Home Blog Pagina 79

Uno tra i due

1

Doppia lettura degli ultimi romanzi di Piperno e Castellitto

 di Valerio Paolo Mosco

Due libri italiani che vanno letti insieme. Il primo è l’ultimo di Piperno, Di chi è la colpa. Un racconto scontato, scritto benissimo. Scontato è il soggetto: il solito romanzo di formazione ebraico così come ce lo ha magistralmente già propinato Philip Roth e lo ha messo più volte sullo schermo fino alla noia Woody Allen. Scontata anche la sottile causticità con cui l’autore descrive i personaggi che si muovono come in preda al loro stesso ruolo. I cliché sono bilanciati da una scrittura affidata ad un italiano compatto e scorrevole, cosparso di aggettivi smerigliati. Si sa, Piperno sa scrivere, ma saper scrivere non basta. Inoltre il suo saper scrivere è dedicato unicamente a persone misere, che vivono di sottili e costanti disturbi derivanti da cose o persone ancor più misere di loro e in tutto ciò, come il narratore, si crogiolano. Dietro la miseria il nulla: ex nihilo nihil fit e infatti questo è il risultato. D’altronde pagine e pagine di niente le ha potute scrivere solo Proust e le ha potute scrivere perché riusciva a mettere anche nelle pagine più sordide quella grazia che prelude alla compassione.

Di tutt’altra pasta l’ultimo libro dell’esordiente Pietro Castellitto. Un romanzo funambolico, pimpante e in alcuni momenti urticante. Castellitto ci racconta la storia di un gruppo di amici ricchi, annoiati, privi di valori se non la ricerca di un edonismo sempre e comunque sopra le righe. Una lost generation di questi giorni, anche se il tenore di vita a cui il gruppo di amici è abituato di certo non è facile da trovare. Sembrerebbe che anche in questo caso abbiamo a che fare con lo scontato, con il cliché. Invece no. Il dispositivo che Castellitto mette in atto per raccontare i suoi edonisti radicali è filosofico. Già dal titolo del libro lo capiamo: Gli iperborei. Nietzsche, con quelle sue poetiche immagini di pensiero, ci dice che coloro i quali sapranno porsi al di là del bene e del male entreranno in una nuova dimensione capace di sconvolgere la logica che passerà dalle deduzioni ad uno stato di continua inferenza con la realtà. Un vivere alla giornata denso, privo di qualunque pensiero che trascende, privo di fede e di metafisica, è questo l’eden degli Iperborei. Una dimensione, per Nietzsche, liberatoria, eroica e sublime. E iperborei sono l’io narrante del libro ed i suoi amici, ma iperborei ben diversi da quelli auspicati da Nietzsche. Gli amici straricchi e iperrealisti di Castellitto non sono affatto dei liberati, anzi vivono in una condizione talmente disperata da trascendere la disperazione stessa. Sono essi tristi? Non sembrerebbe. Sono nostalgici di un mondo deduttivo di valori? Per nulla. Sono solo innamorati del loro stile di vita, della vita così come gli si presenta. Degli indifferenti alla Moravia aggiornati all’epoca degli eventi, degli i-phone, del buon cibo e del buon vino e della musica già preselezionata dai programmi digitali. Degli indifferenti che vivono di passioni, non di sentimenti. Castellitto nel suo racconto confuta le tesi di Nietzsche e lo fa con maestria. La sua è un’operetta morale raccontata attraverso un romanzo picaresco, scritto con baldanza futurista e con una tecnica che rivediamo in molti scrittori contemporanei: quella del libro sceneggiatura. Una sceneggiatura però cha varia a seconda delle situazioni, che passa con disinibizione dal fracasso all’inquietante introspezione dell’io narrante, un certo Poldo, un personaggio che ci diventa familiare anche se probabilmente non abbiamo nulla a che spartire con lui.

Confrontando il romanzo di Castellitto a quello di Piperno scegliamo decisi quello di Castellitto. A Piperno l’onore delle armi di una magnifica scrittura che rimane comunque fine a sé stessa. Ci si chiede allora come si possa uscire dalla palude anni ’90 di una scrittura fine a sé stessa che abbiamo per non poche pagine sopportato in Piperno? Castellitto, come anche Houellebecq e Carrere e come in Italia Sandro Bonvissuto, sembrano averlo compreso: un romanzo, o un qualunque racconto, deve porsi quasi a priori, un quesito morale o filosofico. Per emendarsi oggi dalla inutilità o peggio dalla dimenticabilità deve avere il coraggio di investire l’immutabile dell’uomo, ovvero quel suo non risolto che ci accomuna a qualunque generazione passata o che verrà. In altre parole deve essere la testimonianza, diretta o indiretta, di una riflessione alta, collettiva, capace di porsi di fronte ai grandi quesiti spirituali di un’epoca i cui effetti sono sotto i nostri occhi quotidianamente, ma di cui ci sfuggono proprio quelle cause di cui si occupano religione e filosofia. Ci si chiede allora se questa riscoperta dell’immutabile e dell’inevitabile non sia il primo passo verso la chiusura della ormai lunga stagione postmoderna in cui per troppo tempo gli accidenti sono prevalsi sulle sostanze.

 

 

Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica

15

Di Andrea Inglese

 

Forma e struttura della tecnologia seguono gli imperativi del rapporto sociale, e non l’inverso. Per questo persino gli apparecchi sono geneticamente penetrati dalla forma sociale.

Robert Kurz

L’universo del design industriale gravita in massima parte intorno al tema sensibile del servizio reso al fabbisogno di competenza necessario agli utenti strutturalmente incompetenti. Sotto questo profilo un utente è sempre un idiota che vorrebbe comprare sovranità.

Peter Sloterdijk

È diventato chiaro a tutti il “valore” dei dati, inteso come un sistema di informazioni al quale attingere per analizzare il presente, prevedere il futuro, cercare di conoscere meglio le condizioni di vita di ciascuno e di tutti.

Franco Pizzetti

 

Una minoranza di persone, in paesi come l’Italia e la Francia, ha denunciato una dittatura sanitaria, che avrebbe permesso una sorta di esperimento medico-scientifico di massa, e questo sarebbe avvenuto grazie all’apporto dei media, che si sono fatti propagandisti del governo, per manipolare la maggioranza del paese. Trovo tale lettura dei fatti non condivisibile su alcuni punti importanti, ma essa invita a riflettere su di un fatto indubitabile: da anni è in atto un esperimento di massa da parte di soggetti privati e pubblici, ma è di natura biometrica e politica, ed esso non avviene attraverso la propaganda frontale delle TV e della carta stampata, ma insidiosamente, attraverso il flusso informale d’informazioni che passa per i nostri social network. Di questo esperimento, poi, non siamo solo le vittime, ma i collaboratori premurosi e iperattivi, nutrendo dei nostri dati algoritmi dalla dubbia efficacia e aziende monopoliste, dedite alle molteplici pratiche illegali.

 

  1. Smartphone e tabù

Questo intervento ha poco da spartire con tutto ciò che, all’insegna di un fantomatico Umanesimo 2.0, dovrebbe decantare il felice sposalizio tra cultura umanistica e mondo digitale. D’altra parte, non è più un tema di moda da diversi anni, dal momento che la preoccupazione di tutti oggi è come continuare a servirsi sempre più diffusamente delle piattaforme informatiche, senza rimanerne schiacciati in un modo o nell’altro. È anche vero che una minoranza battagliera ha denunciato, in reazione alla gestione statale della pandemia nel nostro o in altri paesi, una svolta autoritaria, ovvero la perdita delle libertà individuali e l’instaurazione di una nuova forma di dittatura. Credo che queste persone, indipendentemente dalle loro motivazioni personali o appartenenze ideologiche, abbiano fissato con veemenza il dito, distogliendosi dalla luna. Quanto agli altri, cioè a noi tutti, la luna delle tecnologie elettroniche la guardiamo ancora con occhi acquosi e commossi, come figurine romantiche d’inizio Ottocento. Sappiamo che ha un lato oscuro, ma ognuno di noi si guarda bene dal formularne delle critiche in pubblico. Libertari o marxisti, ecologisti radicali o lucidi conservatori, cinici utilitaristi o liberali disincantati, noi gente di formazione umanistica ci guardiamo bene dal fare i bifolchi e gli oscurantisti. Si può criticare tutto – specialmente la democrazia –, strapparsi le vesti per i cataclismi climatici a venire, giurare di mangiare solo bacche e radici, ma delle tecnologie non si parla male in pubblico. Günter Anders lo aveva già constatato il secolo scorso: il tabù delle nostre società evolute e progressiste è la tecnica. Abbattete ogni pregiudizio, mettete sotto accusa ogni forma di vita, ma non toccate il mio smartphone!

 

2. La tesi della “dittatura sanitaria”: incompletezza e confusioni

La recente crisi pandemica ha contribuito ad allarmare una minoranza che, percependosi incompresa e perseguitata dalle istituzioni, ha denunciato la realizzazione di una forma di dittatura inedita, la dittatura sanitaria. Attraverso il cavallo di Troia della salute, nome supremo del bene pubblico, lo Stato e i governi sarebbero responsabili di aver dato il colpo di grazia alle nostre libertà di cittadini, imponendo forme di coercizione e di controllo di massa. Questa lettura della dittatura sanitaria, intesa non in senso metaforico ma in senso letterale, raccoglie adesioni in frange della popolazione eterogenee dal punto di vista ideologico: adepti delle medicine alternative, marxisti, libertari, neofascisti, populisti di varia sfumatura, ecc. Malgrado la radicalità di questa variegata minoranza nel rifiutare la prevaricazione delle istituzioni, una maggioranza della popolazione ha accettato di farsi vaccinare, e una parte consistente dei vaccinati considera il green pass come una sorta di male minore rispetto all’eventualità di nuove ondate pandemiche e di conseguenti confinamenti della popolazione. La denuncia della dittatura sanitaria tocca diversi problemi, tutti importanti ma non tutti ugualmente controversi. Inoltre, questi problemi vengono confusi spesso tra loro: esistenza del virus, nocività del virus, utilità dei vaccini, nocività dei vaccini, governo politico della crisi, obbligatorietà della vaccinazione, legittimità costituzionale del passaporto sanitario… (Tra le altre cose, questa veemenza contro l’imposizione del vaccino è essenzialmente eurocentrica, dal momento che, ad esempio, solo il 4% della popolazione africana è stata completamente vaccinata rispetto al 61% della popolazione residente in paesi ad alto reddito, secondo una stima delle Nazioni Unite. E il Sud Africa sta lottando per poter produrre da sé i vaccini sul proprio territorio, con l’ambizione di diffonderli su tutto il continente africano, liberandosi dalla dipendenza nei confronti delle case farmaceutiche statunitensi ed europee).

C’è comunque un punto incontestabile su cui gli allarmisti hanno portato l’attenzione: il modo in cui le istituzioni trattano i dati che riguardano lo stato di salute dei cittadini, grazie al potere di calcolo e scambio delle piattaforme e degli apparecchi elettronici. Di questo mi sembra importante parlare, ma al di fuori dell’ambito specifico della salute pubblica e di quello eccezionale della crisi pandemica. Vorrei ricordare come da anni sia in atto una forma di sfruttamento di massa degli utilizzatori mondiali delle piattaforme web e dei molteplici servizi informatici a esse legate, e come questo sfruttamento prepari, simultaneamente, le condizioni per forme non solo di controllo, ma di neutralizzazione della politica. Appare allora singolare che la massima allerta sulla situazione della nostra democrazia venga lanciata in occasione di una reale urgenza sanitaria, quando per anni la presenza nelle nostre vite delle tecnologie informatiche, anche da parte della minoranza oggi scandalizzata, è stata vista come poco o nulla problematica[1].

 

  1. Due scandali fondamentali (rivelazioni Snowden 2013 e l’inchiesta su Cambridge Analytica del 2018)

Da quando Edward Snowden, nel 2013, ha rivelato le pratiche di saccheggio sistematico e illegale di dati personali realizzato dalla NSA (Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti), tutti hanno capito che non è necessario essere i tanto commiserati cittadini di qualche Stato autoritario o dittatoriale come la Cina, per essere sottoposti a un regime di spionaggio capillare, e di trasparenza coatta che ricorda le distopie primonovecentesche di uno Zamjatin (Noi è del 1924). Possiamo essere invidiatissimi cittadini di democrazie liberali ad alto reddito medio, ed essere sottoposti a una metodica sorveglianza telematica, senza che questo crei disagi maggiori, almeno fino al giorno in cui scopriamo di essere stati considerati non come innocui studenti, lavoratori o pensionati, ma alla stregua di presumibili terroristi in atto di preparare qualche terrificante attentato. Non ci ha rasserenato neppure scoprire che i fedeli amici Facebook e Google, che da sempre garantivano l’opacità e l’anonimato nel trattamento dei nostri dati personali, si siano rivelati solleciti collaboratori dello spionaggio statunitense platealmente incostituzionale. Da quel fatidico giorno, tutti siamo diventati utilizzatori meno citrulli dei nostri apparecchi elettronici, e abbiamo richiesto ai GAFAM promesse di rispetto della privacy più altisonanti e convincenti. Abbiamo dovuto aspettare il 2018, però, per scoprire che, nell’uso illegale dei nostri dati, peggio della NSA poteva fare una società di consulenze inglese, Cambridge Analytica, grazie alle sempre sollecita complicità di Facebook. Le inchieste di giornalisti di media mainstream, quali il quotidiano The Guardian o il settimanale The Observer[2], hanno permesso di comprendere il ruolo cruciale che i dati personali hanno avuto nell’orchestrazione di efficacissimi programmi di propaganda mascherata, in grado di determinare l’esito di un referendum nazionale – quello sulla Brexit nel Regno Unito – o di un’elezione presidenziale – quella statunitense del 2016. Non siamo più di fronte, in questo caso, a una forma di sorveglianza globale orchestrata dalla superpotenza del pianeta, ma alla possibilità che partiti o singoli candidati siano in grado d’interferire in modo occulto sul meccanismo del voto libero, ossia sul fondamento delle società democratiche. Neppure un appello alla più abusata ragion di Stato può qui giustificare alcunché. In effetti, l’affaire Cambridge Analytica sta alle nuove tecnologie e alla crisi del processo democratico, come l’affaire dei subprime stava alla nuova economia (finanziaria) e alla crisi economica del 2008. Per capire come funziona il capitalismo del XXI secolo e quali minacce comporta, oltre a quelle ampiamente indagate dal marxismo e dal pensiero critico novecentesco (alienazione, sfruttamento, rapporti di potere, ecc.) è indispensabile studiare queste crisi, cominciando con l’individuare gli attori in gioco.

 

  1. Ideologie, saperi, tecniche

Per rendere intellegibile l’accusa di manipolazione di massa che è stata sollevata nel caso delle elezioni statunitensi del 2016 e del ruolo in esse svolto da Cambridge Analytica, bisogna mettere in campo almeno sei attori distinti: i finanziatori, gli scienziati, i raccoglitori di dati, i propagandisti, i candidati politici, gli utilizzatori – fonte di tutto il processo, in quanto fornitori gratuiti di dati, e obiettivo finale di esso, in quanto elettori-bersaglio. Il finanziatore di Cambridge Analytica, società privata, è il miliardario statunitense Robert Mercer, grande sostenitore dell’estrema destra politica e culturale, che ha costruito la sua fortuna nel mondo dell’intelligenza artificiale e in quello della finanza. All’origine stessa di CA vi è dunque un imprenditore che sostiene una specifica ideologia, e che non dissocia gli obiettivi commerciali da quelli politici. Lo scienziato è Aleksandr Kogan, un americano di origine moldava che, all’epoca dei fatti, lavora al Dipartimento di psicologia sperimentale dell’Università britannica di Cambridge. Lo statuto “disciplinare” di Kogan è fluido, ma abbraccia il campo della psicologia, della psicometria e dalla “scienza dei dati”. Inoltre ha un profilo professionale ibrido: è scienziato ma anche imprenditore. (In atri termini, siamo di fronte a un tipico membro di quella che un po’ pomposamente viene chiamata la tecno-scienza). Kogan infatti realizza un programma, This is your digital life, in grado di raccogliere i dati personali di 270.000 utilizzatori americani di Facebook con il loro consenso, per costituire dei profili psicologici di base (“personalità”). Partecipare al questionario implica una minima remunerazione e un accordo esplicito. In realtà, il programma raccoglie – con il benestare di FB – anche tutti i dati dei contatti ignari (amici, ecc.) di questi utilizzatori consapevoli. E questa seconda cerchia si estende a milioni di account. L’enorme massa di dati è poi venduta a Cambridge Analytica, che li utilizza al servizio della campagna elettorale pro-Trump, mettendo in opera uno specifico tipo di propaganda.

Fermiamoci, però, un attimo su Kogan e la sua app. Il tipo di lavoro di Kogan è quello che si riassume in formule come questa: “Se ha accesso a 300 dei tuoi like, l’algoritmo ti conosce alla fine meglio di tua madre o di tua moglie”. Ora questo è il tipico enunciato che richiederebbe di essere verificato scientificamente, ma sarebbe già complicato capire che cosa davvero significhi e come eventualmente potrebbe essere verificato. Quello che in realtà conta, è che un tale enunciato venga “preso come buono” (in attesa di eventuali e future prove scientifiche) sia da coloro che approvano l’uso di questo “riduzionismo” psicologico, sia da coloro che temono di finire troppo facilmente e troppo precisamente catalogati. Il sapere “scientifico” mobilitato da personaggi come Kogan trae il suo prestigio non da una verità a monte (d’ordine sociale o psicologico), ma dalle promesse più o meno mantenute a valle di qualche efficacia applicativa (la modificazione di un comportamento). Poco importa che le “personalità di base” corrispondano a una realtà oggettiva della psiche umana; conta soprattutto quello che esse ci permettono di fare sulle persone. D’altra parte, questo è il cuore della faccenda di Cambridge Analytica: “raccogliere ed elaborare i dati personali degli individui ci permette di prevedere i loro comportamenti”, dicono a braccetto scienziati e tecnici; in realtà l’uso di tali dati non è predittivo, ma condizionante. Nelle mani di politici o imprenditori, i dati personali servono per modificare i comportamenti (degli elettori o dei consumatori). La scienza psicologica sostiene, grazie alla potenza di calcolo delle macchine e alla massa di dati disponibile, di aver individuato le chiavi del comportamento umano (conosciamo le leggi, e quindi prevediamo i fenomeni); dietro questo paravento ideologico, i profili psicologici così elaborati forniscono strumenti ulteriori per azioni di vera e propria manipolazione, promosse da aziende, gruppi politici, ed eventualmente Stati e governi.[3]

Facebook è colui che ha permesso a Cambridge Analytica di avere in mano non solo i dati dei 270.000 sottoscrittori dell’applicazione This is your digital life, ma degli 87 milioni di account che erano collegati a quei primi 270.000. Ogni volta Mark Zuckerberg, coinvolto in inchieste parlamentari negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha giocato la carta di colui che non sa e non capisce quello che è successo, scaricando la responsabilità sugli altri (nel caso specifico Cambridge Analytica). Da questa vicenda, però, abbiamo imparato tutti almeno una cosa: chiunque abbia un piano sufficientemente malvagio e sufficientemente finanziato, per ottenere un’immensa quantità di dati su ogni utilizzatore di Facebook (si parla, per il 2021, di 2,80 miliardi di utenti attivi ogni mese), fa una telefonata a Zuckerberg e può tentare di convincerlo. Noi non sappiamo se ci riuscirà, come ci sono riusciti in passato la NSA o Cambridge Analytica, ma sappiamo che Zuckerberg, lui, quella manna di dati che ci riguardano, ce l’ha pronta. Sono dati che lui possiede, non noi. E, se non gli bastassero, ogni nostro nuovo click sulle sue piattaforme – ogni nostro contenuto, condivisione, like, ecc. – va ad arricchire la manna.

Cambridge Analytica è stata la filiale “presentabile” di una casa madre, SCL Group, che per lungo tempo ha preferito restare nell’ombra. Si tratta di una società fondata alla fine del secolo scorso dall’americano Steve Bannon, ideologo della destra sovranista mondiale e celebre direttore della campagna presidenziale di Trump, e dall’inglese Nigel Oakes. SCL è stata una macchina di propaganda che offriva molteplici servizi, lavorando anche nel settore militare per clienti quali il Ministero della Difesa britannico o la Nato. Una delle specialità di SCL erano le Psychological Operations Group – le PSYOPS –, ossia operazioni di condizionamento di massa, realizzate in un contesto bellico. Uno degli ex-dirigenti pentiti di Cambridge Analytica, Brittany Kaiser (autrice di La dittatura dei dati, Harper Collins, 2019) ha confermato pubblicamente che Cambridge Analytica, nelle campagne per la Brexit e in quella presidenziale pro-Trump, utilizzava tecniche di condizionamento militare, per convincere gli indecisi (definiti i persuadables). Ciò che rende la propaganda messa in atto da Cambridge Analytica, però, ancora una volta, non è tanto la sua pretesa “scientificità” – questo è il loro argomento di marketing –, ma la sua capacità di passare inosservata, di non lasciare tracce, d’introdursi nel flusso della comunicazione in gran parte privata che scorre sulle piattaforme informatiche senza annunciarsi come tale, senza logo. In altri termini, non solo chi è l’obiettivo di questa propaganda ignora di essere sottoposto ad essa – a differenza di quanto accade anche nei casi di massiccia propaganda politica o pubblicitaria –, ma è poi impossibile verificare e documentare gli autori, l’origine, l’itinerario, la persistenza di tali contenuti propagandistici. Tutto entra in modo anonimo nel circuito delle piattaforme e tutto si disperde nei rivoli degli account privati, per poi eventualmente scomparire al momento opportuno.

Nel caso delle elezioni presidenziali USA del 2016, malgrado sia difficile misurarne l’impatto reale, l’obiettivo di Cambridge Analytica è stato chiaro: bombardare di contenuti un numero limitato di elettori perplessi nei pochi Stati del paese che avrebbero deciso la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. E sappiamo che, in definitiva, 70.000 elettori in tre soli Stati (Wisconsin, Pennsylvania e Michigan), hanno determinato la vittoria di Trump (Usa 2016: Clinton +3 milioni di voti, per Trump decisivi 3 Stati – America 24).

Le attività di propaganda mascherata da realizzare sulle piattaforme, come quelle di Cambridge Analytica, non sono di per sé finanziate esclusivamente da soggetti politici conservatori o di estrema destra. Innanzitutto, come spesso accade in questi casi, le nefandezze in ambito militare, politico ed economico si sperimentano di preferenza nei paesi del Sud del mondo, ed è stato questo il caso sia della casa madre SCL Group che della sua filiale apparentemente più presentabile CA. La storia di queste due società – dei loro finanziatori, dirigenti, clienti privilegiati – mostra però una chiara preferenza ideologica, come il caso di Steve Bannon dimostra, essendo stato il fondatore di SCL, il vice presidente di Cambridge Analytica, il direttore della campagna di Trump e, dopo la vittoria di quest’ultimo, il capo stratega della Presidenza per i primi sette mesi. Questa constatazione vale anche per il tipo di tecniche che queste società mettono a disposizione. Tra gli strumenti di propagandata mascherata, vi è quello, ad esempio, dell’astroturfing, che consiste nel simulare iniziative di cittadinanza o movimenti spontanei dal basso, grazie alla creazione mirata di falsi account, forum, petizioni sul web. Non solo tecniche del genere minacciano il genuino processo democratico, ma anche richiedono, per essere efficaci, finanziamenti importanti che sono prerogativa dei soggetti economici più forti.

 

5. Facebook promette connessioni tra persone, ma noi vi cerchiamo soprattutto la nostra espressione individuale

Veniamo ora a coloro che forniscono quotidianamente la materia prima che permette il rafforzamento di queste realtà – dalle piattaforme elettroniche agli scienziati che lavorano su progetti di intelligenza artificiale, dalle società di consulenza e di comunicazione alle forze politiche che ne costituiscono la clientela. Noi utilizzatori del web, dei motori di ricerca, dei social network, di Amazon, ecc., costituiamo la base di una complessa piramide, che per esistere commercialmente, tecnicamente, politicamente, deve poggiare sulle nostre attività telematiche quotidiane, deve insomma trarre dai nostri comportamenti abituali il “petrolio del nuovo secolo”, ossia informazioni su quello che facciamo e quello che acquistiamo, su quello che pensiamo e quello che sentiamo. Per lungo tempo non ci siamo troppo interrogati su questo generoso accordo: le piattaforme come Facebook ci fornivano un servizio gratuito, un servizio per altro tra i più benevoli e desiderabili, quello di connettere le persone tra loro. Ma la semplice connessione non è bastata né a Facebook né a noi utilizzatori. Un’occhiata all’evoluzione della piattaforma (delle sue tecniche e dei vari re-design della sua pagina) mostra che il servizio si è articolato intorno a elementi come il tasto like (lanciato nel 2009), gli stickers e #Hashtags (2013), le cinque nuove Facebook Reactions (2016), a cui si aggiunge, in piena pandemia, la nuova Care Reaction (il pianeta che stringe un cuore nel 2020). Questo naturalmente è solo uno degli assi evolutivi del servizio gratuito che Facebook mette a disposizione della sua comunità mondiale, ma è anche uno dei più interessanti.

È paradossale che il mito di Facebook come grande “connettore” debba ormai coabitare con le immagini angoscianti del grande “divisore”. Da più parti si è sottolineato come il modo di funzionare di Facebook (ma ciò vale anche per altre piattaforme come Youtube) accentui le polarizzazioni ideologiche e le visioni riduttive della realtà (se ne parla, ad esempio, nel documentario The social dilemma). Di questo paradosso, però, siamo tutti coscienti, dal momento che tendiamo ormai ad associare il nostro account al concetto di filter bubble, ossia di bolla che gli algoritmi rendono ermeticamente chiusa nella sua soddisfacente autoreferenzialità. D’altra parte, questa chiusura o questa alta selettività ha una controparte importante: più siamo in un terreno protetto più siamo disposti a esprimerci liberamente. Le “bolle filtranti” ci permettono di essere noi stessi ogni giorno e in una sfera ibrida tra privato e pubblico. E se dobbiamo ringraziare Facebook per la gratuità dei suoi servizi, dovremmo riconoscergli oggi un interesse molto più indirizzato alla nostra autentica espressione di sé di fronte agli altri, che alla semplice connessione con gli altri. I bottoni che riguardano le nostre presunte emozioni sono stati pensati, disegnati, e installati per questo preciso motivo. Non basta far circolare foto, testi scritti (ricordi, opinioni, ecc.), tracce musicali, materiali giornalistici o di studio; a partire dal 2009 e ancor più dal 2016, è importante far circolare anche le nostre “emozioni”.

Anche in questo caso, bisogna chiarire di ciò che stiamo parlando. Quale sia un’autentica e soddisfacente espressione delle nostre emozioni è una faccenda assai complessa, e di certo nessuno crede davvero che il tasto Wow o Grrr offrano un equivalente del nostro vissuto emotivo o del modo in cui esso è modulato attraverso i quadri culturali d’appartenenza. Facebook, basandosi in parte su dei saperi scientifici (le Big Six dello psicologo statunitense Paul Ekman) e sul design grafico, ha proposto ai suoi utilizzatori una grammatica di stati emotivi, che sono ovviamente convenzionali e ai quali, quindi, gli utilizzatori si devono adattare. Il successo di questa grammatica non è quindi dato da una presunta adeguazione con quanto avviene nella psiche umana, ma dalla diffusione su larga scala della convenzione, dalla riuscita, insomma, dell’adattamento richiesto all’utilizzatore. Senza la buona volontà di quest’ultimo, le Facebook Reactions non avrebbero avuto lunga vita. Ognuno di noi si è adattato con minore o maggiore reticenza all’uso di queste ulteriori opzioni comunicative. Non è sorprendete, dal momento che Facebook sposa da tempo un nostro desiderio profondo, che è quello di esprimere noi stessi, e quindi ogni nuovo strumento, ogni nuova funzionalità, non può che incontrare una disposizione favorevole da parte nostra, e qualsiasi forma di scetticismo, di postura critica, finisce immancabilmente per dissolversi, sotto la pressione dello spirito gregario.

Ciò che, tra le altre cose, favorisce nostra docilità nei confronti delle nuove tecnologie e dei quadri comunicativi che finiscono per imporci è che noi tendiamo a darne una lettura principalmente psicologico-moralistica. Per un certo numero di anni abbiamo parlato dell’indecente impudicizia, del chiassoso esibizionismo, del compiaciuto narcisismo che l’uso dei social aveva fatto emergere. Poi abbiamo anche smesso di parlarne, dal momento che un certo esibizionismo sui social è divenuto in qualche modo una regola, una forma di vita condivisa pacificamente, e quindi inutile da criticare. Ognuno ha imparato a gestirlo, a dosarne la quantità, senza doverlo sciaguratamente soffocarlo. Tale diagnosi, però, rimaneva alla superficie, o meglio si rivolgeva come sempre alle debolezze (o colpe) dell’individuo, piuttosto che all’ampiezza e alla ragione d’essere di un sistema. L’atteggiamento moralistico permetteva (e continua a permettere) di difendere un mito essenziale: la neutralità della tecnica. Il tabù dell’ineluttabilità del progresso tecnologico ha come corollario l’idea che una nuova tecnica sia uno strumento, la cui buona o cattiva applicazione dipende dalla bontà o cattiveria del suo utilizzatore, ossia dal suo grado di maturità psicologica, integrità morale, consapevolezza politica, ecc. In L’industria culturale nel XXI secolo. Sull’attualità del concetto di Adorno e Horkheimer, una conferenza del 2010, Robert Kurz, filosofo d’ispirazione marxista, mostra come l’evoluzione dei GAFAM si possa leggere come una tappa ulteriore dell’industria culturale novecentesca e dell’ideologia che la legittima. In altri termini, è l’evoluzione sociale – il rapporto tra capitale e lavoro, quale si è definito attraverso l’offensiva neoliberista che dura ormai da quarant’anni – che precede e determina l’interpretazione tecnologica. Ovviamente ricordare che i nostri strumenti di comunicazione ed espressione di sé quotidiani sono impregnati di ideologia, e veicolano una visione del mondo, dei rapporti umani, dei nostri fini, non neutra, non astorica, non apolitica, non innocua, ci pone in un certo imbarazzo. Ci ricorda la fragilità della nostra buona volontà, del nostro grado di consapevolezza, persino del nostro impegno nel voler rendere la società migliore. Noi ci siamo talmente abituati a guardare la tecnologia come uno specchio del futuro, di qualcosa che deve ancora essere costruito, e di cui noi siamo attivi costruttori, che dimentichiamo facilmente come essa venga dal passato, sia stata pensata e costruita – decisa – da piccole cerchie di persone, e ci venga trasmessa come un’eredità indiscutibile da introdurre nelle nostre vite e da far fruttare.

“We built Facebook to help people stay connected and bring us closer together with the people that matter to us”, scrive Mark Zuckerberg in un post del 2018. Mia nonna (e come lei molte persone nate nella prima metà del secolo) avrebbe potuto rispondere: “Ma come ti permetti?”. Che cosa ne sai tu, e ne vuoi sapere tu, delle persone a cui io, abitante tra gli altri del pianeta, tengo in modo particolare? Cosa c’entri tu? E perché mai le relazioni umane per me più importanti (quelle dense di affetti) dovrebbero avere bisogno del tuo aiuto per esistere? Se, però, ci immaginiamo di essere, o siamo davvero divenuti una moltitudine atomizzata di individui che fa fatica a capire cosa la tiene assieme, se insomma i significati collettivi, come i progetti che ad essi si articolano, sono divenuti sempre più oscuri e misteriosi, allora è non solo utile, ma indispensabile che qualcuno si occupi non solo di connetterci tra di noi – povere isole che siamo – ma anche di permettere agli affetti di circolare (a partire dalle emozioni più elementari), in modo che lo stare assieme virtuale abbia una qualche vaga analogia con lo stare assieme conviviale, ossia quello radicato nei corpi.

In un altro passo della sua conferenza, Kurz fornisce un’interpretazione generale della nostra irresistibile tendenza a esprimere noi stessi sulle piattaforme elettroniche:

“Gli individui si comportano sempre di più come se fossero i loro stessi attori nel loro proprio teatro. Questa pseudo-vita virtuale non ha semplicemente una funzione compensatrice rispetto alla miseria dei rapporti sociali reali, ma in maniera ideologica e immaginaria è elevata al rango di “autentica” realtà riguardo alla quale l’esistenza sociale e materiale appare come una semplice appendice e come già quasi irreale.”

Pochi oggi si lasciano ancora persuadere dal gergo “dialettico” di Kurz e dalle vetero gerarchie ontologiche, che pretendono contro ogni evidenza post-moderna di dare priorità alle relazioni umane incarnate piuttosto che a quelle immateriali. Nessuno vuole “svalorizzare” grazie a una semplice formula concettuale una larga fetta di interazioni con il proprio prossimo che passa per l’account Facebook, bottoni “emozionali” inclusi. E questo è in parte comprensibile. Ognuno di noi può impegnarsi a dimostrare che le interazioni “virtuali” sono una continuazione con altri mezzi di rapporti sociali autentici con persone in carne ed ossa, o ne costituiscono eventualmente l’anticamera. Quello che però difficilmente si può ignorare è il meccanismo compensatorio (leggi consolatorio) che sta alla base della nostra non episodica attività sui social network. Di questo ho provato io stesso a scriverne proprio su Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2021/04/30/di-lavoro-non-ne-parliamo-per-favore/), mettendo l’accento sulla nostra scarsa felicità lavorativa e sul modo di esorcizzarla in pubblico attraverso i social: “Ognuno si rimbocchi le maniche, e quando è uscito dal buco nero del lavoro salariale, vada altrove, sui social network ad esempio, a strofinare, laccare, addobbare la propria identità. Tutti abbiamo una vita fuori dal lavoro: bisogna pur farne qualcosa, esibirla, fotosciopparla, brandirla come la prova di un’esistenza degnamente umana e individualizzata.”

Dopo quarant’anni di offensiva neoliberista come sta il nostro lavoro salariato? Forse i nostri rapporti sociali sono radiosi, ma è difficile che le imprese o le istituzioni in cui lavoriamo, o cerchiamo di lavorare, siano altrettanto radiose nei nostri confronti. Naturalmente è possibile che tutta questa faccenda di un’offensiva ideologica, organizzativa e politica sfavorevole ai lavoratori, ai loro diritti e garanzie, ai loro valori e ideali professionali, sia stata una delle grande bufale del nuovo secolo, una delle più riuscite fakenews di matrice marxista. Se non fosse che di questo fenomeno storico esiste ormai una variegata e multidisciplinare letteratura. E poi basta leggersi i propri contratti di lavoro, per sciogliere ogni dubbio.

Naturalmente si potrebbe fare un’analisi più fine incentrata sul nesso splendore dei social e miseria del lavoro, includendo altre categorie: dai disoccupati a coloro che cercano di trasformare le piattaforme in una forma di reddito. In ogni caso, noi umanisti – disoccupati, precari o pienamente occupati – siamo quelli che maggiormente, io credo, viviamo un rapporto ambivalente con le nuove tecnologie: non ne godiamo direttamente i frutti economici e professionali, non ne siamo gli ideatori e gli architetti, non possiamo che fungere da retroguardia affannata, pronta a giurare sulle proprie capacità di aggiornamento (leggi sforzi di adattamento). Siamo coscienti di un ritardo cronico, di un’obsolescenza fatale legata alla nostra formazione; non ci resta, quindi, che saltare sul treno costi quel che costi e, nei casi migliori, esibire una sbrigliata attitudine multimediale. Percepiamo che, anche solo sul piano del lavoro intellettuale e creativo di ciascuno, tali ambienti sono una minaccia fortissima. Ci succhiano attenzione in modo osceno, indirizzandola su contenuti incredibilmente semplici e spesso irrilevanti. Acuiscono invece di saziarli i nostri bisogni di riconoscimento sociale. Disperdono e dissipano invece di concentrarle le nostre energie conviviali o critiche. Ma è terribilmente costoso rinunciarvi. La dipendenza dallo smartphone viene a completare il quadro.

Per inciso, sarebbe un errore illudersi che i “nativi digitali” siano stati risparmiati dal demone dell’ambivalenza, come se la loro familiarità con le piattaforme elettroniche non fosse frutto di un doloroso e conflittuale processo di socializzazione, ma un portato genetico. D’altra parte, l’ambiguità semantica connessa alla formula “nativi digitali” è la spia più evidente che siamo penetrati su di un terreno ad alto tenore ideologico. Il termine “nativo” in questo caso indica l’esperienza di un apprendimento o di un adattamento a un ambiente (linguistico o climatico) che avviene dalla nascita, ma esso viene volentieri inteso secondo una ben diversa accezione, quella di disposizione innata. Per il bene dei nostri figli, ci piacerebbe illuderci che essi scivolino senza attriti, ferite, conflitti nell’ambiente digitale, così come un gatto che salta da un muretto all’altro guidato da un istinto infallibile. La realtà è purtroppo diversa, come hanno cominciato a denunciare diverse inchieste sulla salute dei giovani utilizzatori di social (Ansia e depressione: gli effetti dei social sui giovani. ”Instagram è il peggiore” – la Repubblica / Association between Social Media Use and Depression among U.S. Young Adults (nih.gov).

 

6. Lavoratori del clic: alienati, sfruttati, ma contenti

“Nel quadro di un’economia del contributo, i molteplici link cliccati dagli internauti partecipano all’elaborazione di basi di conoscenza e di risultati statistici, sfruttati dalle piattaforme sulle quali essi agiscono. L’espressione digital labor designa l’attività degli utilizzatori così sfruttati (che noi proponiamo di tradurre con “lavoratori del clic”): i contributori di wiki, gli autori di commenti, gli iniziatori e gli intermediari di reputazione, i creatori di contenuti per i social network, gli operai che realizzano in serie attività che gli algoritmi non possono ancora industrializzare (…) e ben inteso tutti gli internauti dal momento in cui cliccano semplicemente su di un like, un cuore, ecc. Il lavoro effettuato costituisce un’attività a bassa intensità e richiede una competenza minima che, grazie all’industrializzazione di questo processo applicato a milioni di utilizzatori, produce un forte valore economico a beneficio esclusivo del proprietario della piattaforma numerica.”

Potremmo, ad esempio, partire da qui. Potremmo cominciare a considerarci lavoratori inconsapevoli del clic e, come tali, anche sfruttati e alienati. Un’analisi approfondita del nostro “lavoro in rete”, e della nostra capacità di mobilitare anche il livello più intimo delle emozioni e successivamente degli affetti, sollecitati delle piattaforme elettroniche, è presentata dai ricercatori universitari Camille Alloing e Julien Pierre in Le web affectif, une économie numérique des émotions, libro del 2017. Certo, questo non corrisponde al nostro punto di vista. Noi, soggettivamente, in quanto utilizzatori, siamo impegnati in strategie personali per trarre da Facebook e Google tutto quanto va a nostro vantaggio. E se le strategie paiono funzionare, se proviamo soddisfazione o otteniamo premi simbolici o addirittura materiali, non facciamo che infittire la nostra presenza. Se le cose vanno meno bene, cerchiamo di cambiare strategia. In ogni caso, ci sentiamo vincenti e sovrani nella nostra attività in rete. Dal punto di vista delle piattaforme, però, l’unico scacco possibile è la nostra latitanza dalla rete, il nostro assenteismo dal clic, la nostra decisione scriteriata di lasciare intatta, inutilizzata una qualche funzione. L’unico scacco Facebook lo conosce quando recidiamo il filo dell’attenzione e abbandoniamo lo schermo per andare a preparare una cena, per discutere con un amico senza smanettare contemporaneamente con lo smartphone, per sederci accanto a un figlio per leggergli qualche pagina di un libro, per impegnarci in una litigata di coppia. In tutti gli altri casi Facebook e le altre piattaforme sono pienamente vincenti, perché noi produciamo dati per le loro elaborazioni statistiche e perché ci esponiamo alla pubblicità dei loro clienti. Ed è questo che garantisce i loro introiti, il loro successo materiale, economico. La nostra continua disponibilità a fornirgli informazioni sulla nostra vita (i pensieri, i gusti, i movimenti, le emozioni, i bisogni, ecc.) permette anche l’evoluzione, il progresso, l’applicazione a raggio sempre più vasto dei loro algoritmi. Non vi è posizione più asimmetrica. Noi forniamo loro la materia prima (tutte le informazioni che permettono di costruire dei profili di consumatori e di elettori e di cittadini di future città intelligenti e securizzate) e, nello stesso tempo, contribuiamo a raffinarla almeno in forma elementare questa materia, grazie ad esempio alle Facebook Reactions o alla pratica di qualche nuova funzionalità. Loro in cambio ci permettono di dispiegare le nostre singole strategie, sempre fallibili e provvisorie. La gratuità è la loro forza di attrazione maggiore: nessuno nel mondo, quale sia la sua condizione sociale, potrà esitare nel mettersi al lavoro del clic.

La migliore controprova di questa nostra condizione di sfruttamento viene dal recente documento – febbraio 2020 – della Commissione Europea in materia di trattamento di dati. S’intitola Una strategia europea per i dati. Negli anni passati, l’Europa – avendo rinunciato a investire in proprie piattaforme informatiche – si era concentrata sulla protezione dei dati personali e sul diritto alla privacy. Ora vuole passare da semplice agente regolatore a protagonista attivo nella raccolta, gestione e circolazione dei dati non personali per quanto riguarda il territorio europeo[4]. (Per intenderci, i dati non personali sono quelli che già costituiscono il business legale di tutte le piattaforme dei GAFAM, quando non intervengono eventi “criminali” come la sorveglianza generalizzata della NSA o la propaganda mascherata di Cambridge Analytica.) Il punto che più m’interessa è messo in luce in un articolo dedicato a questa nuova iniziativa europea. L’autrice, Federica Maria Rita Livelli, parlando dei Data Trust, sorta di collettori e gestori paneuropei di dati, scrive a un certo punto:

I cittadini raccoglieranno “dividendi per i dati”, che potrebbero includere pagamenti monetari o non monetari da società che utilizzano i loro dati personali. In questo modo i Data Trust faranno riferimento a circa 500 milioni di cittadini europei che diventeranno fonti di dati, dando origine al più grande mercato di dati del mondo. Inoltre, i dati – sia creati dai cittadini europei sia generati su di essi – saranno conservati in server pubblici e gestiti dai Data Trust. Si ipotizza che tali Data Trust potranno supportare le imprese e i governi europei, potranno riutilizzare ed estrarre valore dalle enormi quantità di dati prodotti in tutta l’area europea e, al contempo, permettere ai loro cittadini di beneficiare delle stesse proprie informazioni. La documentazione del progetto, tuttavia, al momento, non fornisce informazioni chiare sui compensi da destinarsi ai singoli individui.” (Corsivo mio).

Voi forse non lo sapevate con chiarezza, ma i membri della Commissione Europea, non certo dei marxisti incalliti, loro lo sanno fin troppo bene che, in un’economia mondiale basata sui dati, coloro che questi dati li producono attraverso attività in rete o come utilizzatori di servizi elettronici hanno diritto a dei dividendi. Ciò è talmente chiaro ai dirigenti europei, che si guardano poi bene dal fornire alcuna precisazione su quanto e come pagare il nostro lavoro del clic.

Oltre a essere sfruttati, però, noi, proprio come i vecchi operai novecenteschi, siamo anche alienati. Una frase di Peter Sloterdijk ci introdurrà al problema: “I più comuni macchinari del mondo contemporaneo – gli orologi, le automobili, i computer, il parco strumenti dell’elettronica di consumo, gli utensili di precisione e altre cose del genere – per la maggioranza degli utenti non sono altro che superfici luccicanti che risultano inaccessibili al loro interno se non in modo dilettantesco e distruttivo.” A questa opacità della macchina, va aggiunta – nel caso delle piattaforme informatiche – l’opacità degli algoritmi che organizzano le informazioni che mi giungono o che utilizzano i dati che io fornisco. Vi è tutta un’attività di spostamento, elaborazione, circolazione di dati che ho materialmente prodotto, ma di questa attività non ho né conoscenza né posso in alcun modo controllarla. Inoltre, non sono io che ho deciso di esprimere le mie emozioni attraverso stilizzate, gialle, faccine tonde, ma mi sono adattato a esprimerle attraverso quella grammatica, e non sono io che utilizzerò in qualche modo i milioni (miliardi) di faccine tonde prodotte ogni giorno, tra le quali ci sono anche le mie.

Ed è così che sfruttati e alienati nel nostro quotidiano digital labor noi non abbiamo neanche il diritto di rivendicare dividendi e controllo, di lamentarci almeno, di mugugnare, perché, come dice la canzone di Dario Fo:

E sempre allegri bisogna stare

Che il nostro piangere fa male a Mark Zuckerberg

Fa male a Larry Page e a Jeff Bezos

Diventan tristi se noi piangiam

Questa riflessione non si conclude con un inno luddista alla “sconnessione permanente”, anche se verrà il giorno in cui i comuni mortali faranno davvero piangere Zuckerberg, Page, Bezos e diversi altri, facendo degli scioperi dall’utilizzo delle piattaforme e degli smartphone. E inoltre è una riflessione che lascia fuori alcune questioni importantissime: quella del controllo dei cittadini e quella dello strapotere degli algoritmi, con la progressiva esautorazione dell’essere umano da tutta una serie di decisioni e iniziative quotidiane. A me interessava correggere solo certe formule a effetto, ma molto imprecise, come “dittatura digitale”. La realtà è diversa: non sono gli algoritmi che ci vengono imposti dall’alto, non sono i social media che ci manipolano occultamente; siamo noi che ci sottoponiamo docilmente o addirittura con foga al loro strapotere. E lo facciamo perché, nonostante tutti i disincanti, le consapevolezze, le diffidenze, siamo figli di un’idea di progresso che, in mezzo a tutte le decostruzioni postmoderne, svetta ancora come un intatto monumento imperiale. Lo facciamo a maggior ragione noi umanisti, perché temiamo di essere tagliati fuori in modo umiliante da tutto quanto ha successo e produce ricchezza (per pochi). Lo facciamo perché soccombiamo umanamente al fascino velenoso dell’automazione: l’irresponsabilità e la futilità ci rendono più leggeri e spensierati. Lo facciamo, infine, perché siamo malgrado tutto – lavoratori poco o tanto pagati – alla ricerca di un riconoscimento sociale, che può essere ottenuto grazie alla costruzione di identità sottili e liquide, in gradi di nasconderci come veli che coniugano opacità e brillantezza. Veli che ci occultano, ma dietro uno sfavillio accecante.

 

Glosse

[1] Chi ha letto in termini dittatoriali la gestione della pandemia ha dovuto lasciare in ombra l’esistenza autonoma del virus, che agisce indipendentemente dalle strategia politiche o economiche che una società o una parte di essa mette in opera. Gli allarmisti raccontano una vicenda che si snoda grosso modo intorno a tre personaggi: Big Farma (la sete di profitto), lo Stato (la sete di controllo) e la popolazione (le sete di sicurezza). (I mass-media vengono visti come una sorta di organo di propaganda perfettamente integrato allo Stato). Non tutti giungono a negare l’esistenza del virus, ricorrendo a più o meno implausibili scenari complottisti, ma quasi tutti minimizzano quello che il virus fa o ha fatto alla gente. Possiamo discutere molto a lungo sulle caratteristiche e la portata dell’azione del virus, ma quello che m’interessa sottolineare è che la narrazione della crisi pandemica implica almeno quattro personaggi principali: Big Farma, lo Stato, la popolazione e il virus. A meno di considerare che il virus sia un’invenzione immaginaria di Big Farma e/o dello Stato per sottomettere la popolazione mondiale a un consumo coatto di certi prodotti farmaceutici, bisogna constatare che Big Farma come lo Stato e la popolazione reagiscono all’azione traumatizzante del virus, e certamente lo fanno poi secondo strategie proprie.

Per ciò che riguarda invece il nostro quotidiano uso delle tecnologie informatiche – e le conseguenze che questo implica in termini economici, politici ed ecologici – lo scenario pertinente è riducibile a tre soli protagonisti: i GAFAM, le grandi aziende private monopoliste delle tecnologie e dei servizi informatici, lo Stato, che è simultaneamente cliente dei GAFAM e loro regolamentatore, e la popolazione che gode dei vantaggi e degli svantaggi della rivoluzione informatica. In realtà, anche in questo caso si potrebbe includere un quarto personaggio – l’ambiente – e considerare l’impatto che su di esso hanno le nuove tecnologie. Va precisato, però, che a differenza di quanto accade nella situazione pandemica, qui l’ambiente reagisce a un’iniziativa (di consumo energetico, d’inquinamento, ecc.) esclusivamente umana. Non è comunque di questo aspetto che mi voglio occupare, ma delle conseguenze che queste tecnologie hanno sulle nostre vite a livello individuale e collettivo.]

[2] Ormai, per darsi una divisa antisistema convincente, è bene parlare dei media mainstream come se si parlasse di un comparto globalmente squalificato, quasi si trattasse dell’ufficio propaganda di Goebbels. In realtà mai come oggi un certo giornalismo mainstream ha ancora la capacità di fungere da efficace contropotere, come il caso delle inchieste di Carole Cadwalladr sui rapporti tra Cambridge Analytica e Facebook ha mostrato.

[3] In realtà, nessuno è in grado di misurare l’efficacia della manipolazione occulta in circostanze come quelle delle elezioni statunitensi del 2016. Nessuno può dire con certezza: Trump ha vinto grazie al bombardamento mirato di Cambridge Analytica su un certo numero di elettori indecisi. Questo è innanzitutto ciò che Cambridge Analytica vendeva ai suoi clienti: la possibilità di ridare credito, attraverso le tecnologie informatiche, al mito della pubblicità subliminale, che si era sgonfiato assai rapidamente nel corso degli anni Sessanta (si ricordi il caso di James Vicary). L’incertezza sugli effetti di tale propaganda non permette però di minimizzarne la pericolosità. Mi sembra ragionevole, quanto ha detto a proposito Christopher Wylie, informatico ed ex-impiegato di CA, durante l’inchiesta realizzata dal Parlamento britannico: “Nel mondo dello sport, quando c’è certezza di sostanze vietate nel sangue di un atleta (doping), non ci si rompe il capo per determinare se la dose sia stata determinante per la vittoria oppure no. Si squalifica, e basta”. Sullo scandalo Cambridge Analytica, un altro approfondito documentario prodotto da Netflix: The Great Hack, 2019.

[4] “Poiché, però, è evidente che nella competizione globale digitale è essenziale, sia per le tecniche di Intelligenza artificiale che per qualunque altra attività legata all’ecosistema digitale, il possesso di dati che, in questo sistema, sono prodotti in quantità sempre più elevata dagli stessi operatori, utenti e fornitori di servizi, la UE ha man mano affiancato la sua attenzione alla tutela dei dati personali in conformità con i suoi valori fondamentali con una attenzione non meno rilevante e significativa al possesso dei dati, alla loro raccolta e alla loro utilizzazione.Il futuro dell’Europa si regge sui dati. Pizzetti: “Così l’UE ha cambiato approccio” – Agenda Digitale Corsivo mio.

 

Il mercato metropolitano

2
Diller Scofidio Renfo Boeri
RPBW, Ottavio di Blasi, stazione di Sesto San Giovanni

di Gianni Biondillo

Non riesco a starci dietro. Una volta era tutto più semplice. Negli anni Novanta a Milano non succedeva nulla, anche una semplice ristrutturazione di un appartamento, o un recupero abitativo di un sottotetto sembrava un’opera capitale. E pensare che c’erano più architetti che a Parigi: avevano lo studio a Milano (penso a Vittorio Gregotti, ad Aldo Rossi a Gae Aulenti) però lavoravano all’estero. Se volevi vedere qualcosa di nuovo bisognava prendere un aereo e andare a Berlino che dopo il crollo del muro era diventata il più grande cantiere d’Europa. Si andava in pellegrinaggio e si tornava tristi. “A Milano non succederà mai”, ci dicevamo, giovani architetti delusi. Così, per anni. Magari facendo una puntata a Londra che, si sa, ogni cinque anni qualcosa di grosso succede sempre da quelle parti.

BIG. Bjarke Ingels, CityLife

Poi il capitale finanziario globale ha puntato gli occhi da qualche altra parte. Da noi. C’era di mezzo la scusa di organizzare Expo2015. Ed è cominciata la sbornia. Intere parti di città demolite, ridisegnate, trasformate. Milano, indifferente a crisi economiche o pandemie, era diventata il più grande cantiere d’Europa e non ce ne eravamo accorti. Io stesso che giro la città di continuo, non riesco più a starci dietro. Persino i grattacieli di César Pelli a Porta Nuova ormai sembrano cose vecchie, datate. A CityLife hanno da poco terminato l’edificio di Libeskind e quasi neppure lo guardiamo più, in attesa del nuovo portale d’accesso di Bjarke Ingels. Non c’è quadrante della città che non sia interessato al cambiamento: a sud ovest è in progetto SeiMilano, a nord est la trasformazione di MilanoSesto, a nord ovest Mind e Up Town, a Sud Est Santa Giulia. Case, uffici, palasport, parchi, stazioni, università, foreste urbane, infrastrutture, ospedali, centri commerciali. Una sbornia. Qualcuno direbbe: una colata di cemento.

Park Associati, MoLeCoLa

Eppure, non c’è progetto che non mostri con vanto il suo essere “green”: un esempio, fra i tanti, MoLeCoLa, dove gli edifici sono pensati con strutture in legno smontabili e con pannelli fotovoltaici e tetti verdi. Proprio come in LOC, progetto coordinato dai Metrogramma per il rifacimento di Piazzale Loreto, con legno, tetti verdi, alberi, o come la Torre botanica di Stefano Boeri per Pirelli 39. Non c’è relazione di progetto che non usi lo stesso vocabolario “ecologista”. Forse anche perché gli sviluppatori, i progettisti e i consulenti, sono spesso le stesse persone, come in una sorta di compagnia di giro: Diller Scofidio + Renfro li trovi a Pirelli 39 ma anche allo scalo di Porta Romana assieme a Carlo Ratti, presente anche a MIND dove progetterà la nuova sede del campus scientifico dell’Università degli Studi, Mario Cucinella progetta la “città giardino” di SeiMilano e già c’è a MilanoSesto le nuove sedi dell’Istituto neurologico Besta e dell’Istituto dei Tumori, dove Barreca & La Varra (coprogettisti del Bosco Verticale) disegnano le residenze di edilizia convenzionata, gli stessi che si occupano anche dell’Innesto, progetto di riqualificazione dello scalo Milano Greco-Breda; se c’è da chiedere l’intervento di un paesaggista due volte su tre ci si affida a Land, se occorre progettare la mobilità tre volte su tre ci si affida a Mobility in Chain.

MCA, SeiMilano

Sia chiaro: tutte persone affidabili, alcune le conosco di persona e mi fregio della loro amicizia. Molti di questi progetti (molti, non tutti!) sono anche di grande interesse. Cosa c’è che non va, allora? Cosa mi disturba se penso che in fondo, fra le rigenerazioni degli scali pensati da Rem Koolhaas, gli interventi di Park Associati, di Foster+Partners o di Renzo Piano Building Workshop, da qui a neppure cinque anni avrò una città che cambierà ancora il suo volto, diventando un vero e proprio museo all’aperto di architettura contemporanea?

LOC, Loreto

Due cose, probabilmente. Una ha a che fare con il linguaggio: questa architettura, in fondo, si assomiglia tutta. Torri e stecche variamente disposte, chi allineato, chi con qualche rotazione vezzosa, facciate continue in vetro e acciaio per uffici o ospedali, tetti piani e logge intonacate per l’edilizia residenziale, insomma tutto un vocabolario architettonico – magari colorato con qualche accenno dialettale (l’uso di certi materiali a chilometro zero) o con qualche idea innovativa di cantiere – che sostanzialmente ci mette di fronte a un modo di pensare la città in maniera identica in ogni parte del mondo. Non è più l’International Style di un secolo fa, ma un Global style spruzzato di greenwashing, voluto dal capitale globale che chiede interventi di qualità ma soprattutto affidabili e riconoscibili per gli investitori. Ed è questa è la seconda cosa che non mi fa godere appieno di questa festa dell’architettura: il fatto che a ben vedere la mia città (come ogni città del mondo) non la sta cambiando la politica ma il mercato. A questo mosaico qualificato di interventi sembra mancare un disegno generale che li tenga assieme tutti. Un pensiero collettivo che non dimentichi quelle parti di città che, non coinvolte dal cambiamento, rischiano di precipitare nell’abbandono.

Diller Scofidio Renfo Boeri

(precedentemente pubblicato su Abitare, n. 607, settembre 2021)

Mario Rigoni Stern [1 novembre 1921 -16 giugno 2008]

12

da dall’Archivio
17 Giugno 2008

da Il sergente nella neve

 

 

L’isba dove mi accettarono era spaziosa e pulita, e abitata da una famiglia di gente giovane e semplice. Mi preparai in un angolo sotto la finestra la cuccia per dormire. Passai sdraiato su un po’ di paglia tutto il tempo che rimasi in quella capanna; sempre lì sdraiato per ore e ore a guardare il soffitto. Nel pomeriggio c’erano nell’isba solo una ragazza e un neonato.

Buena Vista Social Club: Brunella Saccone

1

Questa  rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

La questione

di

Brunella Saccone

Sono cresciuta insieme a bambini e bambine, ragazzini e ragazzine – compagn* di scuola, parent*, colleg*- che fin dalla più tenera età manifestavano tratti e attitudini del sesso opposto: nei giochi, nell’aspetto fisico, nelle posture, nelle inclinazioni.
Bambini e bambine che diventati adulti hanno faticato non poco per rivelarsi al mondo per quel che sentivano e la cui percezione personale era netta e chiara, definita, al punto di arrivare a sottomettersi a multipli interventi chirurgici per essere quel che sentivano di essere e non quel che la natura aveva loro imposto fisicamente e come ruolo.
A riprova che essere omosessuali o transgender o eterosessuali non è un fatto di mode o coartazione esterna.
Non mi piace definirmi etero o applicare ad altri etichette restrittive, perché mi colloco in un luogo ulteriore dello spirito: l’idea che esistano persone e sensibilità, affetti, sentimenti e attrazioni e che non dipendano solo dalla conformazione fisica o dalla dotazione ormonale, ma dall’incontro di volontà e desideri che possono mutare se lo vogliono, quando lo vogliono, in presenza di qualcuno che ci arricchisce e ci ispira una vicinanza anche fisica, che con le etichette non ha niente a che vedere.
La sessualità ci guida nello spazio e nel tempo e la seduzione è il motore di ogni avvicinamento: personalmente sono attratta, anche fisicamente, da chiunque mi riveli sensibilità, intelligenza, carnalità, acume, vitalità e un certo modo educato e rispettoso di stare al mondo, a prescindere da quello che abbia nelle mutande o sulla sua carta di identità.
Il cervello e il corpo non sono dissimili: entrambi sono fatti per cercare la gioia e possono trovarla ovunque.
Come la si trova al palato, amando pasta e fagioli e astici, vino rosso e birra, polpo e bistecche.
Un Paese che deve ancora discutere di chi è cosa, di chi si senta cosa e di che diritti debbano discendere da questo incasellamento, è un Paese morto.
La senatrice che ieri ha sostenuto che se Dio ci avesse voluti intercambiabili ci avrebbe concesso di cambiare sesso a nostro piacimento, mi ha stupita per la banalità della considerazione: a quale Dio, creatore del Cielo e della Terra, degli ermafroditi, delle anomalie genetiche e di tutte le cose visibili e invisibili, dei vulcani e delle tempeste, degli Oceani e dei ruscelli, del Baobab e del filo d’erba, potrebbe mai interessare una simile questione parlamentare?
articolo pubblicato sulla pagina facebook dell’autrice

Overbooking: Luca Ricci

0

Come se l’inverno esistesse davvero

Brevi note su “Gli invernali” di Luca Ricci (La Nave di Teseo, 2021)

di Matteo Pelliti

Il terzo pannello della “quadrilogia della stagioni”, che Luca Ricci sta scrivendo per La Nave di Teseo, è da pochi giorni in libreria. Dopo Gli autunnali (2018) e Gli estivi (2020), Gli invernali arriva, seppur in autunno, a raccontarci una giornata intera di un inverno romano, cioè la “caricatura” dell’inverno, di una città vinta dall’umidore mediterraneo, per dirla con Manganelli (autore evocato nei dialoghi del libro, a volte esplicitamente, a volte implicitamente per via lessicale, vedi le occorrenze di “losco”) in un “romanzo corale” cucito da pochi interventi del narratore onnisciente (lo stesso che ci aveva congedato negli Autunnali), spettatore con noi di un teatro d’interni, scene da matrimoni, da salotti, da caffè, in fitti dialoghi di anime disperatissime appartenenti al mondo del “terziario culturale”, a coprire quasi l’intera filiera del libro: lo scrittore in crisi, l’editore indipendente sull’orlo del fallimento, e le rispettive consorti, ufficio stampa precaria e giovane accademica messa in cattedra per via parentale, la scrittrice sul viale del tramonto, il critico temuto e megalomane e suo ex marito, la scrittrice di rosa bestseller che vorrebbe il riconoscimento della critica, il suo agente letterario rampante (e suo amante), e il di lei marito manager dilettante autore di aforismi para-flaianei da spendere in società, l’aggressivo scrittore esordiente in attesa della prima recensione al romanzo d’esordio, e toyboy della scrittrice sul viale del tramonto. Non sono caricature, non più di quanto sia già caricaturale di suo, in larghi tratti, la realtà che trasporta in pagina.

È un romanzo totalmente autoreferenziale, parla di uno scrittore in crisi creativa, figurati.

I personaggi di Ricci non hanno alcuna pretesa di “naturalismo”, sono maschere, funzioni, tipi, archetipi, figurine, addirittura si scelgono un nome d’arte (come il critico megalomane Carlo Offenbach) si muovono nella vita nella consapevolezza, o nel tentativo, di essere personaggi di se stessi. Eppure, proprio per questa loro natura volatile, letteraria, somigliano terribilmente a persone in carne ossa che ognuno di noi può avere incontrato: caratteri che, proprio negli estremi dei loro profili psicologici, timidezze, nevrosi, sbruffonaggine, dispercezioni di sé, risultano incredibilmente credibili, umani. Fastidiosamente familiari. Se c’è un tratto permanente nella poetica di Ricci è questo condurci su un baratro che ci guarda e lì specchiarci con timore: nel conformismo delle relazioni, nelle aspirazioni velleitarie, nelle livide invidie di carriere decollate o interrotte, o mai davvero decollate e mai davvero interrotte.

“Intendevo dire che l’amore social viene consumato rigorosamente a parole. Siamo tutti l’analista a parole di qualcun altro”

Le coppie sono protagoniste degli Invernali e i suoi componenti (Tommaso+Veronica, Antonio+Glenda, Tommaso/Antonio+Petra, Eugenio+Camilla, Camilla+Gianfranco, Nora+Nanni/Nora+Carlo) hanno dinamiche satellitari: c’è sempre un pianeta e un suo satellite, e questi ruoli misurano le forze gravitazionali che li tengono uniti: sesso, potere, gratificazione, narcisismo, fedeltà, infedeltà, paura. Ricci scrive, da sempre, di relazioni di coppia, cioè di conflitti. L’amore è, per Ricci, la forma più articolata di conflitto.

“Solo la carne sa certe cose,” disse Eugenio rimasticando le parole di Camilla. “Sai che è una frase perfette per una quarta di copertina?”

E le donne? La cancel culture? La denuncia del nuovo maccartismo del politicamente corretto? E Weinstein? E la misoginia? Il patriarcato? E il maschio bianco ricco? Sì, sono tutti temi che troverete ne Gli invernali ma io non sono un recensore capace di affrontarli adeguatamente, e me ne scuso.

La recensione ideale a un libro di Ricci, infatti, per me, dovrebbe essere composta solo da frasi estratte da un libro di Ricci perché, come nel plastico di Shining, il recensore si trova in ogni istante “guardato” dal testo di cui cerca di raccontare qualcosa del testo stesso. Elogi o stroncature (È un brutto libro! Capolavoro!) sarebbero sempre, punti esclamativi inclusi, materiali meta-testuali; ne risulta che i suoi libri sono oggetti sfuggenti, quando si cerca di afferrarli con strumenti che non siano essi stessi ibridi e letterari (filosofici, narratologici, antropologici forse). L’ossessione per la scrittura tramite la scrittura di ossessioni è la traccia, la voce, propria della letteratura ricciana.

L’identità di un artista non risiede nella vita ma nell’opera e solo nell’opera, spiegò con puntiglio. “In fondo che ne sappiamo di Omero? Lo consideriamo il fondatore dell’epica classica e questo ci basta.”

La critica feroce alla nuova vita social degli scrittori – cui non si sottrae lo stesso Ricci – è uno dei pezzi formidabili e più memorabili del libro. Una invettiva del giovane autore esordiente Nanni, che centra tutti i tic dell’auto-rappresentazione di sé, di chi scrive, on line. Ma voi ce lo vedreste Landolfi, sia detto per inciso, che pubblica un selfie mentre firma un contratto d’edizione? O Parise che mette una foto del dattiloscritto che ha appena finito di comporre? O Manganelli che mette su Instagram un foto del suo pranzo? Qualcuno potrebbe dire che non possiamo saperlo, e che ogni tempo ha i suoi sistemi di autorapresentazione. E però…altri mondi, altri tempi, altra serietà, altra consapevolezza di sé, altri contegni…

No che non è da me! I giornali sono pieni di critici che fanno il riassunto della trama dei libri spacciandoli per una recensione.

Ricci istituisce sempre, per i suoi lettori, rapporti di parentela diretta tra i suoi libri, le sue storie, i suoi personaggi. Vedi il caso del murales a trompe-l’oeil nella casa nuova di Veronica e Tommaso, che proviene direttamente (come una specie feticcio abitativo alla Poe, metafora persistente del rapporto tra realtà e finzione in letteratura) dal libro del suo esordio einaudiano (vedi qui). Oppure lo schema del rapporto tra scrittrice e critico coniugati, di Nora e Carlo, che è figlio di un analogo rapporto di coppia “perverso”, pigmalionesco, il racconto di Olga Merlin (da “I difetti fondamentali”). L’apprezzamento maggiore che possiamo rivolgere a Ricci è quello di scrivere con ostinazione lo stesso libro da quasi vent’anni. In questa sua dedizione sta la cifra stilistica riconoscibile, la riconoscibilità del suo timbro letterario.

Tu leggi una riga di Kafka e hai letto tutto Kafka, una riga di Bernhard e hai letto tutto Bernhard, una riga di Manganelli e hai letto tutto Manganelli. Solo gli scrittori mediocri hanno bisogno di essere letti fino alla fine.

Mentre leggevo il monologo di Carlo Offenbach contro le terrazze romane, ho dato un’occhiata alla home page di Facebook, e mi è apparso un post di Carlo Verdone che magnificava la vista da una terrazza romana, sorrentiniana quindi, vista Colosseo. Sorrentino pare il correlativo cinematografico di alcune pagine di Ricci, di certi suoi monologhi urticanti (il molto citato, sui social, frammento della Grande Bellezza in cui Jep Gambardella “sbugiarda” la scrittrice “di sinistra” non è un frammento perfettamente ricciano?) così come Dino Risi lo era per Gli estivi. Ma resiste ancora l’immaginario di Risi anche in questi anni venti del nuovo secolo. Quando Ricci parla dello Strega, e della cena dalla vedova votante che incorona ogni cinque minuti un suo candidato diverso, come non pensare alla satira dell’episodio “La musa” (ne “I mostri, 1963), con l’inarrivabile Gassman truccato da presidentessa toscana del premio letterario? Copio da Wikipedia il riassunto: “La giuria di un concorso letterario cede alle insistenze caparbie e alle motivazioni circostanziate della sua presidentessa e assegna il primo premio a un autore sconosciuto e di scarso talento che si rivelerà essere l’amante della presidentessa stessa.” Non sembra anche questo un perfetto racconto “alla Ricci”?

L’inverno a Roma non ce la fa a costituirsi come una stagione autonoma, è solo il funerale dell’autunno, le foglie rimaste sui rami sono incartapecorite, quelle a terra imputridiscono.

Roma non ha gli inverni di Milano, non ha il colore del buio di Milano (e mi ero permesso infatti di titolare “Gli invernali, capitolo primo”, una mia lettura del suo precedente e riuscito racconto “Trascurate Milano” (vedi qui). Quindi non è corretto dire, a mio modo di vedere, che Roma si protagonista de Gli Invernali (almeno non nel senso in cui lo era ne Gli Autunnali, vedi qui). Qui si “gira” in interni. Interno giorno, interno notte, sarebbero le ambientazioni dei capitolo/racconto che scandiscono il romanzo. Qui Roma si apparta, rimane fuori fuoco, è ciò che consente che le passioni dei protagonisti si intreccino ma non è propriamente coprotagonista di quelle passioni. Le terrazze romane stanno aperte, all’unisono, da maggio ad ottobre.

In realtà a Roma le quattro stagioni non sono che modulazioni di un unico elemento che è l’umido. Così abbiamo l’umido ghiaccio per l’inverno, l’umido allergico per la primavera, l’umido torrido per l’estate e l’umido umido per l’autunno.

Con Gli Autunnali Ricci aveva detto, almeno implicitamente, “Se proprio volete un romanzo ve lo scrivo, anzi ve ne scriverò quattro!” Con quella spavalderia (quella che spesso manca alle donne…) tipica del “maschio bianco”, di più, del giocatore di poker che rilancia, al buio. Con Gli estivi, però, la formula, una volte entrato nel gioco-romanzo come un cavallo di Troia pieno zeppo di racconti, ha preso la strada di una proliferazione dei generi dentro la forma stessa del romanzo. Un romanzo play-list di stili. Negli Invernali, oggi, viene esplicitata l’esplosione della forma romanzo, ormai sformato dal mercato editoriale, approdato a mera didascalia in copertina. Romanzo è quel che tu metti dentro una confezione con su scritto “Romanzo”.

“Che tutto quello che non ha spiegazione, che è inammissibile e incomprensibile riguardi la letteratura”

La confessione (a pag. 227, indico il punto per futuri recensori pigri ) dove Ricci ha l’impudenza di mettersi in coda, autocitandosi (fotogramma in cui Hitchcock appare nel film) in coda nientemeno dopo “Boccaccio, Sacchetti, Basile, Verga, Ricci” rivela che quello che abbiamo in mano è una raccolta di racconti, un “concept album”. Ancora una volta viene evocato Manganelli, vero fantasma protettore de Gli invernali, nume, e i suoi Piccoli romanzi fiume.

Nessuno qui sta dicendo che la letteratura deve essere un manifesto politico, ma solo che deve abbracciare il proprio tempo, cercare di raccontarlo.

Ricci è nato in inverno, questo sarà evidente a ogni lettore che prenderà in mano questo suo libro. Non si sfugge all’inverno come non si sfugge alla propria nascita, all’essere gettati nel mondo. Ricci nasce forse come scrittore “invernale”, poiché anagraficamente invernale. Allora “essere l’inverno” è afferrare la piena consapevolezza del proprio destino di scrittore, come fa l’esordiente Nanni nelle righe finali del libro. Ed è bello rivedere in quelle righe una specie di congedo affettuoso del Ricci autore – oggi pienamente realizzato e maturo, padrone dei suoi mezzi – al Ricci scrittore esordiente di vent’anni fa. Per questo Gli invernali custodisce al suo interno, certo rivestita dalle molte battute fulminanti dei dialoghi, un’umbratile dolcezza dolente, ed è questa che, in fondo, rimane al lettore una volta chiuse le pagine del libro.

Stare in quel profumo, essere l’inverno.

(Scritto a Pisa, tra il 28 e il 29 ottobre 2021)

La città nera

0

di Shi Heng Wu

La città nera, la città spettrale scorreva tra le maglie della rete corazzata che proteggeva i vetri dell’auto n. 31 della Polizia Metropolitana di Roma.
Il sergente Antonio Draghi osservava distrattamente le torri di cristallo annerite da strati di fuliggine solidificata, i profili frastagliati dai viticci dell’edera gigante, la pianta infestante dalle foglie nere, spuntata chissà quando e perché, forse per effetto di una mutazione genetica. Per la verità aveva un lungo nome latino, ma tutti la chiamavano così perché le foglie ricordavano quelle dell’edera, benché grandi circa il doppio. Alcuni palazzi avevano i vetri rotti, altri erano tamponati con fogli di plastica o tavole di legno. Qualche rivolo di fumo fuoriusciva da feritoie senza luce, come buchi neri di denti mancanti in vecchie bocche ghignanti. Probabilmente qualche vagabondo che si era accampato in uno dei palazzi abbandonati. Nei palazzi abbandonati, visto che gli unici abitati erano nei Settori 1 e 2, i quartieri residenziali con le poche banche in attività, gli edifici governativi e gli alberghi e i ristoranti ancora aperti. Il resto era terra di nessuno, deserto di acciaio e cristallo e cemento armato ammuffito.
L’auto procedeva lentamente sull’asfalto sbrecciato, crivellato di buche, schivando ostacoli, cumuli di spazzatura, oggetti sparsi, carcasse di auto abbandonate in mezzo alla strada. Ogni tanto l’agente Ridolfi, l’autista, detto Rudolf, bestemmiando appoggiava il muso dell’auto a una carcassa e accelerava per spostarla. L’auto n. 31, come tutte le vetture di servizio, aveva paraurti rinforzati con lamiere in acciaio, gomme a ottantaquattro tele con reticolato di rame in grado di resistere a tutti i tipi di chiodi o vetri, portiere e rottami.
“Ehi guarda” disse Rudolf, rallentando. “Vado a vedere se c’è qualcosa di buono.”
L’auto si fermò e Rudolf scese stancamente, stirandosi. Erano in auto da quattro ore, di pattuglia. Rudolf piegò i possenti bicipiti coperti di tatuaggi, ruotò il collo taurino, fece un paio di flessioni sul cofano. Antonio lo fissava, ammirato per la sua prestanza fisica, malinconico per la sua forma andata al diavolo. D’altro canto la forma bisognava coltivarla con la ginnastica, il nuoto, mentre lui negli ultimi anni si era lasciato andare. Inutile lamentarsi. Se voleva recuperare l’antica potenza, l’agilità del lottatore che era stato, doveva darsi da fare.
Rudolf si incamminò verso il piccolo mercato. Antonio non ricordava la presenza di un mercato in quel quartiere. Era uno dei tanti assembramenti di bancarelle improvvisate che si spostavano per la città. I poveri contadini dell’esterno che entravano aggirando i posti di blocco per vendere i pochi prodotti che la terra morente riusciva ancora a offrire.
Lo osservò gesticolare, assestare una pacca sulla schiena a un uomo alto e magro, con un grande cappello che lo faceva sembrare un gigantesco fungo. Accanto alla bancarella due bambini seduti a terra giocavano con un oggetto di forma allungata, forse un ramo d’albero secco. Rudolf tornò camminando a grandi falcate. Reggeva due sacchetti, uno per mano, come trofei.
“Guarda un po’, uva! Ti rendi conto? Da quanto non ne mangiavi, eh?”
Antonio prese il sacchetto e l’aprì. Dentro c’erano due piccoli grappoli con gli acini scuri, duri, asprigni, eppure l’inconfondibile aroma gli riempì piacevolmente la gola.
“Mah, saranno tre, quattro, cinque anni, chissà” disse, sputando un seme dal finestrino abbassato. “Li hai pagati?”
“Eh?” fece Rudolf, infilando una mano nel sacchetto.
“Ho detto, li hai pagati?.”
“Ma sì, gli ho dato un po’ di soldi dai.”
“Quanto? Quanto li hai pagati?”
“Cosa? Ma che vuoi dire?”
“Dico, sei sordo? Quanto-li-hai-pagati?”
“Ma che ti prende? Gli ho dato cinque euro.”
“E quanti te ne aveva chiesti?”
Rudolf restò un attimo in silenzio con la mano nel sacchetto. “Dico, ma che hai, si può sapere? Voleva quindici euro, voleva. Ma ti pare, quindici euro a quel tipo.”
Antonio tirò fuori il portafogli e contò dieci euro. “Adesso torni là e gli dai il resto.”
Rudolf girò la testa di scatto e lo fissò duramente. I grossi orecchini che pendevano dai lobi oscillarono. Poi lo sguardo si addolcì, si abbassò. “Dai Antonio, sei impazzito? Gli è anche andata grassa, se c’erano i neri gli mollavano due sberle, oppure spaccavano tutto, dopo avergli sequestrato la merce. Lo sai che i mercati sono illegali.”
“Noi non siamo la Guardia Pretoriana, ricordalo. E poi in questa città tutto è illegale. E tutto è permesso.”
La Guardia Pretoriana, le guardie nere, il corpo speciale fondato dal Sindaco Fioravanti trent’anni prima come guardia personale, pensò Antonio, un esercito di razziatori che prendevano tutto gratis, merce, soldi, ingressi nei locali, e chi non voleva pagare si ritrovava con la testa rotta, o bucata da una pallottola nella nuca.
“Rudolf, fila a portargli i soldi e non discutere.”
Rudolf sbuffò. Appoggiò il sacchetto sul cruscotto, prese i soldi e scese stancamente dalla macchina. Antonio lo osservò camminare a gambe larghe fino alla bancarella, voltarsi indietro, porgere i soldi all’uomo, che li accettò con un profondo inchino. Tornò a testa bassa, come un toro arrabbiato.
“Andiamo ora. C’è un omicidio, e noi ci fermiamo a comprare l’uva.”
“Un omicidio!” esclamò Rudolf ridendo.
Già, un omicidio. C’erano omicidi ogni giorno, la maggior parte dei quali non venivano denunciati. La città era piena di gente senza nome, senza identità, a chi importava se qualcuno spariva?
“E accendi la sirena, siamo un’auto della polizia” disse Antonio con tono piatto.
“Uh” fece Rudolf, spingendo il pulsante. La sirena partì mentre l’auto imboccava il ponte sul Tevere. Il fiume, ormai secco, a parte un rigagnolo di acqua melmosa che scorreva sul fondo, era invaso da una fitta vegetazione, boscaglia, grovigli di edera, mucchi di rifiuti e di macerie.
Imboccarono una strada senza nome, perché nessuna strada a Roma aveva un nome, fiancheggiata da file di negozi abbandonati, con le vetrine sfondate, le serrande strappate. Un colpo secco, che fece vibrare l’auto, segnalava che qualcuno aveva lanciato una pietra, o un pezzo di metallo.
“Merda” sibilò Rudolf. “Se li becco gli sparo in bocca.”
Dovresti sparare in bocca a decine di persone, pensò Antonio. Ed erano fortunati che ancora non avevano lanciato un razzo. Ma quello era un periodo tranquillo. Recenti retate delle guardie nere, che avevano fatto sparire centinaia di persone, avevano svuotato gli arsenali delle armi clandestine, quelli dove si riforniva anche la Resistenza. Sempre che fossero combattenti quelli che lanciavano le cose o sparavano alle auto della polizia. Molto più probabilmente erano cani sciolti, sbandati.
“Laggiù!” esclamò Rudolf rallentando, e indicò il marciapiede sul lato opposto. Due tipi stavano pestando un uomo appoggiato al muro, che si copriva la testa con le mani. Usavano i pugni, i calci, uno aveva un bastone.
“Che facciamo?” disse Rudolf fermando l’auto. Già, che fare? Se avessero dovuto intervenire ad ogni rissa, rischiando di beccarsi una pallottola dum-dum di .22 che passava i giubbotti antiproiettile, la loro carriera avrebbe avuto breve durata. Eppure era proprio quella la loro attività principale di poliziotti di strada: sedare risse.
Antonio aprì la portiera, scese dall’auto col mitragliatore D-16, col lanciagranate, e sparò una raffica in aria. Intanto Rudolf azionava l’altoparlante e urlava: “Circolare! Circolare!” I due tipi, vestiti di vecchi giacconi impolverati, uno senza calzoni, con le gambe nude che finivano in un paio di scarponi neri, guardarono l’auto. Facce annerite, barbe ispide. Antonio puntò il mitragliatore. “Circolare!” urlò Rudolf. I due se la diedero a gambe. L’uomo appoggiato al muro si riprese, guardò a sua volta verso di loro e fuggì nella direzione opposta. Antonio risalì in auto e ripose il D-16 sul sedile posteriore.
L’auto ripartì, svoltò a destra e imboccò la rotonda di una piazza, quasi interamente occupata da rottami di auto e camion. C’era addirittura una grossa barca, una specie di yacht con la chiglia sfondata appoggiato in cima a una montagna di auto bruciate.
“È qui che c’era il Colosseo, no?” chiese Rudolf.
“Boh” disse Antonio. “Così dicono.”
Sì, quella era stata la piazza del Colosseo. Antonio aveva visto le vecchie foto del monumento della Roma antica, quando la piazza era grande il triplo, e le auto circolavano. E anche i pedoni, e c’erano negozi, uffici, i carretti coi cavalli per i turisti. E i vigili urbani col cappello bianco. Ora la piazza era di forma quadrata, circondata da palazzi che formavano gigantesche palizzate di acciaio e vetri, priva di traffico, come tutte le piazze e le strade della città, dove circolavano unicamente le auto della polizia, della Guardia Pretoriana, le limousine corazzate dei ministri e degli alti funzionari, qualche taxi. Un ragazzino stava seduto su un vecchio carretto trainato da due donne, una anziana, e un uomo. Sopra si vedevano dei sacchi di juta, pieni di chissà cosa. Qualche figura camminava furtiva, ombre che si tenevano ai margini dei palazzi, pronte a eclissarsi nelle strade laterali. Un uomo conduceva tre capre, piccole, scheletriche. Aveva un fucile da caccia a tracolla, per proteggere quel bene prezioso. Poco lontano un gruppo di persone bivaccava sul marciapiede, con un fuoco acceso. Ora il Colosseo, si diceva, era nel parco dell’immensa villa del Sindaco Fioravanti, sulla costa. Tutti i monumenti antichi del resto erano spariti, smontati e rimontati nelle ville dei gerarchi, o venduti all’estero. Per fare pulizia, si era detto. Per togliere di mezzo quei mucchi di pietre inutili e fare posto al progresso e allo sviluppo.
“Direi che siamo arrivati” disse Rudolf.

NdR: questo testo è il primo capitolo de “La citta nera”, di Shi Heng Wu, pubblicato recentemente da Fanucci (che ringraziamo)

 

Il cielo per Roma – l’ipercalisse ilarotragica di Mariano Bàino

1

di Daniele Ventre

“Chiamatemi Chiaffredo. Ma non chiedetemi il perché…”: così si inizia, con richiamo evidente all’Ismaele del Moby Dick, il nuovo romanzo di Mariano Bàino, Il cielo per Roma, ed. Exorma 2021, ed è subito ironizzazione della forma narrativa par excellence, deformata in uno dei suoi modelli archetipici, secondo i principi di corrosione decostruttiva a cui l’autore di opere come L’uomo avanzato, In (nessuna) Patagonia e Dal rumore bianco ci ha già abituato da tempo. L’avvocato Chiaffredo Buffaldieci Guastella, narratore in prima persona e protagonista dal comico nome composito, fra il Buffalmacco di boccaccesca memoria e il Guastella di filosofica tradizione, è tuttavia, inevitabilmente, un Ismaele à rebours. È personaggio e avatara di una condizione metafisica, come l’Ismaele melvilliano, ma la sua vicissitudine è calata nella post-istoria, dietro una parvenza opaca da oscuro avvocato romano, a cui poco si adattano gli austeri nomi del mythos biblico. Eppure, dietro la maschera resurretta, di una resurrezione anch’essa comica e priva di qualsiasi dignità epocale da re sacro, di Chiaffredo, si nasconde niente meno che Sinesio di Cirene, neoplatonico privato e pubblico cristiano, vissuto ai tempi di Ipazia di Alessandria e degli ultimi rossi bagliori di tramonto del tardo-antico. Sinesio è rimandato sulla Terra, nella notte nebulosa del post-moderno, come angelo improprio, apprendista dalle ali ancora in bozza, a indagare sul giallo metafisico del potenziale affioramento dell’Anticristo, e sulle tracce della conseguente apocalisse prossima ventura, di cui è già segno patente il manifestarsi di una misteriosa pandemia-infodemia, il morbo di Farlock, o Morfar 19, sprigionatosi non si sa da dove, per improvvida ricombinazione genomica, fra virus polmonari, virus informatici e notizie virali in internet. Fedele alla visione orfica, pitagorica e (neo-)platonica della caduta dell’anima nel corpo, prono alla natura discenditiva dell’uomo di manganelliana memoria, Sinesio, già avvezzo, nella sua vita precedente, a una linda compostezza di elleno tutto d’un pezzo, precipita sulla terra, nel corpo mal tenuto di Chiaffredo, in séguito alla dolorosa ierofania impostagli da quell’improbabile capo dei Servizi Segreti Angelici che è Kontrollo, il quale opera, ormai paranoicamente da solo, dal medio-alto dei cieli, per conto di un Deus talmente otiosus da essersi del tutto ecclissato.

Avviatosi passibus incertis, e con non troppa convinzione, alla sua pre-apocalittica indagine sull’identità della Scimmia di Dio, Sinesio-Chiaffredo, da principio ammaccato nel corpo e in quello spirito non più puro che è ormai ri-divenuto, lungo tutto il suo percorso di inchiesta solo per metà fisica si produce di continuo in sofferte dichiarazioni di amekhanía cognitiva, cioè di sostanziale inabilità a “chiarire le cose in un senso o nell’altro”, così che l’indefinitezza nominativa dell’esordio neo-melvilliano si dipana in ironica trasformazione prosastico-narrativa del “non chiederci la parola” di tradizione montaliana. Chiaffredo, istruito sull’involuzione del nostro tempo e sulle sue follie tramite una sorta di corso accelerato oltremondano, durante il quale è rimasto ingabbiato, per un bel segmento di oltre-vita, in una mirabile capsula del sovra-tempo, nella stessa condizione di Alex in A Clockworck Orange, si aggira fa spaesamento e straniamento nel mondo della post-verità. Se peraltro si considera che l’indagine verte sul punto di innesco dell’apocalisse, che tecnicamente, dal punto di vista etimologico (apo-kálupsis) è il disvelamento escatologico del divino alla fine di tutto, l’impotenza sistematica di Sinesio-Chiaffredo a rivelare alcunché crea, nel sottofondo, un contrappunto inquietante all’atmosfera ludica che il gioco dello stile di Mariano Bàino continuamente produce, così che ci troviamo di fronte a una sorta di nuova ipercalisse, termine già foscoliano, che qui va riesumato e riadattato, a partire dalla sua effettiva valenza originaria di offuscamento/oscuramento completo e definitivo. Il lettore, accompagnato com’è dal narratore interno, si aggira insieme allo spaesato Sinesio-Chiaffredo in un mondo lasciato alla deriva destinale di una fine oscura, senza illuminazioni trascendenti a lacerare il velame dei cumulo-nembi dell’epoca. Condotto per mano a immedesimarsi con Sinesio-Chiaffredo e la sua duplicità ontologica, da un narratore anch’esso ontologicamente duplice per vocazione strutturale (ben si potrebbe parlare di Bàino-[Sinesio-]Chiaffredo), il lettore vive così una vita ibrida, liminare rispetto ai confini della narrazione, man mano che alla narrazione si fa intrinseco, tanto che al culmine della vicenda il narratore interno lo evoca dal diaframma della pagina, provocandolo e onorandolo dell’appellativo nobiliare di Sua Grazia, unico lettore possibile di una letteratura anch’essa sentita, dal suo creatore, sempre più liminare e limitanea -e in questa evocazione del Lettore-Sua Grazia l’autore si diverte a giocare con la tradizionale modestia manzoniana dei venticinque lettori, riducendoli a due occhi leggenti, che con tutta probabilità si riducono ulteriormente a quelli aperti sulla fronte di un unico individuo, personaggio ai confini della diegesi, essendo alquanto inverisimile l’incontro dell’opera con due lettori entrambi guerci. La provocatio ad lectorem diviene pagina dopo pagina così stringente, che il leggente, alla fine, si vede costretto a intervenire nell’opera, materializzandodsi in un comico capitombolo proprio addosso a Chiaffredo, che sgomento se lo ritrova fra i piedi, come inopinato personaggio aggiuntivo e aiutante indesiderato.

Nel terrifico e ilare percorso della sua inchiesta, Chiaffredo-Sinesio si imbatte, e si dibatte, in un narrato tragicomico dell’assurdo, disseminato di improbabili personaggi, a cui la pirotecnia e la polifonia stilistica dell’autore offrono spessore e consistenza. Lo stesso Sinesio-Chiaffredo appare anzitutto connotato da una lingua limpida, intellettualistica, costellata di esclamazioni rievocative di personalità trascorse della filosofia e della scienza antica (“per la barba di Ippia maggiore!”, “per la barba di Seleuco di Seleucia!”), esternazioni interiettive in cui l’emotività si fa celebrale riargomentazione filologica; rende quanto mai forte la costruzione letteraria di questa prodigiosa persona loquens, il suo doppiofondo esistenziale e storico, fra il ricordo del suo amore per Ipazia di Alessandria e la progressiva e faticosa presa di possesso del nuovo corpo, quello di un avvocaticchio-spia-killer improvvisato ai margini dei sotterranei vaticani. Ancora più eclatante è la caratterizzazione di personaggi come il beato Benicio Aparecido Pereira Rodrigues, figura di santone e profeta custode occulto del nome dell’Anticristo, che si cela dietro uno dei due papi della Chiesa, il regnante Materno I e l’emerito Gregorio XVII, maschere nominali ominose i cui volti i lettori riconosceranno facilmente. La lingua di Benicio è una trama dirompente di voci dialettali italiote di varia provenienza, mescidate a improbabili morfemi e lessemi di sapore brasiliano, a definire una sorta di incrocio satirico fra l’immaginetta di Padre Pio e figure di paragnosti sudamericani à la Chico Xavier. Né manca la figura di una femme fatale, Matilda, il cui ambiguo posizionamento nella trama ne fa un carattere di giunzione sui torbidi confini fra bene e male in cui Sinesio-Chiaffredo, nella sua duplicità, si avventura.

Lungo la vicenda, in cui i “fatterelli” si giustificano in virtù della tramatura stilistica, vera forza portante della narrazione, due presenze, il Deus otiosus di incerta sussistenza, sullo sfondo di una fragile eternità, e il diavolo, agiscono come parametri di definizione delle forze in campo. Abbiamo in realtà già accennato al fatto che in nome del Deus otiosus agisce Kontrollo, una sorta di capo dell’intelligence metafisica, a cui si contrappone l’Avversario, il diavolo, che a metà del romanzo intreccia con il narratore interno un inatteso dialogo meta-letterario di sapore solo esteriormente bulgakoviano. Il problema alla base dell’ipercalisse di Bàino è appunto questa latitanza dell’assoluto, il Triperuno folenghiano e sanguinetiano, opacizzatosi come il Metatron, il suo cabalistico e talmudico angelo portaordini. Il Triperuno è deliquiato nell’incertezza, tanto che il Figlio, e lo stesso Kontrollo, non sanno più se indossano “corone di spine o corone di carnevale”. Altrove, nel pensiero di Sinesio-Chiaffredo, si allude “a Dio, come a un diomorto macerato in decomposizione. Un dio-budino dall’odore grasso e dolce”. Assistiamo alle beghe di un retroscena spirituale e figurale oltremondano della Storia ridotto a commedia non più così divina, mentre la Storia stessa assume un’aura da autunno del media-evo, e forse dell’umanità, a cui non esiste risposta e per cui non si trova senso, ma solo il possibile sfociare in una granitica nulleternità. Su questa prospettiva della nulleternità si centra il nucleo della narrazione, così come si legge nella scena centrale dell’abboccamento fra Bàino-[Sinesio-]Chiaffredo e il diavolo, un escerto narrativo che da solo meriterebbe lo status di opera a sé, dialogo lucianeo e luciferino sul senso del fare letterario, oltre che dell’esistenza e del suo orizzonte. In questo momento centrale emerge la condizione stessa dell’autore, rispetto alla sua opera e allo stile: “…Questo stile” (esclama il diavolo) “mi sembra un diavolo di stile… Eh eh! Lo stile è il diavolo…” Tentazione dopo tentazione, il diavolo dello stile consegna così a Bàino-[Sinesio-]Chiaffredo e per suo tramite al lettore-Sua Grazia, gli occhiali di un nuovo sguardo sul mondo, il gioco dell’ottico di Edgar Lee Masters, ma anche la teoria critica secondo la metafora di Althusser: gli occhiali per osservare il mondo secondo un’ottica specifica. Lo stile, principe di questo mondo e sostituto improprio degli assoluti, offre al lettore questo servizio e lascia a chiunque si sia cimentato nella lettura de Il cielo per Roma, la capacità di contemplare con sorridente ironia l’andare a rotoli dell’universo: l’inganno più onesto del disinganno, l’ingannato più saggio di chi non si lascia ingannare, assunto nella paradossale accettazione di un filosofo neo-platonico in parodia. Questa gaia scienza deve il lettore, che non sarà mai abbastanza riconoscente, agli occhiali e allo stile di Mariano Bàino.

Scrivere l’assenza: Filippo Polenchi, “Figlio fortunato”

0

di Andrea Dei Castaldi

In una scena memorabile de Lo specchio, film di Andrej Tarkovskij del 1975, due improvvisi schiaffi di vento spazzano il declivio d’erba alta che separa i due protagonisti dopo il loro primo fugace incontro, due folate che raggiungono lo spettatore come l’onda d’urto di una deflagrazione avvenuta a molti chilometri di distanza, o su un diverso piano di realtà. La misura tra i due movimenti – l’incontro e la separazione – è colma di vuoto apparente, e il presente narrativo si carica del peso di ogni futuro possibile e immaginato, di ciò che non è o non è ancora, ma anche di ciò che potrebbe non essere mai. È in fondo una delle più cristalline rappresentazioni di un’assenza, dolorosa e insieme vitale. 

La materia di cui è fatto Figlio fortunato, romanzo d’esordio di Filippo Polenchi – uscito di recente per i tipi di 66thand2nd –, appare fortemente affine a quei pochi magistrali secondi di sospensione: qui l’onda d’urto si palesa nelle minime increspature della trama e nei sommovimenti interiori dei singoli personaggi, primo fra tutti il protagonista Giona Caligari, trentenne sradicato e disilluso che si lascia alle spalle Roma e il sogno di diventare regista, mentre la – terribile – deflagrazione è la morte di un ragazzino, il giovane Elio Lavatori, nel giorno del suo undicesimo compleanno. È lui il “figlio fortunato” di Anapola, paese di una provincia ripiegata su sé stessa a difesa delle proprie radici rurali, ormai esili, contro fantomatiche invasioni cinesi, speculazioni edilizie e lottizzazioni selvagge, che proprio alla famiglia Lavatori ha sempre destinato un ruolo salvifico, quello di custode di un’identità in via di dissolvimento, e in particolare a Elio, investito fin dalla nascita di una carica quasi messianica quale ultimo erede di una dinastia di figli prediletti. La sua morte improvvisa sembra derubare l’intera comunità di ogni barlume di speranza per un qualsiasi futuro, lasciandola sprovvista di riferimenti e in balìa dei propri timori più irrazionali. Il fantasma di Elio ora si aggira privo di corpo tra una folla di corpi senz’anima, gusci vuoti incapaci di orientarsi nel buio pesto di una notte tanto inattesa. Tra questi – e non potrebbe essere altrimenti – il corpo più dolente e svuotato è quello della madre Silvia, figura di mirabile complessità e dalla sensualità disturbante, il cui spaesamento di fronte all’impensabile si traduce, nuovamente, in una forma di assenza, in un buco nero la cui forza di attrazione non tarda a intercettare la traiettoria apparentemente imperturbabile di Giona: Silvia non è più madre e fatica ormai a essere moglie, non ha più un chiaro ruolo sociale e non soggiace nemmeno agli obblighi morali di una comunità in lento disfacimento. Il suo incontro con Giona ha la natura inevitabile e brutale di una collisione, la carica elettrostatica di due corpi senza equilibrio. Esemplare il dialogo tra i due in una stanza di motel, una conversazione tra sordi la cui sola urgenza è quella levarsi di dosso e di dentro il peso dei propri fallimenti. Ma è proprio nelle parole di Silvia in un’altra occasione che leggiamo Giona in un lampo di chiarezza: «I tuoi occhi… Non sembrano occhi vuoti, ma solo inquieti. Mobili. Come se avessi perduto ogni punto di riferimento e cercassi di guardare in tutte le direzioni». 

Giona il regista mancato, che da sempre guarda la vita rinunciandovi, che per un attimo crede di salvare sé stesso e di restituire alle cose il senso andato perduto immaginando di fare un film sulla morte di Elio Lavatori, e che ancora una volta lascia che questa possibilità rimanga tale, volutamente inespressa: è attraverso i suoi occhi che Filippo Polenchi ci mostra il mondo, con il medesimo spaesamento e dispiegando un immaginario comune che ha senz’altro molto cinema e molta fotografia, ma anche molta America, dentro. Mentre somiglia soltanto lontanamente all’abbacinante hinterland di Guido Guidi, Anapola mostra i tratti rarefatti e le dimensioni stiracchiate di un’idealizzata cittadina rurale del Midwest, i campi coltivati a perdita d’occhio e le aree di servizio deserte di Bryan Schutmaat, i negozi sprangati, i supermercati e i parcheggi desolati di Alec Soth, i bar macilenti e i locali notturni di lynchiana memoria, la provincia di un sogno andato in frantumi osservata con la compostezza di chi non vi appartiene. E questo perché la scrittura di Figlio fortunato è guidata rigorosamente dalla visione: Polenchi dimostra di aver fatta propria la lezione di Robbe-Grillet e dei suoi compagni di avventura, ma lo scarto e il superamento della stessa sono dati dalla misura – o dall’assenza di misura, di nuovo – nel suo sguardo, che vorrebbe essere distaccato mentre è attonito, disorientato quanto quello dei suoi personaggi. E da qui deriva non soltanto l’originalità della sua voce, ma pure la sua oggettiva bellezza. Il punto di vista oscilla tra distanze siderali e adiacenze quasi osmotiche: nello stesso periodo troveremo galassie e microrganismi, pianeti e particelle subatomiche, il cosmo e l’eternità ricacciati sotto la terra smossa dei campi coltivati di Anapola. 

Dialogo assorto

2

di Antonia Santopietro

Conoscere se stessi e gli altri
è il modo più intenso di essere responsabili.
Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza: obbligandoci a valutare le conseguenze di parole, sguardi o silenzi che la fanno nascere o morire.

Eugenio Borgna

Iris, tieni la testa dritta e sostieni lo  sguardo.
Hai ragione. Non me ne accorgo.
 

Ha valore oggi ogni sua parola, anche quelle mai dette, sono intollerabili le immagini in bianco e nero che fanno pendant col pianoforte che suonava di mercoledì sera.

  Iris, dovremo far ridipingere la balaustra, ne convieni?
  Ne convengo.

Non avevo davvero saputo sostenere lo sguardo.
Le parole, a parer mio, hanno una loro predisposizione: ai sentimenti, al calcolo, alla riuscita. Le sue ambivano al rigore formale. Alla bellezza del suono, all’equilibrio della cornice su una parete damascata. Una precisione che enfatizzava con lenti movimenti della mano destra aperta a forma di lama.
Non bisogna aver paura delle parole, o meglio preoccuparsi del loro tempo, e neppure della loro vastità espressiva che può intimorirci, renderci insicuri diceva, e continuava non è affatto utile considerare un lemma arcaico, aulico o contemporaneo, la parola ha un tempo solo nell’istante in cui è pronunciata per la prima volta, poi diventa eterna eppure nuova, uguale a sé stessa.

La passione per le minuzie riguardava ogni aspetto delle nostre vite. La mia era disegnata come un’ectasia presente alla sua.
Era una relazione circolare, ma non simbiotica. Parte del mio pensiero confluiva nel suo per poi uscirne rinsaldato, inquadrato, rielaborato sulla tenuta d’insieme. Ogni fibrillazione fungeva da diapason. Le nostre esistenze fluttuavano magmatiche. Nulla mai era fuori posto, anzi ogni cosa sapeva essere esattamente al proprio posto.

Non abbiamo avuto figli, per scelta, per la gelosia di spazi che sembravano perfetti così. Credo che lui mi avesse adottata in senso paterno oltre che sposata. Facevamo parte del genere di persone che si sentivano legati dall’obbligo di un’amicizia sul limine di uno stato pseudo- amoroso.

Sei un fiore delicato, intelligente e sensibile, ti conosco da sempre, vuoi sposarmi?
Sì.

Questa condizione iniziale bianca del sentimento, oserei dire naïve, si rivelò un grande vantaggio. Nessuna attesa o pretesa, mettevano il rapporto a parte dei punti flessi della passione ma pure al riparo dalle derive di quest’ultima.

Trascorsero anni che oggi, entropicamente, posso definire in statico divenire. Affermo ciò perché la felicità è indefinibile hic et nunc, ma è sicuramente un sentimento che ha una sua affidabilità visto al passato. Possiamo o non possiamo considerare espressione di felicità precipuamente quanto abbiamo già vissuto.

Un flusso posto sul nastro di Möbius:
“la superficie può essere percorsa totalmente con continuità sia sulla faccia esterna sia su quella interna senza attraversare né il bordo né la superficie”, recita il dizionario.

In tale sintesi includo molti eventi che non riguardavano affatto il rapporto intimo con mio marito, quanto invece quella circolarità di dialoghi e consuetudini a cui accennavo.
Questa alternanza di discorsi e silenzio è una eredità d’affetti dei vivi, ricordalo sempre cara Iris.
Come dimenticarlo? Le stanze della tenuta sono custodi.

Un giorno di agosto al mattino, aprii lentamente la portafinestra del soggiorno. Speravo che il leggero cigolio, non addomesticato dai tentativi di accomodamento fatti negli anni, potesse essere meno acuto. E invece mi arrivò una sferzata di violino fin dentro le ossa.
Aveva piovuto. Il monito del grande ulivo al centro del terreno di fronte alla tenuta mi sembrava più imperativo del solito, da qualche secolo scolpito in una crosta di cielo sull’orizzonte. Il muretto a secco nella parte prossima al grande cancello si mostrava abbacinante. L’aria salmastra arrivava per gradi. Non subito, prima il profumo dei fichi poi quello dei gelsi poi l’odore della terra bagnata, poi dall’antico forno al termine della strada l’odore della legna bruciata.
Il giorno che si apriva così serafico quasi mi inquietò. Anzi, a dirla meglio, mi provocò una certa stizza. La spudoratezza della normalità che avoca a sé la saggezza tronfia. Eppure, ne ero certa, non avrei potuto notare colori, sfumature, se non fossi stata su quel nastro di Möbius da diverso tempo. Mi distolsi dalla posizione quasi immota che avevo tenuto sulla soglia, pensando al caffè, e al suo rito. Attendevo quel momento per completare l’iter di una ispirazione che stavo inseguendo da qualche mese. L’idea per un libro, un loop ogni volta riavviato, una prefigurazione ininterrotta. Quel giorno, riuscii a riavvolgere il filo una mezza dozzina di volte. Intanto mi portò il caffè.

Buongiorno Iris, dormito bene vero?
Vero! Anche tu vero? grazie per il caffè.
 

A pensarci, non avevo neppure mai imparato a dormire da sola. Eravamo tanti in casa prima di trasferirmi alla tenuta e non vi era altra condizione possibile. Fino a che questa mi divenne necessaria. La dimensione di una solitudine vissuta cercata e voluta in mezzo a molti.

Pronunciava con voce appesantita, arrochita e sbiadita, le domande del mattino: latte o senza? Zucchero? Del resto la reiterazione delle azioni quotidiane è il migliore anestetico che si conosca. A volte, ho avuto la netta sensazione che se avessi cambiato la risposta non sarebbe cambiato l’atto conseguente.
Il suo andamento flemmatico quasi indolente era commovente e allo stesso modo rassicurante, ma non mi ha mai annoiato, no. Dopotutto lo praticava in maggior parte a suo svantaggio. La misura è un’arte ma non quando si abbandona del tutto l’audacia dell’incertezza. Ha sempre ritenuto, infatti, che questa fosse un lusso eticamente condannabile. Misurare il futuro potrebbe essere un ossimoro gradevole soltanto in alcune occasioni.
Avevo imparato a lasciarlo fare e quando mi ammalavo queste sue doti affatto epicuree coadiuvavano il beneficio dei medicamenti.

Quel giorno il caffè arrivò già zuccherato e imbiancato dalla schiuma di latte. Nulla, un piccolo particolare fuori posto, a cui tuttavia si aggiunse che notai una goccia di sudore sulla fronte.
Non sudava mai da nessuna parte del corpo. Ciò che appartiene agli eventi noti fa più clamore quando deroga.
Notai anche che non prese posto sotto il pergolato per la colazione. E allo stesso tempo pensai che questa scena potesse entrare di diritto nell’alveo del mio romanzo. Ogni deviazione dal reale faceva apparire in me affascinanti tracce di finzione.

Era l’estate del 1990. Sono passati oltre trent’anni, quella leggera discrasia del quotidiano era prodromo di un cambiamento radicale.

Il caffè non aveva quasi mai un effetto tonificante su di me, anzi, a volte giusto il contrario. Mi ritrovai, forse complice il caldo ancora torrido, a riaprire gli occhi verso l’ora di pranzo, seduta sulla poltrona del soggiorno, dove mi ero appisolata con in mano il taccuino e la penna scivolata sul pavimento.

Il silenzio mi insospettì: in genere a quell’ora vi erano movimenti e suoni, anche questi noti, la macchina da scrivere, rigorosamente e orgogliosamente resistente all’invadenza della nuova tecnologia tenuta a distanza, su cui picchiettava appunti superflui – liste di approvvigionamento per lo più –, e poi le voci degli operai nella tenuta o quelle di qualche passante che percorreva la strada lì davanti, per arrivare al paese, il suono delle campane dalla chiesetta di San Rocco.

Ripresi il taccuino, la penna, e cercai l’ultimo pensiero avuto prima del sonno, per terminare la frase iniziata, ma non lo ritrovai.

Quel silenzio aveva un suo altare sacramentale. Avrebbe preso il posto della consuetudine, come un masso granitico deciso a restare per molto tempo.
Così fu.
Ero rimasta sola davvero, senza le parole, senza la musica al pianoforte del mercoledì sera. Senza le domande retoriche.
Tutto era scritto in quella goccia di sudore, anche il prezzo di quell’istante. E l’infarto che lo colse. Ancora ora mi chiedo perché non usavamo fare colazione insieme sotto il pergolato.

Per gli anni successivi, mi fu facile capire che il mio essere un’ombra avesse a che fare con la presenza di una statua di magma che distribuiva luce armonica intorno a me, un’entità buona che mi lasciava tenere un taccuino in mano mentre bevevo da sola un caffè senza zucchero o con molto latte.
Dovetti convenire, inoltre, che aveva ragione, la balaustra andava dipinta ogni anno e il pranzo era comodo prepararselo. Che dormire da sola sarebbe stato un esercizio di calma non impossibile.
Solo una cosa non ho più fatto, dopo la morte di Fausto, e per tutto questo tempo: uscire dalla tenuta.

A poche ore dal funerale, due giorni dopo quella mattina di agosto, congedati i parenti, mi venne il desiderio di chiudere tutti gli scuri e prendere pace anche io per sempre. Non potevo sapere che mi sarebbe mancato così tanto. Non potevo perché non ci avevo mai pensato. Non avevo mai avuto alcuna necessità di rappresentarmi un dopo, il presente era bastante così, chiaro e definito in quell’unico schema.
Eppure è plausibile avvertire il vuoto, adesso come nei giorni che seguirono, chiusa com’ero nella stanza illuminata dalla sola traettoria del sole che passava ribellandosi al limite. Anche la bellezza dei suoi modi, tratto distintivo di una galanteria fuori tempo, assunse il pregio di aulico ricordo. Purtroppo i colori belli scomparvero quasi subito. E tutto quello che ci aveva riguardato si impose al quadro della mia memoria solo in bianco e nero.

Tuttavia, e nonostante questo stato di cose ormai più simile all’anedonia, seppi prendere in mano la situazione, il posto di Fausto al governo dell’azienda agricola, degli affari della tenuta, per ogni cosa pratica recuperai le sue parole capitalizzandole, e soprattutto dando loro un significato concreto, fattivo.
Sapevo, per averlo introiettato in ore di assorto dialogo, che alcuni metodi erano meglio di altri nelle colture degli ortaggi, nella semina tardiva e nell’osservazione del cielo.

Tutto è avvenuto in questi lunghi anni all’interno di un grande castello orizzontale i cui spazi bianchi hanno cristallizzato il passato su una tela linda.
Un immobile attivismo, lo definirei, il mio, e se prima assomigliavo più a una asceta bambina, una lilith di confine, una sposa viziata, una scrittrice ferma all’esercizio del foglio, alla soglia dei settant’anni sento la fatica di una battaglia vinta sulla carta. Ho vissuto nella cella dorata ascoltando Rachmaninoff.
Di recente ho imparato a sostenere lo sguardo, mentre tra le mani stringo sempre il mio taccuino: non ho paura delle parole.

E con la distanza della retrospettiva posso assolutamente affermare, di essere sempre stata immensamente felice.

LETTERA AL PRESIDENTE DELLE FERROVIE

1

di Paolo Codazzi

 

Il treno con i suoi agi di tempo e i suoi disagi di spazio, rimette addosso la disusata curiosità per i particolari, affina l’attenzione per quel che si ha attorno, per quel che scorre fuori dal finestrino.

tiziano terzani

Caro Presidente,

mi conceda il tono affettuoso e confidenziale apprendendo di recente che pure lei è originario della mia terra nella quale ancora serenamente vivo, nel paese dimenticato da Dio e dagli uomini di Rocciamalumba dove, nonostante tutte queste dimenticanze, e forse per un errore o una necessità di tracciato, al tempo della costruzione della ferrovia che unisce il nostro bel capoluogo di regione con la città dove lei è nato, fu inopinatamente prevista una stazione a pochi chilometri da Rocciamalumba che avrebbe collegato alla ferrovia non solo il mio paese ma anche l’altro, Vicoperduto, distante circa cinque chilometri in cosiddetta linea d’aria, in realtà quasi venticinque chilometri di strada dissestata e tortuosa tra masserie abbandonate e campi sul quali l’aratro non ricama le sue storie da molti anni.
Il progetto, uno dei primi del nuovo Stato Unitario, fu considerato ambizioso per l’impervio territorio interessato ma, quantunque la temerarietà dell’iniziativa, realizzato nei dieci anni previsti e con risultati complessivi che ai nostri tempi non sarebbero davvero credibili per recenti e meno recenti grandi opere pubbliche. Quindi, nonostante tutto, abbiamo una stazione ferroviaria (e un capostazione a mezzoservizio con l’altra stazione di Rio Asciutto a circa trenta chilometri, in linea d’aria), dove però soltanto due, tre convogli al giorno, e nei giorni festivi il collegamento è quasi del tutto assente, sostano per i pochi abitanti che utilizzano il treno, preferendo, gli altri, la comodità dell’auto o del servizio di corriera molto più frequente sia per recarsi nel capoluogo sia per altre città della regione. Nessun altro viaggiatore osa scendere nella nostra stazione ignorando le bellezze paesaggistiche, i ruderi di un castello medioevale, la cisterna romana di una villa del secondo secolo a.C. della quale, purtroppo, è rimasta, appunto, solo la cisterna, ma che recenti indagini archeologiche hanno ipotizzato la presenza di ulteriori reperti che meriterebbero di essere svestiti dal manto di terra e detriti che li nasconde.
Tuttavia molti sono i motivi che giustificherebbero una visita turistica a Rocciamalumba o anche a Vicoperduto dove, certamente saprà, vi è un ossario dei caduti che custodisce i resti di molti giovani soldati della nostra regione per l’estremo atto unitario del nostro amato Paese, o immolati nel sacrificio in luoghi lontani della Prima guerra mondiale, o scomparsi in nazioni ignote nell’ultimo sfortunato conflitto mondiale per il quale, sostengono le statistiche, la nostra regione ha avuto il numero maggiore di morti e dispersi.
Ma non le scrivo per documentarla su notizie delle quali sarà sicuramente adeguatamente informato, la disturbo per una richiesta che a mio parere consentirebbe un minimo di attenzione ai due paesi vicini e sicuramente potrebbe tonificare la vita economica della zona notoriamente legata e vincolata dalle scarse risorse agricole e dalla quale, a ogni stagione, le corriere portano via un altro scaglione di nostri figli: alcuni per il servizio volontario di leva, altri per università lontane, qualcuno per imprevedibili opportunità di lavoro. E lei sa che un’alta percentuale di questi nostri figli per un motivo o un altro difficilmente ritorna al paese da cui sono partiti, preferendo insediarsi, a volte in condizioni di indigenza insopportabili e che nei loro borghi di origine non avrebbero subito, in località del centro o del nord dove, apparentemente, la vita è considerata migliore, mentre qui trovano condizioni di vita dignitosa molti extracomunitari naufragati sulle nostre coste o, spesso, fuggiti o espulsi dal cinismo delle grandi metropoli del nord.
Io sono uno dei pochi tornati sia dal servizio di leva obbligatorio, svolto in una città vicino ai laghi, sia dal corso universitario frequentato nel capoluogo di regione dove attualmente insegno Latino in un istituto magistrale a giovani senza fiducia nel futuro, non perché siano giovani ma soltanto perché non conoscono la speranza. Ma ogni sera ritorno al mio amato paese, dominato sulla collina dalla decrepita cattedrale che gli storici definiscono barocca con una certa presunzione in quanto la fatiscenza dell’edificio non suggerisce davvero alcun accostamento estetico, con uno di quei pochi treni che hanno il coraggio di fermarsi nella nostra stazione che come in altre parti del nostro amato Paese, in questo caso, è stata raggiunta dallo sviluppo iconografico di scritte e disegni su mura e vetri di finestre che da indagini svolte dai Carabinieri sembrano attribuibili più a soggetti di passaggio che non a opera di ragazzi del luogo.
Appunto in questa stazione, peraltro ben indicata da invisibili cartelli, di quelli azzurri con il nome della località scritto in bianco che dovrebbero consentire di verificare al viaggiatore distratto dove il treno si sia fermato, o più spesso, da dove stia transitando, oltre questi cartelli moderni di recente collocazione, con il nome non più in stampatello bensì in un corsivo di dubbio gusto (mi permetto di sottolineare), ve n’è un altro, posto in testa all’edificio pericolante della stazione (che, mi creda, caro Presidente meriterebbe opere di restauro essendo, peraltro, prezioso elemento di edilizia ottocentesca di cui restano ben pochi esemplari), di quelli, credo, in uso a partire dagli anni Cinquanta: lettere bianche in stampatello attaccate su sfondo quadrato nero, che per l’incuria del tempo e degli uomini ha perso alcune lettere della denominazione, così come molti anziani della nostra regione irreversibilmente perdono i denti. Attualmente un viaggiatore che non notasse i cartelli più recenti, il che è possibile data la loro illeggibilità anche per effetto delle ignobili scritte e deturpanti disegni, e vedesse soltanto quello, appunto, diciamo antico, leggerebbe il nome della località in Amalum.
E qualcuno lo ha letto proprio in questo senso, non avendo poi avuto il conforto di correggere il nome con la vista degli altri cartelli, oppure pensando all’antico nome di questa località giustificato, secondo fonti classiche e moderne, dalla presenza nella zona di suntuose ville di senatori romani di età imperiale, generando un inaspettato equivoco e modificando di fatto la denominazione del paese in un nome vagamente di origine latina che, mi creda Presidente, incuriosisce… e molto!
Ebbene, non lo giudichi uno scherzo, ma da quando il nome della nostra località è erroneamente letto per Amalum molti sono i turisti, diretti in altre più note località della regione, che scendono dal treno e decidono di visitare il paese, e molti di più sono coloro che ritornano in auto o in corriera, incuranti delle illeggibili segnalazioni stradali, per la stessa ragione riversando, oltre alla loro gradita presenza che ravviva le due località, un consistente ritorno economico (per usare un termine oramai in uso anche nei rapporti sentimentali, mi conceda la digressione).
I due paesi, compreso l’altro di Vicoperduto, similmente agli individui che ritrovano serenità nella vita con un intervento di rinoplastica o di chirurgia estetica, sono come risuscitati dall’oblio del tempo: molte le attività turistiche avviate anche da figli dei figli che sono tornati ai paesi di origine dopo i fallimenti della vita al Nord o al Centro e nel frattempo ulteriori scoperte archeologiche e la valorizzazione delle bellezze paesaggistiche hanno arricchito il potenziale godibile da un turista che era, e a maggior ragione lo è adesso, di notevole interesse.
Caro Presidente, a nome mio personale, come Presidente della locale Pro Loco (che associa nella sua attività promozionale entrambe le località di Rocciamalumba e Vicoperduto), e a nome degli abitanti dei due paesi, con il tacito consenso delle autorità pubbliche che avrebbero dovuto formulare questa richiesta ma che per motivi che mi sono rimasti oscuri hanno deciso di non inoltrare direttamente, le chiedo di non restaurare il vecchio cartello e di uniformare al nome attualmente leggibile di Amalum tutti gli altri e più moderni cartelli (magari con il classico stampatello), in modo che la località possa continuare a beneficiare dei vantaggi che questa inopinata casualità gli ha concesso.
Naturalmente a nome di tutto il Popolo dei due Paesi le garantisco che la collettività è disposta ad assumersi tutti gli oneri economici necessari per soddisfare la richiesta, nel caso che questo potesse essere motivo di ostacolo per l’Amministrazione da lei presieduta o per le diatribe interne alla politica locale, tese più a soddisfare esigenze di prestigio personale e non tangibili necessità delle popolazioni.
Certo che vorrà accogliere la supplica di un suo conterraneo, da Amalum, la saluto fraternamente…

NdR: questo racconto di Paolo Codazzi fa parte della raccolta “Lo storiografo dei disguidi”, edita recentemente da Arkadia (che ha gentilmente concesso la pubblicazione)

 

Etty Hillesum: rose malgrado tutto

1

di Lorenzo Orazi

I
Una fede totale nei maestri

Amsterdam, 1942: ottenere un impiego presso il Consiglio Ebraico rappresenta, per molti, la sola speranza di salvezza dai campi di lavoro; esso è “come un pezzo di legno che dopo un naufragio va alla deriva sull’oceano infinito, un relitto a cui tutti i naufraghi tentano ancora di aggrapparsi”. Hillesum ritiene deprecabile lo spintonare della comunità per aggrapparsi a quell’asse marcio, e continua: “salvare il salvabile, spingersi a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto è così indegno; e poi, questo spingere non mi piace. Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po’ sull’oceano, stese sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre”. Anche Hillesum, però, ha il suo pezzo di legno, ed è un legno fatto dei testi degli autori a cui affida la fioritura della propria anima. Così riporta un altro passo del diario: “In quel manicomio io ascolto la mia voce interiore e tiro dritto per la mia strada. Circa cento persone discutono in un piccolo ambiente, le macchine da scrivere ticchettano ma io sono seduta in un angolino e leggo Rilke. Ieri abbiamo improvvisamente traslocato a metà mattinata, tavoli e sedie ci venivano portati via, altra gente aspettava e sognava di entrare, tutti davano ordini e contrordini, anche per la sedia più insignificante, ma Etty era seduta in un angolo su quello sporco pavimento, tra la sua macchina da scrivere e il suo pacchetto di panini, e leggeva Rilke”. Sullo sfondo dello scenario più sulfureo del novecento, una giovane donna siede su di un pavimento, tra la sozzura e le grida di chi cerca ancora di sfuggire a un destino tanto infame quanto inevitabile; siede, e affonda il suo sguardo in quelle righe che ritiene debbano farle da guida. Rilke torna continuamente nel Diario, e così altri maestri. Quando l’autrice immagina di dover preparare la valigia – la sola che gli sarà concesso di portare con sé- per il fatale giorno della deportazione, si domanda preoccupata quali volumi avrà modo di inserirvi. I volumi scelti sono: la Bibbia, il Libro delle Ore, Lettere a un giovane poeta di Rilke, e L’idiota di Dostoevskij. Proprio per L’idiota riflette che le sarà forse necessario rinunciare a qualche provvista di cibo. Qui è evidente, quasi alle soglie del prosaico, come Hillesum anteponga al cibo del corpo (e ciò deve essere esteso, più in generale, ad ogni forma di soddisfazione materiale) quello dell’anima. Nel miasma delle informazioni del nostro tempo, nell’avidità che caratterizza la nostra lettura, viene da chiedersi come sia possibile imitare una simile fedeltà ad un pugno di testi; essere così profondamente devoti alla penna di un autore, affidarsi a un numero ristretto di maestri e percepire la scelta come una necessità ineludibile.

II
Rose malgrado tutto

“Le mie rose rosse e gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là, in quell’inferno, hanno continuato silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi”. Questo passo del Diario, che data 23 luglio 1942, non sarebbe azzardato pensarlo in epigrafe al testo stesso, tanto rappresenta lo spirito dell’autrice. Il suo stare nel mondo, e per un ovvio gioco di riflessi la sua scrittura, non è altro che il rendersi disponibile alla bellezza, un esporsi alla luce in un tempo storico che irradia ovunque oscurità. Il male per Etty Hillesum sembra essere una forza soggiacente al reale, che si apre la strada nell’uomo attraverso la sofferenza, l’ignoranza, le manipolazioni del potere. Si impone per ciò di andare oltre l’odio, di non farsi suo specchio, di evitare di moltiplicarne le rifrazioni nell’ambiente circostante. I soldati tedeschi sono visti come meri vasi in cui il male si poggia, quasi vittime a loro volta di una forza negativa, di un inganno che agisce attraverso il loro essere macchine incoscienti. A bilanciare uno squilibrio altrimenti indecente, interviene la bellezza, vero punto di fuoco su cui Hillesum fissa lo sguardo. Se il Diario non ospitasse delle descrizioni del male di lenticolare minuzia, che ne certificano l’attenzione e la capacità di lettura della psiche umana, saremmo facilmente portati a credere ad una sorta di fuga dal reale da parte dell’autrice, tanto è ostinato il suo canto in gloria alla creazione. Ma in Hillesum sopravvive una certezza: “se dobbiamo andare all’inferno, che sia con la maggiore grazia possibile”. Di questa fuga dal reale viene rimproverata da alcuni amici, ai quali, tra sé, risponde come segue: “continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo essere umano che spesso è diventato irriconoscibile in mezzo alle rovine delle sue azioni insensate. Io non me ne sto qui, in una stanza tranquilla ornata di fiori a godermi Poeti e Pensatori glorificando Iddio, questo non sarebbe proprio tanto difficile […] Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni -, e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!”. È fondamentale che il lavoro intellettuale venga praticato all’interno di ogni circostanza in cui la vita ci pone; altrimenti, esso non si tratterebbe che di “belle lettere”. Hillesum registra ogni piccolo gesto, parola, espressione del volto. È un “bisogno quasi diabolico di osservare ciò che capita”, al quale si accompagna il timore di dimenticare anche uno soltanto dei mille dettagli vissuti nella quotidianità. La sua è curiosità nella pienezza dell’etimo: un avere cura del mondo. Sfogliando le pagine del Diario godiamo come di un manuale dove si espone un’abilità affinata nel tempo, ovvero una tecnica di partecipazione al reale.

III
Il silenzio e le parole

Le pagine di Hillesum sono imbevute di un senso di attesa, quasi il suo lavoro non fosse altro che un abbozzo, una propedeutica al fine di trasporre in parole l’esperienza. L’urgenza sta tutta nell’elaborare un linguaggio che sia completamente nuovo, affinché divenga possibile delineare il vago contorno dell’ineffabile. Uno struggimento continuo trapela dal Diario per l’insufficienza del detto, “come se la parola nuova capace di sostituire quella vecchia debba ancora nascere”. Siamo invitati a vivere uno spazio liminare della scrittura, dove il dire è sempre nel luogo della sua scaturigine. Proviamo, attraverso la penna dell’autrice, cosa significhi dare forma a una sintassi che provi ad accostarsi all’amore, alla morte, a Dio, al cosmo; ma per fare ciò bisogna prima comporre un idioma inedito, proprio perché tali oggetti sfuggono per definizione alla nostra capacità di presa. Anzi, è la stessa brama di possesso intrinseca al linguaggio che deve essere aggirata: “una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo […] [Scrivere] è un altro modo di possedere, attirare le cose a sé con parole e immagini. L’impulso che mi spingeva a scrivere deve essere stato soprattutto il desiderio di nascondermi agi altri con tutti i tesori che avevo accumulato, – e di annotare ogni cosa e di goderla tenendomela per me”. Sfuggire all’istinto di possedere si dà come compito dello scrittore. Per perseguire un obiettivo tanto gravoso, sembra suggerirci il Diario, sarà ben tenere conto di un altro fattore: il silenzio. Il silenzio è il crogiolo, l’incunabolo della parola, che non deve essere percepita come una negazione del silenzio, ma semmai come uno strumento capace di estendere lo spazio ricettivo di quel corpo concavo e di raccolta. La scrittura deve far risuonare il non detto: “oggi pomeriggio ho guardato alcune stampe giapponesi con Glassner. Mi sono resa conto che è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un grande silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto. Come in quell’illustrazione con un ramo fiorito nell’angolo in basso: poche, tenere pennellate – ma che resa nei minimi dettagli – e il grande spazio tutt’intorno, non un vuoto, ma uno spazio che si potrebbe piuttosto definire ricco di anima. Io detesto gli accumuli di parole. […] Se mai scriverò – e chissà poi che cosa?- mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto”. La parola diviene nel Diario ancella del silenzio. Essa torna continuamente ad abbeverarsi a quella fonte che è il luogo del fare anima; il muto sfondo in cui, per brevi istanti, l’essere si concede.

Il revival del teatro dell’assurdo nell’Italia contemporanea

0

di Giorgio Mascitelli

Attualmente il dibattito pubblico del paese è saldamente incistato in una situazione nella quale una minoranza definisce liberticida, e dunque espressione di una dittatura sanitaria e di fascismo se non peggio, un provvedimento come il Green pass che agli occhi della maggioranza è la principale garanzia di ritorno alla libertà della circolazione e della abitudini, sospesa da 18 mesi di misure anticovid, la quale maggioranza a sua volta tende a considerare potenzialmente fascista qualsiasi espressione di dissenso della predetta minoranza. Non c’è dubbio che siamo di fronte a una circostanza oggettivamente inedita che sembrerebbe nascere dalla penna di un Ionesco, ma ciò che è occasione per lo scrittore reazionario di provare un aristocratico compiacimento per la propria indipendenza morale dalla follia delle masse e degli uomini in generale diventa, per chi conservi anche solo un vago ricordo dell’importanza della politica, un momento di smarrimento paragonabile a quello di un umarell che uscito di casa per la consueta passeggiata non trovi improvvisamente più nessun cantiere stradale a cui elargire i propri consigli. E tuttavia l’umarell politico vede in questo assurdo qualcosa che il senso di superiorità dello scrittore reazionario non può cogliere ossia la gerarchia nel teatro che si forma tra quegli attori che sono condannati a restare in questa dimensione dell’assurdo e quei pochi che hanno le chiavi per uscirne e calcare una scena decisamente più naturalistica.

A occhio e croce nella situazione presente mi sembra che queste chiavi consistano in una trasformazione della formula del governo tecnico o semitecnico, nato a febbraio per motivi contingenti e transitori, in una formula politica stabile che durerà magari per tutta la durata dell’emergenza e, visto che a un certo punto l’emergenza sanitaria terminerà, lascerà il posto a quella economica, che come è noto, nel neoliberismo è un fenomeno continuativo ed endemico, senza fine possibile. E se qualche estimatore del governo tecnico o semitecnico suggerisse che i suoi oppositori sono gli stessi che per mesi hanno denunciato come tirannico un provvedimento sanitario che per tre quarti dei cittadini è semplicemente quello che ha restituito importanti libertà individuali e messo in sicurezza il paese, e che peraltro il governo stesso ha un evidente interesse politico ed economico a sospendere, non appena le condizioni sanitarie lo consentiranno, renderebbe poco credibile qualsiasi voce critica sull’operato del governo in qualsiasi campo, dopo mesi di grida reciproche sul fascismo.

Si sa che la rivoluzione russa del 1905 prese slancio da un episodio assolutamente secondario: a Mosca ci fu uno sciopero dei tipografi, che all’epoca venivano pagati un tanto a lettera, per ottenere che venissero conteggiati anche i segni di punteggiatura, eppure questa rivendicazione così marginale e settoriale fece divampare l’incendio. La gente ha sempre protestato per motivi minimali, corporativi e talvolta francamente demenziali ( non è che i grandi scrittori reazionari quando denunciano l’assurdità dell’uomo siano dei fessi..) e le grandi parole che leggiamo sui libri di storia quali democrazia, socialismo, uguaglianza di fronte alla legge, autodeterminazione, come matrici delle rivoluzioni o dei movimenti del passato, negli intendimenti di chi li faceva significavano semplicemente la somma di quelle richieste parziali. Eppure il ricorso a queste parole significava anche una capacità di compiere un salto politico, di usare queste parzialità per un disegno generale e non è un caso che oggi una simile parola manchi, dato che nessuno è in grado oggi di compiere un salto del genere.

Eppure, quando tutte le prospettive appaiono chiuse e non sembrano esserci vie di fuga possibili, alcuni, seppur malvolentieri, finiscono lo stesso per rivoltarsi facendo emergere la loro piccolezza e i loro limiti, in definitiva l’incapacità di darsi una progettualità politica. E’ quello che accade in un film come Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog, dove in una colonia di nani pesantemente gerarchizzata, i sottoposti si lanciano in una rivolta contro la direzione, approfittando dell’assenza del direttore, dai tratti autolesionistici che ben presto scivola in una festa crudele senza alcuna strategia di lotta. Non che le autorità siano meglio dei rivoltosi a cominciare dal fatto che tutto nell’istituto è costruito e progettato senza tenere conto che debba ospitare dei nani, i quali a loro volta sono palesemente inferiori ai compiti che vorrebbero darsi. A un certo punto risulta chiaro che la situazione è posta su un piano inclinato e che il precipitare in una rivolta senza obiettivo è lo sbocco naturale e inevitabile di una serie di mosse pregresse di ambedue le parti, esattamente come un oggetto posto su un piano inclinato finisce per cadere. Proprio la percezione potente e precisa di questo piano inclinato distingue Herzog da quella serie di scrittori, anche commendevoli, liberali o conservatori abituati a denunciare e a rappresentare la follia e l’incongruenza della massa, quando essa ruba la scena al potere rivoltandosi, come un suo carattere costitutivo e immutabile.

Naturalmente esagero, non è che le cose siano così drammatiche oggi in Italia e poi è oggettivamente difficile accorgersi di essere su un piano inclinato, si pensa sempre di essere impegnati nella discesa o nella salita di una normale altura. E in ogni caso nel film di Herzog alla fine arriva la polizia a riportare ordine nell’istituto.

Inavvertita luce

0

di Annachiara Atzei

 

 

Luce e carne: il non detto
germoglia nella laringe
aperta – si fa
voce.
Le solitudini cantano insieme –
sono incredule.
L’iris selvatico è un punto
giallo che chiede attenzione:
rimarrà ancora qualche giorno.
Rumore d’acqua
che passa – non tu.
Snebbia.

 

 

 

Pupille disabitate: stare
a guardare l’ombra
mentre cambia –
un calcio a un sasso in discesa.
La schiena è il resto di un naufragio:
seccata in riva.
Odore di un amore
andato a male nella troppa luce.

 

 

 

Il tuo torace
si sottrae all’esplorazione –
sono fiori
quelli che ti crescono sulla clavicola
come domande mai poste.
Al centro dell’osso
bisbigliano i morti
troppo vivi:
nocche rosse sciolte
al sole
di un mattino dove non c’eri.

 

 

 

La notte si allarga
e le cose ci stanno tutte insieme –
amore ingoiato nel sonno
che manca.
Si insinua la dimenticanza e muori
così tante volte
che è un taglio la memoria
scucito.
E sei un mandorlo bianco,
un germoglio sul ramo.

 

 

 

Il mattino mi entra dentro
e sono sole, ritratto dell’inesprimibile,
pomodoro a seccare.
Mi esplori,
mi lecchi la parola –
l’ora è un fiume.
Albero da sramare, privilegio di occhi.
Precipitata dentro
me e te insieme –
solo il resto ha fine.

 

 

 

A passi spediti nella salita di Via San Rocco –
dire cos’è nulla, un pomeriggio.
Nel cortile ci sono braccia, ci sono bocche
che chiedono un giorno grande.
Anche ora è lo stesso – lo stesso
sapore di occhi.
L’abitudine al precipizio è la tua stanza lontana.
Giorni si seguono come cani.
L’orlo si consuma – preludio di separazione.

 

 

 

Un rombo d’acqua, un dolore terrestre
che non avremmo voluto
e ci sdraiamo con lo sguardo al cielo –
il viso nel nero
del sole.
Ferita interminabile che porto –
mia vita.
Casa taciuta, città, riva, sterno –
pianto.

 

 

 

Non è lo stesso: l’iride
si stupisce del distacco.
Arriva una voce che non senti –
un barlume d’acqua.
Odore di pagine, viavai di auto
grigie.
Tutto l’amore detto
è lingua, linea di luce –
il punto in cui entra la spina.
Le braccia fanno cerchio, oppure niente.

 

 

 

La notte mi scompare in gola,
mi disabita
e chiama a raccolta i miei morti
e loro mi ridono dentro dove si anima una luce.
Uscire di casa con un male noto nel petto
– nel petto – sotto gli occhi
indifferenti dei palazzi – le strade
senza gente
che scompigliano i capelli.

 

 

 

Aprile apre le mie vertebre-noce
e stende una luce calda
e mi divide
il mondo nel suo procedere –
mi disunisce.
L’ombra fa il nido
in questo mio poco – si frantuma
sui vetri.
Dimostrami l’amore: lo strappo
cambia prospettiva
e sotto i piedi è vuoto e pavimento
il cielo.
Bocche spalancate nel nulla
o socchiuse in un soffio come fanno i poeti.

 

 

 

Il mattino fa come se nulla fosse,
parole-spore cominciano stagioni.
Gli occhi sono bocche,
i visi tramonti – inavvertita luce.
Si alzano mani come fiamme,
come argomenti.
Ci curiamo di noi, ci teniamo stretti –
appesi al rumore del fiato
in salita. Ti porto in me dissolto – immaginato.

 

 

 

Nel pomeriggio invaso di luce
smette l’ora. Il corpo vive e muore
nel suo stesso confine:
pelle bianca remota.
Andare a occhi pieni e poi avere paura –
geme l’erba
flettendosi.
Hai rifiutato un amore
lasciandolo al bordo del non posso.
La gestione del dolore è un fatto privato –
ogni cosa passa
in silenzio.

 

 

 

Si spezza la notte –
guardami: non ti abbraccerò più come oggi
– è l’unico desiderio (l’unico desiderio).
Un attimo rubato all’esistenza –
mattina di maggio dove non tornammo
insieme.
Tra occhi e occhi c’è il non detto,
qualcosa di cui si ignora il significato.
Ho creduto ai raggi tra le foglie,
a come aprivano le vene.
Ora è tenersi dentro quella meraviglia.

 

 

 

Dopo aver tentato tutto
simulare la neve – essere neve.
L’unico tuo segreto è
fare a pezzi,
asportare fegato rene cuore:
qualcuno verrà a riconoscerti.
Riempire
il vuoto di canne di fiume,
di schiuma d’acqua, di strade –
la finestra sempre aperta.
Si rigira un corpo
sveglio nel letto –
la faccia luminosa del sasso.

 

 

 

Il pioppo tagliato –
resti incurante
nel buio di infiniti nomi.
Sembrare fermi come semi,
nell’attesa essere, nonostante.
Un fiore rosso è
al centro della stanza.
In una voce si raccoglie
ciò che non ha compimento:
si slabbra
il suono di poche tenerezze.

 

 

 

Andare verso il niente
o inventare il giorno, la linea del pensiero
in rivolta.
Questo sabato disancorato,
punto di tempo –
luogo.
Non c’è il reale: dietro il vero
un’apertura sull’inesprimibile.
Grani di incenso su braciere –
divento estate per eccesso d’amore.

 

 

 

[guardami: non ti abbraccerò più come oggi: è un verso di Milo De Angelis]

[l’immagine: “Architettura del bosco”, di Carlo Atzei]

 

 

 

Il corpo ha memoria: percepisce ciò che accade e ne trattiene il ricordo. Nella dialettica tra assenza e presenza, solo a prima vista è la prima a prevalere. In questo percorso tumultuoso del sé tra le cose, il verso si fa aritmico, si accorcia e si spezza, amplificando il senso del dire.
Scriveva Cristina Campo che il poeta crede nella parola come, nella fiaba, il folle che ragiona a rovescio e si affida all’insperabile. Qui, è lo stesso: le parole sono spore che cominciano stagioni.
La poesia penetra il reale nell’inatteso tentativo di riportarlo, seppur in parte, alla luce.
(a.a.)

 

Annachiara Atzei vive e lavora a Cagliari. Scrive su Antas, periodico di storie e personaggi della cultura sarda e ha collaborato con la rivista La Donna Sarda. Sue poesie sono apparse su Poetarum Silva. Inavvertita luce è la sua opera d’esordio, in pubblicazione per Eretica Edizioni per l’ottobre di quest’anno.

 

Luigi Ballerini, teorico e critico della poesia

0

[Questo saggio è tratto da Il remo di Ulisse. Saggi sulla poesia e la poetica di Luigi Ballerini, a cura di Ugo Perolino, Marsilio, 2021. Il volume raccoglie interventi critici di Cecilia Bello Minciacchi, Stefano Colangelo, Beppe Cavatorta, Federica Santini, Giulio Ferroni, Vincenzo Frungillo & altri.]

di Giorgio Patrizi

Per comprendere in pieno il senso del lavoro poetico di Luigi Ballerini, con il suo complesso approccio alle molteplici sfaccettature del testo, si può partire da quanto scrive Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia: “il far agire l’esperienza della storia che, per ogni presente, è un’esperienza originaria: questo è il compito del materialismo storico”[1].

Secondo Mario Lunetta[2], è trainante in quella lunga esperienza di sperimentazione di forme e linguaggi, che caratterizza l’opera balleriniana, una incessante, tipicamente novecentesca, promesse de bonheur. Per lo scrittore romano, il lavoro formalista di Ballerini è sempre attento a mettere in gioco i valori ideologici del fare poesia, che si evidenziano nella messa a fuoco e nella denuncia dei processi manipolatori tipici del sistema capitalista. A proposito di Shakespearian rags, gli “stracci shakespeariani” della raccolta del 1996, Lunetta scrive di “un feroce gioco metateatrale truccato da canto d’amore, che scopre, attraverso il trattamento sguincio del tema della doppiezza, i meccanismi dello scambio alienante e il feticismo delle merci”.

Per Francesco Muzzioli[3], l’utopia del significato – ricercato come nucleo di senso della poesia – si specifica nel lavoro richiesto al lettore per approssimarsi al risultato: è un percorso ermeneutico, che porta il fruitore verso il senso e non più viceversa, non offre più il senso al lettore. Va intesa in questo senso la citazione di Ballerini dal canto III dell’Eneide virgiliana: “Provehimur portu terraque recedunt” (Siamo portati avanti: il porto e la terra ferma si ritirano). È così, dall’inizio di questo percorso di sperimentazione, come ricorda Cecilia Bello[4], che Ballerini si confronta con le tecniche più dure, aggressive, della scomposizione/dissoluzione della comunicazione linguistica: scarti, plurilinguismo, enumerazione caotica. Tra Gadda e i Novissimi: soprattutto laddove il rischio di ogni “confessionalismo” del fare poesia – così in Cavatorta[5] – è respinto con la decisa opzione per la costante riproposta della enunciazione, dalle angolazioni più diverse, di una testualità terremotata, capace di inglobare i materiali più vari. Una poesia per la quale il modello più efficace e duraturo rimane quello di Pagliarani e del suo narrare in versi, del suo realismo della parola e del ritmo.

La riflessione di Ballerini, nella fase immediatamente successiva della sua sperimentazione, è rivolta al tema della “figuralità”, assunto come centrale per la riflessione sulle modalità della significazione e della creazione del testo. Il tema, nell’approccio di Ballerini, implica un superamento del netto rifiuto neoavanguardistico in tal senso, spostandosi piuttosto in direzione di un ripensamento, radicalmente innovativo, della tecnica poetica, che conduce verso prospettive testuali inusitate. La critica della rappresentazione, infatti, è riproposta da Ballerini in una chiave di lettura che gli consente di approfondire, rendere radicale l’analisi delle modalità del segno. Italo Testa[6], nell’intraprendere un percorso critico-interpretativo del lavoro del poeta, invita a partire da quel libro fondamentale per la poesia di Ballerini, dal titolo cavalcantiano, pubblicato nel 1988: Che figurato muore.  Occorre soffermarsi sui versi enigmatici di Cavalcanti (“ma chi tal vede – (certo non persona), / ch’Amor mi dona – un spirito ’n su’ stato / che figurato, – more?”) su cui Alfredo Giuliani già attirava l’attenzione, nella prefazione al volume[7]: la stanza in cui Amore dona a Guido uno “spirito”, uno stato amoroso “che figurato more”. L’affermazione di Ballerini, “l’oggetto ultimo e inimitabile della imitazione poetica è la morte”, che sintetizza l’approccio all’immagine di Cavalcanti, va coniugata con l’affermazione “che si evince dalla chiusa gaddiana [il Gadda che, nella Cognizione del dolore, racconta del corpo martoriato della Madre come perdita della capacità di proferire il pronome di prima persona], e cioè della morte come impossibilità di dire io[8].

Il problema della figurazione è, insomma, in primo piano, legandosi alle questioni della significazione e della morte, come lo stesso Ballerini sottolinea in Congedo, il denso saggio che chiude Che figurato muore, sua seconda raccolta poetica. Ha scritto, a proposito di questo libro, Giuseppe Pontiggia: “il confronto con i testi di Cavalcanti mette in luce il passaggio da una dizione alta e da una densità sapienziale di straordinario pathos a una colloquialità malinconica e grave”[9]. Nel concludere la raccolta – scrive Testa – “la riflessione di Ballerini approfondisce i temi della morte e della figurazione, – intesa quest’ultima come procedimento di significazione che si espleta sia attraverso il discorso sia attraverso l’illustrazione”: entrambi si articolano come due cerchi concentrici e speculari. “L’aspetto figurativo è dichiarato così, per la poesia, inaggirabile e insieme inesaudibile: procurando, nel momento stesso in cui si pone, la morte stessa del figurare. Che è però anche la morte del significante astratto, formale, attraverso la figurazione… La critica della rappresentazione non comporta pertanto una scelta afigurale”[10]. L’operazione figurale è insieme necessaria e “inadempiente”: qualcosa che è presente ma non deve essere preso alla lettera. Che nel momento stesso in cui si pone, insieme si nega. Scrive Ballerini: “ma come la prospettiva, e anzi la certezza, della morte non distoglie l’amante dall’amore, così l’inadempienza del figurare non distoglie lo scrittore dalla scrittura. Al contrario è proprio l’inevitabile imperfezione segnaletica di ogni scelta e di ogni proposta (e si aggiunge l’implicito tradimento di ogni tradizione) che autorizza il ritorno perenne dell’invenzione e ne garantisce in pari tempo la fuga”[11]. È la dialettica costante della figurazione, la modalità e l’essenza del figurale: nel momento in cui si afferma, pone anche in atto la propria negazione. Non dissimile da questo processo è la dinamica relativa alla natura del soggetto. Esso è – afferma Ballerini – la differenza tra enunciato ed enunciazione: la formula e le parole della formula.

“Morire – leggiamo ancora in Congedo è dunque quando il senso cessa di girarsi (e rigirarsi) e si fissa dentro il confine esclusivo della sua letteralità… non si danno tropismi, rivolgimenti, avvolgimenti, intrecciamenti dove la corda è tagliata, non ci sono rigiramenti di fili”. E prosegue, ripensando il mito di Orfeo e Euridice. Se Orfeo avesse salvata Euridice, riportandola sulla terra, “non avrebbe Orfeo contraddetto e reso inoperante il privilegio che sta, di necessità, alla base della poesia, da lui stesso inventata e intesa… come un’attività ossimorica, nella quale l’insistenza dello scrivere sottrae la scrittura alla letteralità di ciò che è scritto?”.[12]

Questa presenza affermata e parimenti negata in modo determinato – scrive Italo Testa –, questa vera e  propria dialettica della figurazione, congiunge le prove iniziali alla fase più recente della poesia di Ballerini, aperta dal poema Cefalonia (2005), dove è possibile leggere versi in cui il paradosso della figurazione è chiaramente enunciato: “Sostengo, questo sì, che per aggiungere ‘me ne vanto’ a ‘me ne frego’ / (e farsi conoscere dallo straniero) non è necessario invocare i vantaggi / di una coerente lungimiranza: basta convincersi di aver vinto una volta / per tutte la tentazione di figurare in prima persona”[13].

Perché la poesia deve scriversi invece del mondo. Giuliani lo indica: “Nella poesia di Ballerini i predicati si sbilanciano, i verbi e gli avverbi si presentano da sostantivi e agiscono con insolita rilevanza”[14]. D’altronde ha scritto Contini a proposito di Cavalcanti: “la disposizione amorosa del poeta si risolve in un’istantanea perdita propria autonomia”[15]. La poesia entra così nella sfera dell’enigma: frane, slittamenti del linguaggio, “burle spasmodiche”. “Il testo si abbrevia irto, si fa scosceso e si traveste vago di fraintendersi per stornare la minaccia del già detto” (Giuliani).

Ballerini, en poète, enfatizza l’importanza del passaggio: quando, cioè recepiamo la forma, senza più saperla riconoscere nella sua funzione abituale, vedendola come qualcosa di straniato, e accettando tale fraintendimento. Scrive ancora Testa, che è “questo il gioco che Ballerini pratica a tutto campo, intendendo la poesia come arte del fraintendimento”[16]: un’arte che mira ad oltrepassare la riconoscibilità istituzionalizzata dei significati, rendendo visibili gli oggetti e le figure dell’esperienza, ma insieme accettando la deriva di senso impressa proprio da quella visibilità. Insomma, se la forma è fraintesa, essa “trae vita da un conoscere, distinto dal riconoscere con cui è in antitesi”.

Se “è lecito supporre che questa insopprimibile voglia di fare i conti con le infinitamente fuggevoli modalità dell’ombra sia l’aspetto più rassicurante dell’esistenza” (Ballerini), voglia vitale che motiva la pervicacia del rappresentare e scongiura la paura dell’ignoto, attraverso ciò diviene possibile cogliere il modo in cui “l’insistenza dello scrivere sottrae la scrittura alla letteralità di ciò che è scritto”. Attribuzione alla scrittura delle competenze della funzione del linguaggio: la parola diviene altro in sé e il rapporto figura/immagine acquista il senso di una riproposizione radicale del processo conoscitivo, in cui il visuale si pone come es e il figurale come ego. In questa prospettiva la scrittura si può configurare come logos al disotto del logos, analogamente a quella importante apertura del sistema della linguistica strutturale che De Saussure coglieva negli anagrammi. È il procedimento di “les mots sous le mots”, che Starobinski descrive come la sorprendente apertura della struttura del linguaggio che il fondatore dello strutturalismo aveva disegnato nella propria teoria[17].

“In questo senso – scrive Francesco Muzzioli[18]– è molto esplicito il titolo dell’ultima raccolta di Ballerini, vale a dire Divieto di sosta (in volume nel 2020). Divieto di sosta è un buon esempio di come la poesia di Ballerini utilizzi la frase fatta per spostarne la significazione: ‘divieto di sosta’ è una norma che fa parte delle conoscenze (e dei timori) di ogni automobilista, mentre qui viene inteso per l’appunto come imperativo a non ‘sostare’ su alcun traguardo raggiunto. Questa manipolazione giocosa (‘lo sfasamento della citazione’ come ha spiegato l’autore) non è affatto fine a se stessa, ma si può ricondurre a un’etica e addirittura a una politica: non accettare i significati precostituiti, ma lavorare (anche con fatica) alla ‘produzione del significato’, utilizzando in poesia anche tutte le risorse formali perché il linguaggio si estrinsechi in direzioni impreviste”.

Le parole – ci dice Ballerini – parlano dei fatti materiali ma poi diventano agenti, suggeriscono cose. La trattazione da parte della poesia del dato di fatto genera messaggi autonomi, che rimandano al dato storico. Tutto il complesso lavoro storico-antologico che c’è dietro i volumi di Ballerini emerge nelle scelte di autori e di prospettive. Those who from afar look like a flies, un’antologia della poesia italiana a partire dal ’56 fino agli anni 2000[19], è un’opera massiccia, la cui mole ben rappresenta l’impresa storiografica, interpretativa e militante che c’è alla base. La prospettiva, che consente approfondimento e originalità, è quella dello “sguardo da lontano”, di cui ha scritto Levi Strauss, in un libro che ribadisce le prospettive della sua antropologia strutturale, dove nodi e relazioni fra elementi si rimettono dinamicamente in gioco. Visione d’assieme, con il rischio di qualche appiattimento di prospettiva, ma sicuramente con la rottura degli schemi e delle strutture prefissate e dei luoghi comuni storiografici. C’è il rifiuto militante di ogni forma di lirica consolatoria – quella che Cavatorta, come si è detto, definisce “confessionale” – e l’individuazione di tentativi di rispondere alla crisi, in opere di svolta nei rispettivi percorsi autoriali, come Trasumanar e organizzar di Pasolini e Satura di Montale, entrambe raccolte del 1971. Dunque, la poesia degli ultimi decenni del Novecento letta come un diffuso tentativo di uscir fuori dalle secche e dagli stereotipi della tradizione – direi, del vecchio e del nuovo, del novecentismo e dell’avanguardia.

Un’altra affermazione interessante è quella della necessità di distinguere tra performance e lettura.  Ballerini è per una lettura teatrale: perché occorre “produrre significato, non ribadire il significato in senso consolatorio”, e solo nella teatralizzazione è possibile farlo. Ancora una volta c’è l’istanza di una poesia/metapoesia, una poesia che ripensa costantemente se stessa, assumendo via via le proprie peculiari modalità fenomenologiche come occasioni di ridefinizione del proprio statuto e delle proprie finalità. Una linea di sperimentazione oltre l’avanguardia. A condurre il gioco, ci dice Ballerini, è quella galassia di sperimentali senza etichetta, i “centrocampisti”, né difensori, né attaccanti, ma i veri costruttori e strateghi del gioco. Quella che Giuliani ha definito semiguardia, distinguendola appunto dall’avanguardia e dalla retroguardia, prospettiva di poesia che si costruisce nell’organizzazione del linguaggio. Oltre l’avanguardia, dunque: come per il Futurismo, anche per la neoavanguardia, la produzione del significato è interna alla parola, non nasce come proiezione esterna.

Luigi Ballerini, poeta, intellettuale militante, storico della letteratura, è una delle figure più importanti di quella resilienza del lavoro letterario, che sola ne può salvare la funzione critica e la vocazione alla comprensione della propria epoca. Per questo la sua opera è testimonianza di una consapevolezza critica che non attenua la forza espressiva ed emotiva del suo lavoro creativo, anzi ne sottolinea il rigore intellettuale e la coerente interpretazione storica.

*

Note

[1] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 81

[2] M. Lunetta, Ballerini: la dismisura dei linguaggi come metronomo doppio del senso, in Aa.Vv, Balleriniana, a cura di Beppe Cavatorta e Elena Coda, Danilo Montanari Editore, Ravenna 2010, pp. 325-346.

[3] F. Muzzioli, Per Luigi Ballerini: l’utopia del significato e l’ermeneutica della scommessa, in Aa.Vv, Balleriniana, cit., pp. 354-369.

[4] C. Bello Minciacchi, Quando circonferenza e centro coincidono, in L. Ballerini, eccetera. E, Napoli, Il Campano, Napoli 2018.

[5] B. Cavatorta, “ma sotto c’è un’altra lingua”: la poesia di Luigi Ballerini, in Luigi Ballerini, Poesie 1972-2015, Mondadori, Milano 2016, pp. X e sgg.

[6] I. Testa, Riti del fraintendimento. Rappresentazione e figurazione in Luigi Ballerini, in Transizioni verso Arte > Poesia, a cura di M. Labbe, A. Mariani, I. Testa, Milano, Accademia di Brera, 2012, pp. 42-44.

[7] A. Giuliani, Prefazione in L. Ballerini, “Che figurato muore”, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1988, pp. 14 e sgg.

[8] B. Cavatorta, “ma sotto c’è un’altra lingua”, cit., pp. XXI-XXII.

[9] G. Pontiggia, Prefazione, a L. Ballerini, Che oror l’orient, Bergamo, Lubrina, 1991, p. 15

[10] I. Testa, Riti del fraintendimento, cit., p. 44.

[11] L. Ballerini, Congedo, in Poesie. 1972-2015, Mondadori, Milano 2016, p. 74.

[12] Ivi, p. 75.

[13] ID., Cefalonia 1943-2001, in Poesie 1972-2015, cit., p. 287

[14] A. Giuliani, Prefazione, cit., p. 15

[15] G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 2001, p. 162

[16] I. Testa, Riti del fraintendimento, cit.

[17] J. Starobinski, Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1981

[18] F. Muzzioli, Seminario incontro con Luigi Ballerini, si veda il blog Critica integrale.

[19] Those who from afar look like a Flies. An anthology of Italian poetry, from Pasolini to the present (1956-1975), a cura di Luigi Ballerini e Beppe Cavatorta, Toronto, University of Toronto Press, 2017

Dioniso e Adorno. La musica e il dominio

0

di Daniele Barbieri

Ho comperato La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana, di Marco Maurizi (Jaca Book 2018), credendolo un libro di musicologia o di storia della musica, e poi, leggendolo, ho scoperto che si tratta invece di un libro di filosofia, nella tradizione della filosofia della musica di Theodor Adorno. La lettura mi ha quindi insieme dilettato e un po’ irritato, come sempre mi accade quando frequento Adorno, in particolar modo quando scrive di musica.

Adorno è stato un critico ed esegeta della musica di estrema finezza, competenza e capacità di analisi, e la lettura dei suoi scritti (specialmente – ma non solo – quando parla di musica) è sempre proficua. D’altra parte, c’è pure qualcosa di irritante nel suo pensiero, qualcosa che non quadra anche se difficile da mettere a fuoco. Molta critica musicale ha approfittato di una debolezza in questo pensiero per metterlo da parte integralmente, accusandolo di non capire davvero la musica esterna al mainstream della musica colta occidentale. E in effetti, i giudizi di Adorno sul jazz, sul rock, sul pop e su tutto quello che non appartiene alla linea di sviluppo che passa attraverso Schönberg e poi le avanguardie del dopoguerra sono sbrigativamente liquidatori, quando non esplicitamente denigratori: “lurida fiumana” viene anche definita la musica di consumo nella Introduzione alla sociologia della musica.

Il tentativo che fa Maurizi in questo libro è quello di uno studioso di Adorno, competente musicalmente, che, nei termini del maestro, cerchi di riscattare il suo errore, osservando la musica condannata da Adorno secondo i suoi medesimi principi, vendicando in questo modo Dioniso contro Apollo, l’universo Rock contro il minimalismo musicale (ultima incarnazione della musica colta, ormai del tutto funzionale all’industria culturale). L’operazione di Maurizi ha effettivamente un senso. È un fatto ben noto come il medesimo Adorno abbia preso le distanze dalle evoluzioni della musica colta in un noto saggio della fine dei Cinquanta sull’invecchiamento della musica moderna (contenuto poi in Dissonanze). Adorno condanna certe evoluzioni dell’avanguardia perché lo spirito critico si sarebbe ridotto a maniera, a semplice tecnica, facendo risalire le premesse di questo errore sino a Schönberg e Webern e all’applicazione della tecnica dodecafonica, là dove, persino nei maestri, essa finiva per diventare pura tecnica, e smetteva di essere discorso (musicale) critico.

Qui, come altrove, Adorno si dimostra sottile, e ricalca le tracce della dialettica da lui individuata (insieme con Max Horkheimer) nello stesso illuminismo, o meglio, nella ragione. Come dire: non abbiamo altro che la ragione per uscire dal dominio, ma poi è la ragione stessa a imporlo di nuovo. Questa dialettica è negativa, a differenza di quella hegeliana, perché non c’è superamento, bensì continua riproposizione nei medesimi termini. Nel momento in cui la razionalità schönberghiana arriva a creare un discorso (musicale) per denunciare il dominio, essa sta anche ponendo le basi tecniche per un uso di quel medesimo discorso che rafforzi il dominio stesso, divenendone complice, ed è questa, spesso, la colpa della musica postweberniana.

Un’analisi in termini dialettici di questo tipo, tuttavia, può essere applicata anche al Rock, ci spiega Maurizi, mostrando come ci siano state in più occasioni nella musica extracolta istanze liberatorie, di vario tipo, e poi come quelle stesse evoluzioni siano state riassorbite a vantaggio dell’industria culturale – per poi trovarsi ancora riproposte da altri, destinati a loro volta a un nuovo riassorbimento, e così via. Quello che Adorno aveva condannato in blocco viene qui analizzato più finemente, rivelando come la medesima dialettica che muove la musica di tradizione colta abbia luogo pure qui.

In particolare Maurizi individua (molto apprezzabilmente) in Frank Zappa l’artista che sarebbe riuscito a portare più in là il discorso contro il dominio, giocando dall’interno dell’industria culturale la propria stessa parodia, con discorsi di estrema raffinatezza che coinvolgono tutti i generi, dal pop più commerciale, al rock duro, al jazz alle avanguardie colte. Già facendo questo, tuttavia, la polemica di Maurizi contro i giudizi di Adorno si fa più forte, perché il modello storico di Zappa è certo molto più Stravinsky di quanto possa essere Schönberg, e quello che va riconosciuto a Zappa dovrebbe essere anche riconosciuto a Stravinsky, contro le note tesi adorniane della Filosofia della nuova musica.

Nonostante questo, il metodo di Maurizi è coerentemente adorniano, e le eventuali critiche al maestro riguardano i giudizi specifici e non i loro presupposti teorico/ideologici. E così anche questo libro, come quelli di Adorno, mi ha insieme dilettato e un po’ infastidito: dilettato perché Maurizi è musicalmente competente e fa una disamina complessivamente interessante del campo ingiustamente condannato da Adorno; infastidito perché le basi filosofiche di questi giudizi sono quelle stesse di Adorno, e identica è la sensazione, che si prova leggendolo, che qualcosa non quadri.

Vorrei perciò soffermarmi su un paio di principi di fondo del pensiero di Adorno/Maurizi, e trarne alcune conseguenze, che mi aiutino a spiegare il mio disagio.

Il primo riguarda il rapporto con il dominio, il secondo la necessità estetica, nell’opera, di un discorso coerente.

A pagina 49, scrive Maurizi: “La musicologia adorniana è sempre, mediatamente, una concezione della musica nell’orizzonte del dominio e l’interpretazione dei fenomeni musicali non può sussistere se non leggendo il rapporto tra l’idea musicale e il materiale sonoro come specifiche costellazioni in cui si gioca la dialettica ragione-natura.” (corsivi suoi, qui e in tutte le citazioni) In questi termini, la predilezione adorniana per la musica colta, fosse anche stata a suo tempo un pregiudizio, “in questo caso vede giusto, perché tiene ferma la barra sul rapporto tra musica e libertà nella condizione dell’oggettiva e progressiva illibertà della società globale a sfondo capitalistico.”

Ecco dunque il punto: l’estetica di Adorno (e di conseguenza la sua musicologia) è centrata sul rapporto tra arte (musica) e l’opposizione dominio/libertà. Altro, in sostanza, alla base non v’è! Ora, non che si debba contestare un’istanza libertaria, e nemmeno (figuriamoci!) che si debbano negare le tendenze antilibertarie che sono inerenti al capitalismo. Ma nell’estetica adorniana tutto sembra ridursi essenzialmente a questo, coerentemente con la sua dialettica dell’illuminismo, cioè della ragione, che pone insieme le basi della libertà e quelle del dominio. Consegue da queste premesse un atteggiamento negativo, che pone l’angoscia come unica verità possibile, in quanto unico atteggiamento di fronte all’inevitabile fallimento delle istanze libertarie, destinate a produrre, per loro stessa natura, nuove forme di dominio.

Ma questa promozione dell’angoscia dimostra che esiste, nel pensiero di Adorno, una condizione ideale, primitiva (se non storicamente – perché non è detto che sia mai esistita – almeno logicamente) di libertà e innocenza. È solo rispetto a questa condizione ideale che l’uomo è alienato, attraverso la reificazione di principi inautentici, quali quelli propugnati dall’industria culturale.

Nonostante le proteste di Maurizi (pag. 39), quello di Adorno è davvero e a tutti gli effetti un umanismo, benché un umanismo negativo, cui è sottratta ogni speranza di giungere alla natura autentica dell’uomo, la quale però è continuamente presupposta, suggerita. Certo che il soggetto viene da Adorno concepito in termini sociali e storici, e mai astratti; ma se si ipostatizza l’opposizione dominio/libertà, la si sta di fatto rendendo astorica e astratta, e principio universale dell’uomo.

Il secondo principio di fondo che Maurizi riprende da Adorno è quello della necessità di un discorso coerente (in musica come nelle altre arti). A pag. 58 Maurizi cita Adorno (da Current of Music. Elements of a Radio Theory, Surkhamp 2006, pag. 439):

“Il senso musicale di un qualsiasi pezzo musicale può sicuramente essere definito come la dimensione del pezzo che non può essere afferrata solo dal riconoscimento, dalla sua identificazione con qualcosa che già si conosce. Esso può essere costruito solo collegando spontaneamente gli elementi noti – una reazione altrettanto spontanea nell’ascoltatore come lo fu per il compositore – in modo da fare esperienza della novità inerente della composizione. Il senso musicale è il Nuovo – qualcosa che non può essere ricondotto, non può essere sussunto sotto la configurazione di ciò che è noto, ma che ne scaturisce.”

E chiosa subito sotto Maurizi:

“Mentre, secondo Adorno, il telos della musica colta al più tardi a partire da Bach è stato quello di integrare tutte le dimensioni della composizione in una totalità significante, in modo da dare senso al particolare solo come momento dello sviluppo del tutto, l’industria musicale è tesa alla valorizzazione dell’effetto isolato e assembla a tale scopo una musica che spinge all’ascolto atomizzato.” In tale ascolto atomizzato, il piacere estetico consiste in una semplice delibazione, quasi di carattere gastronomico (espressione che Adorno usa con una certa frequenza in termini dispregiativi).

Nelle parole di Adorno, il compito dell’arte appare dunque quello di rivelare/denunciare il dominio. Per questo l’opera d’arte deve essere comunque un discorso coerente. Là dove essa si sottragga alla coerenza, non rimarrà che la semplice delibazione di frammenti isolati, del tutto funzionale al dominio e quindi ad esso complice. Un’arte inautentica dunque, e perciò da condannare.

Si tratta di una concezione apertamente intellettualistica, alla base della quale sta comunque l’idea che il dominio dell’uomo sulla natura si basi sulla sua comprensione razionale (con tutta la dialettica negativa che adornianamente ne consegue). Poiché questo dominio nei confronti della natura viene poi esteso anche all’uomo stesso, l’uomo cerca di sottrarvisi (anche) attraverso l’arte, la cui missione sarebbe di denunciare il dominio, attraverso modalità di discorso specificamente sue, ma cui è comunque richiesta una coerenza (senza la quale non si potrebbe avere discorso). Al di fuori di questo ci sarebbe solo delibazione, e quindi accettazione del dominio, e dunque inautenticità.

Non si può non riconoscere, in questa riduzione dell’estetico all’etico, un’istanza platonica, benché ribaltata al negativo. Platone poteva ancora pensare di costruire la propria Repubblica vietando certi modi musicali in quanto non funzionali al buon funzionamento della società. Adorno vede in termini positivi solo un’arte che sia critica nei confronti della società, e quindi anch’essa in qualche modo funzionale, benché, evolutivamente, per contrasto. A differenza di Platone, Adorno non crede più nelle utopie sociali, ed è angosciosamente cosciente che la liberazione non è che un processo, che ha tra le conseguenze anche la propria stessa negazione. Tuttavia, Adorno come Platone pensa l’estetica come un corollario dell’etica e costruisce la propria filosofia cercando di giustificare il bello in questi termini.

Alla fin fine, ecco che ci sono alcune idee iperuranee (e dunque astoriche) pure in Adorno, come quella di libertà, legata a quella di soggetto e a quella di dominio. È questa ipostatizzazione di fondo, che mina alla radice un pensiero sottile e per molti versi affascinante, a procurare il mio disagio nel leggere Adorno e anche Maurizi: ritrovare Platone nascosto nel cuore di qualcosa che ne sembrerebbe lontanissimo; ritrovare il platonismo nell’intimo dell’avanguardismo, artistico come politico.

Camera ecoica. Da César Vallejo a Giuliano Mesa (e ritorno)

0

di Lorenzo Mari

Nella preparazione della traduzione di Trilce di César Vallejo, recentemente pubblicata da Argolibri, sono tornato più volte in direzione di un incontro che avevo in qualche modo previsto, ma che non avevo potuto misurare con esattezza in tutte le sue implicazioni, come quello con Giuliano Mesa. Il poeta, nato a Salvaterra, in provincia di Reggio Emilia, nel 1957, e scomparso esattamente dieci anni fa, è infatti l’autore, fra le molte opere e testi, di uno scritto intitolato “Ad esempio”, dedicato a Trilce di Vallejo e incluso nell’antologia La scoperta della poesia (a cura di Massimo Rizzante e Carla Gubert, Metauro, 2008).
Lo scritto di Mesa, la cui ripubblicazione ci è stata gentilmente concessa dalla casa editrice e dai curatori dell’antologia, è disponibile anche in rete, all’interno di quell’Archivio Giuliano Mesa che è stato attivo soprattutto negli anni scorsi, ma che è ancora consultabile nella sua interezza. L’inserimento del saggio di Mesa nel progetto di pubblicazione di Trilce non ha avuto dunque come obiettivo una pura e semplice operazione di marketing editoriale, con la quale “proporre una primizia”; si è pensato, innanziutto, all’esigenza di “riscoprire Mesa” laddove lo stesso Mesa scriveva di aver scoperto la poesia tramite Vallejo: il saggio, infatti, si chiude con l’aforisma e poliptoto (strategia retorica tipica di molta scrittura politica di Mesa, fra l’altro): «la scoperta della poesia è scoperta di ciò che la poesia scopre».
Al di là delle implicazioni che ha Trilce nella lettura dell’opera di Mesa, è interessante analizzare come questa scoperta abbia le caratteristiche della ri-velazione: non un’epifania, in qualche modo mistica, bensì quello che, come scriveva una decina d’anni fa Andrea Inglese per Atti Impuri, la «voce [di Mesa] tende, come fatalmente, a rivelare». Non importa che si tratti del «soggetto spettrale che fa da supporto alla voce» né delle «caratteristiche del paesaggio» de-scritto: la rivelazione non è mai definitiva; è, piuttosto, un ammantarsi continuo di altri veli («prova a guardare, prova a coprirti gli occhi», in Tiresia, del 2008), che porta chi legge o chi ascolta a iniziare un inseguimento; citando ancora dall’articolo di Andrea Inglese: «la voce, che il verso di Mesa “mette in scena”, rompe il silenzio, e ogni volta “vuole dire”, annuncia e insegue un senso, raccoglie – tra il corpo che la lascia vibrare e il mondo in cui si diffonde – dei significati».
È un inseguimento del senso, dunque: una pratica di ricerca epistemologica più che una magia da rabdomante. Giuliano Mesa ha insistito più volte su questo punto, non soltanto scrivendo che «scopo di Vallejo non era […] l’imporsi come poeta, ma il conoscere, l’esprimere…» (sempre in “Ad esempio”), ma anche rispondendo, per sé, al questionario pubblicato nel 2000, sul numero 15 del Verri:

Perché scrivi poesie?

…forse, scrivo poesie perché è il mio modo di sapere. A questo, aggiungo la convinzione che le poesie possano trasmettere conoscenza, in un loro “modo” peculiare e non sostituibile. E aggiungo, infine, la presunzione che anche le mie poesie, alcune almeno, possano trasmetterne un poco, di conoscenza, e soltanto per questo mi azzardo a renderle pubbliche, a metterle in comune…

Sono parole che, personalmente, ho sentito ripetere più volte da un altro poeta, Biagio Cepollaro, animatore almeno fino al primo lockdown della rassegna milanese Tu se sai dire dillo, dedicata, precisamente, alla memoria di Giuliano Mesa. Cepollaro ne ha anche scritto, ad esempio in questo intervento rintracciabile nell’archivio di Punto Critico, a proposito del primo dei Quattro quaderni (2000) di Mesa:

È tutto un ascoltare, dal di dentro della vita, un presagio di dove la vita andrà o è già andata: forma di conoscenza che non identifica oggetti anche se li convoca o li invoca né classifica né logicizza: conoscenza qui sta per un esistere puro, prima e dopo le cose o, meglio, dentro il prima e dentro il dopo: è null’altro che una tensione temporale che anima la speranza degli uomini, il loro tentativo di orientarsi al di là dei nomi e delle topologie. Questa tensione è tanto precisa quanto aleatoria, formale, strutturale, “esistenziale”.

Per quanto la dimensione esistenziale, a tratti spiccatamente autobiografica (con gli aspetti assai vividi, tra gli altri, dell’esperienza carceraria, del lutto per la morte della madre, delle relazioni sessuali finite, etc.) – sia molto più presente in Trilce che non nei «rarissimi […] dati biografici, esistentivi» rintracciati da Cepollaro nei Quattro quaderni, la “tensione temporale al di là dei nomi e delle topologie” sembra davvero essere un dato comune a Mesa e a Vallejo, specie se si considera, insieme a Mesa, che

[l]a Erfahrung della poesia è relazione – non somma, non sistema – di Erlebnisse tra loro simili, vissuti da simili. Privata totalmente di repertorî ai quali attingere, di tradizioni in cui calarsi, la poesia cosiddetta moderna si è trovata di fronte a uno scoprire ancor più radicale, rispetto a quelli, già radicalissimi, che vissero gli antichi. Non già s-coperta di qualcosa che era coperto, occulto o occultato. Qualcosa che portava la poesia verso ciò che sembra dicesse, dei segni, Enesidemo di Cnosso: “manifestazione del non manifesto”, con implicita, irriducibile aporia, ancor più ammutolente, poiché non solo fisica, di quella posta da Anassagora sulle cose che vediamo, aspetto visibile di ciò che non vediamo (fr. 21a Diels-Kranz). Poiché il “non manifesto” non si manifesta mai, forse nemmeno parzialmente, “per gradi”, in progressione conoscitiva. Eppure, manifestazione del non manifesto implica che qualcosa si manifesti: l’enigma… (O ciò che, dopo e dentro la fisica dei quanti, oltre l’apparenza dell’inafferrabile, si percepisce, si intuisce, come reale remoto.)

La “manifestazione del non manifesto” (che ritorna poi, nel medesimo segno del paradosso, anche nella «finitezza» come «scoperta della mai finita nominazione») che, in Trilce, porta dalla quotidianità del frammento esistenziale alla dimensione dell’enigma, ha esiti notevoli, di riflesso, anche nella scrittura dello stesso Mesa. Qui, l’enigma trae origine dai vicoli ciechi dei discorsi ideologici – la poesia di Mesa prende, quasi ineluttabilmente, questa strada anche perché, dopo la pubblicazione del primo libro (Schedario. Poesie 1973-1977, per le gloriose edizioni Geiger nel 1978), i suoi libri costellano una fase storica marcata più o meno distintamente dalla “crisi delle ideologie”, e cioè l’ultimo decennio del ventesimo e il primo del ventunesimo secolo – e, per altri versi, dalle aporie delle «poetiche precettistiche» – identificabili, con ogni probabilità, con le posizioni programmatiche delle scritture neoavanguardistiche e successive: per Mesa sono «come salvagenti, se consentono di non annegare, impediscono di immergersi».
Detto di questo enigma, Mesa non procede affatto a quelle riscoperte di marca “occultista”, o anche solo “psichedelica” o, in senso lato, “irrazionalista”, che sembrano abbondare nella poesia contemporanea: nella sua scrittura poetica, la declinazione non è intimamente esoterica, né, per contro, essoterica (destinata, cioè, a un “pubblico di iniziati” ancora più ristretto rispetto alla cosiddetta “nicchia della poesia”). Anche quando Mesa evoca i modi della divinazione (nel Tiresia, le cinque sezioni del libro sono dedicate all’ornitomanzia, alla piromanzia, alla iatromanzia, all’oniromanzia e alla necromanzia) e dell’alchimia (che costella nun), il suo oracolo resta più poetico che non profetico – come ebbe già a sottolineare Andrea Accardi in un intervento del 2013 che si può ancora leggere sul sito di Poetarum Silva.
Parte, in altre parole, da quel «reale remoto» che Mesa cita in merito a Trilce di Vallejo, ma che si può intuire, fra l’altro, come chiara derivazione dalla lezione wittgensteiniana. In “Ad esempio”, infatti, Mesa ricorda come Trilce sia uscito nel 1922, annus mirabilis della letteratura novecentesca, perché è «l’anno di Ulysses e della Waste Land», ma anche perché è l’anno, e l’enfasi di Mesa è proprio su questo punto, in cui «Wittgenstein pubblica a Londra, dopo una prima stampa nel 1921 con altro titolo, il Tractatus logico-philosophicus».
Ora, Wittgenstein è spesso associato a Mesa in virtù della fascinazione di quest’ultimo per il finale “mistico” del Tractatus; lo fa Paolo Zublena in questo saggio, sottolineando, però, come in Mesa la coscienza adorniana della dialettica del negativo corregga il tiro di questa possibile deriva misticheggiante verso l’orizzonte del tragico:

Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere: ma la poesia può tacerne rappresentandolo, articolandolo dialetticamente attraverso il suo peculiare silenzio scritto. Tragedia dolorosa della dialettica, tragedia del soccombente: «Tragico è soltanto quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione. Ma tragico è anche soltanto il soccombere di qualcosa cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si chiude». Così Szondi nel Saggio sul tragico, e allo stesso modo il Tiresia di Mesa: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapito».

L’indicazione di Wittgenstein, tuttavia, sembra indicare molto di più della nota citazione “su ciò di cui non si è in grado parlare” (e alla quale Mesa risponde, con l’eco di un altro monito: “tu se sai dire dillo”): come indica Alessandro De Francesco in una sua recente monografia critica in francese, Pour une théorie non-dualiste de la poésie (1960-1989) (ed. MIX, 2021), la lezione di Wittgenstein è presente nella poesia internazionale del secondo Novecento secondo una molteplicità di possibili diramazioni, arrivando anche alla poesia di Mesa (la quale si consolida prima del 1989 ma che trova definitivamente la via della pubblicazione soltanto dopo il 1989, uscendo dal radar di De Francesco).

In effetti, oltre al rule following wittgensteiniano adottato dalla language poetry nordamericana e, in particolar modo dalla poesia francese degli anni Settanta e Ottanta, vi è anche un approccio al “reale” che aggira, o anche supera, la mimesi della “realtà” e si pone all’insegna del nesso inscindibile tra estetica, etica e, di nuovo, ricerca epistemologica. Mesa lo ribadisce tanto nella sua scrittura poetica come nei suoi saggi e, di nuovo, parlando di Trilce di Vallejo e sottolineando come

[l]a relazione con gli uomini e con il mondo è relazione etica. Ineffabile. “Non-sensical”, dirà Wittgenstein nella Lecture on Ethics del 1929, e tuttavia esistente. L’estremo rigore linguistico di Wittgenstein è rigore etico, verso conoscenze possibili, e un possibile bene. Un linguaggio dove le parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità: verità etica.

Allo stesso modo della “verità etica” non-sensical, anche Trilce, il titolo dell’opera di Vallejo, è per Mesa «un neologismo sin sentido» (sospeso com’è tra varie, egualmente im-plausibili, traduzioni: deviazione ortografica di tríplice, unione di triste e dulce, etc.). Anche questo, anche questa singola ed enigmatica parola, costituisce un pungolo esistente e inaggirabile, nella sua dimensione dolorosa e tragica (per citare sempre Zublena): non più etica ed estetica unite perché è necessario utile dulci miscere, ma perché si vuoe TRIste duLCE miscere.
In conclusione, per questa via di doppia (…forse “triplice”) scoperta – di Vallejo, di Mesa, della poesia – si può certamente affermare, con Zublena, che

con Giuliano Mesa se ne è andato forse l’ultimo dei modernisti. E – intendiamoci – non si vuol dire “l’ultimo” secondo la vulgata di un’elegia della fine che vede dappertutto epigoni esausti o svagati postmodernisti: “l’ultimo” intende designare colui che, con radicalità, ha compiuto un estremo tentativo di rappresentare l’istanza modernista in modo adeguato ai tempi.
Al centro di ogni modernismo sta un progetto di ricerca della verità, verità ontologica in primo luogo. Secondo una movenza non certo maggioritaria in questi anni, Mesa non ha dissolto il concetto di verità in una semplice accoglienza nei confronti della venuta dell’altro, ma ha preteso che la poesia dicesse quel che il linguaggio ordinario non sembra più in grado di dire: non la verità dell’oggetto, ma la verità dell’evento: una verità etica. Nell’indistinzione ontologica dei fatti, la scrittura punta a risemantizzare con cura le tessere del linguaggio per restituirle a una nuova vita relazionale, etica.

Vallejo e Mesa, uno dei “primi” e uno degli “ultimi” modernisti”, attingono, insomma, a una peculiare dimensione del “classico”, che attraversa almeno cento anni di storia e, in funzione del potenziale di rottura modernista, può essere ancora nuova al giorno d’oggi. L’incontro con le loro opere porta, allora, inevitabilmente, a chiedersi che vita abbiano questi “classici modernisti” oggi: di Vallejo, ancora traducibile e ri-traducibile, si è detto; di Mesa si dovrà ancora dire.
E questo, non perché i libri di Mesa siano difficilmente rintracciabili: se è impossibile trovarli in libreria, come già all’epoca della loro prima pubblicazione, se ne può chiedere conto alla Camera verde, che ne ha pubblicato la maggior parte dei titoli fondamentali; si può certamente promuovere una loro riedizione nuovamente accessibile.
Tuttavia, se ne dovrà ancora dire – …se lo sappiamo dire – in un altro modo, insieme ai tanti e alle tante che ne hanno sempre trasmesso memoria e rilevanza, molto più e meglio di quanto si possa leggere in questo breve scritto: da Biagio Cepollaro e Andrea Inglese a Marco Giovenale e Andrea Raos; da Massimo Sannelli e Francesco Marotta a Davide Racca e Florinda Fusco, Guido Caserza e Fabio Orecchini; da Luciano Mazziotta a Fabio Teti e Simona Menicocci… e così proseguendo in una lista che non si propone qui come esaustiva o esaustivamente emblematica, essendo potenzialmente ancora molto lunga.
Se ne dovrà, più che altro, riproporre la canonizzazione critica, che appare a chi scrive molto più utile e giustificata nel caso di un autore già “classico” e al tempo stesso “modernista” rispetto a tanti altri autori di poesia, magari coetanei di Mesa, che negli ultimi anni hanno magari goduto e stanno godendo di maggiore attenzione. Si dovrà riaprire una camera non più anecoica, ma ecoica (per nulla “egoica”, come nel rapporto con gli autori viventi), dove gli echi di Mesa e Vallejo (e Wittgenstein, e molti altri…) possano continuare a prolungare la loro musica.
Per quanto mi riguarda, l’ha fatto un amico musicista, in tempo di lockdown, Marco Colonna, leggendo un testo di Mesa e portando quegli echi ancora altrove, verso nuovi territori.
Marco l’ha fatto mentre procedevo alla stesura dell’ennesima versione, intrinsecamente fallimentare, delle traduzioni di Trilce e il suo video le ha dato forza.
Beckettianamente – e il riferimento non sarebbe forse dispiaciuto all’autore – è venuta l’ora di canonizzare Giuliano Mesa e, facendolo, “fallire ancora, fallire meglio”.

 

Da “L’uomo avanzato”

1

di Mariano Bàino

[Per Oèdipus, esce in questi giorni L’uomo avanzato di Mariano Bàino, prefazione di Remo Ceserani e postfazione di Cecilia Bello Minciacchi. Il libro è la riedizione della prima prova narrativa di Bàino, uscita nel 2008. Oggi appare in nuova veste grafica firmata 8ki e con un nuovo finale.]

Nella gola del mare

In sottofondo, continuo, avverto il rumore di crostacei che stridulano con le chele, con le mandibole, con le loro anime cornee, con chissà cos’altro. Ogni tanto tutto tace, di colpo, e nel silenzio che ne segue un brivido mi attraversa il corpo. Qualcosa deve aver attirato l’attenzione di un intero popolo di granchi e di gamberi. Sì, hanno sentito qualcosa che a me è sfuggito completamente. Che cosa c’è là? O qua? Suoni che non posso sentire, città invisibili ai miei sensi limitati e annebbiati. Creature e correnti si muovono nella luminescenza, lungo il fronte marino della scogliera, che arriva a pochi centimetri dalla superficie e sprofonda per centinaia di metri in una scarpata scoscesa. Ma l’esistenza sonora di quanto mi circonda si trova in lunghezze d’onda che non posso percepire. Sto sospeso sul fondo, sull’orlo di qualcosa che può essere l’annegamento, la paura, la comprensione…

Avevo la nausea anch’io, il cervello confuso, ma la mia battaglia contro il mal di mare non intendevo combatterla al chiuso, bensì seguendo il vecchio rimedio per il quale occorre fissare, all’aperto, l’orizzonte. Quella linea illusoria, però, era già stata avvolta dalle ombre della sera. Stavo male. Trovai aperto un bar e mi ci infilai. Era vuoto, le poltroncine disseminate qua e là, chissà se per via del rollio. Il barman, anche lui con una faccia pallidissima, mi rimproverò, disse che non eravamo così lontani dalla tempesta; che potevamo capitarci dentro, in quel brutto tempaccio, da un momento all’altro; che non bisognava uscire negli spazi all’aperto. Boccheggiando, promisi che sarei andato subito in cabina. Ma portai via con me nel vento una bottiglia di champagne. Con una mancia che definirei lauta prevenni ogni protesta del barman e mi feci dare anche una flûte, che misi nella tasca della giacca. Ero sul punto di vomitare, tuttavia chiesi al barman, cercando di assumere un’espressione scherzosa: “Scusi, secondo lei l’equipaggio, la sera, dorme a bordo?”. Avevo ripetuto una delle tante scemenze sentite in crociera, attribuite, chissà quanto falsamente, a passeggeri strampalati. Feci ciò per istinto, come un rappresentante di commercio che tenta di accaparrarsi la benevolenza di un interlocutore troppo diffidente, troppo preso a scrutare. Poi uscii.

È la stessa cosa per i grilli. Anche le rane delle risaie fanno così, lo ricordo bene. Avviano il loro motorino notturno, lo fanno girare a velocità costante, per un’ora e più; all’improvviso lo fermano. Dopo un silenzio, si sente un colpo, un altro: alcune audaci cercano di avviarlo di nuovo il motorino, altre imitano, il baccano riparte… Le creature notturne, qui, succedono a quelle diurne attraverso gli stessi corridoi, gli stessi alveoli nella roccia. Ma solo dopo uno strano vuoto, un intervallo che può durare, non so… venti minuti… Creature diverse… Tuttavia, in nessun posto in particolare, invisibili, lunghi processi si protraggono. Anche nella profondità della notte brillano luci sparse. Il mio vagare nella luce o nel buio sottomarini. Giorno dopo giorno, mese dopo mese. Anni! Fino a esserne tediato. O forse non tediato, ma bloccato. Le orecchie piene d’acqua, gli occhi affaticati dietro il vetro, troppo sprofondato in un’attenzione pignola per i dettagli e troppo intento a decifrare messaggi che sembrano raccontare tutto, continuo a non afferrare il punto essenziale.

Nel viola profondo della sera mi piegai per vomitare. Infine, dopo diverse soste obbligate dovute alla nausea, aggrappato ai mancorrenti ma senza allentare la stretta sulla bottiglia, raggiunsi l’estrema prua. Come in crociera fanno solo le giovani coppie d’innamorati, gli sposini in viaggio di nozze, quando né il comandante, il monarca assoluto, né gli altri dell’equipaggio stanno più di vedetta a impedire la scena cretina, lì sull’estrema prua. Io ero più in là, più avanti ancora, sull’estremo dell’estrema prua, alle prese con la carta stagnola della bottiglia, che non riuscivo a strappare. Volevo brindare; ma a cosa, poi? Intanto, il movimento della meganave mi dava l’impressione di trovarmi sul dorso di un immenso animale, che si alzava e si abbassava di non so quanti metri per effetto del suo respiro; so solo che erano onde alte, forse più dei diesel che avevo visto con mia moglie in sala macchine, alti come case. Sull’estremo dell’estrema prua cadde la flûte, mentre tentavo di estrarla dalla tasca, dopo che il tappo della bottiglia di champagne era saltato nel vento. Poi caddi io. Giù. Con il mio mal di mare nel mare agitato.

Il mio dio che sapeva stare al mondo

0
Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay
Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay

di Jacopo Napolitano

Ricordo con esattezza l’odore della schiena del mio dio. Mi ha fatto salire sul suo dorso e l’incavo tra il collo e la spalla sembrava fatto apposta per riposarci la mia faccia. Il mento si incastrava con l’esattezza dei Lego tra la sua scapola e clavicola, e lì ce lo affidavo. Le sue mani allacciate mi offrivano un luogo in cui appoggiarmi, le mie braccia cascavano sul suo petto e ci tintinnavano contro, seguendo il ritmo dei suoi passi. Le mie gambe senza peli a penzoloni come sulle altalene. Era un odore carico della stanchezza di una giornata: il deodorante Axe messo a dura prova dal calore estivo, qualche sigaretta strappata alla regola, una pasta al ragù mangiata senza sporcarsi la camicia. Ci stavo pensando a sporcargliela io, quella camicia, con il sangue che mi scivolava via tra i denti, come mi capitava con il dentifricio. Solo il mio dio sapeva sfregarsi i denti senza far colare sopra il lavandino grumi di dentifricio gonfiati dalla saliva. Usava anche gli spazzolini con la setola dura. Quelli che la mia dea non mi concedeva.

Era un odore confortante quello del mio dio.

Mi piaceva come sanno farsi piacere solo i pomeriggi quando sono pomeriggi d’estate, quelli che si offrono nella loro bolla di umidità e con il loro ventre piatto di calma eccezionale.

Il mio dio era mio padre e mio padre era un uomo meraviglioso, mentre il mio muso, invece, infastidiva la gente. Con gli anni, la sua bellezza che non sapeva sfiorire si era caricata della consapevolezza di essere folgorante. Si era abituata a essere ingombrante e velenosamente invidiata.

Mia madre era la mia dea, mentre la gente era infastidita dal mio muso. Quando ancora non sapevo cosa fosse il sesso, intuivo gli occhi famelici che la percorrevano quando avevamo ospiti a cena. Quando si rivolgevano a me, invece, fissavano solo le mie labbra, e ci appendevano gli occhi a quelle.

Nelle foto di classe mettevo la mano davanti alla bocca. I miei compagni mi mettevano sempre in porta quando mi permettevano di giocare a calcio. La gente era infastidita dal mio muso. Mia madre era la mia dea e mio padre il mio dio.

Io, invece, avevo il labbro leporino.

Ricordo l’odore della schiena del mio dio quando venne a pescarmi da una rete di mani che mi stava soffocando. I miei compagni di classe accompagnavano i pugni che atterravano sul mio corpicino rannicchiato con delle leggere urla, come vedevo fare ai giocatori di tennis quando colpivano la palla. Le mani del mio dio mi sollevarono da quella pioggia di calci e io controllai che a terra non ci fossero dei pezzi della mia faccia: avevo paura che la mia dea non mi avrebbe riconosciuto. Ero convinto di trovarci almeno una guancia.

A casa, il tramonto filtrava dalle tapparelle forate e macchiava il pavimento. Sembravano arance spiaccicate a terra. Sembravano le uova che il nostro vicino aveva scagliato dal suo tetto. Le avevo viste quel pomeriggio, prima che andassi a tagliare il labbro a un mio compagno di scuola.

Quella mattina mi ero svegliato pieno di tutti i propositi con cui si saluta una giornata in cui non monta dentro lo stomaco il mal di pancia. Con gli occhi ancora stropicciati dal sonno, ciabattai fino al bagno: da qualche mese trovavo piacere nel lavarmi i denti perché avevo raggiunto l’altezza sufficiente per superare il lavandino con la fronte, e specchiarmi.

Entrai e mi accolse una nuvola zuccherata di vapore: la mia dea mi apparve in tutta la stupenda oscenità che può offrire solo un corpo nudo. La bellezza velenosa del proibito, di ciò che non si dovrebbe guardare. Il biancore del suo corpo: uno schiaffo ai miei occhi. Ma allora perché il vapore cotonato la incoronava con così tanta grazia? Fece scivolare, pigramente, la porta scorrevole lungo il suo carrello. Ricordo ancora l’arco smaltato del suo sorriso prima che il clack della porta me lo rubasse, per sempre. Scesi in sala senza preoccuparmi di nascondere l’ingombro nei miei pantaloni. Sollevai le tapparelle per lasciare inondare di luce la stanza e illuminai il corpo statuario del mio dio, steso sul divano.

«Ma non hai dormito nel lettone?»

«No, tranquillo. Non è colpa tua».

Sapevamo entrambi che non poteva non esserlo.

Andavo a scuola a piedi, trascinandomi dietro il mio zaino con le rotelle. Davanti alla porta del nostro vicino trovai delle macchie spiaccicate. Un centro arancione, leggermente desaturato, incistato in mezzo a una vischiosa palla bianca, tutto spolverato da pezzetti di gusci rosa. Di autunno rastrellavo anche le foglie dei giardini comunicanti con il nostro. Nel quartiere dicevano che ero gentile. Un paio d’anni, in una serata d’autunno dai tempestosi intenti, la mia dea era corsa in casa mentre la pioggia aveva osato bagnarla. Entrando aveva visto una foglia, marrone e sudicia di pioggia e fango, incollata alle scarpe. Aveva fatto una smorfia, sollevando quel pezzo di labbro che non mi era stato concesso. Ho cercato per giorni quel paio di scarpe per pulirgliele.

Il mio dio aveva dormito sul divano e come atto di rivolta al cosmo non pulii quelle uova rotte.

Nel cortile della scuola i miei compagni giocavano a calcio, ignari che il mio sostare, da solo, in disparte sulle scale che portavano alla mensa, era votato esclusivamente alla protezione del segreto della visione mattutina della mia dea. Il pallone mi rotolò vicino ai piedi e il richiamo sferico mi vinse, e tradii il mio culto. Lo calciai con il mio entusiasmo e lo rincorsi per unirmi al gruppetto di calciatori. Non mi dissero grazie, ma sapevo che nella foga della partita non c’è spazio per l’intromissione della gentilezza. Saltellavo sulle punte, in attesa di imprimere il collo del mio piede ed esibirmi in un tiro a effetto che avevo imparato da Oliver Hutton. Invece che congratularsi per il twist che avevo impresso alla palla mandandola in alto contro le nuvole, mi spinsero a terra. Sapevo che nella foga della partita non c’è spazio per la gentilezza: capitano dei contrasti duri. Mi spolverai i pantaloncini e tornai a saltellare, pronto a sfoderare il tiro della tigre di Mark Lenders ma mi dissero di allontanarmi. Mi spintonarono fuori dall’invisibile confine del campo. Dissi che stavo giocando anche io, ma quel nugolo di calciatori ribatteva che erano già in troppi. Erano già uno sciame, addosso a me, che mi spintonava indietro verso le scale. Una di quelle mani si fece un segno sul labbro, mimando il solco del mio labbro leporino, e disse che non potevo giocare: rischiavo di tagliarmi di nuovo. Le loro risate mi diedero fastidio alle orecchie come il gessetto che stride sulla lavagna. L’attrezzo a uncino del dentista che raschia sopra i miei denti cercando le carie. Le lame gelide delle forbici che si chiudono troppo in alto e mangiano via più della parte bianca che gli spetta, e il sangue che scivola fuori incapace del movimento di risacca del mare.

A pranzo, mi presentai a casa con un cerotto sul labbro per nascondere la vergogna della mia famiglia.

Aspettavo che tornassero a casa. Faticavo a credere che tutta la loro bellezza era uno splendore concesso al mio muso: cercavo disperatamente di esserne all’altezza. Avevo paura che le stelle iniziassero a pigolare prima che i miei dei rincasassero. Avevo già apparecchiato. Il cerotto che tenevo sul labbro venne a incontrarmi nel riflesso del vetro. Schiacciai la mia fronte per spiare il vialetto d’ingresso. Rimasi a vegliare tutto il pomeriggio. Dovevo evitare assolutamente di chiudere gli occhi. Quando mi cadevano le palpebre sentivo lo sciack delle uova che il mio vicino aveva buttato dal tetto di casa sua. Le palpebre andavano a incontrare il tappeto delle ciglia. Sciack. Sbarravo gli occhi e riprendevo il mio ruolo di sentinella. Temevo che il sole avesse cotto quelle uova. Sciack. Mi costringevo a tenere le serrande degli occhi sbarrate. Al quinto sciack capii che mi avevano punito anche loro. Non mi meritavo la loro bellezza. Avevo il labbro leporino.

Pensai di essere uscito a cercarli, invece i miei piedi mi avevano portato a caccia. Scovai lo stormo dei miei compagni che si accalcava attorno al pallone, nel parco comunale. Stavano ridendo, tronfi nelle loro labbra perfette. Chiusi gli occhi e vidi una frittata. Sciack. Un seno intoccabile. Clack. Aprii le serrande degli occhi e riconobbi una mano alzata a chiamare la palla, tesa come l’asta di una bandiera. Fui una tigre e sbattei a terra il mio compagno. Sentivo i loro pungiglioni sulla mia schiena, ma fui più veloce a estrarre i miei artigli e con una zampata precisa incisi il labbro superiore del mio compagno di banco.

Poi fu la notte su di me.

Ricordo con esattezza l’odore della schiena del mio dio che era venuto a salvarmi. Mi riportò a casa, in groppa. Pulì le mie ferite e mi fece usare il suo spazzolino con la setola dura. Sorridendo, mi concesse il privilegio del lettone. Dormimmo e ci svegliammo con l’alito appesantito dalla notte.

«La mamma?». Lo chiesi, ma sapevo che il culto della mia dea era finito.

Bianca Battilocchi: il ritmo che ritorna

0

 

 

«Territori dell’esplorazione / li legge

chi corre / distante dalle pagine»

Il ritmo che ritorna di Bianca Battilocchi è il quinto titolo della nuova serie dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota di Battilocchi. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.

 

ATTORNO AI TESTI

 

Racconto corale, storie che rifioriscono nella meditazione, trasformazioni.

Il paesaggio come corpo da leggere, la lingua come materia da manipolare: cortecce e strati da evidenziare.

 

«So bene che una dolce primavera

agli occhi dell’Eterno – è un niente.

Ma sono un uccello, non te la prendere

se è leggera la legge che mi governa»

(Marina Cvetaeva)

 

 

 

Qui nessuno dice niente. Un anno di scuola tra i carcerati – Domenico Conoscenti

0

Brani dalla ristampa del libro di Domenico Conoscenti (il Palindromo, 2021)  pubblicato da Marietti nel 1991: il diario di insegnamento in un Casa di reclusione in Sicilia, nell’anno scolastico 1986-87, in coincidenza con l’entrata in vigore della cosiddetta Legge Gozzini

lunedì 2 febbraio

 

Durante la ripetizione di storia in IIIª B entra a chiamarmi un allievo dei corsi elementari per conto della sua insegnante. Quando finiamo, anziché aspettare accanto al cancello, vado nell’altra aula. Come una scorta mi accompagnano gli otto allievi di oggi, ansiosi di sapere.

La curiosità è presto soddisfatta: la collega chiede se ci sono novità circa lo spettacolo da fare. Evidentemente i detenuti si sono passati la voce. La cosa va assumendo proporzioni e aspettative più grandi del previsto.

«Abbiamo parlato con gli educatori qualche giorno fa; il direttore ci ha fatto sapere di essere d’accordo in linea di massima, però bisogna concordare tempi, modi, circostanze…».

Non ho neanche finito di parlare che come una furia irrompe nell’aula l’appuntato di turno: piccoletto, baffi neri, sguardo truce: «Cosa fate tutti qua? Se avete finito le vostre lezioni tornatevene in cella!». Con la collega ci guardiamo attoniti.

«Un momento… calma… ragioniamo con calma», comincia Oliveri [uno de corsisti] «non c’è bisogno di fare così, stiamo discutendo una cosa brevissima…».

«Non avete proprio niente da discutere. Non lo sapete che è vietato stare insieme nella stessa classe? Avanti! Subito fuori!», lo interrompe quello ancora più infastidito.

Mi sento chiamato in causa più dai tentativi di Oliveri che dallo sguardo sinistro che l’appuntato mi sta rivolgendo: «Abbiamo appena finito le lezioni e in attesa, come al solito, che escano i corsisti e i colleghi delle altre classi, stavamo vedendo chi era disponibile per lo spettacolo che…».

«Spettacolo? Quale spettacolo? E chi ne sa niente!», mi interrompe sopraffatto dall’ansia di riprendere l’assalto. Come in certe favole, devo avere pronunciato senza saperlo la terribile parola magica, quella che scatena la furia incontrollata di tutti gli elementi. «Avete deciso già tutte cose per i fatti vostri senza neanche dirci niente!», continua rabbioso. «E il maresciallo lo sa? fate presto voi a decidere e organizzare ma questo è un carcere che vi pare? qua non siete a scuola e questi sono carcerati, delinquenti, anche se con voi fanno finta di comportarsi bene».

Oliveri e il detenuto che era venuto a chiamarmi tentano nuovamente di fare da pacieri, cercano quasi di prendere le nostre difese per il fatto di essere tutti lì. Ma nella sua furia quello ha già perso di vista il pretesto scatenante. Bersagli dei suoi strali siamo noi insegnati e via via tutto il personale del carcere, gli educatori, «ma chi si credono di essere questi?», ogni superiore in genere, infine tutti quelli che hanno la responsabilità delle condizioni in cui sono costretti a lavorare.

«A noi nessuno ci avvisa mai di niente, siamo sempre gli ultimi a sapere le cose però siamo quelli che mandano avanti il carcere quelli che devono rinunciare ai loro turni di riposo per essere qua e permettere a voi di organizzare le vostre cose. Lo sapete che oltre ai turni continui che facciamo una volta di mattina una di pomeriggio e una di notte siamo obbligati a fare straordinari pagati una miseria e pure quelli per la scuola? Dobbiamo continuamente rimandare le nostre ferie e il riposo settimanale perché siamo in pochi e non arriviamo a coprire tutti i turni eppure se si fa qualche cosa è perché ci siamo noi che rischiamo anche la vita per questo lavoro. Speriamo che questo spettacolo non si farà perché per noi significa altro straordinario e io la famiglia quando la vedo? Tutto questo poi per chi? Per questi, sì, ora con la riforma fanno tutti i santi ma noi lo sappiamo come sono veramente e voi che li difendete e parteggiate per loro…».

Ripenso alle volte in cui alcuni detenuti si sono lasciati sfuggire commenti malevoli verso certe guardie, a quando hanno accennato episodi poco edificanti su alcuni di loro nel tentativo di instaurare una forma di complicità. Mentre questo qui mi colpevolizza per tutto l’ordinamento carcerario italiano, provo un senso acutissimo di pentimento per non avere concesso mai il minimo spazio a quelle occasionali maldicenze.

Anche gli altri intanto sono usciti, si avvicinano, si forma un capannello nel cortile. Sopraffatto dalle raffiche di parole concitate che continua a sventagliarmi addosso, ho rinunciato a replicare qualunque cosa. Del resto sono molto teso, se dovessi tradurre in parole quello che mi si agita dentro in questo momento, verrebbe fuori qualche frase pesante.

Adriana [la collega di matematica] interviene a spiegare come e perché si è arrivati a parlare di spettacolo e del consenso da parte del direttore. Quello si va ammansendo anche perché ora si sente considerato, circondato dalle spiegazioni pazienti di Adriana e delle maestre.

Nonostante tutte le sue ragioni, l’atteggiamento di questa guardia mi rimane comunque indigesto. Sarà la stanchezza di questo fine quadrimestre, con i suoi ritmi di compiti, interrogazioni, giudizi da formulare… Penso che nella sua furia sadomasochista è riuscito a farci “giustificare” dai nostri allievi, a rendere solidali detenuti e insegnanti contro di loro, a farci quasi chiedere scusa per essere lì a tentare di fare il nostro lavoro.

Mi convinco sempre più che il carcere disintegra voracemente non solo gli intonaci e le suppellettili, ma qualunque cosa riesca a inglobare, è solo questione di tempo. Si azzera al suo interno ogni differenza tra carcerati e carcerieri, coatti gli uni e gli altri, protagonisti attivi del processo di disgregazione reciproca, in corsa verso l’entropia, destino di ogni microcosmo chiuso.

 

martedì 12 maggio

 

– IIIa B – «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», recita Fardella, leggendo il 3° comma dell’articolo 27. Il silenzio assoluto sottolinea l’attenzione immediata che si è creata a queste parole.

Le collego all’articolo 13 e chiedo se le loro esperienze confermino o meno quanto appena letto, «perché nell’altra classe, più di una volta hanno parlato di episodi che smentivano l’osservanza di questi articoli».

«Mentre mi portavano in carcere, i carabinieri mi hanno preso a legnate», dice Rubino, dopo un attimo di esitazione. E Modica: «No, a me non mi è capitato, sono stato fortunato, ma quando ero a P. di queste cose se ne vedevano e sentivano in continuazione… perché?… quasi sempre senza motivo, perché sanno che non possiamo, che non ci conviene reagire… forse perché a stare dentro certuni diventano più animali di noi».

«Qualcuno ha mai denunciato questi fatti?», chiedo. Momento di silenzio. «Tanto si sa», cerca di spiegarmi Modica «siccome i delinquenti siamo noi, la colpa di quello che succede è sempre nostra e uno, dopo avere subito la soverchieria, si becca pure il rapporto o l’aumento della condanna… tanto vale subire e stare zitti».

«Allora è perché pensate che la giustizia si ritorce contro chi la promuove, almeno nel vostro caso?».

Inaspettata, come fuori campo, giunge la voce di Oliveri: «No… no… non è solo per questo», e tace a godersi la sorpresa del suo sibillino intervento. Lo invito ad essere più esplicito, ma lui si limita ad aggiungere: «Non lo fa nessuno. Perché… non si fa».

E a conferma di questa asserzione, molti raccontano esperienze, casi in cui chi ha subito soprusi non ha mai parlato, né di sua iniziativa, né se interrogato.

Faccio notare che non parlare significa in un certo senso rendersi complici di una situazione che va comunque a loro danno. Forse, con la paura della denuncia molti si tratterrebbero dall’abusare della loro posizione…

«Noo. Che denuncia!», dice Oliveri. «Si può vedere di parlare con le persone, convincerle a ragionare…». Non è difficile dimostrare l’improponibilità della sua tesi di fronte alle situazioni che mi hanno descritto fino ad ora. Ma è chiaro che lui per primo l’ha detto senza crederci. Insomma, tutto pur di evitare di rivolgersi agli agenti, al direttore o al magistrato.

Escluso come prioritario ogni motivo di ordine pratico, mi trovo davanti a un dogma di comportamento, alla norma di un codice d’onore, indispensabile per mantenere integra la propria dignità. A questa mia affermazione emergono sorrisi stiracchiati, tentativi di schermirsi, con la fiacchezza tipica di chi non sa cosa opporre in concreto.

«Non è perché uno ha paura di quello che possono dire o pensare gli altri compagni… È proprio un fatto di carattere comportarsi così», replica infine Modica col consenso convinto dei compagni.

«Ma se non porta a risultati positivi, perché mantenere questo atteggiamento, perché non abbandonarlo?», insisto.

C’è qualche istante di silenzio, poi si sente la voce incerta di Oliveri: «Sarà un fatto di cultura?!».

Non è chiaro se si tratti di un’autentica domanda o di un suggerimento sfumato. In ogni caso evidenzia che una parte della comunità sociale non riconosce, nella propria “cultura”, le istituzioni espresse dalla società nel suo complesso. Non mi pare che le nostre radici, le stratificazioni storiche possano spiegarla del tutto. Se questa cultura persiste vitale fino ad oggi, deve essere funzionale a tutto il campo di forze in cui siamo immersi.

«Mi avete ripetuto che in carcere non si può fare altro che subire, ma fuori? Se qualcuno di voi subisce un sopruso, a chi si rivolge?… O si deve fare giustizia da sé?».

Nessuno dice niente per un lungo interminabile momento. Riformulo la domanda, ma dopo un altro più breve silenzio, Oliveri risponde stancamente: «Sarebbe lo stesso anche fuori. Ci comporteremmo come qui», dando voce al desiderio comune di chiudere in qualunque modo la discussione e passare ad altro.

Se questa sfiducia nelle istituzioni e nell’ordinamento della giustizia sembra precedere l’esperienza della detenzione, il carcere per la sua stessa struttura finisce per approfondirla e consolidarla, creando, in più, dipendenze che continueranno anche dopo. Forse, più che “tendere alla rieducazione del condannato”, il carcere punta a una funzione di deterrente, e a presentarsi come la vendetta della società contro chi non ha rispettato le sue regole.

 

  venerdì 15 maggio

 

– IIIa A – Arrivati all’articolo 29 accenno alla legge n. 151/75 per evidenziare gli aspetti più importanti dell’uguaglianza giuridica dei coniugi. Si lasciano coinvolgere con molta disponibilità e ben presto i riferimenti personali prendono il sopravvento, per quanto io non faccia nulla per spingerli in questa direzione, anzi…

I più partecipi sono Farone, Napolitano e Di Bartolo. Perfino Fazio, di solito così riservato, dice che ha scoperto come i figli tenessero a lui, durante la latitanza, quando insieme a loro passava ore e ore. Merulla, che invece non è sposato e non ha figli, accenna a un ricordo di suo padre: «Lo vedevamo solo la sera tardi, quando ritornava dal lavoro o nei giorni di festa e allora o se ne usciva per i fatti suoi o voleva essere lasciato in pace… però, se restava con noi, era come un estraneo quasi, che disturbava l’intesa che c’era tra noi fratelli e con nostra madre…».

Gli interventi si appuntano sul diverso atteggiamento dei genitori verso i figli. Si parla della figura del padre, così sbiadita a confronto con quella della madre, o relegata al rango di una distante autorità da cui discendono solo permessi, divieti, soldi o castighi.

Mi raccontano, con una punta di tristezza e di malcelato orgoglio, come durante i colloqui, o attraverso le notizie della moglie, i figli spesso lamentino la loro assenza. È un modo di dirsi il loro bisogno di un rapporto coi figli, a cui non è estraneo forse un nascosto senso di colpa. Glielo faccio notare. Sorridono arrendevoli.

Nel vuoto di affetti e di interessi, ora che non sono più il sostegno economico principale e che difficilmente possono mantenere il ruolo di guida morale, scoprono un modo diverso di stare con loro: come compagno di giochi, confidente, fratello maggiore. Per qualcuno sembra già un rimpianto, un desiderio rassegnato: c’è la coscienza di uno spazio vuoto destinato ad aumentare tra sé e i figli che inevitabilmente crescono anche senza la loro presenza.

Emerge ancora il tentativo di servirsi dei figli come alibi per qualunque sacrificio: «A loro non deve mancare niente, non devono passare quello che ho passato io alla loro età…». Ma già nel momento in cui lo dicono, il tono si affievolisce, si insinua sottovoce la consapevolezza che questa strada non ha portato bene neanche ai figli, oltre che a loro stessi.


 

Domenico Conoscenti (Palermo, 1958) è autore del romanzo La stanza dei lumini rossi,    ( e/o 1997) il Palindromo 2015, della raccolta di racconti Quando mi apparve amore, Mesogea 2016, e del saggio I Neoplatonici di Luigi Settembrini. Gli amori maschili nel racconto e nella traduzione di un patriota risorgimentale, Mimesis 2019.