Home Blog Pagina 97

Finitudine

2

di Antonio Sparzani

E’ uscito da qualche giorno il volume dal singolare titolo FINITUDINE, che l’autore, Telmo Pievani, definisce nel sottotitolo ”romanzo filosofico su fragilità e libertà” (Raffaello Cortina, € 16,00). Telmo ha ottenuto a Padova la prima cattedra italiana di “Filosofia delle scienze biologiche”, ha molti scritti, scientifici e divulgativi, alle spalle, ha collaborato con Luigi Luca Cavalli Sforza (di cui ha qui scritto un bel ricordo) e, lo si sente in ogni riga di quel che scrive, è un autentico appassionato della sua scienza, della ricerca e dei collegamenti della sua scienza con altri rami del sapere, più o meno adiacenti.

Albert Camus ritratto da Antonio Molino

Non è facile descrivere questo libro, data la sua densità e la ricchezza di prospettive che offre. Comincerò a raccontare la singolare maniera in cui è organizzato. Il 4 gennaio 1960 Albert Camus (Nobel 1957 per la letteratura) moriva tragicamente sul colpo in un incidente d’auto. Pievani si immagina questa finzione: Camus non muore sul colpo, ma, ricoverato in ospedale, gravemente ferito, rimane tuttavia lucido e in grado di conversare e argomentare. Il suo amico
Jacques Monod ritratto da Antonio Molino

Jacques Monod (che riceverà il Nobel “per la fisiologia o la medicina” nel 1965 insieme ai colleghi francesi François Jacob e André Lwoff, pure molto nominati nel libro) si precipita a trovarlo. Sia Camus che Monod stavano realmente scrivendo, al momento della loro scomparsa (quella di Monod nel 1976) ciascuno un libro, L’ultimo uomo quello di Camus e L’uomo e il tempo quello di Monod. Pievani si immagina che si tratti dello stesso libro, le cui bozze Monod comincia a leggere all’amico in ospedale: quindi tutto comincia con la lettura della bozza del primo capitolo; ne discutono, lasciano passare qualche settimana e Monod torna con la bozza del secondo capitolo e così via fino al sesto capitolo e alla chiusa finale, che sarà anche una chiusa per l’amico Albert. Dunque il testo del libro si finge sia stato scritto dai due amici e Pievani vi aggiunge i loro molto interessanti e spesso divertenti colloqui ospedalieri periodici. L’altra cosa fondamentale di questa scrittura è che l’autore immagina che il De rerum natura di Lucrezio sia una specie di filo conduttore: l’esergo all’inizio di ogni capitolo è un passo di quest’opera di venti secoli abbondanti fa, che peraltro si attagliano stupefacentemente al contenuto del capitolo.
Tutto parte da questa strana parola del titolo: Finitudine è, così si comincia a capire, una proprietà di tutto quanto, l’umanità finirà, la Terra pure, il sistema solare, la galassia nella quale incessantemente giriamo e anche tutto l’universo andrà verso quella che i termodinamici fin dall’inizio del secolo scorso chiamavano la morte termica dell’universo. Non c’è ombra di trascendenza in tutto questo libro, Telmo è un darwinista convinto, gli dèi della Grecia sono morti e non si ha notizia di altri che li abbiano degnamente sostituiti. Ma la ricerca che spinge tutto l’argomentare del libro è quella di una scappatoia, di una luce in fondo alla strada, di qualche percorso che ci conduca a uscire dalla disperazione del finire, e io certo qui non voglio fare spoiling e dirvi chi è l’assassino, o, meglio, se e come qualcosa ci salva dall’assassino. I titoli dei capitoli da soli indicano questa strada: 1. La finitudine di tutte le cose, 2. Sfidare la finitudine con la tecnica, 3. Sfidare la finitudine con il progresso, 4. Sfidare la finitudine con il DNA. Ma il capitolo 5 ha un titolo diverso: Diventare un coleottero alato, e il sesto, poi, si chiama Le virtù della finitudine.
Il libro non è sempre di immediata facilità, soprattutto quando Monod spiega all’amico Albert certe sottigliezze della genetica tirando fuori gli operoni e la allosteria (per carità, senza apostrofo), ma la sostanza dell’argomentazione si capisce sempre. I colloqui dei due poi, il genetista, colonna del prestigioso Istituto Pasteur di Parigi e l’amico Albert, già nume sacro dell’ambiente letterario francese, sono infarciti di altre vicende, grandi e piccole: i due hanno fatto entrambi la Resistenza antinazista nel loro paese e anche su ciò hanno ricordi comuni; Monod poi, sta cercando di liberare una collega genetista ungherese dalle durezze del regime (siamo nel 1960, ricordate?), cosa che poi nella realtà veramente riuscì. Ho molto apprezzato anche la competenza di Pievani che ha dovuto forzatamente limitarsi a quello che era noto sessanta anni fa, anche se una volta il termine “pandemia” è menzionato, dato che, dal punto di vista della genetica e della medicina in generale, sempre si tratta di una possibilità futura. Confesso che l’ho letto con grande piacere e non esito a consigliarlo, soprattutto poi di questi tempi in cui tutti abbiamo più tempo da dedicare alla lettura e a cercare di praticare quella che a un certo punto del libro, questo è l’unico indizio che vi fornisco, viene chiamata etica della conoscenza.

  Love is Love: nessuno ci può giudicare

0

      

di Antonella Falco

«Sono allergico ai modi maschili, ignoranti, con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la mia confusione di generi, è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni, da cui poi si generano discriminazione e violenza. Sono fatto così, mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina. Tutto qui? Io voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità che per me significa delicatezza, eleganza, candore».
Achille Lauro, Sono io Amleto

Sulle note del Bolero di Ravel due giovani amanti, avvolte in un lenzuolo, si abbracciano e si baciano rinchiuse in una gabbia, su un carrozzone da circo. Dietro di loro, scritte su una tela bianca, tre parole lapidarie: Love is Love. L’amore è amore. Sempre e comunque. Questo il titolo, e anche il senso, dell’installazione che Achille Lauro ha esposto domenica 25 ottobre al Museo Nazionale del Cinema, nella suggestiva cornice della Mole Antonelliana, simbolo della città di Torino. Città che ha ospitato dal 22 al 25 ottobre la 35° edizione del Lovers Film Festival, uno dei più importanti festival LGBTQI d’Europa.

Ospite della giornata conclusiva, il cantautore romano avrebbe dovuto essere fisicamente presente alla manifestazione, ma in ottemperanza alle nuove disposizioni di sicurezza relative al Covid 19, e per disincentivare la mobilità tra le regioni, ha deciso di presenziare all’evento serale Conversazioni maleducate, un talk con la direttrice del festival Vladimir Luxuria, da remoto, collegandosi dal proprio appartamento milanese. L’artista non si è però risparmiato e nella mattinata di domenica 25 ottobre ha esposto al pubblico la sua installazione che dimostra come Lauro De Marinis non smetta mai di evolversi artisticamente e di lanciare messaggi importanti attraverso la propria arte.

Love is Love è una performance potente, icastica, e nello stesso tempo delicata e poetica. Parla di discriminazione, di pregiudizio, denuncia come l’amore omosessuale sia ancora considerato un fenomeno da baraccone. Le due amanti sono chiuse in una gabbia da circo: due freak da esporre al pubblico ludibrio, allo scherno di gente che si arroga il diritto di giudicare l’amore, come se l’amore potesse essere giudicato o imbrigliato o regolamentato. Come se l’unica regola dell’amore non fosse quella di non avere nessuna regola. Lauro è un artista di estrema sensibilità, dotato di una genialità visionaria, e checché ne dicano i suoi detrattori è il personaggio che mancava nel panorama artistico italiano, quello che può dare uno scossone a questa Italietta sonnacchiosa, anestetizzata, ottusa, spaventosamente arretrata e ancora ridicolmente arroccata su anacronistiche convinzioni fallocentriche e machiste.

Durante l’intervista con Vladimir Luxuria il cantante ha ribadito l’intento di portare avanti le proprie idee e di manifestare la propria identità incurante del giudizio degli altri. Ha sottolineato inoltre come anche la performance presentata a Torino «non sia solamente legata all’orientamento di genere, ma a una libertà generale di scelta, di decidere chi essere». Dunque, secondo il cantante, Love is Love «non è circoscritto all’orientamento sessuale ma è la rappresentazione della libertà di essere in tutte le sue forme», essendo assurdo che l’amore e i sentimenti, in questo periodo storico, siano ancora oggetto di giudizio da parte degli altri. L’invito è quello di scrollarsi di dosso i «pericolosissimi pregiudizi che purtroppo ancora affliggono la nostra cultura» e lottare per raggiungere «una coscienza comune in cui non esista più l’imposizione culturale del maschio macho».

D’altra parte la libertà di esprimere senza inibizioni il proprio orientamento sessuale sarà un diritto veramente acquisito solo quando nessuno farà più caso ad esso o sentirà il bisogno di spezzare una lancia a favore di un esponente della comunità LGBTQI. Fino a quando l’identità di genere non sarà considerata come il colore degli occhi – possiamo dire, parafrasando Che Guevara e Bob Marley – la lotta contro le discriminazioni non potrà dirsi veramente conclusa.

È un tema sul quale si è soffermato recentemente anche l’attore e regista Harry Macqueen presentando il suo film, Supernova, interpretato da Stanley Tucci e Colin Firth, all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, conclusasi in contemporanea con la kermesse torinese. Rispondendo a una domanda sulla scelta di inserire nel film una coppia omosessuale, il regista ha affermato: «Sin dall’inizio mi è sembrato che l’orientamento sessuale dei personaggi non avesse tutta questa importanza, e tuttavia avevo voglia di raccontare una storia più originale. Parlare di una coppia gay mi è sembrato un modo di guardare al futuro. Fare cinema è un atto politico, e in questo caso lo è maggiormente perché ho presentato al pubblico un mondo che è quello in cui vorremmo vivere, un mondo in cui le persone non vengono giudicate per il loro orientamento sessuale».

Autoritratto di Achille Lauro, postato sui suoi canali social, in cui il cantante elenca tutti gli insulti ricevuti per i suoi look gender fluid

Quanto ad Achille Lauro, nella sua ancor giovane carriera ha dimostrato di saper essere teatrale, istrionico, provocatorio, dannatamente sexy e sfacciatamente queer. C’è chi lo ha paragonato a Renato Zero e a David Bowie, chi ha chiamato in causa Madonna e Lady Gaga. In Lauro c’è indubbiamente tutto questo, ma anche molto altro. Tuttavia la cosa che maggiormente dovrebbe far riflettere è che se davvero Achille Lauro ricorda i suddetti artisti significa che le sue performance abbracciano, in quanto a background musicale e culturale, un arco cronologico che va dalla fine degli anni Sessanta ai primi Duemila. Conseguentemente molti di coloro che lo attaccano e criticano ferocemente le sue apparizioni in pubblico hanno un’età in base alla quale dovrebbero già essere edotti agli eccessi e alle provocazioni del glam rock alla Bowie o del pop targato Madonna, dovrebbero cioè da tempo aver metabolizzato quel linguaggio scenico e assimilato il messaggio di libertà, anticonformismo e non omologazione che esso veicola. E invece costoro sono rimasti sorprendentemente scandalizzati dalle esibizioni sanremesi del cantante, reagendo via social con post e commenti nei quali lo facevano oggetto di derisione e rigetto, pur nella incapacità di argomentare il loro rifiuto in forme che andassero oltre il mero e fin troppo facile insulto.

Achille Lauro è dunque un personaggio sicuramente più affine a taluni artisti d’oltreoceano che ai canoni e ai cantanti di casa nostra e questo fa di lui la cartina di tornasole in grado di misurare il livello dell’arretratezza italiana, perché se c’è un posto in cui un artista come Lauro possa ancora suscitare scandalo, essere incompreso e diventare bersaglio di scherno e violenti attacchi verbali è proprio il Bel Paese.

A Lauro va dunque il merito di aver squarciato il cielo di carta delle nostre certezze progressiste, di aver fatto emergere tutta la grettezza, l’angustia mentale e la meschinità che ancora si nascondono tra le pieghe di un Paese apparentemente evoluto e moderno. Le sue innocue e candide – se paragonate alle battaglie per l’emancipazione, condotte anche a suon di musica e di performance artistiche, degli anni Sessanta e Settanta – esibizioni sanremesi hanno finalmente riacceso dubbi, questioni, interrogativi troppo a lungo sopiti. Lo show deliberatamente barocco, eccessivo, sensazionale, in una parola camp che Lauro De Marinis ha inscenato sul palco dell’Ariston ha messo in crisi e sfaldato i nostri meccanismi “teatrali” e le nostre convenzioni. La genialità di Lauro è stata proprio quella di usare la plateale finzione del teatro per mettere a nudo le nostre finzioni, le nostre ipocrisie, il nostro moralismo a buon mercato, le nostre costruzioni mentali. È bastato poco a mettere in crisi tali costruzioni. È bastato un ragazzo in tutina glitterata o in calzamaglia, gonna e parrucca, con gli occhi bistrati e la bocca accesa di rossetto. Un ragazzo (per di più etero) che bacia il suo chitarrista (anch’egli etero, con tanto di compagna e di figlia) sul palcoscenico più istituzionale d’Italia e che, con questo gesto semplice e allo stesso tempo dirompente, svela tutta la menzogna delle nostre coscienze addormentate.

Non solo, dunque, la grettezza degli omofobi, ma anche le comode e rassicuranti bugie di coloro che si vantano a vario titolo di essere l’intellighenzia progressista di questo Paese, di noi intellettuali e pseudointellettuali dalle ampie vedute, abituati a crogiolarci nella consueta certezza di abitare in quella parte del mondo in cui certi diritti sono ormai acquisiti una volta per tutte. Mentre il nostro Parlamento ancora arranca e procede a rilento nell’approvare una legge contro l’omotransfobia. E mentre le associazioni e i numerosi osservatori che monitorano la situazione nei vari Paesi del mondo e diffondono gli studi di settore dipingono un quadro non idilliaco anche per quel che riguarda l’Italia e alcune aree d’Europa.

La strada per sradicare i pregiudizi e garantire piena tutela civile alle persone LGBTQI è ancora, purtroppo, molto lunga. Basti pensare che fino a soli trent’anni fa l’Organizzazione mondiale della sanità annoverava l’omosessualità fra le malattie mentali, e la medicina imponeva cure coatte a donne e uomini in salute, andando ad alimentare da un lato le sofferenze psicologiche di tali persone e dall’altro lo stigma sociale di cui erano vittime. La situazione attuale dell’Europa risulta stagnante, in circa la metà dei Paesi dell’area non si sono evidenziati cambiamenti positivi nell’arco dell’ultimo anno, mentre per il secondo anno consecutivo si registra un dato inquietante, quello cioè di alcuni Paesi che stanno procedendo allo smantellamento delle tutele esistenti. Nei sei ambiti sottoposti a indagine (uguaglianza e non discriminazione, riconoscimenti legali, famiglia, libertà di aggregazione, incitamento all’odio e diritto d’asilo) l’Italia non va oltre il 23%, un punteggio che la assimila a quello dei Paesi maggiormente autoritari e discriminatori (basti pensare che l’Ungheria di Orban si assesta sul 33%). Soltanto il 68% della popolazione italiana si pronuncia a favore di pari diritti per le persone LGBTQI, un dato al di sotto della media europea. Se poi si prende in considerazione il riconoscimento legale dell’identità di genere per le persone transessuali la percentuale scende al 43%, e cala fino al 37% qualora si trattasse di indicare un “terzo genere” sul documento di identità.

Né può ritenersi immune dalle discriminazioni il mondo dello sport: secondo un sondaggio realizzato da Outsport il livello di omofobia e transfobia in Italia è superiore alla media europea. Allarmante è anche il dato relativo alle aggressioni, diffuso dall’Arcigay – in media una ogni tre giorni – con un picco nell’Italia settentrionale. A questa situazione, già di per sé grave, si aggiungono i problemi connessi al Covid 19: secondo alcuni esponenti delle principali religioni monoteiste la pandemia in corso sarebbe una punizione divina contro l’omosessualità, inoltre in Italia l’emergenza sanitaria ha prodotto un’impennata delle violenze in famiglia, che cresce fino al 40% in caso di persone adolescenti. Di queste meno di 1 su 60 sarebbe disposta a sporgere denuncia.

È in questo contesto che le performance sanremesi di Achille Lauro, la sua installazione Love is Love, i suoi look gender fluid, acquistano il valore di un gesto impegnato, di una dichiarazione d’intenti politica nel senso più bello ed etico della parola. D’altra parte è lo stesso Lauro ad affermare durante l’intervista con Vladimir Luxuria: «quello che abbiamo fatto in questi anni con la musica non basta più», rivelando l’intenzione di alzare l’asticella e di fare in modo che il messaggio divenga più pervasivo e sia veicolato attraverso molteplici linguaggi artistici affinché possa arrivare veramente a tutti.

I poeti appartati: Alberto Rollo

0

di

Alberto Rollo.

da Ultimo turno di guardia.

 

Cinque poesie con nota di Maria Grazia Calandrone

 

 

 

7.
Così li riconobbe il vecchio, ancora,
gli ultimi teatri.
Poi fu sequenza di sale
impedite, sgocciolii,
cordami molli sulla scena,
e poltrone divelte; e il “da capo”
tossito, scartavetrato
della memoria. Ora ho te
che eserciti la scienza
impietosa dell’assistenza
e che cancelli, nolente, ogni residua
parvenza di tempo. Benvenuto.
Estingui con servile
sapienza quel che resta.
Sii scudiero, custode, vigilante
notturno dei miei “tu”.

 

12.
Dicevano – così dicevano – che il vecchio
avrebbe patito nostalgie.
Balle. Immobile egli sta fra vetro e letto.
Non ha tempo, né fame, né vergogna.
Esili i polsi
sfuggono al legno della gogna; nuda
scivola la nuca, vedi il manto
trasparente di peluria e il cranio.
Secondino,
invero ingiudicato, e senza accuse,
accusa il vuoto.
Cencio, la pelle sente, e non sente.
Vecchio è sì tanto costui che non si pente
di essere stato o di non essere stato.

25.
Quella, laggiù, è una casa. Guarda.
Io l’ho abitata, sappi, l’ho abitata.
So un corridoio che cos’è, la stanza
dei genitori maestosa, il bagno
con la vasca, la domata
attesa d’una festa, e, profumata,
la cucina, le ombre sotto il tavolo:
la conosco l’infanzia, cosa credi?,
nel catalogo passo anche per un uomo.
Ma non temere, piccino, altri argomenti.
Io cresco carne che non può abitare.
Il tuo mestiere solo può
tollerarmi. Stammi al fianco.
Eppure – è l’alba questo sgomento rosa? –
eppure ecco laggiù le case, dio, le case,
case d’inverno. E i cappotti
e le sciarpe, le borse sotto il braccio,
le figure che vanno, i fiotti bianchi
dei fiati, il cane che attraversa
– diagonale imprudenza –
la coppa gialla ancora del lampione
altissimo, e una donna
– pallida, lunga, più operaia
che commessa – il fuoco degli zingari.

57.
Tu che non ascolti, tu che hai perso
la fragranza e il dono, mi sprimacci
il letto ad ammonirmi che ci sono.
Come dirti invece “quanto” sono?
Tu non pirati o sciti attendi in questo
modesto albergo di lungodegenti:
non l’opera degli uomini disfatta,
né l’opera di Dio. Ma tieni d’occhio
l’ora e il lento male sullo stesso
orologio.
L’elmo ti sta largo, e sulla lancia
sonnecchi come me.
Ultimo senza gloria, senza pianto,
guarda gli onesti soldatini,
le belle vivandiere, i capitani
di quelle retrovie, laggiù, e i fuochi,
e i vani bivacchi delle periferie.

Nota di lettura

di

Maria Grazia Calandrone

Il protagonista de L’ultimo turno di guardia di Alberto Rollo si presenta di vedetta. Come Agamennone, come un cane, come il sottotenente Drogo di Dino Buzzati. Anche qui la battaglia vitale e carnale è finita, ma il nemico immaginario non è fuori, è incluso in quella che non è fortezza, ma torre. Il libro inizia citando l’inizio della civiltà: il vecchio portato sulle spalle dal figlio. Chi parla, qui, è il vecchio, che affida alla pagina il proprio monologo anche stentoreo, anche teatrale, fatto di versi che vengono dal confine del tempo, da un osservatorio di vetro in cima a una torre, dove pulsa un presente quasi immobile e fatto tutto carne. Chi parla, è corpo decrepito che accumula in sé corpi trapassati, corpo che esiste e basta.

Accanto alla nostra sentinella immobile c’è un altro, una “torre gemella”. Le due torri gemelle, destinate senz’altro a crollare entrambe (chi, dopo il 2001, accosta la parola «torre» alla parola «gemella» sta evocando volontariamente una caduta rovinosa) sono corpi divisi, ma uniti nel comune destino mortale: il vecchio si riflette nel custode e lo guarda, con qualche scatto di rabbia e qualche tenerezza, affannarsi a far restare il corpo, a curarlo, a volte offenderlo involontariamente, favorendolo al gioco o esercitando su di lui «la scienza / impietosa dell’assistenza».Chi scrive esorta l’altro a depredarlo, piuttosto, ad approfittare della vita fin che c’è, perché «mai possesso fu più volatile» del tempo.

Quando la vita nella sua gran parte è evaporata – o meglio, quando la vita è ormai stata solo quel che è già stata e ogni altra possibilità è perduta – non rimane che tempo, non siamo che tempo che ancora dura nella carne e ogni tanto viene visitato da una scheggia di memoria inservibile o, peggio, da un desiderio infine solitario. Una tra le più belle immagini del libro è la Pietà formata dal vecchio sulle ginocchia dell’inverno. Freddo nel freddo, freddo sopra freddo senza morte, la mite morte, che pure s’aggira nella torre «vivacchiando» in attesa.

Il protagonista di quest’ultimo turno di guardia, pur avendo uno o più interlocutori, ha già collocato sé stesso oltre un confine invalicabile, si conserva dentro una solitudine riottosa, da stilita, abita un tempo impervio, un’altezza fisica e biologica dalla quale osservare e trascrivere la fine della storia, anzi di più: la fine del tempo lineare e l’impennarsi della linea del tempo nella sequenza di microfratture che altri chiamano vita.

Il vecchio però non ha rimpianti, né lezioni da dare: osserva, documenta quanto vede, con cura da scienziato. Perché lo fa, se non intende tramandare il passato? Lo fa per decifrare il presente e tramandare a sé stesso un presente vissuto come controluce, spesso, anzi, ustionato da una luce di cupola azzurra. Il presente acceca, ma la posizione di esiliato in altezza aiuta a comprendere nello sguardo molta pianura e molta circostanza, dunque il libro è una presa diretta dall’interno di una scelta luminosissima, ispirata, che punta lo sguardo alla briga degli affetti, del moto e del «brulicante / non amore», per infine concludere che, sì, valeva la pena. Vale ancora la pena.

 

Noi e l’arcipelago

0
É. Glissant, "L'archipel est un passage, et non pas un mur"
É. Glissant, “L’archipel est un passage, et non pas un mur”

[Ripropongo qui su NI la versione leggermente ridotta di un articolo uscito sul n. 50 della rivista “Sud” nel 2017. L’intero numero, dedicato all’Europa, è scaricabile qui]

di Ornella Tajani

Nel numero estivo della rivista «Critique», intitolato Nous (giugno-luglio 2017), Marielle Macé si chiede in apertura a quale singolare corrisponda il plurale «noi». L’autrice ricorda come già Émile Benveniste avesse notato che in quasi nessuna lingua il pronome di prima persona plurale è formato a partire dal pronome di prima persona singolare. Seguendo questo punto di vista, «noi» non è il plurale di «io», ma è semmai la «jonction» dell’io con il non-io, che forma, citando il linguista francese, «une totalité nouvelle et d’un type tout particulier», cioè un «noi» imbrigliabile.

[…]

Per Benveniste, l’«io» che forma il «noi» è dotato di una spiccata tendenza ad assoggettare il non-io; e Macé dal canto suo ricorda che il «noi» si costituisce spesso intorno a una causa, a una lotta comune, piuttosto che intorno a una generica pluralità. Nel 2014 Jean-Christophe Bailly aveva pubblicato su «Vacarme» un bel testo dal titolo “nous” ne nous entoure pas, sfruttando anch’egli alcuni spunti offerti dagli studi benvenistiani. Bailly scriveva che il noi è la moltiplicazione incessante di piccole ed effimere formazioni insulari, che lui propone di chiamare nostrations, concependo dunque l’identità come «une suite de nostrations».

L’idea del noi come tessuto proteiforme, composto di formations insulaires, richiama alla mente la pensée archipélique di Édouard Glissant: secondo il teorizzatore del Tout-monde, l’unità passa per la diversità, per l’accordo delle differenze. «Il medesimo non è la molecola dell’identità, perché il medesimo sommato al medesimo non dà che il medesimo, mentre il diverso sommato al diverso produce un’identità in continua evoluzione», diceva l’autore in un’intervista rilasciata a «Il Manifesto». La strada per la costituzione di un noi arcipelagico, quindi, è quella che sa accogliere tutte le differenze senza assorbirle e senza mai cercare punti fermi. È la strada della creolizzazione, o del decentramento senza annessione, per utilizzare la terminologia traduttologica di Henri Meschonnic, il quale sosteneva che il segreto della traduzione è riconoscere e palesare la distanza che separa due testi, e non fingere ch’essa non esista.

Il discorso traduttologico infonde nuova linfa alla riflessione nel campo della filosofia della relazione. È stato Umberto Eco a dire che la traduzione è la lingua dell’Europa, idea poi ampiamente ripresa e sviluppata. Per Glissant la traduzione è l’arte della rinuncia, e in tale rinuncia sta per lui tutta la bellezza del dono di sé all’altro:

Je dirai que ce renoncement est, dans la totalité-monde, la part de soi qu’on abandonne, en toute poétique, à l’autre. Je dirai que ce renoncement […] est la pensée même de l’effleurement, la pensée archipélique par quoi nous recomposons les paysages du monde, pensée qui, contre toutes les pensées de système, nous enseigne l’incertain, le menacé mais aussi l’intuition poétique où nous avançons désormais. […] Contre l’absolue limitation de l’être, l’art de la traduction concourt à amasser l’étendue de tous les étants et de tous les existants du monde.

Forse è proprio tale rinuncia di sé, tale dono, a consentire all’io di fare un passo verso il non-io, e dunque verso la costituzione di un noi che non sia mero assoggettamento dell’altro.

Tradurre è un atto etico, ricorda Meschonnic, perché trasforma il lettore e con lui la società, mostrando che l’identità è un concetto mobile, che solo può definirsi in opposizione a un’alterità. Si tratta della «identité qui chemine» di cui parla Glissant, la quale «renforce les uns et les autres, l’ici par l’ailleurs». Il noi arcipelagico è dunque quello strutturato sulla necessaria alterità che fonda ogni identità, sulla felice irriducibilità della coppia del «proprio» e dell’estraneo. Bisogna immaginare la traduzione felice, potremmo dire ampliando ulteriormente l’arcipelago di citazioni, poiché essa contiene il dono della rinuncia, dell’apertura all’altro come arricchimento, in uno squisito equilibrio dei guadagni e delle perdite di cui spesso è questione in traduttologia – intendendo qui con «traduzione» la voie royale della relazione fra due testi, due langues-cultures, due individui che si muovano da un’identità di partenza a una identità-alterità d’arrivo.

Una pellicola montata al contrario: su “Prima di noi” di Giorgio Fontana

0

 

 

di Daniele Ruini

1. Prima di noi, il maestoso romanzo di Giorgio Fontana uscito per Sellerio a gennaio 2020, rappresenta il tentativo riuscito di dare concretezza narrativa ad un’idea di Walter Benjamin: come ha più volte ricordato lo stesso autore –per esempio in questa bella intervista– l’ispirazione gli è infatti giunta dalla seconda delle Tesi di filosofia della storia, dove il filosofo tedesco scrive: «C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra». Ecco allora che la storia della famiglia Sartori, che Fontana accompagna per quattro generazioni –dalla disfatta di Caporetto attraverso tutto il Novecento e oltre–, risulta finalmente ben altro che non un “romanzo storico” (etichetta che, comprensibilmente, sta stretta allo scrittore); al centro delle vite di quasi tutti i personaggi principali del libro c’è infatti un rapporto tutt’altro che risolto col passato della propria famiglia, una sorta di legame, spesso accolto fastidiosamente ma ineludibile, nei confronti di chi è venuto “prima di noi”.

2. A più riprese vediamo i vari protagonisti provare frustrazione per l’impossibilità di sfuggire all’ordine degli eventi e per il fatto che la Storia sembra andare in una direzione già prestabilita. È quanto accade, per esempio, a due dei figli del patriarca Maurizio Sartori: Renzo («Tutto si ripeteva e ancora una volta sarebbe bastato poco per cambiare la storia»: p. 261) e Gabriele, che di fronte al corpo della moglie morta non vuole accettare di vedere perduti per sempre i giorni vissuti insieme: «non accettava che il destino glieli avesse sottratti anche se era nell’ordine delle cose. In mona l’ordine delle cose!» (p. 741). Ma lo stesso sguardo insoddisfatto verso il destino si ritrova nelle generazioni successive, per esempio in Libero (che, dopo aver subito l’ennesimo pestaggio da parte dei bulli della scuola, «desiderava soltanto sabotare il tempo»: p. 464) e così fino agli ultimi rappresentanti della famiglia Sartori, i cugini Dario e Letizia: se il primo, in procinto di lasciare Dublino per rientrare in Italia, avverte «la sensazione di essere entrato finalmente nel regno della maturità», un regno coincidente con quello «vasto e freddo della nostalgia, delle occasioni cui si è detto addio per sempre; il regno delle cose perdute» (p. 849); la seconda interpreta la soffocante e «costante paura del futuro» –che attanaglia lei e la generazione dei nati negli anni ’80– come la manifestazione di quella sofferenza («regolata da un principio di conservazione») a cui sono state improntate le esistenze dei nonni e dei padri (p. 864). Proprio a Letizia, nel suo disorientamento, si deve forse la riflessione più lucida sul rapporto con la storia famigliare, una dipendenza che assume la forma di una condanna:

Per decenni, per quasi un secolo la famiglia Sartori aveva costruito una nave partendo dal poco legno disponibile: di generazione in generazione era uscita dal fango e dall’oscurità alzando alberi, tessendo vele, rinforzando lo scafo e accumulando cordame. E infine ecco lei, l’ultimo elemento del processo, una decorazione lignea apposta sulla prua, perfettamente modellata ma in fondo inutile – e con gli occhi aperti sullo scoglio contro cui si sarebbe infranta. Possibile, si diceva, che il passato avesse una tale forza sul presente? Il potere di ciò che accade prima di noi è tale da forgiare un destino? O era soltanto colpa sua? (pp. 798-99)

Ma sarà proprio grazie a questa consapevolezza che Letizia saprà trasformare la percezione dolorosa del passato in una prospettiva che assume le sembianze della responsabilità: sarà infatti lei che, alla fine del romanzo, riuscirà in un certo modo a chiudere il cerchio, rafforzando in questo modo «un senso di identità familiare messo alla prova dalla storia e dai destini dei singoli» (come ha precisato Mario Bareghi).

3. Contraltare di questa frustrazione per il procedere del tempo sono alcuni tentativi, simbolici o del tutto immaginari, di bloccare l’ordine delle cose e cercare –per usare le parole di Libero– di «sabotare il tempo» e ipotizzare un destino altro. Ecco per esempio il giovane Domenico, il più fragile dei tre figli di Maurizio Sartori, che rimasto per un momento da solo a casa del signor Olbat (il loro dirimpettaio nella Udine degli anni ’30) ripensa all’umiliazione subita qualche giorno prima dal fratello Renzo, preso a sberle dal padre perché rientrato a casa tardi. E dopo il rimpianto per non essersi potuto sostituire al fratello, si volta verso una gabbia di piccioni e, impietosito da un uccello che «sembrava fissarlo», decide di liberarlo e di farlo volare fuori dalla finestra: «“Non tornare”, disse all’uccello», pur sapendo in cuor suo che probabilmente si trattava di un gesto inutile: «A cosa serviva? Sarebbe tornato subito, addestrato com’era» (p. 110).
Oppure Gabriele che, trasferitosi in provincia di Varese alla fine degli anni ’50, viaggia nei fine settimana tra la Lombardia e il Friuli, dov’è rimasta la famiglia. Nel dormiveglia del suo pendolarismo provava talvolta la sensazione che il treno «avesse invertito la direzione» e procedesse non verso Milano ma verso est, e che lui stesse «per smarrirsi nei meandri del vecchio Impero, solcando i monti su cui aveva combattuto suo padre» (p. 328). E a ciò si accompagnava un «inconfessabile desiderio»: Gabriele immaginava infatti «a volte di scendere alla stazione di qualche cittadina di provincia e allontanarsi, sconosciuto a tutti, per non tornare mai più» (p. 333).
E pensieri analoghi attraversano, anni dopo, la mente del figlio di Gabriele, Davide: impegnato come fotografo nella ex-Jugoslavia delle guerre civili, scrive all’amata Sophie del suo senso di inutilità di fronte alla tragedia che scorre sotto i suoi occhi; e le riferisce per lettera alcuni versi del poeta bosniaco Izet Sarajlić, tra cui questo: e se provassimo a fuggire dalla storia? (p. 698).

4. Tra queste ed altre epifanie che si rincorrono nel romanzo, quella più suggestiva è certamente la scena che ha per protagonista il giovane Renzo mentre assiste ad una delle pellicole proiettate al cineforum organizzato dal fratello Gabriele, l’intellettuale di famiglia. Il film («di scarsa qualità, girato con pochi mezzi»: p. 153) è ambientato in un Medioevo favoloso e racconta del dramma di una principessa che, promessa sposa ad un conte, viene uccisa in una congiura organizzata dalla madre. Renzo inizia la visione con atteggiamento dispettoso («E basta con questi filmacci noiosi!» urla dal fondo della sala); ma dopo aver iniziato «a tirare palle di carta in direzione dello schermo» (p. 152), il film attira tutta la sua attenzione. E subito dopo l’assassinio della principessa, ecco cosa accade (la scena è descritta dal punto di vista di Gabriele):

«Eh, no!», strillò Renzo dal fondo della sala. «Protesto!».
«Sta’ zitto», disse Gabriele.
«No, no, protesto. La principessa non può morire così, dopo neanche venti minuti. Che roba è?».
Suo fratello si era alzato e la sagoma si sbracciava contro le immagini del film: ma la sua voce aveva un tono diverso, come se non si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi, bensì di una questione fondamentale.
«Ha ragione», disse Eleonora Zancon. «Ma mica si può tornare indietro».
«La storia va avanti in questo modo», disse Luciano.
«E sai quanto me ne frega?», replicò Renzo trafficando con il proiettore. Luciano zoppicò per fermarlo, ma lui smontò semplicemente la pellicola e la fece ripartire all’incontrario.
Sullo schermo la principessa tornò in vita e le ombre dei congiurati sfumarono via da lei, come assorbite dall’oscurità delle scale: sul campo di battaglia il cavaliere smise di assistere il corpo esanime di un compagno, che si rialzò di scatto: la lancia fu estratta dal suo petto e la battaglia riprese a gesti di marionette. Il sole invertì la sua corsa nella volta celeste. […] Il menestrello cantò la sua canzone al rovescio. Un gomitolo di lana si riavvolse e tornò sul tavolo della regina madre. Il sovrano uscì dalla porta da cui era entrato, camminando all’indietro con un’espressione talmente buffa che Gabriele non riuscì a trattenere una risata. Nel bosco di larici i cavalieri indietreggiarono in modo innaturale.
Qualcosa si stava compiendo, ma nessuno sapeva spiegare perché fosse così importante e pervaso d’incanto. Tacquero fino a quando la pellicola non si esaurì, scattando su se stessa e lasciando solo il bianco – la semplice luce del proiettore.
«Ecco», disse Renzo alle loro spalle. «La principessa è salva». (pp. 153-154)

Che questa scena, apparentemente secondaria nell’economia narrativa, abbia invece un ruolo centrale –che sia, per l’appunto, «una questione fondamentale»– lo capiamo dal fatto che è richiamata ben due volte nel corso del romanzo, e sempre da Gabriele. La prima volta più di venti anni dopo (siamo all’inizio degli anni ’60), in una lettera scritta a Renzo dopo averlo incontrato per caso a Milano durante uno sciopero operaio: Gabriele confessa dapprima al fratello il suo rimpianto per il Friuli (il cui abbandono è definito come «un errore tremendo, di quelli che pagherò con l’infelicità»); e poi, rievocando l’antico gesto di Renzo che aveva voluto salvare la principessa del film, ammette che per loro non sarà invece possibile rimandare la storia all’indietro, e che saranno entrambi costretti a convivere con i loro errori (p. 387). La seconda volta vediamo invece un Gabriele ottantenne (siamo nel 2007), appena rincasato da una gita in montagna in compagnia della nipote Letizia (che ha voluto esaudire una specie di ultimo desiderio del nonno), parlare in questi termini alla ragazza: «Come devo dirtelo? La sola cosa che vorrei è riavere tutto da capo. Così com’era». E, citando per l’ultima volta l’episodio della pellicola mandata all’incontrario dal fratello, così si esprime: «Ecco. Vorrei mandare indietro il tempo e riavere mia mamma e tutto il resto» (p. 827).

5. Intorno ai suoi personaggi Fontana costruisce così una rete di risonanze emotivo-filosofiche che danno alla narrazione una profondità da romanzo “classico”. Come si è visto, al centro c’è la riflessione intorno al tempo e alla storia, in un’oscillazione continua tra passato, presente e futuro, tra quello che si è stati, quello che si è e quello che si sarebbe potuti essere. E un altro contributo in questo senso è dato dal personaggio della figlia di Renzo (e sorella di Libero), la musicista Diana, la quale intitola il suo ultimo disco Il dono della chiaroveggenza e sceglie per copertina la foto di uno scorcio deserto di un paesaggio di campagna; discutendone col suo produttore, secondo cui quell’immagine non sarebbe per niente appropriata, giustifica la scelta dicendo che «anche se potessimo vedere il futuro, resterebbe comunque il problema di cosa fare», ovvero di disporre di un «punto di riferimento» che invece costantemente manca (p. 605). Ecco dunque che il romanzo di Fontana si può leggere anche come un tentativo di rispondere a questa inquietudine, quella per la quale –è sempre Diana che parla– «abbiamo tutti molta paura perché non sappiamo come andranno le cose» (p. 593). In mancanza di un punto di riferimento, cercare umilmente «di riappropriarsi del tempo perduto e accumulato alle nostre spalle, delle vicende di chi ha vissuto e sofferto “prima di noi”» (come dice l’autore) può forse avere un effetto pacificante verso la frustrazione che accomuna gli esseri umani alla perpetua ricerca di un senso; oltre a rappresentare un’opportunità eticamente feconda per recuperare un minimo di apertura e –chissà– magari persino di solidarietà verso gli altri.

 

La distanza della didattica

4

di Chiara Portesine

Il dibattito sulla didattica a distanza anima ormai da marzo le testate giornalistiche e le riviste di settore – che, talora per la prima volta, si sono trovate ad aprire le porte a una discussione extra-specialistica e ‘militante’. Di fronte a uno stato d’emergenza che minaccia le strutture elementari dell’università, gli insegnanti si sono scoperti una corporazione che può farsi comunità, avanzando proposte politiche, sottoscrivendo petizioni e tornando a occupare, senza alcuna vergogna tardo-crepuscolare, le pagine di quotidiani e periodici nazionali. Il recupero di una voce esterna all’iper-codificato slang della ‘fascia A’, e la necessità di ripensare il proprio linguaggio senza il salvagente rassicurante delle note a piè di pagina e del citazionismo bibliografico, hanno creato piattaforme inedite di scambio e solidarietà digitale, come il Diario da una quarantena ospitato sul sito Griseldaonline[1].

A essere dimenticato o marginalizzato è stato, invece, il punto di vista del ceto accademico più debole, ossia quello dei dottorandi e dei ricercatori.

Lo sforzo richiesto a questa classe è stato duplice: in primo luogo, proseguire la propria ricerca nonostante la chiusura di biblioteche, archivi, fondazioni pubbliche e private, senza avere garanzie economiche relative a future proroghe. Accordate per i dottorandi ‘in chiusura’, alle soglie della discussione finale, le proroghe per i dottorandi al primo o al secondo anno (nel caso dei cicli triennali) rappresentano ancora un miraggio fumoso, in balìa di decisioni territoriali e senza un coordinamento centralizzato – ci saranno? Saranno retribuite? E come verrà tutelata la categoria dei dottorandi ‘senza borsa’? L’imperativo implicito è quello di continuare a lavorare (o, per conclamata impossibilità, a non lavorare) e poi si vedrà. Si è costretti a performare ‘come se nulla fosse’, continuando ad alimentare il circuito del publish or perish – che, senza aver più nulla da pubblicare, si riduce a una mera prospettiva suicida.

In secondo luogo, nel caso dei cultori della materia, una prova ulteriore è stata quella di aiutare i propri tutor nel passaggio alla DaD, improvvisando in pochi giorni inedite capacità informatiche su piattaforme come Teams o Google Meet – anche perché, come è già stato osservato[2], lo ‘smanettare’ su computer e tablet delle generazioni tecnologiche è stato ingenuamente scambiato per un’effettiva competenza, sia per gli studenti che per i giovani lavoratori. Il supporto fornito ai docenti, oberati di nuove incombenze virtuali, ha determinato un incremento del presenzialismo degli assistenti, che partecipano sempre di più alle sessioni telematiche esaminando i candidati o intervenendo come operatori tecnici per garantire la resa il più possibile normalizzata della ‘riunione’.

Se è giusto sottolineare il fatto che è stata la solidarietà, prima e in sostituzione delle istituzioni accademiche e politiche, a rendere possibile la DaD, è bene evidenziare come tra un professore, ordinario o associato, e un assistente non possa sussistere lo stesso rapporto orizzontale e paritario che vige tra colleghi che ‘si danno una mano’. A eccezione di alcuni casi privilegiati di reciproca stima, consolidati da una lunga cooperazione pregressa – come il clima in cui mi sono trovata fortunatamente a lavorare negli ultimi quattro anni –, i racconti che provengono da alcuni dipartimenti non fotografano una situazione di reale interscambio. Il tutor un giorno dovrà valutare il percorso dei propri dottorandi, e la gratuità di un aiuto assume inevitabilmente una forma meno libera e spontanea di collaborazione.

Il rischio è quello di sfruttare la situazione emergenziale per ottenere una manodopera non retribuita, sottoposta a un ricatto implicito e a forme di concorrenzialità inter pares tra colleghi, in una corsa all’aggiornamento digitale per diventare i collaboratori ‘più necessari’ agli occhi del datore di lavoro. Può esserci un’autentica e genuina solidarietà laddove esiste un rapporto di potere? Pertanto, anche la mitizzazione di un certo eroismo umanistico grazie al quale è stato possibile arginare la crisi andrebbe ripensata in relazione agli artefici più deboli di questo miracoloso ‘piano quinquennale’ dell’università.

L’accelerazione inaspettata del ruolo del dottorando ha comportato alcune difficoltà nello stabilire un regime di autorevolezza rispetto al corpo studentesco. Già in tempi normali, lo statuto ibrido dell’assistente – quasi coetaneo degli alunni più grandi – comportava una difficile calibratura tra ‘distanziamento’ e vicinanza, nel goffo tentativo di tarare il proprio status di semi-docente e semi-studente. Il pericolo di un eccessivo sfaldamento dei ruoli è stato potenziato dall’immissione nel circuito della virtualità: il format della bacheca di Teams è un contenitore visivo troppo simile a quello dei social network, con la possibilità di utilizzare la chat per una messaggistica sintetica che elimina i convenevoli tipici della comunicazione istituzionale – burocratica e polverosa, indubbiamente, ma funzionale al mantenimento di una diversità. L’inserimento di avvisi relativi al corso poteva essere accompagnato (e lo è stato) da reaction (il pollice-like, soprattutto, ma ogni tanto anche qualche cuoricino), per notificare l’avvenuta lettura della comunicazione, in un’indistinzione grafica tra la schermata di Facebook e l’applicazione dei meeting universitari.

La possibilità di intervenire con commenti istantanei (simili a quelli delle dirette Instagram), se garantisce alle lezioni in streaming la possibilità di un riscontro immediato anche da parte di studenti che non vogliono (o non possono, per ragioni legate al gap informatico) accendere la videocamera, comporta una serie di nuovi problemi comunicativi. In primo luogo, la proliferazione di notifiche sullo schermo necessita di un docente multitasking in grado di gestire, durante la spiegazione, gli eventuali avvisi del supporto informatico (la batteria scarica del portatile, la connessione debole del Wi-Fi ecc.) assieme a un monitoraggio costante dei commenti in presa diretta. Mentre le osservazioni e le domande in classe avevano un tempo specifico (la fine di un periodo o, ancora meglio, di un pensiero organico), i dubbi e le richieste degli studenti vengono digitate, per la natura stessa del medium, nel bel mezzo della spiegazione.

Per chi insegna in aula, la modalità offline è possibile (e anzi necessaria) per tutta la durata della lezione; su Teams, possono comparire in sovrimpressione, ad esempio, le notifiche relative alle ‘chat private’ (richieste di studenti esterni allo specifico corso in cui sta avvenendo la lezione, ‘gruppi’ di dipartimento, riunioni o comitati editoriali virtuali). Non si possono più disattivare gli apparecchi tecnologici perché essi stessi sono diventati parte integrante della lezione; le sollecitazioni mediali appartengono necessariamente all’insegnamento inteso come performance, e non si può far finta che non incidano sul suo svolgimento – assieme alle eventuali difficoltà della rete domestica, o alle distrazioni e stimoli che provengono dal proprio spazio abitativo, soprattutto se condiviso. Spesso nei commenti fiorisce, inoltre, una libera interazione tra utenti (“a voi funziona la connessione?”, “qualcun altro non riesce a vedere il powerpoint?”, “devo andare a pranzo, buona lezione a tutti!”, accompagnata talvolta da emoticon o espressioni colloquiali). Il bisogno sano di stabilire un collegamento (almeno a distanza) con amici e coetanei si dimostra, tuttavia, innaturale se la visualizzazione di questi percorsi viene estesa anche ai docenti, in un’artificiale impressione di condivisione e vicinanza che, in realtà, non fa che rimarcare la diffidenza e la differenza generazionale, nel caso dei docenti più anziani – subito portati a sgranare il rosario da laudatores temporis acti di fronte alla faccina che ride con le lacrime agli occhi in risposta a una battuta o a un lapsus involontario.

Le sessioni telematiche si rivelano, però, il vero tasto dolente della didattica a distanza. Alla conclusione della terza tornata di esami interamente virtuali, posso dire con certezza che garantire la meritocrazia nella valutazione è diventato quasi impossibile. Il rischio concreto è quello di premiare studenti negligenti ma più abili nello sfruttare utilitaristicamente gli stessi supporti resi necessari dalla crisi emergenziale. La perquisizione ‘in remoto’ delle stanze o cucine degli iscritti non è soltanto una soluzione grottescamente poliziesca e lesiva della privacy, ma è anche inutile, dal momento che basta tenere aperti sullo schermo appunti o note virtuali (da chiudere prontamente nel caso in cui venisse richiesta la condivisione dello schermo). Bisogna, poi, gestire gli eventuali momenti di crisi ‘informatica’ dello studente – non più il tradizionale vuoto di memoria, ma l’interruzione involontaria della comunicazione che, qualora non sia un espediente calcolato per prendere tempo cercando la risposta, distrae e confonde i temperamenti più ansiosi (e lascia l’ologramma del professore a dover interpretare uno scambio comunicativo inceppato, robotico o fantasmatico, in una sorta di paradossale operazione filologica applicata al vissuto).

È impossibile non notare una deresponsabilizzazione dello studente di fronte alla propria preparazione; mentre da un esame in presenza non si può fuggire (o almeno, si può ma bisogna ‘metterci la faccia’), da un appello virtuale lo studente può disconnettersi alla chetichella se nota che quella mattina il professore fa domande più difficili rispetto alle aspettative.

Inoltre, esaminando uno studente nel perimetro delle proprie mura domestiche, si inseriscono alcuni marcatori involontari che possono falsare la neutralità oggettiva di chi si trova a giudicare. Ad esempio, uno studente di estrazione (culturale ed economica) elevata può sfoggiare alle proprie spalle la biblioteca di Monaldo Leopardi, mentre il fuorisede costretto a trascorrere il lockdown nello studentato cercherà di nascondere alla meglio le stoviglie e i poster adolescenziali. Sarà possibile conservare realmente un’impassibilità assoluta, senza lasciarsi influenzare dalle «buone cose di pessimo gusto» disseminate negli ambienti domestici? Ne deriva un complessivo senso di frustrazione per quegli allievi che, nonostante la migrazione dalle aule reali a quelle virtuali, hanno faticato per mantenere gli stessi modelli di apprendimento individuale e che meriterebbero di essere valutati nell’ambiente più sterile e oggettivo possibile.

Non si può e non si deve trascurare, infine, la domanda crescente di supporto propriamente umano o psicologico che gli studenti chiedono, soprattutto ai dottorandi – in quanto figure professionali anagraficamente più vicine. Sono stati numerosi i ricevimenti richiesti espressamente dagli studenti semplicemente per essere ‘tranquillizzati’; la difficoltà di concentrarsi durante il periodo del lockdown, per il bombardamento di notizie e per la cattività forzata, ha determinato una sensazione generale di deficit, di inadeguatezza rispetto al rendimento precedente o alle aspettative personali. Il senso di colpa nel disporre di un surplus di tempo e non riuscire materialmente a farlo fruttare, unito a una pianificazione poco chiara e repressiva dei regolamenti (linee guida kafkiane, suggerimenti di adottare norme squadriste per sorvegliare e punire gli studenti durante le prove ecc.), ha generato una vera e propria sindrome dell’inettitudine. La non necessarietà della visione sincronica, nel caso delle lezioni registrate, ha provocato un rischio di procrastinazione infinita; se la lezione è prevista alle otto e mezza, posso posporne la frequenza ascoltandola in differita all’ora di pranzo, dopo cena, nelle giornate successive, fino ad accumulare un numero paralizzante di differimenti a catena.

 

Ho provato a chiedere agli studenti che mi è capitato di incontrare in questi due anni di didattica integrativa il proprio parere sull’insegnamento a distanza, attraverso un questionario anonimo elaborato su Google Forms. Il 70% degli intervistati ha espresso inaspettatamente il desiderio di mantenere alcune forme di virtualità e distanziamento anche alla fine della pandemia – in netto contrasto rispetto al posizionamento maggioritario degli insegnanti, stabilizzato su un tendenziale rifiuto della DaD fuori dallo stato d’eccezione. Per gli ex pendolari, l’abbattimento dei costi e la riduzione del tempo occupato dagli spostamenti con i mezzi pubblici ha permesso un miglioramento complessivo della qualità della vita.

Secondo il campione dei votanti, però, il vero e indiscutibile vantaggio della virtualità è determinato dalla possibilità di riascoltare più volte le lezioni registrate. La benjaminiana riproducibilità tecnica, prestata al contesto universitario, mina le fondamenta di un credo diffuso negli articoli e nei manifesti redatti dai docenti, ossia il fatto che la performance della lezione, con le sue interazioni umane, sia il vero cuore dell’insegnamento. In un’università che da anni somministra competenze, più simile a un erogatore di cfu che a un simposio platonico, dobbiamo fare i conti, invece, con il fatto che anche gli utenti abbiano modificato il proprio orizzonte d’attesa. La lezione come ‘atto unico e irripetibile’ è un rituale vintage? Oppure si è inceppato qualcosa nel rapporto comunicativo tra docenti e allievi, e la DaD si è presentata come un imprevisto deus ex machina?

 

Il problema non è la gestione dell’emergenza, ma il prima.

Un ripiego congiunturale non può essere letto come upgrade migliorativo della didattica tradizionale, da erogare anche al termine della pandemia per ammortizzare i costi degli spazi e del personale. Secondo alcuni alfieri dell’e-learning, la classe virtuale rappresenterebbe la soluzione per raggiungere un presunto pubblico espanso (lavoratori, fuorisede, diversamente abili, soggetti immunodepressi) – condannati tuttavia, come viene efficacemente precisato dai firmatari dell’appello Disintossichiamoci – sapere per il futuro[3], a una formazione di serie B, da fruire nelle proprie stanzette e nel perimetro chiuso della propria famiglia e classe sociale di appartenenza.

La didattica a distanza non deve diventare il deterrente per perpetuare una ‘mala università’. Il fatto che gli studenti diversamente abili possano usufruire delle lezioni in remoto non significa che i dipartimenti non abbiano il dovere di dotarsi di percorsi e strutture che garantiscano la piena accessibilità. Analogamente, la disponibilità di lezioni registrate consumabili a qualsiasi ora non può diventare la soluzione riparativa per la consueta disorganizzazione del calendario accademico, in cui la sovrapposizione oraria tra materie obbligatorie rende impossibile la frequenza sincronica a due corsi ugualmente previsti dal piano di studi.

Veniamo all’aura e allo choc che una buona lezione dovrebbe comportare. Se, agli occhi degli studenti, il vantaggio di poter riascoltare le registrazioni di un corso e sbobinarne diligentemente i contenuti è superiore allo svantaggio di non partecipare fisicamente all’evento-lezione, occorrerà ripensare ai fondamentali stessi dell’insegnamento, senza alcun passatismo nostalgico. La difficoltà di concentrarsi per una durata superiore o uguale a un’ora e mezza è visibile in tutti i campi del sapere e del vivere – a quale spettacolo teatrale, concerto o film gli spettatori (giovani e non) resistono alla tentazione di illuminare lo schermo per leggere le notifiche? Perché (e come) la lezione dovrebbe imporsi come un recinto immunitario rispetto a questa tendenza generale?

Con il lockdown anche i legami sociali sono stati necessariamente veicolati dai mezzi tecnologici, rendendo il portatile e il telefono, al contempo, ufficio e ‘piazza’ comunitaria, luogo di lavoro e forma di resistenza all’isolamento sociale. In fondo, il regime di interconnessione perenne coinvolge anche chi fa ricerca, oltre che a livello personale, anche e soprattutto sul piano professionale – la reperibilità su gmail è parte integrante del mestiere, con un conseguente adeguamento della propria concentrazione alla necessità di interrompersi e cambiare schizofrenicamente l’oggetto del proprio lavoro (se guardo il mio schermo, ad esempio, trovo tre schermate aperte e simultanee – un articolo sulla poesia contemporanea, le bozze di un vecchio saggio sul Barocco, e le nuove call for papers per gli eventi danteschi del 2021).

In questo contesto, le capacità affabulatorie e retoriche del singolo docente non bastano a catturare l’attenzione, in un magnetismo dell’apprendimento in stile L’attimo fuggente suggestivo quanto ormai inefficace.

Si potrebbe, dunque, tentare di trasformare l’apparente deficit dell’attenzione in una sfida – la retorica, in fondo, si è sempre basata su un delicato meccanismo di azione e ascolto della reazione da parte di un uditorio. I vecchi sistemi oratori non comunicano (e dunque non insegnano) più; la densità delle lezioni accademiche viene tradotta istantaneamente dagli studenti in un elenco di sintagmi da trascrivere e poi ripetere mnemonicamente agli esami per ricevere il ‘premio’ della valutazione. Chi riesce ad appuntare tutto (le stenografie sono estremamente richieste sul mercato delle copisterie universitarie), sarà quasi in grado di replicare la voce del docente all’esame, in una forma di ventriloquismo inattaccabile, ai fini del giudizio, ma fondamentalmente effimero. Dal momento che un simile apprendimento disfunzionale non è soddisfacente tanto per gli studenti quanto per gli insegnanti, il format della lezione andrà radicalmente ripensato. La crisi innescata dalla pandemia potrebbe e dovrebbe farci considerare nuove modalità di performance educativa, cercando in primo luogo di contraddire il sistema imprenditoriale dei piani di studio ‘monetarizzati’, che calcolano il rendimento e le competenze sulla base del tasso pro capite di crediti acquisiti. Che l’università stia perdendo il contatto con i propri studenti è un dato facilmente verificabile; la ‘distanza’ è una condizione che gli insegnanti hanno iniziato a sperimentare ben prima dell’emergenza sanitaria. La soluzione non dovrà coincidere con una fiera difesa del proprio ruolo e modus operandi all’insegna di ‘quello che si è sempre fatto’, come forma di eroica resistenza rispetto a un presente rappresentato nei termini di un’apocalisse regressiva e di una nuova barbarie. Sarebbe meglio, forse, provare a superare il timore ancestrale che cambiare la forma implichi necessariamente svilire il contenuto. Molti insegnanti hanno ribadito orgogliosamente che, nel passaggio alla DaD, a mutare è stato soltanto lo schermo tecnologico e il setting della lezione; ma se la pandemia ci insegnasse che anche il concetto di ‘lezione’, come ogni costruzione storica del sapere (dal canone alla grammatica), può essere messo in discussione e verificato sulla base della machiavellica «qualità dei tempi»?

Gli studenti di oggi si formano in un liceo in cui i manuali sono sempre più colorati e saturi di icone e di link interdisciplinari (dal cinema alla storia dell’arte, dal fumetto alla fotografia); entrano poi in un’università tutta in bianco e nero, dove spesso i professori continuano a riciclare le stesse lezioni ‘somministrate’ vent’anni prima a studenti non nativi digitali. Non possiamo fingere che il reticolo mediale influenzi la nostra vita, prima ancora che quella degli alunni, soltanto fino alle soglie della classe; aprendo la porta, nulla è cambiato, lo spazio sacro dell’aula è immutato – eppure, lo constatiamo tutti, il miracolo non accade più.

A prescindere dalle metodologie e dalle possibili soluzioni, una questione di fondo è sicuramente certa: l’università deve funzionare prima e a prescindere dall’introduzione di una strumentazione virtuale parallela. Il digitale sicuramente può offrire un’«opportunità»[4] (ad esempio, per la presenza di banche dati e biblioteche digitali, oppure per la facilitazione nella condivisione di materiali interdisciplinari – immagini, video, ipertesti –) ma non deve diventare quello che in Liguria chiameremmo un «tapullo», parola intraducibile per indicare una riparazione di fortuna, una ‘pezza’ realizzata con materiali di scarsa qualità per arrangiarsi di fronte a una situazione di pericolo (una crepa, un buco, un oggetto rotto) e destinata a durare soltanto per il breve tempo dell’emergenza. Nell’espressione «didattica a distanza», la prima parola da cui dobbiamo ripartire è, paradossalmente, proprio ‘didattica’.

 

(L’articolo è uscito su «Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», 38-39, 2020, pp. 269-275).

 

[1] L’indice del dossier curato da E. Menetti e N. Bonazzi è disponibile all’indirizzo https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena (consultato il 30 agosto 2020).

[2] Cfr. G. De Michele, La scuola e il discorso digitale, «doppiozero», 10 agosto 2020,  https://www.doppiozero.com/materiali/la-scuola-e-il-discorso-digitale?fbclid=IwAR3izcncPudaB8EQZAxjXjVuFExTXcBg0Pl5-uA72a75CMjhMbmJpc-eoUY (consultato il 30 agosto 2020).

[3] Sull’importate questione della diseguaglianza sociale che ha comportato la didattica online, cfr. l’interessante articolo di G. Caltanissetta, D. Corradi, La lezione del contagio, «Jacobin Italia», 20 marzo 2020, https://jacobinitalia.it/la-lezione-del-.contagio/?fbclid=IwAR0tbM3honubkPO_M1kVKzg4lG57U60fEnKWtP1Jaongbe9oTLJWrUklE80 (consultato il 28 settembre 2020).

[4] P. Italia, Lo studente (e il docente) Google, https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena/paola-italia-studente-docente-google, 30 marzo 2020.

Note d’altrove #1 – Gianluca Cangemi

1

Note d’altrove # 1

di Gianluca Cangemi

Geißenklösterle flauto flute prehistorical oldest musical instrument

Il sassofono e la badessa

 

Riascoltavo oggi – in un pomeriggio pandemico uguale a e diverso da tutti gli altri – il master fonografico appena chiuso di un solo per saxofono contralto, composto e suonato dall’amico e collega Nicola Mogavero. Lungo quasi undici minuti una linea limpida muove da ‘O virga ac diadema’, canto composto dalla antica collega Hildegard von Bingen (Bermersheim vor der Höhe, 1098 – Bingen am Rhein, 1179); il canto va poi in eco, la linea s’apre, ai margini si sfrangia in screziature e baluginii, e – provocata da increspature che rischiano, con saggio insuccesso, di metterla in pericolo – trascolora in evocazioni di passi arabo-andalusi (IX-XV secolo); così diviene, aperta in punti e danza, seguitando però sempre a risonare in una cattedrale interiore, luogo di tutte e tutti, collettivo, che, col suo riverbero, impedisce la rottura del canto. Il racconto torna infine al canto iniziale dell’antica badessa, ma adesso la linea è illuminata e arricchita dalle memorie del sogno d’altrove che ha vissuto, e noi con lei (e “…io vivo altrove…”, canta Léo Ferré in ‘Tu ne dis jamais rien’ per noi).
Tutto questo accade, nel bel brano di Nicola, attraverso il suo strumento, il saxofono. Strumento – dicono i burocrati – d’invenzione molto recente (fu brevettato il 22 giugno del 1846), dai più associato a stili del XX secolo, e comunque – così insiste il bottegaio euclideo che ormai tutte e tutti ci abita – strumento inappropriato a una donna in un monastero tedesco del XII secolo o a un mîzân risonante tra corde di oud e ribeche da qualche parte nella Spagna islamica.
‘Trayectorias 30S’, si intitola questa composizione all’ascolto generosa e semplice. È in un’opera fonografica, ‘Leiðarvísir, cui ho contribuito sia come compositore che come produttore, in pubblicazione entro quest’anno 2020. ‘Leiðarvísir’ (“itinerario, guida, viaggio” in islandese) è album d’esatti viaggi e luoghi e storie, per vie di canto d’oggi e di ieri, abitate e raccontate da specifici individui ma che – scritte e ritessute – per ciò stesso sono esperienze collettive: di, con e attraverso tutte e tutti. Qualcosa di cui oggi – forse, spero ancora – abbiamo bisogno, chiusi come siamo in casa spaventati arrabbiati, spaesati dal tracollo tremendo di decenni d’individui astratti, orfani di racconti e luoghi e tessiture collettive intelligenti, e per questo privi di cure.

Finito l’ascolto della composizione di Nicola, gli scrivo per ringraziarlo:

 

Riascolto ‘Trayectorias 30S’. È un gran pezzo. Credo tu abbia appena contribuito grandemente a farmi formare una immagine mentale mia del saxofono. La comprensione del tuo strumento è faccenda piuttosto complessa per un compositore. In apparenza è“ovvio” e “facile” da capire, ma in realtà ha una ricchezza tale di origini e parentele, e sviluppi in una tale quantità di stili e tradizioni, che farsene una immagine – non ideologica, stilizzante o astratta – è difficilissimo. Ci ho messo decenni. Sento che con il tuo ‘Trayectorias 30S’ è accaduta questa ideazione mia, o almeno può accadere.
Si può comporre per saxofoni anche senza avere questa immagine, ovviamente, ma non è la stessa cosa. Non è quel livello d’abisso chiaro e nettezza dei punti, delle linee, degli spessori e colori, che caratterizza il comporre profondo. E questo comporre profondo puoi averlo solo e soltanto anche una volta compresa la natura-cultura totale dello strumento per cui stai componendo. Altrimenti tutto resta solo spessori, punti e linee e pantoni e null’altro: nella migliore delle ipotesi tocchi lo stile, sfiori la musica, e t’appoggi a pretesti, opure resti all’esercizio calligrafico, da ultimo involuto nel paradosso dell’autoreferenzialità, resti alla burocrazia, fai oggetto masturbatorio oppure – in certi casi è lo stesso – prodotto da mercato, per giunta oggi fuori tempo massimo magari per far soldi. Credo che ora questa prima comprensione mia del saxofono ce l’ho o la posso avere. Ti ringrazio
”.

 

Ringraziato l’amico generoso, guidato dalle risonanze di memoria dal suo sax udito di fresco, m’accorgo di associare spesso gli strumenti musicali a esseri viventi complessi, non a oggetti inerti. Naturalmente lo faccio a partire dalla considerazione per cui uno strumento è uno strumento: a fare il suono e poi la musica, a partire dal pensiero – attraverso, appunto, lo strumento – è l’essere umano. Però nella mia mente gli strumenti musicali – ogni strumento – sono spesso associati a esseri complessi: entità biologiche e sociali. Del resto il continuum tra corpo e strumento è evidente: basti pensare alla voce umana e al fischio, alla percussione col corpo stesso, o, per alcuni giocosi dotati d’orecchio assoluto, magari al fare del cul trombetta.
Entità biologiche e sociali, gli strumenti, ognuno quindi con una sua storia, e storie, una sua formazione, una o più attività professionali, errori e successi, un suo carattere complesso (perciò anche contraddittorio e dunque aperto al molteplice) e relazioni con altri – parenti, amici, antenati, filiazioni, e così via. E ogni strumento, anche, ha una sua “biologia”: me lo figuro più o meno come un corpo animale, quindi con fisiologia e funzionamento estremamente affini (fino ad apparire identici) a quelli di ogni altro suo simile, ma con caratteristiche anatomofisiologiche specifiche individuo per individuo, ciascuno con propri tratti e variabili genetiche. E ogni strumento – ogni singolo strumento – ha pure singolarità determinate dall’influenza dell’ambiente circostante (fisico e culturale, nel tempo), uno stato di salute variabile, e un concetto di sanità e malattia tra il difficile e l’impossibile da fissare con binaria esattezza, che molto dipende da fattori culturali e, vorrei dire, magari dai suoi rapporti e da sue proprie inclinazioni individuali. Una cosa che trovo meravigliosa e vibrante – valida per tutti gli strumenti ma evidente in modo particolare in chi ha componenti organiche determinanti (per esempio il legno degli strumenti ad arco) – è che esiste anche una influenza specifica che giunge dall’umano che utilizza quello specifico oggetto. Influenza udibile, sensibile. No, non è magia: adesso non ho davvero tempo e voglia di recuperare e dare fonti – attività del resto poco à la page – ma ricordo di aver letto anche studi seri che portano a queste conclusioni o almeno le suggeriscono con basi ragionevolmente convincenti.

Non sono uno strumentista, cioè non so suonare con decenza davvero nessuno strumento, ma da compositore penso, e convintamente, che non si possa fare “composizione profonda” (la chiamiamo così per mancanza di migliori parole) senza avere una immagine compiuta degli strumenti con e per cui componi. Immagine che è possibile solo e soltanto accogliendo l’Altro (in questo caso lo strumento) con curiosità sincera per la totalità del suo essere, per le sue relazioni, le sue storie, e per le sue potenzialità, i suoi plus e i suoi minus e per le cause di questi, e così via. Perché ogni strumento è, appunto, un complesso essere vivente con cui relazionarsi, dotato di anima poiché distillato cangiante di storie in una fisiologia: come tutti gli oggetti con noi umani, e magari come noi stessi dal punto di vista di dio. Dunque se non hai questa immagine totale di uno strumento – quindi la disponibilità anche irrazionale all’Altro – ovviamente puoi comporre parti per ogni strumento che ti pare – anche enormemente complicate e razionalmente appropriate – ma non starai facendo composizione profonda. Ciò per lo stesso motivo per cui puoi utilizzare gli esseri umani (nonché del pari altri esseri animali) per scopi solo connessi all’utile economico, e puoi anche farlo con strategie molto scaltrite, tali da minimizzare la percezione dello sfruttamento razionale che stai agendo – anche fino a rendere la tua violenza invisibile e, se sei molto abile, perfino encomiabile dal punto di vista di alcuni; sì, puoi farlo, ma così facendo non entrerai in un rapporto profondo tra la tua umanità-animalità di radice e quella dell’altro, per cui – alla fine di una complessa rete di cause ed effetti tra loro varissimamente intrecciati – finirai in vario grado per fare danno all’umanità (anche la tua).

Sono passati alcuni minuti, forse mezz’ora – in questo pomeriggio pandemico diverso e uguale a tutti gli altri – e il canto del saxofono di Nicola è ora diventato voce di donna. E io sento che tutto ciò ha qualcosa a che fare con la rivoluzione: le storie, gli oggetti e i luoghi (il tempo e le case), gli spiriti che abitano gli uni e le altre, e li e le animano. Ecco, appunto: l’anima. Anemos. Il soffio, il fiato, l’anima, il respiro: tutte parole oggi disseccate, tanto fastidiose agli schizoidi stizziti governi della pandemia, quanto tetramente impronunciabili dentro una terapia intensiva. Che siano queste anime liberate, questi respiri ricreati, i primi venti di rivoluzioni possibili? Aperti in casa, suonando il saxofono da qualche parte in al-Andalus, con una badessa artista, maestra di canto e pensiero, che la cura porta – appropriata con uno strumento o l’altro – dalla casa alle sorelle ai multiversi del mondo, da te all’altro con te che sei tu.  Sì, voi vivete asserragliati nell’Algoritmo d’Inverno, noi viviamo altrove.


 

Gianluca Cangemi, compositore e produttore, lavora quotidianamente alla fioritura di musiche e altri prodotti dell’ingegno per sale da concerto, supporti fonografici, lavori teatrali, di danza e performativi, videogiochi, installazioni e film. Lo fa cercando e riconoscendo chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, per farlo durare e dargli spazio.

Cinque poesie di Antonio Bux tratte da “La diga ombra” (Nottetempo, 2020) – nota introduttiva di Giuseppe Munforte

0

Ogni poesia ci pone la domanda di cosa sia la poesia. Arriva di fronte ai nostri occhi come un oggetto misterioso. Ci turba. Porta la vita come una bufera nel linguaggio, e fa del linguaggio bufera.

Da dove arrivano quelle parole? Cosa le ha generate? I poeti lo sanno, anche se non potrebbero darne conto fino in fondo. È la dimensione sorgiva della poesia, quella che solo il poeta abita, sognando le parole: uno stato vitale, prelinguistico, non più corpo e non ancora spirito. Benjamin ha scritto che il poeta sta “tra la notte e la vita variopinta”. In questo territorio di confine, liminare, il linguaggio non è ancora avvenuto ma è già presente nell’intenzione del poeta. Il poeta è qui senza parola, non ha opera, e allo stesso tempo ha l’intera opera presente a sé: è gravido non del testo che verrà ma del proprio destino. Per egoismo potrebbe tacere, se a quel destino non corrispondesse la necessità di sacrificarsi alla parola. Quel destino si compie solo acconsentendo alla scrittura, “ora guardando al fondo di se stesso, ora con coraggio noi, su verso la luce” come dice Benjamin; dando forma a quello che viene, da sopra o sotto, a sognare gli esseri, nei versi di Bux.

La vocazione di Bux alla poesia, il suo essere poeta, che è accadimento raro, inspiegabile, si potrebbe dire miracoloso per quanto il poeta travalica il controllo e vivifica la dimensione più controllata dell’umano, il linguaggio – questo accadimento nel caso di Bux mi è stato da subito evidente dalle prime poesie sue che abbia letto, e questa silloge ne è l’ulteriore conferma.

Giuseppe Munforte

***

Antonio Bux da “La diga ombra” (Nottetempo, 2020)

Giorni d’acqua, simili a dèi…
Ma cosa viene, da sopra o sotto,
a sognare gli esseri
e poi farli umani, bestie da pascolo,
vivono davvero il loro tempo?

Sembra sia uno specchio
girato contrario, eppure vedono
la forma di sparire
e anche la forma visibile,
con gli stessi occhi che si muta

ogni giorno e non ha fine
ma per poco, la fine che poi diventa
l’inizio di un nuovo giorno
quando dèi piovono, e sono gocce

aperte al corpo di essere umani;
ma è un pianto, a ciel sereno,
tendere lo sguardo come fosse nuvola
per guardare gli altri, farli animali,
o essere del vento come un canto.

Anni perché fate fiume,
dove e quanto il sogno dura,
se per durare si deve sparire d’acqua
evaporando un solo tempo
perché nel tempo si muore?

(Voci di dèi, una nuvola sopra le teste
disegna le voci tutte le idee
e i corpi quando si amano
cosí i giorni, i profili già ombra
le vite come ombre equidistanti).

***

Perché dire un suono. Una figura
non muta al suo risveglio, germina
lontano il geroglifico se parla,
ed è la stessa lingua di vedere
a malapena, sbirciando un prato
l’ombra dove la parola chiama.
Ma un prato, qui, perché dirlo?
Avvolto come in sogno, aprirebbe
al chiaroscuro di ciò che sotto
tende, saprebbe mostrare all’uomo
la curva senza unire, cielo e terra
e una parola così, già sparita.
Perché venire al mondo, allora,
perché parlare e non veder la traccia?
Esseri segreti di un mistero nuovo
avete fatto del tempo suono
senza più parole, dove un uomo ama
anche il suo silenzio; ma dirlo, qui,
a voce strana, sembrerebbe
poco anche per sentire, perché esistere
è la stessa cosa, figura muta umana
il prato continuerebbe a dire.

***

Vivono di un solo amore gli alberi.
Affratellati, in nome di un dio cenere
bruciano per risorgere in un filtro d’aria,
così cambiano l’atmosfera, al sogno,
fanno delle teste in cielo e poi il velo
dell’oscuro che noi siamo.
Ma parte di un ossigeno o del veleno
li fa un giro più del mondo quando l’occhio
tenuto zitto interno al verde preme.
Terra che li fortifica soltanto per dolore
ma per dolore ce li avvicina
e fa sembrare puro il loro sonno.

E se proteggono senza cellule la sfera
che in vita gira a perdifiato e ci coltiva
non cadranno nel rovescio, una sola fiamma
di tempo per noi comunemente accesi
il rogo disunito finirebbe.
Ma tagliati, la notte che li assorbe,
nel sogno come sono di parole e buche
un tuffo dall’ombra li allontana
e sembrano perduti tra le foglie ma vivi
senza esistere perché si pianteranno a spora
nel sole da qui anni luce.

Oltretomba di ogni uomo quel seme
d’albero tramonta la sua specie
forse per assurdo sentendosi già umano
ferendo un po’ d’azzurro il clima, le pressioni
autunnali di una vita, parte di ciò che viene.
Ma con amore questa ferita torna
sopra i campi svolge di nero un’abetaia
che pare di essere uniti, spogli
nel tronco ad appassire, e col fiore vano.
Mantra avvolto dentro la culla il legno duro
chiude l’ombelico ma apre l’estinzione.

E a cosa serve dio, se tagliando
in due l’albero sono io?
A cosa serve un io se per chiome
lucenti anni si perdono tra arie, nuove,
e chi non è rimane, e trasparente poi vedrà
lo spazio, il tempo, la sua sparizione?
Mani se corrugano, per il triste
destino che è un dono, simile a radice
sopravvivendo, questo segreto
ciò che gli alberi proteggono, sanno
che di una pasta informe
è benedetta l’energia, e senza meta.

***

A volte un viale è guardare le case
dove non ci sono ma vive come il sempre
anche se un velo nero le abita sono grandi
calme quasi d’aria respirano di un muro
il muro a prato di nuvole, pensieri che uno
può stare in una stanza dormendo
e vedere lo stesso il sole come non contamina
i volti ancora accesi che vorrebbero volare
sopra i volti delle case abbandonate.

Ma sono solo vento, e di un sereno grande
come una casa di fantasmi appena nati
che a volte è così bello perdersi per strada
coi fiori a capofitto più vicini da voler entrare
in noi simili a case appese ad uno spazio
che lo spazio è un viale, scompare se si guarda
fintanto che ci siamo e fa due ali il vento
sebbene in un’ombra vi è l’ombra del sogno
noi viviamo fermi dentro, con le radici in cielo.

***

Tu che speri un’anima si risvegli
dal lato umano, a tarda ora,
quando sei sola nel mio volto
e l’ora è buia ma ti rischiara,
non è l’anima di chi siamo.

L’anima che si vuole sperare
farsi nulla, avanti come un corpo,
non è l’anima del reale,
se per immaginarsi a specchio
riflette solo male
il volto buono, già svanito.

Così tu ami questo involucro
tradito di ogni giorno,
e la carne che ti piace, o il bacio
vivo nel sonno, che vorrei sereno.

Ma non è che un ricordo
su chi saremo, quando due anime
per fondersi dovranno amare
il sogno andato, d’essere due di uno.

Questo dell’anima si ama,
il suo canto morto, se è vero
che un raggio cavo fa del corpo
chiara la solitudine, forse ameremo
o in quella saremo amati

per chiara immagine che si è
già stati soli, con le furie al collo,
non moriremo amando, l’immagine
nostra mutata se ci amerà
sarà per non sparire.

Antonio Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato, tra l’altro, Trilogia dello zero (Marco Saya 2012; finalista premio Montano, vincitore premio Minturnae), Kevlar (SEF 2015; premio Alinari), Naturario (Di Felice 2016; finalista premio Viareggio), Sativi (Marco Saya 2017; selezione premio Città di Como) Sasso, carta e forbici (Avagliano 2018; premio Alfonso Malinconico), Terza persona interiore (Transeuropa 2019), e il recente La diga ombra (Nottetempo 2020). In spagnolo ha pubblicato 23 – fragmentos de alguien (Ediciones Ruinas Circulares 2014), El hombre comido (Añosluz Editora 2016), Saga familiar de un lobo estepario (Editorial Juglar 2018) e in vernacolo foggiano la silloge Lattèssanghe (Le Mezzelane 2018; selezione premio Città di Ischitella – Pietro Giannone). Nel 2014 gli è stato conferito il premio Iris di Firenze. Ha fondato e dirige il blog Disgrafie e alcune collane per Marco Saya Edizioni e per l’editrice RPlibri.

Ritorno alla foce di Gianni Celati

4

di Paola Ivaldi (testo e foto)

“… le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo”
Gianni Celati (1989)

Decido di mettermi in viaggio dopo avere letto Verso la foce. I racconti di osservazione di Gianni Celati, scritti in forma di diario tra il 1983 e il 1986, mi hanno acceso il desiderio di andarlo a vedere, questo nuovo paesaggio italiano, di scoprire con i miei occhi come e quanto sia invecchiato da quando Celati, solcandolo insieme all’amico Luigi Ghirri e ad altri fotografi, ne aveva descritto con grazia e spietatezza le primordiali increspature.

Mi muovo in automobile, per una maggiore autonomia, e viaggio da sola, perché così amo fare, e anche per vedere meglio, tutto tranne gli autovelox che stanno come tanti piccoli menhir di ferro arrugginito sul ciglio delle strade statali e irrompono quasi sempre all’improvviso nel mio campo visivo, strappandomi ogni volta, data la velocità quasi sempre eccedente i limiti, la stessa triviale esclamazione di rabbiosa sorpresa: a ogni autovelox sempre la stessa, fino alla foce del Po.

Nelle lunghe ore di guida, mi interrogo sul paesaggio: che cosa sia, il paesaggio, da dove inizi e dove termini, e poi mi domando quale sia il paesaggio da considerarsi per chi viaggi a una velocità artificiale, risultato di un processo meccanico, che non è dunque la lentezza del viandante, che consente al suo sguardo paziente di acquisire mutevole consapevolezza del territorio al ritmo dei passi. Che cosa sono tutti quei campi e capannoni che scorrono frettolosi e sfuggenti al di là del finestrino? E poi: quanto pesa l’età di chi guarda, come influisce sulla percezione e nel racconto del paesaggio? Celati, per esempio, non aveva ancora cinquantanni quando tenne i suoi diari di viaggio: vorrà pure dire qualcosa, il dato anagrafico, l’esperienza di vita, la traiettoria che ci conduce al cospetto di un paesaggio nel momento in cui ci apprestiamo a darne evidenza con le nostre parole. Siamo partiti allegri, trallallero trallalà, o con il cuore pesante? Quanto conta lo stato d’animo di chi osserva nello scandire e intonare l’osservazione stessa?

Mano a mano che mi addentro nel mantovano mi vado sempre più convincendo di questo: il paesaggio sono io che lo guardo, io che “faccio paesaggio”, inevitabile prodotto di uno sguardo, e dunque di un tempo – un’età – e di uno spazio – un percorso. L’oggettività, in fin dei conti, ha poca importanza, chi si illude che si possa trovare verità in un paesaggio? Lo stesso concetto di paesaggio tende a essere fasullo e fallace, tranne che si trascenda una buona volta dal dibatterne ancora, sposando l’idea di Italo Calvino, in larga parte corroborata dall’essenzialità degli scatti di Ghirri, il quale sostiene che altro non siamo se non finestre attraverso le quali il mondo guarda il mondo.

Io che leggo Celati, io stessa mi affaccio dalla sua finestrella, e mi faccio rapire proprio dal suo sguardo, quel peculiare modo tutto suo, celatiano, di interpretare ciò che lo circonda mentre esplora la nostra grande pianura a metà degli anni Ottanta in osservazione del cosiddetto paesaggio postindustriale.

Ancora. Io che vado verso la foce, lo faccio nell’agosto 2020, in epoca pandemica, ben oltre i miei cinquant’anni, con una separazione ancora in gran parte da metabolizzare. Che cosa vedo io che vado verso la foce? Che cosa mi aspetto di trovare lungo gli argini del Po, il fiume tante volte visto nascere sul Monviso e scorrere nella mia città? Le aspettative possono appannare il nostro sguardo, questo sì, e infatti io mi accorgo, per l’intera durata del viaggio, che mi sforzo di udire ancora l’eco dei pensieri di Celati, mi guardo intorno e cerco le orme dei suoi passi, nell’ingenuo tentativo di placare, con l’appiglio letterario, il mio stato di disorientamento e il senso della perdita, della disgregazione, che dalla sfera tutta personale si riverberano nella realtà circostante, nei fatti del mondo.

E quello che vedo è, in un certo senso anche un po’ amaro, la conferma della visione e in parte dell’interpretazione celatiana. La solitudine e la desertificazione del territorio sono fenomeni tangibili e quasi respirabili. La condanna sembra essere scontata, qui, da uomini e bestie che vivono intorno e dentro agli enormi capannoni maleodoranti che fanno la campagna, insieme ai monotoni campi di mais, questa campagna più di altre.

Capannoni, e giganteschi silos puntati al cielo come grassi razzi spaziali. Capannoni e silos. Capannoni pluripiano pieni di mucche tutte zitte, tutte ferme, mucche già morte dentro.

Capannoni dai quali non si leva un muggito nemmeno ad aspettarlo fino a sera, si sentono invece rumori metallici, di sbarre, e rumori secchi e meccanici. Non vedi quasi più gli animali, a volte li puoi scorgere in lontananza se una porta del capannone rimane aperta, allora sì, eccoli laggiù, li scorgi tutti affiancati nelle loro postazioni, senza scampo. Anche gli uomini non sono facili a vedersi, ogni tanto un’automobile scintillante di grossa cilindrata sgomma via dal cortile dell’abitazione solennemente annessa al capannone, il cartello intima di non avvicinarsi.

La sera, prima di addormentarmi, rimango nel letto a considerare quel concentrato di malessere animale che sta dentro ai capannoni, che so così vicini a me, insostenibili grumi di tristezza che costellano tutta la campagna, ammorbandola. Nell’oscurità della notte penso dunque al sonno triste degli animali, i loro occhi chiusi così come lo sono i miei.

La pena suscitata dal pensiero dei grandissimi numeri di animali non più allevati, ma gestiti come cose, mi rabbuia già in autostrada, a dire il vero, quando non riesco a ignorare la quantità di camion di trasporto bestiame, tutte quelle mucche e quei polli movimentati come fossero pezzi di legno o piastrelle. Mentre un tir mi sorpassa scorgo la coscia di un bovino e mi commuovo, sì, ma nel farlo dico a me stessa: no, ma tu non sei normale. Però, che diamine, non è forse questa l’anomalia, alla fine: la mia stessa reazione nei confronti del mio scarno impulso di pena, l’istintiva solidarietà animale.

Sopra un dépliant promozionale del Parco del Delta del Po leggo, tra le tante pubblicità stampate sul retro della mappa (o forse il retro è la mappa), quella di una società agricola della zona, che produce e vende carni e salumi, il cui slogan è: il porco del parco, c’è anche il disegno con l’immancabile maiale che sorride alla propria sorte. Maialini dotati di ali angeliche svettano svolazzanti su di un’installazione pubblicitaria simile a totem posta al centro di una grande aiuola di una trafficata rotatoria stradale.

Tra un campo di mais e l’altro, vecchie case rurali in stato di grave abbandono, fatiscenti cascine di corte pericolanti, tetti crollati dai quali svettano verdeggianti alberi e arbusti. Quando il flusso di traffico e lo spazio lungo la carreggiata me lo consentono, mi fermo e mi avvicino a piedi, a volte entro nelle stalle abbandonate, a terra vecchie catene. A guardare tutte queste rovine si può cadere facilmente nel tranello di una edulcorante vaga nostalgia, tendente a evocare i famosi bei tempi andati, una âge d’or di aie pullulanti di vita salubre, lieti quadretti famigliari e zampettanti animali.

In una delle aziende agrituristiche nella quale faccio tappa, si nota il mirabile recupero architettonico di una vecchia casa padronale, quello che era il fienile viene usato come riparo per enormi macchinari. Il giovane, che ha appena parcheggiato la macchina agricola e con il quale scambio qualche parola, mi fa notare che quella macchina, oggi, fa il lavoro che al tempo dei suoi bisnonni richiedeva la fatica di due famiglie. E poi: “le bestie, una volta, mica stavano meglio, sa”, indicandomi l’angusta porcilaia sotto al pollaio, e aggiungendo: da lì il maiale usciva soltanto per essere ammazzato.

Capita dunque, di tappa in tappa, che io avverta la necessità di abbandonare la presa di posizione, e di sospendere, almeno momentaneamente, il giudizio riferito a quello che vedo che, lo sento, è dettato il più delle volte dai luoghi comuni e dalla inconsistente superficiale conoscenza di fatti e di luoghi oltre che dall’approccio di ostinato rimpianto così tipico dell’età mia.

Voglio restare a quello che vedo, dunque, fino alla foce. Lungo le strade statali le indicazioni non vengono in soccorso del guidatore, confondono, caotizzando nomi di località e luoghi e/o modalità di smercio: iper, mega, discount, spaccio, grossista, outlet, store, truck point. Abbigliamento bimbi, mobilifici, salumifici, vivai, accessori camion, cereali, mangimi zootecnici, pannolini per bambini & adulti. Alla fin fine il cartello con l’indicazione “Zona industriale” suona bugiardo. L’industria non sta in una direzione, in assenza di argini ha tracimato ovunque.

In mezzo ai campi svuotati di uomini e bestie si vedono talvolta, in lontananza, nuvole di polvere sollevate dal passaggio di qualche macchinario, anche gli aironi bianchi danzano insieme al pulviscolo beigiolino per poi riposarsi lievi nuovamente a terra. Le macchine spargono, spruzzano, raccolgono, tagliano, sono loro, massicce, tutte spigoli e punte, che scandiscono le fasi agricole, non ci sono voci, solo rumori. E puzza.

Ancora, campi e capannoni, torri elettriche e tralicci, e tra i tanti capannoni un parallelepipedo di cemento, sulla facciata si legge: lap dance, l’insegna raffigura due enormi labbra dischiuse e rosseggianti. Il locale appare abbandonato, essendo giorno è normale che così sembri, l’ampio parcheggio completamente vuoto, così le new entry, lunghi elenchi di nomi femminili, non resta che reclamizzarle online, dove batte il cuore social della community.

Abbondano i tricolori, appesi alle ringhiere delle case, forse sono rimasti lì dal lockdown di primavera, dimenticati o lasciati per scaramanzia oppure, in ampio anticipo, già in attesa dei mondiali del Qatar. Le bandiere, come quelle che sventolano sopra le ampie tettoie di alcuni insediamenti industriali, sono quasi sempre sfilacciate e scolorite. Anche quella della Coldiretti è stracciata. A Taglio di Po, sulla facciata del municipio, è rimasto lo striscione “andrà tutto bene”, scritto in caratteri tutti maiuscoli e con tanto di hashtag iniziale, il disegno di un arcobaleno e di un cuore colorato a strisce verde, bianca, rossa.

Nei tanti paesi che attraverso, dove abbondano monumenti ai caduti delle due guerre mondiali e i bar sembrano ancora essere il luogo di incontro privilegiato dagli avventori di sesso maschile, ritrovo le “villette geometrili” raccontate a suo tempo da Celati. Ancora le loro tinte acriliche, le anfore reclinate e i velieri nei giardinetti dotati di palma e cancello elettrico. Molte delle villette di Celati, quelle con i nani disneiani, ora sono in vendita. La desolazione, camminando in certe viuzze, sembra essersi stratificata, incrostandosi su muri e ringhiere, amara come ruggine.

Non sarà stato quello, un grave errore? Guardare le case degli altri, proprio negli anni Ottanta, e scuotere la testa. Senza sforzarsi di capire che cosa ci fosse oltre il cancelletto, ancora non automatizzato. Senza chiedersi quale tipo di vuoto, di incertezze e di paure, fossero chiamati a presidiare diligentemente i tanti nanetti colorati.

In quello stesso errore, d’altronde, cadiamo più o meno tutti, essendo quasi inevitabile l’arroganza del punto di vista, la condanna alla superficialità che grava sull’atto descrittivo, sul paesaggismo narrativo. Forse per dire qualcosa di meritevole bisognerebbe penetrare in quello che descriviamo, noi involontari prigionieri dell’estetica e del nostro sguardo emotivo, e capire un po’ meglio, anche per approssimazione, sempre che questo sia possibile. Nelle cose umane ci sono delle quinte dietro le quali scorgere qualcosa di diverso da ciò che sta sul palcoscenico, basterebbe forse cercarle meglio prima di dire qualcosa? Osare spingersi dietro le quinte, esplorando l’invisibile, eventualmente accettando l’inciampo nell’inedito o il rischio del tutto buio.

Alla fine, il Po appare, largo e placido, emozionante, e la gita naturalistica che compio con l’allevatore-­‐pescatore di molluschi, un ragazzo in gamba che dice cose sensate e interessanti, mi riappacifica con il mondo e la sua complessa trama, lo sfacelo lo sento alle spalle.

Sul barchino che percorre i labirintici canneti del Delta riesco a scorgere una straordinaria varietà di uccelli sempre visti sulle pagine dei libri o nei documentari, i colori dei loro piumaggi sono quanto di più meraviglioso si possa immaginare, da togliere il fiato. Ecco, io lì non ravviso necessità alcuna di andare oltre le apparenze, di varcare una soglia, di chiedere perché. La natura è sempre nuda e vera allo sguardo. Lì, tra fiume e mare, ripongo nello zaino penna e taccuino, smetto di prendere appunti. Lì io mi sento beatamente giunco tra i giunchi, e taccio.

Alcatraz Reunion

0

di Jewelle Gomez, traduzione di Michela Martini

per Dolores Has No Horses LeClaire

Mia madre è una turista in visita da me come io da lei
quando ero una bambina allevata da altri,
sempre preoccupata che mi dimenticasse.

Ora facciamo finta che mi abbia insegnato
a leggere o andare in bicicletta;
che mi aspettasse dalla porta
quando rientravo da scuola o mi guardasse
mentre mi vestivo per il primo ballo.

Ci comportiamo come se avessimo condiviso segreti
quando ero adolescente, ansiosa allora
che il mondo mi vedesse
per quella che sono… una bambina separata
dalla madre.

Mentre ci imbarchiamo sul traghetto
non siamo esattamente estranee;
ma neanche la piacevole evocazione
di mondi vissuti l’uno accanto all’altro
che si plasmano a vicenda.

Siamo due donne in età avanzata
che comprano ricordi dal
chiosco umido dei souvenir
vicino alla passerella,
facciamo fotografie che
ci ricorderanno di come ci assomigliamo.

È un’esperienza fredda e perversa
essere tra gente che non vede l’ora di
sbirciare attraverso le sbarre della prigione e
dare un’occhiata a una miseria trascorsa da tempo,
a fantasmi di rabbia incessante e
paura ingabbiata così vicini alle luci della città.

Solo quando tocchiamo terra la scintilla
dei Wampanoag e degli Ioway riempie i suoi occhi
come ha fatto con quelli di sua madre, come fa con me.

La polvere della prateria e le erbe marine dell’Atlantico
abbracciano questo litorale scosceso –
ostile e familiare;
mappatura delle origini.

Gli altri ci passano accanto su per il sentiero verso
il folclore del carcere. Noi andiamo in profondità, sotto
le spesse mura fatiscenti dove
la roccia incontra la roccia. Uno spazio sacro, non prigione.

Attraversiamo la distanza che ci separa
in quel luogo duro, rubato –
Ioway e Wampanoag incontrano
Ohlone, Pomo, Yurok, Hupa, Shasta e
Hopi, Modoc, Sioux, Paiute,
Inuit, Chocktaw. Una nazione di nazioni,
un leggero strascicare di piedi sulla pietra
in una danza destinata
a unirli tutti.

Sedute su una panchina alla fine ci diamo la mano
come forse abbiamo fatto quando ero bambina.
Tenendoci strette come se la pressione
dei palmi possa permetterci
di leggere nel nostro passato.

 

for Dolores Has No Horses LeClaire

Mother is a tourist visiting me as I did her
when I was a child being raised elsewhere,
always worried she’d forget me.

Now we pretend she taught me
how to read or ride a bicycle;
that she waited by the door for me
to arrive after school or watched me
dress for my first dance.

We act as if we shared secrets
when I was a teen, anxious then
the world would see me
for who I am… a child separate
from a mother.

Boarding the ferry
we are not exactly strangers;
nor are we a fragrant recollection
of worlds lived side by side
giving shape to each other.

We are two aging women
buying memories from
the souvenir stand
damp by the gangway,
taking snapshots that will
remind us how alike we are.

It’s a cold ride and perverse
to be among those eager to
peer through the prison bars and
glimpse long-passed misery,
the ghosts of anger pacing and
fear caged so close to city lights.

Only when we land does the spark
of Wampanoag and Ioway fill her eyes
as it did with her mother, as it does with me.

Prairie dust and Atlantic sea grasses
embrace this precipitous shoreline –
harsh and familiar;
mapping the beginnings.

Others stroll past us up the path toward
prison lore. We go deep, beneath
the thick, crumbling walls where
rock meets rock. Sacred space, not prison.

We cross the distance between us
on that hard, stolen place –
Ioway and Wampanoag meeting
Ohlone, Pomo, Yurok, Hupa, Shasta and
Hopi, Modoc, Sioux, Paiute,
Inuit, Chocktaw. A nation of nations,
the soft shuffle of their feet on stone
in a dance meant to
bind all together.

Sitting on a bench finally we hold hands
as we might have done when I was a child.
Clinging tight as if the pressure
of our palms will allow us to
read each other’s pasts.

 

 

NdR: sul sito di Jewelle Gomez, e qui, si possono trovare molte informazioni sull’autrice, poetessa/romanziera/critica e militante. Questa poesia, tradotta qui da Michela Martini, fa parte dell’installazione permanente della mostra sui nativi americani ad Alcatraz.

Michela Martini è nata a Genova e vive negli Stati Uniti, dove ha insegnato lingua, cultura e letteratura italiana presso la Indiana University, la Suffolk University e la University of California Santa Cruz. Ha co-fondato e diretto la Società Dante Alighieri di Santa Cruz in California e ha lavorato per la rivista «Chicago Quarterly Review». Le sue traduzioni in inglese di poesie e brani di Edoardo Sanguineti, Giorgio Caproni, Cristina Alziati, Gabriella Leto, Patrizia Valduga, Emanuele Trevi, Rossana Campo sono apparse su diverse riviste letterarie americane e nell’antologia curata da Geoff Brock The FSG Book of Twentieth-Century Italian Poetry. Per la rivista «Alfabeta2»ha tradotto il racconto di Scott Hutchins L’evoluzione del desiderio e per «Filigrane» e «Cenobio» raccolte di poesie di Ellen Bass.

 

Ida Travi: Marìe canta la famiglia del secolo

1

 

«Questa è soltanto polvere / io lo dicevo, Olin, lo dicevo»

Marìe canta la famiglia del secolo di  Ida Travi è il settimo libro dei Tolki e il decimo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»
Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autrice. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

 

 

 

Ida Travi nasce a Cologne, Brescia, nel 1948. La sua poesia si inscrive nel rapporto tra oralità e scrittura, tematica che nel 2000 affronta con il saggio L’aspetto orale della poesia (Selezione Premio Viareggio 2001, terza edizione Moretti&Vitali, 2007), e nel 2015 in Poetica del basso continuo. In poesia per Moretti&Vitali pubblica la sequenza poetica sui Tolki, i parlanti, in cinque libri. Per il teatro l’atto tragico Diotima e la suonatrice di flauto edito da Baldini Castoldi Dalai nel 2004. Sui suoi radiodrammi e sue poesie alcuni compositori contemporanei hanno composto musiche originali.

Inno a Lagioia (prima parte)

0

di

Effeffe

Grazie a Rocco Pinto , libraio e amico, sono riuscito a partire per Parigi con sottobraccio la copia de La città dei vivi, di Nicola Lagioia.

In treno ho staccato lo sguardo dalle pagine aperte sul tavolinetto, in quei momenti che Fernando Pessoa aveva definito intervalli tra il sé e il sé stesso , e mi è venuto in mente un viaggio fatto anni prima da Roma dove si era appena conclusa la fiera della piccola e media editoria, a Torino, città in cui allora risiedevo. Per puro caso, in quello stesso scompartimento, avevo incontrato Giorgio Vasta e per vincere la noia c’eravamo avventurati in  una lunga conversazione su temi a noi cari. Non so come, ma solo perché non me ne ricordo la transizione, Giorgio mi cominciò a parlare dello sceneggiato, L’amaro caso della Baronessa di Carini e più particolarmente dell’omonima ballata della sigla d’apertura che, mi faceva notare Giorgio, diceva allo spettatore, d’emblée, come sarebbe andata a finire la storia.

Il romanzo inchiesta di Nicola Lagioia, questa sua ballata dal ritmo incalzante, perentorio, come ogni narrazione che si dedichi a una storia veramente successa, e sufficientemente raccontata dai media, non può riservare sorprese al lettore su come vada a finire perché la realtà non si cambia. Il solo “spazio” aperto rimane quello dell’interpretazione dei fatti, una genealogia degli eventi che sia in grado di illuminare le zone d’ombra, centrali o periferiche che siano, di una storia umanamente inspiegabile se non si accoglie un’idea dell’umano più complessa di quanto l’etica comune ci faccia credere.

I fatti:

L’omicidio Varani, risale al 2016. Manuel Foffo e  Marco Prato si resero responsabili di un delitto caratterizzato da particolare crudeltà, uccidendo Luca Varani nell’appartamento di Foffo nel quartiere Collatino a Roma, colpendolo con oltre 100 tra martellate e coltellate. (Adnkronos)

La casa come sito di resistenza. Da Rosa Parks a bell hooks

0
Da: https://www.bbc.com/news/world-europe-54176956
Foto da: www.bbc.com/news/world-europe-54176956

di Ornella Tajani

A Napoli, fino al 6 gennaio 2021, si può vedere la casa di Rosa Parks, grazie a una installazione dell’artista statunitense Ryan Mendoza. È interessante scoprire il suo progetto, e riflettere sui suoi significati, alla luce del primo capitolo dell’Elogio del margine di bell hooks, appena riedito da Tamu Edizioni; il volume esce a cura di Maria Nadotti, che firma anche un’importante nuova prefazione.

L’opera di Mendoza, dal titolo “Almost Home”, è promossa dalla Fondazione Morra Greco e ospitata nel Cortile d’onore del Palazzo Reale: si tratta dell’abitazione di Detroit in cui Parks visse tra il 1957 e il 1959, dopo essere fuggita da quel sud in cui, nel 1955, aveva dato il via al boicottaggio dei mezzi di trasporto della città di Montgomery (Alabama), rifiutando di cedere il posto sull’autobus a un uomo bianco. Quella che oggi si può vedere è la casa che il fratello aveva preso in affitto, dove viveva con la moglie e i loro tredici figli e dove la ospiterà insieme al marito. Sarà solo circa vent’anni dopo che Sylvester Parks riuscirà ad acquistarla, ma intanto la sorella Rosa l’avrà già lasciata. Come sottolinea la docente Jeanne Theoharis all’interno del ben curato opuscolo informativo offerto a chi visita l’opera, Rosa Parks non ha mai avuto una casa sua: ecco perché il «focolare», come lo definisce hooks, condiviso con i propri parenti riveste un’importanza particolare.

Questa di Mendoza è una “installazione” nel senso etimologico del termine: un insieme di assi e di pezzi smontati e rimontati. Dopo aver acquistato la casa – ormai in pessime condizioni – per 500 dollari, la nipote di Parks ha contattato l’artista per cercare con lui una fondazione che la restaurasse e la preservasse come monumento storico appartenente alla collettività; il sindaco di Detroit, infatti, aveva previsto la demolizione di 80mila abitazioni, fra cui questa. Nessuno si è mostrato interessato, così la casa ha attraversato l’oceano in due container, per approdare temporaneamente a Berlino, nel cortile dell’artista; da lì è poi giunta a Napoli. Per una forma di rispetto Mendoza ha previsto che non si possa accedere all’interno: l’installazione si guarda dall’esterno e il suo titolo, “Almost Home”, «Quasi casa», rinvia all’auspicio ch’essa possa tornare un giorno negli USA, lì dove è giusto che faccia da memento. L’obiettivo dell’artista è quello di proporla come rappresentazione di «tutti coloro le cui storie possono solo essere immaginate e le cui pagine non saranno riportate nella storia d’America».

Oggi – scrive hooks, citata da Nadotti nell’introduzione al volume citato – la tematica che richiede il massimo della nostra attenzione è quella della rappresentazione.

Il primo capitolo del suo Elogio del margine si basa sul ruolo eminentemente politico che l’abitazione ha rivestito nelle lotte per i diritti civili: la casa «come sito della resistenza e della lotta di liberazione».

Costruire un focolare domestico non significava soltanto fornire dei servizi. Voleva dire costruire un luogo sicuro dove i neri potessero confermarsi l’un l’altro e, così facendo, guarire molte delle ferite che la dominazione razzista aveva inflitto loro. Nella cultura della supremazia bianca, all’esterno, non saremmo riusciti a imparare ad amare o rispettare noi stessi; è stato lì, all’interno, in quel «focolare domestico» per lo più creato e mantenuto da donne nere, che abbiamo avuto modo di crescere e progredire, di nutrire il nostro spirito. Il compito di costruire un focolare domestico, di fare della casa una comunità di resistenza, è stato condiviso globalmente dalle donne nere, in particolare dalle donne nere delle società suprematiste bianche.

hooks pone l’accento sullo sforzo che le donne nere compivano per non esaurire tutte le loro energie nei lavori di cura delle famiglie bianche presso le quali passavano gran parte della giornata, e per conservare una porzione di sé da offrire ai propri cari, al proprio focolare: tale sforzo va per l’autrice messo in valore come atto politico di resistenza, nonché come forma critica della definizione sessista «secondo la quale servire sarebbe il ruolo ‘naturale’ delle donne».
Ricordando l’angoscia che provava quando vedeva la madre andarsene per prestare servizio nelle case dei bianchi, hooks scrive:

Al suo rientro, dopo lunghe ore di lavoro, non si lamentava. Faceva di tutto per farci capire quanto fosse contenta di aver concluso la sua giornata di lavoro, di essere a casa; ma nello stesso tempo ci dimostrava che nella sua esperienza di lavoro come domestica al servizio di una famiglia bianca, in quello spazio di Alterità, non c’era nulla che le togliesse la sua dignità e il suo potere personale.

Uno degli strumenti dell’apartheid è proprio quello di impedire ai neri di costruirsi un’abitazione, primo nucleo comunitario:

I bianchi hanno trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale: costruire senza posa strutture economiche e sociali che sottraggano a molti i mezzi per farsi un focolare. Ricordarlo dovrebbe permetterci di capire il valore politico della resistenza delle donne nere nelle case. Dovrebbe fornirci la cornice entro cui discutere lo sviluppo della loro coscienza politica, riconoscendo l’importanza politica dello sforzo di resistenza che ha avuto luogo nelle case. Non è un caso che il regime di apartheid sudafricano attacchi e distrugga sistematicamente gli sforzi della nostra gente per costruirsi un sia pur precario focolare domestico, quella piccola realtà privata dove donne e uomini neri possono ricrearsi e ritrovare sé stessi. Non è un caso che questo focolare domestico, per quanto fragile ed effimero possa essere, quattro pareti tirate su in fretta e furia, un mucchietto di terra dove riposare, sia sempre esposto a violazioni e distruzioni. Perché, quando non si ha più lo spazio per costruirsi una casa, è impossibile costruire una vera comunità di resistenza.

È proprio nella direzione del recupero della memoria che va il lavoro di Ryan Mendoza, il quale, con il suo “The Rosa Parks House Project”, ha riprodotto già più volte il gesto simbolico fragile e potentissimo di “tirar su quattro pareti in fretta e furia”: prima a Berlino, poi a Providence, ora a Napoli.
Al momento in cui scrive, nel 1990, hooks afferma la necessità di ripensare questo luogo come «sito primario della sovversione e della resistenza».

Partendo da qui, potremo ritrovare la prospettiva perduta, dare alla vita un nuovo significato. Potremo fare della casa quello spazio dove tornare a rinnovarci e a curare noi stessi, dove guarire dalle nostre ferite e diventare interi (corsivo mio).

La storia travagliata di Rosa Parks dimostra quanto sia stato difficile per lei trovare un posto in cui guarire dalle ferite e trovare pace: morirà a 92 anni, dopo essere stata minacciata di sfratto per mancato pagamento dell’affitto (affitto invece regolarmente versato, secondo Elaine Steele, direttrice del Rosa and Raymond Parks Institute). Oggi l’opera di Ryan Mendoza invita a riflettere su questo travaglio e a risemantizzare il «focolare», sia sul piano simbolico, sia sul piano concreto, riproponendolo come un protagonista importante della storia del movimento per i diritti civili degli afroamericani.

Annotare il dolore. – Su “Taccuino dell’urlo”di Sonia Caporossi

0

di Antonio Francesco Perozzi

Mi piace parlare di Taccuino dell’urlo (2020, Marco Saya Edizioni) di Sonia Caporossi in termini di dialettica e “impaludamento”, intendendo con questi i due diversi impianti di significazione all’interno dei quali si muove il linguaggio del libro. Mi pare – voglio dire – che il Taccuino possa leggersi come reazione del linguaggio allo stress provocato da due spinte poietiche separate ma dipendenti l’una dall’altra: la prima, elastica, che nasce dall’energia che si agita tra due (s)oggetti in attrazione; la seconda, entropica, che viene dalla (e incide sulla) coesistenza/opposizione tra lo svelamento e l’occultamento di un quid reale nel (e attraverso il) linguaggio.
Di fatto, il libro racconta una relazione, amorosa e dolorosa, tra due soggetti. Nella sezione “Indizi” (di per sé già significativa: l’autrice lascia al lettore alcuni possibili strumenti ermeneutici, e il testo si annuncia in partenza come labirintico) le prime parole che si incontrano – che sono quindi le prime dell’opera – sono proprio «Lui e lei». Le pagine successive non faranno altro che interrogare, attraverso un linguaggio di cui ora proverò a studiare le caratteristiche, quanto in potenza già contenuto nell’incipit: la relazione – in senso metafisico, oltre che affettivo – tra due soggetti, che è, giocoforza, connessione e separazione al contempo (potremmo riconoscere nella congiunzione “e” l’allegoria della compresenza di vicinanza e lontananza).
Ma l’impianto dialettico, a mio avviso, è riscontrabile anche nella struttura del testo: trentadue poesie (segnate con numeri romani) sono inquadrate da altre tre composizioni (segnate con lettere greche) che scandiscono i tre momenti dell’opera. Anche seguendo queste sole poesie-cornice è possibile tracciare in linea di massima il percorso del Taccuino: α si incentra su atti di denotazione e percezione, tramite l’anafora di «ho visto» e l’individuazione di qualcosa «in un altro» (precisamente, «l’abisso», «il riflesso», «l’influsso», «l’ossesso»: si nota già qui la potenza della relazione, che chiama in campo immagini e concetti legati alla indeterminatezza, al buio, al dolore); φ segna la fase più acuta della disfunzione della referenza del linguaggio, e cioè – ma ci tornerò più avanti – della parola che si auto-sabota di fronte alla realtà («voglio solo addormentare questa voglia di volere»); ω, in chiusura, colloca nel silenzio («alla fine lui resta in silenzio») l’approdo risolutivo della dialettica (ma – e sarà più chiaro nelle righe successive – è un silenzio che non può farsi se non in simbiosi con la propria negazione, che è poi l’affermazione del linguaggio; tant’è che l’ultima strofa torna a parlare di scrittura, cioè di distruzione del silenzio).
Quando parlo di “relazione” e “dialettica” all’interno di questo libro intendo, perciò, lo spazio che intercorre tra «Lui e lei», ma anche il campo “magnetico-semantico” (la stessa autrice parla, in XXXII, di «campo d’azione», tra i due soggetti) provocato dal cercarsi di questi due soggetti, che si traduce (sul linguaggio) in termini di tensione distorcente e massimalismo. Maria Grazia Calandrone, che firma la prefazione, parla infatti di un rapporto «che disorienta, perché procede per contrasti e contraddizioni» e individua la miccia del caos nel dolore: «anche la lingua con la quale la relazione racconta sé stessa deve simulare il disordine della ferita, il dolore che scaglia fuori da sé.»
L’attrazione verso l’Altro (o il distacco da esso; comunque il riferirsi a) determina quindi una scossa interna alla sintassi. Da qui deriva quello che ho chiamato in apertura “impaludamento”, facendo implicitamente riferimento alla «palus putredinis» di Sanguineti: se le ragioni storiche, e perciò poetiche, di Laborintus possono ritenersi lontane da quelle del Taccuino, non pochi sono gli elementi che in questa Caporossi fanno pensare – almeno a me – a Sanguineti, come la deformità dei versi, l’accumulo di materiali, le lettere greche, i giochi di parole, l’innesto di vocaboli e concetti filosofici e accademici. Quello che soprattutto ci interessa, però, – e al netto comunque di altrettante ragioni di distanza tra l’autrice e il primo Sanguineti, come, ad esempio, il verso breve e la struttura fonico-metrica regolare di alcuni testi (entrambe le cose già in α) – è il generale sconquassamento dello strumento poetico che anche Caporossi mette meticolosamente in atto; e lo fa esplorando gli ambiti più vari del mondo verbo-visivo: dal deragliamento grafico dei versi sulla pagina all’uso di caratteri “speciali” (la parentesi graffa e i doppi due punti mi sembrano i più caratteristici), dal lessico “difficile” (la filosofia, le scienze, il greco, il latino; ancora più stridente se coinquilino del lessico pop, come nel caso della metafora calcistica su cui si impernia XXXII) all’evidenziazione di parole (corsivo, grassetto, ma anche il barrato, che cancellando mette in risalto).
La “palude” del Taccuino dell’urlo è quindi la palude di linguaggio originata dalla tensione incontrollabile che collega i due soggetti e si ripercuote sui versi in un gioco (tragico) di apparizione/sparizione dell’Essere nella parola. Ancora torna utile la prefazione, quando Calandrone scrive: «La scrittura di Sonia Caporossi è mossa dalla necessità di comprendere filosoficamente il mondo, che si dà silenzioso nei suoi nessi». Il poetico, potrei chiosare, nasce allora proprio dal fatto che il tentativo di comprensione filosofica del mondo – che richiede un sistema logico – si scontra con i vuoti del mondo stesso (la tensione irrisolta verso l’Altro) e quindi con gli effetti di quelli sul linguaggio (da cui la necessità di “Indizi” lasciati come viatico da chi scrive a chi legge).
Sono molti, infatti, e sparsi ovunque, i punti in cui il linguaggio si annuncia potente e impotente insieme e – anche in questo caso – con tecniche e intensità diverse: ne sono esempi le “negazioni tetiche” (negazioni che chiamano in causa, nell’immaginazione, ciò che negano: stessa strategia del testo barrato) su cui si fonda VI, gli ossimori («irragionevole ragione»), l’oscillazione tra esterno e interno dell’Io («prospettive e vedute / come fossero panorami del mio inconscio»), le dichiarazioni dirette dell’inefficacia materiale delle parole («in questa bieca pretesa / sensoriale del linguaggio», «chiamare il suo nome nel vuoto», «e nessuno risponde / a ciò che ha domandato»), le tautologie e i meta-processi («ragionare la ragione»), i versi che giocano su meccanismi paradossali e di circolo vizioso tra presenza e assenza («nell’ipocrisia / di questo industriarsi a non fare», «e non era stato mai / così prossimo / alla meta della perdita»).
Nel deragliamento del linguaggio generato dalla tensione emotiva-esistenziale tra due soggetti in attrazione-repulsione io vedo la ratio di questo libro, che non si risolve artisticamente, però, in una meta-poetica assoluta, ma diventa documentazione – seppur non mimesi – del reale proprio nel momento in cui si rivela franta e incontrollabile: né meta-poesia né referenzialità pure, ma un’estetica che abita lo strato intermedio tra realtà e linguaggio, l’alternanza tra asserzione e sottrazione di entrambi. Uno sforzo meticoloso – ecco il senso del titolo – di annotazione, di nominazione della sfera più dolorosa del non detto.

Testimone di passaggio

0

di Francesca Matteoni

Come suona il presente? Forse come uno spettro, che mentre lo guardiamo è già altrove, una fotografia dai contorni in dissolvenza, sfumata in colori troppo vividi per sembrarci reali. Catturano questo suono le dieci tracce di Testimone di passaggio, ultimo disco di Flavio Ferri ( Delta V), che si tessono potenti intorno ai versi del poeta Luca Ragagnin. Un disco che si avvale della collaborazione di vari compagni d’avventura e musicisti importanti della scena indipendente italiana: Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI, PGR), Carlo Bertotti (Delta V), Marco Trentacoste (Deasonika), Livio Magnini (Bluevertigo), Olden, Paolo Gozzetti, Fabrizio Rossetti, Valerio Michetti, Ulrich Sandner, Marco Olivotto, Mia Ferri, Elle, Codice Ego.

Il senso della fugacità del presente tuttavia non può essere ridotto a un rapido consumo, come detta l’abitudine più diffusa: per testimoniare bisogna saper durare, resistere alle mode e infiltrarsi ostinatamente nel mondo al contrario, facendosi negli spigoli ferita/ a prova di universo, come dicono due versi di “Beckett”, canzone d’apertura. Anche per questo il disco non è disponibile, salvo per tre tracce, in formato digitale, ma solo in CD e vinile, nella forma fisica che richiede contatto e cura. E in questa forma me lo sono riascoltata una domenica mattina, ricevendo la stessa sensazione dei vecchi dischi: una misura personale del tempo, in cui la voce evocativa di Ferri esalta la profondità delle parole in una poetica elettronica lucidamente spaesata e liberatoria. Si parte da una solida base letteraria – i testi di Ragagnin infatti precedono la produzione musicale, evocando numi tutelari nelle persone di Beckett, Houdini e Ligeti, ovvero il grande drammaturgo del Novecento, secolo che questi anni zero si portano addosso senza digerirlo; il grande illusionista e il grande compositore moderno, la cui fama è legata ai capolavori cinematografici di Kubrick. Per un significativo paradosso tuttavia la grandezza dei tre è direttamente proporzionale alle loro sparizioni: il non detto, il silenzio che supera il linguaggio per il poeta; le fughe straordinarie del mago, la cui illusione è una maschera del fallimento e diviene suggello di estinzione, nella chiusa memorabile del testo a lui dedicato; gli universi crollati negli occhi del compositore che ha scritto la colonna sonora dell’inizio della civiltà e dunque anche della sua inevitabile dissoluzione.

Dalle figure profetiche si passa a quelle fiabesche, ma andate a male, come accade in “Bambina da canzone” e “Moderna”, le cui protagoniste scambiano il bosco per un mondo di opportunismi e veleno o si risvegliano disincantate, private di ogni scenario di salvezza classica: Ma non è una fiaba da villaggio incantato/E non sei la regina di un regno ghiacciato/Non porti il diadema d’un amore a riscatto/Sei soltanto la figlia d’ignoranza e misfatto. Sulla vanità della cronaca, ovvero la brutta copia della realtà, si rovescia il paesaggio intimo e dissonante di Ferri-Ragagnin, in un esercito deposto di libri alle pareti in “Testimone di passaggio”, nell’inevitabile assenza che è l’altra faccia del desiderio di permanere da qualche parte in “Le verità roventi”. Ma è in “Odio” e “Scoppio di dio” che il disco raggiunge il suo apice: fiaba, profezia, cupa densità trascinano l’ascoltatore in un crescendo della trama sonora. A volte la lingua fa questo, corre più veloce del pensiero e quasi raggiunge il rumore da cui viene la musica. Così ascoltiamo il suono rabbioso della gioia e della pace come un delirio di consapevolezza: Ti avevo abbandonato dentro un bosco/Nel tempo che defoglia gli alfabeti/Ma sei tornato senza sassolini/E mi hai legato al collo con un cappio./Il ghigno storto della gioia,/della pace, della pace. O ci ritroviamo dentro una litania che insegue dio in una variazione versificatoria senza tregua: che mangia il tempo e che si chiama…/che porta il tempo e che si chiama…/che parla il tempo e che si chiama…/che tace il tempo e che si chiama…/e che diventa dio dopo il tramonto/e che diventa dio dopo il trapianto/e mente un pianto per andare/e mette un panno per restare/un lino bianco steso sul millennio/un velo bianco teso sul millennio/un vero falso illuso sul millennio/ dna d’amore sul millennio. Dna d’amore sul millennio, ovvero un sangue antico e furibondo, parafrasando ancora la canzone, che infine si prende la sua rivincita come un canto di battaglia. E dunque, d’amore.

«El comunismo no pasará». La destra latinoamericana alla prova della pandemia

0

di Camillo Robertini

Le manifestazioni anti-Covid dei mesi scorsi, i raduni no-mask del 10 ottobre e le recenti insurrezioni napoletane non rappresentano un fenomeno locale e isolato, ma rispondono sempre più spesso a dinamiche che si sviluppano a cavallo tra gli stati e si rincorrono sui social network. Come la campagna elettorale statunitense ci ha insegnato, al momento giusto la negazione della pericolosità del virus o della necessità della profilassi può essere capitalizzata nelle urne. In questo modo l’apparizione e la sparizione delle mascherine in mano a Salvini o alla Meloni e le imprecazioni di Trump o Bolsonaro rispondono al calcolo politico e alla capacità simbolica che gesti così forti hanno sull’opinione pubblica.

Queste considerazioni, come visto, sono valide per innumerevoli paesi e assumono un significato ancora più preciso se le riportiamo all’America Latina che, da almeno sei anni a questa parte, vive uno dei periodi di maggiore incertezza dalla fine delle dittature militari degli anni Ottanta. Da quando le destre si sono affermate in diversi paesi per via elettorale (Cile e Argentina) oppure attraverso colpi di Stato più o meno palesi (Brasile e Bolivia) le lancette della storia sembrano essere tornate indietro, agli anni Settanta, quando i blocchi occidentale e sovietico si disputavano l’egemonia sull’area. Il contesto della pandemia sembra aver accentuato una polarizzazione tra i movimenti politici che propiziano una redistribuzione della ricchezza, sempre nella cornice degli ordinamenti liberali e delle destre rabbiose che presentano i timidi tentativi di redistribuzione come “pasos hacia Venezuela”, “vía al socialismo”.

Nel contesto continentale si sta manifestando con tutta la sua forza una egemonia delle nuove destre che, inaspettatamente, fanno ricorso a due antichi e potenti strumenti retorici: l’anticomunismo e la minaccia che i paesi della regione si trasformino in regimi comunisti e il rischio che i movimenti “populisti” pongano fine alla proprietà privata.

Rapidamente archiviata la fase progressista, che soprattutto fuori dall’America Latina aveva fatto sperare che dei governi riformisti potessero porre fine alle secolari ingiustizie di una delle porzioni più diseguali del pianeta, in diversi paesi le spinte reazionarie hanno assunto una forza inattesa. Così, dal 2015 in avanti uno ad uno sono caduti i governi di centro-sinistra, soppiantati da presidenti catechizzati al culto dell’individualismo e del governo supremo del libero mercato.

Una “nuova” guerra fredda e il peso della storia
Nel contesto di emergenza attuale possiamo osservare come una vicenda su tutte abbia polarizzato la discussione e si sia trasformata in una referenza tanto per la destra come per la sinistra: il Venezuela. Lo scontro sempre più vivo tra sostenitori e detrattori del governo di Nicolás Maduro e la condanna da parte dell’Onu della repressione contro l’opposizione ha fatto sì che attorno al “caso Venezuela” si riaccendessero antiche retoriche e discorsi che sembravano oramai assopiti. A più voci è stato chiesto un intervento armato degli USA, e lo stesso Trump si è detto più volte disponibile a “difendere la proprietà privata” e pronto a “estirpare” il socialismo dall’America Latina. Il fantasma del comunismo viene adoperato dai mezzi di comunicazione e dalle destre per delegittimare anche il più timido tentativo di rompere con le regole del gioco neoliberale. Così, la decisione di nazionalizzare un’impresa privata che speculava sulle esportazioni di soia dall’Argentina all’estero o porre un freno ai licenziamenti in pandemia vengono recepiti come tentativi di “sovvertire” l’ordine (neoliberale) costituito.

L’anticomunismo che riemerge in questo periodo si basa anche sullo sforzo che le corporazioni dell’informazione giocano rispetto al complesso quadro internazionale. Non di rado il gruppo Globo in Brasile, Clarín o La Nación in Argentina e Mercurio in Cile hanno presentato uno scenario da guerra fredda nel quale le forze liberali si opporrebbero alla coalizione social-chavista. L’anticomunismo manifesto dei monopoli dell’informazione fa leva su un potentissimo strumento retorico: la storia. Negli ultimi anni si è fatta strada una ricostruzione del passato alquanto surreale, ma inaspettatamente capace di entrare nel patrimonio culturale della gente comune, secondo la quale i sussidi sociali, le politiche dei movimenti populisti e socialisti abbiano condannato la regione a una inevitabile decadenza. La fase dei governi della Izquierda del siglo XXI (2005-2015) viene additata e responsabilizzata per colpe che affondano invece le proprie origini nelle profonde disparità che si sono accumulate dalla colonizzazione delle Americhe in avanti. Così le responsabilità di cinquecento anni di Vene aperte dell’America Latina sono ricadute su quei governi che hanno provato, con evidenti limiti e con tutte le contradizioni del caso, a porre un freno all’ingiustizia sociale.

Un caso evidente di come l’uso del passato possa determinare il dibattito pubblico è rappresentato dal settantacinquesimo anniversario dalla nascita del peronismo. Il movimento di Juan Domingo Perón è stato festeggiato nelle principali piazze dell’Argentina dai sostenitori dell’attuale esecutivo Fernández, che hanno ricordato i progressi sociali compiuti dal proletariato argentino durante gli anni Cinquanta. In quell’occasione però è emersa una, non del tutto infondata, critica al justicialismo che, da diverse voci, viene considerato il perpetratore di alcuni problemi oramai strutturali dell’Argentina d’oggi: povertà, corruzione dei funzionari pubblici, Stato sociale “troppo generoso”, pressione fiscale fuori controllo e inflazione annua oltre il 50%. Per dirla con le parole di Agustín Laje, uno dei guru della nuova destra latina, i settantacinque anni di peronismo sono stati una fase di lunga decadenza. Per gli alfieri della nuova destra poco importa se tra la fondazione del peronismo e l’attualità l’Argentina abbia avuto cinque governi militari, il peso retorico dell’uso del passato è tale da non lasciare alcun dubbio: la causa di tutti i mali della regione è il populismo, in tutte le sue manifestazioni: peronismo, chavismo, lulismo e così via. Esso, secondo la teoria dei liberisti d’acciaio, avrebbe infettato una società sana e avviata verso un sicuro futuro di prosperità condannandola a una inevitabile povertà.

La storia è tornata a dettare l’agenda politica il 12 ottobre scorso, in occasione dell’anniversario dell’uccisione del Che Guevara nella selva boliviana. Il presidente Bolsonaro, famoso per le sue uscite con le quali ha riabilitato la dittatura militare, è stato lapidario nel definirlo come un “delinquente comunista fonte di ispirazione dei drogati, feccia di sinistra”. Dello stesso avviso è stata anche la presidenta dimissionaria della Bolivia, Jeanine Añez, che però si è spinta ancora più in là rendendo omaggio all’esercito boliviano che contrastò la “miserabile invasione comunista del Che Guevara. La Bolivia ha dato una lezione a tutto il mondo: la dittatura comunista qui non trova terra feconda […] né l’invasione criminale e comunista del Che”.

Foto di Matias Cruz da Pixabay

Nel contesto attuale, con la pandemia che non sembra dare tregua ai paesi dell’America Latina, i governi al potere sono sempre più stretti tra la necessità di preservare la salute pubblica e le pressioni di quanti vogliono riaprire le proprie attività. Sulla scorta di un comprensibile malessere, quello di quanti vedono polverizzarsi la propria attività, si innestano le invettive delle nuove destre che con grande efficacia macinano consensi.

Nel giro degli ultimi mesi l’inseguimento da parte di molti politici liberali delle più fantasiose giustificazioni contro il lockdown li ha avvicinati d’un balzo alle posizioni più estremiste fino a poco fa condivise solamente da Bolsonaro e Trump. Un caso evidente è quello dell’ex presidente argentino Mauricio Macri, riconosciuto anche dai suoi rivali per il suo aplomb, che però dall’inizio della quarantena a oggi ha assunto posizioni al limite del negazionismo. In occasione del “banderazo nacional” del 13 ottobre che ha visto le principali piazze dell’Argentina riempirsi di negazionisti e oppositori all’attuale governo, Macri ha giustificato la violazione delle norme sanitarie indicando la disobbedienza civile come uno strumento irrinunciabile per salvare la costituzione “messa in pericolo” dall’autoritarismo dell’esecutivo.

Che si tratti dell’Argentina o della Bolivia, del Cile o del Brasile vi è un filo rosso che tiene assieme le emergenti destre latinoamericane: un fervente anticomunismo e una intolleranza nei confronti delle classi popolari che attinge a piene mani al repertorio di pratiche autoritarie ereditato dalle dittature degli anni Settanta. Oggi la lotta contro il “populismo”, contro la “demagogia” e contro il “socialismo” è portata avanti da novelli crociati le cui pratiche politiche sono la violenza verbale, l’intolleranza nei confronti degli oppositori, l’odio di classe.

Una battuta d’arresto della repentina crescita delle destre nella regione è rappresentata dalla vittoria in Bolivia, in ottobre, di Luis Arce, candidato del partito Mas di Evo Morales così come il massiccio voto dei cileni col quale ha mandato definitivamente al macero la carta costituzionale ereditata da Pinochet. Vi sono segnali che indicano che l’ascesa delle destre più conservatrici e reazionarie è, per dirla con Brecht, «resistibile». Ma il recente attentato contro il neo presidente boliviano e la pressione mediatica dei gruppi che ancora sostengono le destre testimoniano che la loro propulsione è lontana dal dirsi esaurita.

Così, mentre le proteste popolari contro il Covid-19 esplodono in diverse parti della regione, le “destre liberali” che fino all’altro giorno avevano mantenuto posizioni ragionevoli, oggi soffiano sul fuoco sperando di intercettare il malcontento popolare. In questo modo le destre “presentabili” sono perfettamente sovrapponibili alle destre nazionaliste, e questa non è una buona notizia per le fragili democrazie della regione.

***

Camillo Robertini (1987) è uno storico italiano, ricercatore e docente presso l’Instituto de Estudios Internacionales dell’Universidad del Chile. È autore per Le Monnier di Quando la Fiat parlava argentino. Una fabbrica italiana e i suoi operai nella Buenos Aires dei militari (2019).

La foto di copertina è di Peter Kraayvanger da Pixabay

da “Romanzetto estivo”

5

di Gherardo Bortolotti

Nell’estate del 2019 mi sono separato; è morto mio padre; ho incontrato dopo 25 anni il mio primo amore e, la notte stessa, ho visto una stella cadente. Potrei scriverci un libro e intitolarlo Romanzetto estivo. Ma, in effetti, già così è come se l’avessi fatto.

47. Quello che spesso dimentico è che le ore della sera hanno una peculiare intimità con la colpa, il difetto e il senso di disfatta. Non che quelle del mattino siano più clementi ma almeno gli orrori che promette la giornata, l’esilio a cui mi costringe il salario, tolgono il fiato e sono rapidissimi nell’occuparmi il cuore e la mente. La sera, il riposo e la meccanica chiusura del giorno finito hanno, invece, tutto l’agio di presentare il mio fallimento e la consistenza puerile dei miei sogni d’amore. Nei minuti prima del sonno penso allora a qualche episodio con Irene, per esempio quando camminavamo una sera di novembre e cercavo di baciarla mentre lei rideva al riparo del cappuccio e continuava a chinare la testa per impedirmelo. Mi ricordo soprattutto le sfumature della penombra, dentro le pieghe del cappuccio, che sembravano quelle di un cespuglio dei giardini suburbani che stavamo costeggiando, e la grazia del gesto di chinare il capo che era un rifiuto ma anche un piccolo inchino al suo sentimento per me.

I Pellicani

0

di Giorgio Mascitelli

I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, ed. Miraggi, Torino, 2020

Un uomo penetra in un palazzo fatiscente della periferia urbana perché spera di trovarvi ospitalità per la notte. Non si tratta di una scelta a caso perché nel palazzo dovrebbe abitare ancora il padre, con il quale si è lasciato vent’anni prima ( vent’anni il tempo canonico di ogni ritorno a casa) in modo piuttosto burrascoso per via di un suo prelievo forzoso dal comodino in cui il genitore era solito tenere il denaro contante. Vent’anni sono tanti, ma il nome sulla targhetta dell’appartamento, Pellicani, corrisponde. La sorpresa è che l’abitante, un vecchio paralitico, non pare assomigliare in nulla al padre, salvo nel naso.

Il giovane Pellicani non si perde d’animo, sebbene incerto se si tratti del caro parente o di un abusivo, decide di trattenersi più del previsto e intraprendere una drastica azione rieducativa in armonia con i valori individualistici della nostra società per far recuperare all’anziano disabile la propria indipendenza, o forse sarebbe più corretto dire per permettergli di conseguire la propria emancipazione.

Così prende avvio il romanzo I Pellicani di Sergio La Chiusa, finalista del premio Calvino 2019 e insignito della menzione speciale Treccani per la lingua, a proposito del quale va innanzi tutto notato che siamo di fronte a un’opera già matura, nonostante segni l’esordio dell’autore nel campo della narrativa. Romanzo picaresco sur place, per così dire,  sembra voler rappresentare l’assurdità esistenziale di certe derive sociali ed etiche del nostro tempo in una situazione claustrofobica di un appartamento di un abitante solo, dotato di badante a mezzo servizio e di un figliol prodigo che si considera trattenuto lì dalla sua alta missione educativa. Se il protagonista e io narrante Pellicani junior appare erede dei picari nella sua disperata arte di arrangiarsi, nella sua tendenza autoaffabulatoria, e autoassolutoria, ha chiaramente dietro di sé i barboni beckettiani, specie quelli della trilogia o delle novelle. Del resto l’abbigliamento, un completo grigio topo e una valigetta 24 ore, che il protagonista sciorina con un certo compiacimento pare essere l’equivalente impiegatizio, nonostante le pretese manageriali, e più moderno della bombetta e del bastone da passeggio di un grande erede novecentesco dei picari ossia Charlot. In quest’ultimo, tuttavia, l’abbigliamento è funzionale a un’attitudine malinconica e dolce da clown bianco, qui l’ormai fatiscente vestiario rimanda a un Augusto che ha interiorizzato l’aggressività e la cialtroneria della società.

Così il programma didattico del giovane Pellicani, che al lettore potrà apparire una feroce forma di taglieggiamento del povero vecchio, è giustificato con una critica di ogni forma di assistenzialismo che tenderebbe, come spiegano gli specialisti del settore, a sviluppare pigrizia e inerzia nel soggetto. Ecco infatti come viene presentata dallo stesso interessato la sua missione in un passaggio che è un buon campione dell’intero testo: “Avevo capito che l’immobilità di Pellicani era un problema che non andava sottovalutato. Per sottrarsi seriamente all’assistenza era necessario mettersi in piedi, muoversi per proprio conto. La teoria e la provocazione intellettuale però da sole non potevano nulla, senza la prassi e l’esempio anche la  dottrina più nobile diventa lettera morta, vanità per intellettuali rancorosi. Basta parole al vento! Basta vane dichiarazioni d’intenti! Prassi! Azione! Fu allora che escogitai esperimenti per mobilitare il paralitico. Decisi di agire in modo sottile, procedere per piccoli passi,  introdurre minimi cambiamenti nelle abitudine quotidiane del vecchio. La donna di servizio, per esempio, lasciava un biberon pieno d’acqua sul comodino, a portata di mano. Lo notava sempre con un certo disappunto. Troppe comodità” ( pp. 84-85). Ineffetti il giovane Pellicani per stimolare all’azione il vecchio decide di svuotare il contenuto del biberon per costringerlo a muoversi fino alla cucina. E’ importante notare che sul linguaggio riposa il significato recondito dell’azione: qui viene adoperata una lingua infarcita di slogan e stereotipi mediatici main stream e del linguaggio politico e ideologico attuale, queste parole, come quelle successive in cui lo svuotamento del biberon viene ulteriormente giustificato con motivazioni umanitarie relative ai rischi per la salute derivanti dall’immobilità naturalmente evidenziano l’intima ipocrisia del personaggio e sul piano retorico si segnalano come una forma di eufemismo. Ora l’eufemismo è la principale strategia utilizzata nel discorso pubblico  per presentare misure impopolari e ingiuste, dunque l’ipocrisia sociale è introdotta linguisticamente nel rapporto tra i due personaggi tramite il fatto che il protagonista mutua nel suo linguaggio le convenzioni e i modelli argomentativi del discorso ufficiale. Il discorso neoliberista, come ricordava Sloterdijk in un suo celebre libro, esorta a cambiare la propria vita ossia a migliorare le prestazioni ed ecco che Pellicani junior fa propri gli obiettivi della società, sentendosi autorizzato dal suo abbigliamento, suppongo, a imporre picarescamente l’onere del cambiamento della propria vita a un vecchio indifeso, i cui beni casualmente sono appetibili per lui. Per la verità  la necessità di giustificare i vari passaggi del suo progetto educativo gli fanno talvolta anche riprendere un linguaggio più critico dei valori sociali dominanti, ma sempre con una costruzione linguistica che ha al centro l’eufemismo.

Non deve sorprendere che sia così perché la vitalità del personaggio  risiede proprio nella sua natura picaresca di autore di espedienti per procacciarsi da vivere e che ha pertanto iscritto nel proprio DNA, e nella propria disperata cialtroneria, il ‘Franza o Spagna purché se magna’ adatto a quest’epoca. Proprio da ciò però risulta evocata potentemente la povertà morale e umana, di cui quella economica è nel contempo causa e conseguenza, della società attuale. L’appartamento dei Pellicani si trova in un palazzo fatiscente situato in un quartiere in cui la “ modernità era arrivata (…) con la sua smania di rinnovamento, e invece del noioso complesso residenziale costruito il secolo scorso c’era ora un’aperta area sterrata che lasciava molte più opportunità all’immaginazione e allo spirito imprenditoriale: mucchi di macerie, tubi, lamiere, piloni in calcestruzzo da cui spuntavano tondini di ferro..” ( p.6), così queste macerie rappresentante entusiasticamente dall’io narrante costituiscono un correlativo concreto del paesaggio morale e umano che si incontra nel libro. L’appartamento non è serrato ermeticamente nei confronti della realtà esterna, ma come una sorta di Minitalia o di Minioccidente la riproduce e il senso di claustrofobia che ne deriva è uno spiffero che viene da fuori.

In definitiva ci troviamo di fronte a un romanzo che  riconcilia il lettore con il piacere della lettura perché racconta i casi degli uomini e il mondo che sta attorno a loro con grande libertà dai cliché editoriali e mediatici dominanti e con  modi che sono specifici del linguaggio letterario.

I reduci

3

di Maria La Tela

 

A cinque anni dovevo cantare Cicale, era un provino per una piccola rete tv.

Mia madre diceva che la facevo bene, che ero intonata, sapevo tutte le parole a memoria e la cantavo con un ritmo allegro.

Se me la fai sentire, mi disse la signorina al provino, ti regalo la mia catenina, il ciondolo era un delfino che luccicava.

L’affanno della lingua

3

di Mariasole Ariot  

18 ottobre 1917. Paura della notte. Paura della non-notte
Franz Kafka

 
 

Aleksandr Nikolaevič Skrjabin – Etude Op.8 No.12 “

 

Crescono i corpi del giardino come piccole tempeste della notte, un fiore che appassisce alla finestra e tu non dici acqua – quando lo scherzo è cauto e doloroso, il bene che hai annunciato una miseria, di nuovo un filamento un pozzo un sogno, ancora il fiato un fato e il vuoto: è il nulla che mi cerchi, ancora la mia pelle sugli avanzi, divori il mio futuro e mi rammenti, quando agli anni della carne hai macellato, un cielo è un velo appoggiato sul pudore, ricorda il verticale: l’orizzonte e la pena che non vale

 

La tomba, il tuo affanno della lingua

 

E crescono, escono all’asciutto i rami sulla spiaggia, l’orlo che ha vestito il buio che ho investito, quando all’alba mi richiama un’incertezza ed è certezza, il patto che si stende sulla fossa, la madre che hai bevuto per assenza – e ancora non si muove che uno straccio, mi spello mi rivesto e mi riespello, il gioco che hai ferito, le serpi che ricordano i ricordi, che donano le facce al mio scomposto. Attendersi radura, un sangue condensato nella sfera, la resa della sera, aggrappati all’insieme distingui il mio passato, non farne – ti prego – una memoria

 

Scrivere la natura. Note su Antropologia del turchese

3
Ellen Meloy

di Francesca Matteoni

Negli ultimi mesi mi sono trovata, per scelta e destino, in vari sensi spaesata, ovvero ho perso il mio luogo, anche se il luogo resta sempre là. In termini pratici ho traslocato, portandomi dietro il gatto, trasferendomi in un’abitazione situata proprio all’opposto rispetto al luogo lasciato, nella geografia della mia città. Traslocare non significa soltanto svuotare una casa e insediarsi in un’altra: significa staccarsi da una quotidianità di relazioni con esseri di varia natura, dagli umani al torrente, dagli olivi al bosco, dagli animali ai tetti che si fanno compagnia. Certo, portiamo in noi i luoghi amati. Diventano un pezzetto della carne che conosciamo come conosciamo le nostre braccia. Ma siamo lontani. Ci dobbiamo abituare alla distanza. Quando poi il trasloco avviene con un animale legato al territorio come il gatto tutto si complica. Il mio gatto non può vivere fra le mura di un appartamento. Insieme ci siamo avventurati nell’incolto attorno alla nuova casa, un passo, una zampa, una corsa nell’erba, un’intera ora separati, poi un’intera mattina, con la porta sempre aperta. Qualche difficoltà, qualche disorientamento, e poi il prevalere del gioco e della fiducia. Ecco, talvolta possiamo dire di aver stretto un legame con un luogo o con un animale quando sappiamo giocarci, quando sperimentiamo la leggerezza fino al ridicolo, quello che altri osservatori potrebbero definire follia. A volte non è la profondità dell’affetto, ma l’intensità del gioco a renderci una dimensione familiare. Accade con gli umani, con gli animali, con i luoghi. Accade che ogni stereotipo, perfino quelli positivi, di sacro terrore o rispetto, cada e cominci il dialogo di parole sciocche come di limpida intesa.

Riconosco con sollievo questa necessità di colloquiale leggerezza con quanto chiamiamo natura, nei saggi di Ellen Meloy, singolare scrittrice americana, di cui è finalmente disponibile un libro, Antropologia del turchese. Riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo, pubblicato da Black Coffee nella traduzione di Sara Reggiani.
In “Spose fedeli”, uno dei saggi che concludono il libro, leggo:

Se c’è una cosa che mi spinge a scrivere di natura è il fatto che fin troppi suoi amanti sono talmente occupati a esprimere meraviglia o mostrarsi abbattuti dalla vittoria dell’avidità umana sulla necessità di preservarla, da esserci dimenticati che la natura sa anche essere un’inesauribile fonte di ilarità. Personalmente adoro le stravaganze, gli enigmi, i misteri, ossia la sostanza di cui è fatto il paradosso. E poi il piacere. In presenza degli ungulati mi comporto in modo insensato. Instauro un legame patologico con i colori. Gioco con la sabbia. Sono drogata del sesso fra i pioppi, dell’aspetto sadomasochistico di un Echinocerus – un cactus rivestito da una guaina di aculei coronata di vellutati fiori di un delirante rosso scarlatto – di quella solitudine che deriva dall’allontanamento dalla società, dell’esplorazione là dove gli umani scarseggiano, del concetto di umanità stesso, pur sapendo che questa esplorazione non mi condurrà a risposte definitive, che l’unica certezza che al massimo avrò sarà quella di essere sola con un branco di pecore selvatiche a farmi compagnia. E quando rido avverto il tanto temuto arrivo della follia, una sublimazione che confina col dolore. È l’equivalente di ammazzarsi dalle risate.

Dunque si può stare davanti al paesaggio senza una qualche attitudine mistico-reverenziale, che mentre l’esalta l’allontana, allargando il solco e la dicotomia fra umano e naturale, come se appunto fossimo fatti di chissà quale altra sostanza rispetto al posto in cui soggiorniamo. Lo straordinario che viene dal fuori geografico stabilisce contatti con l’ordinario dei nostri cinque sensi, cinque strumenti per comprendere, assorbire e restituire terre.

Ora mi domando se la percezione sensoriale non sia dunque l’unico mezzo di cui disponiamo per tracciare una mappa interiore del mondo. Che cosa ci dicono i sensi in certi paesaggi tanto da indurci a evitarli o a reclamarli come nostri?

E ancora:

Che siate a casa vostra o in territori ignoti non esistono guide migliori del peso dell’aria, il comportamento della luce, la forma dell’acqua. Tutto ciò che vi serve sapere riguardo a un luogo lo troverete in una pietra, una piuma, una foglia, un ciuffo di pelo, e nel modo in cui l’uomo ne ha fatto tesoro o scempio.

Questi estratti delineano lo spirito con cui attraversare il libro, collezione di saggi dove si incontrano il deserto del Sudovest americano, il fiume Colorado, le lagune dello Yucatan, questioni genealogiche alle Bahamas, storie di donne bizzarre nel deserto, animali e piante con i loro desideri, comportamenti, stranezze. Tutti gli scritti, però, ci riguardano, una volta deciso di cedere allo sguardo di Meloy, che va dall’appunto diaristico al memoriale, perché ruotano attorno al tema del qui e dell’altrove, annullando il distacco del mero osservare, e insistendo sull’abitare. Quanto e come abitiamo un posto, quanto ne siamo abitati? Come accade che una geografia ci risponda più di altre, al punto da porsi come pietra di paragone quando viaggiamo? Ogni testo sembra nascondere la domanda: perché questo ecosistema composto del vivente, delle memorie di chi ci è passato, dei richiami ad altri luoghi, ha a che fare con me? Quale scambio avviene fra noi?

Il deserto o il fiume o il colore turchese delle pietre dure divengono il nord della bussola, mentre la presenza dell’umano in loro non si attua tanto nell’esserci fisicamente immerso quanto nel sapere che esistono come esiste il corpo, fino a dimenticarcene. I saperi botanici ed etnologici dell’autrice non servono dunque per insegnare qualcosa dei paesaggi, quanto per intessersi più a fondo nell’intreccio di una realtà stratificata, dove le cose non esistono semplicemente per essere codificate, ma imparano a coabitare superando sia la visione antropocentrica che quella idealizzata e nostalgica della natura come fonte del bene sull’orlo della sparizione.

Dalla brughiera nebbiosa e aspra emerge in mio aiuto un verso di Emily Brontë: “Sono più felice quando più lontana”. Se ricomporre un paesaggio sulla pagina è un atto che avviene a distanza dall’oggetto della narrazione, è perché nella lontananza la storia acquista chiarezza, può essere custodita, dona alle parole rapidamente annotate su un taccuino lo spazio-tempo necessario per farsi vedere anche agli altri, a chi cerca le ragioni di un’erranza come di una sosta prolungata in certi luoghi. Riflettendo sul luogo ancestrale e partendo da un cestino artigianale, un’opera Yokut, gruppo etnico nativo della California centrale, ereditato dall’autrice per via matrilineare, la Meloy dice che gli Yokut “parlavano degli anni definendoli mondi”. Facciamo un salto in questo tempo-mondo. C’è un mondo nel quale il nostro corpo è piccolo, elastico, in divenire vorace, sono gli anni dell’infanzia. C’è un mondo nel quale il nostro corpo diviene una collina all’apparenza arida, rugosa, ma che sa ancora ospitare piccole vite nelle sue buche e nei suoi anfratti. È il tempo dell’anzianità. Traiamo questi mondi fuori dalla nostra immaginazione sensoriale, quando si fanno più fragili sull’orizzonte: “Forse per conoscere meglio un posto che ci è familiare, dovremmo prima estraniarcene”.

Ma quante cose possono dirsi luogo? Per esempio un colore. I nativi del Sudovest, ci racconta la scrittrice, donavano la loro pietra più preziosa, la turchese, al bene più prezioso delle loro terre, l’acqua. La pietra poteva essere lasciata presso sorgenti, polle, rivi. Blu che si riunisce al blu, un amuleto da indossare (e perdere), che ha le sfumature della vita quando corre nel rosso-arancio del deserto. Blu quale acqua e memoria familiare, come accade all’autrice rievocando l’esperienza di un campeggio in viaggio con i genitori e i fratelli da bambina, Meloy, si sofferma sul blu delle piscine nell’Ovest americano, case private, motel, su cui il padre aveva posto un divieto che ovviamente non faceva che aumentare il desiderio. Scrive:

L’Ovest è così pieno di blu da darti l’impressione di potertici tuffare, cosa che appunto da piccola avevo cercato più volte di fare. Il blu mi sembrava un bel posto in cui andare, un Paese in sé, superiore, imperturbabile, dove non eri costretto a parlare con nessuno.

In questo blu l’autrice traccia un percorso a nuoto fra la California e lo Utah, passando dalle piscine ai canyon, ricucendo la storia personale, fluida, cangiante, ritornante, alla solidità della roccia desertica, alla sabbia che riempie le orecchie durante innumerevoli notti all’aperto. Il confine fra autobiografia e descrizione naturalistica viene trasceso. Questo, a dire il vero, succede nell’esistenza di ogni camminante, che percorra valli e monti o che si limiti al solito tratto della passeggiata serale. Per scrivere del paesaggio e del luogo non ci si può semplicemente sedere e osservare. O meglio occorre osservare fino a tal punto da sparire dentro l’osservato e vedersi aprire vie impossibili che rovesciano il tempo nello spazio. Ci si può imbattere nella via del sognare, per esempio, ricordando che i Mohave,

come altre culture sorte sul fiume Colorado, tenevano in grande considerazione i sogni. Qualsiasi capacità o potere che avessero di prevedere le proprie sorti, in amore, in guerra, o nel gioco d’azzardo, venivano loro dai sogni. I sogni plasmavano la vita, e narrarli li trasformava in veri e propri viaggi. In quei viaggi il sognatore camminava verso una meta, si nutriva, si fermava a riposare, incontrava creature, vedeva luoghi importanti: il sogno dunque era una sorta di diario di viaggio del Mohave in cammino.
I sogni tramandati oralmente diventavano miti, o “canti sognati”. Il racconto poteva subire delle modifiche. Trama e tonalità erano fluide, e ben poco accadeva oltre al viaggio in sé. Per raccontare la propria storia si cantavano i nomi delle cose, le sorgenti, le rocce, le piante, gli animali, le stelle, i monti, i fiumi. Per raccontare la propria storia si metteva una cartina in musica. Si dava voce a un’area geografica.

Ripensando il valore del sogno come viaggio rivelatorio e ancora di più incantatorio: grazie al sogno siamo cantati dentro un paesaggio, che a tratti è quello quotidiano, a tratti è quello trasfigurato dalle nostre visioni più intime. Oppure, per il più banale degli incidenti che per un po’ obblighi all’immobilità, ci si può addentrare in questioni di parentela che ben oltre la linea di sangue ci legano ad altre donne, da luogo a luogo. Così, nel saggio “I jeans di Tilano”, Meloy si ritrova cucita per i capelli al tetto dalla spillatrice con cui cerca di appuntare del feltro, e coglie l’occasione per riandare con la mente alle donne ottocentesche che scelsero di traslocare nel deserto. In Australia, nel Nord Africa, in America. Abituati come siamo alla serietà e ai toni solenni quando si trattano le questioni di genere come quelle ecologiche, l’approccio può apparire singolare. Eppure non è così che avvengono le epifanie? Momenti di connessione e autenticità, mentre stavamo facendo altro, magari qualcosa di banale che non ci piace evidenziare nel nostro diario. Muovendomi verso un paesaggio a me più prossimo, Meloy è il tipo di persona che di un cammino nel bosco non viene a dirmi solo dell’assenza o presenza di tracce, della luce del crepuscolo fra i rami, ma, con la medesima passione, del terreno su cui si scivola, cadendo ridicolmente e scoprendo una tana di bestia misteriosa. Ancorata al tetto della sua casa nel deserto quindi esplora le capanne, le case, le stanze delle donne che nel deserto forgiarono se stesse.

O in “Scivolare sulla seta”, ci rende partecipi di un’avventura in kayak sul Colorado, per sapere alla fine e “all’ennesima notte sul fiume”, di non sapere nulla, di avere “l’obbligo di non lasciare questo fiume”. Di assecondarne la forma. “E forse allora imparerò qualcosa”.
Non parla in queste righe del fiume con toni diversi da quelli che useremmo trattando della nostra persona fisica e mentale, quell’essere che non possiamo abbandonare fino alla morte, se scegliamo di esistere. Per alcuni l’esistenza, con il suo caos di momenti sbagliati, bellezza e verità, parole a sproposito e silenzi ingombranti, avviene mentre il paesaggio non si limita a guardarci, ma coopera (a volte ci tollera e noi lo tolleriamo), ci mette alla prova, si stanca o si prende gioco di noi. E questo ben prima e oltre la consapevolezza.

Esco da questo libro rientrando nella mia vita spaesata. Nel suo stupore che sta nella robinia che mi impedisce il passo, mentre cerco di far coraggio al gatto ed è invece lui a confortarmi, tornando indietro ad aspettare che mi liberi. Non saremo mai amiche, dico alla robinia. Ma al tempo stesso mi attraggono le sue lunghe spine. Digito il nome di Ellen Meloy, scopro che è morta all’improvviso nel sonno, a 48 anni, nella sua casa. Chissà cosa resta di lei in quella geografia, oltre i suoi scritti, cosa resta di noi in ogni geografia cui apparteniamo. Riapro le pagine del saggio “La mia vita animale”, leggo:

Quando abbiamo costruito la casa, io e Mark abbiamo incanalato l’acqua piovana che si raccoglie sul tetto di metallo in delle tubature che riemergono ai piedi di alcuni giovani pioppi piantati in precedenza. Pioggia, neve disciolta, condensa – ogni goccia d’umidità presente sul tetto – ora scivola in canali di scolo e tubi di drenaggio, che passando sotto terra scendono a valle e forniscono acqua agli alberi. Una mattina sorprendo una volpe grigia a scavare vicino all’estremità di uno di questi dotti. Agitando le zampe come una forsennata solleva nuvole di terra rossa neanche avesse deciso di proseguire i lavori avviati dal picchio e spuntare finalmente in Cina. Nella tubatura si è acquattata una lepre dalla coda nera. La volpe è grande quasi quanto un coyote, con le zampe rosse di terra, il pelo argentato e lucido, e il lato superiore della coda bordato di nero. La osservo da tre metri di distanza e nel silenzio della lepre lei mi guarda dritto negli occhi. Pensi di restare lì impalata o mi aiuti ad acchiapparla?

Forse alla fine l’essenza di un coabitare relazionale, che sistemi le nostre fratture, ricomponga le eredità e le lasci andare, è tenere la domanda sul significato di una vita ecologica aperta, mentre un pensiero o una voce ci arriva nella testa e nello spirito. Non tormentarsi nel volere la risposta. Chiedersi piuttosto, fra lo scherzo e l’estrema serietà: “Chi ha parlato?”