Il viaggio infatti, lungo e pericoloso di per sé, si svolge su rotte controllate da gruppi criminali che fanno capo ai governi locali: questi incoraggiano l’emigrazione di strati sociali che arricchirebbero un Paese funzionante, ma che in quello sfacelo pilotato sono un inutile surplus e una fonte di scontento, inoltre, permettendo ai loro accoliti di taglieggiare i profughi, ci guadagnano in consenso e forza.

«E proprio i momenti di rapina costituiscono le vere tappe di un percorso che gli aguzzini impongono alle vittime: dalla partenza fin quasi allo sbarco nessuno si sottrae a minacce, violenze, angherie di ogni genere; chi non può pagare viene segregato e fatto segno a soprusi finché la famiglia non spedisce il riscatto, e non una volta sola, poiché molti sono i territori e gli Stati che i fuggitivi attraversano: e come una rete interstatale si estende il turpe sistema dell’estorsione, che alimenta sia gruppi politici parassitari sia un’ampia sfera criminale che spinge le sue radici fino alla guerra. Ma una volta inseriti nei Paesi ricchi, gli ex-migranti inviano nei luoghi d’origine parte dei loro guadagni sotto forma di rimesse: per colmo d’ironia contribuiscono al bilancio di una patria che non ha esitato a scacciarli, e che dall’iniquità continua a trarre profitto.

«Questo fu il racconto dei pescatori, che infine mi indicarono alcuni edifici fra quelli che avevamo visto, e ci dissero che erano campi di prigionia per fuggiaschi in attesa dell’imbarco; lì dentro si consumavano crimini efferati, solo gli ultimi di una lunga serie, nella complice indifferenza delle autorità locali, corrotte fino al midollo e niente affatto propense a far cessare la tratta dei migranti, per vantaggio sia personale sia politico: nel sistema della globalizzazione i diseredati diventano un’utile arma umana, una massa ad alto impatto da usare contro i propri amici per acquisire peso geopolitico e ottenere maggior considerazione.

«Ripartimmo in fretta, dopo aver fatto rifornimento, diretti verso l’isola che tutti sospiravamo, ma gli dèi avevano ancora sorprese in serbo per noi, sorprese assai più amare di quello che già avevamo patito. Navigando lungo una costa in cerca di approdo vedemmo da lontano un gruppo di donne e ragazzi che tentavano in tutti i modi di attirare la nostra attenzione, come se cercassero disperatamente aiuto. Nessuno sospettò la trappola. Quando ci avvicinammo fummo attaccati da molti barchini che sbucavano rapidi da ogni parte, e la sorpresa favorì gli assalitori, che riuscirono a uccidere molti prodi compagni; gli altri, me compreso, caddero prigionieri. Ci portarono in un luogo segreto della foresta, lontano da villaggi e strade, il quartier generale di un famigerato gruppo di terroristi, noti per il fanatismo religioso e la ferocia.

«Reagirono con compiaciuta sorpresa all’udire che eravamo Greci. “Non abbiamo mai avuto rapporti col vostro Paese” disse il loro capo con un ghigno “sarete voi a inaugurarli tornando in patria come nostri ambasciatori. Infatti ho intenzione di rimandare a casa” proseguì fra le allarmanti risa dei compagni “la metà di voi: ma i fortunati testimonieranno il nostro potere mostrando per sempre le mutilazioni subite”. Gli chiesi perché rinunciasse a un riscatto cospicuo, e perché seminasse tanta crudeltà. Mi rispose: “Un nume ti ha suggerito la parola giusta, uomo di Grecia. Noi siamo seminatori, seminiamo violenza e morte, ma non agiamo per pura crudeltà, come i mostri della tua mitologia; la violenza moderna ha poco di istinto e molto di calcolo, assume già in partenza una certa forma per adeguarsi all’amplificazione dell’apparato mediatico, al quale è predestinata.

«I massacri e le mutilazioni che ci hanno reso celebri come un gruppo musicale, sono la prosecuzione della politica in questi infelici paraggi. Il loro scopo è politico, suscitare tensioni internazionali e pressioni a molti livelli, sfruttando principalmente la ribalta dei vostri media: questi trasformeranno anche le notizie più raccapriccianti in prodotti di consumo, overdosi emotive che scoraggiano la riflessione e inducono assuefazione all’invalso. I malcapitati come voi, non ho bisogno di dirlo, sono semplice materia prima. Ma anche il fanatismo che ostentiamo è strumentale: la truppa crede a quel coacervo di formule imbastito per i semplici, ne traggono la furia necessaria ai nostri scopi, mentre i dirigenti vedono oltre l’immediato, sanno bene dove sfocia il fiume di sangue di cui noi formiamo la sorgente.

«I Regni della Miseria e della Sciagura non sono mai stati tanto utili ai Paesi del benessere come oggi: questi ne ricavano ricchezze materiali, forza lavoro, ritorno d’immagine e strumenti di pressione, i pilastri di quella gigantesca interazione che chiamate globalizzazione, e che altro non è se non una variante dell’eterna politica di potenza. Dovrei chiedere un riscatto per voi? Ma percepisco già un lauto stipendio, e siete proprio voi a pagarlo!”. Diede ordine di condurci al luogo delle esecuzioni, una vasta radura costellata dei simboli abusati della loro fede. Vidi molte donne e bambini, fiere le une di uno status subalterno, iniziati gli altri in tenera età a una vita disumana, tutti ingranaggi inconsapevoli di un sistema insensato. Assistetti impotente all’uccisione dei miei prodi compagni, che ben altro destino avrebbero meritato e che nulla, neanche le acque del Lete, potranno cancellare dal mio cuore, e mi preparai a subire con gli altri le mutilazioni.

«Ma i numi non si erano dimenticati di noi, o credettero che la misura del dolore fosse colma: in quel momento irruppe una pattuglia delle forze locali, che fermò il truculento rituale e impegnò i terroristi in combattimento, dandoci un’insperata occasione di fuga. Tornammo alla nave, giacché una sola, dopo tanti disastri, ci rimaneva delle quattro che lasciarono Ilio, ma nemmeno quella era destinata a toccare la sacra Itaca. Dopo alcuni giorni di mare una tempesta terribile, la più violenta fra le molte che pure vedemmo, affondò l’ultima casa che ebbi in comune con i cari compagni: il mare, nemico giurato degli Achei, si prese uomini che non temettero mai di seguirmi, uomini ai quali non temetti mai di affidare la mia vita o l’esito di un’impresa. Ma non volle me, rifiutò il loro capo, l’unico responsabile della sorte comune, mi lasciò aggrappato a un albero della nave e mi condusse qui, misero avanzo di un’armata eletta, nell’isola beata dei Feaci: io fui destinato a raccontare l’accaduto, voi, o alti ospiti, ad ascoltare».

26Qui Ulisse pose fine al suo lungo racconto. La grande sala del palazzo di Alcinoo risuonava ora di un silenzio ben diverso dal precedente, un silenzio imbarazzato, perfino ostile; e già prima di terminare la sua straordinaria storia, l’acuto laerziade aveva avvertito un crescente disagio nell’uditorio. Non si era ingannato; i principi dei Feaci non erano lieti per quel che avevano udito, e non riuscivano più a nascondere la loro insofferenza.

Fu di nuovo Alcinoo a prendere la parola e a esternare il pensiero di tutti: «Gli dèi, o illustre re di Itaca, hanno voluto farti protagonista e testimone di una storia che non ha eguali, e noi siamo consapevoli del privilegio di averla ascoltata dalla tua bocca. Ma i contenuti di quella storia, il suo senso, non è quello che il nostro orecchio si aspettava. Credevamo che narrassi eventi simili a quelli che abbiamo udito dal nostro cantore, storie di grandi battaglie, eroici assedi, imprese d’armi, tutte nel registro dell’epica, che sa deliziare il bisogno di evasione dei nostri pari.

«Tu hai fatto qualcosa di completamente diverso, che solo in nome della tua fama è stato tollerato: hai raccontato in modo dialettico, mostrando i nessi fra dimensioni lontane e in apparenza estranee fra loro, svelando la falsità del narrare odierno, che riduce i suoi temi a innocui passatempi, e confutando la buona coscienza di chi vive nel privilegio e nel benessere. Hai mantenuto la tua parola, figlio di Laerte, poiché non hai risparmiato di ragionare. Abbiamo imparato come funziona il meccanismo che regge il mondo, quale sia la natura dei rapporti fra popoli e potere, ben oltre i grati ritornelli dell’apologia, e quanto sangue e iniquità si celino dietro l’indegna gioia di pochi, ai quali noi stessi apparteniamo.

«E, a ben considerare, la lezione più profonda del tuo racconto affiora forse più di quanto tu non abbia voluto, mi riferisco alla interconnessione generale dei fatti: anche quelli più diversi o lontani fra loro sono in realtà frutto di una stessa logica che tutti li inanella, quella che spiega l’assetto complessivo del mondo e si prolunga nel nostro vivere quotidiano, finanche nei suoi aspetti più umili e spontanei. Questi ultimi anzi presuppongono il grande lato in ombra delle cose, sono il suo rovescio necessario come esso è il loro.

«Abbiamo imparato, grazie a te, che non si possono raccontare avvenimenti isolati, perché significa solo affidarli a una ricezione emotiva e caduca, la stessa su cui contano i produttori di menzogne al fine di mantenere l’invalso; abbiamo imparato che l’unico modo di comprendere un evento è il comprenderli tutti. Ci hai costretto ad ascoltare quello che nessuno vorrebbe udire, e che pochi, uditolo, crederebbero – nessuno avrebbe potuto osare tanto all’infuori di te! E credimi, prode fra i prodi, alle imprese narrate puoi aggiungere anche questa, che ad esse, quanto a coraggio e valore, è di poco inferiore.

«Ma la novità di oggi non avrà seguito: domani sarai accompagnato a Itaca da una delle nostre navi, provvisto di doni adeguati al tuo rango, mentre noi torneremo a svagarci al dolce canto di Demodoco».

 

 

*Giuseppe Maria Iacovelli,  “I viaggi di Ulisse”, Racconti e favole. C’era una volta il mondo d’oggi, Napoli, Guida, 2021, pp. 479-506.

I viaggi di Ulisse – 1

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Giuseppe Maria Iacovelli*

Quando Demodoco, il cieco cantore amato dalle Muse, finì di evocare le imprese di Ulisse, la grande sala del palazzo di Alcinoo risuonò di un silenzio divino. La forza del canto e l’altezza delle gesta avevano rapito i cuori di ogni uditore, ma non poterono impedire ad Alcinoo, il saggio re dei Feaci, di scorgere lacrime e dolore sul volto dell’ospite.

Costui venne richiesto di svelare finalmente il suo nome, la sua origine e anche il perché dell’angoscia che l’opprimeva; grande, immensa fu la meraviglia dei presenti quando l’uomo, gettato dal mare sulle spiagge dell’isola, rivelò di essere l’eroe del canto, Ulisse, figlio di Laerte, signore di Itaca, piena di sole e cavalli robusti, distruttore della potente Ilio, compagno di Agamennone, Menelao, Nestore, Achille, Aiace, Diomede, Idomeneo, e altri eroi ormai leggendari, i più forti figli di Grecia. E vincendo l’attonimento che aveva preso gli altri, Alcinoo pregò l’ospite – certo il più illustre mai giunto alla reggia – di narrare i suoi casi, quale fu il suo ritorno e come si fosse ridotto a naufrago bisognoso di tutto.

«Tu vuoi ch’io rinnovelli un dolore indicibile» rispose allora Ulisse «che mi stringe il cuore già solo al pensiero, prima di parlarne; ma se il mio racconto potrà far luce sulle condizioni in cui versano milioni di innocenti e sulla distruzione che minaccia il mondo, allora, o saggio re, mi vedrete parlare e ragionare insieme.

«Partiti che fummo da Ilio, di cui non lasciammo che rovine fumanti, una tempesta furiosa scompigliò la flotta, trascinando molte navi negli abissi del mare, altre portandole fuori rotta, come capitò alle nostre. Alcuni videro l’ira dei numi dietro quella tempesta, certo offesi dalle crudeltà cui ci abbandonammo nei confronti dei vinti; e un nume volle guidare il mio cammino lontano da casa, attraverso i Regni della Miseria e della Sciagura, affinché vedessi con i miei occhi ciò che a malapena avevo creduto nel racconto altrui.

«Giungemmo anzitutto alle Montagne dei Rottami Lucenti, ammassi giganteschi di elettrodomestici, apparecchi e congegni meccanici di ogni genere, ma soprattutto di alta tecnologia, che i Paesi evoluti sdegnano di smaltire a norma di legge, preferendo di gran lunga inviarli a quei depositi spontanei. Ne arrivano in quantità immense, sottratti al riuso e soprattutto all’uso ben prima di essere diventati inutilizzabili, poiché la produzione non può permettersi rallentamenti, né il mercato può languire.

«Vengono scaricati lungo la costa o direttamente in mare, le correnti li spingono verso i mucchi già esistenti e gli agenti atmosferici, a partire dal sole, fanno il resto: singoli oggetti vengono divorati da una massa quasi indifferenziata che cresce in maniera lenta ma inesorabile, creando alture e avvallamenti che, come quelli naturali, si modificano incessantemente. I singoli pezzi, ormai fusi e confusi fra loro, sarebbero irriconoscibili per gli stessi proprietari. I riflessi dovuti al metallo e al vetro fanno sembrare da lontano un prodigio della natura ciò che in realtà è un abominio dell’uomo, il primo soltanto dei molti che avremmo visto.

«Le Montagne sono talmente grandi da essersi saldate alla costa, la proseguono in promontori artificiali dove soltanto gli uomini vivono e lavorano, gli animali se ne tengono lontani. I miseri che abitano quelle regioni non temono di inerpicarsi sul suolo composito che il sole cocente ha amalgamato, badando solo di indossare calzature adeguate: all’odore nauseabondo che sale dall’ammasso si sono abituati, noi ne abbiamo sofferto. Hanno costruito le loro capanne usando materiali ricavati dai Rottami, e da essi traggono di che sostentarsi. Li scompongono o trasformano in utensili, riutilizzano parti e componenti a seconda del bisogno, ne asportano il metallo pregiato, spesso li vendono come parti di ricambio; i più abili fra loro riescono a trarne oggetti di foggia impensata e al contempo utili, mettendo insieme pezzi sottratti ad apparecchi diversi, e anche a noi cercarono di vendere le loro assurde creazioni.

«Se avessero l’energia elettrica potrebbero diventare ricchi, ma nessuno gliene fornisce, preferendo avere i loro prodotti a un prezzo infimo, ed essi d’altra parte sembrano assuefatti alla miserabile vita che conducono, da parassiti del rottamaio, forse per effetto del cattivo odore che respirano continuamente. Credo che in cuor loro gioiscano di quella miniera e insieme la maledicano; ma hanno un patrimonio immenso da sfruttare, che darà lavoro a innumerevoli generazioni, e sanno che per ogni pezzo che estraggono, ne giungeranno cento dal mare.

«Rimasi sbalordito nel constatare che i rifiuti più raffinati di una civiltà alimentassero un’economia primitiva senza mutarne il carattere; intuii che il guadagno della prima non consisteva solo nel risparmio dei costi di smaltimento, ma anche e soprattutto nell’evitare che un’economia soggetta si evolvesse a concorrente. Era il lato nascosto dell’economia globale, quel che ne svela la quintessenza: la sproporzione incolmabile fra produttori e fruitori coatti garantisce il dominio, cioè l’immutabilità dei rapporti. E d’altronde i meccanismi stessi dell’economia non sono regolati già nei Paesi ricchi al fine di esercitare il potere? Per quanto lontano dai lidi della civiltà, il tetro fulgore dei Rottami Lucenti arriva certo laggiù, con effetti rassicuranti. Non era quella la nostra meta, così ripartimmo presto, appena la marea fu favorevole.

«Navigammo per molti giorni, spesso con vento contrario, finché raggiungemmo un’isola. Un piccolo porto permetteva l’approdo: sulla banchina ci aspettavano degli uomini, alcuni dei quali armati. Dissi loro che non avevamo intenzioni ostili, ma che saremmo ripartiti prima possibile, dopo un breve riposo. Credevano che fossimo clienti, ne arrivano molti per acquistare oro, argento e specialmente terre rare; sapevo che l’industria ha enorme bisogno di quei metalli, ma non sapevo dove si estraessero, così quegli uomini si offrirono di mostrarmi le cave.

«Li seguii all’interno dell’isola, e ben presto mi trovai in un luogo più spaventoso dell’inferno: ciò che chiamano cave infatti sono giganteschi imbuti scavati nel terreno, dopo averlo completamente disboscato, lungo le cui pareti, a terrazze digradanti, lavorano innumerevoli schiavi. Si tratta di nativi o prigionieri razziati nelle isole vicine, costretti a estrarre i materiali a mani nude, uomini, donne e bambini che non fanno altro che consumarsi per l’avidità dei loro aguzzini; lavorano dall’alba al tramonto, a volte anche la notte, non importa che tempo faccia, se sia la pioggia o il sole a fustigarli, mangiano una sola volta al giorno quello che io non darei al mio cane, chi non tiene i ritmi di lavoro o tenta il suicidio viene percosso brutalmente per ore in presenza degli altri, tranne le mani lo colpiscono e lo mutilano in ogni parte del corpo.

«Ho visto molti di quei disgraziati scavare freneticamente, senza coscienza, storditi dalla paura e dal dolore, ho visto il prezioso bottino nelle loro martoriate mani, mescolato a lacrime e sangue, ho visto tutto questo ma non ho compreso come gli uomini possano volerlo e i numi del cielo contemplarlo. Mi hanno spiegato però che un pugno di quel materiale rende mille volte i costi di mantenimento di molti schiavi. Il mio cuore fremeva di rabbia e di sdegno, ma cosa avrei potuto fare contro quel sistema? Se anche avessi ucciso tutti gli aguzzini e liberato gli schiavi, altri aguzzini sarebbero venuti e nuovi schiavi avrebbero preso il posto di quelli; essi infatti, aguzzini e schiavi, non erano che semplici mezzi di rifornimento, i canali di una materia prima indispensabile ai padroni del mondo.

«Più di ogni altra cosa costoro bramano le materie prime in grado di alimentare il progresso tecnologico, l’arma suprema; grazie ad essa aggiogano i popoli a ogni decisione, anche a quelle che li danneggiano e che sono ormai la gran parte, e pongono i loro sistemi come paradigma assoluto, cui tutti gli altri Paesi corrono ad assimilarsi: questo garantisce loro il primato planetario, ed è l’anima di quel che chiamano nuovo ordine mondiale.

«Che differenza passa fra la schiavitù antica, indispensabile anche ai Greci, e questa? Che la prima si basa sulla superiorità dell’individuo, che ha la forza di mantenere una pratica odiosa e la rende accettabile alle vittime, la seconda è indiretta, sfrutta la forza del sistema, si articola in molti passaggi, tramite i quali si moltiplicano gli introiti e si preservano le buone coscienze, che apprezzano l’ultimo anello della catena, accuratamente rifinito, perché nulla sanno di essa. Tornato alle navi ho raccontato ai miei compagni una minima parte dell’orrore che avevo visto, per non affliggerli, e ci preparammo alla partenza per l’indomani.

«Lasciai con sollievo le Isole dei Forzati facendo rotta verso Itaca, ma di nuovo il mare volle condurci altrove, precisamente verso un luogo maledetto che gli schiavisti mi avevano raccomandato di evitare: la Palude dei veleni. Ne avevo sentito parlare, sapevo che per le navi è quasi impossibile sfuggirle.

«Il mare cessa di essere acqua e si trasforma in una poltiglia semisolida formata da scarichi industriali e sversamenti di ogni genere, provenienti da stabilimenti che non rispettano alcuna norma di sicurezza – i Regni della Miseria sono punteggiati da quegli stabilimenti come il viso di un giovane dalle pustole del vaiolo; e come queste rilasciano un liquido purulento, quelli producono senza sosta gli scarichi che, grazie alle correnti, confluiscono nella Palude dei veleni. Dalla superficie esalano miasmi che uccidono gli uomini in pochi giorni, mentre la poltiglia aggredisce lo scafo delle navi consumandolo lentamente, finché non diventa anch’esso poltiglia indistinta che tutto ingoia, manufatti e cadaveri.

«La Palude è come la piaga insanabile in un corpo: si espande perché il corpo non riesce a difendersi, e solo quando lo ha distrutto interamente si placa. Ma se le piaghe degli uomini guariscono grazie all’arte medica, nulla farà scomparire quel male prodotto dagli uomini; esso è destinato a crescere senza fine nutrendosi di tutto ciò che incontra, vera immagine di una morte ineluttabile e cieca. Diversamente dai processi distruttivi della natura, che sono parziali anche nel parossismo e conducono sempre al ristabilirsi di un equilibrio, a un compenso per ciò che è andato perso, grazie al quale un ciclo può ricominciare, la distruttività umana ha l’atroce carattere del definitivo e dell’inarrestabile; niente può fermarla, nulla le sopravvive.

«Per la prima volta nella sua lunga storia la parte più civile e progredita dell’umanità ha perso il controllo delle dinamiche di sviluppo, innescando un meccanismo autodistruttivo che non è un mero effetto collaterale ma un coefficiente primario del progresso; e che questo venga pur sempre considerato tale, che nessuno mostri intenzione di recedere da questa folle logica e anzi ostenti credere che in una svolta tecnologica rispettosa della natura siano riposte le speranze per le generazioni a venire, tutto ciò sembra la dimostrazione che la modernità in senso lato consista in una enorme, insanabile contraddizione, tanto forte tuttavia da continuare a vivere di sé (e contro di sé).

«Il fetore della Palude, ben avvertibile a grande distanza, mi mise in allarme e ordinai a ciascuno di prendere un remo per cambiare rotta. Riuscimmo così ad allontanarci appena in tempo dalla melma assassina che offendeva la natura e i numi, e dopo molto remare ci avvicinammo a una costa sconosciuta. Di ciò che poteva aspettarci non sapevo nulla, quindi presi ogni precauzione. Lasciai gran parte dei compagni sulle navi, ormeggiate a distanza di sicurezza, e con i più animosi scesi a terra per esplorare i dintorni. Seguendo il fumo che si vedeva in lontananza, arrivammo a un villaggio, che mi parve subito molto povero, abitato da genti prive di mezzi. Non erano ostili, anzi ci accolsero con benevolenza, offrendoci quel poco che avevano.

«Il loro capo, un vecchio nobile e dignitoso, raccontò la storia di quel posto, che oggi chiamano la Valle degli Ammalati. “Un tempo, o stranieri venuti da lontano, il nostro villaggio era grande e fiorente; io stesso ricordo da bambino le attività e i traffici che animavano queste terre, la vita semplice ma gaia del nostro popolo, oggi colpito da un castigo celeste. Solo in pochi anziani rammentiamo il nome originario di questa terra, ma nessuno, in tanta sciagura, ha il cuore di rievocarlo”. Domandai quale castigo intendesse ed egli rispose: “L’acqua delle fonti non è più pura, i frutti degli alberi e della terra non sono più buoni, gli animali si ammalano, l’aria stessa si è ammalata e consuma le nostre vite. Nessuno ha visto la causa di questa peste, nessuno sa da dove è venuta e quando, si è diffusa silenziosamente, in modo inavvertito, permeando la linfa del vivente; nulla ha resistito al male, nulla potrà scacciarlo.

«Ciò che dovrebbe nutrirci ci distrugge, in modo lento e crudele, e la vita è diventata una malattia da cui la morte fa la grazia di liberarci. Non c’è capanna senza un ammalato, non c’è famiglia senza lutti, nessuno conosce più il significato di parole come gioia, serenità, danzare, sorridere, sperare, se non gli anziani come me, incapaci di spiegarlo e destinati a portarlo con sé nella tomba. Per il mio popolo restano solo parole come pianto, dolore, disperazione – non è questo un castigo divino?”.

«Gli chiesi allora perché non andassero altrove, per mare o per terra, lontano da quella condanna, alla ricerca di una nuova patria. “Le tue parole, signore di Itaca, dicono che la tua isola è davvero remota, oltre i mari che circondano i Regni della Sciagura: non sai che la maledizione ha colpito tutte queste terre fin dove lo sguardo dell’occhio più acuto si perde, fin dove può arrivare in volo l’uccello più veloce. Non c’è possibilità di fuga per noi, non c’è speranza per chi è stato colpito dall’ira degli dèi. Tutti siamo destinati a morire, e una volta riuniti ai nostri padri ci consoleremo ascoltando da loro le storie dei tempi felici”.

«A quelle parole compresi che la strana malattia aveva ammorbato non solo i corpi ma anche le anime di quei disgraziati, che avevano perduto fin la capacità di reagire e di volere. Mentre tornavo alle navi, spiegai ai compagni che il castigo celeste aveva un’origine umana, verosimilmente un leggero avvelenamento da radiazioni. Doveva trattarsi di rifiuti radioattivi di origine sconosciuta, ancorché facilmente immaginabile, giacché sono i Paesi ricchi e potenti a produrre le scorie più abbondanti, non certo i popoli arretrati, che ne restano vittime inconsapevoli.

«I fusti micidiali vengono portati lontano dai luoghi di produzione e di divertimento, spesso tramite reti criminali che con ciò dimostrano una volta di più la loro utilità al sistema, e gettati per lo più in mare, presso località abitate da genti prive di mezzi e di importanza. Questi dovevano essere stati abbandonati nei dintorni del villaggio già da molto tempo: l’erosione dei contenitori ha provocato la diffusione del materiale radioattivo nell’ambiente, condannandolo a una lenta morte.

«Sciogliemmo le vele, sperando che il vento ci portasse verso casa, ma Eolo non sembrava propizio ai nostri voti. Viaggiammo per molti giorni e altrettante notti, finché non vedemmo da lontano una grande città costiera. Inizialmente ci rallegrammo, giacché le grandi costruzioni annunciano sempre la civiltà e il rispetto per l’essere umano, anche se straniero, ma avvicinandoci crebbe l’inquietudine: colonne di fumo nero si alzavano da vari punti, molta gente sembrava impegnata a spegnere gli incendi o a soccorrere i feriti, le costruzioni che da lontano ci avevano rincuorato mostravano adesso grandi squarci, molte parevano sul punto di crollare.

«Attraccammo senza che alcuno badasse a noi; guardandomi attorno scoprii che il destino di Ilio era stato mite. Fra le rovine giacevano centinaia di corpi straziati, ammucchiati confusamente, e molti ancora ne venivano portati. Le urla di amici e parenti si mescolavano a quelle dei feriti estratti dalle macerie, e a quelle dei soccorritori, che cercavano invano di mantenere l’ordine. Dovevano aver colpito una scuola, poiché da un lato si raccoglievano in gran numero cadaveri irriconoscibili di bambini e ragazzi, ridotti a frantumi di bambole. Ma in quella marea di grida e pianti disperati mi colpì il silenzio attonito di chi, pur ferito, vagava senza nulla comprendere, fantasmi in carne e ossa fra viventi destinati a morire.

«Grazie alla confusione potei avvicinare una donna seduta in disparte, troppo afflitta per impaurirsi di me. Mi raccontò fra le lacrime che la città viene bombardata tre volte al giorno dagli aerei dell’Alleanza Internazionale per la Pace e la Giustizia, mentre dall’entroterra avanzano le Armate per la Sicurezza mondiale facendo terra, acqua, aria bruciata; lo stesso accade alle altre città della regione, ormai da molti anni. Non conosceva con esattezza i motivi della guerra, ma aveva sentito parlare di pressioni internazionali e interessi economici di grandi Potenze, che invece di affrontarsi direttamente e danneggiare così i propri averi, scelgono Paesi terzi come campo di battaglia.

«Avevo udito anch’io certe cose, che i Paesi delendi vengono scelti in base all’orientamento politico della dirigenza, al livello di sviluppo economico, al peso strategico nella loro area; sapevo altresì che le Potenze fanno ricorso a milizie alleate o mercenarie, che garantiscono abbondanti crimini di guerra, grazie ai quali le Potenze raggiungono i loro scopi conservando la necessaria rispettabilità. Non faticai a immaginare le conseguenze di quella catastrofe studiata a tavolino: una ricostruzione radicale presuppone l’assoggettamento economico di un Paese, senza contare che lo shock dovuto ad anni di strazio, privazioni e terrore rende una popolazione malleabile e fa da monito alle altre.

«Vidi così il vero volto delle guerre per procura, la forma oggi più richiesta di conflittualità armata: al centro stanno i civili inermi, sui quali si infierisce senza pietà all’unico scopo di modificare un contesto politico-economico che non soddisfa gli auspici di elite remote. Più che a una vittoria sul campo si punta a prolungare gli scontri, per ridefinire gli equilibri di un sistema globale tendente per natura all’autodistruzione; l’ardimentoso e tenace silenzio dell’informazione, impegnata a generare intrattenimento autoreferenziale, funge da arma essenziale, certo la più efficace fra le non convenzionali. Invece di conservare un sistema che produce conflittualità come elemento necessario, sarebbe saggio tentare di smantellarlo a partire dalle dinamiche economiche che dettano l’agenda politica.

«Rimasi allibito nel misurare la differenza fra le nostre guerre e quella: per noi esiste un nemico, è un individuo forte e agguerrito come noi, sconfiggerlo è un onore; i Troiani che abbiamo ucciso o reso schiavi erano degni di rispetto. Ma lanciare esplosivi su masse inermi e sconosciute per distruggere alla cieca e indurre qualche ottimate a più miti consigli non è guerra, è un crimine senza nome, un’onta incancellabile. La donna mi disse che lì non avremmo trovato nulla per il nostro viaggio, la città, dopo anni di guerra, era in emergenza alimentare oltre che sanitaria: la gente risparmiata dalle armi moriva di penuria; prima di imbarcarmi le feci portare delle provviste e un po’ d’acqua. Fu uno dei rari momenti in cui ringraziai il cielo di essere il re di un’isola piccola e povera.

«Ripartimmo prima del successivo bombardamento, alquanto scossi da quel che avevamo visto, e senza un’idea precisa sulla direzione da prendere. Navigammo alcuni giorni verso nord, finché una burrasca improvvisa ci fece perdere nuovamente la rotta. Toccammo una terra sconosciuta, e questa volta non andai a perlustrare i dintorni, ma un dio, che aveva a cuore la mia incolumità, mi suggerì di inviare qualcuno dei miei compagni. Disgraziatamente per loro, è quel che feci.

«Passarono molte ore e non vedendo tornare nessuno dei cinque esploratori, risolsi di andare a cercarli con un altro gruppo, ordinando agli altri di stare in guardia e di mettersi alla nostra ricerca dopo un certo tempo. Seguimmo un sentiero dove anche i nostri potevano essere passati, e nessuno di noi diede importanza a piccoli oggetti che ogni tanto si scorgevano, manufatti assai rozzi che potevano essere giocattoli, ma anche piccole armi – e se anche vi avessimo badato, non saremmo sfuggiti al destino che ci attendeva poco lontano. Arrivammo a un’ampia radura dove sorgevano molte capanne, ma curiosamente tutte di piccole dimensioni, nessun adulto avrebbe potuto entrarvi a meno di non camminare a quattro zampe; e anche le altre strutture del villaggio, come steli, utensili e oggetti di uso collettivo, erano tutte straordinariamente piccole, come se fossero destinate a dei bambini.

«E nient’altro che bambini trovammo in quel posto tremendo, bambini che ci guardavano con un misto di sorpresa e ostilità: alcuni piccolissimi, i più grandi avranno avuto forse dieci anni, maschi e femmine, tutti seminudi, sporchi, mostravano di vivere in uno stato primitivo che si manifestava fin troppo chiaramente nell’espressione selvaggia e nei gesti brutali che facevano, sia nei nostri confronti che fra loro. L’innaturalezza di quello spettacolo, accentuata dall’impressione che nemmeno i più grandi avessero una lingua, ma che si esprimessero a gesti e suoni gutturali, era il meno dell’orrore che si aprì davanti a noi. Solo in quel momento infatti, notammo alcuni gruppi di bambini chini su qualcosa che ricoprivano completamente, ma su cui si affaccendavano con fervore: erano i nostri cari compagni, o quel che ne restava dopo il crudele pasto.

«La nostra reazione scatenò il villaggio contro di noi: tutte quelle creature, che non posso più chiamare bambini, si lanciarono verso di noi urlando e brandendo piccole armi, o anche a mani nude, con una furia che non ho trovato nemmeno negli animali più feroci. Ne andava della nostra vita e dovemmo difenderci, ferendo e uccidendo quei piccoli mostri, che tuttavia, pur impauriti, non cessavano di tornare all’assalto, come se obbedissero a un ordine primordiale. Infine riuscimmo a fuggire e a raggiungere la nave, e gli altri inorridirono al nostro racconto: ma scoprii che uno di loro aveva sentito parlare dell’Isola dei Bambini Cannibali, pur non avendo mai dato fede a quella storia.

«Un odio viscerale contro gli adulti, responsabili del male subito, spingeva molti bambini a riunirsi in comunità come quella che avevamo visto, ad abbracciare costumi ferini e a cibarsi di qualsiasi adulto in cui si imbattano; per colmo di ferocia sottopongono allo stesso destino i membri del gruppo che superano una certa età. Può darsi, come qualcuno dice, che la tetra dea Nemesi, patrona dei torti, abbia ispirato quella estrema rivolta dell’infanzia contro i suoi cattivi tutori. E quanto più crudele è giusto che sia, se a provocarla sono state cause materiali ed esteriori, come il dominio, lo sfruttamento, il profitto, le funeste dinamiche oggettive nei cui tentacoli ci siamo spesso imbattuti, e che ormai guidano le scelte degli uomini e li rendono ciechi di fronte a qualsiasi altra valutazione.

«Ma che mondo si prepara da un meccanismo che prescinde da ogni elemento umano ed è tanto tenace da impedire mutamenti che non siano il suo stesso ribaltarsi e cambiare direzione? La violenza dei bambini contro gli adulti infatti non è altro che il riflesso dei rapporti sociali, il concentrato che ne svela l’essenza poiché ridotto alla mera funzione, priva di orpelli sovrastrutturali; ciò vuol dire che la logica distruttiva che anima la civiltà non muterà natura, ma cesserà quando non sarà rimasto più nulla da distruggere, nessuno da uccidere.

«Di nuovo in viaggio, piangemmo i cari compagni caduti; al dolore per la perdita si aggiunse l’impossibilità di dar loro sepoltura. Dopo qualche giorno incrociammo una piccola flotta, una decina di navi da trasporto che si avvicinarono minacciosamente, come se volessero attaccarci, pur non sembrando pirati. Quando compresero che eravamo sì guerrieri ma intenti al ritorno in patria, si rabbonirono e si spiegarono: erano non pirati ma trafficanti di armi, temevano che noi facessimo parte di un corpo militare e volessimo fermarli per un’ispezione. Saputo che cercavamo un approdo per rifornirci di acqua e cibo, ci consigliarono di seguirli alla loro destinazione. Era un porto piccolo ma ben attrezzato, dove si poteva trovare facilmente di tutto.

«“Non devi meravigliarti” mi spiegò il capo dei trafficanti “le armi sono la miglior calamita per denaro e merce d’ogni genere. Vedi le case e i magazzini? Sta sorgendo una cittadina che presto diventerà un punto importante di ritrovo e di scambi, forse i nostri figli la renderanno capitale di un nuovo Stato. È il corso della storia, re di Itaca, ormai diventato sinonimo di flusso monetario. Esso catalizza le energie e impone la direzione obbligata al loro attuarsi: intraprese che dipendano dal capitale e fruttino capitale, senza che il fattore umano disturbi troppo. Il suo ruolo è di adattarsi ai progetti del capitale, che non mancherà di provvedere agli inevitabili scompensi interiori con balocchi e svaghi rigidamente prefissati, in modo da legare le persone sempre più all’invalso, in un proficuo circolo vizioso. E quando la città sarà divenuta grande e potente verrà accolta nel novero delle consorelle al dominio, che certo non le chiederanno conto dell’origine della sua ricchezza”.

«Domandai al trafficante come si procurasse le armi e a chi le rivendeva. “Sei un uomo ansioso di comprendere, guerriero acheo, gli dèi non ti hanno donato solo la forza e il coraggio. Ti dirò dunque ciò che gli altri non vogliono udire. Le armi provengono dalle fabbriche dei Paesi pacefondai, gli stessi che siedono nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, simbolo della sicurezza che non perderanno il primato globale. Grazie al traffico di armi, coadiuvato dal controllo sul prezzo delle materie prime e dalla politica monetaria, si mantiene l’attuale gerarchia dell’obbedienza, che vede i Paesi soggetti allineati su una scala di utilità: a seconda di come la situazione internazionale evolve, i Paesi paciofili impongono il proprio utile al bene comune, con la scusa che questo sia un sinonimo di quello.

«Intanto produzione e commercio di armi costituisce non solo una delle voci principali del PIL mondiale, ma anche e soprattutto un fattore unificante del nuovo ordine mondiale, che non obbedisce più al confronto di logiche diverse bensì al principio di concorrenza: la posta in gioco è una sola, le regole sono condivise, i player – non a caso si chiamano così – corrono come atleti uno a fianco all’altro sulla stessa pista verso un unico traguardo, cioè il controllo dell’economia globale. Lo hanno battezzato post-storia e lo ricoprono di slogan per dargli un aspetto solenne e intimidire gli incerti, ma non hanno motivo di temere: i fatti dimostrano che nemmeno il canto delle sirene aveva tanta forza di seduzione.

«Il traffico di armi è ormai equiparato a qualsiasi altro commercio: vendiamo a moltissimi acquirenti perché il senso del vendere è quello di stabilizzare rapporti e aprirne di nuovi, come una rete che si rafforza espandendosi all’infinito. Ogni tanto la propaganda dei Paesi paciolatri si compiace di mostrare qualche dettaglio folkloristico della schiavitù mondiale – come vivono le vittime, cosa mangiano, cosa sognano, tutto filtrato in forma autoassolutoria –, frammenti irrelati di male che non suscitano alcun senso di colpa e aiutano i sudditi del benessere ad apprezzarlo anche quando sembra strutturalmente iniquo; anzi, aiutano a non vedere quello che noi due, abituati a guardare la realtà negli occhi, sappiamo bene: che il sistema del benessere è il rovescio necessario dell’iniquità globale, e che l’uno alimenta ed è alimentato dall’altra”. Il mercante di armi non mentiva, aveva solo confermato sospetti che nutrivo da tempo.

– Prima parte –

*Giuseppe Maria Iacovelli,  “I viaggi di Ulisse”, Racconti e favole. C’era una volta il mondo d’oggi, Napoli, Guida, 2021, pp. 479-506.

 

Giulia Niccolai

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Credo che tutti ricordiamo che persona straordinaria era Giulia Niccolai, nell’ultima parte della sua vita monaca buddista, ma con alle spalle una vita carica di scrittura, fotografia, bellezza e allegria, scomparsa all’ultimo solstizio d’estate, mentre era nata nel lontano solstizio d’inverno del 1934. Io l’ho conosciuta tardi, alle serate “letterarie” dalla Libreria Popolare di via Tadino, a Milano, spesso organizzate dal nostro Biagio Cepollaro. Infatti se scrivete “Niccolai” nel nostro “cerca” saltano fuori più di una trentina di rimandi a posts degli anni scorsi. Il giorno che sarebbe stato il suo 87° compleanno è uscito un bel ricordo di lei, scritto da Kika Bohr, che la conosceva da quand’era in fasce, che vorrei segnalarvi.
Già che ci siamo vi trascrivo qui uno dei suoi numerosi e talvolta esilaranti frisbees:

Per anni ho desiderato
mettere una raganella in un cucchiaio
e inghiottirla viva
come un tuorlo d’uovo.
(Quando lo confessavo agli amici
mi accorgevo che si scandalizzavano)

Solo da quando
– non più di un anno fa –
ho ricordato
che una raganella verdissima
dal ramo di un albero di frutta
mi pisciò in un occhio mentre la osservavo
(quando avevo quattro o cinque anni),
questo desiderio è passato

Cari amici, a voi una rana ha mai pisciato in un occhio?

Avrei voluto essere Candy Candy

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(È da poco uscito il secondo volume che raccoglie gli “articoli alimentari” di Tommaso Labranca, raccolti con pazienza da Luca Rossi, editore e amico, che qui ce ne regala uno del 2014 come assaggio. Il resto lo trovate se acquistate il volume. Merita. G.B.)

 

di Tommaso Labranca

Chissà come passavano il tempo i ragazzi nati prima degli anni Cinquanta. Avranno anche loro avuto abiti da copiare, movenze da ripetere, chitarre su cui contorcersi per imitare un musicista maledetto? Tutte cose che insieme agli omogeneizzati hanno nutrito le generazioni dal secondo dopoguerra in poi, quando la subculture pop ha preso il sopravvento su quella accademica. Si è proceduto a piccoli passi. Nel 1955 la strada era una sola: o imitavi Elvis, col rischio di tramutarti in Celentano, o nulla. Dieci anni dopo, la scelta raddoppiò: Mods o Rockers. Beatles o Rolling Stones. E fortunato chi ha scelto questi ultimi, visto che ancora oggi i Maroon 5 celebrano chi si Moves like Jagger, mentre McCartney all’inaugurazione di Londra 2012 era imbalsamato in più strati di Gibaud. Gli anni Settanta aggiunsero nei nostri armadi una terza possibilità: l’eskimo pataccato di Mario Capanna, l’abito bianco di John Travolta oppure i maglioncini Standa dei bravi ragazzi apolitici e non danzanti. Oggi Capanna pare un pensionato americano, Travolta un pensionato delle Poste e il bravo ragazzo ha avuto un guizzo, sostituendo la Standa con Abercrombie.

All’improvviso, quella che pareva una tranquilla crescita graduale è impazzita, tanto che oggi non siamo in grado di ricordare quanti e quali sono stati i modelli che ci hanno ispirato negli anni Ottanta.

Preciso per chi non c’era. Non cascate nella trappola di certi attempati soloni del giornalismo che raccontano di un decennio squallido e volgare. Si tratta di persone che quando i Puffi presero il posto degli Inti Illimani e Candy Candy conquistò più seguaci di Dolores Ibárruri si accorsero di aver fatto il proprio tempo e restarono a innaffiare, mugugnando, le loro ideologie appassite. Non dovete nemmeno credere a certi ragazzetti che, pur essendo nati nel 1990, credono di sapere tutto sul Magico Decennio solo perché indossano una maglietta destrutturata (che nessuno portava) e si sono inventati il termine Elettroclash per indicare la vecchia elettronica fatta con gli Yamaha da Yazoo o Human League.

Gli anni Ottanta sono stati qualcosa di molto più complesso di ciò che vi raccontano gli improvvisati sociologi delle decadi che se la cavano con qualche spallina, due video dei Duran Duran e un hamburger. Per capire davvero quell’epoca il punto di partenza obbligato è La condizione postmoderna, un esile libretto pubblicato nel 1979 da un filosofo francese, Jean-François Lyotard.

Lyotard prevedeva l’esaurimento delle grandi narrazioni metafisiche e rivoluzionarie, compreso il marxismo degli innaffiatori di piantine secche e tutte quelle teorie totalizzanti e impositive che miravano a unire la società mondiale. Al loro posto stavano sorgendo visioni frammentarie, locali e ibride per origine e valore.

Roba difficile? Diciamo allora che Lyotard stava prevedendo il mutamento epocale che subì una giovane ragazza di Castelfranco Veneto, tale Donatella Rettore. Proprio negli anni in cui uscì quel libro fondamentale, la ragazza stava abbandonando nome di battesimo e cantautorato d’impegno, figlio di una grande narrazione, per lanciarsi in una fantasmagorica antologia di racconti frammentari, dai kamikaze alle Barbie rifatte, dai Pierrot tristi a Calamity Jane.

Ecco la vera rivoluzione: travestirsi e decidere ciò che si sarebbe voluto essere. Nessuno meglio di Rettore ha saputo incarnare il pensiero postmoderno in Italia, nemmeno architetti come Paolo Portoghesi o Filippo Panseca, nemmeno i Matia Bazar che, grazie al genio del produttore Roberto Colombo, si reinventarono nei suoni e nei vestiti (a quel tempo, però, si chiamavano look), mescolando Bauhaus, Fellini e Italia umbertina in un gioco un po’ più intellettualizzato di quello della collega veneta. Gli anni Ottanta furono un momento di liberazione, sebbene imperfetta. Si potevano fare cose impensabili fino al giorno prima quando a comandare erano ancora i cupi e consunti sessantottini. Si rompevano tutti gli schemi, come fece Heather Parisi che con l’indimenticato Enzo “Truciolo” Avallone iniziò a ballare in maniera scomposta, infischiandosene delle grandi narrazioni coreografiche che Don Lurio imponeva alle sincroniche gemelle Kessler.

Libertà imperfetta perché l’imposizione non era scomparsa, ma si era frammentata anch’essa. Non era facile essere ciò che si voleva essere negli anni Ottanta. Una volta scelta una strada, non potevi sgarrare: le calze Burlington dovevano essere originali, mai s’era visto un Paninaro con calzini di spugna bianca. Se ti vestivi come Morticia Addams per entrare nella spiritata compagnia di dark che stazionava davanti al cimitero non potevi ascoltare Vasco Rossi, pena la morte civile.

Soprattutto non potevi mescolare elementi né avere rapporti con qualcuno dallo stile diverso dal tuo: ci si disprezzava a vicenda. Era una finzione che non ammetteva finzioni, ci si credeva a tal punto che diventavamo noi stessi vittime della nostra menzogna. Venirne fuori fu la vera libertà.

Mi inoltro nel personale. Il mio idolo di riferimento era David Sylvian, musicista introspettivo e sconosciuto ai più, ma portabandiera con Morrissey e Marc Almond di un sentire tra il malinconico, il frustrato e l’emarginato. Giusto per smentire chi dice che gli anni Ottanta sono stati solo milkshake, Spandau Ballet e grosse tette. Come Sylvian anche io portavo la camicia chiusa fino all’ultimo bottone, cercavo abiti vecchi e dismessi, avevo sempre l’espressione pensierosa e scrivevo tremende copiature di Cocteau. Quando nel 1989 mi liberai da quella autoflagellazione, indossai magliette gialle e presi ad ascoltare la peggiore dance prodotta in Romagna fu l’inizio della vera libertà.

Altro che caduta del Muro di Berlino.

Palermo Underground: Fabio Sgroi

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di

Francesco Forlani

Quando abbiamo preparato il numero di Focus-in, rivista parigina, su Palermo abbiamo avuto chiaro dal principio che cosa non avremmo voluto offrire ai lettori di Focus-In, una
Palermo fissata in cliché-archetipi, immagini come sabbie “immobili” che non fossero in grado di raccontarci davvero la contemporaneità. Volevamo invece individuarne delle visioni diurne e allo stesso tempo notturne, immagini di movimento, il suolato sperimentale e giovanile. A chi allora affidare il nostro consueto racconto fotografico? Grazie a Giuseppe Schillaci, scrittore palermitano e nostro redattore abbiamo scoperto il lavoro di Fabio Sgroi.

Più particolarmente uno dei suoi primi reportage sul mondo underground della Palermo degli anni Ottanta (Palermo 1984 – 1986, Early works).

Palermo nella metà degli anni Ottanta non era affatto una città semplice – spiega il fotografo in un’intervista –anzi era una città sotto assedio, molto diversa dal resto dell’Italia, era grigia, buia e desolata”. Eppure dalle immagini elegantemente in bianco e nero, a colpire è proprio la luce dei volti, come quella che transfigura un giovane punk caravaggesco in una sorta di Vladimir Majakovskij del Sud. La Palermo degli anni Ottanta ci appare come un inferno abitato da angeli, e del resto è proprio dall’autunno di quegli anni che avrà originela primavera degli anni Novanta, con la nuova stagione politica dei sindaci, Orlando a Palermo e Bianco a Catania, il movimento studentesco della Pantera, quel fuoco che proprio a Palermo esplose prima diaccendere la polveriera degli atenei di tutto il paese.

In una bellissima conversazione con Marta Federici, pubblicata su Flash-Art la scorsa primavera, Fabio Sgroi insiste su questo dispositivo essenziale al suo fare fotografia. “Cerco sempre di mostrare una mia personale visione degli eventi che fotografo, non mi interessa rappresentare l’evento in sé per sé. Mi cattura la scena, la luce. Ogni situazione è diversa e io sono molto istintivo, anche molto veloce”.

La nouvelle vague a Palermo c’è stata davvero e ha coinvolto artisti, musicisti, giovani in grado di reinterpretare quanto accadeva nelle altre città europee, grazie anche a tutte quelle forme di contaminazione possibili che le estati ponevano in atto. Per entrare in contatto con i loro coetanei inglesi, francesi, tedeschi, non era necessario andare a Londra, Parigi, Berlino, perché da Londra, Parigi, Berlino il mondo si trasferiva d’estate su quelle spiagge. Un “falso” movimento dunque, in grado di produrre visioni del mondo poco allineate alla tradizione.

Nella prefazione al libro, Francesco De Grandi, artista che con Alessandro Bazan, Andrea Di Marco e Fulvio Di Piazza è stato un esponente della Nuova scuola palermitana dei primi anni Novanta, quel mondo lo racconta così:
“Punk, anarchici valprediani eravamo LA CUBA, un gruppo di attrattori impazziti, un avamposto Cyberpunknell’interzona della Palermo anni ’80 spazzata dal vento dell’eroina statale di Villa Siringa e del Liceo Artistico puzza di piedi. Disegnatori di altri mondi, di sordide buttane e di mostri malinconici. Stavamo accovacciati sul ponte non terminato di via Belgio, una rampa che si fermava al suo culmine in un groviglio di tondini d’acciaio, verso ciò che restava degli agrumeti della Palermo felicissima, con i piedi-anfibi penzoloni, a passarci le canne di erba di Partinico e meditare di fanzine indipendenti e di fighe spaziali, sotto di noi Aranceti Meccanici a perdita d’occhio”.

Fotografo, dunque Fabio Sgroi che incontra musicisti, pittori, De Grandi, romanzieri-registi, Schillaci, questo ci dice che l’underground è proprio la rete di energie, spiriti e creatività carsiche che irrorano i campi, scorrendo veloci invisibili prima di esplodere in luoghiinattesi come vulcani che parevano sopiti.

 

Fabio Sgroi, nato a Palermo. Si avvicina alla fotografia nel 1984 scattando fotografie ai suoi amici, giovani vicini alla musica punk e all’underground; nel 1986 per due anni entra a far parte dell’agenzia di Letizia Battaglia e Franco Zecchin, Informazione fotografica, per conto del quotidiano L’Ora di Palermo. Fin dall’inizio dedica il suo lavoro alla sua città e alla sua terra la Sicilia, concentrandosi sulle ricorrenze annuali, le cerimonie religiose e la vita quotidiana. Viaggia e lavora attraverso l’Europa e in diverse parti del mondo. Nel 2000 si concentra anche sul formato panoramico dedicandosi al paesaggio urbano e all’archeologia industriale. Prende parte a mostre collettive ed espone in mostre personali, in Italia e all’estero. La sua carriera include la partecipazione ad alcuni progetti internazionali
e residenze. Fine 2017 pubblica Past Euphoria Post Europa con Crowdbooks e nel 2018 esce Palermo ‘84-’86 – Early works con Yardpress e nel 2020 Palermo ‘90 per Union Editions

Una Francia altrove da Parigi

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[Questo testo fa parte di altri diciotto, raccolti a cura di Filippo La Porta nel volume Douce France (Gremese, 2021), che tematizza il rapporto tra scrittori italiani e cultura francese. Tra gli altri, interventi di Luca Doninelli, Lisa Ginzburg, Diego Marani, Dacia Maraini, Antonio Pascale, Lidia Ravera, Giuseppe A. Samonà e Walter Siti.] 

di Andrea Inglese

Senza accorgermene, sto diventando un po’ francese

Io ero in piedi, in una situazione di leggero vantaggio; loro, mia figlia e mia moglie, sedute, ma ciò nonostante spavalde – perché con me sono quasi sempre spavalde – e mia moglie mi ha chiesto con l’aria ingenua: “Ma tu, ormai, dopo tutti questi anni, ti sentirai anche un po’ francese?!” Io ho fatto roteare gli occhi, ho sbattuto entrambe le mani contro i fianchi, perché mi sono sentito provocato, e anche un po’ scandalizzato. Come si poteva pensare che io, l’italiano della famiglia, quello purosangue, l’unico cento per cento, avessi venduto la mia anima di antico romano, di gentiluomo rinascimentale, di garibaldino e anarchico, per francesizzarmi così sul tardi, preso per stanchezza, dopo la soglia fatidica dei cinquant’anni? Certo, la diluizione era già avvenuta, con mia figlia, nata a Parigi e circondata di francesi per ben otto anni – eccezion fatta per le festive e brevi parentesi italiane –, una figlia, per altro, che nonostante la doppia nazionalità, di carattere italiano ne aveva solo mezzo, e questo sul piano strettamente cromosomico, perché nella vita di tutti giorni scarseggiava pure di quello, praticando con avarizia la loquela paterna e avendo un’idea vaga della sua seconda patria. Tutto questo è accaduto qualche anno fa, e mi sembrava indubitabile che, qualcuno nato e vissuto per una buona parte della sua vita in Italia, non potesse tramutarsi in un francese, neppure in una percentuale ridotta. Che strana questa faccenda delle identità nazionali. Cosmopolitismo, cittadini del mondo, abbasso frontiere, villaggio globale, e poi uno si sente italiano, anche se vive in Francia da undici anni, ci vive e ci lavora, e poi ha una moglie francese e una figlia, molto più francese che italiana. E si sciroppa pure il confinamento in Francia, mentre in Italia fanno il lockdown. E qualche volta sogna in francese. Ma non c’è niente da fare: gratta gratta, sotto sotto, c’è un bello zoccolo duro d’italianità. Uno lo sente. E se non lo sente, almeno ne ha cognizione. Anche se poi, più che di una cognizione chiara e distinta, si tratta di una credenza, brumosa forse ma fitta e avvolgente. Mica bisogna fornire delle prove, far dei conticini. Eppure, a due anni di distanza da quella conversazione, non sono più tanto sicuro. A scavare un pochettino, chissà cosa ci trovo oggi sottopelle? Quand’è che uno cessa di essere un italiano al cento per cento, e comincia a impregnarsi pericolosamente, confusamente, di francesità? Perché essere cittadino del mondo non costa poi nulla, basta sapere con chiarezza dove si vive e in che letto si dorme. Se uno, però, parte alla buona, senza troppe pretese ideologiche, e si dice semplicemente: sono un italiano che vive in Francia, un espat qualsiasi, un cervello in fuga tra i tanti, rischia poi di scoprirsi colonizzato dentro, con lo spirito cartesiano freddo e altezzoso che stempera in lui le virtù degli avi, quali l’allegra faciloneria o il furbesco opportunismo. Con l’inconveniente, poi, che il francese stesso non lo apprezza più, non trovandolo sufficiente rappresentativo del tipo italico. Insomma, c’è da sperare che l’identità patria sia ben piantata da qualche parte tra i calcagni e la corteccia cerebrale. O forse no, forse dopotutto l’esito migliore è l’imbastardimento, un intricarsi carogna di tratti culturali disparati.

Una sineddoche tirannica

La prima operazione che è richiesta per una ragionamento a mente fredda sul rapporto tra un italiano e la Francia è l’attenuazione del bagliore parigino. Parigi è una magnifica, tirannica, sineddoche della Francia per qualsiasi italiano. E questo non vale solo per chi vi mette piede per una parentesi svagata, con l’ingenuità voluta del turista, ma anche per il lavoratore espatriato, che il francese lo parla ogni giorno e tra i francesi ci vive. D’altronde, ci riferiamo alla seconda meta europea in termini di massa di visitatori, appena dietro a Londra (ancora nel 2021). A Parigi distillano il meglio della Francia in termini gastronomici, culturali e architettonici. I parigini sono certo insopportabili – secondo un’opinione molto diffusa tra i “visitatori occasionali” – ma qualche effetto collaterale di questa alchimia centralizzatrice si dovrà pur pagare. Oltre a Parigi naturalmente, ci sono anche altre latitudini in grado d’incarnare la Francia – certe cittadine costiere di Bretagna e Normandia, certe zone rurali e vinicole della Borgogna, la mediterranea Provenza, tutto quello, insomma, che un degno parigino può amare, quando si distacca provvisoriamente dal suo sfavillante e privilegiato luogo di residenza. La Francia che un italiano vede è Parigi o, nei casi più magnanimi, la Francia vista da Parigi.

Insomma, l’unico modo per familiarizzarsi con la società francese in modo non troppo selettivo e precauzionale, è quello di sfuggire all’incanto parigino. Quando questo accade, non è in ragione di una disinteressata operazione conoscitiva, ma generalmente per una prepotente necessità, di cui si cerca di fare virtù. Il nostro lavoro si svolge magari in quartieri centrali della capitale, ma le metrature concesse, anche nei quartieri più malfamati e a ridosso del périférique (la circonvallazione), non promettono neanche al nucleo familiare più prudente (coppia + figlio unico) un sereno ricovero degli innumerevoli oggetti che una vita mediamente consumistica impone né tantomeno quel minimo Lebensraum, che garantisce una convivenza garbata e pacifica.

Personalmente, ho dedicato nel 2016 un romanzo smaccatamente autobiografico al regolamento di conti con la capitale francese. In Parigi è un desiderio, dopo aver dettagliato tutte le fasi dello stregamento – non solo letterarie e sublimi, artistiche e architettoniche, ma anche bassamente pulsionali, fatte di avventure erotiche e di amori con le parigine – ho potuto sancire la fine di quel lungo capitolo della mia vita e il ritorno a una decente sobrietà, scrivendo queste righe nell’ultima pagina del libro:

“A Parigi ci vado quasi ogni giorno per via del lavoro, ma anche per vedere degli amici, per visitare una mostra, per festeggiare qualcosa di bello, con Hélène, in un ristorante o in un caffè. La trovo una città rumorosa e cara, attraversata da gente molto arrabbiata, o da gente spensierata perché esageratamente ricca, e credo che troppe cose, in quella città, esistano ormai solo per queste persone esageratamente ricche. Il concentrato di fighi e di persone di successo la sta rendendo sfavillante e asettica come una rubinetteria ben strofinata. Ogni tanto, in certe zone, nell’arredamento di certi locali, nel modo di raggrupparsi dei giovani in una piazzetta, mi sembra di trovarmi di nuovo a Milano, come se non fossi mai partito, come se fossi ancora lì, con la schiena rigida appoggiata alle panchine dei giardinetti di Pagano, in attesa di decollare, di andarmene altrove, ma poi l’altrove c’è. Prendo la RER e mi faccio un giro a Champigny, in piazza Lenin, durante il mercato. Qui le scarpe costano dieci euro.”

Una conclusione un po’ caricaturale, si dirà. Parigi permane senza dubbio una metropoli ancora densa di contraddizioni, di autentiche brutture e di bellezze non sempre verniciate di fresco. Se non altro, è il luogo in cui si sono svolte per più di un anno e con periodicità quasi settimanale le manifestazioni dei barbari “gilet gialli”.

Un’ulteriore osservazione la voglio fare, però, sull’imborghesimento di Parigi. Ad esso concorrono innumerevoli fattori, da quelli macroeconomici a quali microculturali. Tra questi va segnalato il caso di un certo numero di miei compatrioti e della loro metamorfosi attitudinale una volta che risiedono nella capitale. Essi non solo riescono ad assumere nel proprio modo di fare e parlare quell’assoluta familiarità e padronanza nei confronti della metropoli tipica di tutti gli altri parigini, ma impreziosiscono queste loro doti grazie a una simultanea e sbandierata italianità. In loro, però, non c’è rischio di contaminazione, d’imbastardimento delle identità, perché l’essere parigino e l’essere italiano si sommano ma non si confondono, scivolano l’uno sull’altro come l’acqua con l’olio. L’italiano o l’italiana di Parigi incede per le vie, inalberando ad ogni passo il suo motto: non solo mi godo Parigi come un autentico parigino, ma mi godo la vita come un autentico italiano. C’è da rimanere ammirati o da prenderli a schiaffi, soprattutto pensando a tutti quegli altri italiani che cercano di trovare un giusto compromesso tra le contorsioni lavorative, gli affitti a bastonata, le relazioni sociali non sempre lisce, e le delizie ovvie del consumo culturale a tutto campo, nei tempi pre-pandemici, quando si abbinavano caffè e ristorantini amati alla serata cinematografica o musicale.

Vita da banlieusard

Dietro il paravento di Parigi, ci sono almeno due France indocili, non turistiche e poco acquiescenti nei confronti della capitale: la Francia profonda – dell’agricoltura industriale, delle zone spopolate, degli agglomerati urbani tagliati fuori dalle grandi linee ferroviarie – e la Francia delle periferie metropolitane, densamente abitata, dal paesaggio urbano livido e talvolta degradato, regno di giganteschi centri commerciali e di quartieri malfamati. È proprio in quest’ultima, che alla fine ho deciso di vivere. Poiché i miei talenti professionali e le mie risorse economiche non mi hanno permesso di prosperare nella capitale, mi sono stabilito oltre l’anello della circonvallazione esterna, ben lontano anche da quelle linee del metrò parigino che sconfinano nelle cittadine adiacenti. Devo, insomma, partecipare al più rude pendolarismo, quello che si pratica giornalmente sulle linee RER (Réseau Express Régional), ossia sui treni che raccolgono la massa lavoratrice sparpagliata in cerchi sempre più ampi intorno a Parigi.

Dal 2013, vivo con moglie e figlia in una casetta a schiera (stretta e tutta scale, ma con un pezzetto di giardino) a Champigny-sur-Marne, una cittadina di 77.000 abitanti che dista 17 chilometri da Parigi, tragitto in auto una ventina di minuti e quarantacinque in RER. Non siamo lì per caso, né in via emergenziale e provvisoria. Abbiamo comprato casa, dando fondo ai patrimoni familiari. Come noi, di esuli parigini del ceto medio acculturato, ce ne sono davvero pochi. In altre parole, Champigny non è diventata ancora terreno di conquista dei bobo. Il borghese-scapigliato, che si è già insediato abbondantemente in altre cittadine periferiche, qui non sembra attecchire. Di tanto in tanto ne incrocio qualcheduno: lo distinguo facilmente, perché gira con biciclette pieghevoli costosissime e d’avanguardia, o si distingue comunque per qualche attrezzatura o indumento d’ultimo conio. Champigny però lo respinge, nonostante il metro quadro (in affitto o d’acquisto) sia molto più basso della media. Non si può dire che il guazzabuglio delle nazionalità e delle origini ci manchi. È una vecchia storia. Negli anni Sessanta, Champigny ha ospitato la più grande bidonville di Francia (15.000 persone), popolata in maggioranza da portoghesi. Oggi ancora, nel mercato della piazza centrale, si sente parlare portoghese tra clienti e commercianti. Poi c’è Bois-l’Abbé, esempio paradigmatico di cité, ossia un concentrato di casermoni popolari imposti da Parigi al comune nel 1968, ben isolato dai quartieri circostanti e con una densità abitativa altissima. Vi troneggia al suo centro una torre di 29 piani. Il tasso di disoccupazione è del 34% contro il 9% della media nazionale. Lo spaccio sembra ben radicato, come anche le guerre tra bande di giovani.

Insomma, Champigny è stata da sempre due cose: una città proletaria, di piccoli impiegati e operai, in buona parte immigrati dall’Europa e dalle ex-colonie africane, e un bastione rosso, in quanto governata dal 1945 dalla sinistra (dal Partito Comunista a partire dal 1950) fino alle elezioni del 2020. Oggi è passata alla destra, e qualche cambiamento è stato osato, specialmente sotto natale: luminarie e alberi addobbati di ghirlande come non se n’erano mai visti. Per il resto, nel centro cittadino pullulano i soliti kebab rigoristi, dove non vendono neanche una birra, negozi di ottica (sembra la città degli orbi), e agenzie immobiliari. I parcheggi la fanno da padrone, i cantieri edili non si contano, ma di negozi bio c’è n’è uno solo, gestito senza altezzosità da una signora d’origine africana. C’è la Marna, che è il pertugio paradisiaco, soprattutto per me, che mi dedico settimanalmente alla navigazione fluviale su kayak, incrociando anatre, cigni, aironi, gabbiani, folaghe, oche del Canada, cormorani, martin pescatori. Ma sulle rive del fiume vengono tutti: ragazzotti a farsi le canne, bande varie di alcolizzati, coppiette, famiglie cospicue con nonni e cani, pescatori polacchi, giocatori di bocce, ciclisti da corsa e da scampagnata, corridori e qualche volta praticanti di pugilati esotici, a darsi botte per svago. Sono i campinois, gente approdata a Champigny da lungo tempo o di fresco. Costoro presentano un enorme vantaggio rispetto non solo ai parigini, ma anche ai milanesi, e a tutti i brillanti residenti di metropoli contemporanee: non ti mostrano, ad ogni passo, che sono persone speciali. Certo, ci trovi anche il maleducato, l’attaccabrighe, lo schiamazzante. Ma se devono romperti le scatole, lo fanno come gente qualsiasi. È difficile capire, quale enorme sollievo sia il vivere accanto a persone che non sono convinte di rappresentare l’avanguardia dell’umanità, nel modo di consumare attrezzi tecnologici, carote, biciclette pieghevoli e serie televisive.

Alla fine non so quanta francesità scorra in me, dopo tutto questo tempo passato qui. Proust e Céline, che mi misero in mano quando avevo quindici e diciassette anni, li rileggo ancora, ormai in lingua originale, e non smetto di nutrirmi di filosofia, scienze umane, poesia e narrativa francese. Ammiro, poi, la capacità che questo popolo ha di opporsi ai suoi governanti, e non solo a parole, con il piagnisteo nel tinello di casa, o durante la coda alla posta. Ma oggi potrei forse definirmi semplicemente campinois e italiano. Insomma, un po’ il contrario del cittadino del mondo. Io penso che un cittadino del mondo non s’incazzi come accade a me, quando passo per il lungo fiume e trovo, buttate nell’erba, lattine di birra o bottiglie di plastica. È che ci si affeziona a un certo tratto di strada, dove si passa ogni giorno andando e tornando dal lavoro, forse perché c’è il fiume, un angolo di bellezza pubblica, non in forma di merce, non ad uso e consumo esclusivo di noi uomini, ed è importante salvaguardarlo, curarlo, soprattutto quando si è circondati da una patina di lividezza metropolitana, ben coltivata – bisogna confessare – da 70 anni di governo comunista. I cantieri, i parcheggi, le vetrine degli ottici, tutto diventa sopportabile, se πάντα ῥεῖ sulla Marna, con le sciabolate di luce lungo la pellicola appena increspata dell’acqua. E poi qui nessuno ti fa pesare, che la tua vita assomiglia a quella di tutti gli altri (i parigini sono lontani).

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Foto: graffiti in formato manifesto nell’amena Champigny, realizzato da un collettivo femminista. Questo è quello che è durato meno di tutti. “Non hai visto i nostri maschi sessisti? Li amo farli seccare.”

In ricordo di una grande studiosa: Liana Borghi 1940-2021

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di Nadia Agustoni 

 

Liana Borghi ci ha lasciato da poche settimane e si susseguono sui social, sui blog e su alcuni quotidiani, molti scritti in suo ricordo. È stata una grande studiosa, capace di traghettare il femminismo italiano verso un pensiero nuovo, introducendo nel nostro paese le elaborazioni di un movimento si femminista ma soprattutto LGBTQ+, legato quindi alla questione del lesbismo, della queerness e degli studi di genere; dalla contrassessualità fino al trans-femminismo. Capace comunque sempre di collegare questi temi all’antirazzismo, al post coloniale e all’eterna questione della classe, degli esclusi, siano ess* migranti o autoctoni, senza mai lasciarsi ingabbiare da un pensiero escludente e facile.

L’ho conosciuta quando molto giovane mi traferii a Firenze e fui tra le attiviste vicine all’associazione da lei fondata, l’Amardorla. Colpiva la sua capacità di tenere insieme le persone e i saperi. Per anni con Clotilde Barbarulli ha condotto una serie estiva di laboratori interculturali a Villa Fiorelli, a Prato, dove i temi già elencati sopra e molti altri venivano studiati e discussi tra accademiche e attiviste, senza alcuna discriminante su quanto ognuna elaborava in proprio. L’apertura verso l’altr* e l’ascolto partecipe, consentivano uno scambio da cui abbiamo tratto ispirazione e che a tant* di noi ha cambiato la vita.

La sua biografia testimonia di un impegno costante, mai venuto meno, tra accademia e movimenti. È stata docente di letteratura anglo-americana a Firenze fino al 2009, tra le fondatrici negli anni Settanta della libreria delle donne di Firenze, negli anni Ottanta fondò con Rosanna Fiocchetto la Estro, prima casa editrice lesbica in Italia ed è stata tra le fondatrici della SIL (Società italiana delle letterate) e coordinatrice, sempre con Clotilde Barbarulli, del Giardino dei Ciliegi a Firenze, nonché dal 1994 anche della  W.I.S.E (Women’s International Studies Europe). Intensa la sua attività di traduzioni (tra tutte vanno ricordate Adrienne Rich, Audre Lorde, Donna J. Haraway e Paul B. Preciado), e quella con i suoi interventi su genere, diversità e precarietà che risultano fondamentali per molte delle questioni oggi dibattute.

Il suo lavoro ha travalicato i confini nazionali e già nei primi anni Novanta, chi viveva a Firenze o era in contatto con quanto li veniva elaborato, ha avuto modo di ascoltare studiose provenienti dal contesto anglo-americano che portavano tra noi un femminismo diverso che rompeva l’egemonia del pensiero della differenza sessuale. Nel 1994 la intervistai per A Rivista Anarchica e da lì presi coscienza che il mio confuso cercare aveva trovato l’ambito in cui poter fare chiarezza tra i temi e le pratiche che avevo a cuore, tra pensiero, arte e vita. Ci mancherà, ma nello stesso tempo è sempre tra noi, perché ci ha trasmesso una libertà inestirpabile.

Nel libro “Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura” (Cuec edizioni 2006), dove sono raccolti i contributi di due anni di laboratori interculturali a Villa Fiorelli, riprendendo Edouard Glissant, così declinava il pensiero della diversità:

“Nella nostra accezione di diversità, invece, teorizziamo soggetti politici complessi, ma non per questo meno titolari di spazi, storia e diritti umani. Nella complessità e nella diversità si radica il progetto di un mondo diverso, dove le diversità si incontrano, oppongono, accordano e producono una imprevedibile poetica della relazione tra multiversi culturali”. (8)

E ancora:

“Ma nell’imporre la precarietà del lavoro, il pensiero egemone impone invece la durata e permanenza della sua cultura. È una cultura dell’eterno presente collocata nelle ‘certezze’ della tradizione e del canone, una cultura che ha l’arroganza della Doxa. […] A noi invece interessano piuttosto narrazioni (testi solubili e/o insolubili, scritture nella/della dissolvenza) tendenti a interrogare, a inquietare i codici, la doxa, con uno sguardo sul mondo e sul potere.” (10-11)

In un intervento sul sito della rivista Il Mulino, Elia Arfini scrive:

“Il pensiero di Liana Borghi scartava in partenza il problema di dover conciliare una supposta frattura tra queer e femminismo, riflessione sul genere e la sessualità: in una cornice post-identitaria, o meglio che invita alla disidentificazione, il femminismo è al cuore della teoria queer. Il queer allora non è la tendenza a far coincidere trasgressione e liberazione in una successione di individualità che finiscono per essere sempre più individualizzate, ma un’azione in costante movimento e relazione volta a creare le condizioni di sostenibilità di una buona vita oltre l’apparato normalizzatore di genere e sessualità”.

Non ha mai rinunciato al suo impegno: l’ultimo risale a poche settimane fa, quando ha organizzato il convegno su donne e fantascienza al Giardino dei ciliegi di Firenze, sempre con Clotilde Barbarulli, dal titolo Neomaterialismo e fantascienza delle donne: intramazioni (30 e 31 ottobre 2021) che poi ha seguito da un collegamento video.

 

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Qui alcuni link recenti disponibili in rete:

 

https://www.raccontarsialgiardino.it

 

https://www.gaynews.it/2021/11/22/addio-liana-borghi-intellettuale-lesbofemminista-studiosa-pensiero-queer/

 

https://ilmanifesto.it/la-socialita-trasformativa-e-amorevole-di-liana-borghi/

 

https://www.rollingstone.it/politica/liana-borghi-e-stata-un-faro/598814/

 

Corpi astinenti

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di Lisa Ginzburg
In questi tempi difficili per tutte le relazioni, più che una libera scelta, parlare di astinenza dal sesso può evocare una penosa costrizione alla condanna del distanziamento. Così non è; esiste invece una nutrita schiera di persone, di varie età e differenti inclinazioni sessuali, per le quali quella di non fare l’amore è una decisione. Una scelta ponderata, e vissuta, e portata avanti, abitati da un costante senso di fierezza. Allontanarsi dalla dimensione del desiderio, prendersene una pausa, breve o più lunga, o anche lunghissima: farlo deliberatamente, per un’endemica necessità di ripensarsi nel mentre si ripensa la libido e il proprio individuale percorso nell’universo dell’eros. Insomma, non fare più l’amore e smettere di desiderare: per preciso individuale volere, consapevoli di quanto solo in quel silenzio del desiderio possa dispiegarsi un vero ascolto di sé, l’addentrarsi in pieghe sconosciute della propria psiche. Praticando l’astinenza, sentire di cessare di dipendere dagli altri, gli altri intesi come corpi, corpi altrui dei quali avere fame o viceversa, come accade durante queste interruzioni volontarie, nessun appetito. Trarre da cotanta autosufficienza il vantaggio del campo sgombro di una visione più limpida, con chiarezza puntata sulla propria storia personale riletta attraverso la sonda del “come si desidera”, che vuol dire (anche) come si è desiderati, come si ama e si viene amati. La scrittrice francese Emmanuelle Richard si interroga sulla castità volontaria, dopo avere dialogato nel corso di un anno intero con un campione scelto di “astinenti per scelta”. Il risultato è un piccolo libro (I corpi astinenti. Il sesso tra imposizione sociale e libertà, traduzione di Valentina Maini, Tlon, pp. 222), importante per come racconta una forma di passione inedita, una passione impegnata a ridefinire per sottrazione il “capitale amoroso”, per usare la formula di un saggio di successo uscito quest’anno: la passione dell’astinenza.

Le storie che Emmanuelle Richard ha ascoltato e riporta sono molto varie, ciascuna, a suo modo, marcata da un segno profondo e toccante per chi legge, quale che sia la natura di quel segno: che esso marchi una frattura, una rinascita, una ribellione, un accettare. Perché, così sembrerebbe leggendo le diverse confessioni, ogni astinenza dal sesso presenta nella sua anamnesi un punto di rottura che è anche punto di luce. Storie, quelle collezionate da Emmanuelle Richard, di donne e di uomini casti per via di un crollo psichico a seguito di esperienze di sesso “sbagliate”, incontri dissonanti dai loro veri desideri e che li hanno feriti o anche traumatizzati. O invece, storie di castità protratte in ragione di fedeltà inconsapevoli al proprio passato, erotico e amoroso. Ancora, lunghissimi allontanamenti dal contatto fisico stabiliti e attraversati così da riscoprire il desiderio vero, quella voglia di pulsazioni più felici che ci fa dire sì ad appetiti risvegliati, rigenerati dal digiuno. Quel “sì” al desiderio del sesso che è un “sì” alla vita, lo stesso “sì” ripetuto molte volte da Molly Bloom nel suo monologo dell’Ulysses joyciano evocato da uno degli intervistati. Quel “sì” che trovandone in risposta un altro uguale, reciproco, reinnesca (o avvia per la prima volta) la danza della delizia dei sensi, moltiplicata dalla magia del suo riverberarsi su altro ordine di intese e affinità.

In tempo di pandemia, sarebbe risultata diversa questa stessa indagine/inchiesta? Difficile immaginare: da un lato la nostra socialità, stravolta da una nuova prossemica tra le persone, dall’altro la nostra libido fagocitata da un’atmosfera dominata da altre  dipendenze di ogni tipo, hanno in tanti casi reso necessità la virtù di un’autonomia rispetto alla vita sessuale condivisa. Certo è che dalle testimonianze raccolte ne I corpi astinenti emana autentica energia. Un modo di stare al mondo inedito e costruttivo, rinunciante ma tutt’altro che rinunciatario. Abitare i giorni senza fame e senza sete, ma con immutato, indefesso amore per la vita. Dilazionando i desideri, nella certezza che tutto arriva, purché arrivi intero, sesso e amore sincroni e non più scissi come invece nel racconto di tanti testimoni. Non fare più l’amore, per tornare a farlo meglio in futuro. Vuoto che prelude a un grande pieno: vuoto pulsante vera vitalità, se pure in pochi sappiano vederla, fermandosi piuttosto a una sensazione di mestizia per l’idea di poca performatività di chi non fa sesso da tempo, e lasci intendere di averne temporaneamente dimenticato la carica gioiosa. Quanta vita e forza sovversiva nell’astinenza dal sesso, dicono invece queste storie.

Buone notizie dal Cile, Boric ha vinto

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Trentacinque anni, a capo del Frente Amplio e del Partido Comunista, Gabriel Boric è il nuovo presidente del Cile. Ha battuto l’ultrareazionario José Antonio Kast (il “Bolsonaro cileno”), ottenendo più del 55% dei voti, e prende il posto di Sebastian Piñera.

È una notizia clamorosa e felicissima. Boric viene dalle rivolte del 2019, è figlio e protagonista di un movimento che sta cambiando il Cile, seppellendo vangata dopo vangata l’eredità di Pinochet.

Tra le proposte del programma di governo di Boric: un nuovo modello di sviluppo incentrato sulle energie rinnovabili, l’introduzione di una tassa patrimoniale, il rafforzamento dei diritti delle donne e delle minoranze, la fine del sistema pensionistico privato, un ruolo maggiore dello Stato nell’economia.

Sotto la presidenza “millennial” di questo giovane antifascista il Cile riceverà anche una nuova Costituzione. La Carta dovrebbe essere completata (in un’Assemblea costituente tuttavia lacerata tra l’anima reazionaria e quella radicale e progressista del Paese, e a volte divisa anche tra le forze del composito schieramento di sinistra, specie sui diritti delle minoranze indigene) e sottoposta a referendum popolare entro la prima metà del 2022.

Dopo quel giorno si potrà porre una lapide sul Cile di Pinochet, e scriverci sopra: “Morto per sempre”? Speriamo di sì.

Il giorno della riconsegna del bagaglio

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di Caterina Iofrida

L’uomo era seduto nel bistrot da un paio d’ore, ormai si era fatto buio. Sul tavolino rotondo c’erano qualche briciola e le macchie circolari lasciate da ogni boccale di birra che si rispetti. L’uomo, però, stava bevendo un bicchiere di vino bianco, accanto al quale, incurante della sporcizia, aveva posato il telefono. Con la mano destra, con calma e continuità, digitava, mentre con la sinistra si portava di tanto in tanto il calice alle labbra. L’uomo non staccava gli occhi dallo schermo né quando beveva, né quando era raggiunto dal rumore sordo della porta d’ingresso che si richiudeva. Le persone intorno all’uomo parlavano una lingua diversa dalla sua, che lui conosceva appena. Avrebbe forse compreso qualche frase se si fosse impegnato, ma così, mentre era preso da altro, quelle chiacchiere giungevano alle sue orecchie come una musica di sottofondo, la quale, lungi dal distrarlo, lo aiutava invece a mantenere la sua incredibile concentrazione. Più tardi, l’uomo aveva lasciato il bistrot con un discreto quantitativo di Chardonnay in corpo e una gran fame. Dopo le nove di sera non era il caso di mettersi a cercare un posto per mangiare, avrebbe finito per impiegarci un sacco di tempo. Si era infilato nel primo minimarket che aveva incontrato e aveva comprato mezza baguette, una confezione di Camembert e una bottiglia di Chablis, poi si era diretto a casa. “Casa” non era sua, ma in prestito, e si trovava sul Boulevard Richard Lenoir, a pochi passi dal canale Saint-Martin. Appena arrivato, senza nemmeno sfilarsi il cappotto, aveva tirato fuori le sue provviste dalla busta e le aveva disposte sul tavolo della minuscola sala da pranzo, tra i libri e i giornali che lo ingombravano. Quella fame urgente lo aveva assalito dopo avere inviato il messaggio. Aveva divorato pane e formaggio ed era stato invaso da una sensazione di tranquillità e da una grande stanchezza. Era andato a dormire presto, a un orario in cui, in genere, non era in grado di prendere sonno.

 

La donna stava controllando la pentola, l’acqua non era ancora arrivata a bollore. Avrebbe voluto cenare prima, a lei piaceva mangiare presto, ma non era riuscita a rincasare prima delle otto e mezzo. Amava la sua città, ma i tempi da impiegare per spostarsi, sempre più lunghi del previsto, non mancavano mai di irritarla. Sulla metropolitana le persone si dedicavano a ogni sorta di occupazione concepibile, dall’ascoltare podcast al tagliarsi le unghie, lei, invece, riusciva solo a osservare gli altri, controllare le fermate, l’orologio, poi di nuovo le fermate, poi il telefono. Non era tempo, quello; eppure lo diventava quando si accorgeva di essere a casa due ore dopo essere uscita dall’ufficio. Nonostante avesse lasciato il telefono in camera da letto, il suono di un messaggio l’aveva raggiunta. Chi poteva averle scritto? Tra le opzioni che aveva in mente non c’era nessuno di interessante; nonostante ciò, o forse proprio per questo, la curiosità l’aveva avuta vinta sulla pigrizia ed era andata a leggere. Alla sola vista dell’anteprima del messaggio aveva avuto un leggero sussulto; stando attenta a non staccarlo dal caricatore, si era seduta sul letto per proseguire la lettura con una maggior concentrazione. Alcune vite, come quella della donna, si dipanano senza troppi colpi di scena nel costante, istintivo tentativo di barcamenarsi fino a quando non arriva una delusione. In quel tempo, la Grande Delusione si era presentata un paio di anni prima, e lei si stava abituando a farci i conti e a organizzarsi di conseguenza. In quello spirito, cogli altri esseri umani aveva assunto una condotta sostanzialmente coerente di curiosità e avvicinamento fino al primo momento in cui provava noia. La noia, aveva scoperto, pur apparentemente innocua, portava con sé una serie di altre faccende insidiose che avrebbero finito per accumularsi mettendola all’angolo e, in ultimo, lasciandola sola. In linea di massima, non era più disposta a lasciare che accadesse. Dopo aver riletto il messaggio tre volte, aveva deciso di rispondere con calma, dopo cena, per poter mangiare compiacendosi di ciò che aveva appena letto, e pregustando la propria risposta, di cui aveva precisamente in mente i contenuti e i toni.

 

Un messaggio vocale si annuncia come un dialogo monco, che non ammette interruzioni volte a una contribuzione altrui, e si può effettivamente esserne sopraffatti. La prospettiva di otto minuti di ascolto passivo avrebbe, di norma, indotto l’uomo a cancellare tutto e confermare senza rimpianti una certa reputazione che si era creato, tuttavia in questo caso aveva finito per ascoltare prima ancora del primo caffè del mattino. La moka era sul fuoco e lui si radeva mentre una voce femminile squillante accompagnava la sua routine mattutina al posto della radio, che in genere accendeva senza poi prestare troppa attenzione. In questo caso, invece, era teso ad ascoltare, tanto da tagliarsi più volte con il rasoio e non farci caso. “…è ovvio che il motivo per cui ti trovi là non è quello…”, la moka aveva cominciato a gorgogliare, l’uomo aveva spento il fuoco e si era versato il caffè in una tazza grande, del tipo americano, mentre la voce seguitava a parlare. La voce della donna era allegra, contenta di avere occasione di parlargli —quest’ultima cosa la poteva soltanto supporre, avendola incontrata di persona una sola volta. Certo, avevano parlato a lungo, in quell’occasione; avevano cenato assieme, l’una di fronte all’altro, e sebbene al loro tavolo ci fossero altre sette-otto persone era stato loro possibile avere una conversazione che non le coinvolgesse. Scegliersi un unico interlocutore a una tavolata numerosa era un’abitudine che aveva da sempre, lungi dall’essere frutto di una scelta, semplicemente gli accadeva, e qualcosa gli aveva fatto immaginare che per la donna seduta davanti a lui funzionasse allo stesso modo.

 

Il killer non aveva dormito bene e si era svegliato mal disposto, solo per scoprire di avere dimenticato i biscotti per la colazione a casa. Nella stanza c’erano soltanto un bollitore e un pacco di caffè tenuto chiuso con una molletta per panni. Aveva deciso di scendere in strada e comprare un croissant, nonostante ciò costituisse una deroga alle regole deontologiche che si era dato, da che si era messo in proprio. In qualche modo doveva rimediare a quell’inizio di giornata. Il lavoro che lo aspettava si prospettava semplice e di sicura remunerazione. La donna che aveva deciso di avvalersi dei suoi servizi era infatti piuttosto abbiente e, soprattutto, affidabile. Il killer sentiva di capirla. Aveva sempre condotto una vita ben ordinata, fino a qualche tempo prima, ed era decisa a vendicarsi di chi, in questa vita, aveva portato scompiglio: la persona che qualche tempo prima l’aveva lasciata. La cosa aveva una sua logica. Non che al killer questa logica interessasse particolarmente, nondimeno le persone ordinate e con le idee chiare gli piacevano. Per lei era venuto fino in Francia, dall’Italia, seguendo l’obiettivo. Quello, l’obiettivo, non si era accorto di lui nemmeno per sbaglio. Probabilmente era partito per Parigi del tutto inconsapevole dei rischi che correva nella sua città, aveva semplicemente deciso di fare una vacanza. Sarebbe stato semplicissimo. Il killer aveva dato un morso deciso al croissant. Più tardi, con calma, si sarebbe diretto al Café Tourville dove sapeva, ormai, che avrebbe trovato l’obiettivo, intento a pranzare con un club sandwich, e gli avrebbe sparato. Ci sarebbero certamente state molte persone per strada, e il killer si sarebbe confuso tra loro, dileguandosi in pochi minuti.

 

Il ragazzo, quella mattina, aveva qualche linea di febbre. Al café, però, mancavano già due cameriere. Come avrebbero fatto senza di lui? Aveva indugiato per un po’ nel letto, poi aveva risolto di prendere del paracetamolo e buttarsi sotto la doccia. Era al lavoro da tre ore buone quando l’uomo era arrivato e, dopo averlo salutato, gli aveva domandato di poter sedere al solito tavolo. Il ragazzo avrebbe voluto rispondergli di no, a dirla tutta. Sempre lo stesso tavolino. Lo stesso club sandwich. Lo stesso bar. Quell’uomo non era francese, tantomeno di Parigi, era evidente, e già non aveva intenzione di cambiare le sue abitudini a pranzo, appena prese, per giunta. Come poteva vivere così? Ma si era trattenuto. Dopotutto, che sedesse dove preferiva. Forse avrebbe fatto meglio a restarsene a casa lui dal lavoro. Sentiva salire la febbre e con essa il rimpianto di non essere rimasto sotto le coperte. Era andato in cucina a chiedere di preparare il club sandwich, invece. Beh, almeno sarebbe stato facile, glielo avrebbe portato, assieme a una birra chiara, e poi avrebbe potuto ignorarlo fino al primo pomeriggio. L’uomo avrebbe consumato il suo pranzo con calma, poi avrebbe tirato fuori il suo libro e avrebbe cominciato a leggere. Ma l’uomo, quel giorno, sembrava aver voglia di conversare con lui. Dopo qualche domanda di troppo sulle tipologie di birra disponibili, era passato con naturalezza, a fargli domande sulla sua vita: da quanto lavorava lì e via dicendo. Come capita in questi casi, in breve tempo era passato a parlare di sé, naturalmente: aveva conosciuto una donna, che viveva in Italia, come lui. Nonostante il ragazzo non desse alcun segnale di interesse nel racconto e si limitasse ad annuire educatamente di tanto in tanto, l’uomo lo aveva invitato addirittura a sedere sulla sedia davanti a lui, solo per qualche minuto, aveva detto. La richiesta era insolita, ma il café era semivuoto e il ragazzo aveva deciso di accontentarlo per poi rialzarsi qualche attimo dopo con una scusa. Certo che erano dure, quelle sedie: se ne era quasi dimenticato. Mentre cercava di sistemarsi in una posizione comoda, aveva sentito chiamare un nome. Aveva gettato uno sguardo all’uomo ma lui, distratto, stava osservando una giovane coppia di passaggio, dall’aria graziosa. Un’esplosione assordante aveva squarciato l’aria, poi il ragazzo era caduto riverso in avanti.

 

— E quindi, una telefonata —. La donna era distesa sul letto, a pancia in su, e stava faticando a trovare una posizione comoda.

— Mi pare avessimo deciso così, — aveva detto l’uomo, seduto su una panchina, cogli occhi che vagavano tra la chiusa del canale e le persone sedute per terra sulle sue sponde, intente a consumare aperitivi al tramonto con birre prese al supermercato — io sono pronto.

— Io pure. Beh, — aveva un principio di crampo al piede — allora, da quanto sei a Parigi?

— Da circa due settimane. Ma non è la prima volta che ci vengo.

— Sai il francese?

— In effetti no. Ho cercato di impararlo, qualche anno fa, ma mi sono reso conto che avrebbe richiesto un sacco di tempo. E poi non avrei avuto modo di esercitarmi, non ci ho mai vissuto. Ci sono sempre stato per periodi brevi, in vacanza.

— Una vacanza, allora. Ecco che cosa stai facendo.

— Lo sai che non è così.

— A me non sembra di sapere granché, — era scoppiata in una risatina — dimmi tutto.

— Beh, proprio non mi andava di rimanere in Italia, tantomeno a casa mia. Qua, invece, mi sento bene, al mio posto. Non è solo la città delle mie vacanze. È anche quella dei “miei” film, io la guardo, mi ci muovo come gli americani dell’epoca d’oro di Hollywood. Loro non avevano certo bisogno di parlare francese per sapere di appartenere a Parigi e che Parigi apparteneva loro. Love in the afternoon, An american in Paris, Funny face, e via dicendo. Audrey Hepburn poteva essere figlia di Maurice Chevalier e parlargli in inglese, a Parigi. Mi segui?

— Suppongo di sì. E pensi di restarci ancora molto?

— Certamente non ho voglia di pensare a tornare, se è questo che intendi.

— Ma seguiti a scrivermi. Lo sai che vivo a Roma.

— Questa sì che è mancanza di fantasia, mia cara. Primo, puoi venire a trovarmi. Secondo, poi, nel caso… le relazioni a distanza non mi dispiacciono. Ti dirò che ne ho avute più d’una. Non che le cerchi di proposito, capita però che mi ci ritrovi coinvolto. Non ho mai voluto limitarmi nella curiosità, le persone importanti per me sono sparse. Poi, non mi piace affatto l’idea di uscire con gente la cui vita si svolga abitualmente nei miei stessi luoghi, che parli con la mia stessa inflessione, e via dicendo. Se proprio devo essere sincero, lo trovo innaturale.

— Una sorta di incesto.

— Proprio così.

— Non ci avevo mai pensato. In ogni modo, è difficile stabilire le giuste distanze. A volte, quelle fisiche aiutano.

— È così.

— A patto di non esagerare.

— Giusto anche questo.

— Anche se la distanza New York-Seattle, almeno stando al cinema…

— …Quella sì, è ottimale. Ma non generalizzerei.

— Concordo.

— Comunque, ancora non ti ho raccontato quel che mi è successo oggi. Formidabile. Sei pronta? Stavo pranzando al Café Tourville — fanno un club sandwich magnifico — e, non so come, mi ero messo in testa di fare delle confidenze al cameriere.

 

Le feste che funzionano

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di Walter Nardon

Si definiva una donna semplice e certo, osservando la gamma del suo abbigliamento, lo poteva sembrare; ma i suoi desideri, tendendo com’è nella loro natura a realizzarsi, suggerivano di completare il quadro con dettagli più nitidi, recuperando elementi che aveva liquidato in fretta come trascurabili. Che in quella noncuranza ci fosse dell’altro, e che vi si potesse dunque scavare più a fondo – per quanto in genere non ci si facesse caso – non poteva restare un segreto. Così, quando si sparsero le prime voci di una sua storia con Riccardo Precy, qualcuno commentò che da qualche parte, nelle ampie tasche dei suoi vestiti informali, doveva aver trovato posto anche l’ambizione.

Lavorava da quasi due anni al Servizio Acque, dove aveva conservato la sua invidiata disciplina di studentessa. Se un tempo questa disposizione ne avrebbe fatto un modello ora, pur senza farla scomparire in mezzo alle amiche e nonostante i suoi luminosi occhi neri, la relegava in una posizione di outsider. Dal suo angolo, rispondeva a una battuta di spirito ridendo con un pudore che nascondeva un equilibrio conquistato a fatica, e per quanto sapesse spendersi generosamente con gli altri, davanti a un favore inatteso non riusciva a rispondere ed esitava, lasciando sul volto di chi le aveva fatto del bene un’espressione interrogativa.

Il venerdì pomeriggio tornava a casa in bici. Staccando un’ora prima, a volte si fermava a fare la spesa ma in alcuni casi, vestita in modo più sportivo e con tanto di casco bianco allacciato, andava a farsi una decina di chilometri sulla ciclabile. In una di queste occasioni, verso la metà di ottobre, pedalava da circa un quarto d’ora quando d’un tratto, dietro una curva a sinistra quasi interamente coperta dagli olmi, si trovò davanti un uomo in divisa da ciclista e occhiali da sole che rimetteva a posto la catena di una costosa bicicletta da corsa. Non si trovava proprio in mezzo alla strada, aveva avuto l’accortezza di mettersi sul ciglio, ma la casacca arancione, la bicicletta antracite e insomma, la sorpresa, l’avevano indotta a frenare, o per meglio dire a fermarsi.

Si trattava proprio di Precy, il noto imprenditore e quasi-celebrità social. Incontrarlo sulla ciclabile non era un evento raro, dato che vi percorreva dodici chilometri al giorno, andando e tornando da una delle sedi delle sue società. Nessuno ne discuteva il successo; ma la superiorità del suo fascino – la cui estensione riteneva tendenzialmente indefinita – era in questione da circa un anno, ossia dal tempo in cui aveva deciso di tornare a risiedere più stabilmente in città. Le più strette collaboratrici ne discutevano con sofismi che tendevano ad attenuarne le pretese conservando però la correttezza di fondo dell’osservazione (sia pure, precisavano, «fra quelli come lui»); i dipendenti invece ne ragionavano più in breve: a loro modo di vedere, tolto di mezzo il conto in banca, non restava altro di cui discutere. Lui non se ne curava, certo che i migliori – e soprattutto le migliori – avrebbero saputo cogliere in un istante la differenza. Procedeva senza badare alle voci, ignorando gli altri imprenditori a suo avviso troppo attaccati ai soldi per saperli fare davvero, privi di visione, di prefigurazioni che invece in mano sua assumevano la consistenza materiale di un baule; di un baule pieno, si intende.

Quando la vide rallentare davanti a sé, scorse una donna che gli sembrò passabilmente attraente, ma non al punto da costringerlo ad abbandonare la verifica delle parti meccaniche. Continuò pertanto a controllare la tensione della catena e, finito l’esame, alzò gli occhi verso di lei più che altro perché, con le mani sporche di grasso, si augurava che la ciclista avesse con sé un fazzoletto di carta. Lei si sfilò lo zaino e gli passò quello che la circostanza richiedeva ossia, oltre a un pacchetto di fazzoletti, una bottiglietta di soluzione idroalcolica per pulirsi le mani che portava sempre con sé (in caso di necessità). Il modo in cui le sorrise sarebbe rimasto per qualche giorno al centro dei suoi pensieri. Benché sapesse per esperienza di lettrice e spettatrice quanto queste suggestioni vengano suscitate dalle circostanze ambientali di un determinato istante –  la luce che si rifletteva sulle foglie dei ligustri disposti in siepe dietro di lui, i profumi del parco vicino dove alcuni bambini giocavano chiassosamente a rincorrersi – e per quanto avesse altrettanto chiaro che questi dettagli offerti alla fantasia diventano un’opportunità di sviluppo quasi sfrenata, aveva intuito un’attrazione non preventivabile, la possibilità che qualcosa di meno fortuito potesse svilupparsi. In effetti, due giorni dopo lui le telefonò.

2.

In certi casi non si può neanche parlare di ambizione: si sente crescere in sé un sentimento e si decide di seguirlo investendoci quasi inavvertitamente una somma di energie che tende ad aumentare sempre di più finché il giorno risulta d’un tratto occupato quasi per intero da una questione esigente. Cinzia cercò di non darlo a vedere. Al lavoro, per tre giorni mise in atto la strategia che in determinate circostanze aveva sempre funzionato: faceva domande alle colleghe sulle loro scelte, le lasciava parlare. Poiché gli esseri umani hanno sempre voglia di esprimere le proprie preferenze, dando spazio alla conversazione poteva rifugiarsi nell’interiorità: le amiche la apprezzavano perché sapeva ascoltare e lei custodiva il suo segreto.

La condotta di Precy invece non aveva bisogno di ventagli metaforici dietro ai quali rifugiarsi. Aveva l’abitudine di pensare a sé, come se la sua voce su Wikipedia, già stata abbozzata, aspettasse solo un oscuro estensore per risistemarla. Qualche imprenditore malevolo sosteneva che la sua fortuna fosse fondata su un apprezzabile capitale iniziale, donatogli dalla famiglia, sul quale aveva poi costruito il suo gruppo in modo neppure troppo febbrile, con l’aiuto dei collaboratori di maggiori competenze e di risorse finanziarie insufficienti; ma su un punto erano tutti d’accordo: ci sapeva fare.

L’aveva chiamata per ragioni di lavoro e lei, sentito il modo in cui si era presentato – senza farsi annunciare dai suoi collaboratori – aveva rotto gli indugi e chiesto se avesse risistemato la bicicletta. Lui si era fatto una risata.

«Sì, grazie. Una volta ad Amburgo dopo aver forato sono rimasto quasi tre ore in mezzo al nulla, senza nessuno a cui telefonare. Quello è stato un pomeriggio come si deve, ma qui, sulla ciclabile, a pochi chilometri da casa, la bici me la sarei portata anche sulle spalle. Comunque ti ringrazio di avermi soccorso».

«Non ho fatto niente».

«Ma è bello sapere che c’è qualcuno pronto a darti una mano».

«È stato un piacere. Poi, davvero, non ho fatto nulla di speciale».

«Posso ricambiare la cortesia con un caffè?»

E così era nato questo appuntamento. Precy aveva scelto un bar non proprio in centro, anzi quasi in periferia (faceva parte di una catena) e perfino lì un po’ defilato, con i tavolini in ferro battuto e le pareti coperte di lavagnette piene di frasi augurali scritte col gesso. Gli sembrava perfetto per l’incontro, tanto da fargli sopportare anche la proverbiale scomodità delle sedie: non era lontano dalla casa di Cinzia (gli aveva detto che viveva in quel quartiere). A lei non dispiaceva, benché fosse un po’ stereotipato. In fin dei conti, se nella realtà cittadina doveva per forza scegliere un posto che non avesse nulla di suo se non i graffi sui tavoli (e anche quelli, a volte, già definiti, nei cosiddetti mobili anticati), era meglio scegliere un posto romantico.

Al mattino, prima di uscire, aveva provato a indossare qualcosa di un po’ più elegante del solito e non era rimasta soddisfatta finché non aveva visto riflessa nello specchio una nota speciale: l’intimo delle grandi occasioni, un colpo di spazzola in più sui capelli neri, una giacca verde scuro sfiancata sopra la camicetta bianca portata aperta fino al terzo bottone. Sotto, pantaloni bianchi e scarpe nere, come la borsetta. Aveva tutta l’aria di chi, cercando di nascondersi, vuole apparire; abituata a non accennare ai propri desideri e a parlare di quelli degli altri, non riusciva a capire la misura oltre la quale cominciava a dar mostra di sé: a ben vedere, rispetto alla norma, nel dettaglio di quell’outfit per lei inconsueto perfino le sue colleghe meno audaci avrebbero dovuto dubitare che ci fosse qualcosa in ballo.

3.

E così si era avviata al grande giorno. Nonostante i suoi propositi, dietro il monitor in mattinata aveva trascorso tre quarti d’ora a fantasticare sui primi istanti dell’incontro, passando dall’immaginazione dei dettagli alla riflessione su ciò che questi suggerivano alla sua sensibilità, illanguidita davanti agli oggetti della scrivania per acuirsi invece dolorosamente al cospetto di quel che l’immaginazione esigeva. Comprendeva l’origine di questo stato d’animo, ma a differenza di quel che era accaduto in altre circostanze, in cui aveva fatto prevalere la saggezza, in questo caso sentiva, per così dire, “che era il suo turno”, e che per questo non avrebbe dato ascolto alla prudenza: si sentiva in forma e il suo corpo reclamava un bagno di sole.

Rispose ad alcune e-mail di lavoro, nel pomeriggio partecipò a una riunione ed ebbe uno scambio in chat a Margherita, un’amica che viveva a Castelfranco Veneto.

Poi, finalmente, venne l’ora di uscire.

Arrivò a casa con quaranta minuti di anticipo. Non aveva previsto di fermarsi, ma preferì sistemare la bici in garage e rinfrescarsi in bagno.

Poco dopo, camminando sul marciapiede, cercava di fissare nella memoria il riflesso del sole sulle siepi – così verdi e tanto diverse da quelle che aveva scorto vicino a lui –, dell’odore dell’erba nei dodici metri quadri di prato davanti all’ingresso dei vicini. Non era chiaro se il fatto di sentirsi desiderata si riverberasse sulle cose che incontrava o se non fossero invece queste, in quel momento, a mostrarsi a lei nel loro aspetto più complice e benevolo. Del resto, già il solo fatto di uscire prima dall’ufficio l’aveva messa di buon umore.

Tirò fuori il telefono e, dopo alcuni tentennamenti, si fece un selfie e lo spedì a Margherita.

Sei strafiga, vai benissimo.

Un incoraggiamento eccessivo.

Dopo due semafori arrivò davanti al bar.

Era proprio ciò che ricordava, la replica di un locale francese, con le sedie da esterno in ferro un po’ sgangherate e troppe gardenie finte sopra le irrinunciabili lavagnette piene di frasi incoraggianti, alcune in inglese come «Today is a Happy Day». Fra tante, la migliore era: «Il vaut mieux faire envie que pitié». Fece un giro dell’isolato per non accomodarsi troppo presto, ma già dietro l’angolo si sentì affaticata, respinta dai dettagli che ora trovava noiosi perché reclamavano attenzione sottraendole forza per tendere all’unica cosa sulla quale aveva bisogno di concentrarsi. Proseguì perciò il giro cercando di ripiegare su Alicia Keys (elementare, If I Ain’t Got You). Sarebbe stato bello incontrarlo in modo fortuito, anche se lui, ovviamente, non si vedeva.

E così, arrivata di nuovo davanti al Café Paris 38, entrò: c’erano tre persone. In effetti, le cinque e cinquanta non sono il momento migliore per un caffè; pur avendolo compreso quando lui le aveva offerto l’invito, non aveva avuto il coraggio di dire che l’ora si avvicinava di più a quella dell’aperitivo, perché lui avrebbe potuto equivocare interpretandolo come un cenno di apertura per una serata tutta da scoprire. Lasciarlo intendere sarebbe stato troppo audace? E poi, meglio dentro o fuori? Dentro, dava meno nell’occhio.

Disse alla cameriera che aspettava qualcuno che sarebbe arrivato a minuti, si sedette e tirò fuori il cellulare. Alla sua sinistra, su un tavolo, uno studente universitario dai capelli rossi finiva di bere un caffè col giornale davanti. Appoggiata la tazza, sempre con un occhio al giornale, col cucchiaino grattava lo zucchero dal fondo come se, avendo finalmente trovato la parte migliore, non potesse rinunciarci. Quell’operazione, che a dispetto di ogni attesa ragionevole andava avanti da circa un paio di minuti, la metteva a disagio: era così infantile, che per lo studente doveva per forza avere assunto qualche valore rituale. E non era neanche così giovane, il tizio. Ripensò alla sua carriera universitaria, alla fierezza con cui si accompagnava al bar con i professori dopo un seminario: quello stato d’animo aveva qualcosa a che fare con ciò che stava provando in quel momento, forse perché più che di attesa si trattava di speranza. Lui, intanto, era in ritardo.

A dire il vero Precy era già arrivato: se ne stava al telefono nel vicolo dietro il caffè, sporgendosi ogni tanto da una finestra posta nell’angolo solo quel poco da intravedere l’espressione di Cinzia. Appariva nervosa, ma sembrava che in lei prevalesse il desiderio. Lui era vestito in modo sportivo, camicia bianca, giacca tra il grigio e il blu, jeans decisamente costosi e sneakers bianche (edizione limitata).

4.

«Ciao, scusa, ma che ci fai qui dentro? Usciamo, dai, prendiamo un po’ d’aria».

«Ti stavo aspettando».

«Lo so, scusa. Ho sempre tante telefonate da fare».

Lei prese la borsetta.

Fuori, si sistemarono a un tavolino a sinistra, un po’ discosto dall’ingresso, scegliendolo dopo aver provato la solidità delle sedie, operazione che lui mise in atto scrollandone quattro o cinque per trovare le due con lo schienale giusto.

«Allora, che mi racconti?»

«Una giornata normale. Tu invece, devi avere una vita complicata».

«Beh, non saprei. Io devo correre dietro a quello che vogliono gli altri».

«E ti piace?».

«Più che altro mi tocca. Poi ogni tanto decido anche di lasciar correre, mi prendo i miei spazi».

«Beh, mi sembra già un passo avanti».

«Sì, ma non credere, anche in questo ci vuole dedizione».

«La stessa che ci vuole per andare alle feste?». Tutti sapevano che Precy, per così dire, non era per l’austerità.

«Ma dai», Precy rise, «non mi diverto mica alle feste. Lo sanno tutti che ci resto poco. I più dicono che lo faccio per snobismo e io li lascio dire. Tutto questo mi sembra così ridicolo, e infatti è niente rispetto a quello che ho provato quando studiavo a Leeds. Le feste non muovono più niente, come una serata trascorsa su un prato a suonare la chitarra con gli amici fino al buio completo. Bella, no? Forse perfino stimolante, ma se ci pensi è raro che lo sia davvero. Vedi, ho questa convinzione, che magari ti sembrerà un po’ fuori tempo (ma chi può dirlo?): perché riescano bene le feste devono servire a qualcosa; ossia l’invito e la conversazione degli ospiti devono essere orientati verso un fine, almeno quello di chi le ha organizzate. Una volta le cose andavano così: per questo le feste contavano. Alla festa si decideva un affare, si pensava a un fidanzamento, ma tutto questo naturalmente senza averne l’aria, perché in effetti, si decideva e non si decideva: diciamo che se ne parlava. Qualcuno potrebbe dire: ma non era tutto qui, alle feste si andava anche per la musica, per il ballo. Appunto, proprio perché le feste contavano, contavano anche la musica e il ballo. Contava suonare come si deve – e scrivere un pezzo come si deve – e poi saper ballare. Oggi, devo dirti la verità, mi annoio molto, soprattutto in quei locali minimal, con mobili più o meno di design, in realtà comprati sottocosto, e con la musica club o lounge insopportabile».

Presero entrambi un caffè. Per lui decaffeinato.

«E io che ho sempre creduto che una festa vera funzioni soprattutto se non ha uno scopo. Pensavo addirittura che avessimo fatto dei passi avanti perché possiamo incontrarci solo per il gusto di stare insieme».

«Beh, non voglio mica scoraggiarti. La festa si fa per stare insieme, senz’altro; poi però ti accorgi che in un angolo c’è sempre qualcuno che pensa ad altro. Un po’ come in chiesa.  A casa mia si è sempre detto che gli affari migliori si fanno in fondo alla chiesa durante la messa. Anche lì, in teoria, la maggior parte delle persone dovrebbe essere presente per altre ragioni. Per motivi più nobili, se vuoi».

«Non vorrai sostenere che è tutto strumentale. Non avessi avuto le serate con le mie amiche, che mi hanno presa per quella che sono, non so se avrei finito gli studi».

«Ah, ma su questo sono totalmente d’accordo. Sono a favore dell’amicizia. Dico solo che a una festa uno scopo ci vuole, non che ci sia solo questo. E intendo proprio uno scopo sociale. Anche una convention ha uno scopo, anche le presentazioni di un nuovo prodotto ce l’hanno, ma in questi casi è tutto così ufficiale e orientato al profitto che è difficile trasformare l’atmosfera in quella di una vera festa. Facci caso, anche i vernissage di una mostra il più delle volte sono ridicoli».

«Ma cosa vorresti? Il ritorno all’Ottocento?».

«No, basta anche una semplice festa di compleanno. Queste funzionano sempre proprio perché c’è qualcuno da festeggiare. Sono quelle spontanee, invece, a essere sopravvalutate: avrebbero successo solo se servissero davvero a far conoscere gli invitati. Il fatto è che abbiamo quasi sostituito i ricevimenti con le app di incontri, o con gli speed date. Che un po’ funzionano, ma sono troppo brevi e preordinati al risultato. Fingi un po’ che siano rilassati, che durino di più: se durassero una serata intera sarebbero perfetti. Perfetti per me, intendo, che ci andrei non con lo scopo dichiarato di conoscere qualcuno, ma solo con quello eventuale. Insomma, starei a vedere, potrei muovermi con libertà, mentre gli altri tendono scrupolosamente al loro fine».

La cameriera arrivò con i caffè, corredati da bicchierino d’acqua e biscotto offerto dalla casa. Dall’interno provenivano i rumori una conversazione animata: doveva essere arrivato un gruppo per l’aperitivo. Cinzia non era sorpresa dalla conversazione, quanto dalla franchezza. Ammirava la disinvoltura di Precy, a suo agio in quel bar come in un contesto più formale che in apparenza avrebbe richiesto un contegno decisamente misurato; era privo del tono leggero così diffuso fra le persone di successo, in grado di incantare le vedove degli imprenditori, rivelandosi però in seguito indizio di una depressione poco latente (che lei conosceva fin troppo). Lo sentiva vicino, affidabile. E sentiva di piacergli.

«Insomma tu vorresti dirmi che nelle occasioni sociali non bisogna mai avere in testa un obiettivo?»

«Certo. Lo sanno tutti che non bisogna scoprirsi troppo in fretta, ma al di là di questa vecchia massima, credo che non si debba proprio essere troppo determinati: bisogna lasciare le cose nel loro essere. Semmai assecondarle. Nient’altro».

«E tutto questo in contesto che ha un fine dichiarato, noto a tutti, quello che dà il nome alla festa».

«Esatto. Direi che è la condizione migliore per trascorrere un’ottima serata».

5.

Dentro la discussione si era fatta più chiassosa. D’un tratto, arrivò il rumore secco di bicchiere in frantumi.

«Ecco,» disse Precy «magari non proprio fino a questo punto. Ma del resto, una discussione è sempre meglio di una serata sul divano, con le ombre radunate davanti alla porta di casa».

Cinzia notò il tocco un po’ ricercato, ma poiché era un tema che aveva particolarmente a cuore, rimase sorpresa che lui si fosse lasciato andare al punto da sfiorarlo.

«Adesso non dirmi che le tue serate sono così grigie da cercare a tutti i costi una serie tv per fartela passare. Questo riguarda noi, non quelli come te».

«Ah, ecco, te lo dico subito. In generale le serie tv non mi piacciono: sono tutte uguali. Non importa che si tratti di poliziesco, o peggio ancora di quelle di un’epoca storica completamente inventata. Sono tutte costruite allo stesso modo. Guardo invece qualche film, a volte ne rivedo uno magari anche per la quarta o quinta volta: tanto per cercare qualcosa di diverso».

«E funziona?»

«Dipende. Non dico che ti tiri sempre su il morale, ma consola se non altro perché vedi qualcuno che fa le cose come si deve, senza farsi attrarre dalle tendenze del momento. Ti senti meno solo».

Cinzia intravedeva la realtà di un sentimento, una barchetta di sughero sopra l’acqua spenta delle proprie serate. Si era già trovata tre o quattro volte a consolare un’amica, ascoltando la sua sconfitta senza riuscire a parlare di sé. Mentre il comportamento tradiva una determinazione non comune, il discorso aveva continuato a creare nell’interlocutrice la sensazione epidermica di un’adesione che non si traduceva mai in partecipazione concreta. In quel momento stava scoprendo che la forza di Precy era in grado di superare le sue strategie di difesa.

«Ma senti,» proseguì lui, «vorresti dirmi che dobbiamo farcela passare stando davanti allo schermo col solo vantaggio di sentirci degli spettatori più esigenti? Mi sembra un po’ poco. I miei, i loro amici, avevano capito come ci si diverte: cantavano canzoni impresentabili, che io detestavo, ma è innegabile che si divertissero; ed era la loro vita, mica quella degli altri. A me non piacevano? Glielo dicevo? Se ne fottevano, se ne strafregavano, mentre ora stiamo sempre a vedere l’opinione che gli altri hanno di noi. Sì, certo, abbiamo una reputazione digitale da difendere, ma non una che ponga gli stessi problemi di quella di una star hollywoodiana. Noi possiamo anche permetterci di sbagliare».

Era forse stata educata anche lei a sentirsi una spettatrice sempre più esigente, una commentatrice, tutti aspetti utili per assecondare una vocazione gregaria? Osservava i piccoli secchi di latta sui tavoli, pieni di bustine dello zucchero bianche e beige. Il fatto è che sotto quei modi sentiva svolgersi un pensiero che non esitava a manifestarsi, privo dell’incertezza che nel suo caso si accompagnava sempre a ogni espressione, nel timore di turbare un equilibrio di relazioni senza il quale si sarebbe trovata in difficoltà. Aveva sofferto troppo la debolezza della sua famiglia; e proprio ora si accorgeva che quel timore non era indefinito: le diceva che aveva giudicato la sua condizione ingiusta e che avrebbe voluto di più, ma allo stesso tempo, rifacendosi vivo, si annunciava anche infantile e sterile, segno di un tempo che doveva lasciarsi alle spalle, rinunciando alle recriminazioni. Cercò il modo di riprendersi:

«Io non credo che sia un problema per le star di Hollywood, ma che lo sia invece per chi ha poco: se sbaglio io, nessuno è disposto a concedermi un’altra possibilità. Nel tuo caso, invece, tutti stanno a vedere quale sarà la tua prossima mossa, se riesci a riprenderti o meno. L’interesse, nel tuo caso, è vivo a prescindere. Il fatto che a nessuno interessi se io riesco a riprendermi ti dice che per l’opinione pubblica io – e quelli come me – non valgono niente».

«No. Non è che non vali niente,» Precy sorrise, «è che tu prendi troppo sul serio queste dinamiche, le prendi per definitive. D’accordo, dopo una caduta tutti starebbero a vedere la mia mossa successiva, ma sai cosa succederebbe se sbagliassi di nuovo? Che finirei anch’io nel grande calderone dell’irrilevanza, da cui per me sarebbe ancora più difficile risalire, perché si direbbe che in fondo io la mia occasione l’ho già avuta. Perciò non siamo poi così lontani, non credi?»

«Ah, beh, allora si tratta solo di giocarsi al meglio la propria occasione, sempre che ci sia».

«Ma anche qui ti sbagli. L’occasione si dà giorno per giorno in quello che fai, non arriva mica come un biglietto della lotteria. Se si tratta di un biglietto, ce lo abbiamo già in tasca, lo abbiamo già comprato. È che molti si dimenticano di controllarlo».

Se glielo avesse detto un motivatore in un corso di aggiornamento aziendale – e ci era andato pericolosamente vicino – Cinzia lo avrebbe detestato, ma davanti al timbro di voce di Riccardo si sentiva pronta ad accogliere l’argomento in modo meno ostile.

«Un bell’incoraggiamento, ma se sia valido o meno dipende, appunto, da quello che fai ogni giorno. Le dipendenti thailandesi dell’impresa di pulizie che lavorano da noi ad esempio non credo ne sarebbero entusiaste».

«Ecco, anche questa. Ma ogni occasione è sempre relativa al contesto in cui ti muovi, perciò non è affatto detto che a qualcuna di loro le cose possano andare meglio, o peggio, e che questo non dipenda in parte anche dalle scelte che avranno fatto. E ti anticipo subito: certo, tutto questo dipenderà anche dalla loro conoscenza della lingua, dalle loro relazioni, dalla loro salute, dalla capacità di intuire dove potranno essere più utili, ma non puoi venirmi a dire, in astratto, che questa limitata mobilità – pur drammatica, sono d’accordo, purtroppo il tempo che viviamo è questo – non sia anche minimamente dinamica».

Cinzia si affrettò a correggersi:

«No, d’accordo, non volevo arrivare a questo. Ma è vero che tanti si portano dietro studi più elevati rispetto al ruolo che ricoprono ogni giorno».

«Beh sì, questa, è un’altra faccenda, anche se non bisogna scambiare il mezzo, il titolo di studio, per il fine».

Cominciava a farsi più fresco. Precy controllò le notifiche sul telefono.

«Vuoi che ce ne andiamo?» chiese Cinzia.

«No, non preoccuparti, ho ancora un po’ di tempo».

Per quanto le fosse sembrato fin da subito di una cordialità inusuale, ora sapeva che il suo comportamento, superato il senso del dovere, seguiva abbastanza fedelmente i suoi desideri; in quella disponibilità a fermarsi doveva perciò contare anche il fatto di essere seduto con lei. Anzi, era sicuramente così. Confortata da questa opinione, Cinzia cercava di non trattenerlo oltre misura. Riprendere il discorso in un’altra circostanza avrebbe garantito una nuova opportunità.

«Non che mi dispiaccia proseguire, ma non vorrei che facessi tardi con qualche impegno».

«In effetti, ho ancora un appuntamento telefonico, ma non sono in ritardo. Vedi» continuò Precy appoggiando il cellulare, «sulla faccenda relativa a scegliere le cose da fare, a sfruttare le proprie occasioni, mi dico sempre che l’importante è di non assomigliare al mio primo capo. Forse nessuno ha mai capito cosa pensasse veramente, non dico a lezione – teneva anche corsi in università – ma proprio nella vita. Si preoccupava di mostrarsi, per così dire, nel punto di perfetta equidistanza fra due opinioni contrastanti. Anche con noi, che lo conoscevamo meglio, era tutto un “Non vorrei che pensassi…”: continuava a rinnovare questa prudenza a cui doveva la sua fortuna, a partire dagli incarichi vantaggiosi che ricopriva in tre o quattro società. Quando gli chiedevi un parere, ti faceva parlare per poi impiegare la sua indiscutibile intelligenza giocando di sponda, tentando di riferire questo suo metodo alla preoccupazione che aveva per i tuoi studi, mentre invece questa era ancora una volta orientata su di sé, sull’opinione che avevi di lui. Nonostante la fama conquistata presso i suoi colleghi, ho sempre creduto che abbia vissuto la sua vita col freno a mano tirato, finendo per sprecare le sue energie, a forza di tenerle da parte. E in effetti, l’impressione più duratura che ho di lui è che abbia combinato molto meno di ciò che avrebbe potuto fare e non perché facendo meno si sia potuto dedicare con maggior impegno alle cose importanti, ma al contrario, proprio perché a forza di mantenersi illusoriamente equidistante ha finito per mancare gli appuntamenti decisivi, limitandosi a contributi di minor peso. Non per umiltà, dunque, ma per il suo esatto contrario, per ottenere la gloria immediata di qualche carica e un conto in banca un po’ più sostanzioso, che secondo me invece sarebbe cresciuto molto di più se avesse fatto ciò che sapeva, e forse doveva fare. Ecco, con le mie risorse più modeste, mi sono sempre detto che avrei fatto di tutto per evitare di fare questa fine. E ci sto ancora lavorando».

«Credo che nessuno potrebbe scambiarti per lui».

«Ecco, appunto. Ma questo non vale solo per me».

Cinzia arrossì per un istante, giusto il tempo di riprendersi: «Perché non ne parliamo la prossima volta?»

Il fantasma di carta

2

di Stefano Solventi

Uno spettro si aggira nell’editoria: il rock come eredità culturale e ricettacolo di storie oltre la manifestazione sonora-

Sono tra coloro che al rock negli anni novanta ci credeva. Ci credevo tanto. Per motivi anagrafici, certo, dal momento che è stato pur sempre il decennio in cui si sono consumati i miei vent’anni (l’inizio e la fine, appunto). Ma anche per la situazione generale: il rock, nei novanta, sembrava una supernova sul punto di abbagliarci. E questo non malgrado, ma anche in virtù del buco nero che il terribile suicidio di Kurt Cobain aprì nel cuore stesso della nostra eccitazione rockista. Ebbene sì: avere venticinque anni ed essere appassionato di rock nel mezzo dei Nineties era davvero un bel vivere. Ogni giorno poteva essere quello buono per trovarsi nelle orecchie un nuovo disco in grado di farti svoltare la settimana, il mese, l’esistenza. Particolare non da poco: ciò valeva anche per il rock italiano, persino per quello in italiano.

In un gioco di reattività paragonabile a quello dei neuroni specchio (la cui esistenza nell’essere umano venne dimostrata, guarda un po’, proprio nel 1995), la scena nostrana vedeva nuove band guadagnarsi il centro del palco con sconcertante regolarità, quasi che ognuna costituisse la risposta a una determinata grande band internazionale (quasi sempre USA): sostenere che i Marlene Kuntz erano i nostri Sonic Youth, gli Afterhours i nostri Afghan Whigs e gli Scisma i nostri Smashing Pumpkins (o i nostri My Bloody Valentine), può apparire ingrato e riduttivo, e in effetti lo era, eppure questa specie di “tabella di conversione” rappresentava anche un varco tra noi – provincia marginale dell’impero rock – e il centro nevralgico del mondo. Il cuore elettrico della cosa rock non era mai stato tanto vicino. Lo sentivamo finalmente pulsare sul polso del presente.

E il futuro? Ecco: proprio a questo credevo, al futuro. Ci credevo tanto, non solo dal punto di vista del rock (in realtà, per quanto oggi possa apparire strano, non potevo concepire passato, presente e futuro senza rock). Ero convinto che finalmente il rock stesse per diventare un linguaggio diffuso, e che ciò valesse anche per quello (in) italiano. Si trattava di una novità, perché malgrado le eccitanti stagioni del post punk e della new wave (le famose scene di Bologna, Roma, Firenze…), fino ad allora non avevo potuto fare a meno di sentire nel nostro rock il rumore di un ingranaggio in ritardo e il fastidio strisciante di una pronuncia (anche solo un po’) sbagliata. Durante i tardi anni ottanta mi ero convinto che il rock come cultura non ci appartenesse davvero, che non saremmo mai stati in grado di padroneggiarne appieno la sintassi, o almeno non abbastanza da esprimere tutto quello che andava espresso. Con buona pace delle band di casa nostra, impegnate con un certo entusiasmo a dimostrare di esserne in grado, ma fallendo proprio per questo.

Insomma, la partita languiva senza rilanci significativi. Quando ecco che, tanto benedetta quanto inattesa, le onde d’urto del rock alternativo – a partire da quella con epicentro dalle parti di Seattle – rovesciarono il tavolo. Come già accennato, a finire scozzati furono anche i mazzi di carte nostrani, tanto che a partire dal ‘95 (un po’ di ritardo fisiologico andava come al solito messo in conto) la mia collezione di cassette e CD iniziò a popolarsi di titoli italiani in grado di mettere in crisi le gerarchie consolidate. Ancora oggi, colloco senza alcuna difficoltà album come Rosemary Plexiglas, Catartica e Hai paura del buio? (solo per fare tre titoli) sullo stesso piano dei Washing Machine, dei Mellon Collie And The Infinite Sadness, dei Loveless, dei Red Medicine e dei Gentlemen. A dirla tutta, volevo e voglio loro un gran bene anche per un altro aspetto: perché dimostrarono di saper utilizzare l’italiano come lingua rock senza abbeverarsi alla tipica prosaicità del cantautorato né agli espedienti adattivi/imitativi dell’epoca beat. A partire dai testi, capaci di sgomitare tra sintassi e lessico con stile personale (la ruvidezza letteraria di Godano, il cut up crudo di Agnelli, le iperboli sconcertanti di Benvegnù…) e di fatto consegnando alla generazione X italiana un linguaggio rock finalmente agile, evocativo, potente.

Non che fosse poi così indispensabile poter contare su una nostra scena, ma si trattava comunque di un fatto decisivo, il segno che la linea di confine era stata attraversata e che il rock anche da queste parti poteva finalmente fregiarsi del titolo di cultura diffusa, una vera e propria angolazione nei confronti dell’esistenza di cui tutti, ne ero certo, avremmo beneficiato. Sappiamo com’è andata: col nuovo secolo/millennio e l’avvento dell’epoca del web, il rock si è accartocciato, è come imploso sotto il peso del proprio stesso repertorio (prima con una massiccia campagna di ristampe e poi con la liquefazione dei supporti, ovvero il download – legale e illegale – e lo streaming), riproposto come catalogo smisurato e sempre più disponibile e simultaneo, in obbedienza alla pandemia retromaniaca immortalata dal celebre saggio di Simon Reynolds.

Dal 2000 in avanti pochi nuovi dischi rock hanno saputo distogliere gli appassionati dall’incantesimo rappresentato da oltre mezzo secolo di scibile musicale a portata di un paio di click, proprio mentre pop, neo-soul e hip-hop dimostravano invece di possedere i requisiti di elasticità necessari per adattarsi alle nuove modalità di distribuzione e fruizione, nonché – soprattutto – ai parametri estetici che ne derivavano. Il colpo di coda rock che fece seguito all’undici settembre (Strokes, Oneida, Yeah Yeah Yeah’s, Black Rebel Motorcycle Club, Interpol…) seppe guadagnarsi non senza merito una certa effervescenza mediatica, ma si trattò appunto di un colpo di coda.

Tirate le somme, gli anni Zero non furono un buon decennio per il rock, che vide ridurre progressivamente la presenza negli airplay radiofonici, i volumi di vendita (destinati in ogni caso a venire sconvolti dal formato digitale), la visibilità sui media e il peso nell’immaginario collettivo. Si trattò di un processo graduale, ovviamente, ma tutto sommato rapido. Il sogno di un rock finalmente invitato al desco della cultura popolare venne spazzato via nel giro di pochi anni, anzi di mesi. Fu un autentico shock da cui probabilmente devo ancora riprendermi.

Questo non ha nulla a che vedere con il tema ricorsivo – e perciò sempre più ozioso – della cosiddetta “morte del rock”. Il rock, sia detto a scanso di equivoci, è vivissimo. Dischi rock di buono e anche ottimo livello non hanno mai smesso di uscire. Ma sono usciti – escono – in un contesto che non li ritiene più un evento artistico e culturale primario, che di fatto non sembra disposto a farsi intrigare dalle novità rock al di fuori della bolla costituita dai media specializzati e dai perimetri social degli appassionati. A titolo di riprova, quando lo fa – vedi il recente, travolgente caso dei Måneskin o prima ancora dei Greta Van Fleet – si tratta di un fenomeno mediatico che utilizza cliché rock con finalità sensazionalistiche, rivolgendosi a un pubblico che del rock ha un’idea piuttosto approssimativa e potentemente stereotipata (se preferite: vecchia), un pubblico che in definitiva potrebbe fare benissimo a meno del rock. Un pubblico che, come il personaggio interpretato da Mickey Rourke in The Wrestler, non sopporta ciò che è accaduto al rock dai Nirvana in avanti. Un pubblico che, per farla breve, dopo i Guns N’ Roses il diluvio.

Eppure, ripeto, credo si possa sostenere che il rock – Kurt Cobain o meno – non sia affatto morto, e che nel medio periodo non morirà (come non è morto, ad esempio, il jazz). Ma è altrettanto lecito sostenere che il baricentro del rock sembra essersi spostato dalle parti di una sempre più puntuale riproposizione/rielaborazione di se stesso, come conseguenza della sistematica attualizzazione di un catalogo sterminato. Le campagne di ristampe iniziate con l’avvento del CD e la disponibilità pressoché totale resa possibile dallo streaming hanno cambiato significativamente lo scenario emotivo dell’ascoltatore, che da qualche anno si trova nella condizione di poter disporre di un disco o di una canzone di sessanta o quarant’anni fa proprio come di un lavoro appena pubblicato.

Per il rockofilo cresciuto all’epoca delle discografie da costruire con fatica, avvezzo ad affrontare distribuzioni problematiche, prezzi esorbitanti e lo spettro del fuori catalogo, questa situazione coincide in sostanza col paradiso a cui un tempo anelava e a cui oggi può accedere al costo mensile di un CD economico. Ma per l’ascoltatore più giovane, tutto ciò è la pura e semplice normalità. Si consuma qui una vera frattura sia generazionale che culturale: da una parte ci sono quelli abituati a strutturare i propri ascolti come un percorso, entro e tra le discografie, tenuto conto delle implicazioni storiche, sociali, tecnologiche eccetera; dall’altra, c’è chi si affida all’estro del momento o ai suggerimenti (algoritmici) di ascolto, galleggia sulle playlist una canzone via l’altra, perlopiù indifferente alla loro collocazione nell’ambito di una discografia e del contesto storico. I due “poli” così individuati vedono da una parte gli ascoltatori (per come li conoscevamo prima della liquefazione dei supporti fonografici), dall’altra gli utenti (delle piattaforme di streaming). Va da sé che si tratta di una distinzione estremizzata e probabilmente grossolana, di sicuro andrebbero messe in conto gradualità e sfumature, ma tutto sommato credo che renda bene l’idea.

Appare ovvio includere nella prima categoria i più vecchiotti, gli analogici, ma non è scontato: basti pensare ai molti giovani che frequentano le fiere del disco e che comunque risultano tra i più assidui acquirenti di vinili (quasi provassero nostalgia di una ritualità mai vissuta). Allo stesso modo, nella categoria degli utenti predominano chiaramente i cosiddetti nativi digitali, i quali non hanno letteralmente conosciuto altra modalità che l’ascolto via Youtube, Spotify e via discorrendo, e in ragione di ciò non riescono culturalmente a concepire l’album come entità espressiva (e – di conseguenza – la discografia in quanto sviluppo cronologico di un codice espressivo). Va detto in ogni caso che la capacità di penetrazione e la portabilità delle app ha conquistato molti rappresentanti della generazione X – per non dire dei famigerati boomer – appassionati di musica o meno, mutandone sensibilmente le abitudini oppure convertendoli in toto alle nuova modalità di fruizione.

A ciò si aggiunga che tutti, nessuno escluso, viviamo immersi in una brodaglia spettrale di passato, con i media impegnati a riproporre senza posa simulacri citazionisti funzionali allo spot, al programma televisivo, al film e via discorrendo. Il rock in particolare è sistematicamente utilizzato perché può contare su un appeal ancora ben radicato – seppur residuo – nell’immaginario, riconducibile ai temi della gioventù, della velocità, dell’energia, della ribellione eccetera. Ma si tratta appunto di cliché, già neutralizzati alla radice e inevitabilmente stralciati dal contesto culturale proprio del rock, vale a dire di “parti utili” con cui assemblare l’accompagnamento sonoro del caso: si tratti della sigla di un cartoon (vedi il punk-pop dei Teen Titans Go!), del tema d’accompagnamento di una sfilata di moda (tanto da indurre lo stilista Philipp Plein a intitolare una propria collezione Monsters Of Rock) o della soundtrack di una pellicola aggressiva/stilosa (come il recente Crudelia).
Il risultato è la situazione paradossale di questi giorni: il rock è pressoché ovunque, ma non se ne avverte realmente la necessità. È un accessorio gradevole ma per nulla cruciale, di sicuro poco generazionale: si veda ad esempio e appunto la penetrazione trasversale del fenomeno Måneskin, per i quali fanno il tifo – il tifo! – tanto i ragazzini che i loro genitori e persino i nonni. E come potrebbe essere generazionale, dal momento che decenni di musica vengono schiacciati in un catalogo presentificato, organizzato per tag non necessariamente musicali e il cui aspetto si adegua al profilo dell’utente? Tuttavia, come spesso capita, non tutti i mali vengono per nuocere. Credo infatti che si debba anche grazie a questo strano contrasto tra centralità perduta e ubiquità algoritmica la nascita (per reazione) di un fenomeno interessante come il boom dei libri dedicati al rock.

Molta saggistica, certo, ma anche qualche apprezzabile titolo di narrativa, vedi i piuttosto recenti Rovine di Mat Osman (già bassista dei Suede), Uccidi quei mostri di Jeff Jackson e Un diluvio di veleno di Jordan Farmer. In questi romanzi – a cui aggiungerei senz’altro il “nostro” Maida Vale di Michele Benetello – il rock è una specie di fantasma agonizzante, un relitto del passato che in qualche modo continua a esercitare fascino sul presente ma in una modalità chiaramente residua. Osteggiato, sfruttato, equivocato, il rock è una maschera indossata da personaggi struggenti e spesso logori che si trovano a fare i conti con il tramonto del fare e ascoltare rock, ma che proprio per questo sono animati da una nostalgia strisciante, a un passo dal diventare sterile, sradicata.

Proprio il tentativo di recuperare radici e dare un senso alla nostalgia sembra alla base dei molti saggi a tema musicale – e rock in particolare – usciti negli ultimi anni. Come fenomeno editoriale non è certo nuovo, ma a quanto posso ricordare la messe di pubblicazioni (sia in traduzione che di autori italiani) non ha precedenti, e riguarda editori specializzati o meno, quando non addirittura fondati da pochi anni proprio con l’obiettivo di inserirsi nel solco tra narrativa e critica musicale. Una caratteristica comune a molti titoli è l’impostazione storicizzante, ovvero la sensazione che i tempi siano ormai maturi per tirare le somme e riflettere su cosa stava accadendo quando ascoltavamo musica rock. In tutto ciò il punto di vista – esplicito o implicito – rimane comunque il presente, che di quel rapporto tra ascoltatore e rock è pressoché orfano: sembra un’affermazione scontata, ma non lo è.

Tra i volumi-capostipite di questo “movimento” occorre indicare necessariamente il già (quasi) citato Retromania di Simon Reynolds, uscito nell’autunno del 2010, definito dal suo editore (Faber & Faber) come “the first book to make sense of 21st Century pop”. Reynolds non è un critico musicale tout-court, il suo raggio d’azione sconfina sistematicamente nella filosofia sociale (tra i suoi punti di riferimento dichiarati ci sono Jacques Derrida e l’amico Mark Fisher), taglio che già conferiva a lavori precedenti (soprattutto Post-punk 1978-1984 del 2005) un’impostazione multidisciplinare pressoché inedita, nel quale rock, pop, avanguardia e hip-hop giocano il ruolo di prodotti e al tempo stesso di produttori di senso in una società sempre più complessa.

Se questo approccio gli aveva già consentito di coniare l’espressione sintetica più emblematica degli anni Novanta (“post-rock”, utilizzata nella recensione di Hex dei Bark Psychosis contenuta in Mojo del marzo 1994), con Retromania Reynolds ha azzeccato una chiave di lettura potente rispetto alla forma mentis dominante del nuovo millennio, ovvero quella del recupero/riciclo del passato come riabilitazione sistematica del presente. Una prassi che esonda l’ambito musicale, ma che nella fattispecie ricalca la particolare congiuntura in cui versa il rock e che ha finito per indirizzare sempre più lo sguardo delle uscite editoriali dedicate al rock e dintorni. Come se, venuta meno l’urgenza, fosse divenuto prevalente il bisogno di fare i conti, di tirare le fila di una narrazione che in tempo reale brucia troppo rapidamente per consentire analisi e riflessione. Una narrazione però il cui punto di fuga – talora vertiginoso – è comunque il presente: è nel qui e ora il perno della faccenda, è per gli utenti contemporanei – giovani o stagionati, nostalgici o meno – che le migliaia di pagine a tema rock tentano di raccontare storie appassionanti, suggestive, significative.

Limitandosi alla realtà italiana, mi pare un orientamento percepibile a partire dal catalogo della più nota tra le case editrici specializzate, la Arcana, a cui va dato il merito di avere tenuto botta negli anni, pubblicando sia traduzioni che opere firmate da autori nostrani, tanto da proporsi come punto di riferimento (nel bene e nel male) e pietra di paragone per il settore. Il catalogo recente mette in evidenza il tentativo di cavalcare l’attualità e il passato in maniera quasi simmetrica: sulla trentina di uscite del solo 2021 (tanti titoli, forse troppi: un loro vizio storico), oltre la metà riguarda nomi come Smashing Pumpkins, Nirvana, Rino Gateano, Cranberries, John Bonham, Frank Zappa o Marilyn Manson, per non dire delle analisi critico/storiche come quella sul 1991 di Paolo Bardelli o sul prog italiano di Massimo Salari, ma accanto a questi troviamo volumi dedicati a Salmo, Billie Eilish, Pinguini Tattici Nucleari o analisi sulla musica durante il lockdown e sul fenomeno degli youtuber “divulgatori di musica”.

Già da questo elenco sommario salta agli occhi un aspetto: se si focalizza sul presente, il rock scompare dai radar. Mancherebbero rock band o “scene rock” contemporanee di cui scrivere? Non proprio, come ben sa chiunque non abbia smesso di seguire le vicissitudini del rock negli ultimi, diciamo, venticinque anni. Ma si tratterebbe di operazioni sostenibili? Quale interesse susciterebbe un libro dedicato agli Idles, ai Protomartyr, a Courtney Barnett o – per rimanere dalle nostre parti – a Iosonouncane? Si arriva presto a una conclusione: l’interesse sarebbe piuttosto basso, o almeno non abbastanza alto da giustificare economicamente un’operazione editoriale del genere. Questo spiega tutto? Forse. Almeno in parte.

In ogni caso, l’editoria musicale non sta affatto trascurando il rock, ma del rock cerca la stratificazione, il sedimento nell’immaginario. In ragione di ciò non smette di effettuare carotaggi, ma appunto si tratta di analisi che se da un lato sono giustificate da un bisogno abbastanza fisiologico di storicizzare, nonché dalla possibilità di farlo grazie alla prospettiva – appunto – storica, dall’altro rappresentano una modalità sufficientemente remunerativa di affrontare la questione del rock, che come detto sopra è presente e vivo in quanto retaggio, come eredità culturale e catalogo estetico/semantico. Eredità che persiste, a dispetto del fatto che la sua manifestazione musicale sembri interessare poco e a pochi.

Detta in soldoni, se pubblico una biografia di Alex Chilton, una autobiografia di Robbie Robertson o un saggio sul rapporto tra rock e letteratura, posso contare su una platea di lettori non certo numerosa ma abbastanza significativa, perché generazionalmente stratificata, nonché vogliosa di mettere a bilancio una passione radicata. È quello che ha fatto ad esempio la Jìmenez, casa editrice romana fondata nel 2018, la barra da un lato orientata sulla narrativa statunitense contemporanea (Willy Vlautin, Melissa Anne Peterson, Nelson George…) e dall’altro, appunto, verso la saggistica musicale (rock in particolare), sia in traduzione che di autori italiani. Tra i nove titoli usciti nel 2021 troviamo Storie Sterrate di Marco Denti, un bella escursione tra musicisti che hanno saputo essere anche scrittori e viceversa, l’autobiografia di Richard Thompson e Mixtape Interstellare, l’intrigante vicenda della compilation che fu “allegata” alle sonde spaziali Voyager 1 e Voyager 2.

Una linea simile è riscontrabile anche tra gli editori non specializzati, come Minimum Fax (che pubblica Reynolds), e svariati altri , ma anche editori non troppo avvezzi si concedono un giro .

Dal punto di vista editoriale, quindi, il rock gode di ottima salute. È addirittura un tema caldo, tenuto conto di numeri – quelli della saggistica musicale – che non sono mai stati da best seller (nei casi migliori casomai, come dimostrano i casi di Retromania o di Come funziona la musica di David Byrne, dei long seller). Il che fa comunque a pugni con la progressiva, evidente marginalizzazione del rock in quanto genere musicale che si è consumata negli ultimi anni.

Se è lecito arrivare a una conclusione, non può che essere paradossale: il rock sembra sempre più spogliarsi della sua manifestazione sonora. Anzi, meglio: il rock è tanto più vivo quanto più se ne marginalizza il quid musicale e testuale, che rimane come aspetto residuo, accessorio, e perciò utile. Utile proprio in virtù di questa amnesia sonora che gli consente di diffondersi come catalogo di temi estetici nella moda, nella pubblicità, nei programmi televisivi e nelle soundtrack cinematografiche (serie tv comprese), situazioni per le quali occorre un rock evocativo ma a bassa carica virale, depotenziato, neutralizzato. Come abbiamo visto, a questo svuotamento sistematico, all’agitarsi incessante del simulacro (dello spettro?) del rock, a questa epidemia di rock “funzionale”, sembra corrispondere – quasi a titolo di compensazione – una riflessione piuttosto dettagliata e approfondita sulla sua eredità culturale.

Che i portatori di interesse per i libri (ma anche documentari, biopic e podcast, altri fenomeni di rilievo sui quali per brevità tocca sorvolare) dedicati al rock siano innanzitutto i famigerati boomer e quelli della generazione X, al limite pure i millennial, credo lo si possa affermare con ragionevole certezza (anche se non escludo e mi auguro intrusioni significative da parte dei cosiddetti “zoomer”). In ogni caso, mi prendo la responsabilità di affermare che questo interesse non sia rivolto tanto alla manifestazione sonora del rock, quanto alle storie che sa e può (ancora) raccontare, al suo retaggio culturale. In altre parole, la musica sta scivolando via dal rock, un po’ come ha fatto il colore dalle antiche statue dei greci e dei romani. Ma ciò che resta sembra essere comunque in grado di affascinare.

Anzi: quello che resta è la dimostrazione più lampante che col rock non ci si possa – non ci si debba – limitare alla scorza, agli aspetti stilistici e formali. Che il rock è una questione semplice ma non facile, non lo puoi confezionare né pianificare. Che il rock è fatto di storie che si srotolano, e che dipanandosi si sdoppiano cento volte, si intrecciano, si riannodano. Che il rock emerge sempre da una qualche profondità di cui porta segni visibili o invisibili, la cui sostanza è più importante della forma, forma che comunque determina e a cui partecipa. Che il rock quando vuole sembrare rock non è davvero rock, perché il rock è innanzitutto una conseguenza o al limite il frutto non necessariamente commestibile di un’ossessione.

Perché il rock somiglia più al muro dove vai a sbattere che a un target da raggiungere. Perché il rock è la benzina che fa rombare il motore ma è anche la sabbia che lo fa grippare. Perché il rock è ciò che non credevi di essere, molto più di quanto non sia ciò che vuoi dimostrare o il sogno che vorresti realizzare.

Cosa dedurne? Niente di importante. Tra queste cose di poca importanza, ne citerei due. La prima: ciò che sembra decadenza – per qualcuno addirittura morte – potrebbe rivelarsi in realtà trasformazione, preludio a una fase nuova, non necessariamente sovrapponibile a ciò che è stato. La seconda è molto più banale: attenzione a quello che luccica, perché dell’oro potrebbe avere – proverbialmente – soltanto l’aspetto.

*Stefano Solventi ha collaborato con il Mucchio Selvaggio, fa parte dello staff di Sentireascoltare. Ha pubblicato il saggio biografico PJ Harvey – Musiche maschere vita (Odoya, 2009) oltre ai romanzi La meccanica delle ombre (Cicorivolta, 2015) e Nastri (Eretica, 2017). L’ultimo lavoro è The Gloaming – I Radiohead e il crepuscolo del rock (Odoya, 2018).

 

In uno scompartimento ferroviario

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Tommaso di Tommaso Meldolesi

Era mattina presto. Fuori già faceva caldo e si prospettava una giornata bollente. “Meglio scappare da questo forno!”, pensai salendo sul treno delle sette meno un quarto. Ero convinto che una volta adagiato sul mio sedile sarei stato molto meglio grazie anche all’aria condizionata. Ma l’aria condizionata non funzionava. In compenso trovai seduto nel mio scompartimento un tizio assai strano che stava occupando il posto che mi ero prenotato. Visto che non c’erano altri viaggiatori, per evitare inutili discussioni, mi sedetti di fronte a lui. Lo scrutai attentamente. Non era giovane e aveva un fisico molto asciutto, il volto ossuto, i baffetti e gli occhialini un po’ retrò. Portava un completo di cotone a righe bianche e nere, sopra una camicia blu e una cravatta in tinta con il vestito. Vidi che sopra il sedile, nel ripiano adibito alle valigie, si trovava una bombetta che probabilmente gli apparteneva e provai per un istante a immaginarmelo con in testa quello strano copricapo alquanto démodé. “Chi è questo strano tipo? Che cosa ci fa su questo treno? Dov’è diretto e perché sta viaggiando proprio in quel giorno infrasettimanale?”, pensai.

Essendosi accorto che lo stavo osservando, accennò a un sorriso e mi disse in tono solenne:

– Forse le sembrerà strano con questo caldo, come vado vestito. In realtà questo è l’abbigliamento che più mi si addice, anche perché mi occupo di apparenza.

– Scusi? – chiesi basito.

-Sì signore. Ha capito bene. Di apparenza. E me ne vanto. In un mondo in cui l’apparenza ha conquistato tutto e tutti, nessuno sa più distinguere cosa è bello da cosa è brutto. Ma che cosa è bello e che cosa è brutto nella nostra società?

Mi parve di sognare. Dove voleva arrivare questo tizio così strano? Cosa stava cercando di dirmi?

Per un istante mi guardò stralunato, come se mi chiedesse implicitamente di trovare io una risposta ai quesiti che aveva appena esposti.

Subito dopo invece riprese a parlare:

– Vede signore, lei è molto giovane e forse non ha esperienza in questo campo; ma io di apparenza me ne intendo e le posso dire che nella società di oggi tutto ciò che appare ha preso il sopravvento in maniera arrogante e  molto conformista.

– Che cosa vuol dire? – chiesi incuriosito.

– Voglio dire che nel mondo di oggi siamo tutti sempre più condizionati dalle immagini che ci vengono proposte dai mass media a cui molti finiscono per sottomettersi.

– E questo secondo lei è un bene o un male? – chiesi curioso di seguire più che l’opinione del mio vicino, il filo del suo ragionamento.

– E’ un male! E’ un malissimo, signore mio! – esclamò alzando le braccia ed emettendo un sibilo stranissimo da sotto i baffetti argentati, simile a quello che emette il falco pecchiaiolo. –  La Belle Époque! Quella sì che è stata l’epoca d’oro delle apparenze! A quei tempi ci si poteva divertire davvero! Mica come adesso dove tutto è diventato un mercato e i prodotti commerciali hanno successo solo se hanno una bella apparenza! E gli uomini e le donne lo stesso!

Dopo di che tirò fuori una strana rivista dall’aspetto vetusto e s’immerse nella lettura, scandendo ora qua ora là dei gridolini di gioia e di stupore per taluna o tal’altra immagine che avevano attratto la sua attenzione.  Dopo un po’ però chiuse la rivista e si appisolò.

Io nel frattempo mi ero messo a  guardare, fuori dal finestrino, il paesaggio che scorreva inesorabile a una velocità sempre crescente. Era un paesaggio che conoscevo nei minimi particolari per aver percorso quella stessa tratta innumerevoli volte, eppure ad ogni viaggio mi sembrava di scorgervi qualcosa di nuovo: un muretto, una scritta o un cespuglio che forse non avevo notato le volte precedenti. Avevo la strana sensazione che, una volta passati dinanzi al mio sguardo immobile, quei muretti, quelle case, quelle scritte, quei disegni fossero destinati a scomparire per sempre dalla mia vista e chissà quando e semmai un giorno sarei ritornato a scorrerli velocemente  per poi vederli inghiottiti di nuovo dalla velocità del treno.

Di tanto in tanto gettavo un occhio sulla strana pubblicazione che il mio compagno di viaggio aveva lasciata aperta sul sedile vuoto di fianco al suo. Non sapevo di cosa si trattasse, ma mi sentivo incuriosito da quella rivista così insolita. La mia curiosità stava crescendo a tal punto che quando l’uomo si svegliò, fui lì lì per chiedergli se potessi darvi un’occhiata. Invece mi trattenni. Sentivo che se avessi ceduto al mio istinto sarei stato come risucchiato dalla stessa fantasia nostalgica e alquanto malsana che lo caratterizzava. E non avrei voluto per niente al mondo che questo accadesse. Volevo restare con i piedi ben ancorati sulla terra e capire fino a che punto quell’individuo si sarebbe spinto a rendermi parte di tutte le sue elucubrazioni sull’apparenza. Certo su alcuni punti poteva pure avere ragione, ma era il suo tono così enfatico e saccente che mi stava infastidendo.

Quando si svegliò, ricominciò a parlarmi:

– Lei saprà bene – mi disse sempre con un piglio d’arroganza – che i servizi e i beni di prima necessità, nel nostro disgraziato paese, sono sempre legati all’apparenza. Per vendere un prodotto lo si agghinda e lo si confeziona per bene, in modo che l’acquirente potenziale possa sentirsene attratto. Deve sapere, caro signore, che io, occupandomi di apparenze, presto particolare attenzione a  tutto quello che appare a prima vista ma che in realtà non è, ovvero a ciò che è molto diverso da come lo si potrebbe pensare.

E, prima che io mi fossi anche solo azzardato a rispondergli, continuò:

– Sa di apparenze ce ne sono un po’ dappertutto e sono molto più numerose di quante se ne possano immaginare.

– Mi scusi – osai chiedergli – ma quali apparenze?

– Tutte!

– Come tutte? – esclamai.- Mi spieghi un po’!

– Tutte! – mi rispose divertito. – Vede caro signore, noi viviamo nella società delle apparenze che ogni giorno ci sfiorano, ci colpiscono, ci sfruculiano la mente e finiscono per condizionare tutti i nostri comportamenti e a turbarci in profondità. Come dire? Anche lei si renderà conto che i vecchi princìpi di una volta adesso non esistono più, che tutto è diventato una moda, una vetrina, un prodotto da proporre a chi in questa società è ancora così ingenuo e stupido da farsi abbindolare…

– Ma lei è sicuro – lo interruppi –  di quel che sta dicendo?

– Ma certo signore. Ne sono arcisicuro!  – dopo un istante – ma lei, mi scusi, che lavoro fa?

– E’ proprio per questo che glielo sto chiedendo. Faccio l’insegnante alla scuola superiore.  Mi occupo dell’educazione degli adolescenti e non mi sembra che le cose stiano proprio così.

Vidi allora il mio interlocutore emettere uno strano fischio di disapprovazione e riprendere immediatamente a parlare.

-Uh uh uh signore mio, ma allora… ma allora… Eh sì, signore mio; se lei è un professionista dell’educazione, lo dovrebbe sapere… lo dovrebbe sapere ben meglio di me eh eh eh!

– Scusi, ma che cosa?

-Come ma che cosa? – esclamò quasi seccato – che tutti i ragazzi e specialmente gli adolescenti, si burlano degli adulti, non dicono mai la verità e le cose che uno tenta invano d’inculcar loro nella testa gli entrano da un orecchio per uscirgli immediatamente dall’altra parte!

– Ma non è vero! – ribattei seccato. – Ma lei che ne sa degli adolescenti di oggi?

– Ne so! Ne so! Io so tutto!

Questo tizio mi stava davvero facendo affiorare i nervi a fior di pelle. Non ho mai sopportato quelli che affermano di sapere tutto e il mio compagno di viaggio sembrava appartenere a quella scellerata categoria di persone il più delle volte arroganti e qualunquiste.

Inghiottì la saliva e continuò a parlare:

– Ma non li vede anche lei tutti i ragazzini con i telefoni cellulari e i vestiti firmati, tutti impomatati, costantemente assorbiti dai loro messaggini sui telefonini, dalla musica commerciale che ascoltano in continuazione astraendosi dalla realtà e da tutto quello che li circonda? E tutti questi extracomunitari che devono dare l’impressione di fare la fame per la strada e ogni tre per due fermano i passanti per farsi dare qualcosa in elemosina e poi possiedono anche loro dei telefoni cellulari di ultimo grido con cui comunicano con la loro famiglia oppure con chi hanno lasciato nel loro paese d’origine? Tutto nella società in cui viviamo è svuotato dei propri conteunti e ridotto a un accumulo d’immagini accattivanti! Basta dare una parvenza di democrazia! Basta far sì che la gente creda che  i diritti di tutti siano tutelati, anche se non è vero! Ci s’illude. Ci s’illude di un’apparenza che poi regolarmente finisce per schiacciare i più deboli!

Il mio compagno di viaggio aveva pronunciato queste ultime parole con un piglio talmente arrogante da farmi passare la voglia di starlo ad ascoltare. Certo, sui princìpi generali saremmo pure andati d’accordo, ma davvero cominciavo a non sopportarlo più.

Quando all’improvviso tacque, mi sembrò per un istante di tornare a respirare e, dopo un momento di silenzio, fui io a parlare. Cercai di controbattere, se non altro per spezzare la monotonia del suo interminabile monologo. Provai a riportare il discorso sui ragazzi adolescenti. Perché se è vero che si acconciano spesso nei modi più impensati seguendo ora questa, ora quella moda, è anche vero che il loro equilibrio è sempre più instabile. La loro incolumità è minata di continuo dalle opinioni espresse sulla rete e, in particolar modo sui social networks, da loro coetanei o da ragazzi di poco più grandi. E’ là che, a mio avviso, in questo momento storico, per lo meno nella società occidentale, tutto quello che riguarda il mondo dell’apparenza gioca un ruolo devastante, specialmente sullo stato d’animo e sull’equilibrio psicologico sempre più instabile degli adolescenti. Avrei voluto intavolare con lui un dialogo su questo argomento, ai miei occhi di scottante attualità, ma il mio compagno di viaggio non mi ascoltava, intento com’era a seguire soltanto il flusso dei suoi pensieri.

Fui allora io ad appisolarmi, per non so bene quanto tempo. Quando mi risvegliai, lo vidi in piedi di fronte a me, con un’espressione completamente diversa. Contrariamente a quanto aveva affermato, l’uomo dai baffetti s’era cambiato d’abito. Ora assomigliava a un normalissimo viaggiatore. Sembrava che il suo interesse per l’apparenza fosse completamente svanito.

Mi apostrofò in tono perentorio chinandosi verso di me:

– Sono stato uno statista. Sono un grande illusionista e oggi ho gabbato anche te!

Poi si allontanò, uscì allo scompartimento e sparì nel nulla.

 

Ogni tanto mi chiedo se l’incontro con questo personaggio così singolare non sia stato tutto un sogno. Eppure quel viaggio fatto ormai molti anni fa lo ricordo bene quasi nei minimi particolari. E questo mio strano compagno di viaggio magari è davvero esistito fuori dalla mia fantasia di curioso inventore di storie e d’illusioni.

 

 

 

esattamente 52 anni fa

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«Quella sera a Milano era caldo.
Ma che caldo che caldo faceva.
“Brigadiere apra un po’ la finestra”.
E ad un tratto Pinelli cascò.»

E poi guardatevi questa:

David Foster Wallace e gli incisi [#2]

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di Nicolò Cattaruzzo

Scelte incisive

Per questa analisi ho scelto The (as it were) seminal importance of Terminator 2, un articolo pubblicato nel 1998 che per campo d’indagine (cinema pop, mainstream) e per approccio (ironico e riflessivo) è paragonabile al reportage-saggio A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again del 1999. La scelta di un testo con molti elementi di comunanza con quello già analizzato permette di verificare la replicabilità del modello di analisi che ho proposto.
D. F. Wallace ricorre spesso all’uso di incisi nella prosa non narrativa, costruisce periodi interi attorno agli incisi tanto che se venissero rimossi il testo continuerebbe a funzionare ma risulterebbe scarno e arido.

Nella prima parte ho riportato degli esempi di incisi tratti dal testo in lingua inglese, mentre nella seconda ho riportato nello stesso ordine i brani scelti e ne ho analizzato la traduzione e in particolare la resa della sintassi e della punteggiatura in italiano.

Iniziamo dal titolo:

The (as it were) seminal importance of Terminator 2

L’inciso tra parentesi tonde aggiunge una traccia beffarda a un titolo che altrimenti potrebbe suonare serioso; inoltre conferisce un tono ambiguo all’aggettivo «seminal» che può significare «fondamentale» ma anche «seminale».

Traduzione italiana

La traduzione (Giovanna Granato, Einaudi 2013) presenta alcune piccole differenze rispetto all’originale anche se in linea generale ne rispetta la struttura sintattica, le scelte lessicali, di punteggiatura e l’uso delle note.
Un appunto sulla scelta del titolo e della copertina: si è scelto di intitolare Di carne e di nulla la raccolta che contiene L’importanza (per così dire) seminale di Terminator 2 come la versione originale, tuttavia l’articolo da cui è tratto il titolo della raccolta di saggi Both Flesh and Not non è presente perché pubblicato in Italia in un’altra raccolta. Inoltre, con scarsa fantasia o per desiderio di fedeltà (tradita in principio), la copertina è ingannevolmente la stessa della versione americana.

Iniziamo dal titolo: L’importanza (per così dire) seminale di Terminator 2, ricalcando nella forma l’originale, mantiene il tono beffardo ma perde in ambiguità, diventa più esplicito dal momento che in italiano «seminale» non rimanda, come in inglese, al significato di fondamentale.

Incisi per specificare e commentare

In questo esempio due diversi tipi di inciso (virgole e parentesi) vengono usati per specificare prima una data, poi il riferimento a una persona:

This also entails that meanwhile, up in A.D. 2027, John Connor has had to send the man he knows is his father on a mission that J.C. knows will result in both that man’s death and his (i.e., J.C.’s) own birth.

Qui le parentesi sono usate per ricreare un doppio piano temporale, quello di chi già sa come finisce il film e quello di chi ha appena iniziato a vederlo:

Its big-budget sequel adds only one ironic paradox to The Terminator’s mix: in T2, we learn that the “radically advanced chip”10 on which Skynet’s CPU is (will be) based actually came (comes) from the denuded and hydraulically pressed skull of T1’s defunct Terminator… meaning that Skynet’s attempts to alter the flow of history bring about not only John Connor’s birth but Skynet’s own, as well.

Tra parentesi si può trovare la spiegazione di un termine:

One of the most reliable of these formulae involves casting a superstar who is “bankable” (i.e., whose recent track record of films shows a high ROI).

Qui invece la spiegazione di un’espressione è contenuta all’interno di trattini:

I.e., a megabudget movie must not fail—and “failure” here means anything less than a runaway box-office hit—and must thus adhere to certain reliable formulae that have been shown by precedent to maximally ensure a runaway hit.

Nel prossimo esempio l’inciso si trova tra due punti fermi e mette in risalto un aspetto del ragionamento contenuto nel capoverso:

And there is no question that all the lab work paid off: in 1991, Terminator 2’s special effects were the most spectacular and real-looking anybody had ever seen. They were also the most expensive.

Annidamenti

Inciso seguito da punto fermo con inciso all’interno e annidamento semplice:

It’s not that T2 is totally plotless or embarrassing—and it does, admittedly, stand head and shoulders above most of the F/X Porn blockbusters that have followed it.

In questo caso particolare l’inciso tra parantesi contiene un commento e il rimando a una nota:

There’s the inspired casting of the malevolently cyborgian Schwarzenegger as the malevolently cyborgian Terminator, the role that made Ahnode a superstar and for which he was utterly and totally perfect (e.g., even his goofy 16-r.p.m. Austrian accent added a perfect little robofascist tinge to the Terminator’s dialogue5).

Da notare che la nota in questione è tra le più lineari: esprime senza incisi il pensiero di Wallace e potrebbe considerarsi una sintesi dell’intero articolo.

Incisi ingombranti

Inciso che contiene il cuore della frase:

Note, for example, the fact that Terminator 2: Judgment Day, a movie about the disastrous consequences of humans relying too heavily on computer technology, was itself unprecedentedly computer-dependent.

In questo esempio vediamo una struttura tipica di Wallace: un capoverso per la prima metà ricco di elementi collegati per polisindeto, seguito poi da un lungo inciso che occupa circa un terzo dell’intero capoverso (divertente la resa dell’accento di Schwarzenegger con «vhy» e «somesing», cosa che nella traduzione italiana manca):

Thus it is that the 85 percent of T2 that is not mind-blowing digital F/X sequences subjects us to dialogue like: “Vhy do you cry?” and “Cool! My own Terminator!” and “Can you not be such a dork all the time?” and “This is intense!” and “Haven’t you learned that you can’t just go around killing people?” and “It’s OK, Mom, he’s here to help” and “I know now vhy you cry, but it’s somesing I can never do”; plus to that hideous ending where Schwarzenegger gives John a cyborgian hug and then voluntarily immerses himself in molten steel to protect humanity from his neural net CPU, raising that Fonziesque thumb as he sinks below the surface,17 and the two Connors hug and grieve, and then poor old Linda Hamilton—whose role in T2 requires her not only to look like she’s been doing nothing but Nautilus for the last several years but also to keep snarling and baring her teeth and saying stuff like “Don’t fuck with me!” and “Men like you know nothing about really creating something!” and acting half-crazed with paramilitary stress, stretching Hamilton way beyond her thespian capacities and resulting in what seems more than anything like a parody of Faye Dunaway in Mommy Dearest—has to give us that gooey “I face the future with hope, because if a Terminator can learn the value of human life, maybe we can, too” voiceover at the very end.

Doppia enfasi, anzi tripla

L’avverbio «maximally» viene ripetuto all’interno dei trattini e scritto in corsivo con un effetto volutamente ridondante:

A film that would cost hundreds of millions of dollars to make is going to get financial backing if and only if its investors can be maximally—maximally—sure that at the very least they will get their hundreds of millions of dollars back11.

Elenchi – parentesi per specificare e ordinare

Le parentesi servono a specificare gli elementi che costituiscono l’elenco (che ho evidenziato per maggior immediatezza):

Thus it is that T2 offers us cliché explorations of stuff like the conflicts between Emotion and Logic (territory already mined to exhaustion by Star Trek) and between Human and Machine (turf that’s been worked in everything from Lost in Space to Blade Runner to RoboCop), as well as exploiting the good old Alien-or-Robot-Learns-About-Human-Customs-and-Psychology-from-Sarcastic-and/or-Precocious-but-Basically-Goodhearted-Human-with-Whom-It-Bonds formula (q.q.v. here My Favorite Martian and E.T. and Starman and The Brother from Another Planet and Harry and the Hendersons and ALF and ad almost infinitum).

Questo esempio è la parte conclusiva dell’articolo e costituisce un esempio nitido della complessità che la scrittura di Wallace può assumere. Troviamo un lungo inciso che contiene un elenco, gestito con i numeri cardinali tra parentesi, all’interno del quale ci sono incisi tra parentesi e tra due trattini. Terminato l’inciso, la frase riprende per una quindicina di parole dopo le quali si apre un nuovo elenco, questa volta introdotto dai due punti e gestito con sigle tra parentesi e lettere in sotto parentesi, che contiene a sua volta un rimando (non una nota) alle prime righe dell’articolo stesso:

The point is that head-clutchingly insipid stuff like this puts an even heavier burden of importance on T2’s digital effects, which now must be stunning enough to distract us from the formulaic void at the story’s center, which in turn means that even more money and directorial attention must be lavished on the film’s f/x. This sort of cycle is symptomatic of the insidious three-part loop that characterizes Special Effects Porn—
(1) Astounding digital dinosaur/tornado/volcano/Terminator effects that consume almost all the director’s creative attention and require massive financial commitment on the part of the studio;
(2) A consequent need for guaranteed megabuck roi, which entails the formulaic elements and easy sentiment that will assure mass appeal (plus will translate easily into other languages and cultures, for those important foreign sales…);
(3) A director—often one who’s shown great talent in earlier, less expensive films—who is now so consumed with realizing his spectacular digital visions, and so dependent on the studio’s money to bring the f/x off, that he has neither the leverage nor the energy to fight for more interesting or original plots/themes/characters.—
and thus yields the two most important corollary formulations of the Inverse Cost and Quality Law:
(icql(a)) The more lavish and spectacular a movie’s special effects, the shittier that movie is going to be in all non-f/x respects. For obvious supporting examples of icql(a), see lines 1–2 of this article and/or also Jurassic Park, Independence Day, Forrest Gump, etc.

Incisi per specificare e commentare

In questi due annidamenti l’originale e la traduzione coincidono. L’unica differenza è la traduzione di «the man» con «quello», scelta non obbligatoria fatta forse per evitare una ripetizione:

Questo implica anche che nel frattempo, nel 2027 d.c., John Connor ha dovuto mandare quello che sa essere suo padre in una missione che sa destinata a risolversi nella morte dell’uomo e nella sua (cioè di J. C.) nascita.

Anche qui la traduzione si appoggia all’originale:

Il suo sequel ad alto budget aggiunge un solo paradosso ironico al miscuglio di Terminator: in T2 veniamo a sapere che il «chip nettamente evoluto»10 sul quale la Cpu di Skynet è (sarà) basata, in realtà veniva (viene) dal cranio denudato e idraulicamente schiacciato del defunto Terminator di T1… nel senso che il tentativo di Skynet di modificare il corso della storia provoca non solo la nascita di John Connor ma quella dello stesso Skynet.

Tranne per una minuta differenza (la scelta di non mettere la virgola dopo «cioè») lo stesso vale anche in questo esempio:

Una tra le più affidabili di queste formule prevede di scritturare una superstar «bancabile» (cioè che nel curriculum abbia film recenti con un Roi alto).

Invece qui la virgola c’è

Nell’esempio che segue la punteggiatura rispecchia il testo in inglese, ma non gli effetti anaforici ottenuti dalla ripetizione di «were the most», sostituito nel secondo elemento con «nonché»:

Nell’esempio che segue la punteggiatura rispecchia il testo in inglese, ma non gli effetti anaforici ottenuti dalla ripetizione di «were the most», sostituito nel secondo elemento con «nonché»:

E non c’è dubbio che tutto il lavoro in laboratorio abbia pagato: nel 1991, gli effetti speciali di Terminator 2 sono stati i più spettacolari e realistici di tutti i tempi. Nonché i più costosi.

Annidamenti

Nel prossimo esempio l’inciso nell’inciso scompare, «admittedly» viene assorbito nel verbo:

Non è che T2 sia totalmente privo di trama o vergognoso – e bisogna ammettere che è nettamente superiore alla maggior parte dei porno-blockbuster a effetti speciali che lo hanno seguito.

In questa sequenza la traduzione segue l’originale (compresi i neologismi «cyborgiano» laddove però la «g» in italiano seguita dalla «i» non è gutturale, e «robofascista»):

C’è la scelta ispirata del malvagiamente cyborgiano Schwarzenegger nella parte del malvagiamente cyborgiano Terminator, ruolo che ha reso Ahnode una superstar e per il quale era in tutto e per tutto perfetto (per esempio, perfino il suo stupido accento austriaco a 16 giri/min aggiungeva una piccola sfumatura robofascista perfetta al dialogo del Terminator5).

Incisi ingombranti

L’esempio seguente ricalca l’originale, l’unica riserva è sulla decisione di tradurre «itself» con «a sua volta»:

Notate, per esempio, il fatto che Terminator 2. Il giorno del giudizio, un film sulle conseguenze disastrose dell’eccessivo affidarsi alla tecnologia informatica da parte degli umani, mostra a sua volta una dipendenza dall’informatica mai vista.

Il lungo elenco connesso per polisindeto e seguito da un grosso inciso rimane tale senza particolari variazioni tranne la resa del discorso di Linda Hamilton (evidenziato), probabilmente preso dalla sceneggiatura del film:

Ecco allora che l’ottantacinque per cento di quanto in T2 non siano sequenze con effetti speciali digitali allucinanti ci ammorba con dialoghi tipo: «Perché piangete?» e «Che fico! Il mio Terminator privato!» e «Puoi imparare roba che non hai in memoria per poter diventare, diciamo, più umano e un po’ meno imbranato?» e «Che ficata!» e «Non puoi girare ammazzando la gentecosì» e «È tutto ok, mamma, è qui per aiutarci» e «Ora capisco perché piangete, ma io non potrei mai farlo»; oltre al finale mostruoso in cui Schwarzenegger stringe John in un abbraccio cyborgiano e poi si immerge di sua spontanea volontà nell’acciaio fuso per proteggere l’umanità dalla sua Cpu a rete neurale, sollevando un pollice fonziano mentre affonda sotto la superficie17, e i due Connor si abbracciano e soffrono, e poi la povera Linda Hamilton – il cui ruolo in T2 richiede non solo che dia l’impressione di non avere fatto altro che il Nautilus negli ultimi sette anni, ma anche che continui a sbraitare e sfoderare i denti dicendo cose tipo: «Non fare lo stronzo!» e «I maschi come te […] non capirete mai cosa significa veramente creare!» e a recitare semi-impazzita per lo stress paramilitare spingendola ben oltre le sue capacità attoriali e dando come risultato quella che sembra più una parodia di Faye Dunaway in Mammina cara – è costretta a rivolgerci quello stupido: «Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi. E io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza. Perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi» con voce fuori campo a fine film.

Doppia enfasi, anzi tripla (o quadrupla?)

È curioso notare come alla ridondanza già marcata sia stato aggiunto un altro elemento, «e dico», che sottolinea ulteriormente la necessità di «avere la certezza assoluta»:

Un film che costerebbe centinaia di milioni di dollari11 avrà un appoggio finanziario se e soltanto se i suoi investitori potranno avere la certezza assoluta – e dico assoluta – di riavere indietro come minimo le loro centinaia di milioni di dollari.

Elenchi – parentesi per specificare e ordinare

In questo caso la traduzione non differisce dall’originale:

Così facendo T2 ci offre un’esplorazione stereotipata di aspetti come il conflitto fra Sentimento e Logica (terreno già minato fino allo sfinimento da Star Trek) e fra Umano e Macchina (terra zappata in ogni sua zolla da Lost in Space a Blade Runner a RoboCop) oltre a sfruttare la buona vecchia formula Alieno-o-Robot-Impara-Usanze-e-Psicologia-Umane-da-Essere-Umano-Sarcastico-e/o-Precoce-ma-Fondamentalmente-Buono-con-il-Quale-Stringe-un-Legame (vedi Il mio amico marziano, E.T., Starman, Fratello di un altro pianeta, Bigfoot e i suoi amici, la serie televisiva Alf, più o meno ad infinitum).

Nell’esempio che segue, come hanno poi fatto anche i traduttori di Una cosa divertente che non farò mai più (2017), il trattino che nel testo originale introduce un lungo inciso (con all’interno note, una citazione-riferimento a una delle pagine iniziali dell’articolo stesso, incisi e sotto voci) è stato reso con il segno grafico dei due punti ed è poi stato chiuso con un punto e virgola (invece che dal punto) cui segue il resto della frase:

Il punto è che roba insulsa da mettersi le mani nei capelli come questa carica di un peso ancora maggiore gli effetti speciali di T2, costretti a essere così strabilianti da distrarci dal vuoto stereotipato al centro della storia, il che a sua volta significa che richiedono ancora più denaro e attenzione registica. Un ciclo di questo tipo è sintomatico dell’insidioso triplice circolo che caratterizza il Porno a Effetti Speciali:
(1) Strabilianti effetti dinosauro/tornado/vulcano/Terminator digitali che consumano quasi tutta l’attenzione creativa del regista e richiedono un massiccio impegno economico da parte dello studio;
(2) Il conseguente bisogno di garantire un Roi da milioni di dollari, che comporta gli elementi stereotipati e un facile sentimentalismo tali da assicurare il gradimento di massa (che in più si traduca facilmente in altre lingue e culture, per le importanti vendite all’estero);
(3) Un regista – spesso uno che ha dimostrato grande talento in film precedenti e meno costosi – ormai così consumato dal desiderio di realizzare le sue spettacolari visioni digitali, e così dipendente dai soldi dello studio per ottenere gli effetti speciali, da non avere né la voce in capitolo né l’energia per battersi in nome di trame/tematiche/personaggi più interessanti o originali;
e perciò produce i due più importanti corollari alla Legge del Costo e della Qualità Inversi:(Lcqi (a)): Quanto più sono lauti e spettacolari gli effetti speciali di un film, tanto più quel film farà schifo sotto tutti gli aspetti che non riguardino gli effetti speciali. Come ovvio esempio a sostegno di Lcqi(a), vedi le righe 1-2 del presente articolo e/o anche Jurassic Park, Independence Day, Forrest Gump, ecc.

Incisi nelle note

Le note non deludono: troviamo quelle classiche tutte tra parentesi (1,3, 9, 10, 15, 17) ma anche parentesi quadre contenute nelle tonde (7 e 8):

(This is a ponderous, marvelously built-looking quality [complete with ferrous clanks and/or pneumatic hisses] that—oddly enough—at roughly the same time also distinguished the special effects in Terry Gilliam’s Brazil and Paul Verhoeven’s RoboCop. This was cool not only because the effects were themselves cool, but also because here were three talented young tech-minded directors who rejected the airy, hygienic look of Spielberg’s and Lucas’s f/x. The grimy density and preponderance of metal in Cameron’s effects suggest that he’s looking all the way back to Méliès and Lang for visual inspiration.)

(Cameron would raise the use of light and pace to near-perfection in Aliens, where just six alien-suited stuntmen and ingenious quick-cut editing result in some of the most terrifying Teeming Rapacious Horde scenes of all time. [By the way, sorry to be going on and on about Aliens and The Terminator. It’s just that they’re great, great commercial cinema, and nobody talks about them enough, and they’re a big reason why T2 was such a tragic and insidious development not only for ‘90s film but for James Cameron, whose first two films had genius in them.])

Due considerazioni vengono in mente:

1. in Una cosa divertente che non farò mai più nelle note erano state usate parentesi tonde dentro ad altre parentesi tonde;
2. perché usare le parentesi quadre dentro le tonde quando in matematica la gerarchia impone il contrario? Si tratta di un errore, di un’incoerenza o di uno sberleffo?

La nota 16 abbastanza intricata è tra i capoversi più lunghi dell’intero testo:

That’s the movie’s main plot, but let’s observe here that one of T2’s subplots actually echoes Cameron’s Schwarzenegger dilemma and creates a kind of weird metacinematic irony. Whereas T1 had argued for a certain kind of metaphysical passivity (i.e., fate is unavoidable, and Skynet’s attempts to alter history serve only to bring it about), Terminator 2’s metaphysics are more active. In T2, the Connors take a page from Skynet’s book and try to head off the foreordained nuclear holocaust, first by trying to kill Skynet’s inventor and then by destroying Cyberdyne’s labs and the first Terminator’s cpu (though why John Connor spends half the movie carrying the deadly cpu chip around in his pocket instead of just throwing it under the first available steamroller remains unclear and irksome). The point here is that the protagonists’ attempts to revise the “script” of history in T2 parallel the director’s having to muck around with T2’s own script in order to get Schwarzenegger to be in the movie. Multivalent ironies like this—which require that film audiences know all kinds of behind-the-scenes stuff from watching Entertainment Tonight and reading (umm) certain magazines—are not commercial postmodernism at its finest.

Le note 11 e 13 sono più lineari, di servizio, tecniche:

The Industry term for getting your money back plus that little bit of extra that makes investing in a movie a decent investment is roi, which is short for Return on Investment.

It augurs ill for both Furlong and Cameron that within minutes of John Connor’s introduction in the film we’re rooting vigorously for him to be Terminated.

Periodi privi di incisi

Negli ultimi due esempi la sintassi non è costruita con o attorno a incisi, vengono espressi concetti e pensieri in maniera meno mediata, più lineare e spontanea:

Think of the scenes we all still remember. That incredible chase scene and explosion in the l.a. sluiceway and then the liquid metal1 t-1000 Terminator walking out of the explosion’s flames and morphing seamlessly into his Martin-Milner-as-Possessed-by-Hannibal-Lecter corporeal form. The t-1000 rising hideously up out of that checkerboard floor, the t-1000 melting headfirst through the windshield of that helicopter, the t-1000 freezing in liquid nitrogen and then collapsing fractally apart. These were truly spectacular images, and they represented exponential advances in digital f/x technology. But there were at most maybe eight of these incredible sequences, and they were the movie’s heart and point; the rest of T2 is empty and derivative, pure mimetic polycelluloid.

There’s consequently a weird postmodern tension to the way we watch the film: we’re aware of what the bankable star’s demands were, and we’re also aware of how much the movie cost and how important bankable stars are to a big-budget movie; and so one of the few things that keep us on the edge of our seats during the movie is our suspense about whether James Cameron can possibly weave a plausible, non-cheesy narrative that meets Schwarzenegger’s career needs without betraying T1’s precedent.

Incisi nelle note

Come per il resto della traduzione, anche le note sono state accuratamente riprodotte e tradotte rispettando l’originale.

(È un aspetto ponderoso, dall’aria meravigliosamente costruita [con tanto di rumori metallici e/o sibili pneumatici] che – stranamente – piú o meno nello stesso periodo caratterizzava anche gli effetti speciali di Brazil di Terry Gilliam e di RoboCop di Paul Verhoeven. Era una ficata non solo perché gli effetti erano fichi di per sé, ma anche perché tre giovani registi talentuosi d’impostazione tecnologica rifiutavano l’aspetto aereo, igienico degli effetti speciali di Spielberg e Lucas. La stomachevole densità e preponderanza del metallo negli effetti di Cameron suggerisce un rimando addirittura a Méliès e a Lang per l’ispirazione visiva)
(Cameron avrebbe portato l’uso delle luci e il ritmo a livelli quasi di perfezione in Aliens, dove bastano sei stuntman vestiti da alieni e un montaggio ingegnosamente veloce a dare come risultato una delle piú terrificanti scene dell’Orda Sciamante di Rapaci di tutti i tempi. [A proposito, scusate se la faccio tanto lunga con Aliens e Terminator. È solo che sono film commerciali veramente magnifici e nessuno ne parla a sufficienza, e sono uno dei grandi motivi che spiegano come mai T2 abbia costituito uno sviluppo cosí tragico e insidioso non solo per il cinema degli anni Novanta ma per James Cameron, i cui primi due film avevano un che di geniale])
Questa la trama principale del film, ma osserviamo che una delle trame secondarie di T2 in realtà riecheggia il dilemma Schwarzenegger di Cameron e crea una specie di strana ironia metacinematografica. Se T1 aveva sostenuto un certo tipo di passività metafisica (cioè il destino è inevitabile, e i tentativi di Skynet di modificare la storia servono solo a consentire il suo corso), la metafisica di Terminator 2 è piú attiva. In T2 i Connor prendono una pagina del libro di Skynet e si sforzano di impedire il predestinato olocausto nucleare, dapprima cercando di uccidere l’inventore di Skynet e poi distruggendo i laboratori della Cyberdyne e la Cpu del primo Terminator (anche se perché John Connor per mezzo film si porti in tasca il letale chip della Cpu anziché buttarlo sotto il primo rullo compressore a vapore rimane poco chiaro e irritante). Il punto è che i tentativi dei protagonisti di revisionare la «sceneggiatura» della storia in T2 vanno di pari passo con la necessità del regista di strapazzare la sceneggiatura di T2 per poter avere Schwarzenegger nel film. Ironie polivalenti tipo questa – che presuppongono che gli spettatori del film conoscano ogni sorta di dietro-le-quinte per aver visto Entertainment Tonight e letto (uhm) certe riviste – non sono postmodernismo commerciale nella sua veste piú raffinata.
Il temine tecnico usato quando vengono restituiti i soldi con l’aggiunta di un piccolo extra che rende investire in un film un investimento decente è Roi, che sta per «ritorno sugli investimenti».
Porta male sia a Furlong sia a Cameron che a pochi minuti dalla comparsa di John Connor nel film tifiamo con tutte le forze perché venga Terminato.

Periodi privi di incisi

In maniera simile all’inglese (riproducendo anche i neologismi «frattalmente» e «policelluloide») sono resi in italiano i due capoversi più lineari:

T2, uno dei successi più clamorosi della storia, è uscito sei anni fa. Pensate alle scene che ricordiamo ancora tutti. L’incredibile scena dell’inseguimento con esplosione nel canale artificiale di Los Angeles e poi il metallo liquido1 con cui il Terminator t-1000 esce dalle fiamme dell’esplosione assumendo la forma corporea senza suture di un Martin-Milner-Posseduto-da-Hannibal-Lecter. Il t-1000 che affiora mostruosamente dal pavimento a scacchi, il t-1000 che si scioglie entrando con la testa nel parabrezza di un elicottero, il t-1000 che si congela nel nitrogeno liquido e poi cade frattalmente a pezzi. Quelle sì che erano immagini spettacolari, e rappresentavano progressi esponenziali nella tecnologia digitale degli effetti speciali. Ma di sequenze così incredibili ce n’erano a dir tanto otto, e costituivano la sostanza e la ragion d’essere del film; il resto di T2 è vuoto e derivativo, pura policelluloide mimetica.

Di conseguenza c’è una strana tensione postmoderna nel modo di guardare il film: sappiamo quali pretese ha accampato la star bancabile, e sappiamo quanto costa il film e quanto siano importanti le star bancabili per i film a grosso budget; e perciò una delle poche cose che ci tiene sulle spine durante il film è non sapere se James Cameron sia riuscito a tessere una narrazione plausibile e non dozzinale che assecondi le esigenze della carriera di Schwarzenegger senza tradire il precedente di T1.

Conclusioni

In T2, come in Una cosa divertente che non farò mai più, vi è un ricorso frequente agli incisi per espandere e ampliare la profondità dell’analisi, per dare spazio a commenti sarcastici e ironici, pungenti, per autocorreggersi, precisare, rettificare. Gli incisi servono ad allargare lo spettro della riflessione, a entrare nel dettaglio ma sono anche un modo diverso di interagire con il lettore, un modo di interloquire e di coinvolgere. Penso, per esempio, all’uso massiccio di note interne al testo e di come diventino parodia delle classiche note dei testi accademici presentando commenti molto personali, sarcastici, indispensabili; approfondimenti talvolta più pregnanti di quel che viene detto nel testo stesso: basti pensare che solo le note occupano quasi un terzo (6640 battute su 20750) del testo intero.

In Wallace gli incisi dettagliano e circostanziano quanto viene detto, specificano, delimitano, aggiungono, commentano: testimoniamo il pensiero acuto, mai statico, ironico, schietto e vivace dello scrittore; tramite gli incisi Wallace si prende gioco della complessità della ragione.

Il risultato dell’analisi è un modello di analisi funzionante (almeno con Wallace saggista) e potenzialmente replicabile.  Si rivela inoltre un buon strumento di revisione della traduzione, un modo per scandagliare il testo a partire dalle virgole e dagli altri segni di interpunzione che porta a un’accurata disamina del rapporto tra forma e contenuto.

La prima parte è qui David Foster Wallace e gli incisi [#1]

Nicolo Cattaruzzo Sono nato e cresciuto a Venezia, città in cui mi sono laureato in Lingue e letterature straniere con una tesi di traduzione di un romanzo polacco in italiano. Dopo una breve parentesi da dottorando, ho lavorato prima come cuoco e poi come insegnante di lingua italiana per stranieri. Nel 2019 ho seguito il corso di Oblique Studio per redattori editoriali e nel 2020 ho fatto alcuni mesi di esperienza nella redazione di Cliquot edizioni, proseguendo come redattore freelance. Sono direttore tecnico e responsabile informatico dell’Asd Salvioli, circolo scacchistico veneziano.