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L’Anno del Fuoco Segreto: Gli impuri

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Claudio Kulesko

I

L’uccello color grafite se ne stava appollaiato sul lampione, la testa appena reclinata, lo sguardo vitreo puntato sull’albergo in rovina. Semicoperto com’era dalla luce artificiale assomigliava a un grumo d’acciaio, quasi un prolungamento naturale del lampione. Più grosso e meno maestoso di quanto ricordassi.
Rimasi a fissarlo per un po’ dal marciapiede, aggrappandomi a quel che restava della sigaretta. Più per abitudine, che per pretesto. Era la terza di fila. La mia regola prevedeva di non fumare fino a mezzogiorno e mai in camera da letto ma, quando attaccavo, ne dovevo fumare almeno due o tre. Nel gettare via il mozzicone, gli lanciai un’ultima occhiata.
«Tu sai chi è stato, vero?»
Sibilai tra i denti.
Rimase immobile, come uno di quei volatili impagliati che riempiono i musei.
Alzai i tacchi e mi diressi alla porta. Le grandi ante pendevano dai cardini, divelte e spiegazzate, come se una forza micidiale vi si fosse abbattuta contro senza esitazione.
Pensai subito all’impatto con un camion o un furgone blindato.
Entrando fui investito dall’odore di vecchio e dal puzzo di urina. Una miscela che pareva adattarsi alla perfezione allo stato di abbandono in cui versava l’ex-Fitzgerald.
Una miriade di frammenti di vetro, sparsi sulla moquette grigio topo, descrivevano un cono ideale che, dalla cornice della porta, si estendeva lungo tutta la prima parte della hall. Qua e là,  sparute macchie di sangue conferivano alle schegge un ché di astratto.
Peccato che i poveri stronzi investiti da quella cosa non potessero apprezzarne, al par mio, la sottile grazia formale.
In fondo alla hall, tra la reception e l’ascensore, due agenti di polizia piantonavano le scale.
Alzai una mano in segno di saluto, senza smettere di avanzare.
Lo sbirro più anziano e corpulento si girò a guardarmi, proprio mentre l’altro si faceva avanti, mano sulla fondina.
«Non può entrare, l’edificio è posto sotto seq…»
Il più vecchio lo agguantò per una spalla e lo tirò indietro, con la stessa facilità con cui avrebbe spostato un bambino. In una frazione di secondo, il novellino si ritrovò al punto di partenza, a un passo dalla carta da parati ammuffita.
«Dan, santo Peril, togliti quella scopa dal culo!»
Lo ammonì il più anziano. una mia vecchia conoscenza, Torvik. Per certi versi, mi era mancato.
«Ciao Vas, l’ispettore è di sopra con la scientifica. Che ti serve?»
Mi chiese, tastandosi la pancia prominente.
«In realtà sono qui per caso. La persona che sto cercando frequenta questo posto.»
«Frequentava, vorrai dire!»
Mi corresse, sfoggiando un sorrisetto furbo.
«Se n’è salvato solo uno. L’abbiamo trovato sul tetto, nascosto in una cisterna come un topo di fogna.»
Aggrottai la fronte e parve cogliere al volo la mia incomprensione.
«Squatter. Vivevano qui, tutti quanti. Se lo vieni a chiedere a me, i tossici se lo meritavano, eccome. Ma gli altri…», parve soppesare le parole, «…Non avevano nessun altro posto in cui andare.»
“Tossico”. Chissà quante volte si sarà rivolto a me allo stesso modo, negli ultimi anni, spettegolando coi colleghi nei bar dove si radunano gli sbirri.
Lanciò un’occhiataccia spaventosa al ragazzo e si fece da parte, indicandomi le scale con la punta del mento.
«Vai, e attento a dove metti i piedi. Pravus aspetta solo l’occasione giusta per sbatterti dentro.»
Annuii e imboccai alla svelta la ripida scala tappezzata di moquette. Gente del genere cambia idea facilmente.
Non avevo ancora oltrepassato la seconda rampa, che la voce di Torvik rimbombò per la tromba delle scale.
«Ehi! L’hai visto quel coso là fuori?»
Non mi degnai neppure di rispondere.
Come potrei non averlo visto, brutto panzone? È grosso come un tacchino.
 
 

Estratto da Vita di Gil. Avventura di uno spirito libero, di Gil Ramachandran, La Fenice editore, Domersk 257 d.I.

 

Mi spostai a poppa per scrutare il tramonto.
Il sole pareva liquefarsi nell’oceano, tingendolo di un rosso vivo e intenso che, per un istante, mi fece scordare di essere su di un rottame arrugginito, nel bel mezzo del nulla, in compagnia di un centinaio di altri disperati come me.
Per un attimo, mi sentii come uno di quei miliardari in yacht che avevo visto su Instagraph, anche se dubito che qualcuno di loro avesse mai patito la stessa fame che mi attanagliava lo stomaco in quel momento.
Alle mie spalle, udii un pigolio sommesso, esile rispetto al vasto silenzio che ci circondava.
Il pianto di un neonato. Neppure lui pareva in grado di strillare più forte di così.
Ripensai a una vecchia battuta di una sitcom domerskiana, I MacKlusky.
I due protagonisti, i fratelli MacKlusky, sono sperduti su un gommone in mare aperto, dopo una battuta di pesca finita male. Su di loro batte da ore un sole implacabile. Harry, il più sveglio dei due, solleva la testa. Negli occhi ha lo sguardo velato di chi muore di stenti. Harry si guarda attorno e con voce lamentosa fa: «Ho sete!». L’altro, Brandon, il più stupido, ancora intento a pescare con un filo di plastica privo di esca, si gira a guardarlo con aria supponente e dice: «Di certo qui non manca l’acqua!», dando il via a uno scroscio di risate preregistrate.
A pensarci bene, mancavano solo quelle per rendere la nostra situazione ancor più surreale.
Le voci inflessibili che, nei giorni scorsi, erano giunte dalla radio di bordo parevano una parodia di quella di Brandon. A ogni nostra richiesta di aiuto, la capitaneria di porto, i militari e persino i medici rispondevano: «Non ci vorrà ancora molto, abbiate pazienza. I soccorsi stanno per partire.»
I giorni passavano e ogni qualvolta chiedevamo «Come faremo per bere, dove prenderemo il cibo?», le voci rispondevano: «Dovete resistere». Ed ecco partire le risate.
Fui costretto ad affrontare la realtà dei fatti: tutto quello che internet, i libri e la televisione ci avevano detto del Domersk non era, a rigor di logica, falso. Peggio ancora. Era tutto vero, col solo intoppo che quella verità ci era preclusa.
Mentre i crampi della fame mi stringevano le budella in una morsa, realizzai di essere io Brandon, il fratello stupido. Avevo lasciato l’Ham’leh portandomi dietro solo uno zaino colmo di cibo e una zucca piena di illusioni.
Sognavo un appartamento a Zendar Park, le serate ai café, un lavoro part-time e la possibilità di scrivere e pubblicare, con la segreta speranza di poter, un giorno, diventare famoso come il mio idolo di sempre: Sigur Gilead, il sommo poeta delle Amare Vette.
Mi voltai da sopra la spalla a guardare il bambino, un fagotto avvolto in una modesta copertina grigia, ben stretto tra le braccia della madre. Aveva smesso di piangere.
Mi rigirai e puntai lo sguardo all’orizzonte, nel tentativo di cancellare dalla mente il barcone e tutti i suoi occupanti. Estesi il mio spirito lungo superficie dell’acqua e, subito, prese forma tra i flutti una distesa di sagome rettangolari di pura luce, attorniate da figure più scure, in perpetuo movimento. La proiezione mentale di un tramonto al Windsor Bar, la culla di alcune delle migliori penne del secolo; una sorta di teatrino d’ombre, composto da uno stuolo di organismi bioluminescenti.
Di colpo, mi vergognai dei miei effimeri sogni di gloria.
Domersk non ci voleva. E chi ero io per rifiutarmi di essere l’ennesimo cadavere in fondo all’oceano?
Ci avevano costretti a rinnegare i nostri  sogni, le segrete speranze che ci rendevano, a tutti gli effetti, umani.

II

 

La terza volta in una settimana. La prima poco dopo aver incontrato la mia cliente.
Saranno state le nove e mezza. Ero appena uscito dal supermarket, stringendomi per il freddo nel cappotto striminzito. Con la coda dell’occhio, vidi qualcosa, in fondo alla strada, appollaiato tra i tiranti del ponte. Poco più che una macchia nel buio.
Rimasi a guardarlo a lungo, sfidando il vento gelido, finché non dispiegò le enormi ali grige e svanì nella notte.
La seconda, mentre seguivo le tracce del mio uomo, tra la Ruther e la Consolare. Era in cima a un palazzo, in pieno giorno, immobile come una statua.
Lo riconobbi subito: il Roc, il traghettatore di anime in paziente attesa della sua prossima preda. Intuii di colpo che qualcuno, in quel preciso istante, era stato ucciso. Semplice come guardare un orologio.
Quando abbassai lo sguardo, nessun altro pareva avervi fatto caso. La vita continuava a scorrere come al solito, frenetica e indolente.
Due giorni dopo, scorrendo le pagine di un quotidiano, scoprii che si trattava di un vagabondo. Un vecchio alcolizzato, finito in mezzo alla strada per molestie sul posto di lavoro.
L’avevano strangolato con un cavo elettrico e lasciato lì, a marcire tra i cassonetti.

Quand’ero bambino, mia nonna me ne aveva parlato spesso. Fino a quaranta, cinquant’anni fa, non era poi così insolito incontrarlo, a quanto pare. Lo stesso si può dire delle naga, dei vortigan, delle silfidi e di chissà quante altre creature.
Ma oggi…oggi è diverso. Una manticora è abbastanza da far rabbrividire persino il criminale più incallito. Per non parlare dei nagual.
La gente si limita a far finta di niente. Si crogiola tra gli agi, in costosi appartamenti al ventesimo piano di un grattacielo vista skyline. Molti neppure immaginano che ogni televisore, ogni console, ogni singolo fottuto LED che risplende nelle loro case, è alimentato da elementali intrappolati in reattori da sei miliardi di quill.
Era questo che mia nonna cercava di dirmi, la ragione per cui mi imbottiva di favole e leggende di eroi e di mostri. “Non dimenticare, Vas, non dimenticare mai da dove veniamo”.
Mi ci erano voluti vent’anni per capirlo.

Mi strinsi nelle spalle e continuai a salire le scale del vecchio hotel, facendo mentalmente il punto della situazione. Le tracce dell’uomo che stavo cercando mi avevano condotto nel bel mezzo della scena di un massacro.
Quante possibilità c’erano che si trattasse solo di una coincidenza?

Da Il dono del Nagual, di Isaac Karelian, Sottobosco editore, Brugel 142 d.I.
 

[…] A quel tempo, i canalizzatori erano considerati messaggeri di un mondo “altro” e i nagual, i loro animali totemici, venerati al pari degli dèi. Tali creature, unitamente alla casta sacerdotale che ne interpretava e diffondeva il verbo, costituirono per millenni l’unico punto di contatto tra essere umano e magia.
[…] Sebbene, nel corso dei millenni, le scienze si siano andate a sostituire all’antica fede nelle forze primigenie della natura, ciò non deve trarre in inganno l’osservatore più attento. Le più recenti ricerche condotte dagli antropologi (cfr. Stinson, 122 d.I.; Malaki, 135 d.I.) hanno ormai dimostrato la profonda affinità di principi tra magia e tecnica.
Come i moderni scienziati, i canalizzatori erano soliti svolgere lunghi periodi di apprendistato, dedicando buona parte del proprio tempo allo studio empirico della biologia e del comportamento delle creature dalle quali traevano il loro potere. Una consuetudine conservatisi attraverso i secoli – nonostante la diffusione di surrogati chimicofarmacologici in grado di simulare lo stato di canalizzazione.
Vuole la leggenda che Shin-Kah, Gran Maestro del Culto del Basilisco, abbia trascorso due anni in un eremo montano, in totale solitudine, circondato unicamente da rettili. Stando al Libro della Medusa, ne ricavò la straordinaria facoltà di richiamare a sé, ovunque si trovasse, uno stuolo di serpenti, che era solito carezzare e vezzeggiare alla stregua di cuccioli di cane.
Allo stesso modo, Gebort il Rosso fu noto per la facoltà di elencare, rigorosamente in ordine alfabetico, i nomi delle migliaia di specie di aracnidi e artropodi che popolano il quadrante orientale del Domersk.
Fu solo in epoca imperiale che il popolo domerskiano cominciò a diffidare della magia. Lo strapotere dei canalizzatori, nonché l’indifferenza aristocratica di questi ultimi nei confronti della legge dell’Imperatore, giocarono un ruolo decisivo nella formazione di vari organismi di controllo.
Nel 572 a.I., l’Editto di Serath ‒ che regolamentò e sottopose a rigido controllo istituzionale i rapporti tra canalizzatori e Nagual ‒ costituì il primo passo in direzione di un superamento di quello che i ricercatori hanno denominato “Antico Ordine” (Tullen, 126 d.I.). La creazione di un primo ordine di “Cacciatori” (500 a.I.) fu l’inevitabile corollario di un conflitto che oltrepassa persino la fatidica soglia tra la caduta dell’Impero e la fondazione della Repubblica federale.
Il 118 d.I., anno di fondazione del Movimento Neo-Imperiale (di cui partiti politici quali Risorgiamo e Terra Pura non sono che emanazioni), rappresenta una sorta di spartiacque storico. L’ultimo trentennio, di fatto, ha visto la rapida diffusione di una nuova forma di emarginazione sociale, più violenta e più subdola delle precedenti. Mai come oggi, le creature magiche, i Nagual e i canalizzatori sono stati additati come fautori di una degenerazione sociale onnipervasiva.
È tuttavia necessario ricordare che la moderna diffidenza nei confronti dei popoli e degli individui che ancora fanno ricorso ai poteri dei Nagual ‒ quali gli Alioubor e gli Hamaliti ‒ non è che un prodotto tardivo del conflitto di cui questo libro indaga le origini.

III

Dell’antica gloria del Fitzgerald non restava che una vaga ombra. Ovunque, sulle pareti, i nuovi occupanti avevano lasciato segni della loro presenza.
Una scritta tracciata sul muro con la bomboletta spray, riassumeva la nuova natura dell’edificio in rovina: kibbah, “casa”.
Salii l’ultima rampa e mi ritrovai in un lungo corridoio costellato di porte.
Pravus era in piedi al centro dell’andito. Indossava abiti civili, con la cravatta allentata all’altezza del petto e le maniche della camicia aperte e rimboccate fin sopra i gomiti. Dovevano averlo buttato giù dal letto in piena notte.
Se la hall, al piano di sotto, era stata ripulita, lo stesso non si poteva dire del piano superiore. Ovunque, gli agenti della scientifica si affannavano nelle loro tute bianche, inciampando, di quando in quando, in brandelli di cadavere. Sparsi lungo il corridoio c’erano braccia, gambe, teste e organi non meglio identificati, come se qualcuno avesse fatto a pezzi un gigante e ne avesse sparpagliato i resti per tutto l’albergo.
Pur non essendo nuovo a scene del genere, mi sorpresi a ingoiare un denso grumo di saliva.
Mi fermai alle spalle di Parvus e annunciai la mia presenza.
«Sull’attenti, ispettore!»
Esclamai, sperando di risultare simpatico.
Quando Pravus si passò una mano tra i capelli brizzolati e si voltò a guardarmi, mi resi conto di aver commesso un errore. Era pallido, le labbra contratte in una smorfia di disgusto.
«Ci mancavi solo te!»
Notai che aveva gli occhi rossi.
«Guarda che casino…»
Aggiunse, tra sé e sé.
Ritentai, stavolta con maggior delicatezza.
«Cos’è successo?»
«Arrivi qua, coi tuoi modi da cinico bastardo, e poi mi chiedi “cos’è successo?” Cosa ci fai qui, Vasily, cosa vuoi da me? Chi ti ha fatto passare?»
Mi chiama per nome, gran brutto segno.
Riflettei, optando per una linea più morbida.
«È stato Torvik. Come ho già detto a lui, sono qui per caso. Sto cercando una persona, un tipo sulla tren…»
Mi interruppe di colpo, indicando il corridoio con la mano aperta.
«No, Vas. Stai cercando guai. Guardati intorno! Credi che siano finiti così giocando a Jenga?»
Tacque, per un lungo istante, quasi fosse tentato dall’ipotesi.
«No.»
Ripeté, scuotendo la testa.
«Questo non c’entra niente con le tue storie di corna e gatti smarriti. Non dovresti essere qui. E neppure io, se è per questo.»
Non si poteva di certo dire che Parvus fosse un tipo pacato, ma ben di rado lo avevo visto così su di giri. Ignorai le allusioni, decidendo di far leva sul senso del dovere.
«Perché un commando dovrebbe accanirsi contro dei poveracci del genere?»
Domandai.
«Non si è trattato di un commando.»
Mi voltai di scatto a guardarlo, incredulo.
«Cosa?!»
L’espressione con cui accolse il mio sguardo lasciava intendere che si fosse messo l’anima in pace già da un pezzo.
«Sono stati tutti uccisi a mani nude. Gli arti sono stati strappati all’altezza delle giunture. Costole rotte, teste spaccate…»
Spostai lo sguardo verso il corridoio, figurandomi la scena nella testa.
«C’è un nagual qua fuori.»
Sugerii, non sapendo cos’altro dire e sentendomi subito un idiota.
Ma Parvus non mi riservò lo stesso trattamento che avevo riservato a Torvik un minuto prima. Fece un cenno con la testa in direzione degli agenti in tuta bianca.
«Già, è per questo che hanno mandato loro.»
Mi ci volle qualche secondo per accorgermi che i distintivi appuntati sulle loro spalle non erano quelli del dipartimento di polizia. Sulle placche d’alluminio spiccava un martello, sorretto tra gli artigli da un’aquila avvolta da spire di saette.
«Cacciatori!»
Parvus annuì.
«Non si tratta di un banale regolamento di conti. C’è altro di mezzo. Roba magica, stronzate del genere, altrimenti…»
«…Altrimenti qui ci sareste solo voi. Un colpo di spugna e via, come ai vecchi tempi, no?»
Chiosai. Mi balenò in mente il motto di Torvik: “A chi importa, finché si ammazzano tra di loro?”.
Parvus arricciò le labbra, infastidito, ma non disse niente.
«Piuttosto, chi stai cercando?»
Domandò, facendosi di punto in bianco più calmo, come se si fosse appena ricordato di non essere più un mio superiore.
«Qualcuno che avrebbe dovuto trovarsi qua.» Replicai. «Jacob von Hilsegrund. Sulla trentina, alto, pelato, tatuaggi, precedenti per spaccio e aggressione.»
Parvus abbassò lo sguardo. Fece scivolare la mano nel taschino della camicia, ne estrasse un pacchetto di sigarette e me ne offrì una.
Dalle stalle alle stelle.
Pensai, accettando l’offerta.
«Dovresti andare a parlare con il testimone. Lo trovi in fondo al corridoio, ultima porta a sinistra. Dì all’agente di guardia che ti mando io.»
Mi accesi la sigaretta, riflettendo per un po’ sulla proposta.
Cosa c’entro io col testimone? Non sono mica un dannato poliziotto.
Parvus mi sfilò lo zippo di mano.  La luce della fiamma gli balenò sotto il naso, illuminandone il volto stanco e rugoso.
«Tra un quarto d’ora lasceremo tutto in mano ai cacciatori. Vedi di non metterti nei casini e, se scopri qualcosa, chiamami.»
Disse, restituendomi l’accendino. Poi, si allontanò, senza attendere una risposta.
Mi fu subito chiaro che aveva già deciso per conto mio.
Lo seguii con lo sguardo.
Raggiunse l’altro capo del corridoio e scambiò qualche parola con un tipo in completo marrone. Li colsi a lanciarmi delle lunghe occhiate. L’uomo in marrone, in particolare, pareva farsi sempre più interessato.
Ma che diavolo…?
Diedi loro le spalle e mi avventurai nel corridoio, tra le sagome tracciate sul pavimento con il gesso, ben attento a non ostacolare i cacciatori, tutti presi dai loro meticolosi e imperscrutabili rilevamenti. Riuscivo quasi a sentire i loro occhi da serpente scivolarmi addosso, carichi di sospetto. Ma dovevo sapere, dovevo scoprire in mezzo a cosa stavano per buttarmi. E, magari, sarei riuscito a cavarne fuori qualche informazione utile.

Da “Gimme back my wings”, di Sonjia Kossiakov e Klavu Babe, Vanity n. 46, Gelante 145
Per strada non c’è più traccia dei fan accalcati davanti al locale. Sono tutti usciti dal retro, dando l’impressione che l’intero evento non sia stato che una sorta di allucinazione collettiva.
L’ingresso del Triptych, scolpito nel cemento grigio polvere di un vecchio condominio, non anticipa nulla di quel che si nasconde dietro la porta a vetri.
Esito, per un istante, sopraffatta dall’idea di star per incontrare la più grande star aliou-pop del decennio, prima di afferrare la maniglia e spingerla verso l’interno.
Non faccio in tempo a mettere il naso nella hall che Erik, lo storico buttafuori del Triptych, mi si para davanti. Allungo una mano per mostrargli il pass, ma quando i suoi occhi color magnetite si posano sui miei, mi sembra di sprofondare in un lago ghiacciato. Rimango paralizzata, mentre lui mi sfila il pass dalle dita con un gesto delicato e ne tasta la consistenza con i polpastrelli, in cerca di segni di contraffazione. Il completo nero e i lunghi capelli bianchi lo rendono simile a un fantasma.
Non mi era mai capitato di provare sulla mia stessa pelle l’antica magia alioubor. Un piccolo show di mesmerismo, che mi lascia intendere di non aver ancora visto niente.
Il volto da gargoyle di Erik si infrange in un sorriso: «Prego, signorina Kossiakov, può passare». Lo ringrazio e ricambio il sorriso. Vorrei essere più cordiale di così, ma le gambe mi trascinano all’altro capo del corridoio più rapidamente di quanto vorrei.
Sciami di roadie e tecnici affollano la sala dove si è appena tenuta la performance di Klavu. Il palco è identico a quello che ho visto nelle foto: una specie di altare, cosparso di spuntoni dall’aria minacciosa e decorazioni floreali. Un arcobaleno di colori risplende sotto i riflettori, alternandosi a cupe scenografie nero pece; l’inconfondibile trademark di Klavu.
Sotto il palco, nascosto dietro a delle tende, avvisto il backstage. Attraverso la giungla di corpi, cavi, microfoni, amplificatori e, finalmente, la vedo. Se ne sta seduta a gambe incrociate su di un enorme cuscino, davanti a uno specchio rotondo. È intenta a struccarsi, anche se ha ancora addosso il costume di scena: un body rosa; cinghie di pelle verde acido; una criniera di treccine colorate cosparse di LED. Gli stivaletti borchiati che indossava fino a mezz’ora prima sono stati sostituiti da un paio di pantofole a forma di coniglio.
Resto sulla soglia, imbarazzata, ma lei deve avermi già scorto allo specchio. Si gira a guardarmi, sfoggiando il sorriso più sfavillante che abbia mai visto. Mi indica una poltrona in un angolo della stanza.

 

SK: Ciao Klavu.
KB: Hi, Sonjia! Ti stavo aspettando.
SK: Com’è andata?
KB: Alla grande, come sempre! (alza entrambi i pollici). Tutto merito dei miei piccoli mostri.
SK: I tuoi fan ti adorano.
KB: Sono meravigliosi. Non so come farei senza di loro.
SK: Da alcune vecchie interviste mi è parso di capire che hai un rapporto particolare con Domersk.
KB: Come non potrei? Sono cresciuta in un villaggio a nord dell’Alioub, tra le montagne. Ogni giorno, percorrendo la strada da casa a scuola, fantasticavo su come sarebbe stato vivere a Domersk. Mia madre, poi, è sempre stata una super fan di Anissa; quand’ero piccola l’ascoltavamo sempre insieme.
SK: Se non sbaglio, il tuo nome è un tributo a un suo brano?
KB: esattamente, il pezzo è “Dying for you”: “As the Roc flies on, I’ll meet my klavu babe”.
SK: Una frase decisamente sibillina.
KB: (Scoppia a ridere) Yeah! Non so perché ma non sono mai riuscita a togliermela dalla testa.
SK: Un segno del destino, forse?
KN: …Forse.
SK: Il tuo ultimo album, Misfits in Heaven, parla proprio di questo, no?
KB: Si, è un concept album su una silfide che si ritrova in città, da sola, con i Cacciatori alle calcagna. È lì che incontra un Nagual, la Salamandra, che la aiuta a ricostruire la Sorgente, il luogo da cui proviene, e a ritrovare se stessa.
L’idea è che il destino sia sempre con noi, anche quando ci sembra che non ci sia più via d’uscita. Sono le persone che incontriamo che ci aiutano a scoprire dove ci condurrà, un po’ come quando si osserva il collasso della funzione d’onda nella meccanica quantistica.
SK: Se non ricordo male, hai una laurea in fisica pratica…
KB: (ridacchia) No, no, ho mollato a due giorni dalla discussione della tesi. Per poco mia madre non si strappava i capelli. Però non ho mai smesso di studiare per conto mio.
SK: Ascoltando i tuoi ultimi album, direi che il tema delle differenze è diventato sempre più importante per te.
KB: Ci sono solo differenze. Nessuno è uguale a qualcun altro. Tutto muta costantemente. Dobbiamo solo aprire la mente, lasciarci invadere e comprendere che il nostro corpo è un veicolo di evoluzione interiore.
Oggi la maggior parte delle persone fatica ad ammettere che il movimento femminista e quello LGBTQ+ fanno parte di questa evoluzione, ma è così.
SK: Ne fanno parte anche i Nagual e le creature magiche?
KB: (Punta entrambi i piedi a terra, sporgendosi verso di me) Non solo ne fanno parte, ne sono la fonte. Sono loro la Sorgente! “Nich Sorgen um’lah, gesich’t fraü burd”: quando la notte esaurisce la Sorgente, si spegne il canto degli uccelli.
SK: Sono parole di Holger Kutsch, il poeta classico del terzo secolo.
KB: Si! Lui per primo ha intuito che stava succedendo qualcosa nell’animo umano. In molti, ormai, hanno capito che tecnologia e magia sono compatibili, e che la magia, il contatto con l’essenza più profonda del mondo, è qualcosa a cui tutti e tutte hanno diritto.
Il governo e i Cacciatori pretendono di poter essere i soli a controllare la magia, ma non ci riusciranno ancora per molto. Stiamo entrando nell’eone di un Nuovo Ordine, un risveglio collettivo che trasfigurerà il mondo.
(Alza le braccia al cielo, come se stesse pregando) venite, miei piccoli mostri!

[…]

IV
Il ragazzo si aggrappò con entrambe le mani alle maniglie della poltrona e schizzò indietro.
«È lui, cazzo! È lui!»
Bingo. Avevo fatto appena in tempo a mostrargli la foto del mio uomo. A quanto pare l’idea di Parvus stava dando i suoi frutti.
«Sei sicuro? Al cento per cento?»
Chiesi, sventolandogli la fototessera davanti alla faccia.
«Si!»
Mi fermai a riflettere e lo vidi roteare i grandi occhi verdi. Incastonati su quella pelle rosso vivo, tipica degli hamaliti, rassomigliavano a due smeraldi adagiati su un panno di velluto. Rotearono ancora, stavolta in senso opposto, percorrendo il soffitto da parte a parte.
Ora, ci sono due tipi di persone in grado di dirvi, con il minimo margine d’errore, se qualcuno è un tossico e di che roba si fa: gli sbirri e gli ex-tossici. E io ero tutt’e due le cose. L’avrei capito anche senza guardarlo in faccia, senza aver visto quella pelle solcata da innaturali venature celesti. Polvere di sogno.
D’istinto, mi portai la mano alla guancia, come se temessi che le stesse striature fossero ancora visibili sul mio corpo.
Sapevo bene cosa stava seguendo con così tanta attenzione. Le eccitazioni, i flebili spasmi che, per brevi istanti, fanno vibrare la materia, alludendo a qualcosa al di là della materia stessa.
È per questo che si prende la polvere. Per vedere la magia, con il tarlo costante, che ti scava nella testa, di non poterla mai toccare, di non poterla mai raggiungere. Così vicina, eppure così lontana.
Ai tempi, ero così infottato che a volte mi capitava di tirare direttamente col naso, “all’amazzone”, nel gergo dei tossici, senza neanche preparare la botta.
Guardai l’orologio da polso. Avevo solo undici minuti.
«Come ti chiami?»
Gli domandai a bruciapelo.
Di colpo, spostò lo sguardo su di me.
«Jeet, signor…»
«Vas, chiamami solo Vas. Come hai fatto a scappare, Jeet?»
Chiesi.
«Ero seduto in fondo alle scale, di sotto. Ero con mio fratello, Rashid, e Serhat, il suo miglior amico. Eravamo appena tornati da lavoro.»
«Dove lavori?»
«Al porto. Faccio lo scaricatore. Anche Rashid e Serhat erano scaricatori.»
«Poi, cos’è successo?»
«La porta è esplosa, come se qualcuno avesse lanciato una bomba. Volevo correre ad aiutarli. L’ho fatto, mi sono alzato, poi…»
Gli occhi gli si gonfiarono di lacrime.
Fu solo allora che mi resi conto che non doveva avere neppure vent’anni.
«Poi l’ho visto. C’era luce, tanta luce. E quell’uomo. Ha preso Rashid per il collo. Serhat ha urlato qualcosa, ha provato a colpirlo ma quello gli ha tirato un pugno. Serhat è caduto a terra. C’era sangue dappertutto. Non ce l’ho fatta, ho avuto troppa paura. Sono scappato e li ho…»
Fu attraversato da un tremito convulso, come se stesse rivivendo quel momento, e la voce gli andò a morire in gola.
«…li ho lasciati lì.»
Affondò le mani tra i lunghi capelli neri e scoppiò a piangere.
Spensi la sigaretta sulla gamba del tavolo e la lasciai cadere a terra. Attesi qualche secondo prima di porre la domanda successiva, vagando con lo sguardo per la stanza.
Su di un minuscolo tavolo c’erano delle pentole e un fornello a gas. Alcuni piatti sporchi giacevano ammassati in una bacinella piena d’acqua.
Mantenni un tono freddo, inespressivo, ignorando i violenti singulti che gli gonfiavano il petto.
«Non ha detto niente? È entrato e ha cominciato ad ammazzare la gente, e basta?»
Sollevò la testa, di scatto, le labbra contratte in un’espressione di puro furore.
«No!»
Mi sporsi in avanti, impaziente di udire il seguito.
«Era qui per noi. Era con noi che ce l’aveva.»
«Con voi tre?»
Domandai, confuso.
«Con noi dell’Ham’leh! L’ho sentito gridare dalle scale. Cose tipo “Schifosi rossi”, “Parassiti”, “Scimmie”.»
«Se ce l’aveva con voi, allora perché ha ucciso tutti quanti?»
Mi fissò per un lungo istante, perplesso, scavandomi dentro con quegli occhi lucidi e iniettati di sangue.
«Non lo sai? Qua tutti erano dell’Ham’leh.»
V

 

Eccolo il mio uomo, sullo schermo di un vecchio televisore appeso alla parete di un bar.
Nel video Jacob sorrideva. Un sorriso amaro, pieno di tristezza. I suoi occhi vagavano di continuo dall’obiettivo del telefono a un punto imprecisato alla sua destra, oltre il finestrino dell’auto. Come se qualcosa, fuori campo, lo stesse infastidendo. Si passò entrambe le mani sulla faccia e rimase a lungo immobile, in silenzio, coi palmi premuti sulle orbite. Le venature celesti sui suoi zigomi e agli angoli degli occhi si gonfiarono, come se stesse trattenendo il respiro.
Mi portai la tazza di caffè alle labbra, senza staccare neppure per un istante lo sguardo dallo schermo.
Dopo un’intera giornata di martellamento incessante da parte di TV e giornali, erano cominciati a trapelare i primi video pubblicati da Jacob sui profili social. Decine e decine di dirette, dalla durata complessiva di svariate ore. Ore nel corso delle quali, passo dopo passo, giorno dopo giorno, von Hilsegrund completava la sua tortuosa metamorfosi da tossico paranoico a soldato dell’Imperatore.
Tra i clienti del bar, nessun’altro, a parte me, pareva interessarsi alla cosa. Le immagini continuarono a scorrere sullo schermo, nell’indifferenza generale.
«Devo fare qualcosa. Non posso continuare così.»
Mormorò Jacob, rivolto alla fotocamera.
Per un attimo, mi parve quasi che stesse parlando con me.
«Devo fare qualcosa!»
Ripeté, in tono più deciso.
La cameriera attraversò il bancone e mi si parò davanti. Una hekret sulla trentina, dalle lunghe corna caprine che le spuntavano da sotto il berretto giallo.
«Dimenticavo, solo per oggi c’è un’offerta speciale sui pancakes, per sette quill…»
La bloccai con un cenno della mano.
«No. No, grazie.»
Il bello veniva proprio ora.
Di punto in bianco, Jacob scese dall’auto, scomparendo dall’inquadratura. In lontananza, si sentiva una voce sbraitare: «Chi è questo tizio? Ehi, pelato di merda…Che cazzo?!»
Rumori di colluttazione. Grida.
Dopo alcuni secondi, la sirena di una volante emise due brevi ululati.
Jacob riapparve al centro dell’inquadratura, trafelato, sporco di sangue, con un occhio nero. Il motore dell’auto si accese e il veicolo partì a tavoletta, scaraventando il telefono a terra.
A questo punto, il video si interruppe, sostituito dal volto posticcio e sornione di Thierry Duval, il portavoce di Risorgiamo, partito di minoranza vicino agli imperiali ma abbastanza ripulito da essere stato eletto al Consiglio.
L’inviata del telegiornale gli avvicinò il microfono alla bocca.
«Segretario Duval, cosa risponde a chi sostiene che il massacro di ieri sera è il frutto di anni di propaganda d’odio da parte di Risorgiamo?»
Il sorriso di Duval si allargò come una trappola per topi pronta a scattare.
«Jacob Von Hilsegrund non è uno di noi. Risorgiamo è un movimento politico non violento, legato ai valori democratici sui quali si fonda la Federazione. Prendiamo assolutamente le distanze dai fatti di ieri sera, unendoci a tutte le forze politiche nell’esprimere cordoglio nei confronti dei familiari e amici delle vittime.»
Il microfono guizzò dalla bocca di Duval a quella della reporter.
«Signor Duval, lei stesso, negli scorsi anni, ha espresso perplessità nei confronti delle occupazioni abusive, in particolar modo quelle hamalite. Non pensa che vi possa essere un collegamento tra le sue passate dichiarazioni, come quella del mese scorso, quando ha definito i profughi come “uno sciame di ratti, pronti a fiondarsi sulle nostre dispense”, e la strage compiuta da von Hilsegrund?»
Il sorriso di Duval assunse proporzioni inaudite, allargandosi fin quasi ai lobi delle orecchie.
«Gli spregevoli crimini di von Hilsegrund non rendono meno importanti la lotta all’immigrazione clandestina e ai crimini d’origine magica. Temi che Risorgiamo porta avanti ormai da più di vent’anni. Per quanto disgustose e deprecabili, le azioni di von Hilsegrund e di quelli come lui hanno come unico movente l’esasperazione. La gente è stanca e questo è il risultato.»
Lo schermo si oscurò di colpo.
Mi voltai verso la cameriera. Aveva ancora la mano sul telecomando.
«Meglio spegnere. Qualcuno potrebbe farsi venire in mente strane idee.»
Disse, distogliendo lo sguardo dal televisore spento.
Mi alzai e andai a pagare.
Fuori faceva più caldo del solito ma non avevo tempo di godermi la giornata. Montai in macchina, misi in moto e scivolai nel traffico isterico della Capitale.
La caccia era appena cominciata.
**

Immagine di Francesco D’Isa.

Claudio Kulesko è filosofo, traduttore e ricercatore indipendente. Suoi saggi sono apparsi su Aut Aut, Liberazioni – Rivista di critica antispecista e Studi Culturali, ma anche su riviste online quali Not, l’Indiscreto e Singola. E’ tra gli autori di “Demonologia rivoluzionaria” (Nero 2020). Assieme ad Andrea Cassini è autore di “Blackened” (Aguaplano 2021). Suoi racconti sono stai pubblicati su L’Indiscreto, Nazione Indiana e nel primo volume della serie antologica “Trema” (Arcoiris 2021).

Letteratura belga: “Cina” di Jean Jauniaux

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[Le edizioni Mincione hanno lanciato una nuova collana di narrativa dedicata al Belgio. Pubblico in anteprima uno dei Racconti trappisti (2021) di Jean Jauniaux, trad. di Thea Rimini. ot]

 

di Jean Jauniaux
traduzione di Thea Rimini

 

Andare in Cina, è facile.
La cosa più difficile è lasciare
Vilvoorde.
Jacques Brel

Nel negozio in riva al fiume Dietro
il banco assiso sta Mister Ying a
vender thè Viola prugna è il suo
gilet Mister Jing vende il thè
Il ginseng ed il saké
Max Elskamp, Il caffè, da Le dilettazioni morose dei mercanti d’Asia

Senza rendersene conto tutti i grandi viaggiatori, e anche i piccoli,
continuano a scappare da qualcosa che li attende ovunque. Loro stessi? La morte?
Maurice Maeterlinck, L’altro mondo o il quadrante stellare

 

Albert non smette di parlare della sua prossima partenza per la Cina fissata per sabato 15 giugno 2019. Tornerà a Bruxelles lunedì 12 agosto. Il povero giramondo non sa ancora che la scelta di quelle date saboterà il pietoso stratagemma che dovrà mettere in atto il giorno della partenza.

Attacca bottone con tutti per ore parlando dell’itinerario, delle città, dei libri, dei film, di tutto quello che già sa della Cina che si appresta a scoprire. La sua esaltazione stanca molti, ma Albert ha parecchi amici pazienti che si alternano nell’ascolto della sua prossima avventura. Comunica che sin dal primo giorno posterà su un blog, creato apposta per questo, una selezione di fotografie scattate sul posto. Non paesaggi o vedute turistiche, no, ma volti, sorrisi, la vita delle città, delle campagne e dei quartieri che visiterà. Se ne avrà voglia, scriverà anche un commento per insaporire – sono le sue parole! – le immagini. Parla del viaggio, lo prepara, rilegge l’itinerario dieci volte, controlla cento volte che tutti i documenti siano nel borsello da mettere al collo sotto la camicia: passaporto, biglietti per il volo Bruxelles-Pechino e poi per quello di ritorno Hong Kong-Bruxelles, biglietti dei viaggi interni in treno o in aereo. Più volte ha tirato fuori tutto, ha controllato e risistemato tutto. Poi lo assale un dubbio: “Ho tutti i visti?”, “È il passaporto giusto? Non è quello scaduto che ho conservato dal mio ultimo viaggio?” Fino alla vigilia della partenza, fino alla notte prima della partenza, non smette di controllare e rimettere a posto ogni oggetto, ogni indumento, ogni medicina che porta con sé. Non bisogna soprattutto dimenticare il collirio. Con l’inquinamento ci mancherebbe solo che debba essere rimpatriato d’urgenza a causa dell’occhio che, operato qualche mese prima, gli aveva già fatto annullare un primo tentativo di andare in Cina! Ma tutto è bell’e pronto. Esausto per l’angoscia di dimenticare qualcosa, non ha chiuso occhio fino alle cinque del mattino. Alla fine si è addormentato. Profondamente. Alle sei, quando il telefono si è messo a vibrare sussultando sul materasso, Albert non si è svegliato. Le ore sono passate. All’aeroporto di Zaventem un altoparlante ha probabilmente chiamato: “Il signor Albert Morrel in partenza per la Cina è richiesto alla porta d’imbarco 16”. E ancora: “Ultima chiamata per il passeggero Morrel. Porta d’imbarco 16”. Poi, più niente. L’aereo si è lanciato sulla pista, ha raggiunto una velocità di 160 nodi, il pilota ha sollevato la parte anteriore che è sprofondata nei nuvoloni neri, li ha attraversati e infine si è lasciata accarezzare dal sole.

Albert si è svegliato. Si è reso conto della catastrofe. I biglietti scontati non si possono cambiare. E non ha abbastanza soldi sul conto per pagarsi un nuovo biglietto a tariffa piena e ricominciare daccapo l’organizzazione del viaggio. Lo assale una grande vergogna. Cosa dirà a tutti quelli che ha stremato con il suo viaggio? Li tormenterà adesso con la storia della sua delusione? Depresso, Albert si fa un caffè, poi un secondo, poi un terzo. Accende il computer, va sul blog e dice a sé stesso che annuncerà il fallimento in questo modo. Per i suoi amici sarà meno penoso, e poi sarà più veloce.

Comincia a scrivere:

Non sapevo nulla della Cina. Ho deciso di andare a dare un’occhiata più da vicino, di recarmi laggiù, nel Regno di Mezzo, e di accostarmi a quel paese-continente o a quello che mi avrebbe voluto rivelare. Ecco la prima foto del viaggio: il mio bagaglio nell’ingresso di casa. Sono le sei di mattina e ho selezionato questa foto mentre si appresta a decollare il Boeing dove occupo il 24C sul lato corridoio, posto che ho scelto per distendere le gambe e preservare il mio ginocchio.

Descrivendo la foto della partenza presunta, Albert rinuncia alla confessione e decide di simulare il viaggio. Sì! si dice, piuttosto che perdere la faccia (è molto cinese non voler perdere la faccia), inventerò il mio viaggio, lo racconterò giorno per giorno, troverò molte foto per illustrare la mia spedizione. Dovrò solo resistere otto settimane e poi potrò riapparire a bordo di un taxi che prenderò alla stazione il giorno previsto per il mio ritorno. Albert gongola, anche se gli si attorciglia lo stomaco al pensiero di quell’impostura interminabile che diventeranno i prossimi due mesi della sua vita.

Bisogna organizzarsi: sistemarsi in soffitta o in cantina. Edmée, la donna delle pulizie, non deve trovarlo né quel lunedì né i lunedì seguenti quando verrà a innaffiare le ortensie. I vicini non devono vedere della luce. Bisogna occultare il lucernario della soffitta. Albert sceglie di nascondersi in soffitta: in cantina Edmée andrà sicuramente a fare il bucato o a stirare gli arretrati; nel sottotetto, invece, non ha motivo di venire, a meno che, spinta da uno zelo inaspettato, non decida di pulire la casa “a fondo” come ha già promesso di fare mille volte!

Albert sale allora in soffitta, mette una tenda nera sui due lucernari, porta delle riserve d’acqua e del cibo in scatola, installa un fornello a gas, sta quasi per dimenticare di nascondere la valigia e lo zaino ma se lo ricorda all’ultimo momento. Appoggia il computer su una porta messa su due cavalletti abbandonati in giro e controlla che il wi-fi arrivi nel sottotetto.

Inizia così il viaggio immobile di Albert alla scoperta della Cina. Sul sito di National Geographic, Le Routard, Continents insolites e altri, si mette a cercare fotografie che possano raccontare il suo viaggio… a partire dall’arrivo a Pechino. Sul blog e su Facebook i commenti non tardano ad arrivare (al suo ritorno dovrà spiegare come sia riuscito a sfuggire alla censura che da settimane impedisce a tutti di accedere al social network più popolare al mondo). Ben presto i suoi amici reclamano delle fotografie che immortalino lui, Albert, sul posto.

Quando scopre la richiesta ripetuta da decine di amici virtuali, crede di dover rinunciare all’inganno e rivelare la verità del suo fake trip. Sta già ticchettando sulla tastiera la lettera di scuse da postare quando un’idea gli attraversa la mente in preda al panico. Andiamo, Albert! Ci deve essere un modo per prolungare questo viaggio falso! La Cina non è solo in Cina! Del resto, non è andato lui stesso a rubare delle immagini cinesi dalla Chinatown di Los Angeles? Perché non andare nella Chinatown di Londra e farsi una serie di selfie che lo immortalino circondato da cinesi londinesi davanti a ristoranti, negozi di souvenir e altri luoghi che trarrebbero in inganno, e che potrebbe assemblare con immagini di celebri siti turistici?

Sale sul primo Eurostar e si rifugia per due giorni a Chinatown. Lì si fotografa in compagnia di cinesi di tutte le età davanti a vetrine grondanti di grasso di anatre appese al gancio, a negozi di alimentari e a un tempio buddista. Ha affittato una stanza a buon prezzo in un hotel di Gerrard Street. La receptionist lo guarda in modo strano quando rientra in hotel per cambiarsi, cosa che fa molte volte durante il suo breve soggiorno. Deve rendere credibili quelle foto che si suppone siano state scattate in un periodo di due mesi. Non commetterà l’errore di apparire vestito sempre allo stesso modo. Ha portato con sé una valigia piena di magliette e pantaloni di tela che indossa per quegli autoritratti sino-britannici.

Quando rientra a Bruxelles, per poco non si imbatte in Edmée: cosa ci fa di lunedì al binario dell’Eurostar con una valigetta in mano e la guida Routard, Un weekend a Londra, sotto gli occhi? Per fortuna non lo vede tuffarsi nella scala mobile che lo conduce nell’atrio della stazione e poi da lì in un taxi.

Ogni giorno Albert continua a inventare il suo viaggio a partire da immagini scaricate da internet, ritagliate con Photoshop e messe online. Completa il racconto del viaggio che aveva iniziato con “Non sapevo nulla della Cina…”, usando la stessa formula, questa volta al presente, e la modestia delle sue parole convince tutti i suoi amici che quell’avventura ha trasformato il chiacchierone impenitente in un uomo saggio, riservato, umile e lucido in materia di Cina: “Non so nulla della Cina che richiederebbe, invece di questo breve viaggio, anni di studio e di osservazione solo per conoscerne una minima parte”. Confucio non l’avrebbe detto meglio!

Il 12 agosto 2019 Albert comunica finalmente il suo ritorno agli amici. Pubblica “dall’aeroporto internazionale di Hong Kong” un messaggio che annuncia l’imminente partenza del volo. Rimane sorpreso dalle reazioni di molti preoccupati che lui, così attento a certe problematiche, non sia stato per nulla coinvolto nelle ultime manifestazioni anti-cinesi organizzate dai difensori dei diritti umani. Albert aveva firmato varie petizioni, in particolare del PEN e di Amnesty International, quando erano misteriosamente scomparsi cinque librai che distribuivano libri critici nei confronti della Cina. Per documentarsi, Albert si era naturalmente informato sull’evento che aveva sconvolto il panorama politico cinese, scorrendo attentamente le notizie del 1° luglio 1997. Le prime pagine erano dedicate agli accordi della Legge Fondamentale della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong e alle cerimonie storiche che avevano segnato il ritorno di quel territorio alla Cina comunista. Albert aveva postato varie fotografie che illustravano l’evento, tra cui una che mostrava il leader cinese Jiang Zemin mentre stringeva la mano al principe Carlo tra gli applausi dei primi ministri Li Peng e Tony Blair. Albert attirava l’attenzione dei suoi internauti sulla presenza di Margaret Thatcher nella tribuna ufficiale…

Invece, troppo occupato a inventare e illustrare le ultime tappe continentali del suo viaggio cinese, non ha prestato attenzione alle ultime manifestazioni contro il progetto di legge che permetterebbe l’estradizione in Cina dei cittadini di Hong Kong. Questa legge, se approvata, sarebbe un attacco intollerabile alla libertà di espressione e al principio “Un Paese, due sistemi”. E l’ultima manifestazione si è svolta proprio all’aeroporto internazionale di Hong Kong dove tutti i voli sono stati annullati il giorno del preteso ritorno di Albert. Così la sua bugia è venuta a galla alla fine dei due mesi di viaggio immaginario.

Sulla strada per il Trappiste, dove ha dato appuntamento ad alcuni amici per raccontargli di persona il viaggio mancato, si ricorda della frase di Jacques Brel che inconsapevolmente ha messo in pratica: Andare in Cina, è semplice. La cosa più difficile è lasciare Vilvoorde.

Cerca di farsi perdonare l’inganno richiamando i grandi viaggi immaginari di Hergé che aveva portato Tintin in Cina senza averci mai messo piede. Parla anche delle pagine del suo blog dove ha raccontato la costruzione della linea ferroviaria Pechino-Hankou e menziona il suo antenato Jules Morrel immortalato accanto all’ingegnere Jean Jadot. Probabilmente Jules è stato protagonista di quell’incredibile impresa che, alla confluenza dei fiumi Han e Yangtze, ha collegato la capitale imperiale alla città di Hankou e che i belgi hanno portato a buon fine nonostante le guerre e le intemperie.

Gli amici di Albert, ipnotizzati dalle chiacchiere dell’instancabile affabulatore, si dimenticano di essere stati ingannati. Si convincono presto della veridicità dell’antenato Jules Morrel, di cui sentono parlare per la prima volta, vedendo una foto descritta in modo molto dettagliato da Albert che s’inventa una nuova stirpe e un avo avventuriero.

Si convincono ancora di più della sua buona fede quando Albert esibisce il biglietto ferroviario che avrebbe dovuto portarlo a Hankou sul TGV che ha sostituito le locomotive a vapore sulla linea inaugurata in pompa magna nel 1905. Se non fosse stato per rendere omaggio a questo avo, che motivo avrebbe avuto Albert di andare a Hankou?

Albert promette agli amici di raccontare come il suo antenato Jules Morrel abbia permesso al maggiore Collon, un altro illustre sconosciuto che Albert tira fuori dal cappello, di lasciare il territorio russo nel 1918 e di imbarcarsi sulla nave che lo avrebbe riportato insieme ai suoi uomini da Vladivostok a Bruxelles passando per gli Stati Uniti. E questo era avvenuto dopo che la famosa spedizione degli autocannoni aveva tentato due anni prima di accerchiare le truppe tedesche in Ucraina. Ubriacati dal finto viaggio in Cina, i suoi amici si apprestano adesso ad ascoltare senza interruzioni un’altra favola che mescola verità e finzione.

Albert ordina un tè verde fumante.

– Dell’Oolong… in memoria del mio antenato Jules…

 

 

Dante e Forese, dopo la tenzone l’affetto

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Abbiamo già incontrato Forese Donati, detto Bicci (terzo cugino della moglie ufficiale di Dante, Gemma) qui dove trovate la prima parte della famosa tenzone. La seconda parte l’ho pubblicata qui, dove avevo anche accennato che Dante avrebbe ritrovato l’amico nel Purgatorio. A buon diritto dico “l’amico” perché, malgrado i toni duri e le insinuazioni provocatorie contenute nei sei sonetti della tenzone i due erano buoni amici e gli insulti di quel tipo (“Bicci novel, figliuol di non so cui”, ecc.) erano una specie di moda tra la jeunesse dorée fiorentina della seconda metà del ‘200. L’apparire della famiglia Donati è frequente nelle opere di Dante, la sorella di Forese, Piccarda, sarà incontrata nel Paradiso, tra i beati, mentre il fratello Corso, capo dei guelfi neri a Firenze avrà un ruolo importante nelle varie vicende guerresche tra guelfi e ghibellini – sarà lui, a quanto pare, l’artefice della vittoria dei fiorentini a Campaldino contro i ghibellini aretini – e sarà anche il maggior artefice della cacciata di Dante da Firenze, così che Dante metterà, come vedrete, in bocca a Forese un destino infernale per Corso.
Forese, morto nel 1296, è in Purgatorio fra i golosi, sesto girone, canto XXIII e inizio XXIV; costoro sono puniti, sempre per lo famoso ovvio contrappasso, con l’aver sempre fame e sete e a non riuscire né a mangiare né a bere, per cui sono quanto mai smunti, magri, pallidi e col viso scavato, come appunto descrive Dante nei primi versi che qui cito. Dante si stupisce che Forese sia già nel sesto girone e non nell’antipurgatorio, dove sostano a lungo quelli che si sono pentiti (o convertiti) solo all’ultimo minuto prima di morire, ma Forese spiega che è tutto merito della moglie Nella (leggete i vv. 87-90), la “vedovella mia”.

l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge ’omo’
ben avria quivi conosciuta l’emme.33

Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d’un’acqua, non sappiendo como?36

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,39

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”.42

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.45

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.48

“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora”, pregava, “la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;51

ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!”.54

“La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia”,
rispuos’io lui, “veggendola sì torta.57

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia”.60

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’io sì m’assottiglio.63

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.66

Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.69

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,72

ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ’Elì’,
quando ne liberò con la sua vena”.75

E io a lui: “Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.78

Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,81

come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora”.84

Ond’elli a me: “Sì tosto m’ ha condotto
a ber lo dolce assenzo d’i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.87

Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ ha de li altri giri.90

Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;93

ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.96

O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,99

nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.102

Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?105

Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;108

ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.111

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove ’l sol veli”.114

Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.117

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui”,120

e ’l sol mostrai; “costui per la profonda
notte menato m’ ha d’i veri morti
con questa vera carne che ’l seconda.123

Indi m’ han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che ’l mondo fece torti.126

Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.129

Virgilio è questi che così mi dice”,
e addita’ lo; “e quest’altro è quell’ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice132

lo vostro regno, che da sé lo sgombra”.

e fin qui arriva il primo intervento di Forese che proseguirà poi all’inizio del Canto XXIV, in cui dirà la sorte sia di Piccarda che di Corso, e presenterà a Dante un nuovo personaggio, goloso anch’egli, Bonagiunta da Lucca, ma di ciò alla prossima puntata.

IPERSENSIBILITÁ

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di Antonio Potenza

Da due mesi, ogni sera, la mia caviglia sinistra inizia a gonfiarsi come se qualcuno ci soffiasse dentro aria fresca. A guardarla dall’alto mi è subito parsa una zampa di elefante con quelle grinze orizzontali piuttosto scavate al livello del calcagno. Me ne sono accorto grazie agli occhi attenti di un mio amico, fisioterapista, o qualcosa di simile. Tra le strade di Otranto mi ha avvisato del mio arto gigante, chiedendomi se mi facesse male. Sorpreso ho guardato il piede rispondendo che no, non avvertivo nessun dolore. E la conversazione finì lì: se qualcosa non fa male, benché stramba, perché preoccuparsi?
O almeno, al momento pensai così. Quindi tutta l’estate ho continuato a gonfiarmi come un palloncino da festa, ogni sera. Alcuni giorni fu anche divertente aggirarmi tra la gente in ferie, come un freak. Guardavano la caviglia gonfia, talvolta costretta in una calza stringente rubata dal mobiletto del bagno di nonna, con un misto di curiosità e preoccupazione. Dal canto mio non me ne preoccupavo, né della caviglia né del pubblico. L’ironia mi parve una buona cosa, per questo inventai tecniche di approccio esilaranti nelle quali non mostravo i muscoli o la mia arguzia, piuttosto la mia zampa elefantina. I miei amici erano sicuri che avrei fatto colpo.
Ad ogni modo l’estate andò avanti tra pomata e calza stringente, nonché senza conquiste. La mattina un fuscello, la notte un pachiderma: dannata caviglia licantropa.
Il dottore a fine della stagione calda, a rientro dalle ferie, non fu divertito dal racconto. Nemmeno la tecnica di approccio gli strappò un sorriso. Non lo biasimavo, ma iniziavo a preoccuparmi. Lei ha un problema di circolazione sanguigna, disse. E allora esami a cascata: radiografia, ecografia, analisi del sangue, tac e altre cose dai nomi piuttosto complessi.
A distanza di un mese sono di nuovo qua, in sala d’aspetto, stringendo i risultati delle mie avventure cliniche. Non riesco a nascondere una certa apprensione. Immagino per un istante, nella mia mente un baleno piuttosto lungo, quello che potrebbe succedere da qui in poi. In questo nervoso vaticinio riesco a guardarmi dall’esterno e da lontano mentre zoppico tutte le sere della mia vita come uno stanco animale ferito, fuoriuscirà dalle caviglie sangue di quercia, sulla pelle cresceranno inflorescenze colorate e tracce di corteccia si abbarbicheranno sul dorso del piede, posso scorgere con una certa semplicità le difficoltà che mi aspetteranno da qui in poi, i miei genitori ormai canuti si curveranno su di me come infiacchite badanti con le occhiaie marcate, sbotteranno per i miei malati capricci, sbufferanno le sere in cui avrò il piede così grande da non poter uscire dalla porta – oddio, pensai, distruggerò gli infissi – i miei amici stufi di prendermi sotto il braccio sul lungo mare di Gallipoli mi abbandoneranno dietro il camioncino dei panini, quale donna, mi chiedo infine, vorrà uscire con me? Il sesso adesso è la mia prima preoccupazione: chi avrà il coraggio e la voglia di scarrozzarmi in auto con lo spirito umano di lasciare, ogni sera, ogni volta, ripetutamente, un gonfio pachiderma alla propria abitazione? Nessuna.
Ho un attacco di panico. Credo lo sia, perché la laringe si stringe in gola, poi in petto avverto l’occlusione dell’aria, la trachea comincia a rinsecchirsi. Lascio i documenti sulla sedia traballante della sala d’aspetto e mi getto nell’aria aperta. Penso che il sole sia eccessivamente chiaro, il cielo estremamente limpido. Un’eccedenza che però mi inietta tranquillità, così il respiro torna normale. Ho accesso quindi nuovamente alle mie facoltà cognitive e con passo disinvolto, incurante degli sguardi curiosi delle signore in sala, ritorno al mio posto.
Lancio un’ultima occhiata ai documenti, mentre sul collo inizia a bruciare un punto preciso all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Che fastidio, mi gratto con una certa insistenza. Che doppio piacere, il prurito termina quando il dottore chiama il mio nome. Poco dopo nel suo studio la sua espressione è ancora più interrogativa. Oggi ha anche la fortuna di vedere il mio piede gonfio, perché ¬– sorpresa – non ha deciso di sgonfiarsi. E quindi Dottore, dico, mentre sbatto la gamba sulla caviglia, oggi è fortunato: mi dica un po’, di cosa soffro?
Quello guarda i fogli. Poi il calcagno grinzoso e tumido e il suo sguardo passa da uno all’altro per un po’ di volte. Sono divertito, quanto spazientito.
Mi faccia parlare con uno specialista, dice e mi congeda.
A casa provo a rilassarmi, ma la mia abitazione è un posto meno comodo ultimamente di ciò che era solo pochi anni fa. Le imposte sono quasi sempre chiuse e la cucina o il salotto, che danno direttamente sulla porta principale, sono costantemente abitate da fila di ombre schiarite da quei pochi fili di luce che riescono a sgattaiolare. Stessa situazione nelle camere. La televisione è un elemento di disturbo, per chi abita questa casa insieme a me è solo un costante vociare. Anche a basso volume le risulta strillante.
Entro nello scenario grottesco in punta di piedi, ultimamente anche a causa del mio handicap ferino, ma soprattutto per una specie di preoccupazione intima. Attraverso la cucina e sul letto a due piazze ci trovo mia madre, distesa con il viso verso l’alto. Ha la pelle dello stesso colore dell’ambiente, i suoi occhi brillano a volte.
Come va oggi?
Risposta puntuale: come sempre. Ha il viso gonfio, gli occhi umidi. Credo abbia pianto. La mia presenza non la intima a muoversi, continua a osservare il lampadario, senza voltarsi. Ritorno nella mia camera ad aprire la finestra, lo faccio di nascosto come se fosse la mia prima sigaretta. Mi stendo sul mio materasso ad una piazza che non vuole crescere. Il mio corpo negli anni è cambiato ma lui rimane sempre così angusto. Dalla finestra appena aperta seguo una lama di luce che si allunga tagliando perpendicolarmente la stanza fino al cuscino e al mio viso. In uno sforzo d’immaginazione mi guardo dall’esterno: i miei occhi sembrano bicromi. Quello a sinistra, colmo di folgore mattutina, conserva i fantasmi dei sorrisi di mia madre, prima che partisse mia sorella, prima che mancasse mio padre, quando gestiva la casa tornando dal lavoro come se fosse il suo giaciglio fiorito. L’altro, traboccante di oscurità, guarda la realtà adesso: due esistenze slavate che rimpiangono il passato e rifiutano il futuro con angosciante esistenza del presente.
Sul collo inizia improvvisamente ad esplodere lo stesso prurito di questa mattina. All’attaccatura dei capelli sento come un formicolio bruciante, mi gratto con insistenza, senza che quello diminuisca. Attraverso la cattedrale d’ombre, in direzione del bagno. La luce esplode come una cometa sul soffitto, ora riesco vedermi chiaramente allo specchio. Mi contorco in una posizione scomoda ma che per un lasso di tempo piuttosto breve mi permette di vedermi il collo. I muscoli si contraggono, ma ce la faccio, la vedo: una grossa macchia si sta estendendo da sotto i capelli, ha la superficie puntinata, la tocco ed è rugosa, il suo colore è di un amaranto intenso. Faccio un pensiero: sembra una fragola. La sfioro nuovamente con le dita, la sensazione è la stessa che avvertirei accarezzando il frutto.
Un attacco di panico si impossessa di me come un arcaico spirito tribale: cammino per la stanza, consumo il pavimento, lavo le mani, bagno i polsi. Il bruciore continua e sento anche il piede gonfiarsi, posso avvertire un soffio che scorre attraverso le vene del mio arto. L’angoscia però si placa improvvisamente quando sullo schermo del cellulare vibrante appare il nome del mio medico: Mi raggiunga domani in studio, ho una teoria.
Intanto mamma non mangia. Questo è l’ennesimo problema della sua condizione. Il dottore mi ha detto che sta scivolando in una specie di stato depressivo, ancora non totale, ma non sottovalutabile. La causa? Mia sorella. Ha deciso di andare via da casa, senza alcun avviso o traccia, come rivoluzione alla vita borghese e ordinata. Le sue telefonate arrivano dalle quattordici alle quindici. Rispondo, è sorridente. Le passo mamma, continua ad essere felice, dice di esserlo, lo ripete spesso e a me questo puzza. Ad ogni modo ogni volta a chiamata terminata mia madre si ammutolisce, mi passa il cellulare e piomba nel mondo oscuro della sua mente. Il tuffo è così repentino che non faccio in tempo a trattenerla che è già saltata dalla scogliera. Posso solo vedere le gocce bianche del suo corpo che infrange l’acqua mentre se ne va in camera, a rifugiarsi nell’abbraccio caldo delle sue ombre e tra i rimpianti mielati delle foto della buonanima di Papà.
Il cibo, lo capisco, non riesce ad entrare in un corpo chiuso. Il suo organismo ha deciso di retrocedere verso un passato più luminoso. Tuttavia, visto che questo processo biologicamente non è attuabile mia madre rimane con la mente appena slanciata indietro e con tutto il resto è bloccata in un carapace ammuffito. Io la guardo, questo posso fare: lì dentro non entra cibo, tantomeno parole. Ci provo lo stesso, le preparo la cena, cucino i suoi pasti preferiti, se necessario la imbocco. Ma quella sbotta e se ne va. A volte ricorda me alle prese con le mie vecchie pene d’amore, solo che la situazione è molto più grave. Ciò su cui insisto maggiormente sono le pillole che le ha prescritto il dottore. Solitamente stazionano sul mobiletto in bagno. Caramelle al ripieno di serotonina.
Ho già presentato i miei dubbi al dottore. Le liquirizie alla dopamina non funzionano, ma tra i due non sono io ad avere una laurea in medicina. E tant’è: faccio il possibile qui, perché la condizione tetra di mia madre fa male di rimbalzo anche a me.
Ora colto da questo prudore lancinante corro in camera da lei, come facevo quando mi sbucciavo le ginocchia, quando piangevo, o ero triste. Lei mi coccolava, diceva che tutto poteva passare instillandomi quel senso di fiducia nello scorrere del tempo, nell’evoluzione delle cose.
Adesso mi guarda appena. Rimasugli del senso materno nei miei confronti. Ora ho la stempiatura ampia, il petto largo, uno stipendio e qualche capello bianco. Può smettere di preoccuparsi.
Passerà, dice solamente e sarà l’unica parola che dirà per tutto il giorno.
Ore dopo sono nel mio letto a leggere, guardo la caviglia che non ha smesso di crescere, conseguentemente alla mia ansia. Ho lo sterno sfondato dall’angoscia, una fragola sul collo e il piede di un elefante. Aspetto solo il circo, e mi addormento.

Il giorno dopo sono al 505 di Viale Aldo Moro. La sala d’aspetto è vuota alle sette del mattino. Dico buongiorno ad alta voce perché qualcuno mi senta. Sulla parete si incasellano poster con facce sorridenti, denti bianchi che consigliano di fare gli esami a tempo debito, di vivere bene, inni alla salute. Eppure, lo dico a me stesso, chi cazzo ci crede.
Buongiorno, ripeto.
Nessuno risponde. Scrivo al dottore e torno a casa.
Nella cattedrale d’ombre si allarga un pianto. Non lo localizzo per un po’, poi uno sferragliare convulso mi suggerisce di guardare in cucina. Lì mia madre come un golem rovista tra forchette e posate. Lo stridio della ricerca aumenta di volume, graffia nei timpani. Cosa fai, mamma. Fruga, rovista. Cosa cerchi, mamma. Il volume si placa: l’ha trovato. Lo punta al cielo come una lancia benedetta. Il grosso coltello da cucina brilla appena nell’unico raggio di sole che entra nella basilica di oscurità. Il dio nero delle angosce sta consacrando questa abitazione.
Ha lo sguardo vuoto, lo avvicina al braccio, ma le mie gambe scattano come due grosse molle ferrate, la blocco, non ha molta forza. Il coltello è di nuovo nel cassetto, ma ho negli occhi la lama che si avvicina alle sue vene, la pelle che freme al di sotto, il sangue allora inizia a irrorarsi nella gamba. La caviglia si gonfia, ma ho come l’impressione che non sia la sola. Sento il prurito che mi pervade, adesso accompagnato da un certo bruciore al petto, che scende giù per le braccia. Lievito, titanico sbotto, gigante avanzo verso quella bambina dai tratti stanchi e invecchiati. È così piccola adesso sotto il mio sguardo gigante, la vedo lontana, vicino al pavimento. Mi guarda dal basso con due grandi occhi grandi. Le grido parole di cui non ricordo il suono, di cui non capisco il significato. Immagino il mio viso rubicondo di furia, guardo il suo che invece è livido di paura. Con l’indice sono imperativo: in camera, e lei sgattaiola via.
Mi sgonfio, soffio fuori la rabbia nella solitudine della cucina. La sento singhiozzare di là. Mi accascio ai piedi del lavabo e piango. Nel frigno avverto un altro pizzicore violento, questa volta nell’avambraccio. Con le guance umide lo guardo: una larga macchia verde si sta estendendo verso il gomito. La scruto meglio, ha delle striature geometriche, ben tirate. Sembrano foglie, penso. Sono foglie, dico. Me ne da certezza nuovamente il tatto: l’indice passandoci su avverte una consistenza squamosa, ma più morbida.
Ho come l’impressione mi stiano crescendo delle felci sul braccio.
Lo passo sotto l’acqua. Quella, fresca, tiene a bada il dolore e chiarifica la consistenza di questo eritema eccezionale: sono decisamente delle felci quelle che vedo sul mio avambraccio.

Nella notte si accavallano le immagini di mia madre che con ghigno allegro si allarga la carne con il coltello, io sono lì che la guardo inerme, vorrei fare qualcosa, avvicinarmi magari, ma un’inflorescenza profumata si annoda tra le dita, cerco di aprirle senza risultato, perché – ora lo vedo – le radici doppie e coriacee si allungano fino a terra, il mio sforzo è vano, mia madre adesso ha le braccia aperte e ride di una felicità autentica, da quanto non la vedevo così solare, ma sanguina copiosamente, tra poco morirà, penso, ma le liane mi bloccano, alle mie spalle spunta il viso acuminato e biondo di mia sorella, dice solo due parole: è giusto così.
Mi sveglio in uno spasmo afono che mi decomprime il petto. Le mani che passo sulla fronte si inumidiscono di sudore perlaceo. Nel buio attraverso la casa, sento il respiro pesante di mamma che dorme. Non so che ore siano tanto gli occhi felini si sono abituati alla penombra, potrebbe essere l’alba come mezzogiorno. L’orologio in cucina segna le sei del mattino, piscio e mi sciacquo la faccia. Controllo le mie escrescenze con le quali sono sceso a patto: la caviglia elefantina, la nuca di fragola, l’avambraccio di felce. È tutto qui, a testimoniare non so cosa. Mi sembra si siano allargate, inspessite, mi stancano la pelle arrossata e infistolita.
Scrivo al dottore: mi chiami. E così fa dopo un paio d’ore. Ha la voce impastata, mi accorgo però che si sforza di mantenere un certo tono. Gli racconto tutto, dei miei eritemi floreali, degli attacchi di mamma. Sul secondo punto si defila scusandosi per non essere uno psicologo e subito dopo pronuncia nome e numero di un suo collega; sul primo punto invece dice solo che si tratta di ipersensibilità escrescenziale. È stato monitorato un solo caso nella letteratura.
E cosa dice questo caso, chiedo in un tono piuttosto piccato; spaventato.
Non dovrebbe morire, dice e il che mi consola.
Deve applicare una crema a base di cortisone, dovrebbe bastare.
Tutto qui. Penso. Ho una pianta sull’avambraccio, un frutto sulla nuca e basta del cortisone? La soluzione mi sembra sbrigativa, ma tant’è: il dottore mi saluta e riattacca, la sua giornata lavorativa è portata a casa. Mi guardo attorno, il mio avambraccio verdastro è la cosa più chiara in questa penombra gotica.

Chiamo mia sorella. Il cellulare suona a vuoto. Come sempre, sarà lei a richiamarmi quando ne avrà voglia o modo e la cosa mi disturberà, poiché in caso di necessità la sua presenza è soffusa, mitigata, quasi annientata. Quando penso che non si farà sentire, rispunterà la sua voce attraverso l’altoparlante dicendo che sta bene, che è felice, che si diverte. Dove, con chi, o per cosa, non lo sappiamo.
E così sull’ultimo squillo, decido di scriverle: richiamami, sto diventando una pianta.

Mia sorella non mi ha chiamato, per un tempo talmente dilatato che ho smesso di contare. La immagino felice nel suo idillio anarchico. Quanto è luminosa la sua rivoluzione, quanto di contro è scura la mia quotidiana monotonia. Guardo il soffitto su di me che si allarga in cupole scure, gargolla di carbone alitano zaffate di piombo, pronunciano bestemmie e bramiscono nell’aria. Mi sorprendo a pensare, in quelle lingue di fuoco nero che si allungano dai soffitti gotici della mia stanza, a mia sorella non più con rabbia o nostalgia. Sento irrorata nel sangue una nuova sensazione che si coagula nei punti del mio eritema, prudono di nuovo. Penso a lei con una specie di pacata rassegnazione nella quale il suo corpo che si allontana dalla cattedrale è sfolgorante di luce. La vedo allontanarsi verso un tramonto verdognolo, striato di smeraldi, posso quasi sentire la sua voce che mi avvisa che oltre l’orizzonte c’è un’oasi. Andrà lì, dice, così ammiro i suoi ultimi passi in direzione della luce come la più bella rivoluzione compiuta dopo Martin Lutero.
Mi guardo attorno, monolitico, e decido di aprire le finestre compiendo la mia personale azione sovversiva. Scaccerò le bestie sui soffitti e non mi chiedo quale possa essere la reazione di mia madre, penso sia adulta e che a tale sgarbo risponderà con una reazione matura. Le passerà, concludo.
Parto da quella d’entrata e la spalanco, oltre riesco a vedere il viso dei passanti, le case dei vicini. Mentre lascio che le persiane sbattano sul muro e che la luce mi bagni accecandomi, prima di richiudere la porta a vetri arriva anche un certo odore di aria fresca. Mi chiedo quale stagione sia, mentre avverto crescere il formicolio sugli eritemi, ma continuo ad ignorarlo. Benché spostandomi da una stanza all’altra mi baleni il dubbio che possano essere loro a muovere gli animi di questa rivolta.
Poi passo nella mia camera, in quella vuota e abbandonata di mia sorella, l’altra in cucina, quindi in salotto, infine arrivo nella stanza di mia madre. Nel buio chiaro riesco a vederla ancora una volta immobile a guardare il tetto, adesso sono sicuro che anche lei vede le gargolla, le sente ammansirla. La sorpasso con noncuranza, mosso da una certa cupidigia luminosa e ariosa. Mia madre con voce smorta e lineare mi dice di non aprire. Non l’ascolto perché sento un certo bisogno bruciante catalizzarsi lungo le braccia, nelle ascelle, al di sotto della mascella, quindi ripete: non aprire. Adesso ha il tono di un comando: non aprire, fa nuovamente, ma io ho come una sete bruciante in gola.
La ignoro, sto già aggeggiando con la maniglia. Un attimo dopo mi allungo verso la persiana, la spingo con le dita e nello stesso attimo sento mia madre che scatta dal letto. Con la coda dell’occhio la vedo balzare con un’agilità ferina, la stessa che hanno gli animali di fronte ad un pericolo. La luce inonda la camera da letto restituendomi i suoi dettagli assieme i ricordi della mia infanzia incastrati lì dentro. Per un piccolo istante chiudo gli occhi, potrei descrivere dettagliatamente la reazione carsica delle mie cellule, o piuttosto il loro movimento di apertura verso l’ossigeno luminoso, come una boccata dopo un’immersione, un timido ritorno alla vita.
Il maremoto di folgore però minaccia la stabilità di mia madre che come un animale notturno si nasconde nell’unico angolo d’ombra rimasto, dietro l’armadio. La guardo con una superiorità pietosa, inondato di aria e di luce. Avverto, mentre mi avvicino a lei con la stessa cura con cui ci si avvicina ad un puma, che le mie cellule vibrano adesso. La testa si alleggerisce, i polmoni si ampliano.
Mancano pochi passi, lei è un piccolo animale nell’angolo, accucciato con una banale illusione di protezione. Ha le gambe al petto, prima tremava, ma adesso noto che le sue mani si sono fermate. I suoi occhi mi fissano, le sue iridi si allargano ora irrorate da dopamina, bisognose di luce. Si muovono e individuo perfettamente ciò che stanno osservando: la mia caviglia, il mio avambraccio. Quindi improvvisamente si alza. Fuori dalla finestra sentiamo il fruttivendolo gridare che oggi ha cipolle fresche, con una cantilena ripetitiva. Si avvicina a me e mi sfiora il braccio, continuo a guardarle la testa dai capelli stanchi, bianchi e diradati. Poi si sposta alle mie spalle.
Sento un movimento netto, una specie di trazione, poi un piccolo rumore di qualcosa che si stacca. Mi volto e la sorprendo con una grossa fragola nelle mani.
Dovremmo lavarla prima, fa.
Sembra una bambina, vorrei abbracciarla, ma mi blocca dicendo: non devi preoccuparti più per me, altrimenti diventerai una pianta.
Mi pare di tranquillizzarmi con la stessa facilità con cui ho respirato aprendo le finestre poco prima, e mi sembra di sentire la caviglia sgonfiarsi improvvisamente. Succedeva anche a tuo padre, dice.
Ci guardo nello specchio dell’armadio adesso, abbracciati, cullando un’obesa fragola rossa. Vorrei porgerla al fantasma lucente di mia sorella, con un certo orgoglio e poi dirle: ecco, Amelia, la nostra fragile ribellione luminosa.

*Immagine di Vasco D’Ospina

Su Yasmina Reza: Arte, Il dio del massacro, Babilonia

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[Quest’anno il premio Malaparte è andato a Yasmina Reza. Quello che segue è il testo scritto da Giuseppe Merlino, membro della giuria presieduta da Raffaele La Capria, e letto in occasione della premiazione. ot]

 

di Giuseppe Merlino 

Sono consapevole della parzialità di questo elogio rispetto alla ricchezza dell’opera di Yasmina Reza. Farò una breve premessa in tre punti.
Un libro famoso, tradotto in Italia negli anni ’80, scritto da un sociologo polacco sfuggito alle stragi naziste, Norbert Elias, si intitolava La civiltà delle buone maniere, che venivano intese come una struttura fondamentale della “civilizzazione”: laboriosamente emerse nelle società di Corte italiane, si erano poi diffuse in tutta l’Europa, per imitazione.
Di recente un filosofo tedesco, impertinente, Peter Sloterdijk, ha scritto un libro dedicato all’ira e alle sue forme, Ira e tempo (2018), e ha formulato un nuovo incipit della nostra storia occidentale (e non solo), l’altro essendo quello del Vangelo di Giovanni: in principio erat Verbum; il nuovo incipit lo sostituisce con un in principio erat Ira: l’ira di Achille, certo, origine del poema omerico e della letteratura occidentale; ma anche l’ira di Dio, nella Bibbia, che si manifesterà nel Giudizio Universale, dies irae; e poi l’ira delle masse, capitalizzata storicamente dai giacobini (1789) e dai bolscevichi (1917), insomma dalla Rivoluzione, senza dimenticare il dimenticato Mao Tse Tung.
Ma rispetto a queste grandi “Banche dell’Ira” che ne è oggi della formidabile energia della Collera (da koléra=bile)? La situazione è molto diversa, e la risposta del filosofo è che, oggi, l’energia dell’Ira è dispersa, non organizzabile, e che la nuova Internazionale è un’Internazionale misantropica e malinconica; atrabiliare, con le sue articolazioni di malumore, carattere irritabile, permaloso (da: per male), suscettibile (da suscipere = prendere su di sé), e maniere brusche; e con i connessi sentimenti di superfluità sociale e di indifferenza. Altri hanno parlato di una guerra civile molecolare (Enzensberger), di un clima di avversione amorfa, di una competizione pulviscolare, e perfino di un nuovo cogito: irrito e mi irrito, dunque sono. Il paesaggio nel quale abitiamo è/sarebbe quello di un individualismo rancoroso, solitario e vendicativo: da lontano, forse, ci guarda stupito il conte di Montecristo che nell’ultima pagina del romanzo rinnega la sua calcolatissima vendetta e la giudica oltraggiosa: quis ut Deus? Insomma non si avrà una visione sociale consistente se non si riconosce come e quanto l’uomo disturbi l’uomo nella frizione continua di una vicinanza odiosa!
Per chiudere questa premessa, cito un solo verso da un formidabile testo teatrale, il Misanthrope (1666) – è Alceste, il misantropo, che parla: Je veux me fâcher et ne veux point entendre (atto I, scena 1, vs. 5) che tradurrei: “mi voglio arrabbiare e non voglio sentire ragione!”. L’ira, si vede, è una passione (perciò è anche un peccato capitale) e rimane un’energia anche se è isolata e depotenziata; non c’è galateo stoico che la trattenga.

Vengo subito a Yasmina Reza e a un suo testo teatrale perfetto, Arte (2009), nel quale mi è sembrato di leggere un Misanthrope dei giorni nostri.
Tra due vecchi amici, Marc e Serge, molto legati, si scatena un litigio violento, insolente, quasi inconciliabile, perché Serge ha comprato un quadro – un monocromo bianco – di un artista contemporaneo, esposto anche al Beaubourg, per una cifra considerevole per lui, se non per il mercato. Marc, il suo grande amico, giudica il quadro grottesco, risibile, e deplora vivamente che il suo amico sia vittima del grande snobismo in voga: diventare un “collezionista” d’arte contemporanea e godere anche di un upgrading sociale; fin qui il litigio è molto proustiano, ruota intorno al prestigio sociale, e penso all’amicizia tra Bloch e il Narratore nella Recherche. Marc denuncia, col furore di Alceste, l’impostura dell’oggetto acquistato (una “merda”) e delle ragioni di quell’acquisto; e, senza persuaderlo ma accusandolo con una sincerità feroce, vuole sottrarre Serge all’imbroglio dell’arte e riconquistare la centralità che lui, Marc, aveva ottenuto nella mente e nel cuore di Serge.
C’è un terzo personaggio: Yvan, sommerso da inquietudini matrimoniali, familiari (le donne che lo circondano sono tutte temibili primedonne) e professionali (cambiamenti di lavoro repentini). Da lui, come terzo, si pretende un giudizio sullo scontro in atto, e sempre più furioso. Yvan recalcitra e invoca la tolleranza, Marc la depreca: si scrive “tolleranza”, dice, ma si legge strafottenza o odiosa compiacenza. Yvan, per Marc, è un ruffiano servile, un’ameba (complice il suo psicanalista), un uomo spugnoso, ibrido, ambiguo, insomma un vigliacco. Ira e gelosia, alleate, esecrano i tiepidi, i riduttori di intensità!
Chi è Marc? È colui che resiste al proprio tempo, è intransigente (eroico?) nella sua solitaria opposizione al mondo così come va; è un virtuoso del sospetto; un teorico dell’amicizia come reciproca ammirazione, con un’asimmetria, però: uno dei due amici è più ammirevole dell’altro, e questo è lui, è l’amico magistrale. È l’Alceste del 21° secolo, con il suo esprit contrariant: «(Marc a Serge) C’è stato un tempo in cui eri orgoglioso di avermi come amico…Amavi la mia stranezza, la mia propensione a starmene appartato. Ti piaceva esibire la mia ruvidezza in società, a te che vivevi in modo così normale. Ero il tuo alibi. Ma… alla lunga, a quanto pare, questa specie di affetto si inaridisce… Con la vecchiaia, conquisti la tua autonomia… (…) E io odio questa autonomia. La violenza di questa autonomia. Mi abbandoni. Vengo tradito. Sei un traditore per me.» (Y.R., Arte, trad. Federica e Lorenza Di Lella, Adelphi, 2018, p. 83).
E Serge chi è? È un recente appassionato di arte contemporanea, usa categorie post-moderne come decostruzionismo; rifiuta l’idea di essere nel flusso di una moda; sacralizza l’arte (“idolatra”, lo accuserà Marc) pur riconoscendone i maneggi mercantili; e gode, tacitamente, di esordire come collezionista.
Insomma, al centro di Arte c’è la peripezia di un’amicizia possessiva e gelosa, in cui l’amico è il grande specchio “buono” in cui l’altro si riflette con piacere e si riconosce in un appassionato narcisismo. L’appannarsi dello specchio dell’ammirazione si chiama tradimento. Taccio il finale e la sua brillantissima soluzione; dico solo che l’amicizia tra i due ritrova un po’ di calore e il quadro monocromo viene reinterpretato come la traccia di un’assenza umana in un paesaggio innevato, addirittura come un quadro (post-) figurativo. Serge tiene più a Marc che al quadro? A costo di un piccolo inganno? Tutti sistemati? Così sembra!

Vengo a un’altra pièce perfetta e celebre, Le dieu du carnage, scritta nel 2007.
Siamo in una casa borghese, a Parigi, dove due coppie si incontrano per discutere e risolvere una vicenda che riguarda i loro figli undicenni: uno dei due, escluso dalla banda di compagni, guidata dall’altro, perché accusato di aver fatto lo spia, colpisce il compagno con un bastone; risultato: un labbro tumefatto, la rottura di due incisivi, e il nervo di un terzo dente scoperto.
La scena si apre con frammenti di consueta cortesia e di civile ovvietà, ma velocemente si arriva a ingiurie sanguinose, a gesti violenti contro gli oggetti (occhiali, borsa, portacipria, tulipani, libri…) che, nelle intenzioni, sono rivolti contro i corpi dei presenti; e le dichiarazioni di principio, lodevoli e progressiste, sono smentite nella pagina successiva, poi sbeffeggiate apertamente (Y.R., Il dio del massacro, trad. Laura Frausin Guarino-Ena Marchi, Adelphi, 2011, p. 86 «…Veniamo qui per sistemare le cose e questi ci insultano, ci strapazzano, ci fanno lezioni di cittadinanza planetaria, nostro figlio ha fatto bene a riempire di botte il vostro, e con i vostri diritti dell’uomo mi ci pulisco il culo!»), e si arriva alle percosse tra i coniugi (p. 73, «Véronique si avventa sul marito e lo picchia diverse volte, con disperazione scomposta e irrazionale»).
Véronique, la più rigorosa sostenitrice della civile convivenza (prepara un libro sui massacri nel Sudan ed espone dei table books molto sofisticati) è coinvolta in una doppia rissa: quella coniugale, e l’altra con i genitori del bambino violento; esasperata, però, teorizza la fatuità delle sue stesse idee: «Comportarsi in modo civile non serve a niente. La buona creanza è un’idiozia che ci rammollisce e ci rende deboli…» (p. 53), e si arruola tra i fedeli del dio del massacro.
Due forme di iracondia si intrecciano nella pièce: quella interna alla coppia («Michel. Io dico una cosa, la coppia è la cosa più terribile che Dio possa infliggerci.»; p. 66), riflesso di una più vasta inimicizia tra maschio e femmina (si pensi all’aforisma di Ceronetti, «i cristiani, aboliti i giochi dei gladiatori, inventarono il matrimonio»), e quella esterna, tra le due coppie di genitori.
Le posizioni non sono compatte: ci sono intese fugaci tra le due donne che irridono i modelli di virilità lodati dai mariti: Ivanhoe e John Wayne con la sua colt; e dall’altro lato ci sono le intese gradasse e labili tra i due mariti che si vantano di voler andare “fuori di testa” e di riuscirci, «Michel… Abbiamo fatto i simpatici, abbiamo comprato tulipani, mia moglie mi ha camuffato da uomo politicamente corretto, ma la verità è che sono del tutto privo di autocontrollo, sono uno che va fuori di testa.», (p. 57).
È un irresistibile strip-tease di brutalità millantata e di impulsività mascolina, incoraggiato da un ottimo rum invecchiato, Coeur de Chauffe (nome allusivo), che piace a tutti.
Nell’andamento dell’incontro, in cui circolano rabbia e disprezzo, irrompe la voce del corpo; Annette, madre del piccolo aggressore, colta da nausea, ha un violento conato di vomito; un getto prepotente e catastrofico investe suo marito Alain e i preziosi cataloghi sul tavolino: due bersagli del suo maggior disprezzo: la superficialità vile dell’uno e l’ostentazione vanitosa degli altri. È un segnale del suo disturbo interiore; è un’aggressione che non può essere punita perché è fisiologica; è un sintomo del più vasto disgusto che Annette ha di sé e dei suoi tre interlocutori; un tempo ci sarebbe stato uno “svenimento”, cioè un’assenza o un’evasione, qui c’è una presenza, attiva e nauseabonda, in perfetto accordo con la situazione.
I figli restano in ombra nel corso di questa visita: sono poco conosciuti dai loro genitori, gli “stronzetti” sono più tollerati che voluti; sono pretesto per enunciazioni morali e nobili principi; infine scompaiono dal campo di battaglia degli adulti!
Un’osservazione che ricavo da questa pièce, perfetta e crudele, è che la rissa (per i greci la Rissa era la dea Eris, dea della discordia, sorella di Ares, dio del massacro) non ha una conclusione, è un loop, non si estingue ma si esaurisce solo se e quando i contendenti soccombono esausti, letteralmente scarichi.

Vorrei solo accennare a un altro libro di Yasmina Reza, Babilonia (trad. Maurizia Balmelli, Adelphi, 2016), un romanzo, e nominare poi il suo libro più recente, Serge, del 2020 (Flammarion).
Sono due storie, ma soprattutto due voci che raccontano, una femminile e una maschile.
Elisabeth, la voce femminile di Babilonia, racconta la storia di Jean-Lino Manoscrivi (francese, di origine italiana, ebreo), un vicino di casa, a cui si è affezionata per la sua mitezza e la sorridente timidezza. È diventato un amico e lei ne intuisce il desiderio, mortificato, di dedizione e di amorevolezza; un desiderio senza destinatario: solo un gatto scostante e un bambino sprezzante. Il desiderio di prendersi cura di un “vivente”, represso e deriso, si ingorga ed è, forse, la causa del gesto automatico di Jean-Lino: dopo una discussione aspra, nata dalla permalosità di sua moglie Lydie, la soffoca fino a farla tacere e morire.
Elisabeth non si sottrae allo smarrimento di Jean-Lino, entra nella scena tragica, (contro l’opinione del marito Pierre che, constatata la morte di Lydie, torna a dormire), è disposta a compromettersi in un tentativo sconclusionato di occultare ciò che è accaduto. Ma, tra lo slancio verso l’amico e la tutela di sé, si fa strada il pensiero di abbandonare Jean-Lino al suo destino giudiziario.
Interrogata più volte dalla polizia, dal giudice e dagli psicologi, Elisabeth si trova a ricomporre la propria autobiografia, ritrovando immagini che credeva abolite; sono tutte immagini di situazioni, in situ, di paesaggi con figure; se scontorna le figure dal paesaggio esse si dissolvono; è un modo per dire che la vita è implicazione e interazione, e che la memoria è spaziale. Questo romanzo è dedicato, implicitamente, a due grandi fotografi di strada americani, citati ad apertura di libro: Garry Winogrand e Robert Frank! Il paesaggio illumina il personaggio, scrive Yasmina Reza.
La conclusione di Babilonia è una meticolosa ricostruzione, a fini giudiziari, della notte in cui Jean-Lino strangolò sua moglie, di ritorno dalla festa di compleanno di Elisabeth, al piano di sotto. È una replica maniacale, ricostruita fino all’eccesso, come se l’identico svelasse il vero. La replica del delitto viene fotografata con diligenza e didascalie, a fini processuali; ogni elemento di questa simulazione ne aumenta l’aspetto artificioso e surreale; la scena non è più tragica né comica; è solo non-umana, è un evento dissanguato, marionettesco. Jean-Lino, sensibile al “paesaggio”, sembra “impagliato”; questo è l’effetto della parodia quando non sa di essere tale!
Ma nello sguardo di Jean-Lino che viene riportato in carcere, ammanettato, nell’auto della polizia, e che ha giocato all’automa fino a quel momento, brilla una scintilla di malizia: è uno spiraglio di vita, momentaneamente interrotta ma non estinta. Valeva la pena di essere amica di Jean-Lino!

Infine, Serge: è il romanzo di una fratria, di tre fratelli ebrei non religiosi. Dietro di loro ci sono i genitori e davanti i nipoti, le tre generazioni necessarie per un romanzo familiare. I tre fratelli sono Serge, Jean e Nanà.
Jean osserva, aiuta, ironizza e racconta.
Nanà rispetta le regole della commozione, delle buone pratiche e del turismo della Shoà.
Serge: un uomo difficile, in difficoltà sentimentali, fisiche, economiche, è fobico, superstizioso, infingardo, bulimico, irritabile, incontinente, atterrito dall’ignoto che lo circonda e lo tiene in pugno, perdente senza gloria, guastafeste, e indimenticabile.
Una grande scena del romanzo è il viaggio collettivo ad Auschwitz, in pieno orrore turistizzato; il viaggio racconta molto più dei tre fratelli che non del campo di sterminio. Di quelle pagine ne segnalo due, perfettamente flaubertiane, sul disagio di una giornata passata in una Cracovia affollata, multietnica, turistica e canora. Un’ordinaria banalità con lampi di desolazione.
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Capri
Certosa di san Giacomo
3 Ottobre 2021

 

Petrolchimico

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di Carlo Alberto Frassanito

Un antroponimo e vagamente protorepubblicano, qualcosa come Arnaldo o Palmiro, ma meno esplicito, per non scivolare nell’allegoria prima e, dio ce ne scampi, nella satira poi. Enrico Rumor – ne si ignori pure la facile ironia.

Enrico, dunque, si avvide in un’afosa serata d’agosto, e si potrebbe indugiare sui particolari relativi al luogo in cui tale agnizione si avverò (una terrazza affacciata su un quartierino provinciale e ridicolo) oppure descrivere i gesti che si compivano durante la riflessione (l’accensione macchinale di una sigaretta); si avvide che l’ideologia di cui si era nutrito e che spesso e volentieri aveva rimpiazzato più usuali aneddoti da salotto, non tanto per épater ormai inépatibili presenti quanto per ostentare una tutta presunta genialità, quest’ideologia dico, contaminava la sua esistenza più di quanto si fosse mai concesso di ammettere. 

La merda, in sostanza, lo intossicava da anni, anni che gli apparvero come secoli in quell’epifania. Eppure mai gli stessi bisturi che con talento quasi accademico aveva posato sui cadaveri mediocri di quanti non lo circondavano, lui li aveva incisi nella sua propria carne. Il sangue già schizzava mentre Enrico, con esitazione puerile, conteggiava le ore che quell’idea, percepita sino ad allora così impalpabile e distante, ci aveva messo per avvicinare una tale lancinante concretezza.

Uccidere il padre, fare a pezzi la Legge da subito, senza lasciarla per gran dessert, onde evitare l’imbarazzo di apparire (ancora una volta) sofoclei. Cenni biografici su Romano Rumor: pollone di borghesi anche più minuti di lui, formazione classica per inerzia, sentimenti politici ma del tutto esteriori (un parka e una camiciola fregiata delle citazioni di Mao, in vista, s’intende, della Rivoluzione, malgrado l’autunno caldo lo avesse poi lasciato essenzialmente freddo – come Enrico, era d’altronde un uomo contemplativo), letture, queste sì meno sbrigative, dalla vulgata francofortese, e in special modo dall’erotodidattica frommiana. Gli anni del reflusso lo avevano infine relegato in un asfittico ufficio pubblico, dove era sopravvissuto non tanto negando per partito preso ogni ambizione privatistica, quanto vagheggiando un ritiro nella campagna sabina.

Enrico si sforzava di odiare quella figura dalle mani così benevole e così detestabili, eppure l’unica affezione che lo percorreva era la nostalgia per un ricordo mai vissuto: Romano, febbricitante e incappottato fino ai denti, nell’inverno del settantatré, l’anno in cui aveva fatto la pleurite, ad aspettare al gelo la sua ragazza fuori da un cinemino in cui si replicava Il dottor Živago. Lo stava rammentando come in una visione, lo stesso leitmotiv e la stessa neve de Le notti bianche di Visconti, il volto della sua futura madre trasfigurato in quello di Maria Schell.

Dalla postura moralistica che aveva assunto, Enrico non poteva ora che sporgersi verso il basso, contro un baratro dal rancore sordo, senza spasimi. Se in passato non c’era stato verso, impossibile supporre un povero stronzo, un maschio incapace persino di allacciarsi le scarpe della festa, ripudiare quella santa donna – perdonare i cliché solo qualora autentici: tutte le madri del Sud sono o vergini addolorate o femmine in odore di canonizzazione – adesso tutta la vicenda, squisitamente in accordo con lo Zeitgeist, acquistava una dimensione esatta e incredibilmente ponderabile, uno schema quasi confortante nella sua cristallina intelligibilità.

Il tradimento del focolare non lo sconvolgeva poi tanto, lo imbestialiva piuttosto la beffa di essere sopravvissuto al padre, ma derubato finanche del conforto di un feticcio, per quanto castrante, di intatta esemplarità. Il Potere, e buona prassi obbligherebbe qui a impiegare una dizione se non altro meno naif, non si era limitato a cannibalizzarglielo – non ne avanzavano a riprova né scheletri né reliquie – gli aveva invece sfigurato i connotati con diligenza da macellaio. 

Ripensava al Philips, lasciato spento nel cuore degli anni Ottanta, e al silenzio sovrastato da una voce lievitata: replicava quella nuova di un piccinnu in preda ai perché. Non se ne sfornava che un enciclopedismo ingenuo, mai più in là di una socratica ammissione di insipienza, dalla poetica di Palombella Rossa alla meccanica dell’asciugacapelli.

D’altronde era proprio dall’ordine del discorso, già fatalmente sovvertito, che Enrico aveva presentito tutto, molto prima del disonore. Quel prendere umido frignandosi addosso, i «sogni mai realizzati», i «rifarsi una vita», le «occasioni mancate» erano soltanto il preludio di una Bovary riscritta, che ne so, da Boncompagni. Nel seguito, come da copione, il lessico paterno aveva semplicemente rivelato il suo debito con la Bolognina e non c’era davvero alcuna ragione di stupirsi, lavorando more geometrico, se l’amore coniugale e la paternità si erano assottigliati fino allo spessore di una brochure.

L’intera vicenda, e questo Enrico lo sapeva bene, poteva avere l’aria dell’ennesima banalità, della mera cazzata, confortata peraltro dall’esempio di innumerevoli e illustrissimi precedenti. In fin dei conti, a scandalizzarsi di un sessantenne bavoso che pianta baracca e burattini per una ballerina non restavano neanche più le professoresse di latino antiabortiste (otemporaomores), ed Enrico non era certo il tipo da concedersi il diritto o il piacere allo scandalo. Da buon intenditor di sé, lui stesso qualche momento prima avrebbe declassato quella sua privata rivelazione a buon pretesto per inedite recriminazioni, vecchia ma sempre godibilissima abitudine. 

E tuttavia l’aneddoto paterno lo penetrava ora con eccezionale violenza, quasi che lo rivivesse in sé per la prima volta dopo svariati anni. Era come avvertire, a tratti, il fiato corto, la grassa raucedine di una risata oscenamente sguaiata. Non si trattava di un imperativo o di un divieto, era un’esortazione untuosa, liberatoria e celerina insieme, l’apologia spudorata della possibilità, ecco. Godi, anima stanca di tacere (da leggere con fare perlomeno canzonatorio). 

A quest’altezza, pure il meno avveduto se non altro lo intuisce, l’eventualità che l’Enrico Rumor metta scarpe e cappotto, prenda e vada via, rappresenta in potenza un rischio reale. La tentazione, fuor di metafora, di cadere nella novellistica spicciola diventa forte, una volta incrociato, quasi per combinazione, materiale all’apparenza così promettente; e d’altra parte non esiste diritto più sacrosanto al domandarsi dove perdio si voglia andare a parare. 

Se non fosse che il temperamento riluttante, anzitutto nei confronti dell’azione, dell’Enrico Rumor in questione escluda de facto qualunque sviluppo non puramente teoretico, motivo per il quale la maschera potrà fare unicamente quel che in effetti poi farà: tirare la prima boccata di fumo, perseverare come statua di sale.

E, per l’appunto, Enrico già ricascava nei vecchi schemi, un’altra volta nella rassicurante autoreferenzialità, riprendeva a costruire i suoi castelli a quella sua maniera così volgarmente speculativa: la liberazione sessuale, il referendum del settantaquattro, miscelfucò etcetera. Questa volta però, si diceva, non avrebbe ceduto ai sentimentalismi, avrebbe profittato di quell’occasionale lucidità, almeno fin tanto che fosse durata. E non per coraggio, talmente distante dall’immagine che aveva di sé, piuttosto per disprezzo di quella particolare forma di apostasia che consiste nell’abbandonare le cose a metà. 

Un’occhiata, gettata in quel momento oltre la ringhiera, lo riportava d’acchito alla corporeità. Fissando dirimpetto i condomìni ingialliti nella penombra dei lampioni avvertiva una sensazione carnale di conforto – contraffatta ça va sans dire. Braccia e gambe si facevano più leggere, il respiro a poco a poco meno asmatico.

Si domandava – e ne rideva, cazzo se ne rideva – come la veglia che stava sperimentando avrebbe potuto esperirla in altro luogo, in altro tempo oltre a quelli in cui si trovava, se non fosse poi un’ironia persino troppo tragica quella di trovarsi a sfottere il secondino esattamente nel cesso, proprio durante l’intermezzo, che con generosità il secondino gli aveva concesso per pisciare. 

Per lui, del resto, così come per tutti gli altri mammiferi a contratto suoi pari, non esistevano che due stagioni, la bella e la brutta, entrambe insoffribili. Con che puerilità, adesso finalmente lo poteva sospettare, durante la brutta (e figurarsela nel gelo di una capitale nordeuropea o in mezzo al nebbione del varesotto poco importa ai fini del nostro ragionamento) si era costretto a desiderare la luce della bella, quanto talento era servito a ogni partenza per rimpiangere una terra biblica, quanta retorica per qualificare ogni rimpatrio un nostos.

Enrico non era un idiota, almeno non nel senso ordinario del termine, sapeva, se più per esperienza diretta oppure per cauto disfattismo non avrebbe potuto dire, ma sapeva che nella sua Colchide non restava che il puzzo dell’antico dolore, un rigurgito della passata amarezza. Eppure si ostinava, manco a farlo apposta, a vederci una landa obsoleta, una nazione preistorica, antistorica si sarebbe corretto, popolata ancora da Signori obesi intenti a comporre metafisiche e Servi zeppi di poppanti sfamati a latte di capra e limoni. (È vitale non farsi prendere la mano da vezzi di pure lontano gusto meridionalista, neanche per moventi di pretestuosa immedesimazione). 

Dimodoché, ogni qual volta rincasava e vi scopriva esultanti futuristi in luogo degli attesi idoli nudi e analfabeti, finiva immancabilmente per invidiare il Nord nella sua ripugnante, quanto scoperta, attualità. Quegli interminati grand tour, che nelle sue fantasie più spinte si fingeva sotto canicole di carne cruda oppure a costa di acque sbiancate e infeconde, si risolvevano sempre, e neanche troppo a malincuore, in un requiem in suffragio della fame sepolta sotto i villaggi vacanze e i parcheggi, del Frazer immiserito a folclore. – Tanto, va detto, aveva potuto la suggestione di certa narrativa bucolica consumata in età forse sin troppo precoce.

A fronte di quel richiamo per così dire politico, quindi, Enrico si limitava a riconoscere, con piglio un po’ grottesco un po’ eroico, di non essere poi molto meno di un vacanziere dentro a quel Paese di cui non sapeva più riprodurre il sì (due o tre vocali ostentatamente chiuse, la esse scempiata e un buon numero di calchi esteri innestati su di un marcato accento meridionale gli davano ormai l’aria di un apolide cresciuto dappertutto e dunque da nessuna parte) né ripetere le buone convenzioni di pessimo gusto. La sua, doveva concludere, non era stata che l’ennesima prova di autoerotismo, benedetta semmai dalla memoria di una stagione che con ogni probabilità non era mai fiorita, se non chissà per indurre un lutto a buon mercato o un’abdicazione definitiva.

Chiaro che a un simile stato di prostrazione poco o per niente giovava l’isolamento, al quale Enrico aveva aderito in ragione di una non meglio precisata urgenza di clausura, ancorché di reclusione si sarebbe in realtà dovuto parlare. E l’attardarsi in una vecchia cameretta con le sbarre alle finestre, tra libri del ginnasio e pile di Dylan Dog, avrebbe acuito il timido cinismo di chiunque si fosse prima convinto della necessità di proscrivere uno per uno i propri simili nel novero degli “altri” e solo in seguito capacitato che erano stati gli “altri”, invero, a buttarlo fuori dal consorzio umano a calci nel culo.

Gli ultimi incontri ravvicinati – andava a naso – risalivano perlomeno a una decina d’anni prima. Gliene sovveniva uno in particolare, di cui avrebbe volentieri smarrito il ricordo: una cena fra amici (si tratterebbe, a voler essere esatti, di quelli che si suol chiamare amici da una vita, per via del privilegio che hanno di non frequentarsi abbastanza) alla quale aveva preso parte mosso soltanto dall’ambizione di ritrovare per la prima volta in uno spazio materiale ognuno di quei braccianti d’alto bordo seminati per il mondo, da cui un tempo aveva ricevuto il saluto contraccambiandolo poi con l’offerta di un affetto servito, per strizza naturalmente, in telegrammi incostanti e stipati di collera. 

Dal convito, di rara inutilità, Enrico aveva avuto occasione di osservare da vicino quello che in gioventù aveva giudicato il meglio che dell’umano, nella misura di un criterio a suo dire morale, era riuscito a scovare. All’epoca dei fatti, stando agli scarsi risultati di quella privata selezione artificiale, non si era saputo decidere se fosse stata la sua moralità negli anni a irrigidirsi, oppure la vita-lontano-dalla-provincia a deturpare i visi sfatti, i capelli meno folti e i seni un po’ più avvizziti di quei carissimi terzaviisti che lo fissavano intorno alla tavola apparecchiata – in questa sua rappresentazione del divenire (revival della storia andata) resisteva, neanche a dirlo, una certa perseveranza a considerarsi estraneo, vale a dire, in più franche parole, superiore.

Tant’è, l’amena serata era trascorsa senza intoppi, filata liscia in mezzo a un coro di simposiasti moderatamente impensieriti, e non per questo meno giulivi, da (in ordine sparso): l’aggiornamento del curriculum, l’iscrizione della bambina in piscina, il rendimento di un pacchetto azionario, il bando di un secondo dottorato a Leida, una sgradevole allergia al lattosio. Per parte sua, Enrico si era deciso per un’opposizione di solidarietà nazionale, era intervenuto di rado e soltanto se interpellato, contentandosi di proferire, in tono né stanco né contrariato, qualche minchiata su quanto si sottovalutasse la pioggia e lo irritassero le molestie degli operatori telefonici. Per amor di patria si era astenuto da qualsivoglia rappresaglia verbale e ne aveva riscosso in cambio un attestato di stima per il modo in cui dimostrava la sua età. 

– Due parole su quella giovinezza di cui Enrico aveva pressoché piene le palle: non si parla di parteggiare per l’una o l’altra fronda del cosiddetto conflitto generazionale (padri/figli, pensionati/stagionali, partigiani/astenuti per intendersi), ma di attemparsi volutamente perché non si reggono più le opportunità, le canzoni sui vent’anni, il canone d’affitto e la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Si parla di volere indietro qualcuno di quei cari Catoni che ci credevano un branco di frocetti buoni soltanto a drogarsi, di auspicare una mozione alle Nazioni Unite per la decolonizzazione di cotesta età fiorita. Tutto qui.

C’erano pur state giornate di refrigerio in cui tenere lunghe disquisizioni completamente svestiti, Enrico le ripensava ora con rimorso. Ma vuoi perché sotto sotto se n’era fatto un vanto di quella fedeltà non richiesta, vuoi perché a un godimento plausibile aveva sempre anteposto un supplizio mancato, lo lasciava insensibile la prospettiva di trovarne di nuove. 

Preferiva di tanto in tanto, invece, compiacersi dello strazio che gli procurava la mancanza, un po’ come un buco nel cappotto che non ci si arrende ad accomodare con una toppa, dacché, in fin dei conti, l’inverno non viene che una volta l’anno e il gelo dopotutto rinfranca.

Quel buco, in effetti, aveva nome Anita, sebbene più volentieri Enrico lo menzionasse con gli appellativi di Eleonora, Livia o anche Lucio, a seconda del caso e dell’umore. Aveva cominciato all’università, quando lei bazzicava ancora le filodrammatiche e a lui era sembrato quasi naturale metterle le parole in bocca (il fatto che fosse una donna lo aveva reso solo più facile). 

Il gioco delle parti donava talmente a entrambi, che non avevano esitato a scimmiottare i morosi della Capponcina prima e a impiegare, senza accortezza alcuna, frasi da romanzo poi. Quindi la mimesi aveva preso il sopravvento e alla lunga le coppie illustri si erano moltiplicate: Mogol-Battisti, i coniugi Andreotti – mentre di Anita a mano a mano non era rimasta traccia. Rarefatta dietro le parole di un maschio, ne era diventata inconsapevole una sorta di epitome o, fa lo stesso, di amante.

Per innegabile vanità, allora Enrico non se n’era lamentato poi troppo, aveva semplicemente sospeso le sue convinzioni alla vista di cotanto servilismo; si può dire anzi che ne avesse approfittato, nell’ebbrezza onnipotente di fare del mondo a propria immagine e somiglianza. Se e quando l’impotenza logorava, avanzava almeno il rifugio di un duo che, a giudizio unanime, era il più affiatato sulla piazza. 

Adesso non poteva davvero biasimarla se in certe ricorrenze (feste comandate, giorni natali) non aveva voglia di rispondere o richiamarlo, tardi ormai per discolparsi. Avrebbe dovuto antivederlo che un altro prima o dopo sarebbe sopravvenuto, d’un genere meno epistolare e più d’appendice, uno che almeno non le si addormentasse al fianco. Tanta felicità, in fondo, andava scontata. 

E non c’era dubbio che pure avesse influito la proposta di una sessualità anticonvenzionale, non inquadrabile, in sintesi, nel piacere onnipervadente o nella copula capitalizzata; per questo, un giorno o l’altro, se l’aspettava di riconoscere nella buca delle lettere (a quale indirizzo poi) una partecipazione o l’annunzio di un battesimo.

Sul serio, non tirarla ancora per le lunghe e senza per questo pretendere di aver detto quanto c’era da dire, non millantare alcunché, in ispecie conclusioni. Qualora, a epilogo, uno si sentisse in debito di un colpo di scena, potrebbe trovare doverosa una conflagrazione universale, per finire in bellezza e senza tema di apocatastasi. Diversamente, se il lieto fine avesse fatto il suo tempo, non rimarrebbe che optare per l’attesa: un interminato piano sequenza su una sovrumana coda al casello o allo sportello delle Poste. Nell’uno e nell’altro caso, nondimeno, la svolta sarebbe interdetta e non soltanto per le ragioni sopracitate (nessun allegorismo, fedeltà alla dura cartapesta etc.), ma pure per il ben riposto terrore di averla già audita – la svolta – e già faticosamente peristaltizzata, in qualche antologia di narrativa generazionale per esordienti sotto i trenta.

Enrico, dunque, si arrese in un’afosa serata di agosto, e si potrebbe indugiare sulla superfluità di un’imbarazzante quanto fastidiosa composizione ad anello, ma si arrese e non sulla scorta di motivazioni di finanche vago ordine realpolitico (è bene ribadirlo), bensì in ragione di sopravvenute condizioni di debolezza in primo e più doloroso luogo morale. 

Nell’atto di prendere l’ultima boccata, allora, si figurerà nella memoria Fräulein Kassel, con tutto il suo scomposto corredo di musi lunghi, tagli corti, scarpe basse e alte aspettative, affacciata come al suo solito dalle stanze in Corso Càvour. Quando, invece, si deciderà a espellere i prodotti tossici e francamente stomachevoli di quella combustione, sarà il retrogusto amarognolo a precisare meglio i contorni di quella creatura filoteutonica, a inquadrarne l’ethos manzoniano, l’evangelismo reazionario ma di buone intenzioni. 

Così, al contempo, le feroci discussioni a proposito della volontarietà du clochardage, della rimozione cattolica dei conflitti materiali, della colpevolizzazione premeditata dell’individuo e di altre pari e simili stronzate passeranno vivaddio sullo sfondo. Riaffioreranno, piuttosto, i gesti forzatamente sgraziati, e giustificabili soltanto nel tentativo mal riuscito di occultare un impeccabile pedigree, il rigetto deliberato di qualunque arrangiamento consolatorio del credo cristiano o, fa lo stesso, la serena e rassegnata accettazione del Male in questa vita, la fede, quella sì incrollabile, in certe visite ai musei del posto nei giorni più torridi dell’anno. Il tutto, poi, accompagnato da un crescente sentimento d’invidia.

Per forza di cose, infine, ed ergo senza diritto alcuno al recesso, Enrico Rumor pesterà il mozzicone sull’intonaco scrostato del parapetto e, facendolo, si scoprirà colmo d’insospettata ammirazione, in qualche misura fors’anche commosso nel passare in incantata rassegna i mille e più sprovveduti progetti per l’avvenire della suddetta Fräulein. Probabilmente gli si stringerà il cuore alla prospettiva di un matrimonio in parrocchia con un pittore mortodifame, prima di – quanti? perlomeno due o tre parti senza epidurale. Per la lettura nuziale, a dimostrazione dell’assoluta mancanza di calcolo di una tale commedia, il giglio nel campo…l’uccello nel cielo.

David Foster Wallace e gli incisi [#1]

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di Nicolò Cattaruzzo

Scelte incisive

In A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again l’uso di incisi (racchiusi tra virgole, parentesi e trattini) per commentare, integrare e specificare è molto ricco, inventivo e variegato e se questi incisi venissero eliminati la narrazione risulterebbe scarna, priva della forza e dell’ironia che invece acquisisce grazie all’uso abbondante, pieno di inventiva e non dogmatico che Wallace ne fa.

Di seguito ho scelto e commentato alcuni esempi che ritengo tra i più significativi, iniziando dalla versione originale per poi analizzarne la resa nella traduzione in italiano.

Traduzione italiana

Riporto in italiano gli stessi esempi già citati in lingua originale per osservare le somiglianze e le differenze tra le due versioni. Anche se nella traduzione di Francesco Piccolo e Gabriella D’Angelo (minimum fax 1998) alcuni incisi sono scomparsi o sono stati resi differentemente mantengo l’ordine con cui li ho presentati in precedenza per poter seguire il confronto più facilmente.

Incisi per specificare e commentare

In questi casi Wallace usa tutti gli strumenti possibili: virgole, parentesi e trattini. Le frasi funzionerebbero anche senza gli incisi ma il loro significato e tono risulterebbero neutri, senza spessore e personalità.

Iniziamo con i primi esempi:

I have (very briefly) joined a Conga Line.

I have heard a professional comedian tell folks, without irony, “But seriously.”

I have now heard—and am powerless to describe—reggae elevator music.

And this authoritarian—near-parental—type of advertising makes a very special sort of promise, a diabolically seductive promise that’s actually kind of honest, because it’s a promise that the Luxury Cruise itself is all about honoring.

The ads promise that you will be able—finally, for once—truly to relax and have a good time, because you will have no choice but to have a good time.

In questo caso le frasi sarebbero autonome anche senza gli incisi ma Wallace li usa per commentare ciò che scrive e pensa:

The fact that contemporary adult Americans also tend to associate the word “pamper” with a certain other consumer product is not an accident, I don’t think, and the connotation is not lost on the mass-market Megalines and their advertisers.

Anyway, hence the atavistic shark fetish, which I need to admit came back with a long-repressed vengeance on this Luxury Cruise, and that I made such a fuss about the one (possible) dorsal fin I saw off starboard that my companions at supper’s Table 64 finally had to tell me, with all possible tact, to shut up about the fin already.

Qui mi chiedo se dopo il secondo trattino non ci vada una virgola (eliminando l’inciso la frase non sembra reggersi bene):

Some weeks before I underwent my own Luxury Cruise, a sixteen-year-old male did a Brody off the upper deck of a Megaship—I think a Carnival or Crystal ship—a suicide.

Ci sono incisi tra parentesi che sono inseriti al di fuori della frase, nei quali Wallace commenta ciò che ha visto o fatto:

(The glowing fish liked to swarm between our hull and the cement of the pier whenever we docked.)

(Actually it was more like I shot at skeet at sea.)

Questo inciso è decisamente più lungo della frase all’interno di cui è collocato:

It’s not even so much a good time (though it quickly becomes clear that one of the big jobs of the Cruise Director and his staff is to keep reassuring everybody that everybody’s having a good time). It’s more like a feeling.

Qui una parola già evidenziata in corsivo è messa ancora più in risalto dalle due virgole che la contengono:

The word’s overused and banalified now, despair, but it’s a serious word, and I’m using it seriously.

Incisi per specificare e commentare

Uguale al testo di partenza:

Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.

In questo caso l’inciso originale viene reso con una doppia operazione: l’uso del contrario («seriamente» al posto di «without irony») e il corsivo:

Ho sentito un comico professionista dire seriamente al pubblico: «A parte gli scherzi».

Qui la traduzione ricalca l’originale:

Ho sentito – e non ho parole per descriverla – una musichetta da ascensore in versione reggae.

E questo atteggiamento autoritario – simil-genitoriale – crea una promessa davvero speciale, una promessa diabolicamente seducente, che d’altra parte è quasi sincera, perché è una promessa che la crociera extralusso ha tutte le intenzioni di mantenere.

La pubblicità vi promette che sarete in grado – finalmente, almeno per una volta – di rilassarvi e divertirvi, perché non avrete altra scelta se non quella di divertirvi.

Volendo mantenere la parola inglese «pamper» la si spiega in un inciso. L’altro inciso viene restituito come nell’originale:

Il fatto che gli americani adulti degli anni Novanta tendano ad associare la parola pamper, «viziare», a un particolare prodotto di consumo non è casuale, non credo, e la connotazione non si perde in queste megacompagnie di massa e nelle loro pubblicità.

Nel prossimo caso viene aggiunto un inciso («devo ammettere»). Non sembra indispensabile, ma questa è la scelta dei traduttori:

Insomma, di qui il mio atavico feticismo per gli squali – che, devo ammettere, è tornato alla carica con un desiderio di vendetta a lungo represso, durante questa crociera extralusso – e per questo ho fatto tanto di quel casino per quell’unica (presunta) pinna dorsale che ho visto giù a dritta, che i miei compagni del tavolo 64 alla fine mi hanno dovuto dire, con il massimo tatto, di farla finita con questa storia della pinna.

Nella traduzione si è deciso di mettere i due punti (forse chiudere l’inciso col trattino seguito da una virgola era la scelta corretta):

Qualche settimana prima che mi sottoponessi alla crociera extralusso, un ragazzo di sedici anni fece un capitombolo dal ponte più alto di una meganave – mi pare della Carnival o della Crystal: un suicidio.

Gli incisi tra parentesi e fuor di frase sono rimasti tali:

(Per la verità, ho fatto tiro verso il piattello, sul mare.)

(Ai pesci luccicanti piaceva ammucchiarsi tra la carena e il cemento delle banchine ogni volta che attraccavamo.)

Inciso ingombrante

Questo inciso è decisamente più lungo della frase all’interno di cui è collocato:

It’s not even so much a good time (though it quickly becomes clear that one of the big jobs of the Cruise Director and his staff is to keep reassuring everybody that everybody’s having a good time). It’s more like a feeling.

Inciso ingombrante

L’inciso occupa anche in questo caso gran parte della frase che però è stata accorpata al periodo successivo usando i due punti (a differenza della versione inglese che dopo la parentesi termina con un punto fermo). Forse i traduttori sentivano il peso di un inciso che stritolava il resto della frase:

Non è neanche tanto il divertimento (anche se si capisce subito che uno dei grandi compiti del direttore di crociera e del suo staff è di continuare a rassicurare tutti che tutti si stanno divertendo): è più, come dire, una sensazione.

Inciso con corsivo

Qui una parola già evidenziata in corsivo è messa ancora più in risalto dalle due virgole che la contengono:

The word’s overused and banalified now, despair, but it’s a serious word, and I’m using it seriously.

Inciso con corsivo

Come nell’originale:

Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente.

Elenchi – parentesi per specificare

Le parentesi sono usate per specificare gli elementi di un elenco:

Basic 7NC’s go to the Western Caribbean (Jamaica, Grand Cayman, Cozumel) or the Eastern Caribbean (Puerto Rico, Virgins), or something called the Deep Carribean (Martinique, Barbados, Mayreau).

Elenchi – parentesi per specificare

Anche in questo esempio la traduzione non si discosta dalla versione inglese:

Gli itinerari base delle 7nc sono Caraibi occidentali (Giamaica, Grand Cayman, Cozumel) o Caraibi orientali (Portorico, Isole Vergini), oppure una cosa chiamata i Profondi Caraibi (Martinica, Barbados, Mayreau).

Annidamenti

In questi esempi troviamo incisi che contengono altri incisi: inciso con virgole dentro ai trattini e inciso tra parentesi dentro a un’altra parentesi:

They keep saying—on the phone, Ship-to-Shore, very patiently—not to fret about it.

The Albert Kogler fatality off Baker’s Beach CA in 1959 (Great White). The U.S.S. Indianapolis smorgasbord off the Philippines in 1945 (many varieties, authorities think mostly Tigers and Blues); the most-fatalities-attributed-to-a-single-shark series of incidents around Matawan/Spring Lake NJ in 1916 (Great White again; this time they caught a carcharias in Raritan Bay NJ and found human parts in gastro (I know which parts, and whose)).

Annidamenti

Qui invece la resa è diversa e non si può più parlare di annidamento:

Mi continuano a dire – con grande pazienza, al radiotelefono della nave – di non affliggermi per questioni del genere.

In questo caso, dopo il primo inciso tra parentesi, si è deciso di sostituire il punto con il punto e virgola. Certo, ha senso, il periodo funziona lo stesso, anche se la scelta pare arbitraria:

Albert Kogler a Baker’s Beach in California nel 1959 (squalo bianco gigante); il banchetto della Indianapolis nelle Filippine nel 1945 (molte specie diverse, gli esperti pensano soprattutto squali-tigre e squali blu); la serie di incidenti con più morti attribuiti a un singolo squalo nell’area Matawan/Spring Lake, New Jersey, nel 1916 (ancora uno squalo bianco gigante; questa volta catturarono un carcharias nella Raritan Bay con resti umani in gastro (e mi ricordo quali resti e di chi)).

Incisi nelle note

Anche le note, già di per sé usate per commentare, integrare e specificare, presentano a loro volta molti incisi. Due note si presentano direttamente tra parentesi:

(though I never did get clear on just what a knot is)

(apparently a type of nautical hoist, like a pulley on steroids)

In un’altra, la parte tra parentesi è preponderante rispetto al resto:

I’m doing this from memory. I don’t need a book. I can still name every documented Indianapolis fatality, including some serial numbers and hometowns.(Hundreds of men lost, 80 classed as Shark, 7–10 August ‘45; the Indianapolis had just delivered Little Boy to the island of Tinian for delivery to Hiroshima, so ironists take note. Robert Shaw as Quint reprised the whole incident in 1975’s Jaws, a film that, as you can imagine, was like fetish-porn to me at age thirteen.)

Incisi nelle note

La nota 1 non è tra parentesi mentre la nota 7 sì; probabilmente un refuso:

Anche se non ho ancora ben capito cos’è un nodo.

(che a quanto pare è una specie di ascensore nautico, come una carrucola anabolizzata)

La nota 5 non presenta grandi differenze rispetto al testo inglese:

Sto andando a memoria. Non ho bisogno di libri. Posso dirvi il nome di ogni singolo morto riconosciuto della Indianapolis, compresi alcuni numeri d’ordine e le città natali (centinaia di morti, di cui ottanta ufficialmente attribuiti agli squali, 7-10 agosto 1945; la Indianapolis aveva appena consegnato nell’isola di Tinian la «Little Boy» destinata a Hiroshima, come ricordano alcuni con sarcasmo. L’intero episodio fu ripreso, con Robert Shaw nei panni di Quint, nello Squalo del 1975, che per me, a tredici anni, come potete immaginare, fu un vero e proprio porno-fetish).

Un’eccezione

Mentre in quasi tutto il testo Wallace fa un ampio uso dei segni di interpunzione e di incisi, in questo esempio la punteggiatura è quasi assente, viene utilizzata solo nelle battute finali, dove si concentra l’acme della frase. Cambia anche il tono, si sente Wallace riflettere e lasciar scorrere i propri pensieri, personali e filosofici, in un flusso continuo e ininterrotto.

And I’m starting to see how as time gains momentum my choices will narrow and their foreclosures multiply exponentially until I arrive at some point on some branch of all life’s sumptuous branching complexity at which I am finally locked in and stuck on one path and time speeds me through stages of stasis and atrophy and decay until I go down for the third time, all struggle for naught, drowned by time. It is dreadful.

Un’eccezione

Questo passo mi pare reso fedelmente dal punto di vista della punteggiatura. (Mi sorge però un dubbio sulla traduzione di «for the third time»: perché diventa «per tre volte» invece di «per la terza volta»?)

E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato nel tempo. È terribile.

La seconda parte è qui David Foster Wallace e gli incisi [#2]

Nicolò Cattaruzzo Sono nato e cresciuto a Venezia, città in cui mi sono laureato in Lingue e letterature straniere con una tesi di traduzione di un romanzo polacco in italiano. Dopo una breve parentesi da dottorando, ho lavorato prima come cuoco e poi come insegnante di lingua italiana per stranieri. Nel 2019 ho seguito il corso di Oblique Studio per redattori editoriali e nel 2020 ho fatto alcuni mesi di esperienza nella redazione di Cliquot edizioni, proseguendo come redattore freelance. Sono direttore tecnico e responsabile informatico dell’Asd Salvioli, circolo scacchistico veneziano.

Da “Parte comune”

0

di Jacopo Masi

 

(ribaltamento) 

 

Tra i molti suoni e le possibili fanìe

questo anche: lo schiocco secco

d’elitre al pavimento, le zampine

nel vuoto remiganti dell’insetto

capovolto, minuscolo Atlante

che tenta a testa o croce di scrollarsi

il mondo dalla schiena.

Si consideri l’anomalo protrarsi della scena,

l’accanimento atroce della sorte: la tesissima

catena d’improbabile non spezzarsi

d’un colpo ma, a poco a poco,

di un niente ad ogni colpo, lentamente

rovesciarsi nel suo opposto.

*

 

(lungo la strada)

(interpretatio – del ruolo, del segno)

(estinto quasi il suo prestito, pagato

il pegno imposto a chi sta davanti,

a chi precede nello scollinamento…)

Data la conformazione del luogo

impossibile lanciare inequivoci segnali,

celesti indicazioni che non siano fuorvianti:

due tratti appena di vernice

su pietre e tronchi a dire

di qua siamo passati, la strada

è accidentata ma pervia; a lungo

provammo a contattarvi…

 *

 

(de rebus quae geruntur)

E quella a Parigi, nel café

tutta presa in una guerra

mattutina di fonemi e inibizioni

che di tanto in tanto alzando gli occhi

dallo schema del suo enigma

canard salé!” inveiva per dire altro

contro l’astante – l’assente nella sedia

vuota di fronte – che l’aveva tradita,

che (sic stantibus) le aveva

sabotato il rebus della vita.[1]

 *

(tra sé)

Nemmeno è da escludere

che sia questo il più sincero

quello che, solo, tra i tanti

se e sé, discute e si dibatte, a male

parole si apostrofa, disputa e si inalbera.

Che sia per lo meno il più serio

e meno altero anche quando – proprio

quando – di colpo ammutolisce e il ghigno

gli sale da sfottò, di quello che la sa lunga,

che con certa gente è inutile parlare.

 

 (circumnutazioni)

1.

Non fiuto da segugio

né memoria d’elefante.

L’esperimento aveva dimostrato

che la specie in questione, se disorientata

o dislocata, per ritrovare il luogo caro,

perlustra il terreno in cerchi

sempre più ampi, descrive una spirale

il cui centro è il punto in cui si è persa.

  

2.

Comportamento speculare era stato notato

nel glicine o pianta apparentata, slanciante

in ricognizione circolare il suo germoglio

più estremo. Non incontrando sostegno

il ramo, contrariamente alle apparenze,

non seccava: si faceva di legno, ricalibrava

il baricentro, mappava sbilenco da lì

la nuova ipotesi del mondo circostante.

3.

Circumnutazione, fedelmente

scomponendo alla radice, il ruotare

del capo (esempio solenne

del nodo è la civetta

dalla sua torre di controllo).

Manovra in senso lato di chi nel visibile

si è perso, o cieco cerca un appiglio

o guata l’intorno per la sua preda,

o preda si teme lui stesso

nel radar di ciò che non vede.

*

 

 (quadretti)

Avevano certo incontrato il gusto suo

o di qualcuno, se più d’uno ancora

siglato in un angolo e incorniciato

spiccava a interrompere il bianco

anonimato del muro. Quadretti

di dimensioni irrisorie – dieci

per dieci a dire tanto. Il tratto

di pennello sottile, minimale

non necessariamente indice

di esecuzioni sbrigative per quanto

chiaramente neppure laboriose miniature

ed anzi quasi l’opposto, minuscole

gigantografie del senza misura,

distanze senza orizzonte. Vizi

di rifrazione, ametropie.

[1] Soluzione: conard salaud.

*

I testi sono tratti dal volume Parte comune, Ancona, Italic, 2021.

Saffo, fr. 1

1

trad. isometra di Daniele Ventre

Afrodite eterna dal vario trono,
tessi-inganni, figlia di Zeus, ti prego,
non dannarmi con sofferenze e angosce
l’anima, dea,
anzi, vieni qui, se in passato mai
da lontano udisti e ascoltasti mie
suppliche e venisti, lasciando il tetto
d’oro del padre
e aggiogando il carro: alla terra nera
passeri condussero te, graziosi,
attraverso il cielo, con loro fitto
vortice d’ali;
giunsero in un attimo e tu, beata,
col tuo viso eterno mi sorridevi:
che più avessi, hai chiesto, e perché di nuovo
ti richiamassi,
che volessi avere più d’ogni bene,
nel mio cuore folle: “Chi più persuado
a tornare verso il tuo amore? Saffo,
chi ti fa torto?
Ma se fugge, ti inseguirà, fra poco,
se non vuole doni, ne darà lei,
se non ti ama già, ti amerà, fra poco,
lei, che non vuole!”
Vieni ancora a me, da pesanti angosce
Liberami, quello che il cuore vuole
che per me si compia, tu compi, sii
tu mia alleata.

Mots-clés__Coniglietti

0
from ALICE'S ADVENTURES IN WONDERLAND, by Lewis Carroll, with illustrations by John Tenniel. Macmillan and Co, London, 1898.

Coniglietti
di Orsola Puecher

Jefferson Airplane, White Rabbit -> play

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__

Da: Lettera a una signorina a Parigi di Julio Cortazár, in Bestiario, trad. di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto, Einaudi, 1974.

Andrée,io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha. Non tanto per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine chiuso, costruito ormai fin nelle più sottili maglie dell’aria, quelle che in casa sua preservano la musica della lavanda, il volo di un piumino per la cipria, il gioco del violino con la viola nel quartetto di Rarà .[…]Lei sa perché sono venuto in casa sua, nel suo quieto salotto corteggiato dal mezzogiorno. Tutto sembra tanto naturale, come sempre quando non si conosce la verità. Lei è andata a Parigi, io sono rimasto nel suo appartamento di via Suipacha, abbiamo elaborato un semplice e soddisfacente piano di mutua convenienza fino a quando settembre la riporterà di nuovo a Buenos Aires e mi proietterà in qualche altra casa, dove chissà… Ma non le scrivo per questo, questa lettera gliela invio a causa dei coniglietti, mi sembra giusto che lei ne sia al corrente; e perché mi piace scrivere lettere, e forse perché piove.Ho traslocato giovedì scorso, alle cinque del pomeriggio, nella nebbia e nel tedio. Ho chiuso tante valigie nella mia vita, ho passato tante ore a fare bagagli che non portavano da nessuna parte, che giovedì è stato un giorno pieno di ombre e di cinghie, perché quando vedo le cinghie delle valigie è come se vedessi ombre, elementi di una sferza che mi colpisce indirettamente, nel modo più sottile e più orribile. Comunque, ho fatto le valigie, ho avvisato la sua cameriera che mi sarei installato qui, e sono salito nell’ascensore. Proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente, non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo, tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o facciamo accadere) nell’assoluta intimità. Non mi rimproveri per questo, Andrée, non mi rimproveri. Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Non è una buona ragione per non vivere in una qualsiasi casa, non è una buona ragione perché uno debba vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere.Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico, avviene in un brevissimo istante. Estraggo le dita dalla bocca, e fra di esse stringo per le orecchie un coniglietto bianco. Il coniglietto sembra contento, è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo, piccolo come un coniglietto di cioccolato ma bianco e in tutto e per tutto un coniglietto. Lo poso sul palmo della mano, gli sollevo il pelo con una carezza delle dita, il coniglietto sembra soddisfatto di essere nato e freme e frega il musetto contro la mia pelle, muovendolo con quella triturazione silenziosa e solleticante del musetto di un coniglio contro la pelle di una mano. Cerca da mangiare e allora io (parlo di quando tutto ciò accadeva nella mia casa di periferia) lo porto con me sul balcone e lo poso nel grande vaso dove cresce il trifoglio che ho seminato apposta. Il coniglietto rizza del tutto le orecchie, avvolge un trifoglio tenero in un veloce mulinello del musetto, e io so che posso lasciarlo e andarmene, continuare per un po’ di tempo una vita non dissimile da quella dei tanti che comperano i loro conigli nelle fattorie.Fra il primo e il secondo piano, Andrée, come ad annunciare quale sarebbe stata la mia vita nella sua casa, seppi che stavo per vomitare un coniglietto. Subito ne fui impaurito (o era meraviglia? No, paura della stessa meraviglia, forse) perché prima di lasciare la mia casa, solo due giorni innanzi, avevo vomitato un coniglietto, e pensavo di potermene stare tranquillo per un mese, per cinque settimane, forse per sei, con un po’ di fortuna.[…]Capii che non potevo ucciderlo. Ma quella stessa notte vomitai un coniglietto nero. E due giorni dopo uno bianco. E la quarta notte un coniglietto grigio.Credo che lei ami il bell’armadio della sua camera da letto, con la grande porta che si apre generosa, con i ripiani sgombri per la mia roba. Ora li tengo lì. Lì dentro. Pare impossibile; neppure Sara ci crederebbe. Perché Sara non sospetta di nulla, e il fatto che non sospetti di nulla dipende dalla mia orribile impresa, un’impresa che si porta via i miei giorni e le mie notti con un solo colpo di rastrello e mi va calcificando dentro e indurendo come quella stella marina che lei ha appeso sulla vasca e che ad ogni bagno sembra colmare il corpo di sale e di sferzate di sole e di grandi rumori della profondità.Di giorno dormono. Ce ne sono dieci. Di giorno dormono. Con la porta chiusa, l’armadio è una notte diurna solamente per loro, dormono lì la loro notte in placida obbedienza. Porto con me le chiavi della camera da letto quando vado in ufficio. Sara crederà che io non abbia fiducia nella sua onestà e mi osserva dubbiosa, glielo si legge in faccia tutte le mattine che vorrebbe dirmi qualcosa, ma alla fine tace e io ne sono ben contento. (Quando fa la camera, dalle nove alle dieci, cerco di fare rumore in salotto, metto un disco di Benny Carter che si diffonde in tutti gli ambienti, e poiché anche a Sara piacciono saetas e pasodoble , l’armadio sembra silenzioso e forse lo è, perché per i coniglietti è già notte e l’ora del riposo).Il loro giorno comincia dopo cena, quando Sara porta via il vassoio con un fitto tintinnare di mollette per lo zucchero, mi augura la buona notte – sì, me la augura, Andrée, la cosa più amara è che mi augura la buona notte – e si ritira in camera sua e improvvisamente sono solo, solo con il maledetto armadio, solo con il mio dovere e la mia tristezza.Li lascio uscire, lanciarsi agili all’assalto del salotto, ad annusare vivaci il trifoglio nascosto nelle mie tasche e che ora crea sul tappeto effimeri ricami che essi alterano, smuovono, divorano in un momento. Mangiano bene, silenziosi e corretti, fino a quel momento non ho nulla da rimproverar loro, mi limito a osservarli dal sofà, con un libro inutile in mano – io che volevo leggermi tutti i suoi Giraudoux , Andrée, e la storia argentina di López che lei conserva nello scaffale in basso -; e si mangiano il trifoglio.

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Mattia Tarantino: dalla crepa tra le leggi

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Ospito qui alcune poesie tratte da L’età dell’uva di Mattia Tarantino (Giulio Perrone Editore), insieme a un frammento dall’introduzione che ho curato per il libro.

 

***

 

La tua lingua è un palindromo interrotto

a metà dell’alfabeto e mai risolto.

 

***

 

In ogni osso cresce

un tuo osso; in ogni

vena si aggroviglia

il tuo sangue con il mio:

 

a sangue unito siamo casa e profezia.

 

***

 

Provengo dalla crepa tra le leggi,

dove i nomi usurano la voce, e la fortuna

è l’unico salario. Provengo

dal latte delle spine rovesciate:

nient’altro so del mondo e delle cose.

 

***

 

[…] La poesia è questo: cordoglio e dirottamento, senza coincidenza, senza precisa distanza. Cavità, carie, convulsione, e anche rimedio, pianta medicinale, veleno purificato, buona vendemmia; tuorlo nella chiara dell’uovo; fossa delle più istantanee contraddizioni. Quando funziona, funziona come capovolgimento di ordini e gerarchie fra terra e cielo. È l’imperatore Leone che, arrampicatosi sulla colonna, si prostra davanti a Daniele lo Stilita. È la lattaia regina che, in pariglia, porta in dono a chi la canzona una ricotta d’argento, conservata dentro un paniere d’oro.

 

Giorgiomaria Cornelio

 

L’indolente

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di Gian Piero Fiorillo

Nessuno se lo aspettava. Come fai ad aspettarti che un uomo grande, sano di mente, un lavoratore molto stimato nel suo campo, decida di asciugarsi i capelli mentre è ancora a bagno nella vasca e ascolta la musica, anche se la musica in quel momento è triste, così triste. Così triste da far venire pensieri di morte. È stato detto che un grand’uomo costringe gli altri a spiegarlo. Anche un gesto inspiegabile. Un suicidio. E se invece fu un incidente? Come fare a saperlo, non ci sono biglietti di spiegazioni o d’addio. La polizia indagherà. Valuterà anche l’ipotesi dell’omicidio, visto che l’allarme è stato dato in ritardo. Chi c’era in casa al momento dell’accaduto? Chi avrebbe avuto motivo di uccidere, chi un simile coraggio? Un uomo benvoluto da tutti. Da tutti? Davvero? si chiederanno gli inquirenti. I poliziotti. I giudici. Racconteranno la cosa ai loro familiari, una volta tornati a casa? Sapessi, cara. Oh, caro. Che cosa terribile. Ne ho viste tante, ma questa volta è diverso.

A noi non interessano i commenti fatti a casa propria. Di chiunque siano. Siamo così abituati a non sentirli che non riusciamo neppure a immaginarli. Un giudice istruttore, la sera, vuole parlare con i figli, cosa hanno fatto a scuola, se hanno preso un buon voto o vinto una gara, non ha certo voglia di raccontare morti misteriose. Anzi, vuole dimenticare. Fino al giorno dopo, quando tornerà in ufficio e ricomincerà a pensarci. Se vai alla Feltrinelli di Largo Argentina, a Roma, vedi una scritta sul muro: Il cinema è la vita meno i suoi momenti noiosi. La frase è attribuita a Hitchcock. E in fondo abbiamo imparato a vivere la vita come se fosse un cinema: non ci interroghiamo sulle cose noiose. Anche se queste ci inseguono: pagare la bolletta, cosa c’è di più noioso? Forse solo doverlo fare via internet, neppure più quella bella fila di due ore in cui ci si conosceva, si imprecava, ci si indignava collettivamente contro la pubblica amministrazione, il sindaco, lo Stato. Neppure più quei momenti di svago per anziani, di sguardi furtivi o incontri inaspettati. Quel rito minimo della fila allo sportello.

Dunque lasciamo stare i commenti di casa, chi li fa, chi no, i poliziotti sì, i giudici no, i medici che hanno constatato il decesso no, gli infermieri sì. O forse tutto il contrario, che ne sappiamo, dipende da troppi fattori, lasciamoli al loro farsi e disfarsi, alla trama fitta e densa della vita, noi stiamo scrivendo e la scrittura ha maglie larghe. Dunque perché un uomo grande, sano di mente, un professionista, uno stimato dirigente si infila nella vasca da bagno con il fon acceso o lo accende mentre è ancora dentro quella vasca, coperto d’acqua e di schiuma? (Noi stiamo scrivendo?! Io sto scrivendo e chi leggerà starà leggendo: com’è impreciso il linguaggio!) (Ma neppure questo interessa alla nostra storia, ci sono un sacco di interferenze, qui, che non si riesce a controllare). Torniamo al nostro uomo che sempre ci sfugge, che mi sfugge mentre invece lo voglio afferrare. Tenere. Tenere in mente, tenere in mano. Averlo, cavolo! Perché s’è ammazzato, se s’è ammazzato, poi, chi lo sa. Certo, anche se non dovesse trattarsi di un gesto volontario, anche se fosse solo una fatale distrazione resterebbe inconcepibile: un errore che potrebbe fare un adolescente troppo sicuro di sé, non uno stimato cittadino. Che lavoro faceva? Mi tocca rileggere l’articolo. Ah, no, ecco, c’è già nei titoli. I titolisti vanno pazzi per questi particolari, il mestiere, il colore della pelle, la regione di provenienza.

Paola, che è stata l’ultima a vederlo in ufficio, ne dà una descrizione più che positiva. Il giornalista però lascia trasparire il sospetto di una relazione. Non dice, il giornalista, Paola invece si esprime in termini molto lusinghieri, un uomo unico, e scoppia in lacrime. Quello che lascia intravedere Paola senza dirlo è che fra l’uomo e la moglie la situazione era tesa. Questo avrebbe potuto spingere l’uomo, conclude il giornalista, a farla finita. Una tragedia amorosa: forse l’uomo era innamorato di Paola quanto lei di lui, insinua il giornalista, e la situazione s’era fatta insostenibile. Ma non bastano le lacrime a suffragare questa ipotesi. Erano colleghi da tanti anni, erano amici, si stimavano. Qual era lo stato patrimoniale della coppia, si chiede allora il giornalista, c’erano problemi di soldi, liquidità, debiti? Su tutto questo, risponde, stanno indagando i magistrati. In questo modo il giornalista ha sparso un po’ di veleno, sicuro di catturare qualche lettore per l’edizione successiva, ma poi s’è chiamato fuori. Tira il sasso e nasconde la mano, se lo fanno i bambini piove biasimo da ogni dove, se lo fanno i giornalisti o gli uomini politici è tutto normale. Nella norma: statistica, etica. Che vuoi che sia, il mondo va così. Doppia morale, doppia logica, doppio cappio. Poi qualcuno impazzisce, non regge il gioco. Era intrinsecamente predisposto, geneticamente? Era un uomo fragile? È per questo che l’ha fatta finita, era stanco di fare il doppio gioco o di sottostare a un doppio dovere, a ordini e ricatti contrapposti? Oppure è morto per indolenza, ha visto il pericolo ma non ha fatto niente per evitarlo? Era stanco?

Lasciala, non la ami.
Se mi lasci m’ammazzo.

Alla fine ce l’ha fatta a portarmelo via la puttana.
L’ha spinto alla disperazione la stronza.

Così non è più di nessuno.
Così siamo vedove tutt’e due.

È stato un incidente, lui non l’avrebbe mai fatto, era un uomo gioviale.
Ultimamente era così triste, ma non al punto di farla finita.

Gli inquirenti intanto scavano. Hanno il dovere di cercare fatti, prove, non possono certo basarsi su dichiarazioni estorte dai giornali alle due donne. Seguono tutte le piste. Che non sono molte per un uomo normale, serio lavoratore, adulto, sano di mente. Pista gelosia: per quanto rari in rapporto ai femminicidi, anche i maschicidi sono una realtà. Ma la pista è improbabile: una cosa tipo il postino bussa sempre due volte a ruoli invertiti? il comportamento della moglie non dà adito a sospetti. O è un’attrice nata oppure è sincera. Gli inquirenti optano per la sincerità, una donna irreprensibile che insegna ai ragazzi delle medie e ha la stima e la solidarietà di tutto l’istituto. No, niente da fare. Lei non è stata, non siamo al tenente Colombo. Nè può essere stata l’amante. Come avrebbe potuto entrare in casa a quell’ora, con la moglie fra i piedi, e inscenare l’incidente? Impossibile. Niente tracce, niente di niente. Pista scartata. Pista fantasiosa.

Pista patri-matrimoniale: i coniugi se la passavano bene, avevano scelto la comunione dei beni, nonostante tutto si volevano bene.

Pista depressione. In fondo anche un uomo adulto, sano di mente, lavoratore, può andare incontro a una crisi depressiva. Quattrocento milioni di persone soffrono di questa subdola patologia nel mondo, senza distinzione di reddito, di classe, di genere, e sono cifre ufficiali, c’è tutto un sommerso che non viene mai a contatto con gli specialisti. Quattrocento milioni sono comunque un bel numero, dieci milioni solo in Italia, secondo le stime del Ministero (che va bene, si sa come le fanno, le stime, ma dobbiamo pur tenerne conto) (non rientrano in quelle stime le cosiddette depressioni sotto soglia, che però possono esplodere da un momento all’altro) (raptus? da quando in qua un raptus suicida? più comune di quanto si creda, si prepara a lungo nella mente dell’individuo, nessuno se ne accorge, nessuno sospetta, poi d’improvviso è troppo tardi). Se ne vedono in giro, se ne sentono tante.

Ma noi inquirenti abbiamo bisogno di prove e per il momento non ne abbiamo.
Non sanno che pesci prendere.

Seguiamo tutte le piste.
Brancolano nel buio.

Pista cherchez la femme. Una terza? O forse una quarta, nuova o venuta da un lontano passato. L’uomo era uno stimato professionista ma anche uno stimatissimo rubacuori. Un playboy? Non proprio, non lo faceva alla luce del sole. Ma di tresche, molte. Il suo lavoro lo favoriva. Incontrava tanta gente. Sembrava preferisse le clienti. Ma questo non è un indizio, al giorno d’oggi metà dei maschi del pianeta sono dipendenti dal sesso, reale o virtuale. Nei suoi computer con c’è niente di anormale, considerando che la sfera della normalità è ormai praticamente informe. Si allarga da più parti per farci entrare cose che un tempo restavano fuori. Ha un sacco di gobbe e cunette: chi può più dire cosa è normale e cosa no, solo la statistica, ma la statistica non è una prova.

Pista: io lo conoscevo bene. Io lo conoscevo bene, al lavoro faceva il suo, era anche bravo, ma non era felice. Si tratteneva ore con Don Luigi, il cappellano, e con le donne delle pulizie. In quelle occasioni, a volte, lo si vedeva perfino ridere. Si illuminava quando parlava con i deboli, i diseredarti, i malati di mente. Con lo staff era piuttosto freddo, tranne con le colleghe carine, allora si rianimava, diventava un burro sciolto, tutto miele latte panna, sorridente, ironico. Non era falso, no, ma dormiva, ecco. Lo svegliava il profumo di donna, una gonna stretta, un paio di gambe. Quasi nient’altro. C’era altro, sì, che lo vivificava improvvisamente, una partita a tennis, una discussione tirata. Non guardava la televisione e per questo non partecipava ai nostri discorsi perché parlavamo di cose di cui non aveva nessuna cognizione. Leggeva, sì, leggeva molto. Cose difficili: ma chi te lo fa fare, gli dicevamo. Ma chi me lo fa fare, sorrideva. Aveva un certo fascino. Io lo conoscevo bene, s’infervorava per un romanzo, piangeva per una canzone, un tipo strano, capace di dolcezze. Stava sulle sue ma era dolce. Aveva, come posso dire, la tempra dell’adolescenza. Infatti tutti gli davano meno della sua età, e se non era d’accordo su una cosa non c’era verso. Non si piegava, come gli adolescenti. Testardo, cocciuto. Forse ha pagato tutto questo, forse non ce ne siamo accorti. Non l’abbiamo capito.

Pista circolo del tennis. Era un buon giocatore, ma indolente. Se aveva una chiusura facile facile la sbagliava, diventava molle, sembrava dire questo punto qua è già fatto, neanche vale la pena chiuderlo. E sbagliava. Se lo mettevi sotto pressione incominciava a reagire e allora erano guai per tutti, ma durava poco, dopo aver vinto un game s’ammosciava e ricominciava con quell’indolenza dei posapiano che tanto che fa, vinco o perdo che mi cambia? Gli piaceva la terra rossa, ci strofinava le mani per asciugarsi il sudore e diceva che quello era il bello di giocare a tennis. Glielo chiesi una volta, e fu la sola volta che mi sembrò preciso, accurato come non era mai, sempre distratto, sempre all’altro mondo, pace all’anima sua. Ma se non ti piace giocare lascia perdere, gli dissi una volta. Al contrario, rispose, mi piace moltissimo, ma se gioco intensamente tutto un match mi perdo il bello del gioco. Come sarebbe? Il bello non è fare punti, vincere o perdere un set, ma il sudore, l’odore delle magliette bagnate, il sudore puzza quando si secca, ma sotto il sole, nel mezzo della foga agonistica è meraviglioso. Di quale agonismo parlasse non ho capito, di quello degli altri, forse, certo non il suo. E che dire della terra calda, continuò, lavorata e strapazzata dai nostri piedi, dalle scivolate, è allegra quando t’asciughi il sudore delle mani con quella polvere rossa, non credi? Quando morirò, disse una volta, sotterratemi nella terra rossa. In quel momento diventò rosso come la terra, una cosa che non t’aspetti da un uomo adulto, sano di mente, stimato professionista, ma che professione faceva, poi? Mi sembrò strano, a vederlo non lo avresti mai detto capace di sensualità. Forse era questo che piaceva alle donne, forse a letto si trasformava, diventava un adoratore di dee carnali, un cartasciuga di sensazioni, che ne so, io sono solo quello che gli controllava lo stipetto, voleva che tutto fosse in ordine. Era gentile, se ti faceva un’osservazione si scusava lui per te.

La verità non venne a galla. La verità non viene mai a galla, non tutta, almeno. Non sappiamo se l’uomo ha deciso di chiuderla lì. Né, eventualmente, perché ha preso quella decisione. Non ha lasciato biglietti né saluti, non ha perdonato nessuno e a nessuno ha chiesto perdono. Quanto a me, non so nulla di lui, nemmeno che lavoro facesse. Ma non ho inventato niente, tutto quello che ho scritto viene dall’esperienza e l’esperienza è sempre reale. Anche se i punti di vista e i modi di vivere le esperienze sono diversi, l’esperienza è vera oppure non c’è niente di vero a questo mondo. Lo dico senza addentrarmi in discorsi filosofici, non di questo mi sono messo a scrivere. Ce ne andiamo all’inferno portandoci i nostri segreti, mentre i fantasmi ci abbandonano e tornano nel mondo in forma di ricordi, per torturare i nostri cari. Ancora non si sono svuotate le vene, ancora non sono avvizziti gli organi, ancora non abbiamo perso il sembiante umano e già loro ci hanno lasciato. Ci sono fantasmi che nessuno conoscerà mai. O si ripresenteranno in altri luoghi, in altre forme, in un tempo altro, nuovi e insospettati? Ci sono torture senza scadenza?

 

 

Buena Vista Social Club: Zerocalcare, autobiografia di una generazione

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Questa  rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Me so’ ingarellato… dalla newsletter del Corriere
(spoiler alert)
————————————————-
Zerocalcare, autobiografia di una generazione
di
Alessandro Trocino
Repubblica ci ha fatto pure un delizioso dizionarietto (se fracica, «si bagna»), intitolandolo manuale for dummies (e forse serviva un dizionarietto inglese anche per il titolo, «per principianti»). La polemica è deflagrata in rete, per la gioia di Guia Soncini, che ci ha costruito un impero di carta, sulla suscettibilità. Ha scritto che guardando la prima puntata della serie di ZeroCalcare – «Strappare lungo i bordi» – non ci ha capito una parola. Poi i romani, dice, «si sono offesissimi per il mio aver notato che, fuori Roma, ci vorranno i sottotitoli». E lei, che ha appena sfornato un libro sulla suscettibilità e su chi sbrocca («si arrabbia») e se pia male (ci resta male), ha scapocciato di piacere al flame (la fiammata web). Anche perché poi, quello che succede invariabilmente, è lo slittamento di senso. La sua critica ironica si è slabbrata in una valanga di commenti social e tutti sono accorsi a difendere l’onore infangato di ZeroCalcare e sono arrivate le truppe cammellate di indignados pronte ad accusare i milanesi bauscia di disprezzare la romanità, con tutto il seguito di trite polemiche campanilistiche e l’eterno dualismo Roma-Milano più o meno divertente («Milano è una Sutri che si crede Londra», «hanno solo un blocco di cemento ricoperto di muffe da presepe che chiamano bosco verticale», cit. Giacomo Giubilini).
C’è poco da dire sulla questione del dialetto, anzi della lingua. Come ha replicato lo stesso Michele Rech, 37 anni, in arte ZeroCalcare: «Madonna regà, ma come ve va de ingarellavve su sta cosa?». E’ come se avessimo contestato, perché incomprensibile, il biiv di Gomorra (bevi), il che casso de misure xe? del Pojana-Pennacchi a Propaganda, il Quaranta dì, quaranta nott, a San Vittur a ciapaa i bott di Jannacci, ma pure lo scappellamento a destra del Conte Mascetti e il gramelot di Dario Fo. Siamo tutti foresti in questa giungla di lingue, di slang e di supercazzole e non c’è da organizzare nessuna resistenza, solo provare a barcamenarsi e a uscire dall’analfabetismo funzionale e reale che ci attanaglia, oppure cambiare canale (anzi, programma o piattaforma). Poi è ovvio che la polemica sul romanesco ha senso solo per i telegiornali nazionali e per i doppiaggi di film girati in Piemonte o in Liguria, dove ci sono attori che dicono «borza» invece di «borsa» e dove il sempre ottimo Marinelli, nelle vesti però di Fabrizio De Andrè, parla come Totti.
Infine, in «Strappare lungo i bordi», in certi passaggi c’è davvero un problema di comprensione, ma è dato più che dalle espressioni gergali dal parlato rapido e trascinato, efficacissimo ma effettivamente a volte un po’ faticoso.
Insomma le chiacchiere stanno a zero, come diceva spesso Walter Veltroni nei suoi comizi, suscitando qualche perplessità nei non romanocentrici, l’arte è arte e il dialetto, lo slang, gli accenti, i modi di dire vernacolari sono strumenti meravigliosi se e quando si adattano al testo e al contesto e perché raccontano l’infinitamente piccolo con una precisione e una ricchezza che l’italiano ufficiale da Treccani se lo scorda. Ed è anche vero quel che dice Soncini sul romano, che «è inconsapevole di parlare romano, convinto che quella roba lì che parla lui, quello strascinamento fonetico, quello scempio della logopedia sia italiano corretto». Per il resto, il provincialismo del romano che ti dice «busta?» al supermercato è speculare a quello del milanese che ti dice «sacchetto?». Ed è anche vero che poi sotto il Cupolone prevale sempre il chittese…, il e fattela ‘na risata, lo stacce, perché il romano de Roma non sopporta gli accolli (i pesantoni) e gl’arimbalza (non gli fa né caldo né freddo) chi se la sente calla («chi ha un eccesso di fiducia in se stesso»). Zero permalosità, se non retorica, di posizionamento, ma l’eterna digestione nel grande minestrone plurisecolare, sin troppo saporito, di una città che non si stupisce di niente e assimila tutto.
Più interessante sarebbe invece parlare del fenomeno ZeroCalcare, glorificato lo scorso anno da un’imbarazzante copertina dell’Espresso, che lo sparava in prima con il titolo: «L’ultimo intellettuale». Lui è un campione di ironia e di autoironia e naturalmente all’epoca ci ha scherzato sopra, ma forse sarebbe il momento di chiedersi se questi nuovi monumenti che erigiamo poggino su fondamenta abbastanza solide da resistere nel tempo. Non è nostalgia da boomer degli intellettuali novecenteschi alla Eco e Pasolini, è solo perplessità per quando si sentono certe iperboli. Come quando leggi Rivista Studio e trovi il titolo: «Marracash è l’ultimo intellettuale?». E va bene, nell’ultimo album e nelle interviste cita Mark Fisher e Raffaele Alberto Ventura, ma poi scrive cose come «c’è sempre un maiale in mezzo come il McBacon», «la corruzione è l’unico vero made in Italy», che non sono proprio un capolavoro di profondità (al netto di una forma d’arte, il rap, che richiede anche questo linguaggio).
Tornando a ZeroCalcare la sua serie è bella e divertente, piena di invenzioni e di citazioni, e mischia in un flusso di coscienza torrenziale il sentimento precario, nevrotico, ironico e pieno di sensi di colpa per i mali del mondo che è proprio di molti giovani (il suicidio di Alice è un’evidente metafora del suicidio di una generazione). Piace molto soprattutto a quei giovani che frequentavano i centri sociali (nella serie si vede La Strada della Garbatella) che un tempo si sarebbero detti di sinistra e ora forse solo antifascisti e contro le «guardie», culturalmente fluidi, tra Manu Chao e Tiziano Ferro. Ben lontani dalla Ztl, più vicini a Rebibbia e Pigneto, non hanno più una rappresentanza politica a sinistra, da quando Rifondazione ha perso smalto. E alcuni di loro, avendo preso una sbandata lampo per i 5 Stelle, hanno ripudiato da tempo il Pd o lo accettano malinconicamente, quasi vergognandosene.
Quella sinistra che non sa più bene cosa pensare, ha smarrito l’ideologia, è attratta dalla marginalità periferica perché non è riuscita a integrarsi nel centro o si è integrata ma fa finta di non esserlo. Non a caso il Rech campione della borgata romana, approdato sulla regina delle piattaforme borghesi post moderne, Netflix, un po’ se ne vergogna e ci scherza su, per lavarsi la coscienza e mostrarsi ancora un po’ disadattato e coraggiosamente irriverente. Ma ZeroCalcare non ha la forza nichilista e ribelle di Andrea Pazienza, del suo Zanardi. Il suo flusso – un po’ auto indulgente e consolatorio – si può definire (parafrasando Gobetti) l’autobiografia di una generazione, oltre che di una città. Di una generazione precaria, disadattata, che non ce la fa, che non trova una posizione nella società, che si è presa male e non ci sta dentro, per dirla in milanese.
Luca Valtorta su Repubblica dice cose piuttosto condivisibili, anche se un po’ enfatiche: «Zerocalcare coglie nel segno perché usa un nuovo linguaggio, potente per molti motivi ma soprattutto perché, prima di tutto, è sincero e poi perché coglie lo spirito dei tempi: parla ai depressi, agli schizzati, a chi soffre, a chi non ce la fa più, a chi è stanco, a chi vorrebbe un po’ di giustizia, di pace, di tranquillità. Parla a tutti noi. O almeno alla maggioranza di noi che fa sempre più fatica a riconoscersi in una categoria o in un partito. Ma quello di Zerocalcare non è qualunquismo: è il suo contrario. È sensibilità sociale, senso di responsabilità, voglia di cambiare le cose. In meglio. Una narrazione potente in cui c’è forza perché c’è innocenza, gioia, inconsapevolezza, dolore, rabbia. E c’è pietas».
Tutto vero, anche se ci sarebbe qualcosa da dire sulla parte finale del ragionamento. Prendi l’ultima striscia di ZeroCalcare pubblicata sull’Essenziale. Parla del green pass, con accenti critici, perché «è stato trasformato in uno spartiacque valoriale assoluto». Racconta della guerra santa che viviamo nella nostra società, tra gli amici, in famiglia. «Butta giù quella nazista bavosa di tua madre», dice un uomo al figlio, sopra una torre. Lui commenta: «Così me pare estremo». Poi spiega che quelli che «rompono er cazzo contro il Green pass» sono «le persone che hanno animato l’opposizione sociale in questo Paese in questi anni», «collettivi, reti antifasciste, sindacati conflittuali, femministe». Stiamo uscendo dalla pandemia, dice, «senza avere minimamente messo in discussione il modello con cui ci siamo entrati». Cioè «vi licenziano come cazzo vi pare» ed «eravate più tonici quando vivevate con l’ansia della terza settimana».
Rech è spaventato che «a questo appuntamento con la catastrofe si arrivi con questa spaccatura», dove l’unica soluzione pare «la pulizia dei kontatti» social. Il finale è questo: «Se dovessi rispondere alla domanda, perché non dici nulla su quello che succede vigliacco maledetto, le risposte sarebbero due». La prima: «Uno, perché non ce sto a capì un cazzo». «Due, perché in questa lacerazione profonda e orizzontale, io non penso di averci un ruolo come singolo. Ma se proprio me lo vuoi trova’, sono sicuro che non dovrebbe essere quello di spaccare ulteriormente il campo mio. E mi viene da chiedere, a chi questo ruolo se lo sta assumendo e smania per accollarmelo a me, quale campo pensa di stare aiutando. Bah».
Lo diciamo anche noi «bah». Perché poi sarebbe triste se davvero l’autobiografia di una generazione fosse questa, gente confusa che non si vuole «accollare» la responsabilità di prendere una posizione su un tema fondante, come i vaccini e il green pass, e quindi l’altruismo, il rispetto della comunità e delle vittime che ci sono state e ci saranno. Sarebbe del tutto legittimo non esprimersi per un artista, che non è un politico. Ma Rech fa di più. Non solo non prende posizione, ma rivendica la necessità di non prendere posizione per non «spaccare ulteriormente» il campo suo. Che poi quale sia, il campo suo, non è chiaro. Come se la generazione che si sente rappresentata da lui fosse «un campo» unico. E come se «né con lo Stato né con i no green pass» fosse una posizione accettabile per «l’ultimo intellettuale».

Le Croci

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Le Croci, Kresty Centro di isolamento giudiziario n. 1 della città di San Pietroburgo

di Luca Vidotto

[ Ancora una volta ho mescolato realtà e finzione: ho scavato e ruminato il terreno della storia, per poi ricrearla nella mia immaginazione. Complicando le cose, però. Ai fatti storici e alla finzione narrativa, infatti, ho aggiunto le inesauribili lenti della narrazione biblica e del mito antico. Entrambe mi sono servite per cavar fuori dal sottosuolo della vicenda che coinvolge Anna Achmatova tra il 1935 e il 1940 – quando il terrore staliniano raggiungeva il suo culmine e lei scriveva il poema Requiem, vera spina dorsale del racconto – delle immagini nuove, capaci di ridonare forza a una storia dai più dimenticata. ]

Anche quest’autunno unumidità placida e spessa serra San Pietroburgo sotto a una cupola soffocante. Concentrica alla cupola grigia del cielo si erge quella mostruosa del carcere, che noi chiamiamo, semplicemente, le Croci. Sì, al plurale, perché in essa si affastellano le piccole croci che ognuno dei nostri mariti, dei nostri figli e dei nostri uomini sono costretti a portare.

Il carcere è immenso e tutto ricoperto di mattoni rossi slavati dal tempo, che, placido, continua il suo corso come la Neva, il nostro fiume, pesante e largo, incapace di riflettere sulle sue acque alcunché. È un’armonia perversa il gioco di simmetrie e di calcoli che hanno dato vita a questo luogo. Di metallo è la sua anima. Precise architetture disegnate da pilastri e reticolati di travi di ghisa e scale che scendono e salgono, si biforcano, si allungano, si aprono su vuoti e sbattono su muri d’acciaio, compongono un dedalo di linee rette che si moltiplicano in ogni direzione, fino a creare un labirintico deserto di forme .

Le sue linee agghiaccianti disegnano il profilo di una tigre di divampante fulgore , che digrigna i denti affilati verso la città – sempre affamata. Questa enorme ragnatela, tessuta dalla bava della tarantola del potere, tiene intrappolati non uomini, ma insetti miserabili, senz’anima e senza speranza, sradicati come sono dalle carezze e dal tiepido abbraccio della donna amata, dagli sguardi e dai volti dei propri cari, e dalle piccole insensatezze della quotidianità. Racchiude fra i suoi muri una babele di voci senza voce. Un’umanità mostruosa. Tutto è impastato di lugubre silenzio, lì dentro. Tutto. Solo lo stridore dei chiavistelli, il rumore dei passi e i tonfi sordi dei portoni incrinano la sua quiete sepolcrale . Novecentonovantanove le celle . Il numero perfetto, il tre, moltiplicato tre volte, e ripetuto tre volte. Novecentonovantanove. La quintessenza della perfezione geometrica. Già! E non è il carcere un’impeccabile simmetria di ghiaccio e di morte ? Ma tra le pieghe di quest’ordine geometrico si annida il cuore del caos : l’asimmetria dei corpi offesi; la deformità delle anime in decomposizione; la cacofonia delle angosce inascoltate; e le troppe, troppe rabbie mal digerite… Quando ti ritrovi legato al soffitto per i piedi, e la frusta inizia a battere il suo ritmo cadenzato sul tuo corpo, quando lo strazio ti toglie il fiato, e le gocce di rosso rubino imperlano la schiena e il ventre, in quell’istante comprendi la natura di quel numero perfetto. A testa in giù, capovolto, è il numero della Bestia. Non deve essere un caso che la planimetria del carcere sia una grossa croce ribaltata a terra, calpestata dal pesante grigiore di quest’umido cielo d’autunno.
Un ventre enorme gravido di future vedove solitarie e di madri afflitte è il piazzale che avvolge, come una cisti, il carcere. Ogni giorno questo feto malato si spinge fino alla soglia delle Croci, ritualmente, come a una messa . Ogni mattina attraversa la navata gelida del cielo, la cui volta è affrescata dal rosso doloroso e sanguigno di un’aurora che lo strazia per poi lasciarlo soffocare nel grigiore spesso dell’umidità, che sale fumante dalla Neva, ignara di tutto. Cosa conta chi sono, io? Cosa conta la mia fama? Cosa conta chiamarsi Anna Achmatova, qui ? Ovunque siamo sempre le stesse . Un unico corpo sofferente: il volto infossato si stringe attorno al nostro lutto; le labbra docili vedono il sorriso appassire, divorato da un ghigno arido tremante di terrore; le nostre membra si sfibrano disperate alla sola idea di rientrare a casa con il nostro misero pacco di cartone in mano, piangendo perché più nessun corpo potremo piangere ancora .

Anna Achmatova con il figlio Lev Nikolaevič Gumilëv

Cosa succede al di là del nostro coro muto, impossibile conoscerlo: il silenzio delle Croci è serrato in un’abside invisibile. Perduto tra gli altri dannati, ci sei anche tu, Lev , figlio mio e mio incubo. Non le hai potute sentire le mie grida. O forse non hai voluto. Ti ho chiamato. Ti ho pianto. Ti ho desiderato. Ho rotto le dure simmetrie del mio volto spigoloso nella smorfia dei singhiozzi. Ho ammorbato la mia levità aristocratica gettando i piedi nudi nel fango e nel ghiaccio, vestita di stracci. Ho venduto la mia anima inginocchiandomi ai piedi del boia, per implorarlo. Sono arrivata a idolatrarlo, con la mia spada sporca d’inchiostro, l’odioso potere .
A cosa è servito? Mi è tornato tra le braccia un mostro. Non si fissa l’abisso impunemente – avrei dovuto capirlo subito. Avrei dovuto avere la forza di uccidere la memoria, e lasciare che la mia anima si pietrificasse, e di nuovo imparare a vivere . Avrei dovuto lasciarti al tuo destino, mio dolce carnefice. Così, almeno, non mi sarei resa conto che il giorno radioso della tua scarcerazione non avrebbe scalfito la solitudine della mia casa vuota. E che la tua felicità avrebbe moltiplicato il mio dolore . Mia la colpa. Ti ho tradito, mi hai detto. Ti ho incarcerato, con le mie poesie. Ti ho messo in croce, col mio canto. Non sono che il dolce frutto del tuo seno avvelenato, mi hai ripetuto. Ma il mio silenzio è rimasto inascoltato. Sei rimasto cieco di fronte alla mia vergogna. E al mio dolore .
Ti ho visto cadere dentro all’inferno della perfetta simmetria di quelle precise architetture, stritolato da pilastri e reticolati di travi di ghisa e d’acciaio, nel labirinto osceno delle Croci. E tu mi hai gettato il tuo inferno in faccia. La prima volta che mi è stato concesso rivedere il tuo volto, ho tremato. Ho tremato mentre ti stringevo la mano, sperando di poterti guidare nella risalita da quell’abisso. Ho tremato per la paura che non ci fossi tu stretto a quella mia mano. E quando ti ho guardato, tu non c’eri.
Ho lasciato la presa e ti ho lasciato cadere. Sappi, Lev, che non fu una disattenzione: incarnavi una morta stagione della vita, lo sbocciare di una primavera che non sarebbe mai più potuta tornare . Il mio bimbo giocoso e gaio era perduto per sempre. Al suo posto un’ombra impastata d’inferno. La mia colpa è l’averti visto così: sfigurato, con gli occhi iniettati di odio, e la lingua colma di bave avvelenate. La mia condanna fu di impietrirmi in una statua più dura del sale , in questo piazzale gravido di dolore di fronte alle Croci, perseguitata dal ricordo, dal rombo dei neri chiavistelli, dall’odioso sbattere degli enormi portoni, dall’ululare feroce delle vecchie che su queste pietre consumano le loro vite, dal lamento affilato del vento.
Sotto alla cupola grigia del cielo, nel cuore di una notte che non conosce aurora so che a ogni inverno seguirà un’altro inverno. E mentre il gelo lascia che sulle mie guance la neve si confonda con le mie lacrime

bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato
.

Anna Achmatova ritratta da Nathan Altman [1914]

Nostalgie della terra

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di Mauro Tetti

Ogni cosa vissuta o immaginata continuava a ingannarmi trascinandomi dabbasso in qualche buco sconosciuto della vita. Sentimento che avvertivo più forte durante e dopo il primo incontro con Salif. La sera passeggiavo solo nei vicoli male illuminati della Marina e mi nascondevo nei locali alla moda. La marcia sferragliante dei soldati e dei loro mezzi ci costringeva in quei posti luridi, umidi di alcolici, dove i marinai intonavano un canto scialandrone, che vuol dire scialo, o imitavano il fischio agonizzante della balena che spiaggia. Poi li guardavo danzare fino a tardi. Alcuni sfioravano le chitarre. Gli arpeggi e i giochi da tavola con le clessidre, le locandine dei film tedeschi anni Venti o i pasticci che oscuravano le pareti: tutto pareva il risultato di qualche gesto disperato. Da quelle stesse sale si poteva scendere nella città sotterranea, fatta di cunicoli e pietra, di labirinti dove i turisti si riparavano dai fuochi dell’esercito. L’incontro aveva gli stessi contorni evanescenti del sogno. Lui mi ha detto, porgendomi la mano, che tutti lo chiamavano Salif. Aveva l’aria stanca e puzzava in modo ripugnante, i lobi delle orecchie dilatati e un anello sul labbro inferiore. Non so cosa fosse: forse erano gli anfibi, quel modo di tenere i calzoni arrotolati fino alle ginocchia, la camicia, il gilè, il fazzoletto rosso sul collo, una specie di cresta floscia di capelli che si posava sulla tempia, o vaiecerca cos’altro lo facesse sembrare parte di quel sogno. Respingeva e attraeva allo stesso tempo. Come se lui fosse una parte di me nascosta e latente, magari per pudore. Mi ha guardato come per dirmi che non eravamo tanto diversi io e lui. Tra un po’ mi esibisco, ha detto Salif. Bravo, ho risposto. Non parli molto tu, eh. Eh. Tra poco faccio il gioco delle corde, ha detto. Poco dopo ho capito cosa intendesse. Immerso e legato in un vascone pieno d’acqua, si è liberato con un trucco stupido. È riemerso appena prima di annegare e schiumare davanti al pubblico irrequieto. I marinai applaudivano e non sapevano nemmanco il perché. Poi Salif si è lanciato nel vuoto del locale, ha oscillato come un impiccato appeso a un finto scorsoio che si è sciolto all’ultimo senza torcergli il collo. Giocava coi nodi e pareva tanto sicuro. Qualche marinaio si offriva di legargli i polsi e lui non si tirava indietro, ma riusciva ogni volta a liberare i legacci e a disfare i nodi. Schioccava le funi come fruste a pochi centimetri dai nostri piedi. Quando è venuto giù il sipario, Salif ha raccolto le corde con agilità ed è fuggito via. Non prima di sorridermi e mostrarmi pollice e mignolo della mano. Cercami, chiedi di me, devo parlarti del cubo e so che puoi capire. Di che cubo?, ho chiesto io. Poteva essere la prima volta che ne sentivo parlare da estranei, e dopo tanto tempo. Un cubo è un cubo. Sorrideva. È un cubo prezioso? Ha trattenuto il respiro e ha parlato. Mi pensar que sì, ha detto così. Poi è sparito in qualche altra fredda galera della Marina.
Le mattine andavano e io continuavo a non fare niente. Avevo letto su una rivista che l’età migliore per l’attività intellettuale è dai quindici ai trent’anni. E io avevo deciso di sprecarla guardando il soffitto, c’erano numeri e formule matematiche, onde silenziose su isole di oceani di pianeti sconosciuti, donne e uomini importanti immersi nell’immaginazione. C’erano re e regine da incatenare, fuochi e fiamme nelle piazze dei villaggi. Accumulavo idee bizzarre e le segnavo sull’agenda: le avrei forse sfruttate dopo i trent’anni. Naira lavorava tutto il giorno e la sera andava alle lezioni di danza per diventare una ballerina professionista. Lei pensava che stessi sprecando il mio tempo ma non capiva che invece stavo accumulando idee per il futuro. «Non fai niente tutto il giorno», mi ha detto un giorno. «Non facciamo una passeggiata da secoli». Io non ho risposto. Io non rispondevo mai perché mi sembrava inutile. Quando per strada incrociavo un amico facevo finta di non vederlo. Quando ero costretto a fermarmi cercavo un modo per dileguarmi.
«Ehi, carissimo».
«Ehi».
«Come stai? A casa tutto bene? E il lavoro? E questo l’hai visto? E quell’altro?».
E io dicevo: «Sì sì, infatti; devo andare, si è fatto tardi».
A volte dicevo anche: «Guarda che cielo meraviglioso oggi»; oppure indicavo uno sciame di sagentarrubia, che vuol dire fenicotteri, ma che meraviglia quando nel buio accarezzano il cielo come aerei silenziosi, volano come tramonti viventi della Tanzania; e mentre lui alzava lo sguardo io filavo via. Così mi sono reso conto di non avere più amici. E dopo non avrei avuto né amici né Naira. A guardarmi bene potevo sembrare uno a cui non era rimasto niente, invece ero pieno di idee grazie al sistema che attuavo da mesi: non fare niente.
Una sera passeggiavo con Naira nei moli sovrastati dal promontorio della Sella del Diavolo. In quel punto Dio chiese agli Angeli di prostrarsi davanti a tanta bellezza della natura, tutti obbedirono e nacque il Golfo degli Angeli. Tutti tranne uno, che disse: La mia luce è intensa quanto la tua, e posso costruire mondi altrettanto accoglienti, ciocche di erbe selvatiche, mari e monti e uomini a giustificare la straordinaria varietà degli esseri viventi. E Dio disse: Cal Lo Ni, che voleva dire sciocco. Schiacciò Lucifero sul promontorio fino a scavare la roccia e a formare una sella. Naira rideva delle mie fantasie. Era lì, nella torre spagnola del Puerto, che ci eravamo uniti per la prima volta. E insieme congiunti alle stelle nell’unico modo in cui è possibile farlo: sognando. Ogni volta che passavamo di lì mi prendeva la voglia di tenerla stretta e baciarla in continuazione, poi la lama dei sorrisi le sfiorava il viso. Sarebbe stato ridicolo. Sei ridicolo se fai una cosa così, pensavo tra me. Quindi non la toccavo mai.
Quella stessa sera ho provato a spiegarle tutto: «Ho intenzione di partire».
«Come?», con gli occhi lucidi.
«Per mare».
«Non come, ma, che significa?».
«Significa quello che ho detto».
«E io?», ha detto Naira. «E il lavoro? E poi la vita?».
Non ho risposto perché non mi piacciono molto le domande a trabocchetto. E poi cos’era questa storia della vita? Che cosa voleva da me? Naira mi ha guardato e ha preso a piangere.
«Spero che fai naufragio», ha detto.

 

Testo tratto da: Nostalgie della terra di Mauro Tetti (INCURSIONI 8, Italo Svevo, 2021)

Un tuffo al cuore: Gigi Spina

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Tuffo in lungo

di

Gigi Spina

 

 

 

Il tuffo in lungo è una specialità olimpica. Lo praticavano gli dèi dell’Olimpo. Non fu mai ammesso alle Olimpiadi umane. Tranne che nel 1951, che però non era un anno olimpico. E quindi la cosa finì lì.

A differenza del tuffo in basso e del tuffo in alto, che gli umani sanno praticare perché si credono angeli, il tuffo in lungo è tipico del politeismo, che riconosce l’estensione in orizzontale, non la reductio ad Unum, al vertice del triangolo. Non che i Greci non conoscessero il tuffo verticale. Prova ne è la Tomba del Tuffatore conservata a Paestum. Che però è una Tomba, il che crea qualche disagio.

Ma parliamo del 1951, anno in cui un tuffatore umano provò il tuffo in lungo dinanzi all’occhio vigile di una Rolleiflex 6×6, quella di Nino Migliori. Trattandosi di foto, non sappiamo come finì. Cioè, alla domanda: Ma lungo quanto? potrebbe rispondere solo il tuffatore in questione, del quale nessuno ha rivelato il nome.

Però una considerazione va fatta. Dove si svolse il tuffo? A Rimini, città monovocalica. Si potrebbe ipotizzare, allora, che lo stesso tuffo, in presenza di mare o fiume o lago o torrente o canale o rigagnolo o tinozza, potrebbe farsi ad Asmara, Carrara, Malaga, Praga, Este, Brindisi. E aggiungerei: ad Arcavacata.

La città monovocalica, se fornita di acqua, consente di rimanere sulla stessa vocale per più tempo, almeno tre sillabe. Ci si può preparare con città non proprio monovocaliche, ma che contemplino un’estensione trivocalica, per esempio, Macerata. Insomma, ci si può sbizzarrire partendo da Rimini e prendendo una rincorsa felliniana, ma avverto subito che la rincorsa felliniana conduce a una fontana, con un tuffo necessariamente verticale, anche se parte da orizzontale. Insomma, Rimini deve avere qualche cosa in più, che la fotografia nasconde.

Si sa che una fotografia scopre e copre, per così dire: scopre tutto quello che contiene, fino ai dettagli più minuti e insignificanti, che con una lente d’ingrandimento rivelano i loro segreti; copre tutto quello che non comprende: l’extracornice, tutto quello che c’è al di là della e intorno alla foto.

Quello che c’è nello spazio, ma anche nel tempo.

E di fronte a Rimini, nel tempo, c’è l’isola delle Rose, Insula de la Rozoj in esperanto. Ha imparato a conoscerla, in questi ultimi mesi, anche chi, come me, conosce da tempo il vero mare perché è nato in Mediterraneo. E anche perché, finalmente, come per l’extracornice della foto, comincia ad apparire tutto quello che capitò nel 1968, a maggio e dintorni, al di fuori dei cortei.

Di fonte a Rimini, ma oltre le acque territoriali, una distanza che un tuffo-in-lungo olimpico copre senza difficoltà, nel Maggio ‘68 c’era l’isola delle Rose. E se si prendeva lo slancio da Rimini, con piglio monovocalico, ma non felliniano, un olimpico poteva anche arrivare, col tuffo in lungo, fin sulla piattaforma di quell’isola che c’era e non c’era. Poi, di lì, magari, per stanchezza o pigrizia, poteva tuffarsi in verticale. Ma non risulta che nessuno l’abbia mai fatto. Si rimaneva in orizzontale, estesi, liberi e plurali; non verticali e monoteisti.

Il mio alter ego Bute, che ideò quella che chiamiamo Tomba del Tuffatore – anche se fu suo padre, il Maestro, a realizzarla – preferiva il tuffo in lungo. Mi ha raccontato, l’ultima volta che l’ho sentito, di averlo proposto a suo padre: un tuffo che partisse da Paestum e arrivasse, in orizzontale, a Velia, passando per Punta Licosa e per tutte le meravigliose spiagge del Cilento. Un tuffo come quello della sirena Leucosia, ma non motivato da una sconfitta o dalla voglia di annullarsi. No, un tuffo alla ricerca dell’amore perduto, come un nostos diretto verso il futuro. Come quello di Neddy Merrill, un bell’uomo americano che, se non fosse stato per John Cheever, nessuno avrebbe mai conosciuto. Bute dice che somigliava a Burt Lancaster. Forse perché – a volte, le combinazioni … – proprio nell’anno dei cortei, dell’isola delle Rose e della scoperta della Tomba del Tuffatore, insomma l’anno esteso, l’anno orizzontale, Burt Lancaster, alias Neddy Merrill, cominciava a tuffarsi e, in orizzontale, attraversava decine di piscine per tornare a casa.

Non c’era nessuno a fotografarlo, solo un regista a filmarlo. Anche il film, come la foto, scopre e copre. Perché basta un fermo immagine a farlo ridiventare foto. E la storia ricomincia e finisce. In quel fermo immagine.

 Pubblicato nella rivista Focus-in  n°49

 

 

 

 

Un gelido dicembre milanese

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di Antonella Grandicelli

Un gelido inverno in viale Bligny (Morellini Editore, 2021), è il convincente debutto nella narrativa gialla della scrittrice genovese Arianna Destito Maffeo, che, già conosciuta per la cifra ironica e sensibile dei suoi racconti, trova qui piena maturità espressiva anche nella dimensione del romanzo.
La trama si snoda in un freddo dicembre milanese, ma entrando nel vivo del racconto si ha la netta sensazione che non sia solo questa la stagione a cui l’autrice si riferisce. Perché se è vero che una pioggia grigia e greve o una neve opaca fanno spesso da sfondo alla vicenda, non è solo questo il gelo che pervade le esistenze dei molti personaggi. Più che una stagione climatica, l’inverno citato nel titolo appare più come un tempo dell’anima, in cui tutti si trovano immersi e con cui tutti si trovano a dover fare i conti. A partire dalla protagonista, il vice-questore Andrea De Curtis.
“Si addormentava con l’idea di lasciare la polizia e si svegliava al mattino, in preda all’ossessione di salvare nuove vite o di rendere giustizia alle vittime della malavita.” Controversa, tormentata, difficile da definire e ancor più da fermare in un’immagine nitida, Andrea è una donna con un nome da uomo che è attratta dalle donne; detesta il suo mestiere, che la mette in contatto con il lato oscuro dell’animo umano, ma non ne può fare a meno, perché è proprio quel lato oscuro che lei sente di dover sconfiggere; divide le sue radici tra la passionalità partenopea, che le deriva dal padre, e la durezza nordica, che le deriva dalla madre. Insomma, è un concentrato di contraddizioni e di spinte opposte e contrarie, che la rendono una persona spigolosa, a tratti dura, ma anche intensamente fragile. Il suo nomadismo esistenziale la porta a lasciare una luminosa Liguria, dove il suo talento investigativo ha già avuto modo di lasciare un segno, per spostarsi in una brumosa Milano, approdando in un appartamento anonimo a fianco del famigerato Palazzo Mondo, il civico 42 di viale Bligny, crocevia di storie e destini. Il primo impatto con la città e con il suo nuovo incarico sarà quello con un omicidio intriso di una crudeltà terrificante e nessun indizio a darne conto: Edoardo Solari, gallerista di fama, collezionista di preziose icone russe, trovato morto con la gola squarciata e il volto immerso nel fango. E l’istinto di De Curtis si metterà subito in moto insieme al suo doloroso bisogno di ripulire il mondo dall’orrore del crimine.
Tra i bagliori dorati e il lusso del mondo dell’arte, la fragilità ritorna ad essere la vera protagonista: quella di Edoardo Solari, circondato dal successo e da donne bellissime, eppure angosciato dal suo destino; quella di Sophie Martini, artista di talento, bella e ricca, eppure così insicura; quella di Marco Rovatti, marito di Sophie, attanagliato da una gelosia morbosa e lesiva nei confronti della moglie, incapace di goderne la presenza senza la paura di perderla. L’arte diventa il luogo in cui le loro debolezze si costruiscono un alibi, l’opaco specchio dell’incapacità di vivere.
“La sofferenza ci rende deboli. Il dolore annienta le difese e stravolge i comportamenti, fino a privarci della nostra libertà. Il dolore ci schiaccia e ci distrugge.” Per dipanare un mistero fatto di sangue e perversa sofferenza, Andrea De Curtis dovrà scavare oltre il visibile, dovrà mettere le mani dentro alle oscure profondità dell’anima, riconoscerne i tormenti, le ambiguità che lei stessa a volte si trova a dover combattere. Dovrà trovare il filo che lega tutte quelle fragilità all’affannosa  ricerca di una guarigione dalle proprie ossessioni, che per ognuno passa attraverso una strada diversa e per l’assassino affonda in un cammino di sangue. Un’indagine complessa, una discesa nelle tenebre, una corsa contro il tempo per giungere ad una verità che si rivela sorprendente ed inattesa per tutti.
Così come dipingere un’icona significa “scrivere” una preghiera che conduca ad una guarigione, altrettanto “scrivere” la propria vita è un percorso difficile che anche De Curtis deve affrontare e che è convinta di dover affrontare da sola, come ha sempre vissuto, nascondendosi al calore dei sentimenti, incapace di fidarsi di chi la circonda. Ma la vita nasconde sempre imprevedibili scarti, impensabili deviazioni e quella di Andrea De Curtis non fa eccezione. “A volte succede: si incontra qualcuno per caso, ci si annusa, ti specchi e ci si ritrova nei pensieri dell’altro nelle storie semplici che racconta e si decide che va bene così, che è proprio quello che ti serve in quel momento.” Proprio in quel civico 42 di viale Bligny, in quel mondo variopinto e allegramente instabile che giorno dopo giorno Andrea sta imparando sempre più ad amare, vive Marlene, trans dal passato difficile che lì ha finalmente trovato la felicità nel coraggio di essere se stessa, e che riuscirà a trasmetterle quel calore umano e quel senso puro di amicizia che rendono un luogo degno di essere chiamato casa. E sarà la sua mano tesa ad accompagnarla lungo la strada della guarigione da una solitudine antica e dalle staffilate di un dolore con cui deve imparare a convivere. Per cominciare a sciogliere il gelo di quel lungo inverno dell’anima. “Ma niente nel mondo di Marlene la rattristava. Ogni oggetto, ogni gesto e ogni parola rivelavano qualcosa di lei e irradiavano una luce particolare: quella della dignità della verità.”

La poesia di Edgar Allan Poe nella traduzione di Raffaela Fazio “Nevermore. Poesie di un Altrove” (Marco Saya Edizioni, 2021)

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Trad. di Raffaela Fazio

Postfazione di Leonardo Guzzo

[…] È nel breve saggio Filosofia della composizione, scritto nel 1846, che Poe enuncia le regole fondamentali della sua concezione poetica. La lunghezza, la “sfera d’azione” e il “tono” sono gli elementi costitutivi di ogni poesia fatta ad arte e il “maestro del mistero” ne definisce diligentemente senso e contenuto.
Quanto alla lunghezza, il limite deve essere quello “di una sola seduta”. Una poesia troppo breve rischia di non produrre alcuna “impressione duratura” e di “scadere nell’epigrammatismo”, una poesia troppo lunga (Poe ha in mente in particolare il Paradiso perduto di Milton) disperde necessariamente il suo valore: la capacità di indurre nell’animo di chi legge un “eccitamento” che produce “elevazione”. […] Il fine, la sfera d’azione della poesia è la produzione di Bellezza: non semplicemente la testimonianza della “bellezza che ci sta dinanzi” ma “lo sforzo selvaggio per raggiungere la Bellezza suprema”. […] Come si manifesta, attraverso le parole, questa Bellezza? È questione innanzitutto di “tono”, risponde Poe. Nel Principio poetico si ripromette di utilizzare nelle sue composizioni il tono più “facile”: quello che “la generalità degli uomini userebbe” e che al vero poeta viene naturale. Nella Filosofia della composizione (lo scritto teorico più articolato, pubblicato nel 1846) aveva sostenuto che questo tono deve essere “malinconico”: ogni Bellezza produce nell’animo sensibile una sorta di dolorosa emozione, che la malinconia richiama, richiamando al seguito quella stessa Bellezza che l’ha in origine provocata. […] Quanto alle tecniche per produrre la Bellezza in poesia, Poe riconosce l’efficacia del ritornello, ma ne propone un modello del tutto personale. Il Corvo, la sua poesia più celebre, è il modello di riferimento per dimostrare in concreto la sua concezione. “Natura” breve e “applicazione” varia: una sola parola, “more”, che si ripete in nuances d’atmosfera sempre diversa, accoppiata a “ever”, “never” o “nothing” e predeterminata dall’autore fin dalla qualità della vocale (la “o sonora) e della consonante (la “r” rotonda e tagliente). Il suono, il piede (il trocheo), il metro sono tutti elementi essenziali a Poe per produrre l’effetto suggestivo e drammatico della sua poesia, così come il climax di tensione nei versi, che corrisponde a uno svelamento progressivo dell’argomento profondo della lirica. La preparazione, rimarca Poe, deve essere lunga e accurata, il “denudamento” in sé, invece, rapido e diretto, come l’alzata di un sipario.
In questa sommaria, ma precisa, disquisizione teorica Il Corvo diventa l’emblema del rispetto proficuo delle regole, il risultato capace di soddisfare i palati più semplici e quelli più raffinati, “il gusto popolare e il gusto della critica”.
Il Corvo è ovviamente al centro anche di questa antologia di traduzioni delle poesie di Poe, realizzata da Raffaela Fazio, che si segnala per la completezza e insieme per il lavoro linguistico ambizioso e meticoloso. La traduttrice raccoglie coraggiosamente le sfide sonore e ritmiche dell’autore e ci restituisce, con più fedeltà rispetto alle versioni classiche, il battito, la “partitura” della lingua di Poe: rime, assonanze, la cantilena suadente del verso, un certo tono magniloquente eppure accessibile. L’architettura delle poesie viene più compiutamente alla luce, il tono e il registro emergono con più esattezza. E così l’espressività.
Il Corvo ha una veste nuova, evidente fin dall’incipit:

Mezzanotte era giunta, triste e spenta; io meditavo affranto, a stento,
sopra codici vari e assai rari di un ormai estinto sapere –
appena assopito, la testa greve, udii, inatteso, un colpo lieve,
come fosse qualcuno alla porta, alla porta un lieve grattare.
“Qualcuno” borbottai “è venuto alla stanza a bussare –
Niente più, solo questo, sicuro.”

E più avanti, con grande efficacia:

E io a quello: “Profeta, seppur del maligno! – diavolo o uccello! –
Ti mandi il Tentatore o sia la tempesta a farti qui approdare
su questa landa deserta, incantata, afflitta eppure indomata –
in questa dimora infestata dall’Orrore – ecco io t’imploro –
un balsamo in Gàlaad si può trovare? – dimmelo, t’imploro!”
Il Corvo “Mai più” disse allora.

È, quella di Raffaela Fazio, una sfida ardua per il diverso passo “intrinseco” dell’inglese e dell’italiano; pure è una sfida che produce risultati convincenti, tanto più meritevoli in quanto riguardano spesso poesie minori e poco conosciute. Si pensi a Il lago, Fanny, A Frances S. Osgood. Si pensi alla poesia d’esordio, Gli spiriti dei morti, composta da Poe a diciotto anni: manifesto letterario “di fatto” e suggestiva metafora gotica della memoria, dell’ispirazione, dell’affollato paesaggio interno che abita la mente di ogni creatore.

Fa’ silenzio in tale solitudine
che solitudine non è – perché
gli spiriti dei morti, davanti a te
in vita, ti sono intorno ancora
nella morte – il loro volere
ti avvolgerà intero. Non fiatare.

Su queste basi linguistiche il discorso poetico di Poe si proietta sul lettore nella sua giusta luce. I luoghi ameni e spettrali, le presenze eteree, l’amore e la morte, il fascino e il dramma che racchiudono, la paura di perdere l’oggetto dell’amore e la fatalità di perderlo, il terrore della morte e l’impulso irresistibile verso di essa. […]

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Tre poesie da “Edgar Allan Poe. Nevermore. Poesie di un Altrove a cura di Raffaela Fazio” (Marco Saya Edizioni, 2021)

The Lake

In spring of youth it was my lot
To haunt of the wide earth a spot
The which I could not love the less –
So lovely was the loneliness
Of a wild lake, with black rock bound,
And the tall pines that towered around.

But when the Night had thrown her pall
Upon that spot, as upon all,
And the mystic wind went by
Murmuring in melody –
Then – ah then I would awake
To the terror of the lone lake.

Yet that terror was not fright,
But a tremulous delight –
A feeling not the jewelled mine
Could teach or bribe me to define –
Nor Love – although the Love were thine.

Death was in that poisonous wave,
And in its gulf a fitting grave
For him who thence could solace bring
To his lone imagining –
Whose solitary soul could make
An Eden of that dim lake.

Il lago

Nel fiore degli anni il caso volle
che un luogo abitassi, tra i mille.
Quel luogo, come amarlo meno?
tanto la solitudine era amena
del lago silvestre ovunque cinto
da nera roccia e pini torreggianti.

Ma quando gettava la Notte
il suo manto là sopra e su tutto,
e, passando, il mistico vento
mormorava un melodico canto –
allora mi destavo nel terrore
del lago remoto, solitario.

Non era una scossa di paura,
piuttosto, un tremulo piacere –
un sentimento che nessun tesoro
mi aiuterebbe o forzerebbe a dire –
neanche l’Amore – anche se tuo, l’Amore.

La Morte era in quell’onda avvelenata
e nel suo gorgo una tomba adeguata
a colui che riusciva là a lenire
il solingo suo fantasticare –
al solitario la cui anima era in grado
di fare un Eden di quel nero lago.

*

Fanny

The dying swan by northern lakes
Sings its wild death song, sweet and clear,
And as the solemn music breaks
O’er hill and glen dissolves in air;
Thus musical thy soft voice came,
Thus trembled on thy tongue my name.

Like sunburst through the ebon cloud,
Which veils the solemn midnight sky,
Piercing cold evening’s sable shroud,
Thus came the first glance of that eye;
But like the adamantine rock,
My spirit met and braved the shock.

Let memory the boy recall
Who laid his heart upon thy shrine,
When far away his footsteps fall,
Think that he deem’d thy charms divine;
A victim on love’s altar slain,
By witching eyes which looked disdain.

Fanny

Tra nordici laghi, il cigno morente
il canto di morte chiaro e dolce intona;
irrompendo, la musica solennemente
su colli e per valli nell’aria già sfuma.
Così giunse il suono della tua voce tenue,
così sulla lingua ti tremò il mio nome.

Simile al sole che in uno sprazzo fora
il nero sudario della fredda sera
dalla nube d’ebano che il cielo vela
notturno e solenne, così il primo bagliore
del tuo occhio a me venne; ma come adamante
il mio spirito resse il colpo all’istante.

La memoria richiami il ragazzo adesso,
che sulla tua ara il suo cuore depose.
Quando lontano sarà ormai il suo passo,
pensa: credé i tuoi incanti divine cose;
sull’altare dell’amore, lui in sacrificio
di occhi sdegnosi, del loro sortilegio.

*

Spirits of the Dead

I.
Thy soul shall find itself alone
’Mid dark thoughts of the grey tomb-stone –
Not one, of all the crowd, to pry
Into thine hour of secrecy:

II.
Be silent in that solitude,
Which is not loneliness – for then
The spirits of the dead, who stood
In life before thee, are again
In death around thee – and their will
Shall overshadow thee: be still.

III.
The night – tho’ clear – shall frown –
And the stars shall not look down
From their high thrones in the Heaven
With light like hope to mortals given –
But their red orbs, without beam,
To thy weariness shall seem
As a burning and a fever
Which would cling to thee for ever.

IV.
Now are thoughts thou shalt not banish –
Now are visions ne’er to vanish –
From thy spirit shall they pass
No more – like dew-drop from the grass.

V.
The breeze – the breath of God – is still –
And the mist upon the hill
Shadowy – shadowy – yet unbroken,
Is a symbol and a token –
How it hangs upon the trees,
A mystery of mysteries!

Gli spiriti dei morti

I.
La tua anima saprà di esser sola
tra bui pensieri di una grigia stele –
In tanta folla, nessuno là a spiare
quel tuo tempo, la tua segreta ora.

II.
Fa’ silenzio in tale solitudine
che solitudine non è – perché
gli spiriti dei morti, davanti a te
in vita, ti sono intorno ancora
nella morte – il loro volere
ti avvolgerà intero. Non fiatare.

III.
La notte – seppur tersa, senza velo –
si acciglierà; dagli alti troni in cielo
le stelle non guarderanno in basso
con luce offerta ai mortali come fosse
speranza – Le loro orbite arrossate,
senza raggi, parranno a te affaticato
vivo bruciore, febbre scottante,
che su te avrà ormai presa incessante.

IV.
Allora, i pensieri che tu non bandirai
e le visioni che non morranno mai –
non prenderanno dal tuo spirito congedo –
come dall’erba la goccia di rugiada.

V.
Ferma è la brezza – il respiro divino –
la nebbia è fumosa sulla collina,
fumosa ma intatta, senza cesura
è un simbolo, un segno che perdura –
Come incombe sospesa sulle fronde,
mistero tra i misteri più profondi!

Nota di lettura su “Unità stratigrafiche” di Laura Liberale, Arcipelago Itaca, 2020.

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    di Carlo Giacobbi
 
    Unità stratigrafiche è opera avente ad oggetto ciò che Jaspers definisce la <<situazione limite>> dell’esistenza: id est, la morte.
 
    Le liriche che compongono la raccolta, e in senso figurato ogni pagina in cui si stratifica l’indagine empirico-scientifica della Nostra attorno al referente tematico,  sembrano integrare, come enunciato nel titolo, le <<unità>> fattuali che danno corpo al discorso poetico; gli strati appunto, i sedimenti antropici dai quali inferire elementi conoscitivi di ordine antropologico sull’evento terminativo dell’esperienza umana.
    
    Il macrotesto, a struttura quadripartita, si specifica nelle sezioni della Tanatoestetica, de I mezzi, dell’Animal-animot-animort, del Fuori sezione, rispettivamente concernenti: l’estetica dei defunti (la loro presentabilità alla veglia funebre); i medium (gli strumenti di connessione tra vivi e trapassati); il ripensamento d’una maggiore dignitas da riconoscere all’animalità (non umana); la presenza e la cura d’una madre nei confronti del figlio in hora mortis.
    
    La morte, dunque. E la si pronunci questa parola, se ne indaghi anzitutto il significato letterale-biologico, se ne prenda atto: questo pare essere l’invito del dettato poetico dell’autrice, il motivo della sua ars scribendi.
    
    La Liberale, infatti, rifugge da ogni forma di esorcismo o rimozione del fatto estintivo; non tacita la questione in termini epicurei o lucreziani o wittgensteiniani, per i quali, nell’ordine sopra indicato, <<quando ci siamo noi, la morte non c’è>> (cfr. Lettera a Meceneo, 125); <<(la morte è) un nulla per noi, e non ci tocca per nulla>> (cfr. De rerum natura, III); <<la morte non è un evento della vita: non si vive la morte>> (cfr. Tractatus, 6.4311).
    
    Gli approcci sopra esposti, che tradiscono l’esigenza umana di anestetizzare un pur legittimo timor mortis, non sono certo quelli della poetessa, la quale, anzi, si pone face to face con l’oggetto indagato, lo esibisce tel quel, come risulta dalla descrizione del corpo esanime della <<signora S.>> – di cui alla lirica d’esordio (cfr. p. 9) – che si appresta <<a cedere a colliquare>>.
    
    Il fatto ultimo dell’esistenza sembra assunto, nell’intentio poetica di Laura Liberale, nell’accezione heideggeriana del cd. Sein-zum-Tode (<<l’essere-per-la-morte>>, cfr. Heidegger, Essere e tempo), quale momento, cioè, di auto-consapevolezza della finitudine del singolo, l’esistenza del quale diviene autentica nella misura in cui riconosca nella morte un fatto proprio (<<Io muoio>>, cfr. ibidem) e non già un accidente impersonale o cosa d’altri (<<Si muore>>, cfr. ibidem). <<I morti vivono>>: così il verso n. 2 di pag. 42; ma si potrebbero invertire i termini: i vivi muoiono o per dirla con Ungaretti <<La morte / si sconta / vivendo>>.
    
    In relazione al livello stilistico, potremmo ascrivere i versi della Nostra, così essenziali ed asciutti, a certa poesia in re della Linea Lombarda, ove le “cose” della quotidianità – tra le quali evidentemente anche la morte – si fanno oggetto d’una poetica anti-eroica ed anti-retorica, libera dai simbolismi dell’ermetismo e vocata ad una narratività funzionale ad un più immediato rapporto tra il poeta e la realtà.
    
    Il linguaggio utilizzato dalla Liberale – fatte salve alcune eccezioni –  è infatti più denotativo che connotativo, come si legge nel testo d’esordio di p. 9: <<alla signora S. hanno aperto gli occhi per mostrarceli>> o in quello di p. 40: <<il ragazzo lo hai visto morire all’incrocio>>.
    
    L’uso della parola poetica è dunque nella specie più letterale che allusivo (cfr. p. 62, <<essere due corpi / uno che abbraccia l’altro che muore>>), scevro da specifici apparati figurali, tanto che il textus si presenta a struttura prosastica, caratterizzato da criteri di tendenziale coesione sintattica, nonché da una descrittività incline a rendere la pronuncia maggiormente accessibile, pur restando a pieno titolo nell’ambito di quella forma superiore del dire che è lo specifico della scrittura poetica.
    
    All’omogeneità tematica che caratterizza la silloge, la Liberale giustappone un pluralismo formale che oscilla da versificazioni “orizzontali” a verso libero (cfr. p. 9 e ss.) di matrice biblico-whitmaniana, fino alla forma chiusa e “verticale” del sonetto (cfr. p. 63), così operando una mescolanza metrico-strofica singolare, nonché esibendo una non comune padronanza di stili compositivi che includono l’intertestualità del pastiche o collage dalle ricorrenze anaforiche (cfr. p. 42, cinguettii), fino all’uso d’una diffusa narratività che a livello tipografico occupa l’intero rigo di scrittura ed omette gli a capo tipici della tradizione poetica (cfr. p. 35; p. 37). Poesia in re, s’è detto. Ma anche ab re esse: dai fatti, dalle circostanze.
    
    Molti testi riportano i nomi – sia pure indicati con la sola iniziale maiuscola puntata – dei protagonisti delle liriche (<<la signora S.>>, cfr. p. 9 e ss.; il << signor T.>>, cfr. p. 13; <<X>>, cfr. p. 14); altri componimenti sono dedicati (<<per I.>>, cfr. p. 32; <<per L. e G.>>, cfr. p. 33); altri ancòra si riferiscono a soggetti storici individuati: Henrietta Lacks (cfr. p. 35), Virginia Ruiz (cfr. p. 62), Elian Gonzales (cfr. p. 63), Dennis Avner (cfr. p. 65); ulteriori altri ruotano attorno al mondo animale: il gatto di Derrida (cfr. p. 59), il cane Laika (cfr. p. 60), il topo transgenico mito-luc (cfr. p. 61), la pecora Dolly (cfr. p. 66).
    
    Circostanze, occasioni poetiche, di cui la poetessa – date le sue competenze professionali – è spesso testimone de visu, così da coniugare la scientificità degli aspetti tanatologici ad un’ontologia che pone la questione dell’essenza del corpo esanime; dell’entità-mano, ad esempio, che resta nominabile tale (che è ancora mano) a prescindere dall’orfanità del suo principio vitale (cfr. p. 10, <<la definitiva cessazione funzionale>>) a condizione che persista <<un qualche tipo di commercio fra vivi e morti>> (cfr. ibidem), una qualche forma di frequentazione, di interazione, di corrispondenza (anche <<d’amorosi sensi>> per dirla con Foscolo).
    
    Una relazione, quella testé richiamata, che appare bidirezionale: non solo dal vivo all’estinto 8(cfr. p. 40, <<il ragazzo lo hai visto morire all’incrocio (…) / ogni volta che passi di lì ne ripeti / nome e cognome>>) ma, appunto, anche viceversa, con elementi di paranormalità (cfr. p. 17, <<per dirci che va tutto bene / gli appena morti muovono le gocce di vetro dei lampadari>>; cfr. altresì p. 18, <<i morenti (…) al fremito dei vivi rispondono: / se ci sentiste (…)>>).
    
    Quanto esposto, vale a dire la motilità del defunto, la sua ipotizzata idoneità a modificare l’ambito fenomenico dei vivi, fa da contraltare alla iniziale staticità del corpo esanime della <<signora S. (…) estratta dal frigo>> (cfr. p. 9), la quale, nei frammenti di cui alle pp. 11 e 12, rispettivamente si muove (<<si tende come un butto dal legno>>) e parla (<<smettetela di sussurrare per abitudine al rispetto>>), quasi la Liberale volesse evidenziare che se la morte è fine (quantomeno della corporeità), non è escludibile che ciò che fu continui ad essere in forma altra.
    
    Ed infatti, qualunque sia la visione esistenziale di ciascuno, non può revocarsi in dubbio che il <<fermarsi per sempre>> (cfr. p. 34) sia <<entrata nel mistero>> (cfr. ibidem) che, nell’ottica d’una (non ancora acquisita) death education, <<merita il massimo decoro>> (cfr. ibidem).
    
    Un decoro che può esprimersi in forme diverse, come nel caso del figlio che rimuove la colonnetta funeraria dal locus horridus dello schianto del padre al fine di commemorarlo in più appropriata sede, vale a dire nel locus amoenus de <<l’angolo di bosco dove suo padre / andava a amoreggiare con sua madre>> (cfr. p. 22), atteggiamento, quest’ultimo, indicativo d’una volontà di recuperare in memoriam la dimensione vitale degli affetti sebbene trascorsi; o come nel prendere sul serio <<la tristezza>> (cfr. p. 33) dei vivi che <<è sempre un presentire la morte>> (cfr. ibidem).
    
    

Distopia del ritorno

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di Lisa Ginzburg

E’ di ogni ritorno un moto circolare; quasi, verrebbe da dire, è essenza del rivolgersi all’indietro, sua prospettiva obbligata, una geometria concentrica: cerchi le cui spire rimandano a un prima che diventa poi senza quasi nemmeno saperlo, involontariamente, per obbedienza a una metafisica del tempo che si fa struttura ritmica della prosa. Di questo anche racconta un saggio tripartito di Daniel Menedelsohn, Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino (trad. di Norman Gobetti, Einaudi). Una riflessione su quella circolarità della cronologia che pertiene a ogni esplorazione e déplacement sia fisico che esistenziale, così come a ogni forma di deviazione dal centro anche in senso stilistico. Quell’andatura circolare che è peculiare di ogni digressione, per propria natura o poi o prima destinata a un nòstos, a una resa verso l’origine, la radice, il tema chiave di cui essa stessa come digressione è deviazione, ma anche propaggine, appendice, epilogo che torna a essere prologo per forza di cose, perché a un Uhr sempre si torna, sia esso fonte, casa, paese di provenienza, lingua madre. Come che sia, ogni forma di appartenenza richiama a sé quasi ipnoticamente ogni détour. Non sorprende che a un tema del genere si appassioni Daniel Mendelsohn, in un suo ideale “ritorno a sé”, provato psicologicamente dalla serie di inchieste/interviste con quei tanti testimoni della Shoah i dialoghi coi quali sono stati suggestione della sua opera più imponente, Gli scomparsi. Sua in modo peculiare è un’attenzione profonda alla fatica di ogni esilio, di ogni sostare, sia quello lontano, sia quello più vicino come è per un “ritornante”. Così, a partire da una riflessione sull’Odissea, e in margine a una crociera fatta insieme al padre prima che questi morisse – un viaggio per mare organizzato e pensato comme periplo sulle tracce di quello di Ulisse – Mendelsohn divaga, e divagando fa della divagazione un argomento principe, il tema del suo libro.

Ulisse “polytropos” (“dalle molte svolte”) torna a Itaca così descrivendo un cerchio, e insieme chiudendolo. In parallelo, e per analogia/simmetria, l’intera Odissea può esser letta come architettura concentrica di digressioni che finiscono col ricongiungersi al loro proprio tema: cronaca e vicenda di un ritorno, che ha al suo centro, stilisticamente, la digressione stessa. Nasce così la “composizione ad anello”, tecnica narrativa che si riassume in un girovagare per poi sempre finire col rintracciare la via di casa. Un’arte di fare digressioni per contemporaneamente elaborare un progressivo, infallibile riavvicinamento al tema. Risultato è che tornare è  fare il punto, e così liberarsi da illusioni: arrivare a una visione (e descrizione) chiara del reale, e farlo grazie a innumerevoli deviazioni dal cammino.

Medesimo criterio, Mendelsohn argomenta, governa in senso sia stilistico che contenutistico un altro grande capolavoro della digressione, la Recherche di Proust. Due strade, dal narratore pensate nell’infanzia come divergenti, la strada di Swann e quella dal lato dei Guermantes, seguite in una continua divagazione che fa da cardine a centinaia e centinaia di pagine, finiscono con l’essere comprese nella loro coincidenza: entrambe conducono ugualmente a stesso luogo, il Marcel Proust adulto scopre. Un ricongiungimento anche mentale che, una volta di più, coincide con un’agnizione liberante e trasformante. Un comprendere una ciclicità in nome della quale tanto maturare ed evolvere (e tornare) diviene possibile, tangibile, concreto.

“Réculer pour rebondir” si potrebbe dire, parafrasando un noto detto francese: tornare, traendo dal ritorno slancio per un ricominciamento che a sua volta trova senso in un’agnizione. Perché solo sostando nel ritorno arriva la forza di elaborare i lutti – compreso quel profondo lutto che molte volte è il peregrinare, o, per Mendelsohn, l’aver tanto riflettuto e ascoltato sullo sterminio degli ebrei, sulla perdita da pensarsi come terribile scomparsa collettiva.

Oltre a Ulisse (e a Proust), altre figure si impongono, autori che Mendelsohn individua come simboli di resurrezione, date condizioni di partenza di profondo disagio per eccesso di dislocamento. Eric Auerbach, confinato a Istanbul a causa delle leggi razziali, che concepisce il suo capolavoro Mimesis strutturandolo grazie a una personale (straordinaria) memoria di una biblioteca inconsultabile perché lontana (a “casa”, in Germania). Quello straniero che Auerbach impersona, stanco e provato da troppa nostalgia e troppo esilio, Mendelshon lo raffigura interscambiabile con tanti altri viaggiatori per necessità e per destino, “lo studioso greco che da Istanbul scappa in Italia nel 1453, il musulmano cacciato dalla Spagna a Istanbul nel 1492, l’ugonotto passato dalla Francia alla Germania nel 1685”. E interscambiabile con autori venuti dopo di lui: il W. G. Sebald dalla Germania emigrato nel Regno Unito, autore di Austerlitz, grande libro su un’agnizione legata a un improvviso volgersi indietro della memoria, e più ancora, scrittore de Gli anelli di Saturno, un testo che composto quasi esclusivamente di digressioni riverbera il vagabondare come stato dell’anima, prima ancora che fisico. Qui anche, a essere usata è una “composizione ad anello” (Mendelsohn non la cita, ma si potrebbe facilmente aggiungere la Olga Tokarczuk de I vagabondi); qui anche a dominare è una visione dell’esistenza come connessione di cerchi concentrici, snodi di nodi che interconnettono avvenimenti e loro interpretazioni.

Avvenimenti – sia reali che interiori – disposti secondo un’assialità che sfiora la nemesi e asintoticamente scorre parallela a un destino che stenta a compiersi ma di continuo si annuncia. Ai fatti così concepiti si aggiunge, alle comprensioni interiori proprie di ogni ritorno, un lutto aggiuntivo: la comprensione della distopia messa in atto dalla mente durante ogni distanza, ogni esilio. E qui, refrattaria come sempre più mi sento rispetto all’autobiografismo, lo stesso racconto un aneddoto personale, che Daniel Mendelsohn forse capirebbe cogliendone la dimensione “ad anello”. Tornata a vivere in Italia dopo dodici anni francesi, ho portato mia figlia in “pellegrinaggio” alla panchina seduta sulla quale la cullavo, lei appena nata, in carrozzina. Nel buio di un giardinetto pubblico, ben più spelacchiato di quanto non campeggiasse nel ricordo nostalgico, insieme abbiamo notato su una delle lamelle della panchina una piccola insegna. “Itaca”, diceva la targa. Sbalordita dalla casualità fatale,  ho ricordato (come non farlo) l’omonima bellissima poesia di Kavafis. In particolare quei versi che recitano: “E se la trovi povera / Non per questo Itaca ti avrà deluso/Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso/già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare”. Ritorno è anche, spira conclusiva del cerchio, accettazione di un tempo concluso, il tempo dell’esilio. E’ accogliere lo scorrere di quel tempo, il suo essersi compiuto, aprendo a un presente forse rimpicciolito, eppure ricco di consapevolezze nuove. Sortilegi degli anelli in cui si condensa il tempo: si elaborano – tornando – lutti di distopie passate, generate da nostalgie che non sono più.

Su «Quando tornerò» di Marco Balzano

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di Antonella Falco

Badante. Ossia persona addetta all’assistenza di anziani, ammalati o disabili. Di questa figura professionale tutti abbiamo, direttamente o indirettamente, fatto esperienza nel corso della nostra vita. A queste donne, spesso provenienti dall’Europa dell’Est, affidiamo la cura di genitori anziani, nonni, zii non più autosufficienti che non possiamo (o non vogliamo) accudire personalmente. Tutti, dunque, conosciamo questa figura professionale. Pochi di noi, però, quasi nessuno, si sofferma a riflettere sulla storia personale e privata di queste donne, sulle loro vite interrotte per andare a racimolare un po’ di soldi in un Paese straniero, svolgendo mansioni spesso non attinenti agli studi fatti e alle ambizioni coltivate. Lontane dagli affetti più cari. «Destini che ci riguardano da vicino, ma che spesso preferiamo non vedere», si legge nella quarta di copertina di Quando tornerò, l’ultimo libro di Marco Balzano, che dopo lo struggente e bellissimo Resto qui torna in libreria con un potente romanzo familiare a tre voci. La storia è quella di Daniela, donna rumena che una notte fugge di casa come una ladra e parte per Milano, dove farà di volta in volta la badante, la baby sitter, l’infermiera. A casa lascia un marito senza lavoro e dedito all’alcol e due figli adolescenti a cui desidera poter assicurare un futuro dignitoso.

Questa poteva essere la storia solo di Daniela, colei che parte. Ma fin da subito diventa la storia di chi parte e di chi resta. Della madre che va ad accudire altre persone, e dei figli che restano a casa covando rabbia e senso di abbandono. Perché se da un lato c’è la solitudine e la nostalgia delle donne che partono, dall’altro c’è la realtà delle famiglie, dei figli, che restano in attesa del ritorno. Così a raccontare questa storia sono Daniela e i suoi figli, Manuel e Angelica. Ciascuno dal proprio punto di vista, ciascuno spiegando le proprie ragioni, mentre compie le proprie scelte (spesso forzate) e subisce quelle degli altri. Ognuno rivendicando le proprie esigenze, le aspirazioni ma anche le ferite che la separazione determina.

La vita di Daniela, sdoppiata, dimidiata, perennemente col cuore altrove, subisce un giorno un ulteriore scossone: suo figlio Manuel ha avuto un incidente e giace in coma. Un incidente sul quale si addensano dubbi inquietanti. Rientrata in Romania, Daniela trascorre le sue giornate al capezzale del figlio addormentato, narrandogli la vita che ha vissuto lontano da lui, cercando di riannodare i fili di un dialogo interrotto, sempre domandandosi se, dopo essere stata lontana tanto a lungo, le è ancora lecito definirsi madre.

Balzano costruisce un romanzo di grande impatto emotivo. Mediante una scrittura asciutta, priva di fronzoli, ma nello stesso tempo calvinianamente “leggera”, ci racconta la fatica di vivere, la frustrazione di queste donne, la loro storia di migrazione che è in realtà un esodo forzato e può trasformarsi in un lento logorio esistenziale.

Una migrazione, peraltro, tutta al femminile. Balzano, nella nota che conclude il libro, sottolinea che «da trent’anni a questa parte, due terzi dei migranti del pianeta sono donne». Donne a cui affidiamo «il peso della cura dei corpi e delle menti più fragili», ma che per noi restano prevalentemente delle figure fantasma. Trasparenti. Evanescenti. Abbandonate alla loro solitudine. A una quotidianità che pone loro sotto gli occhi null’altro che corpi malati o moribondi e farmaci dai nomi astrusi. «Le prime parole che ho imparato in Italia», dice Daniela nel romanzo, «sono stati i nomi delle malattie, i principi attivi dei farmaci, le parti inferme del corpo. Quando me ne rendevo conto impietrivo». E ancora: «…La mia vita, finché non ritornerò a Radeni, sarà sempre veder morire dei vecchi, pensavo». Il tutto acuito dalla difficoltà di trovarsi in un Paese straniero di cui non si conosce bene la lingua: «Uno fa solo pensieri da animale senza la sua lingua».

Quando tornerò è un romanzo che consente di ricostruire il mondo di provenienza e quello di arrivo delle badanti, facendo affiorare tutta la loro umanità e mettendo sotto accusa la nostra indifferenza. La difficile e complicata condizione lavorativo-esistenziale di queste donne finisce per avere ripercussioni a livello psicologico e sociale. Lasciate pressoché sole a fronteggiare malattie complesse, come il Morbo di Parkinson e l’Alzheimer, queste donne sviluppano una sindrome da burnout (in inglese il termine significa “bruciarsi”) legata allo stress di gestire quotidianamente i problemi delle persone di cui si prendono cura. Gli psichiatri dell’Est Europa definiscono tale patologia col nome di «Mal d’Italia». L’alto prezzo che pagano sul piano affettivo porta le badanti a mettere in discussione la propria identità di mogli e soprattutto di madri. Il loro lavoro implica di solito un miglioramento delle condizioni economiche della famiglia e questo fa sì che, per non alterare la nuova condizione di benessere raggiunta, queste donne prolunghino il loro soggiorno lavorativo all’estero. «Quando tornerò» diventa allora più che altro un auspicio, per giunta sempre più aleatorio. Fino a divenire una pura chimera. Si innesca allora il fenomeno degli orfani bianchi, il disagio psichico delle madri diventa in tal modo anche il disagio di molti minori che subiscono le conseguenze di questo esodo transnazionale.

Leggendo il romanzo di Marco Balzano mi è venuto in mente un libro dell’antropologo Vito Teti, Il vampiro e la melanconia. Miti, storia, immaginazioni, letto anni fa: un libro che affronta la tematica del doppio nel fenomeno migratorio, lo spopolamento dei paesi, i temi della nostalgia e della malinconia. In particolare, nel volume, la metafora del vampiro è accostata a quella del migrante, un’immagine insolita, certamente poco esplorata, ma che mi è parsa fin da subito molto pregnante. L’emigrato è colui che abbandona il mondo d’origine e diventa in un certo senso un defunto, uno che muore agli occhi della propria comunità d’origine. Nei suoi ritorni, spesso provvisori, il migrante è un revenant che inquieta e perturba, «che cerca amore e riconoscimento e che subisce spesso allontanamento ed espulsione da parte dei familiari rimasti, che lo vivono e lo accolgono ora come un aiutante benevolo, ora come una figura che provoca disordine e mette a rischio i valori e la mentalità, l’esistenza stessa dell’universo d’origine».  La letteratura sull’emigrazione, spiega Teti, descrive spesso l’emigrante come uno spettro, un essere sospeso a mezz’aria: «l’emigrazione si configura come morte e il viaggio dell’emigrante si ricollega al viaggio del defunto nella società tradizionale». L’emigrante, sebbene amato e atteso, è guardato con diffidenza e sospetto, quasi con paura. «L’emigrante è un vivente che è morto per la società d’origine: è, in fondo, un vampiro. Il vampiro vive senza sentirsi vivo. L’emigrato conosce l’esperienza di vivere senza sentirsi vivo. […] Il vampiro è metafora dell’esule e dello straniero che cerca accoglienza e perturba, che viene tollerato o allontanato, raramente compreso e accolto».

Il libro di Marco Balzano, tuttavia, riesce a dare anche un messaggio di speranza, mostrando la forza e la tenacia di queste donne, il loro non arrendersi di fronte alle difficoltà. Balzano, che da sempre utilizza la letteratura come una lente d’ingrandimento che consenta di vedere meglio realtà a volte scomode, chiude infatti il romanzo con un’immagine suggestiva e fortemente simbolica: quella del boomerang. Senza svelare troppo della trama, credo si possa affermare che tale immagine rappresenti per Daniela e per i suoi figli la conquista di una nuova consapevolezza, e quindi di un legame più maturo, il quale grazie a un percorso di emancipazione – affrontato in primis dalla madre e, per riflesso, anche dai figli – non teme più la distanza.