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Sporcarsi le mani con Dostoevskij

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di Claudia Zonghetti

[Questo articolo è apparso sul “Sole24ore” del 14 novembre in occasione della nuova traduzione de’ I fratelli Karamazov di Dostoevskij ad opera di Claudia Zonghetti (Einaudi)]

Ricordo l’interrogatorio del bibliotecario della Federiciana di Fano (Marco Ferri, che in seguito l’avrebbe diretta) quando, liceale, gli restituii i Karamazov dopo neanche una settimana dal prestito. “Non l’hai finito?”. L’ho letto tutto, gli ribattevo, l’ho sbranato. Ivan, Dmitrij, Alëša, il diavolo, Smerdjakov, Zosima, la sofferenza di ogni essere umano, lo strazio per un’armonia superiore che non si incarna sulla terra… “Due più due?”. Cinque! Sorrisi.

Ricordo anche un libraio di Fano, Francesco, che un paio di decenni dopo usciva dal suo negozio sotto i portici urlando: “Corri! Subito! C’è Alëša Karamazov!”. Era Carlo Simoni, che nel 1969 lo aveva interpretato nello sceneggiato di Sandro Bolchi. Imbarazzo. Strette di mano. Sorrisi.

E ricordo la telefonata di Enrico Ganni (la sua competenza gentile manca ogni giorno) che mi proponeva di tradurli, I fratelli Karamazov. Il terrore di affrontare l’idolo dell’adolescenza, le sue pagine intrise “della materia dell’anima”, ma soprattutto i “vortici ribollenti, i mulinelli di sabbia, le trombe d’acqua risucchianti” della sua lingua, di cui dopo le parole di Virginia Woolf avevo avuto la prova tangibile leggendoli finalmente in russo. Ci è voluto un po’, ma sono comunque arrivati. I sorrisi.

Perché a questo servono, spesso, le nuove traduzioni.

La sostanza di questo capolavoro assoluto (la meraviglia perturbante, lo strazio sublime, la miccia infangata per i pensieri, la farsa tragica e la tragedia farsesca del ventaglio della vita umana) è ovviamente immutata e folgorante, nel suo indomito scavo nelle profondità più infime dell’animo. Dmitrij e il suo baratro di istinti, Ivan fra dèmoni e demòni, Alëša (Aleksej Fëdorovič, colui che difende il dono di Dio, recita l’etimologia di nome e patronimico) disperato attizzatoio di una speranza flebile, ma ostinata, lo squallore di Fëdor Pavlovič, e ancora Smerdjakov, Grušen’ka, Katja, la Chochlakova, i polacchi, e tutto il serraglio che a cent’anni di distanza ancora giustifica la “polifonia” intuita da Michail Bachtin continuano a scalpitare fra le pagine costringendoci spasmodicamente a fare i conti con le nostre, di cancrene e di slogature dell’animo.

Spasmodicamente, sì. Spasmo, febbre, convulsione, calor bianco sono la temperatura abituale delle pagine di Dostoevskij, e galvanizzato è anche il nervo della sua lingua. Senza scomodare Joyce, che ne faceva la madre della prosa moderna, basterà ricordare una lettrice di russo a Ca’ Foscari che ormai trent’anni fa apriva a caso, alla cieca i volumi di Tolstoj e Dostoevskij e ci invitava a riconoscerli. La differenza era lampante persino per noi studenti del terzo anno: l’azzardo sintattico, la melodia disarmonica del periodare, la disinvoltura nell’uso della lingua della strada (al limite, spesso superato, dell’oralità spiccia), e ancora il burocratese degli uffici, la sintassi teologico-biblica di certi passi, il gergo dei giornali, le ripetizioni (necessarie, irrinunciabili per lo sviluppo ritmico delle sue idee), le lunghe frasi contorte e quelle asciugate fino all’osso, là dove la grammatica pretenderebbe un respiro più disteso, si amalgamavano in una congerie riconoscibilissima che incrinava la norma letteraria del tempo. E lo faceva in modo estremamente consapevole: Io non riesco a scrivere di getto – spiegava eloquentemente Dostoevskij a Pelageja Guseva in una lettera del 1880.

Questa è, appunto, la sfida per i traduttori attuali e futuri di Dostoevskij: ripiegare l’italiano liturgico che si credeva l’unico adatto a onorare i classici e sporcarsi le mani con la pasta sonora e sintattica della sua lingua plastica e veemente, così da far risuonare quanto a volte è stato ignorato per una diversa interpretazione del gesto traduttivo.

Non sarà sempre una lettura facile e mai sarà “ruffiana” o consolatoria. Ma non potrà che stupire chi legge con il suo straripante virtuosismo. Del resto, se “due più due fa quattro è solo un’impertinenza” e “sul piano del bello due più due fa cinque è sicuramente meglio”, aduecento anni dalla nascita del suo autore, questo romanzo incompiuto di mille e più pagine (“storia interminabile che, per comune riconoscimento, pochissimi russi hanno avuto il coraggio di leggere fino in fondo” scriveva il visconte de Vogüé a un decennio dalla pubblicazione) non lascerà mai tiepido chiunque decida di affrontarlo.

Perché, alla fine, aveva ragione Albert Camus, quando una sera di aprile del 1956 scriveva a Maria Casarès:

“Lunedì sera sono andato da solo alle 20.00 a vedere I fratelli Karamazov.
Il cinema, forma e odore, faceva pensare a un orinatoio. Dentro, trenta persone del quartiere, vecchi stanchi, la giornalaia dell’angolo con il suo bello, il venditore di patate fritte, tre mezze puttane, due futuri clochard, e io. Tutti visibilmente sopraffatti da quella storia fumosa, girata in studio, da attori italiani sconosciuti. Avevano lasciato solo l’intreccio poliziesco e soppresso la questione di Dio. Tanto che il vecchio Karamazov era ormai solo un rimbambito vizioso, Ivan un burocrate con lo stomaco malconcio e Alëša un telegrafista idiota. Dmitrij aveva una certa classe e diceva a ogni scena ‘sono un balordo’. Grušen’ka aveva il suo perché, davanti e dietro, e Katerina non aveva proprio un bel niente. Detto questo, mi sono colpevolmente divertito e sono uscito commosso.
A riprova che Dostoevskij può resistere a tutto”
(da A. Camus, M. Casarès, Saremo leggeri, trad. Y. Melaouah e C. Diez, Bompiani, 2021).

L’odore dell’arrivo

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(Per gentile concessione della casa editrice Ferrari Editore, che qui volentieri ringrazio, pubblico uno stralcio del nuovo romanzo di Gianluca Veltri, L’odore dell’arrivo, pagg. 158, Postfazione di Dario Brunori. G.B.)

 

di Gianluca Veltri

Quando, in un soleggiato sabato inglese di inizio estate, entrai nel piccolo cimitero di Tanworth-in-Arden, dove Nick riposa dal 1974, sul suo sepolcro contornato da un sacrario pop – anelli e corde di chitarre, capotasti e fasce per capelli, catenine e plettri – venni colto dal desiderio vertiginoso di lasciare lì anche qualcosa di mio. Non un oggetto qualsiasi, ma qualcosa di caro, di serio, che mi rappresentasse, in grado di stabilire una connessione dotata di senso, meno aleatoria.

Volevo depositare in quel cimitero inglese, sotto il cielo nordico, un mio prolungamento affettivo, significativo, non semplicemente la prima cianfrusaglia trovata in tasca. Rovistando tra i miei pochi averi – non mi ero preparato niente di adatto – emerse finalmente l’oggetto giusto: una foto formato tessera del nonno, ossia di Alce Nero – che non c’era più da vent’anni –, custodita nel portafoglio. […] Mi sentivo pienamente rappresentato da Alce, che stabiliva un ponte felicissimo tra la mia provenienza ancestrale, pre-moderna, alla quale non intendevo rinunciare, e l’omaggio dovuto a Nick Drake e alla sua musica.

Nick, in fondo, pur essendo un idolo pop-rock figlio della modernità, aveva un’anima antica; pur precorrendo i tempi con il suo talento innovatore, quei tempi non aveva saputo viverli.

Io ho sempre amato unire, connettere, anche a costo di qualche arditezza. Nick e Alce Nero avevano davvero poco in comune. Curiosamente, creavo adesso un paradosso, chiudendo un cerchio intimo tra una sorta di fratello, che sarebbe rimasto giovane per sempre, e un nonno che invece era già vecchio quando io iniziavo a ricordarmi di lui. Un giovane imprigionato per sempre nella sua gioventù, che non ha fatto in tempo a invecchiare; un avo che da giovane lo si può soltanto, a fatica, immaginare.

Il giovane Nick. Il vecchio Alce.

[…]

Quando vedo nelle nostre città d’arte pensionati americani, giapponesi o francesi che alle dieci del mattino mangiano al sole nei ristoranti, seduti ai tavoli all’aperto, con borse, guide turistiche, macchine fotografiche e occhiali, rilassati e girovaghi, mi capita di ripensare a mia madre, mio padre, i miei nonni, che del mondo non hanno visto quasi niente.

Adesso la sua antica faccia meridionale campeggiava sotto una quercia del Warwickshire.

***

Una delle volte che ricordo mio nonno fuori dal suo contesto abituale – da patriarca parmenideo nella casa del centro storico – risale a quando mi portò in gita per qualche ora nelle Puglie. Mi aveva preannunciato che un sabato di giugno, ora perduto nella notte dei tempi, saremmo andati a mangiare il pesce a Taranto. Era una delle formule che sentivo usare quand’ero piccolo: andare a bere il caffè a Salerno; andare a mangiare il pesce a Taranto; andare a prendere il gelato a Reggio, cose così. Erano, o mi sembravano, sbruffonate utilizzate dagli smargiassi con tanto tempo da perdere. Però, pronunciata da lui, la formula assumeva tutta un’altra piega: lui che era una specie di sciamano nella nostra famiglia, un capo Lakota.

Le sue parole avevano un peso. Per un po’ pensai scherzasse, ma presto capii che mi sbagliavo. Infatti, un sabato splendente, a ridosso del solstizio d’estate, si presentò presto di mattina.

Saturday Sun.

Non guidava, il vecchio Alce: a piedi arrivammo in una stazioncina secondaria e prendemmo un treno: si era informato sugli orari, evidentemente. Era la prima volta che salivo su un treno. Lui era compiaciuto dietro i suoi ottocenteschi baffi imbiancati alla Vittorio Emanuele.

Il vento ionico che entrava dai finestrini aperti del primitivo treno interregionale era inedito e avventuroso. Giungemmo nella remota e levantina città portuale a ridosso dell’ora di pranzo. Il sole del sabato era limpido e azzurro e si confondeva con il mare e con il cielo. L’obiettivo di Alce Nero era piantare la bandiera: poter raccontare a quelli della ruga che aveva portato il nipotino a mangiare il pesce a Taranto.

Stava fabbricando un ricordo, consapevolmente.

Per sé, per me e per quelli a cui lo avrebbe raccontato. Appena terminato il pranzo, tornammo alla stazione a prendere il treno che ci avrebbe riportato a casa, nella nostra piccola città.

Missione compiuta.

***

Nick Drake aveva da poco pubblicato Five Leaves Left. O forse mi confondo e, come di consueto, imbroglio; in realtà, era già uscito il suo epitaffio, Pink Moon: in fondo, la sua parabola si svolge tutta nel soffio di un triennio, e io, alla fine di quella parabola, ero ancora un bambino come lo ero all’inizio.

Con i dischi di Nick – tre in vita più uno postumo – ho un rapporto specialissimo: li ascolto assai poco. Ho paura di consumarli. Ma non materialmente; non sono mai stato feticista o fissato con gli oggetti: i miei dischi sono tutti consunti e le copertine dei vinili sono state devastate dai gatti. Lo sciupio a cui mi riferisco è quello sentimentale, provocato dagli ascolti ripetuti che rischiano di inflazionare le emozioni, sovrapporre troppi strati, anestetizzando le orecchie rispetto alla magia delle note. Quindi, le canzoni di Nick vivono più dentro di me che negli ascolti esterni. Me le suono dentro, le lascio intatte.

Preferisco così. Le canzoni non sono tutte uguali. Alcune sono fragili e preziose come il cristallo e vanno custodite, protette. Ci sono delle cose che ci portiamo strette al cuore e le tiriamo fuori soltanto nelle occasioni speciali, quando servono davvero.

Come la foto tessera del vecchio Alce Nero.

 

Apocalisse e altre visioni

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di Maria Grazia Calandrone 

 

La poesia di Alessandro Celani usa le lingue del mondo in versi sciolti, mescola il verbo della scienza anatomica a quello dell’industria e del canto d’amore. L’impasto linguistico che ne risulta è il distillato di un desiderio onnivoro, decisivo e profondissimo: il poeta vuole abitare un’unica realtà, che abbracci ogni elemento vivo e morto, conosciuto e sconosciuto. Però la lingua è anch’essa provvisoria, fatta per essere dimenticata, anche quando si tratta di poesia, cioè – come confessa Celani – di una forma altissima ed estrema di resistenza al dolore. Così suggeriscono i versi «Metti in un sacco cento parole / dimenticalo / Ecco il tuo dono». Il dono è la dimenticanza di sé e del proprio tesoro, il dono è oltrepassarsi e, ancora più intimamente, non provare alcuna commozione per il proprio passato, per la persona che siamo stati.

La poesia di Celani è infatti asciutta, breve, a volte brusca, come il gesto di chi asciughi di nascosto una lacrima e intanto sorrida, col sorriso un po’ storto che hanno quelli che sanno il mistero del provvisorio e sono quasi liberati, ormai, dalla zavorra del futuro. Il poeta qui canta la coscienza di qualcosa che definisce «cisterna delle voci», espressione echeggiante e corale di un’umanità che prende forma nel tu amoroso e, soprattutto, nelle instancabili dediche ai figli, corpi amati e futuri, corpi attoniti ancora e quasi ancora insensibili e ignari, come la coccinella abbarbicata «al vetro alluminoso del vagone». Perché Celani arriva a insinuarsi nel pensiero animale, ad assumere lo sguardo radicale delle piccole bestie o dei monti vastissimi che digradano a valle e allora la sua voce si solleva fino a diventare siderale, l’occhio che guarda vede il mondo e se stesso da un’altezza straordinariamente rarefatta, pur chiamato nel gorgo del tempo dall’odore carnale del grano, dall’«odore anfibio delle mucose», dai baci umani e anche da «tettonici litigi», perché niente è escluso, niente viene radiato o estromesso dalla poesia. Non serve edulcorare, se la poesia è nello sguardo. Ma la distanza è grande, le parole cadono distillate da una distanza grande come la notte e l’incertezza, per raggiungere quello che si ama.

Le parole sono fatte per desiderare e quelle di Alessandro Celani desiderano raggiungere soprattutto chi non le comprende, perché l’amore è più grande delle parole e l’invocazione più umana e vera è che le parole, anziché letteratura, siano suoni di bestie. Versi animali, più che versi poetici, versi di un corpo che ora è la sua essenza, la sua limpida, mera, nera, opaca essenza biologica e chiede solo di essere visto: «Vieni qui facciamoci vedere». Basta con le metafore. Che adesso sia la vita a chiamare la vita. Proprio da qui, dai versi di un libro chiamato Apocalisse, da queste pagine tanto riservate quanto spudorate.

E che il corpo venga lasciato al morso delle formiche, che il corpo si dissemini nell’esistente, che sia bosco e sia mare e sia dimenticanza, perché «la vicinanza è una forma d’immortalità» e «gli amati non muoiono». Celani sembra dunque concludere il suo canto, doloroso e concreto e luminoso come una scaglia di cemento toccata dalla luce di una stella, con la scoperta – stupefatta e meravigliosa – che chi è amato non vive nei ricordi, vive nel corpo stesso di chi lo ama.

 

Trova nei libri parole da poco
gelsomino anima e dolore
Ai bambini dirai
queste sono lucciole
nella fresca notte del tempo
Sapranno che è segno di andare
saprà il te perduto nella luce
che vicino è il ritorno

 

*

 

Tieni fra i denti la parola morte
come un fiore di oleandro
Sdràiati nella polvere
salgono gli antenati sui fianchi
essi vivono nelle schiere degli insetti
non puoi sapere dove
se il ragno la formica o l’ape
Porgi il polso viola di sudore al loro morso
è lì che germoglia il tempo e rifiorisce
Così ci videro in un giorno di luglio
congiunti nella carne e noi
puro desiderio
Eccomi pronto al mio viaggio
alle cicale affido i linguaggi
le parole e i nomi
alle formiche laboriose
il corpo

 

*

 

Ricordi i giorni spesi
a far niente senza colpa
i paradisi perduti
ancora prima d’esser presi?
Ed ora tocca a noi
col tempo che svanisce
e la voce fatta impura
togliere la mano e fare una figura
l’uno dell’altra
immobile silente
addormentata cura

 

*

 

Alessandro CelaniApocalisse e altre visioni, Aguaplano, Perugia 2021

 

Ancora sulle prove scientifiche dei risultati magici dell’agricoltura biodinamica

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L’agricoltura biodinamica non sembra essere poi così magica come si è strombazzato in questi mesi, stando ai primi lavori scientifici ampi che analizzano i suoi indubbi risultati.

Biodinamica premiata da due ricerche scientifiche

 

L’Anno del Fuoco Segreto: Su Monomeri e Futuro

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Gabriele Merlini

«E comunque, se ti interessa, lascia perdere e ascolta me.»
Vicino al materasso la lampadina ha la silhouette della befana e il telefono trasparente, nel caso provi a inclinarlo, emette ancora quello strano rumore di oggetti che scoppiano per inattese pressioni dei polpastrelli. «Sono tutto orecchi» ripete il giovanotto dal capo opposto del ricevitore quando, come da tradizione, il tono della sua voce si fa dogmatico e condiscendente. Fuori dalla finestra è settembre, l’estate che finisce: tempo di ballare, o almeno così sottolinea la TV in quel servizio patinato sulla bella stagione appena conclusa. In modo del tutto tradizionale lei si misura in una veloce apnea e un sorriso a nessuno prima di riproporre la solita giustificazione che già puzza di soffitta. «Beh» è quanto sibila alla specchiera che andrebbe fissata meglio, «in ogni caso non avevo niente di speciale da dirti. Tutto qui
«Ah. Tutto qui?»
«Sì. Tutto qui.»
Dal pianerottolo il suono di un rutto. «Solo boh. Mi sembra tutta una grande montatura. Alcune volte. Non trovi?»
Lei trova. Il giovanotto dal capo opposto del ricevitore solleva l’accendino agli occhi scuri come stesse vedendolo per la prima volta, dopodiché allontana dal petto il portacenere con le piramidi egizie. Gratta il ginocchio, ci pensa un altro po’ e tossisce tra le pieghe del calzino appiccicoso. «Sia come sia» va avanti la ragazzina nel momento in cui per innato senso del decoro viene abortito uno sbadiglio, «pensavo ti avrebbe fatto piacere riassumermi la chiacchierata per rinfrescarla anche a te stesso» e il braccio viene teso allo scaffale di legno scuro. Annuisce al flacone di crema idratante, si aggiusta un sopracciglio, incrocia sulle coperte le gambe che restano grissini, quindi torna ad aspettare il segno.

I

D’altronde, a differenza del giovanotto al capo opposto del ricevitore all’estero per un complesso sistema di corsi di lingua destinati a studenti neodiplomati, come al solito lei è in Italia ad ammuffire dentro quell’insulso pigiama a cuoricini e questo la spinge a domande scomode. I capelli colore del miele legati dietro la nuca da una coppia di elastici sfilacciati mentre, oltre il vetro della finestra ogivale, ancora presta la minuziosa, patologica attenzione alle nuvole nere della contadinella timorosa sorpresa dal diluvio in mezzo a un prato. A strane linee elettriche, al buffo pulviscolo, al suono musicale del vento. «Ok. Va bene. Te l’ho già detto» dice lui riannodando il filo della discussione. «Quella matta mi ha proposto un incontro non formale quando tornerò da voi, ché secondo lei sarebbe saggio da parte mia affrontare con serietà il tema del lavoro e…niente. Tutto qui.»
Altra minima pausa scenica.
«Quella matta?»
«Già. Quella matta. Ci sei?»
Assaporando il gusto osceno della terminologia, lei c’è.
«Voglio dire. Die Mutter disporrebbe di una considerevole somma di denaro da investire e troverebbe saggio se riuscissi a inventarmi qualcosa di sensato per il futuro sfruttando, come puoi immaginare, il lascito del nonno.»
«Interessante. Quale nonno?»
«Quello morto il mese scorso, se ricordi.»
«Interessante
«Non essere cinica.»
«Pardon» allorché la vista riprende a smarrirsi nella semioscurità della stanza da letto e ricomincia a borbottarle la pancia. «Questa fissazione di chiunque per il futuro» ripete lui quando verifica l’ora sulla sveglia, ridacchia allo zaino, tortura il piede martoriato dai lividi. I genitori che rientreranno nel breve da una cena e per un istante nella ragazzina si fa spazio il pensiero che ogni cosa nata morirà, separata si unirà e comparsa scomparirà. Tra i pomelli alla fine del materasso, attorno la figura del suo corpo disteso sono sempre le nove di sera e la successiva domanda è inaggirabile in quella scatola cranica così geometricamente, armonicamente, eternamente perfetta: quanti mesi è indietro, il mondo lì fuori?

II

«Circa un secolo. Più o meno.»
«Ok. Comunque dicevi. Cosa faccio io adesso? Beh, non faccio niente, sai?»
Il disco lunare annerito da una buffa striscia verticale.
«Capisco.»
«Giusto provo a non farmi sentire dalle spie mentre rovescio la benzina dentro al pianoforte a coda, e ti sto ad ascoltare. Ecco cosa faccio, io. In questo momento: niente. Affascinante. No?»
L’alluce tondeggiante sbatte sul legno del comodino. Operazione non facile, raggiungerlo. «Ché potrebbero inalberarsi da matti, se mi vedessero.»
«Ok. Senti. Loro sono a casa?»
«Negativo. Ancora no. Piuttosto mi hanno accennato di una festicciola insieme a personaggi illustri arrivati da non so dove con lo scopo di risolvere l’annoso problema della fame nel mondo, o almeno così mi sembra di ricordare. Ma tra poco apriranno la porta sani e salvi, stai tranquillo.»
«Dio ti ringrazio.»
«Già. Una garanzia per il nostro domani, vero?»
«Sì. Per il futuro
Sull’ombelico del giovanotto dal lato opposto della cornetta un grumo dalle sfumature biancastre in una custodia per occhiali, una bilancia e due mucchi di cenere accatastati.
«Comunque, se ti interessa, adesso so cosa farò tra due miliardi di anni. Finito questo strazio della scuola. Te l’avrò detto un milione di volte però sono certa che non ricordi un tubo. Vero?»
Verissimo.
«Perdonami. La crocerossina?»
«No. Genetica. Studiare gli alleli. Idiota.»
«Ok. Scusa. Gli alleli
«La biologia. Le cellule somatiche, i concetti di dominanza e di recessività. Gli equilibri. Se capisci cosa intendo.»
Ai piedi del letto il gatto è zuppo di saliva, protetto da un curioso odore di cavolfiore. «I cromosomi. I ribosomi. I qualcosasomi. Mi sa che è più pratico rispetto al ricercare l’Alta Gioia tra le montagne dell’Indocina. Lo pensi anche tu?»
Lui lo pensa. Il calendario sul computer segna la data appena cambiata e le nuvole nel cielo anche dalle sue parti stanno diventando sempre più sbuffi porosi. Mezzanotte trascorsa da poco, ai TG – finiti i videoclip musicali e prima delle telefonie erotiche – i funerali della principessa del popolo e le condoglianze dei capi di stato per la dipartita di quell’assurda, spaventosa suora albanese.
«Ma andiamo avanti, se ti resta un po’ di tempo.»

III

A lui ne resta.
«Endocrinologia, Peloso Bisonte della Pianura. Mi segui?»
Il giovanotto dal lato opposto della cornetta annuisce tenendo ancora il telefono tra orecchio e spalla. Dietro la chiesa il boato di un tuono.
«Mo-no-me-ri e roba del genere. Mica lavorare in fonderia. Ecco cosa voglio fare dopo la scuola, tra cinquemila anni. Ma prima un viaggio all’estero…la vedi bene?»
Lui la vede bene.
«Potrei venirti a trovare vestita da bramina e innaffiare di mattina gli uomini santi sul tuo balcone, se sceglierai di stabilirti lì per tutta la vita. No?»
(Quale era poi la dottrina della sofferenza di cui leggevano da piccoli per addormentarsi, quando avvitavano a turno il naso della befana sul comodino? Il giovanotto dal capo opposto della cornetta ogni tanto ci ripensa ma mica la ricorda. L’interlocutrice scuote la testa a tanta distrazione, poi inspira. Duhkha o dukkha, in lingua pāli?) Il dito a trafficare negli slip e la radio che trasmette l’ennesima scemenza commerciale. In parete il primo piano di uno yak, le fiammelle mistiche tibetane del Jokhang, il circuito devozionale del Barkhor e qualcosa che sembra iniziarsi a muovere senza neppure sfiorarla. Un tremolio elettrico che è adesso dentro la stanza, un soffio che non comanda e stenta a comprendere: la prima età adulta inevitabilmente odora di bouquet?
«Ad ogni modo un giorno sarò in grado di analizzare tutti i tuoi malatissimi casi, ma adesso devo chiederti un favore. Posso?»
«Certo.»
«Bene. Lasciami in pace e attacca, visto che domani ho il primo compito dell’anno e mica posso restare sveglia fino all’alba per le tue idiozie da psicopatico. Non trovi?»
Lui trova così, riagganciandosi, il telefono torna a fare quel rumore di oggetti che scoppiano per brutte pressioni dei polpastrelli. Il cornicione affacciato ai rami già secchi degli alberi, sul marciapiede foglie ingiallite che creano spirali concentriche e fischia la grondaia di spifferi. La vasca da bagno divorata dalla ruggine, la siepe spelacchiata e il materasso davanti abbandonato ai cassoni che potrebbe attutire l’atterraggio. «Ehi. Ma mi ascolti?» quando tuttavia l’umore è già variato in modo inverso alla distanza del suo busto dalle tende sottili. Lo sguardo di lui poco motivato, ché tanto lei ha già attaccato dunque per forza, con i piedi che penzolano in basso, il respiro si fa equanimità, compassione e consapevolezza. Superato il vetro, lungo il viale, tra gli alberi del parco il vento che non si aspettava sorprende le luci spente, le feritoie ossidate, i camini e le onde increspate del fiume mentre la stanza di spalle ancora puzza un po’ di fumo. Come in quelle pubblicità terribili con le piscine lussuose e le collane d’oro che oscillano sulla superfice immobile dell’acqua, alla fine lui aggrotta la fronte borbottando qualcosa alla parete di vernice che piano piano viene giù: io ti ascolto sempre.

Epilogo

Ma, anche sulla base del fatto che niente in effetti la sorprende più, nemmeno lei si stupisce poi tanto quando realizza di starsene impettita davanti la finestra semiaperta. Come fosse stata una forza attrattiva mai sperimentata in precedenza a sollevarla, spingerla fuori dalle coperte, renderla impalpabile e trasparente e immobilizzarla. Un tremolio elettrico, un soffio che non comanda e stenta a comprendere. Stanotte che come al solito ha (quasi) sedici anni, sfoggia ancora quella tunica a cuoricini che usa da pigiama e dalla testa le ciondola il residuo di corona hawaiana sfoggiata all’uscita di pallavolo con l’unico scopo di sollevare il morale alle truppe. La luna oscurata e la stasi nei refoli d’aria fredda. Terminata la breve chiacchierata su monomeri e futuro con lui che si trova all’estero per cretini corsi di studio, e atteso il rientro dei genitori; di sua madre che sembrerebbe essersi un po’ ripresa dai problemi che l’hanno afflitta l’anno scorso (ogni tanto lei ci pensa a quante sciagure potrebbe avere ereditato. Le strane ferite sul volto di quella donna, i sanguinamenti e le nottate spese a girovagare in circolo nel buio) o di suo padre, dal quale viceversa avrà preso la propensione all’odioso autocompiacimento e alle menzogne in società. Pensieri sensati e maturi eppure buoni solo a nascondere la domanda più importante e ineludibile di questa sua – al momento – breve esistenza ancorata a terra; la molla che innesca i gesti più assurdi e leggeri ovvero, se vogliamo percepire l’autentica essenza dell’anima, è più saggio ascoltare con pazienza o porsi quesiti in continuazione?
E chissà perché è sul termosifone in camera da letto, adesso; quello con gli elementi (si chiamano davvero elementi) che gocciolano e i buchi trasparenti sulle giunzioni (la paura dei buchi si chiama invece tri-po-fo-bi-a.) Una forza attrattiva incredibile che le ha permesso di aprire i vetri senza nemmeno toccarli, fino a spalancarli davanti al suo naso e filtra la luce tenue sul giardino dal viale desertico lì davanti. I piedi nudi che si sono del tutto staccati dal tappeto per la meditazione (dandasana) in sospensione, ondulanti tra le piante da interno (monstera deliciosa e maranta leuconeura) che in parallelo – con un cenno del suo dito indice – hanno preso a sfiorire, a spegnersi. Le narici dilatate, ogni lampadina che salta se strizza gli occhi, i capelli nemmeno smossi e lo sguardo che non può distogliere dall’est, lì dove sorge quell’alba che nelle pagine ingiallite del libretto che le veniva letto da piccola sta a simboleggiare l’Onnipotente Principio di Qualcosa, il Mahāyāna o Supremo Veicolo di Redenzione. Il sé esteriore e la chiusura che, le è stato garantito, alla fine ci farà tutti secchi.
«Ehi. Pronto. Pronto. Sei ancora lì?»
L’inchino che ricorda un passo di danza, la sensazione di un nuovo piumaggio – roba più consapevole e adulta, finalmente – lungo la schiena dritta da nuotatrice e le correnti d’aria che prendono a scuoterla dal basso quando, nella fase conclusiva del decollo, le sue labbra sottili, sullo stile di certe bandiere sventolanti a poche dune dalla battigia, dissolvendosi dietro uno spesso cumulonembo nero a sgranocchiare il disco lunare, nemmeno la smettono più di muoversi.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Gabriele Merlini (Firenze 1978) è autore del romanzo Válečky o guida sentimentale alla Mitteleuropa e del saggio No Music On Weekends. Storia di parte della new wave (Effequ 2013 e 2020.) Ha inoltre curato le antologie di racconti Selezione Naturale. Storie di premi letterari Odi. Quindici declinazioni di un sentimento. Scrive di musica e cultura per il mensile Rockerilla. Sue recensioni, reportage e interviste sono state pubblicati su numerosi magazine, riviste online e quotidiani.

Le magiche, e ora anche un po’ scientifiche, uve biodinamiche della Borgogna

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chi si è scagliato in questi mesi contro l’agricoltura biodinamica, senza saperne nulla, potrebbe forse leggere questo reportage (in francese), molto ben fatto, e che cita i primi risultati scientifici di un progetto che di magico non ha nulla; anche se il meglio resta sempre visitare un’azienda

Vins de Bourgogne : sur les chemins magiques de la biodynamie

 

 

Il fermo di Ferlinghetti

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di Giorgio Mascitelli

( la scorsa primavera un amico mi aveva chiesto di immaginare qualche testo per ricordare Lawrence Ferlinghetti, ne è venuto fuori questa cosa qui, g.m.)

Ferlinghetti, avendo scoperto che suo padre, morto prima della sua nascita, era nativo di Brescia e in particolare del popolare quartiere del Carmine, il 13 ottobre 2005 si reca sul posto a cercare la casa del padre ed eventuali tracce, ma gli abitanti, verosimilmente insospettiti dall’aspetto, dall’accento e dalle domande del poeta, chiamano le forze dell’ordine. Poco dopo una pattuglia della polizia ferma il furgoncino su cui viaggia Ferlinghetti e porta il poeta in questura per accertamenti, come è prassi fare con extracomunitari sospetti. In questura naturalmente si rendono conto di chi sia il fermato e l’incomprensione è appianata.
Qui sotto ho immaginato il discorso di scuse di un anonimo funzionario della questura a Ferlinghetti.

  • Illustre ospite, è mio compito porgerLe le nostre scuse per lo spiacevole equivoco. Non si può pretendere del resto che dei semplici agenti di una volante potessero sapere che Lei è un illustre poeta, immagino lo capisca, anche se il Suo accento americano avrebbe dovuto quanto meno insospettirli e indurli a domandarsi le ragioni di questa confidenza con la lingua dei padroni, ma viviamo in un’epoca poliglotta in cui questi buoni vecchi segnali non valgono più. Un visitatore illustre, specie se giunge nella città di cui è illustre nipote, non pretende di arrivare semplicemente come farebbe ogni signor nessuno, ma si annuncia e si palesa come tale per non indurre le autorità locali a sbagliarsi nella scelta del tipo di protocollo di accoglienza. Bisogna riconoscere che, per quanto illustre, Lei non è collaborativo, è anche poco comunicativo e un po’ divisivo. Un viaggiatore illustre non trascura il vestiario e si accompagna a personale specializzato nell’illustrare la sua condizione. Insomma, noi ci scusiamo, ma Lei sembra ignorare quella che si chiama la legge dei lustrini.
    Sebbene il rispetto della legge dei lustrini, grazie alla quale l’apparenza si accorda alla sostanza, sia un dovere civico, se fosse solo questo, il nostro comportamento resterebbe biasimevole, ma che dire delle motivazioni che Lei ha allegato per questo viaggio clandestino? Come credere alla dichiarazione di essere venuto qui clandestinamente ( perché se Lei non dichiara subito di essere illustre, diventa a tutti gli effetti un clandestino) solo per raccogliere informazioni su suo padre? Come catalogare questa affermazione, che forse in un ventenne in cerca di radici sarebbe vagamente giustificabile, ma in un signore di ottantasei anni suonati diventa qualcosa di indefinibile e perciò sospetto? Questo non è solo amore per un padre mai conosciuto, ma amore per la vita e amore per il mondo, con un’intensità francamente disdicevole alla sua età. Ed è ben strano poi un amore per quel mondo del quale, a quanto mi consta, ha descritto nelle sue poesie quelle che Lei chiama ingiustizie e io preferirei definire più sobriamente inestetismi. Che essere singolare e indefinibile è colui che continua ad amare il mondo in ogni cosa bella, pur conoscendone tutte le brutture, anzi forse proprio per questo? Come lo potremmo definire ( perché oggi è importante che ciascuno abbia una sua definizione che lo definisca o, come amano dire i giornalisti, un’identità che lo identifichi)? Intanto si potrebbe sostenere che è uno che va contro ciò che raccomandano gli specialisti di ogni campo:  ossia ignorare il più possibile le brutture e amare poche cose della vita, il meno possibile, comunque amare sempre con ordine & moderazione, ma soprattutto poche, possibilmente quelle consigliate dalla serie trasmesse dalle televisioni in rete, che nel 2005 a occhio e croce non ci sono ancora, almeno in Italia, ma tanto stiamo andando in quella direzione e un piccolo anacronismo è concesso. Noi naturalmente ribadiamo di scusarci, ma bisogna ammettere Ferlinghetti che lei va un po’ a cercarsele.
    Io poi sento il bisogno anche di scusarmi personalmente perché arrossisco al pensiero di dover essere io, ossia un funzionario alle prime armi di una città di provincia di una provincia lontana, a ricordare a Lei e alla Sua venerabile età queste banalità di base, ma davvero non mi lascia altra scelta.
    Quando i re erano re, per davvero, a quei tempi allora per gli sbandati c’era sempre un bel ramo a disposizione sull’albero degli impiccati. Adesso c’è la libertà e ovviamente ne siamo tutti contenti. E’ un bel progresso, sicché Le offro un caffè e poi ci salutiamo. Anche qui però mi consenta di farLe notare che Lei non sembra aver capito qual è la libertà del nostro tempo. Essa  coincide con un grosso catalogo più alto di dieci dita nelle cui pagine si trova tutto ciò che c’è da ordinare. Curiosamente per Lei la libertà sembra invece essere una sorta di riserva mentale nel valutare se quel fantastico catalogo valga la pena di essere sfogliato oppure nell’anteporre certe cose ad altre, che per convenzione generale e per comprovata utilità si è deciso di posporre. Visto che oggi noi ci scusiamo, sarebbe lecito augurarsi che in futuro aiuti di più il nostro lavoro perché non sempre ci saranno le condizioni per scusarsi per lo spiacevole malinteso.
    Adesso vada e si accontenti di sembrare quel che la società pensa di Lei, rientri nelle definizioni, sfogli il catalogo, collabori con il nostro lavoro, La smetta di essere….

Storie di Fiorino: lago in collina

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(l’ultima storia di Fiorino è qui)
“Paolaaa!”
“Sì, bestia?”
Ecco, era quello che lo colpiva di lei, di quella ragazzina di tredici anni; come faceva ad essere già brava a rispondere così, con naturalezza, con voce discreta, con un piccolo insulto, leggero, affettuoso, che però metteva avanti le mani; era un dono di natura, pensava Fiorino. E poi era contento, perché quella risposta la Paola l’aveva data al suo amico che l’aveva chiamata, non a lui; era meglio che l’amico, che era poi l’amico del cuore di quegli anni, fosse tenuto un po’ a distanza, perché la Paola piaceva a lui, oddìo, piaceva, sì, come s’intende questo verbo a quell’età, oscura e deliziosa, ma d’estate, in riva al lago, deliziosa proprio, senza tante svenevolezze e rigiri del cuore.
La Paola era figlia di una collega della zia, maestre erano entrambe nella scuola elementare di San Bruno, ma né Fiorino né l’amico del cuore Ernesto le avevano come maestre. Ernesto poi era due anni più vecchio e questo gli conferiva un’aura di autorità, inconfessata ma ineludibile, aveva più esperienza, aveva amici più grandi, faceva allusioni appena intuibili, e qualche volta lasciava cadere delle informazioni scottanti nelle orecchie di Fiorino, che ci doveva pensare un po’ per ricostruirne il senso oscuramente eccitante.
Ernesto e Fiorino andavano tutti i pomeriggi, nei quali i compiti non li occupavano eccessivamente, a fare una passeggiata sulle colline che stavano alle spalle di San Bruno: le colline moreniche, così le chiamavano i maestri che insegnavano la geografia locale, dalle quali, più su si andava, meglio si vedeva il grande lago, sempre un po’ più lontano, fino in mezzo in mezzo. Erano, quelle passeggiate, un inizio certo di educazione sentimentale, una scoperta di libertà espressiva, una conquista lenta e piacevole di comunicazione di nuovo sentire. C’erano delle piccole scalate, dei passaggi che bisognava fare carponi, qualche casa abbandonata sulla quale congetturare chissà quali storie; e c’era il tracciato della vecchia ferrovia, quella che s’era dovuta costruire quando era stato bombardato il viadotto che collegava tra loro due colline vicine, un bel viadotto con arcate a sesto acuto, quasi fossero d’una enorme chiesa gotica, le cui macerie erano rimaste per anni a testimoniare sui prati sottostanti gli orrori della guerra. Tutto il tracciato provvisorio della ferrovia si snodava in mezzo a campi e boschetti, se mettevi l’orecchio sulle rotaie, col cuore in gola, potevi sentire l’avvicinarsi del treno già da lontano.
Era Ernesto che guidava, accettando talvolta, con regale condiscendenza, qualche proposta di Fiorino. Fatto sta che accadeva molto spesso che quelle passeggiate avessero come punto d’arrivo, o comunque di sosta privilegiata, uno spiazzo arioso e piacevole, intorno ad un laghetto, di quelli non grandi, e tuttavia inaspettatamente profondi, che si trovano ad interrompere i pendii delle colline. C’erano tante piante, di cui i ragazzi non conoscevano i nomi e anche tanti fiori, in primavera, quando il piacere di quelle passeggiate acquistava un sapore nuovo e ogni anno diverso; diventava – questo piacere – meno acerbo, e anche più fatalmente maturo, mai del tutto distaccato dalla consapevolezza di una perdita. Anche i fiori cambiavano spesso, e Fiorino ed Ernesto non ci pensavano molto, avevan da confidarsi i loro primi pensieri, da guardare per aria, da fissare il tremolio di quel piccolo specchio d’acqua, che aveva un nome che sapeva un po’ del dialetto del paese e un po’ di oriente misterioso; un nome che poteva essere pronunciato con l’accento un po’ rude che prediligeva le o chiuse, ma che allo stesso tempo conteneva suoni che facevano pensare a famosi edifici orientali.
Ci fu un periodo, tra aprile e maggio, nel quale però i ragazzi rimasero perplessi a guardare l’apparire di una macchia di fiori, che crescevano, nella parte più lontana dal lago, su un terreno arido e sassoso, dove non sembrava che altra erba riuscisse a spuntare. Come degli steli alti e instabili che cominciavano a produrre dei boccioli inspiegabilmente neri, o comunque molto scuri. Fiorino li guardava con una certa inquietudine, e anche la ben nota sicurezza di Ernesto non era più tanto solida.
Fiorino però, che non era mai certo delle proprie conoscenze, non se la sentiva di parlare di piante, era un argomento troppo gentile, quasi fuori luogo, di cui oltretutto non era esperto, da non sottolineare, semmai da gustare di riflesso; era persino disposto a pensare che potessero esistere dei fiori neri. Non aveva forse letto, tra i primi romanzi d’avventura che stavano bene in fila nella sua cameretta, Il tulipano nero, che raccontava una complicata storia, e anche un po’ torbida, dello scatenarsi di straordinari interessi intorno alla creazione di uno speciale tipo di tulipano, dal colore sempre più scuro, fino ad essere nero. E perché poi avrebbe dovuto rivestire un così grande interesse un tulipano nero? Certo erano molto più belli quelli rossi, o gialli, che qualche volta regalavano alla zia maestra.
Ma quelli lì, non lontani dal bordo del laghetto della collina, non dovevano essere tulipani, non avevano quella rigidezza metallica, quel carattere inossidabile del tulipano. Erano sì appesi a steli abbastanza rigidi, ma più alti e con foglioline più tenere e gentili, e portavano delle specie di pannocchie con tanti boccioli, che non sembravano poter dar luogo a un fiore così squadrato come quello del tulipano. Ma Fiorino era possibilista, la zia avrebbe certo saputo di che fiori si trattasse. La zia? Forse, però anche la Paola l’avrebbe saputo, lei che aveva un giardino ben più grande di quello della famiglia di Fiorino, e che ostentava sempre tanta sicurezza sui fiori che capitava loro di vedere.
Ernesto invece, che pure di fiori poco sapeva, aveva sentito dire da qualche parte che gli unici colori che un fiore non poteva avere erano il verde, perché se no si sarebbe confuso con una foglia, e il nero. E quindi quei fiori dello spiazzo arido lo turbavano un po’; quando le certezze sono più rigide, scuoterle può essere più inquietante. Ma mentre parlavano dei fiori, passò il treno, lento sul suo provvisorio tracciato, che per qualche minuto soffocava ogni cosa col suo rumore e col suo vapore bianco e soffice. Sul treno c’era sempre qualcuno che salutava due ragazzini a spasso nella campagna e in pochi attimi frulli di pensieri svolavano su per le rotaie e i due sognavano già di essere su quei vagoni, diretti lontano, a Brescia forse, ma anche a Milano, a Torino, chissà. Una volta Fiorino era andato con la sua mamma in vacanza in un paesino della Liguria, da un’amica di famiglia, e avevano dovuto cambiare molti treni, sbuffanti vapore bianco. Quei treni erano per Fiorino macchine straordinarie e paurose, che gli incutevano, così come altri oggetti della vita, un misto di turbamento e di ammirazione.
Fiorino aveva pensato qualche volta a questa strana mescolanza di sentimenti, e gli era parso di intuire che il turbamento andava scemando a misura che aumentava la conoscenza, il che era naturale, succedeva però anche che questo scemare era un po’ penoso, in quel turbamento era sempre mescolata una qualche gioia.
Ne aveva parlato qualche volta con Ernesto, di questa faccenda e l’amico, che frequentava già il liceo, aveva detto di credere che tutto fosse legato a una certa formula, che suonava odi et amo e che si trovava in un grande poeta latino. Questa formula riguardava il territorio quasi inesplorato dell’amore e sembrava garantire che sempre con quel grande sentimento che doveva essere l’amore, si accompagnava un po’ di odio. Fiorino non capiva come, visto che se vuoi bene a una persona, non puoi contemporaneamente odiarla, e tuttavia avvertiva un’oscura somiglianza con quella storia dei treni, e un po’ anche con quei fiori neri che però … insomma, bisognava aspettare. E doveva anche avere a che fare con quell’altra storia che gli aveva raccontato suo padre non tanto tempo prima, che il voler bene è una cosa e l’amare è una cosa diversa, perché coinvolgeva degli aspetti che Fiorino ancora non controllava.
Ormai del treno che era passato non lontano dal laghetto non rimaneva che un sentore di vapore nell’aria e i ragazzi erano già sul sentiero che tornava verso il paese su un differente percorso.

La Paola non frequentava il liceo, ma “la ragioneria”, una scuola che era arrivata da poco a San Bruno e che aveva subito raccolto molti studenti, che per tante ragioni non volevano immergersi nel “classico”. E poi diceva che voleva andare a fare la segretaria. Quindi al liceo non la si vedeva, però Fiorino aveva imparato che strada faceva quando andava a scuola la mattina e appena poteva andava a scuola in bicicletta: così come per caso la incrociava, e l’accompagnava, con quella posizione di superiorità che la bicicletta, anche a passo d’uomo, dà a chi accompagna qualcuno che cammina.
“Lo sai che ho visto un fiore nero?” le disse Fiorino quella mattina.
“Ma va’, scemo, chissà cosa ti ga visto” rispose la Paola, che aveva la mamma veneta e che quindi nei momenti di spontaneità usava qualche espressione dialettale; del resto anche il papà di Fiorino era veneto puro sangue e quindi lui capiva benissimo. Fiorino nominò il luogo del ritrovamento, ma la Paola non lo conosceva e dunque non poteva negare recisamente, rimaneva tuttavia in quella posizione di scherno appena accennato che cominciava a dare una parvenza di concretezza a quell’idea del poeta latino.
“Ti portiamo noi a vederli quei fiori” propose Fiorino, che non osava dire “ti porto io”, sembrandogli di un’audacia improponibile, e coinvolgendo così, senza averglielo domandato, Ernesto in quest’impresa. “Non se ne parla” rispose subito La Paola, che spesso giocava a fare la ragazza irreprensibile “Chissà poi dove vorreste andare voi”.
Fiorino non poté evitare di arrossire, tuttavia si fece forza e provò ad insistere, raccontando la bellezza dei luoghi e l’emozione del lago e dei fiori. La Paola non promise nulla, disse che forse avrebbe provato a dirlo alla mamma.
Passò una settimana. Non era facilissimo incontrare la Paola quando attraversava “lo stradone” che separava la sua casa dalla scuola e qualche mattina Fiorino si alzava troppo tardi per permettersi quel giro in più; il preside non era tipo da tollerare ritardi, con quel suo fare secco e la voce tagliente che non ammetteva repliche. Come quando Fiorino, che era appena entrato al ginnasio. aveva creduto bene di scrivere sul giornalino del liceo, giornalino da poco inaugurato come elemento di grande apertura verso gli studenti, che gli insegnanti di italiano cambiavano ogni anno; così infatti aveva sentito raccontare dai ragazzi più grandi. Il preside aveva convocato Fiorino, che pure a scuola se la cavava bene, e gli aveva detto due parole secche secche a proposito dell’infangare il nome della scuola. Il giornalino aveva dovuto ospitare una smentita, ancorché un po’ ironica, di penna dello stesso Fiorino.
La zia di Fiorino aveva comperato da poco un apparecchio televisivo, uno dei primi, che funzionavano talvolta e talvolta mostravano invece righe nere orizzontali difficilmente addomesticabili. Ma tale era la novità dell’apparecchio e delle sue prestazioni, che qualche amica veniva la sera a vedere quella nuova meraviglia e a sentirsi Lascia o raddoppia o qualche analogo intrattenimento. Una sera arrivò la mamma della Paola con la Paola e una delle sue quattro sorelle, la Fiorenza; intanto perché non si doveva far vedere che si andava solo con la figlia interessata, e interessata a cosa, poi? Inoltre così si allargava il pubblico e tutto diventava meno ufficiale.
La Paola fece una cosa assolutamente incredibile, che Fiorino mai avrebbe osato pensare, disse cioè, prima dell’inizio dei programmi, con la sua bella, e studiata, spontaneità, al padre di Fiorino, che suo figlio l’aveva invitata ad andare a fare una passeggiata in campagna con lui. Il padre non si commosse minimamente, si limitò a pensare che suo figlio era meno timido di quanto lui pensasse e in qualche modo anzi si compiacque del fatto. Sembrò che in quattro e quattr’otto tutto fosse combinato per l’indomani, che era un sabato e quindi anche il regime dei compiti era un po’ più rilassato.
Ma quel sabato piovve a dirotto e non ci fu nulla da fare.
Certo la storia dei fiori neri era una scusa, questo Fiorino lo sapeva bene, sapeva che gli sarebbe piaciuto mostrare alla Paola i sentieri e i segreti che lui ed Ernesto avevano scoperto un po’ alla volta, in tutte le loro passeggiate. Naturalmente non tutto si poteva raccontare o mostrare alla Paola, non certo quell’indumento femminile che avevano trovato una volta intorno a una casa disabitata e sul quale avevano costruito un bel castello di adolescenziali fantasie, e che avevano poi accuratamente nascosto. E neanche i passaggi più difficili della passeggiata standard, con quel terreno che smottava e sul quale si rischiava di scivolare continuamente sbucciandosi gambe e braccia. Però altre cose sì, l’entrata nascosta e senza lucchetto nella cantina abbandonata, piena di ciarpame vecchio e polveroso e di sedie spagliate e anche di qualche pelle di biscia che magari avrebbe prodotto un brivido persino nella Paola. E poi vediamo se adesso crederà a quei fiori neri, pensava Fiorino, che non aveva ancora trovato il coraggio di raccontare ad Ernesto che aveva invitato la Paola in quel loro luogo intimo, luogo della collina e del cuore, che facevano tutt’uno.

Glielo disse all’uscita di scuola il lunedì dopo; Ernesto abitava vicinissimo al liceo, quindi non si poteva fare un pezzo di strada assieme all’uscita da scuola, ma si poteva fermarsi sotto casa sua a parlar fitto. Fiorino spiegò che la Paola s’intendeva di fiori perché aveva la mamma col giardino grande, che lei stessa coltivava e che quindi era praticamente una spedizione di studio. Non fu difficile convincere l’amico, anche perché sotto sotto anche a lui la Paola non dispiaceva, anche se ogni tanto parlava con nonchalance di una certa Lorenza, una delle grandi che faceva già l’ultimo anno e non si sapeva che università sarebbe mai andata a scegliere; con quella grinta che già manifestava. Ernesto stava abbottonato quanto alle sue esperienze femminili, un po’ perché Fiorino era piccolo e non bisognava scandalizzarlo, come veniva talvolta pubblicamente – e spiacevolmente – dichiarato, un po’ perché c’era poco da raccontare, un po’ anche perché Ernesto temeva di incontrare la disapprovazione di Fiorino, al cui giudizio, comunque, teneva. Dunque si fissò per mercoledì, tempo permettendo, perché giovedì era il giorno leggero, c’era ginnastica e religione. Mercoledì splendeva un bel sole fin dal mattino, Fiorino faticò un poco a concentrarsi alla lezione di greco; era ancora al primo anno di questa materia nuova e affascinante e ancora bisognava allenarsi per leggere speditamente quei caratteri e quegli accenti e ancora non era in grado di capire quanto leggeva, se non in rarissimi casi di vocaboli semplici e studiati da poco. “Aretè timèn férei”, quella frase che stava in uno degli esercizi sulla prima declinazione l’aveva colpito molto fin da principio, la virtù porta onore, sarà vero si domandava Fiorino, che nella sua piccola vita del dopoguerra, non aveva visto molti esempi di virtù; salvo la sua mamma, naturalmente, che però aveva troppo presto perduta; e gli era rimasta quella frase, pensando che forse la si poteva dire solo in greco, che sarebbe stonata in qualsiasi altra lingua; perché l’onore poi che cos’era di preciso, dopo averci molto pensato Fiorino arrivava alla conclusione che era la stessa cosa della virtù, e allora la frase tanto bella però si svuotava di senso; ma non doveva essere neanche esattamente così, l’onore era qualcosa di cui suo padre parlava molto come di cosa sacra e irrinunciabile e quindi bisognava imparare un po’ alla volta a intuirne lo spessore.

Alle due del pomeriggio suonarono alla porta e Fiorino, col boccone in gola, si precipitò ad aprire: erano arrivati assieme, la Paola ed Ernesto, ma s’eran trovati casualmente sullo stradone e la piccola punta nel cuore di Fiorino si smussò subito. Lui era già pronto, col maglioncino sulle spalle e delle scarpe grosse e pesanti, così uscì senz’altro con i due amici.

L’inizio della passeggiata era sempre lo stesso; bisognava guadagnare l’inizio delle colline percorrendo un pezzo di strada asfaltata, ma il traffico non era asfissiante e il tragitto passava rapidamente. Appena cominciava il sentiero cominciava anche la salita, che non era molto erta, era però lunga e continua; Fiorino preferiva fermarsi spesso a guardarsi intorno; e lo faceva perché il suo fisico non era di quelli robusti che resistono solidamente a qualsiasi fatica, il suo fiato non era pronto come quello dei suoi compagni, e Fiorino intuiva che non sarebbe mai stato un atleta e un arrampicatore: avrebbe sempre dovuto tollerare quella sua situazione senza dolersene troppo, o almeno non troppo pubblicamente; si poteva forse parlarne a qualche amico in quei momenti di confessione totale che facevano poi stare così bene; ma pochi amici andavano bene per questo, ed Ernesto non era certo tra questi. Di fronte alla Paola, poi, figuriamoci.
Si fermarono spesso, a guardare il grande lago, che da lì cominciava a mostrare la forma del suo bacino inferiore, un po’ arrotondata e svasata e anche le margherite e le violette, che i due maschi mai avevano notato, ma che la Paola immediatamente individuò con molti commenti istruttivi sulla capacità d’osservazione dei maschi.
Passarono la casa disabitata, evitarono con un piccolo giro la scalata con la terra che smottava e d’un tratto si trovarono sullo spiazzo del laghetto, in uno dei suoi momenti migliori; la superficie dell’acqua appena marezzata e un fresco che mitigava il calore dell’emozione di quella intimità. Non si sentiva cinguettio di uccelli, né latrato di cani; ci si poteva arrendere ad un momento di quieto godimento di una natura ferma; tutti e tre si lasciarono contagiare da questa sensazione e la assaporarono senza fretta. Era ancora presto per il passaggio del treno e il resto del mondo poteva aspettare.
Accadde improvvisamente: la Paola volse lo sguardo verso lo spiazzo arido, culla dei loro fiori neri, ed emise un grido di gioia spontanea: gli asfodeli, gli asfodeli!! E rise poi, rise con quella sua voce inimitabile, calma ed insieme emozionante, una voce che non evocava mai la tragedia, ma che tendeva a comunicare sicurezza. In cima agli steli che appena ondeggiavano alla brezza, nella parte bassa di quelle pannocchie, erano sbocciati degli stupendi fiori bianchi; “gli asfodeli” gridò la Paola, “che la mia mamma ama tanto e fatica a far crescere. Così sarebbero questi i vostri famosi fiori neri?” Aggiunse con quella sua affettuosa ironia, “Questi sarebbero?” Fiorino ed Ernesto non sapevano che dire, ma avevano indubbiamente di che osservare: quei boccioli neri della settimana precedente avevano incominciato a schiudersi e allora appariva la loro vera natura: dei petali candidi e lucenti da abbagliare; asphodelus albus confermò la Paola, che ancora sorrideva di piacere.
“Quel nero che avete visto voi dementi era quello dell’esterno del bocciolo, è per meglio conservare il bianco che c’è dentro.”
Fiorino taceva.
“Ah ecco perché” si intromise Ernesto, che era un dannunziano convinto, “ecco perché D’Annunzio dice “funebri come gli asfodeli dell’Ade”, parlando delle sue parole, nelle Stirpi canore, che è tutta una festa di parole e di suoni”.
E giù a parlare delle parole di D’Annunzio e di che tipo doveva essere stato quel poeta così raffinato e così matto e forse così malato.
Un’altra inquietudine svaniva nella testa di Fiorino, il fiore nero non c’era più, trapassava dal nero al bianco, una palpabile metafora del progredire della conoscenza, Fiorino perdeva un’altra fonte di turbamento. Anche la pena del vivere mutava forma rapidamente.

L’ariosa Lombardia

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Mi pare doveroso sensibilizzare tutti al problema, che non sento molto dibattere, della qualità dell’aria che respiriamo tutti i giorni e tutte le notti. Sul sito, ad esempio, Arpalombardia.it, se si clicca su “aria” si vede, ad esempio oggi 16/11/21, una mappa come quella che vedete qui, che non è consolante per nulla. E notate che è così perché ci sono stati due giorni di forte pioggia che ha “pulito” l’aria, la pulizia è durata 24 ore a dir tanto. Aggiungo che questa qualità classificata “scarsa”, parlo ovviamente della zona rosina, prima della pioggia era peggio, cioè la parte di pianura padana che ora è scarsa era il peggio, cioè “molto scarsa”. Questo inquinamento NON è dovuto essenzialmente al traffico di macchine e camion, ma al riscaldamento e infatti queste mappe prima del 15 ottobre erano deliziosamente verdi. Dal 17 ottobre, riscaldamenti già a pieno regime, la situazione è precipitata. Come rimediare: il Comune di Milano, che così si vanta di essere ecologico e di piantare tanti alberi, cosa ottima, per carità, o ancor meglio la regione Lombardia, finanzino massicciamente la sostituzione delle vecchie caldaie inquinanti, a gasolio o peggio, con quelle di ultima generazione che inquinano di gran lunga di meno. Altrimenti quest’aria, che magari piacerà al nostro onnipresente virus del covid (non lo so ovviamente, ma chissà!) ci ucciderà un po’ alla volta anche lei.

In principio fu il male

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Pubblichiamo qui di seguito un estratto dell’ultimo libro di Davide Gatto, In principio fu il male, Manni, 2021.

Il capitolo s’intitola “Dieci” (pp. 13-21).

 

 

di Davide Gatto

Me lo diceva sempre mia madre, Una brava figlia non gioca con i maschiacci. Una brava figlia sta a casa con sua madre, fa i compiti, sbriga le faccende come una vera donnina di casa, così diceva.

E mi portava in chiesa tutte le domeniche, là inginocchiate a sentire quel buon odore di incenso, in mezzo a persone che avevano lasciato fuori i loro cattivi pensieri, donne e uomini, ma la maggior parte erano donne, e perlopiù anziane.

Ma io non pensavo ad altro che a giocare con i maschiacci, come li chiamava sempre mia madre. E quando ero in chiesa, libera di lasciar correre la mente nel silenzio generale o nella recita meccanica delle preghiere, rivedevo come in un film i maschi che facevano a sassate dai fortini di terra di risulta dei cantieri appena dismessi, o che si arrampicavano a gara sul traliccio dell’alta tensione.

Dai piccoli banchi della chiesa, quando era ancora il vecchio capannone di lamiera degli operai riadattato, ci accodavamo muti e chini davanti al sacerdote con l’ostia in mano, ma io non avevo orecchie che per gli schiamazzi fuori che tanto facevano sbarrare gli occhi e serrare le mandibole di severità e disappunto a mia madre.

Chissà cosa stavano facendo là fuori per gridare a quel modo. E intanto sbirciavo fuori dall’oblò di quella chiesa di latta per vedere cosa accadeva.

La curiosità mi pungeva come quando mio padre, finalmente sazio a tavola dopo tutta una giornata di fabbrica, cominciava a raccontare di questo e di quello che avevano litigato, o dell’incidente che aveva storpiato per sempre un suo compagno, e mia madre mi costringeva ad andare a letto.

Potevo passare anche più di un’ora a cercare di captare con l’orecchio teso brandelli di racconto, inventandomi pretesti di ogni tipo – la pipì, i denti, un bicchiere d’acqua – per avvicinarmi e lasciare magari uno spiraglio della porta aperto.

«Che hai fatto a quella mano, Ciro?»

«Quale mano?»

«Quella. È rossa e gonfia. Che, hai litigato, Ci’?»

«Ma che litigato e litigato!»

«E che è successo allora?»

«Ma niente, niente…»

Attaccava sempre così il racconto, con “Niente, niente…”. Poi sentivo mia madre che strisciava la sedia per sedersi al tavolo e il gorgogliare del vino versato nei bicchieri. A quel punto non resistevo più. Quando mia sorella era dalla sua compagna di classe al piano di sotto per fare gli ultimi compiti o – più probabilmente – per guardare la televisione che noi non avevamo, io scivolavo furtiva fuori dalle coperte e lungo il corridoio, e andavo ad appostarmi di fianco alla porta socchiusa della cucina, con le spalle al muro e pronta a ritirarmi silenziosa al primo rumore delle sedie. «Allora Ci’, che hai fatto con quella mano? Hai dato un pugno a qualcuno, vero Ci’?»

«Sì, sì, ma io non c’entravo niente, volevo solo dividerli…»

«A chi volevi dividere, a chi?»

Dallo spiraglio della porta filtrava nell’anticamera fredda la luce densa e giallastra della cucina, e io mi sentivo come sotto le coperte.

«Lo dicevo io che quel Russo è un minchione, sempre nervoso, attaccabrighe, come un cane rabbioso che si gira e morde chi capita capita».

«Ma quale Russo, Ci’, quello che ha quella bella moglie mora con i due gemellini?»

«Eh sì, quello, quello, il siciliano che sta alle torri vicino alla tangenziale, che quando passeggiano la domenica sembra che deve mangiarsi tutti gli uomini che guardano sua moglie».

«Ma che dici Ci’, sembra una famiglia così bella, così unita. Come la nostra, che ci togliamo il pane dalla bocca per i figli, Dio li benedica».

Di fronte alla ingenuità e alla cecità, chissà se voluta o subìta, di mia madre, mio padre non protestava; soltanto si accendeva una sigaretta, sorseggiava il suo vino, e taceva.

Le prime volte, accucciata così contro il muro e avvolta dal tepore della luce spessa, imprecavo tra me e me contro mia madre, lei e i buoni sentimenti delle bigotte come lei, che mi sembrava di rivedere tutte allineate e tutte uguali ai banchi della chiesa, mentre ripetevano a pappagallo, senza stancarsi, Ave Maria piena di grazia.

Io invece volevo ascoltare i racconti di mio padre, ero avida di sentire le storie che lui riportava da fuori, da quella sua fabbrica in cui accadevano cose, continuamente, le cose più incredibili, tutte le cose che mia madre tra casa e chiesa sembrava non sapere neppure immaginare.

Col tempo però compresi che anche mia madre non sopportava quelle improvvise interruzioni di mio padre, che forse tra loro si era costituito un tacito accordo, per cui dovesse essere mia madre stessa a porgere a mio padre nuovamente il filo del racconto spezzato.

«E allora Ciro, che è successo con quel Russo? È a lui che hai dato un pugno, Dio ce ne liberi?»

Non ce la faceva, non ce la faceva proprio a lasciare Dio in pace.

Il fumo della sigaretta galleggiava nella luce pastosa che filtrava nell’anticamera, e io lo aspiravo ritmicamente, con impegno, come se anche io stessi fumando, oltre a mio padre.

Lui riprendeva in tono più confidenziale, forse lusingato dall’attenzione di mia madre, dalla sua curiosità oltre il limite cui la costringeva la sua devozione.

«Mo’ che potevo farci, Addolorata? Si è messo a fare come un pazzo, che voleva per forza spaccare la testa a uno con la chiave da 60».

«E perché, perché?»

«E che ne so io, quello sempre alla moglie pensa, che magari se la fa con questo o con quell’altro, e guarda tutti come se fossero appena usciti dal letto della moglie…»

«Ma che dici Ci’, che dici? Quella poveretta, così giovane e tutta sola con due bambini piccoli. Lo sai no che non hanno nessuno qui: i parenti tutti giù sono».

Neanche sentivo le parole di mia madre. Scivolavano su di me come scivolavano sulle cose. Io invece mi sentivo strappata a quel pavimento duro e freddo da una mano potente, trascinata a vedere con il cuore in gola e il fiato corto uno sconosciuto scendere silenzioso, a luci spente, le scale della torre vicino alla tangenziale, le rose ai capelli di chi si è appena alzato. E poi entravo – quasi fisicamente, tanto forte era la suggestione – nella fabbrica di mio padre e tra i fumi e i rumori infernali delle macchine assistevo stregata all’aggressione e all’inseguimento, fino a che mio padre, grande e fermo in mezzo a un formicaio impazzito di tute blu, non metteva a terra quel fesso di Russo con un colpo solo.

Mio padre non raccontava, forse non ne era nemmeno capace; più che altro accennava, mia madre lo incalzava e lui spargeva rari appigli sulla superficie liscia delle giornate con mia madre, e io mi arrampicavo, un piede qui a spingere, una mano là a tirare, e disegnavo traiettorie, costruivo trame che riempivo di uomini, di donne, di cose a non finire.

Era lo stesso durante la messa, da quattro urla penetrate nella chiesa di lamiera e poche sagome intraviste di sfuggita dall’oblò la mia mente ritagliava e cuciva le imprese dei maschi, un’intera epopea di conquiste e battaglie, di violenze e vendette.

Già all’Andate in pace mia madre mi prendeva per mano, e mi sembra di sentire ancora adesso la pressione della sua stretta, forse per contrastare il mio impulso a guardarmi intorno, a girarmi là dove gli altri bambini compivano le loro evoluzioni.

«Cammina diritta e non voltarti, Lorena. Quelli sono figli di nessuno: altrimenti erano a messa con i loro genitori, come fanno tutte le famiglie per bene».

Così mi diceva mia madre, e intanto mi trascinava per il vialone ancora sterrato come un cagnolino ribelle al guinzaglio.

Perché non darle retta allora? Non è un’inutile crudeltà riconoscere la validità dei suoi insegnamenti ora? Ora che lei non c’è più, ora che Nino se n’è andato e io sono sola, sola, completamente sola?

Lei mi aveva avvertita. «Sta’ attenta a quel Nino, quello ti farà soffrire, cammina per il Quartiere come uno senza padrone, tutti lo salutano, saluta a tutti, ma non è amico a nessuno, non rispetta nessuno…»

Tutti però lo rispettano, pensavo io, la stupida. E mia madre, che me lo leggeva negli occhi, per farmi convinta mi feriva: «Dov’è lui ci sono smorfiose che si strusciano o facce da galera».

Ma se il pensiero mi graffiava – soprattutto per la cattiveria deliberata di mia madre –, dentro sentivo tutto l’orgoglio di essere la prescelta e il brivido controllato di essere con lui al sicuro anche negli ambienti più malfamati, anche tra le persone che tutti evitavano per paura.

E ora? Ora che quella puttana di senegalese me lo ha rubato? Non posso pensare che ha attraversato savane e deserti, ha solcato acque, acque che sono diventate cimiteri, su scafi arrugginiti e cigolanti, la sua faccia smarrita era magari nel mucchio di quelle che ci hanno impietosito, a me e a Nino, dallo schermo della TV, e tutto per arrivare qui e portarmelo via… Non le vie del Signore sono infinite, ma le vie del male.

Eppure non è così, sto mentendo a me stessa. Parlo come se qui il male non ci fosse mai stato, come se io stessa non ne avessi procurato. Se mia madre fosse qui ad ascoltarmi, non oserei dirle queste cose. Lei alzerebbe i suoi occhi cerchiati nei miei e nel suo sguardo rassegnato, nella mia istintiva reazione di rabbia rivedrei me stessa bambina, tenuta nei ranghi quasi a forza, una fonte di angustie inesauribile per mia madre.

Fossi nata africana, chiusa dentro una casa di paglia e fango, di stenti e di atavica superstizione come nel fermo immagine di un’intera vita, senza alcuna storia possibile, non avrei una mattina uguale alle altre percorso anch’io la strada polverosa di terra rossa, lontano dal villaggio, lontano da tutti, incontro a tutte le infinite cose che sarebbero potute capitarmi?

Il male non è arrivato a me su una scalcagnata carretta del mare. Era già qui, volteggiava sulla mia vita di bambina, sui palazzoni popolari del Quartiere – il mio mondo – fin dal primo momento.

Ricordo quando ci arrivai, che i casermoni e le torri sembravano escrescenze geometriche, innaturali sul fango ormai secco dei cantieri. Tutto attorno era ancora campagna, e distese di granturco e rogge che sarebbero stati – più grandicelli – la nostra frontiera, il nostro West.

Ma da quella terra feconda, complice di uomini che per generazioni l’avevano curata e nutrita, convogliando le acque in un fitto reticolo di canali segnati da filari di pioppi, il Quartiere era escluso, come se la strada che lo chiude ad anello tutto intorno altro non fosse che un ben marcato confine.

Al suo interno, niente strade né aiuole né viottoli: solo un’informe colata di fango rappreso, come dopo un’alluvione, su cui faticava a crescere l’erba e che scompariva solo sotto le profonde e distese pozzanghere di pioggia che la terra non riusciva a riassorbire.

Un mondo artificiale che sembrava ancora da farsi, un agglomerato di immigrati diversi strappati a tradizioni che sentivano ancora vive e vicine e che assistevano impotenti al farsi imprevedibile dei loro stessi figli.

E in questo ambiente per noi primordiale noi bambini correvamo, compivamo le nostre esperienze e le nostre perlustrazioni, non lo sapevamo ma giocavamo a nascondino e a Ce l’hai con il male.

Io non lo sapevo, e per molti anni ancora non l’avrei saputo, ma mia madre non avrebbe considerato male, non avrebbe speso preghiere e suppliche ginocchioni nella chiesa a sapere che spiavo dalla finestra, con il binocolo sottratto di nascosto dal cassetto di papà, il mio compagno di classe? Daniele si chiamava, Daniele.

Noi tredicenni lo vedevamo più maturo degli altri, non più bambino, ma un ragazzo come noi ormai eravamo ragazze. E io non resistevo, e nella reclusione cui mi costringeva la rigida educazione di mia madre approfittavo dell’assenza di tutti per puntare il binocolo sulla finestra di Daniele, una tra le cento del lontano casermone dirimpetto, e scrutare cosa facesse.

Era come se ne fosse consapevole, il piccolo bastardo, che si toglieva l’asciugamano davanti ai vetri e si toccava senza vergogna, come stesse manipolando una cosa non sua.

E l’attrazione e la curiosità erano così forti che una volta non sentii rientrare dalla spesa del sabato i miei genitori e mia sorella Roberta, e fui fortunata che mia madre mi chiamò prima di aprire la porta chiusa della mia stanza: giusto il tempo di infilare il binocolo sotto il letto.

Eravamo un paese finto edificato sul niente, una manata di casoni che c’erano e non c’erano, come quando la nebbia fitta d’inverno cancellava ogni cosa.

Non me ne voglia mia madre, ma eravamo in qualche modo tutti figli di nessuno. O figli di quella nebbia che ci isolava e ci nascondeva, e in cui noi bambini e ragazzi ci sentivamo vivi solo quando l’istinto mordeva, ed erano zuffe negli androni, frequentazioni azzardate, giochi morbosi negli scantinati.

O ero io che guardavo di nascosto, con un misto di rabbia e di invidia, le effusioni tra quella santa di mia sorella Roberta e Sergej sul divano di casa, una volta che ero rincasata apposta in anticipo e in gran silenzio.

Eravamo noi perduti nella nebbia, e i nostri genitori dietro i vetri delle cucine dalla luce gialla e dal buon odore di minestra invano frugavano con lo sguardo per chiamarci a casa. Loro non sapevano cosa accadeva nelle nebbie delle nostre vite, mentre a me, ora, quei fatti, e quei volti, si affollano nella mente come se non io li ricordassi, ma una voce qualsiasi, più voci qualsiasi di persone che c’erano e ora forse non sono più.

***

Davide Gatto è nato nel 1961 a Milano. Vive in Puglia, dove insegna Lettere in un liceo. Ha esordito nella narrativa con i racconti Il male minore (Manni, 2011).

L’indicibile Necessarium

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Fig. 9 Maurizio Cattelan, America, 2016 (foto Jacopo Zotti)

Il bagno nell’architettura contemporanea

di Alberto Giorgio Cassani

«Se vuoi il mio consiglio, abbellisci il tuo cesso e abbellirai la tua anima»
I Simpson1

Fig. 1 Otto Wagner, Bagno, Esposizione per il Giubileo, Vienna, 1898

Come l’architettura moderna ha affrontato quel tema così essenziale e al tempo stesso oggetto di “tabù” che è il luogo dove le persone svolgono, oltre la cura del corpo, le loro inevitabili funzioni fisiologiche? Una volta Alberto Savinio scrisse che quando si rese conto che anche la donna da lui amata era costretta ad andare, come tutti gli umani, al gabinetto, la sua visione “dolcestilnovistica” del genere femminile subì un serio contraccolpo.2
La storia del bagno del Novecento inizia nell’Austria fine secolo, quando l’architetto Otto Wagner disegnò la prima toilette moderna, con la rivoluzionaria e “scandalosa” vasca trasparente di cristallo per il suo appartamento in Linke Wienzelle 38 a Vienna, progetto così descritto da Adolf Loos, il fustigatore dell’ornamento: «Il bagno è un gioiello. Tutto il rivestimento delle pareti, del pavimento, la copertura dell’ottomana e dei cuscini sono dello stesso tipo di stoffa spugnosa di cui sono fatti i nostri accappatoi. Otto Wagner è riuscito a procurarsi il campione di un violetto discreto, e il bianco, il violetto e l’argento dei mobili nichelati, degli oggetti da toilette e della vasca da bagno creano la suggestione cromatica. La vasca da bagno è fatta di cristalli per specchi montati con cornici nichelate. Persino i cristalli sopra il lavabo – sfaccettati – sono stati eseguiti in base ai disegni di Wagner. Naturalmente anche l’incantevole guarnizione della toilette».3 E sull’ambiguità di quella vasca August Sarnitz ha giustamente annotato: «Non si poteva non raccogliere l’evidente ambivalenza tra l’estetica della trasparenza, etica della purezza e l’erotismo della nudità».4

Fig. 2 Adolf Loos, Bagno pompeiano, Villa Karma, Clarens (Montreux), 1904-1906

Proprio Adolf Loos, l’autore del celebre j’accuse Ornamento e delitto (1908), assieme al suo amico scrittore e massimo autore di aforismi dell’età contemporanea, Karl Kraus, è colui che ha posto “filosoficamente” il tema della cura del corpo al centro della riflessione d’inizio secolo. Loos ha scritto: «Il primo ornamento che sia stato ideato, la croce, era di origine erotica. Esso fu la prima opera d’arte, la prima manifestazione d’arte che il primo artista scarabocchiò su una parete, per liberarsi di una sua esuberanza. […] Ma l’uomo del nostro tempo, che per un suo intimo impulso imbratta i muri con simboli erotici, è un delinquente o un degenerato. È naturale che questo impulso assalga con maggior violenza l’uomo che presenta tali manifestazioni degenerate quand’egli si trova al gabinetto. Si può misurare la civiltà di un popolo dal grado in cui sono sconciate le pareti delle latrine»;5 per inciso, su ciò non sarebbe stato d’accordo Robert Zimmermann, in arte Bob Dylan, che, in un verso di una sua canzone, ammonisce: «Attenzione ai muri del bagno che non hanno scritte».6 Ma, tornando a Loos, egli sostenne anche che «senza idraulico (plumbers) non esiste diciannovesimo secolo»,7 indicando nel moderno bathroom anglosassone il modello cui necessariamente rifarsi per introdurre la civiltà occidentale in Austria. Il bagno e il gabinetto sono il regno dell’idraulico:8 meglio che gli architetti secessionisti – leggi Joseph Maria Olbrich e Josef Hoffmann – non ci mettano mano! Ma l’intero articolo di Loos è talmente bello che oso sfidare la pazienza dei miei venticinque lettori pubblicandolo quasi per intero:

Fig. 3 Adolf Loos, Bagni pubblici, Graben, Vienna, 1905 (foto dell’autore)

Potremmo benissimo immaginare il nostro secolo senza falegnami: in questo caso useremmo mobili di ferro. Altrettanto tranquillamente si potrebbe eliminare lo scalpellino: il cementista si assumerebbe il suo lavoro. Ma senza idraulico (plumber) non esiste diciannovesimo secolo. Egli ne è diventato l’emblema ed è per noi, oggi, insostituibile. […]
Abbiamo superato la paura delle montagne, abbiamo superato il timore di fronte al pericolo, abbiamo superato il timore della polvere delle strade, dell’odore del bosco, della stanchezza. Non abbiamo più paura di sporcarci, non abbiamo più il sacro terrore dell’acqua. Al tempo in cui dominava ancora la concezione latina del mondo, all’incirca al tempo di Luigi XIV, non ci si sporcava ma neppure ci si lavava. Solo il popolino si lavava. Le persone distinte si facevano smaltare. Dev’essere un bel maiale quello lì se ha bisogno di lavarsi tutti i giorni», si diceva allora… In Germania lo si dice ancora oggi. Ho letto recentemente nel «Fliegende Blätter» che un padre ha dato proprio questa risposta al suo bambino che gli riferiva l’invito del maestro a lavarsi ogni giorno. […]
A quel tempo gli idraulici non avevano niente da fare, ed è così che hanno perduto il loro nome. Naturalmente esistevano impianti idraulici, esisteva l’acqua per le fontane a getto, l’acqua come elemento decorativo. Ma per i bagni, per le docce, per i gabinetti non si poneva il problema. Si era molto parsimoniosi nell’uso dell’acqua per lavarsi. Nei villaggi tedeschi di cultura latina capita ancor oggi di vedersi presentare per la pulizia personale dei semplici catini, così che noi, ormai anglicizzati, non sappiamo come trarci d’impaccio malgrado la nostra buona volontà. […]
Siamo rimasti indietro. Quando, tempo fa, chiesi a una signora americana quale fosse secondo lei la maggior differenza tra l’Austria e l’America, mi rispose: the plumbing! – gli impianti, il riscaldamento, l’illuminazione e le tubature. I nostri rubinetti, gli scarichi, i WC, i lavandini, ecc. sono ancora molto, molto indietro rispetto agli impianti inglesi e americani. Il fatto che, quando vogliamo lavarci le mani, dobbiamo uscire in corridoio per andare a prendere l’acqua con una brocca, il fatto che vi siano dei gabinetti senza lavandini, questa è la cosa che colpisce maggiormente gli Americani. Sotto questo aspetto l’America sta all’Austria come l’Austria sta alla Cina. Si obietterà che tali impianti esistono già anche da noi. Certamente, ma non dappertutto. […]
Un appartamento senza stanza da bagno! In America questo è inconcepibile. L’idea che alla fine del diciannovesimo secolo esista un paese di milioni di abitanti che non hanno la possibilità di fare quotidianamente un bagno, sembra agli Americani un fatto mostruoso. È per questo che anche nei quartieri più infimi di New York si può dormire in grandi dormitori pubblici, per dieci centesimi, in modo più igienico e più confortevole che nelle locande dei nostri villaggi. È per questo che in America esiste una sala d’aspetto unica per tutte le classi, dove anche quando sono più affollate non si sente il minimo odore. […]
Pensiamoci bene: in realtà non è di arte che abbiamo bisogno. […] invece di impiegare il denaro pubblico per promuovere le arti, si dovrebbe avviare un processo di civilizzazione. Accanto alle accademie si costruiscano dei bagni pubblici e si creino tanti bagnini quanti professori. Un più alto livello civile produce naturalmente un’arte più elevata, che si potrà poi sviluppare senza l’aiuto statale. […]
E se a ogni stanza da letto non corrispondesse anche un locale per il bagno, lo Stato dovrebbe costruire immensi bagni pubblici, di fronte ai quali le Terme di Caracalla farebbero la figura di un piccolo gabinetto privato. Lo Stato dovrebbe pur essere interessato al fatto che il popolo accresca le sue esigenze in fatto di igiene. Perché soltanto quel popolo che si avvicinerà di più agli Inglesi nel consumo di acqua potrà stargli al passo anche sul piano economico; perché soltanto quel popolo che saprà superare gli Inglesi nel consumo dell’acqua sarà designato a succedere loro come dominatore del mondo.
Ora, il plumber è appunto il pioniere di questa campagna per la pulizia. È il più prezioso artigiano dello Stato, il furiere della cultura, della cultura che oggi è decisiva. Ogni lavandino inglese con rubinetto e scarico è una testimonianza del progresso.9

Fig. 4 Le Corbusier, Bagno, Villa Savoye, Poissy, 1928-1931

Oltre a Loos, anche Karl Kraus, dal canto suo, ci ha lasciato questo fulminante aforisma sul tema: «Ci sono tre stadi del progresso. Il primo: quando in un gabinetto non c’è nessuna targa. Il secondo: quando compare una targa con una scritta che prescrive di riordinarsi gli abiti prima di lasciare il luogo. Il terzo: quando, alla fine della scritta, si spiega che la cosa è giustificata da preoccupazioni di decenza. Noi ci troviamo in questo stadio supremo del progresso».10 Ma il fustigatore dei costumi viennesi era particolarmente interessato all’argomento, come dimostrano questi ulteriori imperdibili aforismi: «Leggo che nel capoluogo russo di Rybinsk, le somme destinate alla manutenzione dei monumenti vengono impiegate per la manutenzione dei gabinetti pubblici. In altre città succede il contrario, ma da nessuna parte si ottiene una distribuzione equa. Se però potessi scegliere, mi deciderei senza dubbio per il sistema adottato a Rybinsk»;11 «L’Impero è stato costruito nello stile delle sue case: inabitabile, ma bello. Ci si è presi cura di fare delle logge, ma si può dire con orgoglio che si sono dimenticati i gabinetti. Possiamo esser contenti: da noi è la loggia che puzza»;12 «Posso dare la prova che è [sc. quello tedesco] pur sempre il popolo dei poeti e dei pensatori. È in mio possesso un rotolo di carta igienica, stampato a Berlino, che contiene su ogni foglio una citazione da un classico appropriata al momento»;13 ma forse il più significativo, che tra l’altro mette in campo, oltre se stesso, anche il suo amico Loos, è questo aforisma tratto dalla raccolta Tempo: «Adolf Loos e io, lui letteralmente, io linguisticamente, non abbiamo fatto e mostrato nient’altro se non che fra un’urna e un vaso da notte c’è una differenza e che proprio in questa differenza la civiltà ha il suo spazio. Gli altri invece, gli spiriti positivi, si dividono fra quelli che usano l’urna come vaso da notte e quelli che usano il vaso da notte come urna».14

Fig. 5 Le Corbusier, Cabanon, Roquebrune-Cap-Martin, 1951-1952

Il bagno ha sempre prodotto riflessioni filosofiche, fin dalla fine dell’Ottocento. A cominciare da Friedrich Nietzsche che, nei Frammenti postumi, 1869-1889, ha ironicamente affermato: «“Un impulso verso il meglio” – formula per “andare al gabinetto”».15 Ma è stato soprattutto il Novecento a esser ricco di riflessioni sul tema. Metafora dell’isolamento per Albert Camus – «La solitudine perfetta. Nell’orinatoio di una grande stazione all’una del mattino»;16 luogo ideale di lettura per lo scrittore americano Henry Miller – «Oh i meravigliosi intervalli al gabinetto! A essi devo la mia conoscenza di Boccaccio, Rabelais, Petronio, dell’Asino d’Oro. Tutte le mie valide letture, si può dire, furono fatte al gabinetto»;17 oggetto della suprema ironia dell’ingegner Carlo Emilio Gadda – «E ora vi stava lavorando il funzionale novecento, con le sue funzionalissime scale a rompigamba, di marmo rosa: e occhi di bue da non dire, veri oblò del càssero, per la stireria e la cucina; col tinello detto office: (la qual parola esercitava un fascino inimmaginabile sui novelli Vignola di Terepáttola). Coi cessi da non poterci capire se non incastrati, tanto razionali erano, di cinquantacinque per quarantacinque; o, una volta dentro, da non arrivar nemmeno al sospetto del come potervisi abbandonare: cioè a manifestazione alcuna del proprio libero arbitrio. Ché, per quanto libere, sono però talvolta impellenti e dimandano, comunque, un certo volume di manovra»;18 bersaglio della caustica genialità aforistica di Leo Longanesi – «Un tempo, il benessere era un mito, un sogno di giustizia; oggi no, esso è soltanto un desiderio immediato. E i miti a breve scadenza non accendono più la fantasia. Un ribelle, ora, si placa appena conquista il bagno»;19 luogo di “liberazione”, in tutti i sensi, per Guido Ceronetti – «Il rimedio contro i cattivi sogni – raccontarli subito al buco del cesso – è razionalissimo. Raccontare il sogno al cesso è purgarsene, scaricare la mente, come si scarica il corpo, nel luogo adatto. Da anni pratico questo metodo e lo raccomando a chi non sia superstizioso. La pratica è da estendere a ogni genere di costipazione mentale: libidini, fanatismi, amori, lutti, ricordi dolorosi, paure, manie, ambizioni ecc. Ti chiudi nel cesso e ti purghi, confessandoti al grande orecchio-buco, che non rivelerà niente a nessuno. Il cesso è un medico onesto e un fedele amico».20 Ma è stato un autore della scapigliatura milanese tra fine Ottocento e primi Novecento, Carlo Dossi, a definire questo luogo, più di tutti, con ironica crudezza: «Il cesso lo chiamano il comodo. Ed è il luogo quasi sempre il più incomodo della casa! – Noto che gli architetti nei loro progetti di casa, paiono sempre le persone più poetiche del mondo. Si dimenticano che l’uomo ha un culo… e non trovano posto pel cesso. Fatta la fabbrica poi, lo allogano in fondo a qualche baltresca o sconciamente lo attaccano in sul di fuori […]. E sì che la sala da pranzo, senza il cesso, è incompleta…».21

Fig. 6 Ludwig Mies van der Rohe, Bagno, Villa Tugendhat, Brno, 1928-1930

E così si torna di nuovo al tema del tabù – su cui, per inciso, esiste una bella conferenza di Barbara Penner – autrice del fondamentale Bathroom22 – dal titolo, appunto, di Toilets and Taboos, visibile su YouTube.23 Già Flaubert aveva accusato gli architetti di dimenticarsi sempre di mettere le scale nei loro progetti;24 Dossi vi aggiunge ora anche il cesso. Oltre a porre il problema “sociologico” del bagno, gli architetti del Novecento hanno cercato, naturalmente, di dare la miglior forma al locum necessarium: dopo Wagner, è stato proprio Loos a disegnare il fastoso “bagno pompeiano” di villa Karma a Montreux (1903-1906), ma anche quello “nihilista” di villa Müller a Praga (1930) nonché i civilissimi bagni pubblici nel Graben (1905) – quanto diversi dai bagni pubblici-patchwork di Hundertwasser a Kawakawa del 1999!, autore che del resto non amava Loos. A questi tre esempi, è impossibile non aggiungere il celeberrimo bagno della Villa Savoye (1928-1931) di Le Corbusier – artefice anche di altre famose toilette come quelle per il suo appartamento in Rue Molitor a Parigi (1931-1934) o per il mitico “Cabanon” a Roquebrune-Cap-Martin (1951) – o i bagni, classici del Moderno e forse noti solo agli studenti d’architettura, di Ludwig Mies van der Rohe per Villa Tugendhat a Brno (1928) e Casa Farnsworth a Piano, Illinois (1945-1951), quest’ultimo l’unico ambiente della casa a essere celato alla vista di possibili voyeur (preoccupazione massima della committente, Edith Farnsworth, coltissima, ma poco amante del vetro…).

Fig. 7 Ludwig Mies van der Rohe, Schizzo del bagno di Casa Farnsworth, Plano (Illinois), 1945-1951 (MoMA)

Senza dimenticare, naturalmente, il contributo dato dagli artisti. A cominciare dal genio di Marcel Duchamp, che aveva trasformato un orinatoio nel più celebre dei ready-made, firmandolo R. Mutt e ribattezzandolo Fountain (1917); diverso e analogo, al tempo stesso, il senso di America (2016), il water d’oro massiccio, perfettamente funzionante, realizzato per il Museo Solomon R. Guggenheim di New York da Maurizio Cattelan che, da vero re Mida, trasforma in oro tutto ciò che tocca (con qualunque parte del corpo); mentre pienamente surreale è il water per trampolieri di Jacques Carelman (anni Settanta).

Fig. 8 Marcel Duchamp, Fountain, 1917 (foto di Alfred Stieglitz)

Come che sia, il bagno, oltre che necessario, sarà sempre un luogo utile per consolarci, senza essere visti, dalle nostre delusioni, come c’insegna la celebre battuta di Igor/Marty Feldman in quel capolavoro del genere comico di tutti i tempi che è Frankenstein Junior: «Quando la sorte ti è contraria e hai mancato del successo, smetti di far castelli in aria e va’ a piangere sul…».25

 

Note:

Voglio ringraziare l’amica Elisabetta Di Stefano, docente di Estetica all’Università degli Studi di Palermo, per avermi ricordato la paternità loosiana dei bagni pubblici al Graben di Vienna.

  1. Citazioni.org, http://www.citazioni.org/stanza-da-bagno/315801.html [data di ultima visualizzazione: 18 ottobre 2021].
  2. Nonostante un’assidua ricerca, non sono più riuscito a ritrovare il passo di Savinio. Senz’altro uno scherzo del Nostro. In compenso posso segnalarvi la descrizione, tutta uditiva, del lavacro di Stephania Michailshon, studentessa russa di lettere all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, descritto da Savinio nella sua opera prima, Hermaphrodito, pubblicata nel 1918 dall’editore Vallecchi di Firenze, nel capitolo dal titolo Un bagno russo. Ed. cons. Hermaphrodito, in Ermaphrodito e altri romanzi, A cura di Alessandro Tinterri, Introduzione di Alfredo Giuliani, Milano, Adelphi, 1995, pp. 3-194: 61-64. Un piccolo cammeo: «Ah, l’acuta, epica, fantastica complicazione d’una completa abluzione femminile, alle tre del mattino, attraverso la porta d’una family house fiorentina sospesa in altezza, come una nave piratesca, sugli spalti brontolini del Lungarno Acciajoli!», ibid., pp. 62-63.
  3. Adolf Loos, Die Interieurs in der Rotunde, 12. Jun 1898, in Id., Ins leere gesprochen. 1897-1900, Berlin W, Verlag Der Sturm, MCMXXI, pp. 54-59: 58, trad. it. di Sonia Gessner: Gli interni della Rotonda, in Id., Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972, 19802, pp. 25-32: 31.
  4. August Sarnitz, Otto Wagner. 1841-1918. Pioniere dell’architettura moderna, Köln etc., Taschen, 2005, p. 53.

    Fig. 9 Maurizio Cattelan, America, 2016 (foto Jacopo Zotti)
  5. Adolf Loos, Ornament und Verbrechen, 1908, in Id., Sämtliche Schriften, In Zwei bänden, Herausgegeben von Franz Glück, Herster Band: Ins Leere gesprochen 1897-1900; Trotzdem 1900-1930, Wien-München, Verlag Herold, 1962, pp. 276-288: 276-277, trad. it. di Sonia Gessner, Ornamento e delitto, in Id., Parole nel vuoto, cit., pp. 217-228: 218.
  6. La frase, così in italiano, è tratta dal web e ho supposto che provenga da una canzone del menestrello di Duluth. Ma quale, purtroppo, non so dire.
  7. Adolf Loos, Die plumbers, 17. Juli 1898, in Id., Ins leere gesprochen. 1897-1900, cit., p. 76, trad. it. cit., I plumbers, in Id., Parole nel vuoto, cit., pp. 57-64: 57.
  8. Cfr. A. Loos, Die Interieurs in der Rotunde, cit., p. 56, trad. it. cit., Gli interni della Rotonda, cit., pp. 28-29.
  9. A. Loos, Die plumbers, cit., pp. 76-80, trad. t. cit., I plumbers, cit., pp. 57-62.
  10. Karl Kraus, Länderund Leute, in Id., Sprüche und Widersprüche, Münich, Albert Langen, 1909, trad. it. Id., Detti e contraddetti, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1972, 19793, pp. 151-158: 153.
  11. Karl Kraus, Von den Sehenswürdigkeiten, in «Die Fackel», X, n. 266, 30 November 1908, pp. 5-10: 5, trad. it. in Aforismario, https://www.aforismario.eu/2019/12/frasi-gabinetto-wc.html [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  12. Karl Kraus, Von zwei Städten, in Id., Pro domo et mundo, München, A. Langen, 1912, trad. it. Di due città, in Id., Detti e contraddetti, cit., pp. 233-235: 234.
  13. Karl Kraus, 1915, in Id., Nachts, Leipzig, Kurt Wolf, 1918, trad. it. Di notte, in Id., Detti e contraddetti, cit., pp. 315-348: 318.
  14. Karl Kraus, Zeit, in Id., Nachts, cit., trad. it. Tempo, in Id., Detti e contraddetti, cit., pp. 291-309: 293-294.
  15. Friedrich Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1869-1889, Kritische Studienausgabe Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, München, Deutscher Taschenbuch Verlag de Gruyter, 1988, trad. it. parziale: Frammenti postumi, 1869-1889, in Aforismario, https://www.aforismario.eu/2019/12/frasi-gabinetto-wc.html [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  16. Fig. 10 Marty Feldman/Igor, Frankenstein Junior, 1974, regia di Mel Brooks

    Albert Camus, Carnets I, II, III. Mai 1935 – décembre 1959, Paris, Gallimard, 1962, 1964, 1989, trad. it. parziale: Taccuini 1935-1959, in lefrasi.com, https://www.lefrasi.com/frase/albert-camus-solitudine-perfetta-nell-orinatoio-grande-stazione?bg=p55 [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  17. Henry Miller, Black Spring, Paris, Obelisk Press, 1936, trad. it. parziale: Primavera nera, in Citazioni.org, https://www.citazioni.org/stanza-da-bagno/315794.html [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  18. Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Torino, Einaudi, 1963, citato in The Edinburgh Journal of Gadda Studies, https://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/walks/subwalks/bizze/ville.php [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  19. La sua signora. Taccuino di Leo Longanesi, Milano, Rizzoli, 1957, citato in Wikideck, https://wq-it.wikideck.com/Leo_Longanesi [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  20. Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Milano, Adelphi, 1979, citato in Aforismario, https://www.aforismario.eu/2019/12/frasi-gabinetto-wc.html [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  21. Carlo Dossi, Note azzurre (scelte e ordinate dalla vedova), Milano, Fratelli Treves, 1912, citato in Aforismario, https://www.aforismario.eu/2019/12/frasi-gabinetto-wc.html [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  22. Barbara Penner, Bathroom, London, Reaktion Books, 2013.
  23. Barbara Penner, Toilets and Taboos, conferenza tenuta all’University College London il 18 novembre 2014, in Youtube, https://www.youtube.com/watch?v=BfuyTDf3zXE [data di ultima visualizzazione: 17 ottobre 2021].
  24. Gustave Flaubert, Le dictionnaire des idées reçues, Texte établi d’après le manuscrit original et publié avec une introduction et un commentaire, [éditée par E.-L. Ferrère], Paris, Louis Conard, 1913, p. 44 (PDF): «architectes – tous imbécilles. – oubliente toujours l’escalier des maisons».
  25. Young Frankenstein [Frankenstein Junior], 1974, 105 min., regia di Mel Brooks.

Agricoltura convenzionale, agricoltura biologica, nuove tecnologie

3

intervista a Giacomo Sartori di Dario De Marco

DDM Partiamo dal principio: la dicotomia biologico / convenzionale. Noi ce li figuriamo spesso come due cose distanti e distinte, in teoria è così ma poi nella pratica, in campo, la differenza non è così feroce, come dici tu nel pezzo su Micromega. Il punto comune è l’obiettivo: tecniche che limitino gli impatti e producano cibi sani con il minore apporto di energia possibile. Possiamo dire che l’una ha bisogno dei metodi dell’altra. Esagero? 

GS Biologico e convenzionale erano due compartimenti stagni quando si era meno coscienti dei guasti ambientali causati da quest’ultimo, che poteva andare avanti per la sua strada senza porsi problemi. Di fronte all’ampiezza dei danni e dei pericoli connessi, della presa di coscienza generale, e delle stesse politiche europee, ora invece anche l’agricoltura più produttivista è costretta ad avere uno sguardo più ampio, a prendere in considerazione le falde acquifere, le emissioni di gas a effetto serra, le morie degli insetti e via dicendo, in altre parole a avere un approccio più ecologico, che è quello che sta dietro agricoltura biologica. Quindi non si può negare che ci sia un avvicinamento, e che quest’ultima in molti casi diventi un modello. La grande sfida è sapere se l’agricoltura convenzionale troverà dei modi per diminuire gli impatti e gli enormi consumi di energia, cosa più facile a dirsi che a farsi. Il pericolo è che faccia solo finta, come mi sembra stia succedendo in particolare in Francia, con un grande proliferare di marchi che molto spesso non garantiscono nulla, e tolgono legittimità a quello dell’agricoltura biologica, che invece è controllatissima e rappresenta una vera garanzia.

DDM I danni dell’agricoltura industriale/convenzionale non c’è bisogno di ripeterli: da quelli ambientali a quelli sulla salute, da quelli etici legati al benessere (malessere animale) a quelli, che arrivano alla fine ma non sono trascurabili, sulle proprietà sensoriali di ciò che ci arriva in tavola. Secondo te qual è il più grave?

GS Credo invece che si debbano ripetere, e si debbano conoscere molto meglio, anche per esperienza diretta, vedendo, toccando, annusando. Altrimenti rimangono vaghi e per certi versi irreali, molto lontani dalla quotidianità delle persone. Credo che è impossibile preoccuparsi davvero e operare per un qualcosa che non si conosce, e senza che ci sia un legame anche emozionale, affettivo. È molto più facile domandare a un cittadino di mangiare meno carne, se gli si fa visitare una porcilaia industriale, un mattatoio, le vasche con i reflui. La nostra cultura ha erto a zone di pregio i parchi e le zone meno contaminate, per le quali si fanno magari migliaia di chilometri in aereo, mentre quelle coltivate sono viste come banali e senza valore, e quindi senza interesse. Qualche settimana fa ho attraversato in treno la Borgogna in una giornata magnifica, e le campagne con i campi arati e le colline erano davvero bellissime, mi mozzavano il fiato, ma nessuno alzava la testa dallo smartphone, nessuno le degnava di uno sguardo. Per quanto riguarda l’ultima parte della tua domanda mi sembra importante sottolineare che in Italia più che in altri Paesi c’è una grande attenzione alla qualità e al gusto dei prodotti agricoli, e agli ingredienti dei piatti cucinati, questo invece è un aspetto per me molto positivo, che va coltivato. Cura dei prodotti e paesaggio vanno assieme, lo sappiamo bene per il vino, ma a ben vedere è vero per qualsiasi coltura, perfino le più umili, come le lenticchie e le fave.

DDM Inquadrare le cosa in una prospettiva storica e anche preistorica, cioè guardando un lasso di tempo più ampio, è una di quello operazioni mentali che ti cambiano la visione. E ti portano a ragionare così: “Dire che questo tipo di agricoltura è insostenibile non è un giudizio di ecologista, è prendere atto che – ricalcando il significato letterale del tempo – essa non può perdurare nel tempo. Essa mina infatti a passi di corsa le condizioni che l’hanno resa possibile per una brevissima frazione del lasso temporale che ci separa dalle prime coltivazioni nel Neolitico. Di questo passo domani non si potrà produrre quello che si produce oggi, quali che siano i progressi delle tecnologie”.
Però: provo a fare l’avvocato dei diavolo. Non è già stato detto tante volte che “così non si può andare avanti” e “il modello non è sostenibile”, e ogni volta è arrivata un’innovazione che ha superato il problema?

 GS Il problema è che abbiamo bisogno di soluzioni efficaci subito, non tra una generazione, e queste soluzioni miracolo purtroppo non ci sono. Abbiamo una fede smisurata nelle nuove tecnologie, perché in altri campi hanno dato risultati strabilianti in tempi rapidissimi, basta pensare alla medicina. Queste daranno verosimilmente degli apporti positivi – finora il bilancio è davvero misero – all’agricoltura dei Paesi molto avanzati, non negli altri. La grandissima parte dell’agricoltura mondiale è però una agricoltura contadina, spesso di sussistenza, e dobbiamo mirare a aiutare e migliorare quella, perché la chiave di volta per sconfiggere la fame e la malnutrizione è questa, tutti gli esperti sono d’accordo. Ogni volta che l’umanità dispone di una nuova tecnologia, si illude che con quella risolverà tutti i problemi. Nel ventesimo secolo è successo in particolare con la radioattività, e poi con il nucleare. Nei due casi si diceva – e leggendo adesso si fanno grassissime risate – che si sarebbero potute avere applicazioni mirabolanti nei campi più diversi. Mi sembra che stia succedendo adesso qualcosa di analogo riguardo alle tecnologie informatiche e all’ingegneria genetica applicate all’agricoltura. Ma attenzione, sto parlando delle soluzioni miracolo, non del contributo della scienza, che sarà assolutamente indispensabile. Intendendo però però per scienza un buon coordinamento tra ricerca, assistenza tecnica e politiche pubbliche, quello che manca in genere è quello, non le risolutive scoperte della nostra mitologia tecnicista.

DDM Biologico ha altri difetti, va incontro ad altre critiche: rese minori, costi maggiori, utilizzo di preparati come il verderame. C’è chi si spinge a dire che il plus dell’agricoltura biologica sia la mera convenienza economica: siamo disposti a pagare di più il marchio.

GS Ripeto, il biologico si basa su una visione ecologica, per essere precisi agro ecologica, delle colture, senza la quale la prossima generazione non potrà sfamarsi, in un quadro di diminuzione delle energie fossili e di generalizzato impoverimento dei suoli. Questa è una grande discriminante di ordine generale, ben più importante di tutto il resto. Lei produce in modo ecologico, e funziona, quando quaranta o cinquant’anni fa quasi tutti i professoroni di agronomia sostenevano che non sarebbe stato possibile. Ma certo è giusto andare a vedere nel dettaglio quelle che sono le debolezze e i problemi dell’agricoltura biologica, che dal punto di vista della legge non è altro che una serie di protocolli, che possono avere dei limiti, o possono essere aggirati. Fare però di tutte le erbe un fascio, enfatizzando piccole magagne, mi sembra che sia fuorviante, e impedisca di impostare una discussione seria. E attenzione a parlare di rese, perché nel biologico sono tendenzialmente minori, ma non sempre. Ho visitato una grande azienda bio qualche settimana fa in Piccardia dove le rese dei fagioli erano superiori a quelle dei vicini in convenzionale. Dipende molto dalle colture. E comunque non possiamo più parlare solo di rese, senza conteggiare nel bilancio anche i danni ambientali. Quelli chi li conteggia, chi li paga? Se tu levi la marmitta alla tua auto questa andrà più veloce e consumerà di meno, però ci sarà un danno sonoro e chimico all’ambiente. E poi c’è la qualità bassa o bassissima dei prodotti, e i relativi costi sanitari, anche quelli, chi li paga? Le classi meno abbienti, costrette a comprarsi la farina e il latte meno cari, e che sono le più colpite dall’obesità? Ma certo, l’agricoltura bio richiede molto spesso più manodopera, questo è innegabile. Per produrre però cibi più buoni e più sani. C’è chi per accecamento ideologico o pregiudiziale sostiene il contrario, come la professoressa Cattaneo, ma per il primo aspetto basta guardare alle analisi che vengono fatte regolarmente da vari organismi in Italia e fuori, e per il secondo direi di affidarsi all’esperienza di ognuno di noi, per certi prodotti, per esempio i finocchi e l’insalata, secondo il mio modesto parere non c’è paragone. Ma appunto lascerei libero corso al giudizio di ognuno, ben sapendo che molto spesso meglio di un piccolo orticello, per la qualità, non c’è.

DDM Scrivi: “La fame del 9% della popolazione mondiale non dipende in alcun modo dalle rese per unità di superficie: l’Europa ha problemi cronici di sovrapproduzione. E sono le sovvenzioni alle agricolture dei Paesi ricchi che mettono in ginocchio quelle dei Paesi poveri, affamando le loro popolazioni”. Ci spieghi bene sto meccanismo perverso?

GS La visione che abbiamo noi dell’agricoltura mondiale è molto viziata dalle pratiche che noi conosciamo, e che diamo per scontate. Quando invece la maggior parte dell’agricoltura, quella che nutre la maggior parte delle persone, se guardiamo le statistiche, è una agricoltura contadina, spesso legata alla sussistenza. E la fame e la sottoalimentazione sono legate a questa. L’unica leva che abbiamo per ridurle è agire su questi modi di coltura che ai nostri occhi sono molto arcaici, partendo da quello che sono. In molti casi un semplice arnese manuale o una piccola miglioria cambiano radicalmente le cose, l’intelligenza artificiale e la genetica non sarebbero di alcun aiuto. Il problema è che la libera concorrenza che abbiamo imposto al sud del pianeta, in nome del libro scambio, ha schiacciato in molti casi le agricolture locali, che non potevano competere con i prodotti europei e nordamericani che ricevono enormi sovvenzioni statali (libero scambio!), e che hanno rese per persona impiegata molto alte  (paradossalmente quella economica è bassa, visti gli enormi input richiesti). Nella maggior parte dei casi la risposta è stata il ripiegare verso colture tropicali per l’esportazione, quali il caffè il cacao le banane eccetera, con l’effetto di creare una sovrapproduzione, che ha abbassato a livelli insostenibili i prezzi. In molti casi un grande aiuto verrebbe da forme di protezionismo per le derrate alimentari, quelle stesse che l’Europa e gli Stati Uniti hanno applicato dopo la seconda guerra per difendere le proprie agricolture, ricordo. Ma attenzione, non c’è solo la fame, la FAO stima che tre miliardi di persone non hanno accesso a una alimentazione sana, che paradossalmente avrebbe dei costi di produzione minori a quello che si produce attualmente. Ormai anche l’obesità, e le malattie connesse, sono un flagello.

DDM E veniamo alla Cattaneo e in generale alle posizioni di quegli scienziati che si pongono in maniera poco aperta e dialettica, sul genere “la scienza non è democratica” (che molto spesso si scrive così e si legge “io so’ io e voi non siete un cazzo”). Parto ancora da quello che scrivi: “Le posizioni più “riduttiviste”, sono in genere espresse da scienziati – in particolare ingegneri e genetisti – che per formazione non sono abituati a osservare la natura in termini di equilibri ecosistemici, non hanno dimestichezza con i fondamenti dei processi naturali in gioco (dinamica della sostanza organica del suolo, ciclo degli elementi nutritivi, dinamica delle popolazioni degli insetti nocivi e benefici…), e ragionano come se i dettami e i modi di vedere dell’agricoltura industriale fossero dogmi assoluti, e non precetti (riduttivi) con una loro storia (in genere recente) e dei precisissimi interessi soggiacenti”. 

-La cosa che mi sembra rilevante, e che tutti ma tutti spesso dimentichiamo è che “l’agricoltura è per definizione una alterazione degli equilibri della natura” (anche se questo apre poi a speculazioni di tipo addirittura filosofico, sul reale valore della dicotomia natura/cultura, sul fatto che anche l’uomo è natura e quindi qualsiasi cosa fa ecc, sul fatto che piante e animali domesticati ormai da millenni sono esseri e specie viventi che però senza l’uomo non sopravvivrebbero…)

GS Prima di tutto c’è il fatto incontestabile che essere dei grandi specialisti in una branca scientifica non vuol dire che si possa poi andare a sindacare in altri settori nei quali non sappiamo niente. Io non mi sognerei mai di dire qualcosa, magari orecchiando spezzoni a destra e a manca, sulla genetica molecolare. La professoressa Cattaneo, che nel suo campo è una grande scienziata, parlando di queste cose riproduce con una grande serietà argomenti da bancone di bar, senza alcuna esperienza diretta. C’è poi un aspetto più profondo, legato al fatto che l’agricoltura riguarda saperi estremamente diversi, con scale incomparabili (dalla dimensione regionale di chi studia l’idrogeologia o il clima, a quella microscopica di chi studia la microflora), e con linguaggi molto diversi: per esperienza diretta so quanto sia difficile mettere assieme e fare dialogare i vari specialisti (senza contare le differenze nazionali e delle varie scuole all’interno di ciascuna disciplina). Credo quindi, vista la miriade di interrelazioni e processi coinvolti, ci voglia dell’umiltà, anche quando si padroneggia molto bene il proprio campo. Quanto al concetto di natura sai meglio di me che ultimamente molti studiosi, a cominciare dall’antropologo Philippe Descola, lo hanno messo in discussione, mostrando che è molto recente, che non esiste nelle culture tradizionali, e che apre la via, come tu suggerisci, a considerarci al di fuori dai fatti dell’ambiente, che diventa un oggetto sul quale agire, completamente succube al nostro volere. Il problema è che nelle discussioni come questa non abbiamo un termine di rimpiazzo, anche se appunto “natura” si porta dietro dei significati che in certo qual modo sono all’origine dei problemi che vorremmo descrivere, e quindi non è il più idoneo.

DDM Nel recente pezzo su Nazione Indiana invece citi il reportage di Internazionale che ha il merito di mostrare all’opera i biodinamici, e far vedere che non sono stregoni. Cosa non ti è piaciuto invece di Liberti? L’idea che ci siano due agricolture che non si parlano, due visioni del mondo in contrasto e non sovrapponibili?

 GS Non mi sembra corretto mettere sullo stesso piano chi ha argomenti solidi e concreti, e ha le mani in pasta, alcuni validi produttori biodinamici, e chi invece senza conoscere quasi nulla del settore agricolo li critica, sposando tesi pretestuose e pregiudizi senza fondamento, che non so perché hanno ancora una grande eco mediatica in Italia (in altri Paesi succedeva in passato). Liberti si mantiene equidistante tra queste posizioni, tra il resto sostenendo che l’agricoltura tradizionale sta con la scienza, e quelle biologiche e biodinamiche no,  il che è falso, e mantiene il dibattito mediatico a un livello molto basso. La vera questione, che effettivamente divide il settore agricolo, ma in maniera molto più complessa e sfaccettata, è che contributo possono dare la ricerca agricola, quasi assenti in Italia, e le politiche pubbliche, per andare verso una agricoltura più ecologica, sia per il convenzionale che per il biologico: quali investimenti, quali direzioni, quale passo, quali priorità, quali tecnologie, quali problemi. Questo dovrebbe essere il vero tema del dibattito mediatico, in accordo con la realtà dei fatti, con le posizioni dello stesso ministero dell’agricoltura e con la consapevolezza degli addetti al mestiere. Noi stiamo qui a riesumare una diatriba di cinquant’anni fa, lasciando parlare cosiddetti esperti che non sanno nulla, ma proprio nulla, del settore, e intanto la crisi climatica imperversa e il piano di rilancio non prevede alcun sostegno alla ricerca agronomica.

DDM A un certo punto dici che in Africa la rivoluzione verde non ha funzionato. Questa cosa è acclarata, incontestabile? (non l’avevo mai sentita)

 GS Acclaratissima e incontestabile, lo dicono tutti i testi, anche se poi le analisi possono differire. I metodi proposti – sostanzialmente varietà migliorate con alte rese, ma che richiedevano concimi chimici, pesticidi e irrigazione – non si adattavano alla culture e usanze e strutture economiche locali, e non hanno dato risultati. La rivoluzione verde è nata in realtà in Messico, su iniziativa americana, e poi è stata esportata in India, anche lì per contrastare lo spauracchio del comunismo, da dove si è propagata con buoni successi, ma creando problemi devastanti, in gran parte dell’Asia. L’agricoltura non può prescindere dalle specificità ambientali e culturali locali.

DDM Del convenzionale bisogna considerare anche un fattore psicologico e tecnico, che poi diventa politico: le formule (concimi pesticidi ecc) svuotano anche una tradizione di conoscenze e cultura,  e in più tolgono al contadino centralità, lo rendono un operaio alienato in catena di montaggio.

 GS Questa condizione di alienazione in moltissimi casi si avvicina in realtà sempre di più a una schiavitù, visto che i redditi diminuiscono, e non consentono più di avere una vita degna, e di trovare una moglie disposta a compartire quella miseria. In Italia è forse meno evidente, perché ci sono gli ammortizzatori che conosciamo, ma in altri Paesi la situazione è drammatica. In Francia ogni giorno un agricoltore si suicida, dicono le statistiche. E tutto ciò nonostante l’Unione Europea dedichi un terzo del suo bilancio a aiutare l’agricoltura.

DDM D’altro canto, bisogna capire anche gli agricoltori  convenzionali e le strenue battaglie che fanno, dici a un certo punto.

 GS Se vogliamo cambiare l’agricoltura dobbiamo aiutarla e sostenerla, in particolare con la ricerca e l’assistenza tecnica, non possiamo solo chiedere agli addetti al settore, che appunto spesso sono già stressati e in crisi, di fare i salti mortali per adattarsi alle limitazioni – in particolare meno pesticidi – che imponiamo dall’alto. Dobbiamo sapergli proporre delle valide alternative, altrimenti si opporranno con tutte le loro forze, e la spunteranno. Paradossalmente adesso sono loro, che per anni sono stati appunto diseducati a una visione a lungo termine che potremmo chiamare già ecologica, che era quella dell’agricoltura tradizionale, i peggiori nemici di una svolta ecologica. E ripeto, il piano di rilancio non prevede nulla in questo senso, tutto è centrato su un riammodernamento in senso industriale delle aziende.

DDM Ricerca agronomica e agricoltura di precisione: un aspetto che non viene considerato abbastanza, anche se è ampiamente dimostrato che è fondamentale, è la diversità dei suoli. Una spiegazione da agronomo please.

GS L’idea alla base dell’agricoltura di precisione è ottima, vale a dire adattare le pratiche agricole alle variazioni anche infime del territorio coltivato. Il problema è che essa è nata all’interno di una visione riduttivista, insomma solo chimica, per cui per pratiche agricole si intendono in realtà le concimazioni chimiche, ignorando le conoscenze del territorio che le macchine non potranno mai sopperire, in particolare appunto sul suolo, e che richiedono studi, intelligenza, tempo. C’è chi pensa, e sono di solito ingegneri, che non sanno nulla di ecologia e di agronomia, di poter risolvere tutto con le strumentazioni GPS e i sensori. Magari! Un grande ricercatore in agricoltura biologica trentino, ora in pensione, aveva una frase scherzosa, guardando la sua equipe abituata a battere incessantemente le campagne: “l’agricoltura di precisione in realtà siamo noi”.

Questa intervista a Giacomo Sartori di Dario De Marco, è apparsa, preceduta da una introduzione di quest’ultimo, su “Dissapore“, il 10 novembre

Niente di personale, di Fabrizio Venerandi

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(da Spam Poetry)

[2]

ho cliccato lì e mi sono goduto il
sesso di più, con la forza del titángél
ho cliccato lì e ho fatto sesso
tutte le volte che volevo

ho cliccato lì per iniziare
ho calcolato il preventivo auto

non riuscivo a vedere l’immagine
ho cliccato lì ho annullato l’iscrizione

ho scelto i miei colori
ho scelto il mio messaggio
ho scelto la mia confezione
ho scoperto l’universo my m&m’s®

ho approfittato di offerte
esclusive sul loro sito
ho scoperto ispirazioni e idee
regalo per tutti i miei eventi

mi sono tenuto informato sulle novità my m&m’s®
ho scoperto come personalizzare i miei m&m’s®
ho cliccato sulla mia personalizzazione preferita

mi sono iscritto gratis e ho visto
tutte le richieste di lavoro nella mia zona

ho scelto io i clienti: ho risposto solo
alle richieste che mi interessano
ho ottenuto il lavoro

ho cliccato lì e ho eliminato velocemente
il grasso in poche settimane

il mio membro era piccolo
l’ho allungato con un metodo sicuro
la pelle del mio viso è luminosa
come una volta

mi hanno mostrato come sbarazzarmi
della psoriasi

ho richiesto il prestito e
ho potuto cambiare rata senza costi

ho ricevuto un bollino
e acquistando i prodotti segnati a scaffale
ho ricevuto un ulteriore bollino
per accelerare la mia raccolta

mi hanno dato il benvenuto in crédit agricole

ho preparato i miei nuovi obiettivi
di trading con il playbook
del trader 2018 di alvexo

stavo pensando ai regali di natale
ma non avevo idee: ho regalato un cofanetto di profumi

volevo sorprendere con un regalo d’effetto
sono andato sul sicuro mettendo sotto l’albero
una confezione regalo skincare o make-up

il mio conto è stato limitato

qualche tempo fa, mi avevano inviato un’email
richiedendo la mia collaborazione per risolvere
un problema che si è verificato
con il mio conto paypal

il mio conto è stato limitato
perché non hanno ricevuto alcuna risposta
da parte mia

c’è un suv fatto apposta per me

ho richiesto informazioni
ho ricevuto in omaggio il taccuino da viaggio
ho scoperto di più

non ho sprecato soldi per la riverniciatura
ora sono in grado di rimuovere qualsiasi graffio
dalla carrozzeria della mia auto in soli 5 secondi

più leggo più regalo
ne ho approfittato subito

 

 

*

 

(da News Poetry)

[1]

Picchia la moglie mentre i figli
sono collegati in Dad

aggredito a Roma, l’attacco di Chef Rubio
Infame, troppe poche te ne hanno date

Questo gioco di strategia
è il miglior allenamento
per il tuo cervello

Laura di “Casa nella Prateria”
ha 56 anni oggi e sembra ancora più bella!

Il patrimonio di Paolo Maldini
lascia la sua famiglia in lacrime

sveglia dopo 12 anni di coma
e quello che dice
lascia tutti di stucco

Pesavo 100 kg, ora ne peso 59

Fabbricato in Svizzera: 24 ore
e solo 1 lancetta.
L’orologio “slow” ti aiuta a vivere nel momento.

Cina, monaco shaolin ‘cammina sulle acque’:
è record del mondo

Bruno Vespa rivela sua moglie
e la riconoscerete facilmente

Versa il sapone per i piatti nella toilette
prima di andare a letto, ecco perché

Scatta una foto alla moglie incinta,
ma nota un particolare incredibile

Grillo condannato per la morte dei miei
genitori, se vuole farsi arrestare vada
in carcere per loro

La figlia di Lorella Cuccarini
è probabilmente la donna più bella
del pianeta

23 tagli di capelli che vi renderanno
più giovani di 10 anni

Il nuovo trend per ingrandire
le labbra
senza l’aiuto del chirurgo

Natura e libertà, tutti nudi sull’erba:
riapre il camping di Marzabotto

Kirsten Dunst svela perchè
non voleva baciare Spiderman.

Il gatto partorisce, i veterinari
si rendono conto che non sono gattini

Sesso over 70
nel Regno Unito

 

*

Niente di personale di Fabrizio Venerandi è in uscita per la collana Fari di Argolibri, diretta da Valerio Cuccaroni. Sarà in libreria, o qui, dal 25 novembre.

 

Edoardo Sanguineti e Magdalo Mussio: un ‘giuoco’ verbo-cine-disegnato

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di Chiara Portesine

Il Giuoco dell’Oca di Edoardo Sanguineti (1967), il secondo romanzo sperimentale licenziato dal leader della Neoavanguardia dopo Capriccio italiano (1963), si rivela un autentico magazzino verbo-visivo di materiali provenienti da tutti i meandri dell’iconosfera – dalle sale musealizzate del canone (i quadri di Hieronymus Bosch o di Robert Rauschenberg) al mondo dell’illustrazione e della stampa popolare, dalla cartellonistica pubblicitaria ai fumetti, dai film d’autore ai feuilleton cinematografici o rotocalchistici. L’esergo bretoniano («ce n’est pas que superpositions d’images de catalogue»)(1) costituisce il monito più calzante per inaugurare l’operazione sanguinetiana, dal momento che, come ricorda l’autore stesso in un’intervista, «i surrealisti coltivano una sorta di collezionismo da Wunderkammer, di cui Breton era un po’ il portatore teorico. Breton aveva contagiato quasi tutti, anche nell’ambito pittorico, con questa specie di museo degradato, perverso, feticistico».(2) Nella produzione sanguinetiana un simile iper-museo giustappositivo si incontrerà più tardi nel Ritratto del Novecento, un palinsesto multimediale strutturato per «tessere della durata di alcuni minuti, pensate come microsistemi interdisciplinari che spaziano da materiali filmici a sequenze di immagini fotografiche e iconografiche, pagine di poesia, prosa, saggistica, filosofia, architettura, cinema, teatro», ecc.(3)

Se, per certi versi, il Giuoco potrebbe essere considerato un precoce ‘Ritratto degli anni Sessanta’, qui, tuttavia, gli ipotesti figurativi vengono occultati e la decifrazione completamente demandata al «gioco paziente della critica»(4). In mezzo a questo atlante (più o meno warburghiano) c’è spazio anche per alcune forme poco convenzionali di novissimi oggetti artistici – in particolare, un happening di Allan Kaprow immortalato dal fotografo Lawrence Shustak e una pellicola disegnata a china da Magdalo Mussio. La descrizione di The Courtyard, la performance realizzata nel novembre del 1962 presso il Mills Hotel di New York, occupa il perimetro del cap. xvi, mentre il pedinamento quasi ‘telecronistico’ dell’opera di Magdalo Mussio si articola nello spazio di ben tre capitoli (cii, cv e cix)(5) collocati nella sezione conclusiva del romanzo. Il lettore non equipaggiato di strumentazioni ecfrastiche sarà portato semplicemente ad attribuire una generica aria di famiglia alle tre stazioni romanzesche, colonizzate dall’improbabile inseguimento tra una «freccia» e uno «sgorbio» antropomorfo che si sdoppia e si triplica durante la corsa, andando incontro a una serie di stranianti metamorfosi e quête identitarie. Nella moltiplicazione finale del soggetto nel cap. cix («ci sono sempre tre volte, io, con tre pistole») Manuela Manfredini aveva individuato «la scena finale del film La signora di Shangai di Orson Welles»,(6) sebbene nella celebre stanza degli specchi wellesiana la rifrazione degli attori non si limitasse a tre immagini. Il regista, infatti, costruisce un vero e proprio caleidoscopio iterativo in cui la sequenza degli spari e degli specchi rotti viene replicata senza lasciare allo spettatore il tempo (e la stabilità di un’inquadratura fissa) per contare le ripetizioni. Nel film di Welles, peraltro, non compare l’elemento perturbante della freccia, che rappresenta, con le sue diciotto occorrenze, il raccordo portante tra le stazioni sanguinetiane.

Dunque, è opportuno cercare altrove la genesi di questo trittico e, per l’esattezza, in un film (Go for your money) realizzato da Magdalo Mussio e proiettato a Palermo nel contesto delle prime riunioni del Gruppo 63.(7) Come dimostreremo tra poco, Sanguineti ha attinto a una specifica concretizzazione mediale di questo esperimento, ossia i fotogrammi ‘disegnati’ e pubblicati su «Marcatrè» nel 1966.(8) In qualità di responsabile di redazione, Mussio partecipava attivamente alla vita culturale del periodico, occupandosi in particolare della grafica (dalle copertine all’impaginato complessivo), ispirata all’estetica del futurismo russo.(9) Dal canto suo, Sanguineti svolse per la stessa rivista la mansione di responsabile della rubrica «Letteratura», firmando numerosi articoli delle sezioni variamente rinominate «Notizie», «Libri», «Testi» e «Rassegna critica». L’intento programmatico di «Marcatrè» consisteva proprio nel favorire l’interscambio tra discipline eterogenee (letteratura, cinema, pittura, teatro, sociologia), per edificare, come scrisse Battisti nella presentazione promozionale di «Marcatrè», un collettivo culturale simile al «fumoir del teatro (non certo al salotto letterario, dove tutto giunge di seconda mano e adulterato)».(10) Come ricorderà anche Renato Barilli, in questo eclettico contenitore culturale non c’era scrittore del Gruppo 63 che «non impostasse una strategia di vicinanza alle altre arti, dialogando con loro, o partecipando alle operazioni che vi svolgevano».(11)

Negli anni Sessanta, Sanguineti e Mussio, dunque, condividono da colleghi e da co-operatori culturali gli stessi spazi (editoriali e artistici) della scena sperimentale italiana. Per Sanguineti, oberato di impegni universitari e di presenzialismo militante, ritagliare le fonti di alcune caselle del Giuoco dalle riviste che trovava materialmente a portata di mano sulla propria scrivania (da «Marcatrè» a «Linea Sud») si dimostrerà una strategia di economia testuale prima ancora che una scelta ideologica. Anche altri capitoli del Giuoco (dal quarantesimo, dedicato alla Stanza detta di F.S. di Sergio Fergola, al cinquantunesimo, costruito a partire da un collage Senza titolo realizzato da Mimmo Paladino nel 1966) si riveleranno, per l’appunto, ‘estratti’ dai periodici interdisciplinari con i quali Sanguineti collaborava attivamente negli anni di stesura del secondo romanzo.

Per tornare al ‘trittico Mussio’, scorrendo le pellicole riprodotte su «Marcatrè» si riesce agevolmente a seguire lo sviluppo narrativo dei tre capitoli sanguinetiani, che mimano questa specie di strampalata caccia infernale ordita da una (letterale) freccia. Leggiamo, ad esempio, nel primo segmento:

La freccia magra ha la cuspide grassa. Mi insegue. Io butto i miei piedi così avanti, inseguito così, nella mia fuga, che cado tutto all’indietro, quasi. […] Con questa posizione della fuga che io tengo, inseguito così, uno crede che la freccia magra mi rende retrogrado. […] Poi la freccia magra mi raggiunge, con la sua cuspide grassa. Si contorce sopra la mia testa, mentre io già procedo nella direzione opposta. Io butto i miei piedi verso destra (GdO 216).

La freccia iniziale si sdoppierà, nei capp. cv e cix, inglobando una «freccia nuova […] con una nuova cuspide, magra», in una trasfigurazione accrescitiva che interessa parallelamente anche la silhouette del protagonista:

Ma intanto io divento due, con due frecce con le cuspidi grasse. Io e io siamo lì con le pistole puntate, di fronte alle due frecce che scappano. Una freccia scappa a sinistra. L’altra freccia, che è già scappata prima, è già salita su, tornata indietro. Poi le due frecce spariscono. Io divento tre, con tre pistole (GdO 224- 225).

Sanguineti non fa altro che stenografare l’andamento lineare della progressione, in cui le frecce diventano a tutti gli effetti due e lo «sgorbio» (con cui si identifica il narratore) assume le sembianze di un’improbabile idra. L’enunciatore si eleva qui a bricoleur della narrazione, inscrivendo i riquadri giustapposti in un campo di tensioni reciproche. Ad esempio, i negativi fotografici di un corpo femminile, seminati disordinatamente nello schema tracciato a china, vengono materialmente spostati dal protagonista. Lo scarabocchio umanoide, infatti, nota la postura innaturale delle gambe («coricate così, […] con i piedi a destra, le mezze cosce a sinistra») e decide, dopo aver fatto «passare un po’ di tempo, perché ci vuole, un po’ di tempo», di sollevarle («poi le raddrizziamo tutte, noi, quelle gambe», GdO 224). Attraverso questo espediente strategico Sanguineti riesce a inventare un plot che giustifichi la presenza di una stessa inquadratura delle gambe, duplicata in formato orizzontale e verticale. Già nel cap. cii il narratore ecfrastico si era trovato di fronte alla riproduzione fotografica di un volto maschile, in un’impasse grafica risolta grazie a una paradossale agnizione («c’è la mia testa in negativo, in primo piano, che urla, con una specie di ascia in mano, che è uno sgorbio nuovo, che mi fende una guancia», GdO 216). Nei capitoli successivi il protagonista subirà un’ulteriore metamorfosi identitaria, trasformandosi in un monstrum a tre teste: «L’io di mezzo è una donna. L’ultimo io, che è un po’ nano, è con gli occhiali scuri, con la barba. Anche l’io che è una donna, però, ha gli occhiali scuri. L’io giovane, lì a sinistra, ha le scarpe con i chiodi» (GdO 225). Come ha rilevato correttamente Elisa Sotgiu, l’ecfrasi nel Giuoco «permette di indicare con ‘io’ qualsiasi elemento della rappresentazione, di cambiarlo arbitrariamente, di moltiplicarlo»,(12) in una dilatazione irriverente e parossistica del perimetro stesso del soggetto umano.

All’interno di queste caselle, insomma, qualsiasi alterazione nella traiettoria del personaggio e del suo deuteragonista geometrico viene intercettata dallo sguardo ecfrastico attraverso un dispiegamento di indicatori spaziali («all’indietro», «nella direzione opposta», «verso sinistra», «in alto», ecc.) e di dettagli locali (le «scarpe con i chiodi» indossate da uno degli «sgorbi» oppure la «carrucola» a cui si aggrappano i tre esseri gemellari nel segmento finale).

La difficile collocazione mediale dell’oggetto, un film-collage disegnato, viene tematizzata dallo stesso Sanguineti, che cita diligentemente le tre tecniche (l’«inquadratura» per il cinema, il «negativo» per la fotografia e il riferimento conclusivo alle sagome create «senza staccare la penna dal foglio» per il disegno). Per Mussio il «supporto / pellicola» offriva all’artista la superficie su cui graffiare una storia «scarabocchiata di segni, parole, direzioni di movimento di macchina, ritagli, battute»,(13) nella costruzione di un palinsesto intermediale pienamente coerente rispetto alle tipologie assemblative di fonti predilette da Sanguineti.

In conclusione, l’inserimento di una casella tributata a Mussio (e, in generale, ai documenti ritagliabili da una rivista come «Marcatrè») ci porta ad avanzare alcune riflessioni storiografiche e interpretative relative alla contestualizzazione (e alla ricezione pratica) del romanzo. In primo luogo, considerare il Giuoco come un prodotto culturale del proprio tempo non implica alcun disvalore negativo, soprattutto se l’operazione viene rapportata a uno scrittore per il quale la storia della letteratura dovrebbe coincidere idealmente con una «storia del ‘materiale verbale’ lavorato dalle società umane» (14) e non con un catalogo di assoluti trascendentali. Il Giuoco dell’Oca è un testo che potrebbe essere stato scritto soltanto a metà degli anni sessanta; il repertorio di immagini accumulate dallo scrittore-collezionista riproduce, in forma quasi didascalica, l’orizzonte conoscitivo e iconografico dell’«operatore culturale» che si trovava a vivere all’interno di una precisa rete di occasioni plastiche, in cui un’idea romanzesca poteva nascere a margine di una mostra o nell’intervallo tra due atti di una pièce teatrale. Restituire il Giuoco alla storia, attraverso l’ecfrasi, significa provare a comprendere il messaggio più pedagogico che intellettualistico dell’esperimento, rovesciando un certo paradigma stanco che vede la Neoavanguardia come un laboratorio aristocratico di virtuosismi elaborati a dispetto (letteralmente) del pubblico. Soltanto rimettendo il romanzo con i piedi sul terreno della storiografia sarà possibile iniziare a interrogarsi criticamente sulla presenza simultanea di Rauschenberg e di Adami, di Bosch e di Batman, allineati dalla scrittura sanguinetiana non in virtù di una poetica della giustapposizione ma, piuttosto, come sintomi di un discorso che idealmente poteva proseguire, fuori dal perimetro di ogni capitolo, nei dibattiti di «Marcatrè» o del «Verri». Il Giuoco rappresenta quasi un’istantanea ritagliata dal continuum della vita interdisciplinare della Neoavanguardia, in cui il ‘travestimento’ di un manifesto di Rotella, ad esempio, si inserisce nello spazio tra una visita collettiva a una sua mostra e la discussione serale sugli sviluppi contemporanei del collage. Sanguineti invita il lettore, imitando il gesto del narratore ecfrastico del cap. lxxix, ad avvicinare l’occhio al tagliandino del libro e a «guardarci il mondo» – non il Mondo come totalità atemporale ma quello specifico contesto culturale degli anni sessanta, di cui il romanzo viene a disegnare il tabellone da gioco (nonché il bilancio) ideale. Il Giuoco è una Wunderkammer, senza dubbio; ma una Wunderkammer storica e materialistica, i cui oggetti mirabolanti non appartengono all’archeologia o all’antiquariato, ma a quell’enciclopedia della prassi che si costruisce attraverso «il gioco sociale costitutivo, […] che è un gioco tragico, indubbiamente, perché è il gioco della lotta di classe tout court».(15)

[Questa sezione è tratta, con lievi variazioni, da Chiara Portesine, «Una specie di Biennale allargata». Il giuoco dell’ecfrasi nel secondo romanzo di Edoardo Sanguineti, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2021]

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Per rendere fruibile l’argomentazione, si riproduce in coda il testo dei tre capitoli sanguinetiani accompagnati dalle rispettive immagini di Magdalo Mussio (Go for your money, ripresa su 5 mm. di china su carta e china su acetate, fotografie e graffi su pellicola, 1966. Per gentile concessione della sig.ra Emma Bellavita).

CII

La freccia magra ha la cuspide grassa. Mi insegue. Io butto i miei piedi così avanti, inseguito così, nella mia fuga, che cado tutto all’indietro, quasi. Io sono uno sgorbio, inseguito da uno sgorbio. Con questa posizione della fuga che io tengo, inseguito così, uno crede che la freccia magra mi rende retrogrado. Sembra che una forza ignota, che emana dalla cuspide grassa, che mi punta così alle spalle, mi trascina così all’indietro, verso la freccia che mi insegue. Poi la freccia magra mi raggiunge, con la sua cuspide grassa. Si contorce sopra la mia testa, mentre io già procedo nella direzione opposta. Io butto i miei piedi verso destra. La freccia magra mi trafigge il collo. C’è la mia testa in negativo, in primo piano, che urla, con una specie di ascia nera in più, che è uno sgorbio nuovo, che mi fende una guancia. Poi la freccia magra procede più avanti, mentre io procedo verso sinistra, mentre io metto tutte in alto le mie braccia, tutto su un piede solo. Poi c’è la faccia della donna in negativo, tagliata sopra una sua mano in negativo. Io salgo sopra il margine sinistro dell’inquadratura. Corro dietro la freccia che mi insegue, che adesso mi precede, che sale così in alto, che sfiora il margine superiore dell’inquadratura, che si fa la sua curva, lì in alto. Poi corro tutto a testa in giù, inseguendo la freccia magra, che si è raddrizzata tutta, verso una lampada che sporge lì da un muro, sul margine destro, che illumina tutta l’inquadratura, che annega tutto in una grande luce bianca.

cv

Sto precipitando. Le mie mani annaspano nel vuoto. La cuspide grassa mi minaccia la testa. Sto precipitando dal margine destro dell’inquadratura. Dico la mia paura a un grande microfono che cresce su, lì nel pavimento dell’inquadratura. Poi sparisce, il grande microfono che cresce su. È una freccia nuova, adesso, che cresce su, con una nuova cuspide, magra. Mi minaccia la testa che viene giù, così dal basso. La mia testa è rovesciata in negativo. La freccia vecchia, che ha la cuspide grassa, cade già con me. Misura tutta la mia caduta. Mi accompagna già per un bel pezzo, fino al collo. Poi c’è la donna, di sole gambe, con le calze bianche. Le hanno fotografate in piedi, quelle gambe, con le calze. Poi le hanno coricate così, bianche così, con i piedi a destra, le mezze cosce a sinistra. Passa un po’ di tempo, allora, perché ci vuole, un po’ di tempo. Poi le raddrizziamo tutte, noi, quelle gambe. Ma intanto io divento due, con due frecce con le cuspidi grasse. Io e io siamo lì con le pistole puntate, di fronte alle due frecce che scappano. Una freccia scappa a sinistra. L’altra freccia, che è già scappata prima, è già salita su, torna già indietro. Poi le due frecce spariscono. Io divento tre, con tre pistole. L’io di mezzo è una donna. L’ultimo io, che è un po’ nano, è con gli occhiali scuri, con la barba. Anche l’io che è una donna, però, ha gli occhiali scuri. L’io giovane, lì a sinistra, ha le scarpe con i chiodi.

CIX

Ci sono sempre tre volte, io, con tre pistole. I tre io sono tre sgorbi che corrono, uno addosso all’altro, a catena. Corrono dietro le due frecce, tutti neri. Una freccia è all’altezza dei tre io, e corre a destra. La freccia più lunga è sopra, che corre, che vola, che fa una curva, che scappa in aria, così. Poi io metto le mie mani sopra l’inquadratura. Mi tolgo la testa. Io e io sono rimasti soli, ma in negativo, così in due, bianchi, a sparare sopra il bianco del negativo. C’è la donna senza testa, adesso, ma in negativo, tagliata nel basso ventre, con una banana in mano. Poi l’inquadratura scende sopra le sue ginocchia, taglia i suoi piedi. Poi la donna si gira, senza testa, con un buco nero. L’inquadratura sale un po’. C’è il buco nero, la donna con un fazzoletto sopra le natiche, con un triangolo bianco, con un pezzo di scala. La donna cammina. Poi cammina ancora. La donna cammina sempre. Io sono io, tutto solo. Mi tengo a una carrucola che scorre in alto, sopra un doppio filo. Trascino anche io e io, dietro, a scorrere. Ci sono i tre io, neri, che scorrono. Un io è tutto nero davvero. I due io che si intrecciano a destra, scorrendo sempre, osceni come sono, li ho fatti senza staccare la penna dal foglio, mai.

Note

[1] La frase è tratta dai Manifestes du surréalisme di André Breton (Paris, Gallimard, 1970, pp. 14-15).

[2] Edoardo Sanguineti, Carol Rama, a cura di Luigina Tozzato, Claudio Zambianchi, Torino, Franco Masoero, 2002, p. 23.

[3] Edoardo Sanguineti, Ritratto del Novecento, a cura di Niva Lorenzini, San Cesario di Lecce, Manni, 2009, p. 21.

[4] Adopero qui il titolo del volume Edoardo Sanguineti e il gioco paziente della critica. Scritti dispersi (1948-1965), a cura di Gian Luca Picconi, Erminio Risso, Milano, Edizioni del Verri, 2017.

[5] I tre capitoli si trovano rispettivamente in Edoardo Sanguineti, Il Giuoco dell’Oca, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 216-217, 224-225 e 233-234. Per ragioni di praticità, d’ora in poi si farà riferimento al romanzo attraverso la sigla GdO.

[6] Manuela Manfredini, Dal labirinto al mosaico. Sulle prose di Edoardo Sanguineti poeta, «Istmi», xix-xx, 2007, pp. 87-131: 111.

[7] Per queste informazioni e per l’invio delle riproduzioni fotografiche, ringrazio la generosa disponibilità di Emma Bellavita.

[8] Magdalo Mussio, Go for your money, «Marcatrè», 19-20-21-22, 1966, pp. 94-99.

[9] Sulla rivoluzione grafica di «Marcatrè», cfr. l’intervista di Elisa Fongaro a Mag- dalo Mussio (2 dicembre 2004), disponibile all’indirizzo: http://archivio.archphoto. it/2009/03/19/speciale-marcatre_magdalo-mussio/.

[10] Eugenio Battisti, La tavolata e il fumoir, «Marcatrè», 1, 1963, p. 2.

[11] Renato Barilli, Il Gruppo 63 e le arti, in Il gruppo 63 quarant’anni dopo, Atti del Convegno di Bologna (8-11 maggio 2003), a cura di Renato Barilli, Bologna, Pendragon, 2005, pp. 119-121: 120.

[12] Elisa Sotgiu, Il Giuoco dell’oca nella trilogia di Edoardo Sanguineti, «Italianistica», 2, 2016, pp. 141-155: 148.

[13] Magdalo Mussio, Un appunto per V.F., in Arte e cinema. Per un catalogo di cinema d’artista in Italia 1965/1977, a cura di Vittorio Fagone, Venezia, Marsilio, 1977, pp. 61-63: 61

[14] Edoardo Sanguineti, Alcune ipotesi di sociologia della letteratura, in Idem, Cultura e realtà, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 179-187: 182.

[15] Edoardo Sanguineti, Per musica, a cura di Luigi Pestalozza, Modena-Milano, Mucchi-Ricordi, 1993, p. 211

Nel cervello di mia madre c’è una costellazione

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di Nona Fernández

Pubblichiamo un estratto da Voyager, dell’autrice cilena Nona Fernández, Gran vía, da oggi in libreria nella traduzione di Carlo Alberto Montalto.
→ Accompagnando la madre a un esame neurologico, Nona Fernández nota come l’attività cerebrale della donna, proiettata sul monitor di una sala d’ospedale, abbia molte somiglianze con le immagini astronomiche che siamo tutti abituati a vedere e sia simile al più complesso intrico stellare.

***

Nel monitor di una sala d’ospedale osservo l’attività cerebrale di mia madre. Lei è sdraiata su un lettino, ha la testa piena di elettrodi e gli occhi serrati. Ai vari stimoli che il medico le propone, il suo cervello mette in moto delle scariche elettriche. Una rete di centinaia di milioni di neuroni, intrecciati ad altri milioni di assoni e dendriti che si scambiano messaggi attraverso un sistema connettivo di molteplici trasmettitori, è ciò che si dà il caso io stia vedendo riprodotto sullo schermo. La complessità di quel che accade lì dentro quando mia madre inspira, espira o viene illuminata dal lieve sfarfallio di una luce che ha sopra le palpebre è indescrivibile. E se le viene proposta una semplice attività di rilassamento, come pensare a un momento felice della sua vita, ciò che avviene nel suo cervello è un vero e proprio spettacolo. Mentre mia madre rievoca un ricordo felice che non esprime a parole, un gruppo di neuroni si accende. In precedenza il medico ci aveva mostrato nel suo studio fotografie di neuroni in piena attività. Ciò che vedo sul monitor non riproduce allo stesso modo quei bagliori elettrici, eppure richiama comunque un paesaggio astrale. La fantasia di un coro di stelle che luccicano fiocamente per tranquillizzare mia madre dal suo cervello, per stabilizzare il suo nervosismo durante l’esame clinico. Una rete che, intuisco, starà mettendo insieme immagini sensoriali familiari e affettive. Odori, sapori, colori, consistenze, temperature, emozioni. Un circuito di neuroni che ricorda il più complesso intrico stellare.

Nel cervello di mia madre c’è un gruppo di stelle che formano una costellazione il cui nome è quello del ricordo affettivo che le accende.

*

L’ultima volta che ho visto una costellazione in modo piuttosto nitido è stato anni fa, a nord, lontano dal cielo inquinato di Santiago. Ho visto l’Orsa Minore, Orione con le sue Tre Marie, la Croce del Sud, che nei racconti della mia infanzia indicava la strada verso casa. Rievoco questo ricordo e penso al rito che intanto starà avvenendo nella mia testa con ogni immagine pertinente. Una notte senza luna. Il freddo del deserto di Atacama che s’infila nelle maniche del giubbotto. Un po’ di sonnolenza, di stanchezza accumulata. Un lieve dolore al collo per dover guardare il cielo a lungo. Un astronomo che indica con un laser diverse costellazioni. Mentre lo fa, spiega a un gruppo di turisti e a me che tutte le luci lontane che vediamo brillare sopra le nostre teste provengono dal passato. In base alla distanza della stella che la emette, si può parlare perfino di miliardi di anni. Riflessi di stelle forse morte o scomparse. La notizia di questa eventualità non ci è ancora giunta e ciò che vediamo è il bagliore di una vita che potrebbe essersi estinta a nostra insaputa. Fasci di luce che fissano il passato davanti al nostro sguardo, come le istantanee di famiglia che conserviamo in un album fotografico o le figure contenute nel caleidoscopio della nostra memoria.

Mentre osservavamo il firmamento a bocca aperta, nel corso di quel vero e proprio rituale paleolitico, ricordai una delirante teoria lanciata da mia madre, una volta, quando ero bambina. Mi pare sia stato nella casa di Barrancas, al porto di San Antonio, vicino al mare, anche lì le stelle si vedevano a meraviglia. Una notte d’estate, mentre seduta in cortile fumava una sigaretta, mia madre disse che lassù, nel cielo notturno, c’erano persone minuscole che cercavano di comunicare in codice con noi attraverso degli specchi. Una specie di morse luminoso che inviava riflessi a mo’ di messaggi. Non ricordo perché lo disse. Suppongo fosse la risposta improvvisata a qualche mia domanda. Ricordo bene, invece, che presi per vero che i messaggi inviati dal cielo da quelle persone minuscole servissero a salutare e dimostrare che si trovavano lassù, nonostante la distanza e l’oscurità. Ehi, siamo qui, siamo il popolo minuscolo, non dimenticateci. I loro saluti non si spegnevano mai, c’erano sempre, anche di giorno, quando non riuscivamo a vederli. Non aveva importanza se non guardavamo verso l’alto, non aveva importanza se stavamo al chiuso delle nostre case in città, avvolti dall’inquinamento, abbagliati da luci al neon e cartelli pubblicitari, indifferenti a ciò che accadeva sopra le nostre teste; i saluti di quelle persone erano e sarebbero stati lì ogni notte delle nostre vite, a illuminarci. Luci del passato stabilitesi nel nostro presente per schiarire come un faro la temibile oscurità.

Una teoria vecchia e insensata, eppure quando me ne ricordai, in quella fredda notte nel deserto, una vaga sensazione di pace s’impossessò di me. Era come una ninna nanna, come il dolce canto delle nonne che aiuta a conciliare il sonno, come il ricordo che mia madre rievoca durante l’esame clinico per cercare di tranquillizzarsi. Una segreta volontà di ritorno all’utero materno soddisfatta in quella passeggiata notturna. Lo strano presentimento di una realtà duratura, misteriosa, protettiva, che si palesava attraverso ciascuno di quegli astri che mi parlavano con la loro luce in arrivo da un altro tempo. Ehi, siamo qui, non dimenticarci.

(…)

Nel cervello di mia madre c’è un gruppo di stelle che formano una costellazione il cui nome è quello del ricordo affettivo che le accende.

Ma quale sarà questo ricordo?

Di quale pezzo del suo specchio rotto stiamo parlando?

*

Epilessia, ecco cosa provoca le disconnessioni di mia madre. Dopo questo e molti altri esami, il neurologo pronuncia la diagnosi finale. Le crisi sono scatenate da un’eccessiva attività elettrica all’interno di un circuito neuronale.

Immagino qualcosa come una fuga di energia, un corto circuito cerebrale, un black-out momentaneo, un’interruzione delle trasmissioni che dura il tempo in cui mia madre rimane priva di sensi. Poi l’attività cerebrale si riavvia e lei riprende a funzionare. È come una casa quando scatta il quadro elettrico e tutto si arresta. Radiosveglie, televisori, stereo, frigoriferi, internet, un universo in sospensione, fermo e silenzioso, finché qualcuno non alza la levetta giusta, l’allarme di casa suona, il sistema si resetta e tutto si rimette in moto. Come se l’interruzione dell’elettricità non avesse paralizzato nulla. Come se in quella parentesi spaziotemporale non fosse andato perduto alcun momento di vita. Una mano, un orecchio, se non addirittura l’ombelico.

Usciamo dallo studio del neurologo e guardo mia madre con altri occhi. Ora so che sulle spalle porta il peso del cosmo intero. Le racconto cosa ho visto sul monitor assieme al dottore. Le parlo della somiglianza del suo cervello col firmamento. Dell’attività elettrica dei suoi neuroni, della luce del suo ricordo, della costellazione che si è accesa mentre lei lo rievocava, del riflesso luminoso del suo passato. Le domando qual è la scena felice che ho visto luccicare sul monitor, lei sorride e risponde di aver ricordato il momento della mia nascita.

*

La mia prima scena è una costellazione nel cervello di mia madre.

(Ehi, siamo il popolo minuscolo.)

Il punto zero del mio passato brilla nella sua testa.

(Siamo qui, non dimenticateci.)

La Croce del Sud che mi indica la strada verso casa.

Soggettività, storicità e frin frin

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di Giorgio Mascitelli

 

La questione del valore letterario è oggettivamente un po’ complicata in quanto c’è uno scarto tra i criteri che astrattamente e teoricamente pensiamo per stabilire cosa esso sia e il giudizio di valore che diamo concretamente su singole opere e singole letture. Tale scarto è tanto più ridotto quanto più si ha un gusto pronunciato e consapevole, ma sussiste sempre perché è ineliminabile nell’esperienza di lettura (e ovviamente in quella di scrittura) un fondo psicologico e biografico, un riconoscimento di una nota nuova e significativa che entra nella propria esperienza. Così come non è possibile innamorarsi astrattamente di un’idea di fascino e bellezza, ma sono sempre il modo di disporsi di una persona nella nostra vita e anche magari contingenze a prima vista trascurabili, per esempio come la luce illuminava il suo viso quel determinato giorno o come sono risuonate in noi certe sue parole neanche particolarmente  meditate, a rendere possibile la relazione, allo stesso modo funziona quella relazione con i libri che ci porta ad attribuire un giudizio di valore. La lettura di Memoriale di Paolo Volponi per me sedicenne ha rappresentato l’introduzione alla letteratura contemporanea, a un mondo e a un modo di narrare che non conoscevo prima, nel quale certi mali senza nome venivano trattati in una maniera che finalmente li nominava e allo stesso tempo allargava inequivocabilmente la mia esperienza e conoscenza di essi. Comprensibilmente un’esperienza del genere è stata capitale per me e quindi anche la rilettura in età adulta, pur sostanziata da una diversa consapevolezza estetica, mi ha portato, al di là di quelle che sono le collocazioni critiche e storicoletterarie di quel romanzo, a riconoscerne la centralità nel mio percorso. Mi rendo conto di aver giocato facile richiamando un’età in cui tutto, dai baci al vino, ha più sapore, d’altra parte non si può dare nessun rapporto profondo con qualsiasi opera d’arte se non c’è un restare ragazzi che coesiste con l’affinamento dello sguardo che lo scorrere del tempo comporta. Ogni riconoscimento successivo di valore, per quanto fatto in maniera più scaltrita, sta in rapporto con quell’esperienza, anzi non esisterebbe nemmeno, se essa non ci fosse stata. Dico che in questo modo si riceve quell’imprinting o si stampa interiormente quell’archetipo che ci spinge a cercare non opere simili da un punto di vista letterario, ma opere che producano una simile tensione emotiva.

 

Il termine valore letterario d’altra parte rimanda a un’intenzione di oggettività che non può essere elusa, specialmente in un’epoca come questa in cui pare che tutto vada bene e non ci siano più gerarchie di gusto, cornici generali di significato e grandi linee di dibattito culturale. E’ chiaro che il valore non può essere determinato solo tramite il richiamo all’impatto psicologico, perché sarebbe una sorta di sdoganamento soggettivistico di qualsiasi esperienza di lettura, ossia l’esatto contrario di quanto indica il concetto di valore letterario. Allora, da vecchio espressionista, potrei dire che un criterio oggettivo per me è quello dello scarto alla norma, ma a parte il fatto che talvolta mi è capitato di leggere dei testi di tal genere dei quali ho pensato che avrebbero fatto meglio a non scartare, in un’epoca in cui una norma letteraria dominante non c’è, questo criterio forse perde di senso. E qui vediamo come torna in questione la storicità del valore letterario: infatti noi ereditiamo dal passato delle tradizioni di lettura di singole opere o autori sui quali per così dire si forma la nostra idea di valore letterario, ma l’epoca presente rimette in discussione quei valori ed essi si salvano solo nella misura in cui si modificano aprendosi al presente. Questo significa che il valore letterario non può prescindere da una relazione fertile con il presente colto nella sua storicità. E’ frequente che tale relazione assuma le forme di quella che è stata niccianamente chiamata inattualità.

Mi sembra che a questo livello si collochi un altro criterio che empiricamente indica il valore letterario ossia la tenuta di un testo alla rilettura. Il fatto che un testo ci appaia nella stessa dimensione di valore a una seconda lettura, nella quale fatalmente non ci possono più coinvolgere gli effetti della sorpresa, è un sintomo concreto di quella inattualità, specie se si tratta di una lettura condotta ad anni di distanza. Non si tratta soltanto di constatare quanto sono acuti e profondi nel trattare la peste Boccaccio, Manzoni o Camus adesso che c’è il Covid, ma di cogliere come gli stimoli che quel tal testo ci fornisce rinnovano ancora una volta la nostra percezione del mondo circostante.

Ciò è in definitiva possibile soltanto a quei testi che portano in sé il segno di una sensibilità individuale che ci fa cogliere una nuova sfumatura del mondo che prima non si poteva osservare. E’ questa nota che rende ancora significativa una lettura non meramente filologica ma empatica di testi ormai distanti, allorché sono tramontati i codici culturali di riferimento nella loro composizione ( e non si deve pensare a secoli, ma talvolta basta una manciata di lustri). Questa sensibilità non è mai disgiunta o meglio si esprime attraverso una qualità idiolettica del testo dovuta a un’abilità fabbrile sul linguaggio e sul taglio delle situazioni narrative. In fondo il sogno flaubertiano di scrivere un romanzo sul niente, che si regga soltanto sulla forza dello stile, racchiude il desiderio di una scrittura che per sé stessa rappresenti uno sguardo sul mondo. Ovviamente prendendo alla lettera tale desiderio si arriva a un’estremizzazione paradossale perché non esiste linguaggio fuori dalla semiosfera, ma inteso approssimativamente indica una linea di valore rispetto al frin frin che in ogni epoca qualche poetino suona sempre nel Parnasino con il chitarrino, per dirla con Carlo Porta.

Se all’epoca di Porta, tuttavia, il frin frin veniva da un certo tipo di banalità perbenista neoclassica o arcadica ed era circoscritto pertanto all’interno di quella che potremmo chiamare la battaglia delle poetiche ( e si sa che è stato così per buona parte del Novecento), oggi nel capitalismo postmoderno il frin frin ricorda piuttosto la musica di fondo che viene diffusa in ogni centro commerciale per creare la giusta atmosfera per gli acquisti. Il frin frin cessa di essere l’espressione di un gusto cattivo o banale ma caratterizzato precisamente e diventa un’assenza di gusto che include oggetti letterari eterogenei raccolti senza una linea di significato qualsiasi, ma tenuti insieme dal fatto di avere successo di mercato. Proprio qui sta l’esperienza nuova degli ultimi trenta quarant’anni rispetto al passato, perché non si tratta di formulare un’idea di valore letterario in polemica con un’altra dominante e considerata superata, ma si tratta in primo luogo di affermare l’idea dell’esistenza di un valore letterario indipendente da quello di mercato.  E’ bene precisare che questo fenomeno, che altrove mi è capitato di chiamare estetica del profitto, non riguarda tanto l’editoria e i suoi calcoli economici: nell’Ottocento l’editoria era molto più avida e molto più spregiudicata nel rapporto con i testi e con gli autori di quella attuale, eppure un’idea alta di valore letterario era diffusa. E’ nella società che si diffonde, in maniera per così dire disinteressata, il criterio di giudizio che è apprezzabile esteticamente solo ciò che riscuote l’approvazione del mercato. Tempo fa mi è capitato di vedere un critico sconfortato perché i suoi colleghi non capivano l’importanza di parlare di Elena Ferrante, che lui reputa occupare una posizione centrale nella cultura contemporanea perché è un’autrice venduta in tutto il mondo, credo che il suo sconforto fosse sincero in quanto aveva ormai interiorizzato che non si dà valore se non di mercato.

Così l’unica forma di validazione diventa quella di mercato: registrato il successo di un’opera, se ne stabilirà a posteriori il merito estetico, che coinciderà con la spiegazione delle ragioni del suo successo commerciale. Ecco l’atto di affermare oggi il concetto di valore letterario, prima ancora di stabilire quale, è sovversivo in questo paesaggio, ma non è saggio compiacersene; si tratta piuttosto di prendere atto di un’involuzione e di attraversare questi tempi con la consapevolezza della loro storicità. Strettamente connessa con questa nuova forma di validazione è la messa in crisi della figura dell’autore tramite la moltiplicazione degli scrittori e dei poeti della domenica che si presentano sui social a ritmi incessanti e sommergono chi ha fatto un percorso di serietà secondo i criteri della ormai defunta società letteraria. La rete è il teatro di questa alluvione, ma non la causa perché in essa non si fa che replicare a livello più diffuso e casereccio una tendenza delle élite professionali della comunicazione a favorire la pubblicazione di romanzi e, in misura minore, raccolte poetiche da parte di personaggi che hanno una notorietà extraletteraria a qualsiasi titolo ( attori, cantanti, giornalisti, politici, imprenditori). Infatti secondo gli esperti di marketing letterario non è importante scrivere testi interessanti, ma essere persone interessanti che destino curiosità nel pubblico. E’ insomma il trionfo della logica del testimonial che entra nella produzione editoriale, rendendo obsoleta la funzione della critica. In questo modo il valore letterario non deve essere spiegato e dibattuto come è stato nella modernità, ma coincide con il successo commerciale. Più accelera però questo processo, più è evidente che si tratta delle contorsioni di un sistema in profonda crisi, se si mantiene una prospettiva storica nel considerarlo. Certo questo tipo di sguardo ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi: tra i primi sicuramente la certezza che un giorno tutto questo sarà sepolto da una risata, tra i secondi la probabilità che, quando ciò accadrà, noi saremo un po’ morti per poterne ridere. Ma non si può avere tutto dalla vita.

( questo intervento è apparso sul numero 75 de Il Verri; l’immagine è Art art art di Natale Galli)

La bestia che ci portiamo dentro

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di Paolo Carfora

I conigli divorano spesso i propri cuccioli per potersi accoppiare nuovamente.
Capita a volte che le lontre stuprino a morte le femmine.
I delfini si drogano con il veleno del pesce palla.
Gli animali non sono migliori dell’uomo, bisogna farsene una ragione. Gli animali sono come l’uomo, ma senza i suoi mezzi.
Zannoni con questo libro (I miei stupidi intenti, Sellerio, 2021) ce lo suggerisce, ma lo fa con delicatezza.
Esiste un solo modo per raccontare l’inconscio: filtrare le regole e i dogmi che sono maturati negli ultimi cinquemila anni di storia umana e metterli da parte. Quello che resta è l’Es, ingrediente fondamentale di ogni passione. Cancellati quei traguardi, torniamo a essere le scimmie glabre che mangiavano i loro figli per sopravvivere ai rigori dell’inverno, che uccidevano, che stupravano e che cacciavano.
Poi è arrivato il mito, per dare alle genti un modello: se farai come Crono e ti nutrirai dei tuoi figli, allora prima o poi nascerà uno Zeus e ti ucciderà. Il mito è una mappa della ragione, che ci ha insegnato come fare pace con quella parte razionale del nostro cervello che diveniva sempre più prominente.
Oggi, per dare voce all’inconscio serve il contesto giusto: può essere uno scenario post apocalittico, come quello preferito da Neil Duckmann, oppure, come fa Zannoni, può essere una fiaba per adulti, con protagonisti animali veri e propri. L’importante è che le regole del vivere civile siano state scremate e messe da parte, altrimenti rovinano la ricetta.
Zannoni sceglie una faina come protagonista della storia. Come in quelle di Esopo, anche in questa fiaba la scelta della specie non è casuale, ma aiuta a caratterizzare meglio il personaggio. La volpe che le fa da maestro è astuta e crudele, il cane che serve la volpe è fedele. I porcospini sono timidi ma affettuosi, i gatti curiosi e i castori… non voglio rovinarvi la sorpresa.
Il vero protagonista di questa storia però è l’inconscio. Quel movente che la natura ha inciso a fuoco nel nostro codice genetico e che ci porta a compiere ogni genere di bruttura e di delitto, dal rubare all’accoppiarsi con la propria prole, pur di farci perpetuare la specie.
Ma è dando la risposta a una domanda fondamentale, che il libro di Zannoni risplende:
“Eravamo più felici, quando avevamo la pancia vuota ma vivevamo nel presente?”
Leggete il libro; io posso solo ricordarvi di quanto la bestia che ci portiamo dentro soffra quando abbiamo nel piatto una torta ma non possiamo mangiarla, perché sennò ingrasseremmo. Soffre anche quando un altro maschio ci porta via la nostra compagna e non possiamo ucciderlo, perché passeremmo il resto della nostra vita in carcere. Soffre quando desideriamo qualcosa, ma non possiamo prenderla con la forza dei nostri mezzi.
Esistiamo, con la pistola del futuro puntata alla tempia, minacciati dalla consapevolezza delle conseguenze dei nostri gesti.
Un vero animale vive nel presente. Non percepisce il tempo come lineare, ma come ciclico: per lui ogni giorno il mondo risorge uguale a sé stesso in un eterno frattale. Un animale non sa cosa sia la sua morte, ma conosce quella degli altri. La sua la scopre solo quando ormai è troppo tardi.
Un animale è felice fintanto che nessuno gli insegnerà che esiste un futuro che dipende dalle sue azioni e che quel futuro prima o poi arriverà. Un animale è felice come lo eravamo noi, prima che Prometeo scendesse dall’olimpo per maledirci con le sue buone ragioni. Non a caso il nome Prometo (Προμηθεύς) significa: “colui che riflette prima”.
I Miei Stupidi Intenti è un libro che sviscera questi concetti in modo elegante, con una storia avvincente. E’ un libro che ho letto in due sere e col cuore in gola, perché quando i protagonisti di una storia non hanno paura del futuro, può succedere qualunque cosa.
Buona lettura.

Nel labirinto interiore di Andrea Gentile

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di Francesco Iannone

Tramontare è il titolo del nuovo romanzo di Andrea Gentile ed è anche il nome della protagonista dello stesso, una bambina, almeno per la prima parte del racconto, e un destino universalmente inevitabile.

Siamo sempre a Masserie di Cristo, un paese, oggi diremmo un borgo, con il quale i più assidui lettori di Andrea Gentile hanno già maturato una certa familiarità (era già il paese in cui agivano i protagonisti de I vivi e i morti, sempre edito da minimum fax). Credo si possa genericamente collocare in Molise, Gentile è infatti isernino, anche se un Masserie di Cristo esiste a ridosso di Castel di Sangro, in Abbruzzo, ma in realtà sono più convinto che Masserie di Cristo sia l’ovunque o che addirittura non abbia nelle intenzioni dell’autore una sua identificata geografia. Che sia una terra del dentro, una località interiore, un labirinto interno all’umano mi pare la più credibile delle ipotesi. È ancora una volta lo spazio dove le due dimensioni, ciò che vive e ciò che non è più in vita, si sovrappongono e si con-fondono nell’indistinguibile del mondo.

Possiamo dire che Tramontare è il simbolo di se stessa, è la rappresentazione magica di ciò a cui protende la sua esistenza, e l’esistenza di ognuno alla fine della conta dei giorni. E cosa c’è alla fine? È una corsa sul cerchio. Un ritorno al punto di partenza. Il mistero, così spesso evocato nel testo, ora contemplato come presenza certa, ora disconosciuto, è ciò che avvia e disattiva il mondo, e la stessa Tramontare.

In Tramontare siamo immersi in un mistero. E che l’autore faccia esplicitamente uso di questa parola potrebbe significare che quel senso di indeterminatezza che impegna le nostre vite nella decodifica dei segreti di quel mistero, qualunque esso sia, costituisca l’ossatura del testo proprio perché costituisce l’ossatura della vita di ognuno. Potremmo perciò parlare di romanzo esistenziale, se ce ne fosse bisogno, se un romanzo o una qualsiasi opera letteraria potesse degnamente esistere ignorando la problematicità del reale.

Ma chi è Tramontare? O cos’è? Se vogliamo risolvere la questione al livello del simbolo. “Parliamo della dimensione. Parliamo del dolore”, scrive Gentile nel capitolo intitolato “Soglia”. E la soglia, se non è un limite, è lo spazio nel quale sosta chi parte e chi ritorna. E i personaggi del romanzo, dal Bambino Nitido alla Maestra, dal padre alla madre attendono qualcosa offrendosi come il nudo legno della croce. Scrive a questo proposito Gentile per mezzo di Tramontare: “Anche tu, come me non hai pelle a proteggerti? Anche tu, pur essendo nitido, sei al tramonto?” Siamo nei sotterranei dell’esistenza, nei sottoscala dove Tramontare ha pensato di custodire una pecora, ci muoviamo in quelle oscurità, è il buio la malattia di cui siamo affetti. Una malata umanità che però non annienta il desiderio di “approfondire le armonie” che convertono il seme, il “sottosuolo” a cui sembra destinata la vita di Tramontare, in germogli.

Cosa cerca Tramontare? Cosa cerca l’uomo? Potremmo dire la libertà. Arrendersi è essere liberi, si legge ad un certo punto della storia. Ma arrendersi a cosa? A chi? In fondo ci aggiriamo nel bosco come cani solitari che ringhiano al nulla, ancora Gentile. Fiutiamo le orme, immaginiamo sentieri. E il bosco è ancora uno spazio del dentro, una intricata combinazione di ciò che siamo nell’intimo. Vaghiamo per i vuoti di noi mendicando l’ultima cerimonia della parola, quella che ci consegnerà a noi stessi e ci consentirà di riconoscerci nel nostro nome.

Che Andrea Gentile sia uno degli autori più originali del nostro fiacco panorama letterario credo sia ormai indiscutibile. Ma che la sua “poetica”, perché di poetica bisognerà parlare per poterlo inquadrare, anche se qualsiasi tentativo di classificazione opererebbe in modo riduttivo e mortificante, sia ancora tutto da indagare mi sembra un dato altrettanto certo. La critica, (ma esiste una oggi una critica che sappia “secernere”, “scegliere”, volendo ancorarci all’etimologia del termine), dicevo, quindi, la critica si avvicina alla sua opera con un certo stordimento relegandola ora ad un vago meridionalismo noir, ora ad un fantasy nutrito di ingredienti folkloristici. A mio avviso entrambi i respiri, seppure potrebbero essere considerati pretesti letterari fondati, non descrivono in modo definitivo i mondi a cui vorrebbe introdurci l’autore.

E non parlo di mondi casualmente dacché i tre lavori centrali della produzione di Gentile (che vi consiglio di recuperare, inoltre, L’impero familiare delle tenebre future edito ormai qualche anno fa dal il Saggiatore) erigono, per poi demolire di volta in volta, mondi che sono sovrapposizioni di nascite e tramonti che si armonizzano e si respingono in un succedersi di conflitti e pacificazioni che replicano i turbamenti interiori ed esistenziali di ogni uomo vivo, presente a se stesso.

Tramontare si configura come un’epica del possibile, e pure dell’impossibile, dove tutto ciò che accade è anche il suo contrario, dove la realtà è una crosta che i personaggi sono chiamati ad attraversare con gli strumenti, pochi, rudimentali, che hanno a disposizione. Esistono ragioni inafferrabili, esiste l’imponderabile, esiste quel mistero che Tramontare porta inscritto negli occhi e che fa inorridire la Maestra tanto da chiederle di allontanarsi, di distogliere lo sguardo. È così irricevibile il mistero? Ne siamo così spaventati? Forse è per disabitudine, forse è perché non siamo sufficientemente allenati e allora ci difendiamo opponendo una resistenza tenace.

Il testo ha un impianto spiazzante perché concepito essenzialmente in due momenti: una prima parte, apparentemente autonoma rispetto alla seconda, racconta di una bambina ed è fitta di incontri e accadimenti. La seconda parte, invece, ci presenta una donna in età matura nel pieno groviglio delle sue paure, dei suoi pensieri. Un lungo, ragionato delirio di una donna avvinta ai suoi tormenti e alle sue solitudini. Una donna in attesa di essere appunto “riconosciuta” come d’altronde auspica l’autore già nella prima arte del romanzo. La donna è tutta protesa verso l’arrivo di un nipote che possa affrancarla dalla sua disperazione. Attende un nome, un viso, una voce amata che sappia restituirla a se stessa nell’amore.

quella rappresentata da Gentile è una malata umanità che prova a raccogliere gli scoli del proprio sangue nei catini della speranza. La Sorella, che è poi la sorella della stessa Tramontare, è il dio di Masserie di Cristo, è l’idolo ai piedi del quale si prega per la salvezza, personale e del mondo. La libertà, sembra volerci suggerire Gentile, che è la somma aspirazione dell’uomo, si avvera, ragionevolmente, in un legame, è il recinto santo dentro cui l’uomo cuce i suoi respiri facendone preghiere.

La narrazione di Gentile procede poeticamente, per accostamenti, isterie emotive, immagini che di volta in volta attraversano gli strati per giungere al bianco ancoraggio delle ossa, altro elemento di ritorno nel testo. Il tempo del romanzo consegna al lettore armonie remote, dimenticate, e che la giovane, e poi adulta, Tramontare, richiama nel testo con i suoi gridi timidi, le sue piccole implosioni intime. Con la sua volontà di scavo, tenterà infatti di scavare in classe un cunicolo, ci ricorda che l’unica attività che riscatta la dignità dell’umano è l’offerta di sé agli abissi, ai vuoti dei propri baratri. Gentile ci consegna così un’opera che riavvia in noi un lavoro a cui la letteratura sembra volerci disabituare. E questo è il suo più grande merito.

Mots-clés__Latte

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Latte
di Enrica Maria Ferrara

Björk, Mouth’s Cradle -> play

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Da Toni Morrison, Amatissima, trad. Giuseppe Natale, Roma, Frassinelli, pp. 84-85.

«Ha visto tutto?»
«Ha visto tutto.»
«Te l’ha detto lui?»
«Me l’hai detto tu.»
«Come sarebbe a dire?»
«Il giorno che sono arrivato qui. Mi hai detto che ti hanno rubato il latte. Prima non sapevo che cos’era che l’aveva sconvolto. È stato quello, credo. Sapevo solo che c’era qualcosa che l’aveva fatto a pezzi. In tutti quegli anni, i sabati, le domeniche e gli straordinari la notte non l’hanno mai nemmeno sfiorato. Ma quello che ha visto in quel granaio, quel giorno, l’ha fatto a pezzi come un fuscello.»
«Ha visto?» Sethe si stringeva saldamente i gomiti, quasi a impedire che volassero via.
«Ha visto. Deve aver visto.»
«Ha visto quello che mi facevano quei ragazzi e li ha lasciati ancora respirare? Ha visto? Ha visto? Ha visto?»
«Ehi! Ehi! Senti un po’! Ti dico una cosa, maledizione. Un uomo non è un’accetta. E taglia, e sgobba e spacca ogni minuto della giornata. Maledizione! Certe cose lo toccano. Certe cose che non può buttar giù come una pianta perché ce le ha dentro.»
Sethe passeggiava avanti e indietro alla luce della lampada, su e giù, su e giù. «Il contatto clandestino ci disse che era per la domenica. Mi hanno preso il latte, lui ha visto e non è sceso giù? È arrivata la domenica e lui niente. È arrivato il lunedì, e ancora niente. Ho pensato che fosse morto, ecco cosa. Poi ho pensato: L’hanno preso, ecco cosa. Poi ho pensato: No, non può essere morto, se no lo saprei. E poi vieni qui tu, dopo tutto questo tempo, e non mi dici che è morto, perché non lo sai nemmeno tu, così ho pensato: Be’, forse s’è solo trovato una vita migliore. Perché se era qui vicino, se non voleva vedere me, almeno veniva a trovare Baby Suggs. Ma che aveva visto non l’avevo mai saputo.»
«Che importanza ha, adesso?»
«Se è ancora vivo, e se ha visto quello che è successo, qua dentro non metterà piede. Non Halle.»
«L’ha fatto a pezzi, Sethe.» Paul D alzò lo sguardo verso di lei e sospirò. «Forse posso anche dirti tutto. L’ultima volta che l’ho visto, stava seduto vicino alla zangola. Aveva la faccia tutta imbrattata di burro.»
Non successe nulla e Sethe ne fu lieta. Di solito, dopo aver sentito qualcosa, riusciva subito a raffigurarsi la scena. Però ora non riusciva a raffigurarsi quello che le aveva detto Paul D. Non le veniva in mente nulla. Facendo attenzione, molta attenzione, passò a una domanda più ragionevole.
«Che cosa ha detto?»
«Niente.»
«Non una parola?»
«Non una parola.»
«Gli hai parlato? Non gli hai detto niente? Gli avrai pur detto qualcosa!»
«Non potevo, Sethe… è che… non potevo proprio.»
«Perché?»
«Avevo il morso in bocca.»
Sethe aprì la porta d’ingresso e si sedette sui gradini della veranda. Il giorno era diventato azzurro senza che spuntasse il sole, però lei riusciva ancora a distinguere i neri profili degli alberi, nel prato più in là. Scuoteva il capo, rassegnata a quella mente ribelle. Perché la sua mente non rifiutava nulla? Nessun tormento, nessun dispiacere, nessuna immagine troppo odiosa, troppo ripugnante per poterla accettare? Come un ragazzo vorace, ingoiava tutto. Perché almeno una volta non poteva dire: No, grazie; ho appena mangiato e un altro boccone non mi va giù? Maledizione! Sono già sazia di due ragazzi coi denti muschiati, uno che mi succhia al seno e l’altro che mi tiene ferma, e il maestro tanto istruito che se ne sta lì a guardare e scrive tutto. Sono ancora sazia di quello, maledizione, non posso tornare indietro e metterci altro. Metterci mio marito che se ne sta a guardare sopra di me, nel fienile – nascosto lì vicino – l’unico posto dove pensava che nessuno l’avrebbe cercato, a guardare da sopra quello che io non riuscivo a guardare proprio. E senza fermarli – guardandoli e lasciandoli fare. Ma il mio cervello vorace dice: Oh, sì, grazie, ne voglio ancora un po’ – così ce ne metto ancora un po’. E appena comincio, non c’è più fine. C’è anche mio marito accovacciato vicino alla zangola, che si imbratta tutta la faccia col burro e col latte cagliato, perché non riesce a togliersi dalla testa il latte che m’hanno preso. E, per quanto lo riguarda, lo possono anche sapere tutti. E se era già così a pezzi allora, adesso sarà certamente morto. E se Paul D l’ha visto e non ha potuto salvarlo, non ha potuto consolarlo perché aveva il morso di ferro in bocca, allora c’è ancora dell’altro che Paul D mi può raccontare e che il mio cervello vuole accettare subito, senza problemi, senza mai dire no, grazie, non voglio sapere, non voglio ricordare. Ho altre cose da fare: per esempio, preoccuparmi per domani, per Denver, per Beloved, per la vecchiaia e le malattie, per non parlare dell’amore.
Ma al suo cervello il futuro non interessava. Carico del passato, desideroso d’altro ancora, non le lasciava spazio per immaginare, tanto meno per fare progetti per il domani. Esattamente come quel pomeriggio, tra le cipolle selvatiche – quando un altro passo era tutto quello che riusciva a vedere del futuro. Gli altri impazzivano. Perché lei no? La mente degli altri si fermava, tornava indietro e passava a qualcosa di nuovo, ed era quanto doveva essere successo a Halle. E come sarebbe stato dolce: loro due di nuovo presso la latteria, accovacciati vicino alla zangola, a spiaccicarsi in faccia il burro fresco, granuloso, senza più la minima preoccupazione al mondo. Sentirlo viscido, appiccicoso – strofinarselo tra i capelli, osservare come gli scivolava tra le dita mentre lo strizzavano. Che sollievo, smetterla subito lì. Chiuso. Finito. Strizzare il burro. Però i suoi tre bambini erano in viaggio per l’Ohio sotto una coperta, intenti a succhiare zucchero, nessun gioco col burro avrebbe potuto cambiare le cose.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Enigmi a Busto Arsizio

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di Riccardo Ferrazzi (cappello di Marino Magliani)

In questo romanzo (“Il Caravaggio scomparso. Intrigo a Busto Arsizio”, Golem edizioni, 2021) l’unica autopsia possibile occorrerebbe farla alle rughe del Caravaggio, forse ritrovato. Ma lo è? Si tratta di un giallo dove a condurre l’indagine è un giornalista, ironico e scanzonato, e ci si muove tra fabbriche e industriali, anzi, tra industriali, anche in questo caso, scomparsi… Riccardo Ferrazzi è un traduttore, ha scritto saggi su Napoleone da giovane e sui miti, ed è un affabulatore. Di solito spazia tra mesetas e i quartieri di Madrid, dove ha vissuto a lungo. Oppure a Vienna e Coblenza, ma prima o poi le sue trame si spostano dalle parti del milanese e dimostra di conoscerlo bene, in tutte le sue rughe. Qui di seguito un passo.
M. M.

Per chi non è pratico della zona, sarà meglio chiarirlo subito: Busto Arsizio dista da Milano venti chilometri oppure duemila. Dipende dai punti di vista. In autostrada sono venti, in tutto il resto sono di più. Il fatto è che a Milano vive un milione e mezzo di persone, e ogni giorno ne vanno e vengono almeno altrettante, invece a Busto siamo ottantamila in tutto e siamo sempre quelli. Ma soprattutto a Milano si compera, si vende, si intermedia, si pubblicizza; invece a Busto si fabbrica. La differenza è tutta qui perché chi vende deve ruotare lo sguardo a 360 gradi; invece chi fabbrica deve stare concentrato sul prodotto, e così non vede quel che gli succede intorno. In compenso, dove si fabbrica succedono cose che altrove manco se le sognano. A Busto Arsizio sessantamila bustocchi originari (o integrati da precedenti migrazioni) convivono con ventimila siciliani, tutti oriundi di Gela (ridente cittadina in provincia di Caltanissetta). In un altro posto sarebbe scoppiata la guerra civile, a Busto no. Finché hanno madre e padre da riverire, i gelesi fanno i bustocchi in fabbrica e i siculi in casa. Quando poi si affrancano dalla famiglia, si assimilano fin quasi a confondersi con gli indigeni. Dev’essere colpa (o merito) dell’aria, quest’aria nebbiosa e pesante dell’Alto Milanese, che incombe sul cranio di tutti noi figli di Eva e ci costringe a tenere gli occhi bassi. Anche chi ha memoria di cieli azzurri e siepi di ficodindia quando timbra il cartellino da queste parti diventa un nibelungo.

Con Mick Navarra, gelese a metà, non ero mai stato amico nel vero senso della parola. Avevamo fatto le medie e il liceo assieme ma non nella stessa classe. Lui aveva un anno meno di me e parecchi milioni in più. Niente di male: fino ai quindici anni certe differenze si sentono poco. Si gioca al pallone, si fa il filo alle ragazzine, i contrasti si aggiustano con la personalità o a cazzotti. È quando cominci a intravedere l’età della patente che scatta il meccanismo perverso: tu ce l’hai la macchina? E che macchina è? Mick aveva in mente la Porsche e Salvatore gliela comprò: da buon siculo era sensibilissimo al fascino degli status symbol. Ma anche chi nasce con la camicia ha i suoi guai e Mick dovette fare i conti con i condizionamenti psicologici: anche se papà ti scuce la paghetta in dosi omeopatiche, tutti sanno che un giorno i milioni saranno tuoi ed è meglio esserti amico che nemico. Siccome prima o poi te ne rendi conto, cominci a pensare che 24 25 la gente non ti sorride perché sei simpatico ma perché vuole qualcosa da te. E diventi un sospettoso stronzo col quale non c’è verso di entrare in confidenza. Mick era così. Potevi incontrarlo al bar Haiti all’ora dell’aperitivo e tra un crodino e un camparisoda potevi chiacchierare da pari a pari sulle prospettive di classifica della Pro Patria. Magari ti raccontava anche una barzelletta. Ma appena usciti dal bar tornavi a essere un perfetto estraneo.

Comunque, per Navarrone e Navarrino i rapporti sociali erano il minore dei problemi. Narra infatti la leggenda che, dopo aver lasciato Gela in giovane età, Salvatore Navarra approdò a Busto con la classica valigia di cartone legata con lo spago e le idee confuse: suonava i campanelli delle fabbriche, il portinaio si affacciava, lui chiedeva in tono altero di parlare col padrone, il portinaio gli domandava paternamente: «Cosa sai fare?». Lui alzava il mento e rispondeva: «Tutto!». Con queste credenziali non lo assumeva nessuno. E lui girò per aziende meccaniche, chimiche e della plastica, ma anche per tipografie e salumifici, prima di bussare alla porta giusta: una tintoria di filati che aveva bisogno di un apprendista. Lì cominciò il suo cursus honorum. La tintoria era piccola, quasi artigianale, e lui fungeva più che altro da uomo di fatica quando c’erano da consegnare o ritirare i subbi, gli enormi rocchetti sui quali si avvolge il filo, tinto o da tingere; ma in questo modo Salvatore poté ficcare il naso dappertutto: filature, torciture, amiderie, tessiture e stamperie, tanto che riuscì a farsi un’idea dell’intero ciclo del cotone, dal batuffolo colto sulla pianta in Georgia o in Mississippi fino ai vestiti griffati esposti nelle vetrine di via Montenapoleone. Se ne venne fuori con l’idea di un marchingegno da applicare ai telai per renderli più versatili e migliorare la produttività. Fu il primo dei suoi successi: tutte le tessiture lo adottarono. Quando le richieste cominciarono ad arrivare anche dall’estero, Salvatore vendette il brevetto e si dedicò a svilupparne altri. Verso la fine degli anni ’80, quando la crisi del tessile aveva già mandato in rovina i cotonifici e i colossi delle fibre sintetiche, lui calzava scarpe Church, ordinava le camicie in Savile Row e collezionava le cravatte di tutti i reggimenti inglesi. Suscitando commenti di ogni genere, aveva sposato la Teresa Barlocco, procace sciampista di chiara fama nelle discoteche dove la gioventù bustocca praticava la 26 27 caccia grossa. Ma a Salvatore la fama della Teresa non faceva né caldo né freddo: ormai aveva capito che a Busto Arsizio l’uomo d’onore è colui che paga le cambiali prima che vadano in protesto, dopodiché quel che succede a letto o sui sedili reclinabili di un’automobile sono soltanto fatti suoi. Salvatore pensò che gli occorreva una donna per il riposo del guerriero e, mentre gli altri puntavano alla camporella spensierata, lui propose il matrimonio. La Teresa fece i suoi conti e decise che le conveniva. In qualità di guerriero, Salvatore si riposò abbastanza per mettere al mondo due figli. Ma fra un riposo e l’altro seguitò a inventare congegni e meccanismi, tanto che in una ventina d’anni la sua “fabbrichetta” arrivò a contare una cinquantina di dipendenti. L’industria tessile era in crisi, invece la meccanica aveva un gran bisogno di brevetti. Salvatore era l’uomo adatto e passò di successo in successo. Ormai, oltre ad abitare in un attico, era proprietario di un discreto numero di appartamenti in giro per la città, possedeva il dieci per cento de “La Subalpina” (che a Busto vende come il Corriere della Sera, o quasi) e una quota del circolo del golf, dove si faceva vedere ogni tanto, solo per incontrare al bar gli altri industriali. Aveva fatto anche l’abbonamento alle partite casalinghe della Pro Patria e, con esiti esilaranti, si azzardava a pronunciare poche brevi frasi in dialetto. I guai cominciarono quando Mick finì gli studi laureandosi in qualche cosa. Salvatore Navarra, il geniale inventore, come padre era un disastro: non concepiva l’idea che il suo erede potesse desiderare, per esempio, di fare il medico o l’avvocato. Mick doveva entrare in fabbrica, punto e basta. Doveva entrarci da figlio del padrone, ma guai a lui se si fosse permesso di spostare un chiodo! Aveva studiato, sì, ma cosa sapeva? Niente! Era un bamboccio, uno sprovveduto, un babbeo. Aveva tutto da imparare. Doveva guardare e tacere. Come per il delfino di Francia, si sarebbe visto chi era solo dopo che il padre fosse sceso nella tomba. E così Mick si ritrovò piazzato in un ufficio dal quale avrebbe dovuto vedere tutto e imparare tutto; ma non era responsabile di niente, neanche dell’archivio, e l’unica iniziativa che poteva prendere era andare a bere il caffè alla macchinetta. Voi direte che da qualche parte bisogna pure cominciare e uno che ha la Porsche in garage ha poco da lamentarsi. Ma Salvatore sembrava che facesse apposta a trattare suo figlio come l’ultimo dei cretini. Ogni volta che lo incrociava in giro negli uffici lo assaliva rimproverandogli errori e omissioni (soprattutto omissioni, dato che per sbagliare bisogna pur avere qualcosa da fare) e non si tratteneva dal chiamarlo fesso, pirla e coglione, facendosi sentire fino in Perù.

REQUIEM

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Foto segnaletica di Osip Mandel’štam [1938]
Foto segnaletica di Osip Mandel’štam scattata dall’NKVD dopo il suo arresto [1938]

di Luca Vidotto

[ Ho mescolato realtà e finzione. Non ho potuto fare altro. Credete davvero che la realtà sia un oggetto che non si può scalfire, un mero insieme di fatti dimostrabili, un che di visibile? Tutt’altro. È un gioco di specchi dai mille riflessi. Un intreccio di eventi compenetrato e permeato dal mistero. Un che di poroso, inestirpabile dai suoi vuoti. E di quei vuoti vive la scrittura, la sola capace di dare corpo all’invisibile, di far emergere nell’immaginazione le verità nascoste tra le macerie della storia, senza scadere nella menzogna. ]

Irina e Clarence capirono dal mio viso che era l’ora di andarsene. Una smorfia cupa iniziò a divorare la luce dai miei occhi. In tanti anni non gli era mai capitato di vedermi così… Si alzarono loro da tavola per primi. Li capisco. Ci siamo salutati sulla soglia amabilmente, ma con un’appena accennata e impacciata fretta di lasciarci. Zoppichiamo sempre nell’imbarazzo.
Immediatamente ho chiuso la porta dietro alle loro spalle, e ho raggiunto lo scrittoio. Mi sono fermata un attimo, senza far nulla, i gomiti inchiodati al tavolo, i pugni stretti contro le guance. Sai, ora tengo la tua foto qua sulla destra, poggiata all’intonaco sgretolato del muro. Mi era arrivata tanti anni fa. Ci sei tu, di profilo e di fronte. È la foto segnaletica del ’38, quella dove hai uno sguardo beffardo, dove ridi dei tuoi carnefici. Avevi ragione, amore, quel tuo sorriso aveva ragione: dal cielo si vede la terra ma non ci si infanga in essa. E tu, tu, il più crudele degli innocenti, hai sempre abitato le vette più alte col tuo sguardo di poeta. Oggi, una miriade di immagini e di voci si rincorrono nella mia testa, e tutte mi riportano a te. Lo sai, sono sola, ormai. Ho vissuto. Ho vissuto, devo dirlo. Però mi manchi. Ho camminato di soglia in soglia , e adesso ho di fronte a me le porte della vecchiaia, e già intravedo, poco più avanti, quelle della morte. Mi sarà dolce il morire. Con fraterna delicatezza, finalmente, si riavvicineranno i palmi delle nostre mani, e i nostri sguardi. La luce più pura ci avvolgerà. Chissà però cosa accadrà davvero. Come latte e miele questi pensieri addolciscono la mia anima, per poi lasciarmi atterrita e sgomenta. Perché? Perché quest’angoscia? No, non posso averti perso. No. Impossibile.
Mentre guardo la tua foto dietro al fragile velo di vetro che la ricopre, vedo sui tuoi occhi il riflesso dei miei. Ti sarei piaciuta, sai? Saresti rimasto incantato nel vedere i solchi che il tempo ha iniziato a scavare sulla mia pelle. Ti saresti commosso di fronte a tanta verità, scolpita da una mano paziente sulla granitica bellezza di me ragazza.

E sono sicura che anche tu l’avrai vista, un giorno, quella faccia sfigurata divorare il tuo volto, che ne so, magari specchiandoti in una lamiera della baracca, o fissando la tua immagine capovolta nell’incavo della scodella di latta su cui mangiavi quel rancio putrido, che avaramente ti concedevano. Anche tu l’hai vista, sì, anche tu, né giovane né vecchio, legato com’eri al dannato destino che vi ha portati via tutti, strappandovi dal terreno di una vita che era poi il vostro inferno .
Oh, l’Inferno! Lo avevi sempre con te, non è vero? Sempre. Mi ricordo ancora quando me lo recitavi a memoria. Ricordo la melodia del tuo canto, e la voce della tua lira, Orfeo mio. Quanto lo amavi il tuo Dante! Eppure non l’hai mica capito che la discesa agli inferi andava fatta all’inizio, e non alla fine del viaggio! Hai potuto, tu, riveder le stelle? O ogni nuovo mattino che si affacciava sul tuo volto non faceva che aggiungere all’oscurità altra oscurità, e al silenzio altro silenzio?
Vorrei sentirla ancora quella tua bella voce, amore. Ricordi i miei occhi, quando t’ascoltavo? Quelle mani luride, vermicolari, hanno cercato di strapparla via dalla tua gola, di soffocarla. Illusi! Come si può pensare che una voce non sia nient’altro che una voce? E un corpo nient’altro che un corpo? Illusi, loro e il loro venerato montanaro del Cremlino. Avevi scagliato dardi velenosi con la tua lira, tesoro. Imperdonabile. Ma la tua poesia – mentre bruciavano i tuoi fogli e le tue parole nel cuore del loro odio infuocato – si librava leggera nell’aria, salendo al cielo assieme al calore e al fumo, bianco e candido come la tua anima. La poesia non è una merce fra le altre, è un sogno che eternamente viene sognato, un fuoco che mai si consuma. Il suo regno è l’invisibile . Non ti hanno cancellato, amore, non sono riusciti a farlo. Non hanno potuto soffocare la tua voce così come non avevano potuto sottrarci il moto delle labbra nelle lunghe e angosciate ore che passavamo tutti assieme, a casa di Anna, o chiusi nelle nostre povere stanze. La poesia in quegli anni imparò a diventare sempre più leggera, ricordi?, un canto del vento che passava senza lasciar traccia, vorticando nell’animo con delicatezza. La scrittura non lasciava segni, e le parole erano invisibili agli occhi.
Oh, i tuoi occhi, luce mia! Quante lacrime devono aver visto, inerti, quante mani strette sulle teste nude , quanti piedi poggiati sul ciglio dell’addio. Alla fine non abbiamo imparato niente, sai? Il mondo è sempre meno sensuale. Anche dopo tanti anni continua a essere inospitale. Abbiamo disimparato a conoscerci, ad amarci. Sai, è un refrigerio per la mia anima barricarmi nel passato, e rifugiarmi in quel noi che era tutto nostro. Quanti i momenti passati assieme a rovistare in ogni anfratto della memoria per cavar fuori le parole dei tuoi versi lì sepolte, per strappare all’oblio il suo fiore più caro! Ho nostalgia di quella povera gioia. È durata troppo poco, e la sua luce si affievolisce, divorata dal deserto del tempo. Le ho dimenticate ormai le tue poesie .
Ho passato questi ultimi trent’anni a rammemorare e conservare ogni tua parola, ad ascoltare il suono della vibrazione che la tua voce creava sfiorando le corde della mia anima, e della mia fragile memoria. Per anni, giorno dopo giorno, ho scritto con le mie mani i tuoi versi. Per ore e ore. Ti sentivo vicino, ed ero felice. Ma ora, che ne sarà di me? Ho portato nel mio grembo quei frammenti dolenti, ne ho avuto cura, li ho scolpiti nel mio cuore, mi sono affannata a nascondere tutto ciò che scrivevo, davo dei fogli ad Anna e ad altri fidati amici, e altri li nascondevo in casa. A che è servito? Tutto va in rovina.
Sento con angoscia anche la tua assenza sfumare via. Voglio morire, Osip! e riaverti! Non so se sopporterò ancora questa mia vita lacerata, questa mia condanna. Ho riempito migliaia di pagine con le tue poesie, ma ora che la mia memoria vacilla, che inizio a dimenticarti, che ne sarà di te? Se la tua voce diventerà un muto sussurrare ai sordi, i tuoi libri bruceranno, bruceranno ancora. E poi? Più nulla. Nessuno, il tuo nome. Ti ricordi quei versi che adoravi di Paul? Te li ricordi? Forse li avevi anche tradotti, ascolta: noi ci amiamo come papavero e memoria… come il mare nel raggio sanguigno della luna
Ti amo, amore mio. Ma il deserto dell’oblio avanza, senza tregua. Spero davvero che altri cuori, un giorno, sapranno accogliere la tua voce, perché solo nell’amore saremo salvi. Non ho vissuto che per questo, angelo mio. Non ho vissuto che per questo. Fin dal giorno in cui ricevetti quel pacco infame. Lo ricordo come fosse ieri. L’inverno era crudele quell’anno, come crudele fu la scritta a causa della morte del destinatario, incisa sul pacco che mi rispedirono indietro da Vladivostok, all’improvviso . Talvolta ripenso alle tue ultime ore di vita. Al tuo corpo di dolore, abbandonato nello spazio angusto in cui soffocavano i tavolacci in cui dormivate. E al gelo che ricopriva la terra grassa e nera, e che ghiacciava lo sputo quand’era ancora in volo. Ripenso al terreno che non decide a fendersi, nemmeno sotto lo sforzo disumano dei picconi legati alle vostre mani. Abbiamo le fotografie ormai, vi possiamo vedere, anche se con un ritardo fatale, e una colpevole distanza. E vedere uno di voi è vedervi tutti. Eravate poco più che miseri scheletri, con le ossa appuntite tenute assieme soltanto da un velo fragile di pelle, in quella terra dimenticata.
Non hai avuto le stelle a incorniciare le tue ultime ore, vero?, ma un solo pallido sole che sbavava tutt’intorno la sua atroce luce di plastica, e un nugolo di mosche che gli ronzavano vicino, affamate, che attendevano con perversa pazienza il putrefarsi delle vostre carni. Ti vedo lì, agonizzante, la testa diventata una scatola vuota, incapace ormai di far risuonare alcun canto. La tua lira ammutolita da tempo, schiacciata dalla pesantezza del tuo esile corpo. La tua voce nient’altro che un flebile alito. Le mani pallide, gonfiate dalla fame, con le unghie lunghe e sporche. Ti immagino così. Perduto. Amore mio, quanto dolore hai dovuto patire? Sento, nel silenzio della baracca, i palpiti del tuo cuore battere sempre più stancamente il loro ritmo. Sento ogni tuo sospiro, che sembra sempre essere l’ultimo. E – in un attimo – un gelido silenzio .
Addio, mi avrai forse detto, piangendo, con gli occhi prosciugati e le labbra serrate. E a me cos’è rimasto di te, amore? Cosa rimarrà ora che ho iniziato a raschiare il fondo dei ricordi? Questa lettera, forse, che giace qui, sul piano del mio scrittoio crepato, andato in malora, come tutto.

Mia cara bambina,
non c’è quasi nessuna speranza che questa lettera ti arrivi. Prego Dio che tu possa sentire quel che sto per dirti: bimba mia, senza di te non posso né voglio vivere, tu sei tutta la mia gioia, tu sei la mia tutta mia, per me è chiaro come la luce del giorno. Mi sei diventata così vicina che parlo tutto il tempo con te, ti chiamo, mi lamento con te
.

Mi è arrivata con la tua fotografia, anonimamente, quando già te n’eri andato. Ho capito, amore. Ho capito. Quel silenzio, in cui mi hai lasciata, non era muto. Non tutto ciò che muore, muore davvero. Questo ho capito. Ogni cosa che splende racchiude in un frammento l’eternità. E in quel frammento, gettato fra le colonne del tempo, ha vibrato il nostro ti amo.
Ogni notte le mie labbra carezzano il tuo nome, Osip. E ogni notte lotto contro l’oblio, perché non divori anche questa bocca, e questa mia preghiera . Ti prego, non perdermi. Ti prego. Non abbandonarmi.
Ricordi il tuo sorriso quando ti dissi che il mio nome, Nadežda, significa speranza ?


*LUCA VIDOTTO Sono un ingegnere che, per fortuna, ha fallito, e dal mondo dei numeri si è immerso in quello delle parole. Dalle formule alle storie. Nella laguna veneziana – più un luogo dell’anima che geografico – ho studiato filosofia e ho imparato ad ascoltare le parole degli altri. Alla Scuola Holden ho imparato a dare forma alle mie.