[Pubblichiamo qui la traduzione del manifesto che Jonas Mekas scrisse in occasione del centenario della nascita del cinema. Il testo fu presentato all’American Center di Parigi l’11 febbraio 1996, e ci pare ancora di particolare rilevanza: al di là delle misure agiografiche, è lo studio dei materiali che ci deve sopratutto interessare, e per questo bisognerebbe incominciare a proporre e a tradurre quei testi e quei film momentaneamente sequestrati negli impedimenti della lingua. ]
Anti-100 Years of Cinema Manifesto
Come sapete bene è stato Dio a creare questa Terra e ogni cosa sopra di essa. E pensava che tutto fosse grandioso. Tutti i pittori, i poeti e i musicisti cantavano e celebravano insieme la creazione […]. Ma mancava ancora qualcosa. Così, grossomodo 100 anni fa, Dio decise di creare la cinepresa. E fece proprio così. Creò poi un regista, e gli disse: “Qui c’è uno strumento chiamato cinepresa. Vai a filmare e a celebrare la bellezza della creazione e i sogni dello spirito umano, e fai tutto divertendoti”. Ma al diavolo ciò non stava bene. Quindi mise un borsone di soldi davanti alla telecamera e disse ai registi: “Perché volete celebrare la bellezza e lo spirito del mondo quando potreste guadagnare con questo stesso strumento?”
Credeteci o no, tutti i cineasti si gettarono sul sacco dei soldi. Così il Signore si rese conto di aver fatto un errore. Quindi, circa 25 anni dopo, per correggere questo suo stesso errore, egli creò i cineasti d’avanguardia, e gli disse: “Ecco la cinepresa. Prendetela e andate nel mondo e cantate la bellezza di tutta la creazione, e fate tutto divertendovi. Ma sappiate che farete fatica a farlo, e non guadagnerete mai nulla con questo strumento.”
Così parlò il Signore a Eggeling, a Germaine Dulac, a Jean Epstein, a Fernand Leger, a Dmitri Kirsanoff, a Marcel Duchamp, a Hans Richter, a Luis Bunuel, a Man Ray, a Cavalcanti, a Jean Cocteau, e a Maya Deren, e a Sidney Peterson, e a Kenneth Anger, a Gregory Markopoulos, a Stan Brakhage, a Marie Menken, a Bruce Baillie, a Francis Lee, a Harry Smith e a Jack Smith e a Ken Jacobs, a Ernie Gehr, a Ron Rice, a Michael Snow, a Joseph Cornell, a Peter Kubelka, a Hollis Frampton e a Barbara Rubin, a Paul Sharits, a Robert Beavers, a Christopher McLaine, e a Kurt Kren, a Robert Breer, a Dore O, a Isidore Isou, a Antonio De Bernardi, a Maurice Lemaitre, e a Bruce Conner, e a Klaus Wyborny, a Boris Lehman, a Bruce Elder, a Taka Iimura, a Abigail Child, a Andrew Noren, e a molti altri, molti altri attorno al mondo.
Presero allora le loro Bolex e le loro piccole telecamere da 8mm e Super 8 e iniziarono a filmare la bellezza di questo mondo e le complesse avventure dello spirito umano, e gli stessi cineasti si stanno ancora divertendo molto nel farlo. E i film non portano soldi e non servono a ciò che è chiamato “l’utile”. E nel mentre, i musei di tutto il mondo festeggiano il centesimo anniversario del cinema, e tutto gira ancora attorno alla loro amata Hollywood. E non si fa menzione alcuna delle avanguardie o dei registi indipendenti del nostro cinema. Ho visto le brochure, i programmi dei musei, degli archivi e delle “cinematheques” di tutto il mondo. Ma questi dicono: “non ci interessa il vostro cinema”.
Nei tempi del gigantismo, degli spettacoli, delle produzioni cinematografiche da cento milioni di dollari, voglio parlare per i più piccoli e invisibili atti dello spirito umano: così sottili e così piccoli che muoiono quando vengono portati fuori sotto i riflettori. Voglio celebrare le piccole forme del cinema: la forma lirica, il poema, l’acquerello, l’etude, lo schizzo, il ritratto, l’arabesco, le bagatelle e le piccole canzoni da 8 mm. Nel tempo in cui tutti vogliono avere successo e avere qualcosa da vendere, voglio celebrare coloro che abbracciano il fallimento sociale e anche quello quotidiano pur di inseguire l’invisibile e le cose personali che non portano né denaro né pane e non fanno la storia contemporanea, ma neppure la storia dell’arte o qualsiasi altra storia. Io voglio sostenere l’arte che si fa l’uno per l’altro, tra amici.
Sono in mezzo alla folle autostrada dell’informazione e sto ridendo perché una farfalla su di un fiorellino da qualche parte in Cina ha appena battuto le ali, e so che l’intera storia e l’intera cultura cambieranno drasticamente a causa di quello svolazzare. Una cinepresa Super 8 ha creato un piccolo ronzio da qualche parte […] e il mondo non sarà mai più lo stesso.
La vera storia del cinema è una storia invisibile: la storia di amici che s’incontrano, che fanno le cose che amano. Per noi il cinema incomincia ad ogni nuova vibrazione del proiettore, ad ogni nuovo ronzio delle nostre cineprese. E ad ogni nuova vibrazione e ad ogni nuovo ronzio, i nostri cuori fanno un balzo in avanti, cari amici!
Ha avuto una certa risonanza la notizia, pubblicata da Forbes, che una delle star più ricche di YouTube è un bambino di sette anni. Grazie al suo canale, “Ryan ToysReview”, Ryan ha guadagnato in un anno, secondo la stima di Forbes, 22 milioni di dollari. Il canale di Ryan contiene essenzialmente recensioni di giocattoli e video di “unboxing”, ovvero spacchettamento di regali – un genere, destinato in particolare ai bambini in fascia pre-scolare, che gode di un’enorme popolarità su YouTube.
Più che ragionare sul turbocapitalismo, sugli eccessi del mercato, sulla brandizzazione di un bambino, sui dilemmi etici del consumismo o sui meccanismi di divizzazione precoce, vorrei qui analizzare nel dettaglio un video che si intitola “Ryan Surprise Toys Opening Challenge with Toy Jellies”. Dura 13’15”, ed è stato pubblicato il 9 dic 2018 su un canale gemello, “Ryan’s Family Review”, rispetto a quello principale. Ha ricevuto (a febbraio 2019) circa 3.800.000 visualizzazioni.
Il video inizia con qualche secondo di riprese sfocate del soggiorno-cucina della casa dove Ryan abita con madre, padre e due sorelle, gemelle omozigote. La mamma di Ryan, che regge in mano la videocamera, torna a casa e chiama a voce alta il figlio, e poi il padre. Si sente una musica di fondo rockeggiante – basso, accordi di chitarra, batteria. A livello enunciativo, il fuori-fuoco e la ripresa in soggettiva connotano immediatamente il video come amatoriale, domestico.
Appena Ryan e suo padre arrivano di fronte a lei, la madre appoggia sul tavolo una borsa di plastica: “I’ve found something at Target” (una catena di supermercati). Ryan e il padre ne svuotano il contenuto, 10 sacchetti di “Ryan’s jellies”, bustine con dei regalini “a sorpresa”, dei pupazzetti gommosi schiacciabili. La madre si rivolge al figlio per dirgli: “Ryan’s jellies… Are you a jelly?”. Si tratta in effetti di oggetti di merchandising ispirati al canale di Ryan, la serie 1 delle “Mystery Jellies Figures” di marca “Ryan’s World” (TM). Parte ora la piccola sigla del canale.
In quello che si può definire un flashback, ritorniamo da Target, dove osserviamo la madre di Ryan mettere nel carrello le dieci bustine. L’espositore segnala che si possono trovare dieci figure diverse, che vanno da un mini-Ryan a un panda (di nome Combo) segnalato come raro. Il costo di ogni bustina è 5.99 dollari. Mentre è al supermercato, la mamma si imbatte anche in altri giocattoli di marca “Ryan’s world” – un triceratopo sonoro, un gioco da tavolo, macchinette di plastica, slime. Uno stacco di montaggio ci porta alla cassa automatizzata del supermercato, dove la mamma di Ryan passa una delle bustine sotto il lettore del codice a barre. Questa breve inquadratura funge da conferma indessicale, sonora (“bip”), del fatto che quel prodotto è stato effettivamente acquistato.
Il flashback finisce e si torna, dopo 2′, al punto in cui il video è iniziato. Si rivede la mamma che chiama Ryan e il papà. È una scelta enunciativa molto cinematografica: una sequenza (ben 20”) vista poco prima viene riproposta allo spettatore alla luce della competenza cognitiva acquisita grazie al flashback al supermercato. Lo spettatore rivede il sacchetto sapendo già, ora, cosa contiene.
La videocamera inquadra il tavolo pieno di giochi in primo piano. Ryan sta a sinistra, il padre a destra. Lo sfondo mostra la cucina della loro casa, ordinata ma non troppo: non si tratta di un set, è una casa vera. Nell’inquadratura sono a questo punto già presenti diversi Ryan: il bambino in carne e ossa e la sua fotografia che appare in ognuna delle dieci confezioni. Un ulteriore Ryan è raffigurato in forma di fumetto sulla t-shirt che Ryan indossa. Si assiste insomma a una proliferazione di Ryan, il quale, come un Gremlin, continua a moltiplicarsi da qui alla fine del video. Il primo sacchetto che viene aperto da Ryan contiene infatti un pupazzo gommoso di Ryan vestito da super-eroe. È un mulinello, una creazione di effetti a cascata che producono una mise en abymedel soggetto rappresentato. Ryan tiene in mano una bustina con la sua faccia dentro la quale c’è un pupazzetto con la sua faccia.
Il padre aprendo il pacchetto trova invece un gelato (“Ice cream guy”). Il terzo sacchetto recapita in mano a Ryan un altro Ryan. “Un duplicato!”, commenta la mamma fingendo entusiasmo. “Non sapevo che avessi un gemello”, aggiunge mentre colloca i due Ryan fianco a fianco. I successivi giochi sono un gaming controller(“Il mio preferito, finora”, nelle parole della mamma, che privilegia stranamente quest’oggetto al simulacro di suo figlio); un altro controller; poi il pupazzetto “raro”, il panda; un altro gelato. L’allegria si propaga contagiosa. Il gioco successivo, l’ottavo, è una provetta da laboratorio antropomorfa. Gli ultimi due regalini sono un coccodrillino (Gus) e un doppione del pur raro panda. La madre commenta che mancano, per completare la collezione, la pizza, il cartone di latte, le patatine fritte e il pallone da calcio.
Da qui in poi si entra nella parte meno interessante del video, puramente pubblicitaria. Ryan si fa seguire dalla videocamera della madre in una stanza che raccoglie tutto il suo merchandising (“Ryan’s world merch toy room”), disposto in una libreria. Posiziona i nuovi giochi in uno spazio libero. La madre passa in rassegna e pubblicizza gli altri prodotti esposti. La proliferazione di Ryan diventa ora parossistica, quasi un delirio narcisistico che vede l’inquadratura riempirsi di Ryan di ogni tipo, in versione pilota, astronauta, karateka, scienziato, eccetera. Il finale è promozionale, con la madre che suggerisce dove si può comprare cosa e lancia un concorso per trascorrere una giornata di gioco con Ryan.
In un sol colpo, Ryan’s Family Review riesce a metter in moto due fonti di guadagno, pubblicizzando il suo merchandising e promuovendo il suo canale. La pubblicità non serve più solo a vendere il prodotto ma anche a vendere se stessa. Si osserva una sovrapposizione inestricabile fra pubblicità dell’oggetto esibito (il giochino) e pubblicità (generatrice di visualizzazioni) del canale YouTube. Il prodotto esposto in vetrina viene mostrato anche per vendere l’intero negozio. La vetrina in cui esporre le merci è una merce essa stessa.
La strategia enunciativa, il particolare tipo di vetrinizzazione che abbiamo osservato, combina amatorialità e professionismo, linguaggio dell’home movie e linguaggio del cinema: narrazione piatta più flashback; camera a mano, soggettiva, fuori fuoco piùalta definizione; improvvisazione più studiatezza; spontaneità più recitazione; piccola manualità piùregole del marketing; ingenuità più posa; dimensione del gioco più business. Non sembra simulata la stupefazione del bambino mentre apre i regali marchiati con il suo brand. Mentre certo appare forzata la reazione degli adulti, appare finta la loro eccitazione. Ma non recitiamo tutti, nella vita, la parte degli entusiasti di fronte all’entusiasmo dei bambini?
In questa tensione tra artigianato e industria, tra creazione e algoritmo, il piccolo Ryan diventa una sineddoche. Nella mediasfera contemporanea il soggetto è ridotto al ruolo di un Umpa Lumpa nella fabbrica di cioccolato di Roald Dahl, immerso in ciò che gli piace eppure alienato, incapace di allontanarsi dal suo feticcio e di riconoscerlo come tale. Come gli Umpa Lumpa venivano pagati in cioccolato, quindi con il frutto stesso del loro lavoro (al netto ovviamente del plusvalore), il guadagno personale di Ryan coincide almeno per il momento con i giochi, ovvero con la merce che deve vendere.
Tutto comincia col sangue che «s’addensa in fili e grumi», con la materia che sarà il filo conduttore dell’intero romanzo assieme al peso di Palma, Mina per i famigliari e Palla per le perfide cape scout. Anche la numerazione dei capitoli è scandita dai chili della protagonista: da embrione di pochi grammi nelle prime pagine fino al quintale e mezzo delle ultime, il lettore percorre con lei le tappe del suo disagio, le risalite, le conquiste e i grandi capitomboli. Già, perché la burrasca è sempre all’orizzonte: del resto, la famiglia non è delle più equilibrate.
Mamma Stefania in fondo fa quel che può, ma la sua incertezza e la sua immaturità la precedono; e lo stesso vale per il padre, Sauro, in seguito allontanato da Stefania per far posto a un altro uomo. Clara, all’apparenza la sorella perfetta, ha nei confronti di Palma un atteggiamento freddo e indifferente: si dimostra in effetti la sorella che nessuno vorrebbe; almeno non quando uno è consapevole d’esser tutto men che perfetto.
Durante la sua parentesi da ragazza normopeso, Palma incontrerà Giulio, col quale le cose non andranno bene: il cibo allora sarà per lei di nuovo un rifugio. Ma per scappare del tutto, Palma si creerà un alter-ego grazie al gioco per PC Simcity, per un po’ di tempo il suo mondo parallelo, e nel quale conoscerà Tato76. Con lui approfondirà la conoscenza tramite un sito per amanti dell’adipe: Angelo, questo il nome che si nasconde dietro al nick, al contrario di molti, è attratto dal suo peso, ne è sessualmente stimolato.
La loro conoscenza, in breve trasmigrata dal virtuale al reale, li porterà prima a una relazione idilliaca e dopo a una convivenza che pian piano, per Palma, si farà sempre più prossima a una prigionia. Angelo rivela infatti una natura morbosa, violenta; un attaccamento alla donna e alla sua grassezza che pare un rovesciamento del cacciatore di anoressiche messo in scena da Garrone in Primo amore.
Palma troverà quindi un modo per reagire a tutto ciò, per uscire dall’angosciosa spirale di sottomissione all’interno della quale è finita.
Diario vorace di Palla, così recita il sottotitolo del libro; un sottotitolo fuorviante, dato che il romanzo non è né un diario né tanto meno una narrazione in prima persona. C’è però un narratore esterno che non abbandona mai il suo personaggio; lo segue in ogni difficoltà, nell’inadeguatezza che segna al principio il suo essere bambina, ragazza e poi donna; il suo essere figlia e sorella, videogiocatrice, amica virtuale e fidanzata; ma soprattutto il suo essere grassa, vera causa e conseguenza di ogni inquietudine.
Domitilla Pirro dipinge un complesso ritratto di donna e non si ferma alla superficie del problema: la immette sin da subito in un sistema conflittuale, all’interno di una famiglia disfunzionale, ovvero un topos col quale è facile perdersi nei cliché, ma che in Chilografia ritrova davvero il suo senso, grazie a caratteri ben delineati, antieroi a loro modo sempre e comunque perdenti.
Come l’eroina di un videogioco, Palma dovrà combattere e sconfiggere i mostri che incontrerà a ogni livello, siano questi demoni interiori o in carne e ossa; dovrà lottare col suo corpo, poiché il corpo è il guscio dal quale vorrebbe fuggire, provando a dimagrire e riscrivendo se stessa all’interno di Simcity.
Anche a questo giro, Effequ fa uscire un romanzo, com’era stato per Cereali al neon di Sergio Oricci, che fa dialogare il corporeo con l’incorporeo; o meglio, che mette al centro il corpo accostandolo a strumenti che rimandano a una realtà virtuale. Se Oricci guardava alla contemporaneità attraverso il corpo dell’artista Silvano Rei, le cui installazioni visive digitali lo facevano saltare da una esperienza all’altra, Pirro invece si sofferma su un passato recente che parla anche all’oggi, dando ancor più risalto alla materia primordiale, alle viscere, alle budella, al cibo, alla digestione, al colore rosso vivo o scuro del sangue.
Lo stile è senz’altro uno dei punti di forza di Chilografia, ed è la stretta connessione tra forma e sostanza, realizzata per mezzo della varietà dei registri, a far fare al testo il salto di qualità. La lingua usata da Pirro è un italiano imperfetto ma quanto mai vivace: fa a cazzotti col dialetto romanesco e mescola l’alto col basso, lo splendido linguaggio infantile e le parole difettose delle chat, il tutto inframezzato dall’esasperato e viziato lessico famigliare. Una prosa ricca, articolata; ottima per descrivere l’eccesso di certe immagini e per dar vita al corpo sgraziato di Palma: una Pantagruel in miniatura, protagonista di un racconto tanto doloroso quanto divertente, disturbante e a tratti dolcissimo, e che di certo un lettore attento non potrà lasciarsi sfuggire.
Abbiamo assistito a Padova, nell’ambito delle iniziative a sostegno di Mediterranea, alla proiezione del documentario Footballization di Stefano Fogliata per la regia di Francesco Furiassi. L’idea è nata dall’incontro con le associazioni Tr3sessanta e Apri gli occhi senza freni con il collettivo Agosf, e dall’esperienza di vita nel campo profughi di Bourj El-Barajneh, un chilometro quadrato in cui oggi vivono 45mila persone, il triplo rispetto a qualche anno fa quando ancora non era scoppiata la crisi siriana.
Il successo elettorale delle forze populiste ha prodotto numerose riflessioni sulle ragioni della loro vittoria, tra le quali spicca quella compiuta da Alessandro Baricco su Repubblica, che ha dato inizio a un corposo dibattito sullo stesso giornale. La tesi dello scrittore torinese che si sarebbe rotto un rapporto di fiducia tra èlite e gente comune, benché comprensibilissima e perfettamente giustificata dal suo punto di vista, mi ha sorpreso: dal mio punto di vista, certo quello forzatamente limitato di un disadattato al proprio tempo, di un intruso che si è imbucato a un vernissage nella speranza di incamerare un paio di tartine al tavolo dei rinfreschi ma consapevole di non c’entrare nulla con le ragioni dell’inaugurazione, che però ha vissuto gran parte della propria vita adulta sotto l’egemonia delle suddette élite, l’aspetto sorprendente di questa tesi è dovuto al fatto che mai come in quest’epoca la cultura delle élite è stata meno lontana da quella del popolo. Basti pensare semplicemente all’evidenza che in Italia fino a cinquant’anni fa èlite e gente comune parlavano letteralmente due lingue diverse; ma questo è solo un banale esempio, se si allarga lo sguardo non si può che notare come dappertutto la cultura di massa abbia uniformato gusti, consumi culturali, mode e stili di vita. D’altra parte è vero che dal dopoguerra in poi non si è mai registrato uno scarto così grande nella ricchezza e nelle disponibilità economiche e, come cercherò di suggerire poi, forse c’è una correlazione tra i due fenomeni apparentemente di segno opposto.
Sia che si intenda il termine èlite nel suo senso più specifico di gruppi dirigenti, cioè per l’Italia quelle poche centinaia di persone referenti nazionali del sistema globale che occupano ruoli guida nell’apparato politico, militare, industriale, finanziario, mediatico, universitario e della ricerca, sia che si indichino in senso più ampio le classi elevate, quella che un tempo si sarebbe chiamata alta borghesia, è possibile affermare che il capitale culturale necessario per farne parte si è molto modificato negli ultimi trent’anni ( Bourdieu chiama capitale culturale quell’insieme di saperi non solo professionali, di solito ereditato dalla famiglia, necessari per il successo scolastico e per occupare posizioni di vertice nella società). In particolare nella formazione di questo capitale vi è stata una diminuzione del peso di una cultura generale a vantaggio di una specialistica, di quegli aspetti simbolici di appartenenza quali certe forme di etichetta e, in definitiva, un minor peso dello stesso capitale culturale nel determinare l’accesso alle sfere alte. E’ possibile vedere una traccia di questa trasformazione nel fatto che professioni come l’avvocato o il docente universitario che un tempo portavano quasi automaticamente a far parte delle élite in senso lato, oggi non sono più condizione necessaria né tanto meno sufficiente per accedervi, mentre emergono figure professionali per esempio nello spettacolo e nello sport, alle quali nel passato non sarebbe stato possibile compiere un’ascesa del genere.
Si potrebbe descrivere questo cambiamento come una tendenziale democratizzazione o la fine di forme di notabilato a favore di un sistema di libere opportunità e questo è stato parzialmente vero almeno nella prima fase della globalizzazione specialmente nei paesi anglosassoni, ma questo fenomeno diventa più leggibile in un altro senso oggi: il complessivo ridimensionamento del peso del capitale culturale per le èlite rientra nel processo di eliminazione progressiva di ogni fattore che non sia direttamente funzionale alla mera accumulazione di denaro. E’ insomma tutto ciò un esito del dispiegamento del disegno neoliberista in cui tutti gli ostacoli, ivi compressi quelli culturali, all’imporsi del gioco del mercato devono essere rimossi. Questa tendenza può essere sintetizzata dalla celebre battuta thatcheriana sul fatto che non esista una cosa chiamata società, ma solo individui che si comportano più o meno rettamente; nello stesso tempo man mano che un’idea di società diventa incomprensibile agli occhi dell’individualismo imperante la stessa idea di capitale culturale diventa sempre meno spendibile e sempre meno importante. In fondo per definire che cos’è un èlite, se al posto della società c’è solo il mercato, basta un misuratore astratto ma rigoroso come la quantità di denaro posseduto.
Che tale processo ovviamente induca anche nel contempo una minore capacità delle èlite di governare le tendenze sociali appare essere un effetto collaterale di quel fallimento del neoliberismo di gestire il disagio della civiltà di cui ha parlato Massimo De Carolis ne Il rovescio della libertà. Se ogni misura e ogni scelta ha senso ed efficacia solo per aumentare e rafforzare la competizione, essa diventa inclusiva solo per i pochi soggetti che risultano vincitori, mentre per gli altri si traduce in un fattore di esclusione, di frustrazione e di marginalità. In una società così fatta prendono sempre più piede forme di dominio non troppo diverse da quelle tradizionali e diminuiscono invece le libertà individuali effettive e la partecipazione democratica. Ciò appare evidente se si prendono in esame tre aspetti cruciali della cultura attuale delle èlite. Alludo in primo luogo alla cosiddetta condizione postmoderna del sapere, quella per cui ogni sapere importante ha una validazione solo pragmatica ossia un sapere vale solo se è spendibile sul mercato, che poi si traduce nella fiducia esclusiva oggi dominante per la tecnocrazia; in secondo luogo al rifiuto dei limiti della condizione umana, alla non accettazione del fatto che esistono “dei limiti intrinseci alle possibilità umane di controllo dello sviluppo sociale, della natura, del proprio corpo e degli elementi di tragicità inerenti alla vita e alla storia dell’uomo” ( Christopher Lasch La ribellione delle èlite, trad.it., Feltrinelli 1995); infine la convinzione che internet e il mondo virtuale siano potenzialmente lo strumento adatto per la risoluzione di ogni problema dell’individuo e della società, insomma quello che Evgeny Morozov ha chiamato soluzionismo.
Ciò che accomuna queste idee, prima ancora che la loro funzionalità al mercato, è la loro natura pragmatica e, per così dire, la loro pura operatività. Questa assenza di contenuti valoriali è l’elemento che contraddistingue le élite del presente da quelle del passato ( affermo ciò in forma meramente descrittiva senza nessun giudizio di merito implicito: le èlite del 1914 avevano una cultura con contenuti e ciò non impedì loro di accompagnare le rispettive nazioni al massacro della Grande Guerra). Da ciò deriva però un aspetto importante e cioè la maggiore contendibilità del loro ruolo da parte di qualsiasi gruppo che rispetti questo tipo di pragmatica: è il tipo di scenario su cui lavora Houellebecq in Sottomissione quando immagina l’ascesa al potere in Francia degli islamisti, ma è anche lo scenario in cui le forze sovraniste operano concretamente in tutti i paesi. In un certo senso le èlite, se non hanno una cultura contrassegnata da contenuti valoriali, finiscono con il diventare permeabili a gruppi che hanno successo secondo i loro stessi criteri pragmatici. Ciò accade soprattutto se anche la gente comune, il popolo, sperimenta un’analoga assenza di valori, poiché le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti in un contesto di generale depoliticizzazione come quello vigente oggi. Tale assenza di valori viene vissuta con maggiore inquietudine tra chi ha insuccesso nella competizione del mercato perché il perdente ha bisogno di appigliarsi a un fondamento che non è lambito, o quanto meno non sembra esserlo, dalla propria sconfitta.
I populisti reazionari che stanno spopolando un po’ dappertutto utilizzano proprio questo meccanismo: da un lato si adeguano a loro modo alle idee delle élite, non mettendo in discussione l’orientamento al mercato e all’accumulazione individuale di denaro, dall’altro offrono una prospettiva di senso simbolica allo stuolo dei vinti richiamandosi ai contenuti della tradizione reazionaria di tipo identitario e razzista. Del resto in una situazione in cui l’egemonia culturale è completamente nella mani delle èlite il popolo o la moltitudine ( fa lo stesso) non contesta il sistema, ma si limita a chiedere dei risarcimenti simbolici per la sua adesione a esso.
In questo senso, i populisti reazionari a livello superficiale contestano il sistema, ma nel contempo,a livello subliminale, ne accettano la cultura e le idee di fondo, risultando rassicuranti a dispetto della loro evidente improvvisazione in molti campi. Così, non è un caso che numerosi commentatori abbiano rilevato come le strategie mediatiche, culto della personalità e approccio semplicistico ai problemi, di leader di sistema, quali Renzi, Macron o Trudeau , non siano poi troppo diverse da quelle dei vari leader reazionari, ammesso e non concesso che gente come Trump od Orban non faccia parte del sistema. Queste convergenze non vanno considerate come semplici somiglianze tattiche in un solo settore per quanto strategico come quello della comunicazione, ma sono appunto una conseguenza della medesima idea di cultura, che è poi quella delle élite: allo stesso modo le battute di Salvini contro gli intellettualoni e i discorsi delle élite sulla scuola del futuro in cui le materie di studio saranno state abolite a favore di internet e didattica delle competenze sono due elementi della stessa serie logica e dello stesso campo culturale. La stessa polemica sulle fake news diffuse tramite i social dai populisti contrapposte a una fantomatica era della verità rappresentata dai media tradizionali appare, più che una difesa della correttezza dell’informazione, un allarme sulla proliferazione o meglio sull’uberizzazione di determinate tecniche comunicative che nella società dello spettacolo classica erano in mano a pochi operatori professionali del settore, se si analizzano gli standard comunicativi dell’era televisiva e di quella attuale.
Se le cose stanno così, uno degli esiti possibili di questo scontro tra élite e sovranisti, lungi dal diventare una battaglia frontale, potrebbe essere la cooptazione dei leader più reazionari nelle èlite tramite la riformulazione del linguaggio delle stesse élite, che è poi il codice del politicamente corretto, in senso più sovranista e dall’altra parte tramite l’abbandono degli accenti più antiistituzionali a vantaggio di un tono politico in doppio petto. Del resto qualcuno l’aveva già scritto tanto tempo fa che il destino d’un volgo disperso che nome non ha è quello di trovarsi sul collo con il nuovo signore anche quello antico.
Date le polemiche che leggo in queste ore, mi piacerebbe per una volta non buttarla in politica ma provare a “buttarla in cultura”. Credo che la nostra Milano abbia il diritto/dovere di avere un Giardino dei Giusti di rilevanza internazionale. Ne ha il profilo etico, la storia, i protagonisti. Il lavoro di Gariwo e del suo presidente Gabriele Nissim è davvero ammirevole ed encomiabile. Sogno un “Giardino dei Giusti di tutto il mondo” che diventi un polo di interesse, di raccoglimento e di studio non solo per i nostri cittadini, ma anche per ogni persona che transiti nella nostra città. Un monumento, nel senso più profondamente etimologico del termine: un monito.
Ecco perché reputo poco coraggioso l’intervento previsto al Monte Stella. Un progetto formalmente debole ed obsoleto che non cerca di vivere di luce propria ma che si depone in modo parassitario su un altro sito della memoria urbana. Un appendice, insomma, non un fulcro significativo. Dal punto di vista della composizione urbana è un errore clamoroso.
Il fatto che non ci si renda conto di una cosa così ovvia dimostra come ancora oggi l’eredità urbanistica del novecento non venga considerata una ricchezza da chi la amministra. Il Monte Stella è il più clamoroso fatto urbano di una città, Milano, che è la vera capitale nazionale dell’architettura e dell’urbanistica del ventesimo secolo. Un monumento alla memoria, ovvio. Un luogo identitario, condiviso, imprescindibile. Da conservare con zelo, diligenza, come si fa con una chiesa romanica o un palazzo rinascimentale. Nessuno si sognerebbe mai di porre un progetto di tale modestia nel mezzo di Campo dei miracoli a Pisa, in piazza Navona a Roma, o nel parco della Reggia di Caserta. Ciò che pare ovvio con il passato più remoto sembra non lo sia col novecento. Così ci ritroviamo con un capolavoro dell’architettura brutalista, il Marchiondi Spagliardi, studiato in tutto il mondo, che, non ostante il vincolo della sovrintendenza, cade a pezzi nell’indifferenza generale.
Abbiamo il diritto a un “Giardino dei Giusti di tutto il mondo” che sia degno di questa città. E il dovere di non sprecare questa occasione, questo obbligo etico, con un progetto frettoloso. Chi ha scelto per me quelle forme? C’è stato un concorso internazionale? Sono stati messi in gioco i migliori progettisti? Non accontentiamoci, insomma. Evitiamo di scadere nel classico “piuttost che nient l’è mej piutost”.
Io non sono fra quelli che dicono “no” per partito preso. A me piace rilanciare. La nostra città sta mettendo in gioco il suo futuro progettando ex novo le aree dei vecchi scali ferroviari. Un Giardino dei Giusti che diventi uno dei temi da mettere a bando su una di quelle aree, sarebbe una soluzione non solo coraggiosa ma anche di buon senso. Potremmo dedicare le giuste dimensioni a un monumento/giardino di tale importanza, far concorrere architetti di fama internazionale, definire un nuovo luogo simbolico della città (impattante come lo è il Memoriale di Eisenman a Berlino), dando un’anima ad uno spazio da riconvertire. Tutto ciò senza scarificare inutilmente la pelle sensibile dell’altro grande monumento urbano alla memoria che è il Monte Stella. La “montagnetta” della nostra infanzia.
(pubblicato ieri sulle pagine milanesi del Corriere della Sera)
Dev’essere quando viene su un bel vento gagliardo e le onde formano quelle creste bianche spumose, che si immagina un dilagante sorriso, tanto che la letteratura ne è così variamente costellata. Prendete ad esempio una delle più intense tragedie di Eschilo, Il prometeo legato, nel quale si narra con grande forza drammatica la pena che Prometeo deve subire per aver regalato il fuoco all’umanità: l’essere legato ad una rupe della lontana Scizia con un’aquila che gli rode il fegato ogni giorno. L’entrata in scena di Prometeo, dopo che è stato assicurato alla roccia da Efesto, che esegue gli ordini di suo padre Zeus, comincia così:
O volta del cielo splendente e venti dalle rapide ali, sorgenti dei fiumi, sorriso infinito di onde marine – e terra, che d’ogni cosa sei madre e sole, occhio onniveggente io vi supplico, guardate quali dolori soffro per opera degli dèi, io, che pure sono un dio. [vv. 88-92].
Ho scoperto questo passo perché lo cita Nietzsche nella Gaia scienza, quando, nella parte iniziale, parla molto del riso, in polemica con tutti quelli che ritengono che ci siano cose, come il destino dell’individuo, delle quali non si possa ridere, e che negano che invece tutti gli atti dell’umanità siano in favore della specie e non dell’individuo. Ecco il testo:
È innegabile che alla lunga il riso e la ragione e la natura l’abbiano avuta vinta, fino ad oggi, sopra ciascuno di questi grandi teorici del fine: in conclusione la breve tragedia trapassò e regredì sempre nell’eterna commedia dell’esistenza, e «le onde di un innumere riso», per dirla con Eschilo, devono pur sempre in definitiva spazzar via anche i più grandi di questi tragedi. [ed. Adelphi 1989, p. 35].
Ma tra Eschilo e Nietzsche ci sono numerosi altri esempi. Qui ne cito due piuttosto diversi, il primo appartenente al più puro classicismo barocco della letteratura italiana, che oggi naturalmente fa sorridere molto, ma che tuttavia è l’espressione di un’epoca. Alludo al poeta Gabriello Chiabrera (Savona 1552-1638) che in una delle sue più famose liriche, Belle rose porporine, così scrive:
Quando avvien che un zefiretto
per diletto
bagni il piè nell’onde chiare,
sicché l’acqua in sull’arena
scherzi appena,
noi diciam che ride il mare.
Ecco qua che il mare ride, senza alcun dramma stavolta, solo scherzo e gioco, mentre invece, con ben maggiore intensità, il sorriso è legato al mare in uno dei più bei sonetti foscoliani, A Zacinto, che molti di noi certo ricordano dai banchi di scuola:
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, . . .
Qui in verità sembra essere Venere che sorride, tuttavia ella sta sorgendo per l’appunto dal mare ed è ancora un tutt’uno con esso.
E nella disincantata letteratura contemporanea, c’è ancora qualcuno che si cimenta con queste metafore apparentemente desuete? Certo che sì, naturalmente, probabilmente molti, in almeno uno dei quali mi sono imbattuto nelle mie recenti letture: si tratta di uno dei più intensi scritti di Claudio Magris, Un altro mare (Garzanti 1991), a metà tra il romanzo e la rievocazione appassionata della vita di Enrico Mreule, uno dei due amici veri di Carlo Michelstaedter: Enrico intraprende un lungo viaggio in nave alla volta dell’America Latina, dove trascorrerà molti mesi. Durante questo viaggio, il 17 ottobre 1910, Michelstaedter, il giorno prima di andare a Firenze a discutere la sua tesi di laurea, si sparerà un colpo in testa. Ma la nave che porta Enrico lontano prosegue imperterrita il suo viaggio aprendo con la sua prua il mare che subito si chiude dietro di lei. Sentite Magris:
Su quella nave che ora fila nell’Atlantico, Enrico sta correndo per correre oppure per arrivare, per aver già corso e vissuto? Lui, veramente sta fermo; già quei pochi passi fra la cabina, il ponte e la sala da pranzo gli sembrano sconvenienti nella grande immobilità del mare, sempre uguale al suo posto intorno alla nave che pretende di solcarlo, mentre l’acqua indietreggia per un attimo e subito si richiude. La terra sopporta materna l’aratro che la squarcia, ma il mare è un grande riso inattingibile, niente vi lascia segno; le braccia che nuotano non lo stringono, lo allontanano e lo perdono, lui non si dà.
(ediz. 2014, pp. 14-15) “È Carlo che ha detto così”, aggiunge Magris, alludendo alle prime pagine de La persuasione e la retorica, l’opera più nota e importante di Michelstaedter, appunto la sua tesi di laurea, ma quando questi parla del mare non parla di sorrisi, ma disperatamente sottolinea che il mare è “altro da sé”: ““Ma ora che sono sul mare, “l’orecchio non è pieno d’udire” e la nave cavalca sempre nuove onde e “un’ugual sete mi tiene” : se mi tuffo nel mare, se sento l’onde sul mio corpo – ma dove sono io non è il mare . . .”” (Adelphi 1982, p. 40, M. cita da Qoèlet 1.8).
La prossima estate guardate il mare mosso nella gloria del sole: lo vedrete con altri occhi e vi sorriderà.
18 Novembre. Una data importante per noi ex allievi della Nunziatella. Anniversario della nascita del Real Collegio, anno 1787, che anno dopo anno vede nel cuore della città di Napoli, in questo giorno, schiere di ex-allievi, famiglie, cittadini che hanno a cuore quella che è insieme una istituzione e un vanto di un tempo oltre il tempo e di uno spazio che corre ben oltre le mura del Rosso Maniero che domina da Montedidio la città. Novembre è un mese importante per noi di Sud. La data di nascita del primo numero della rivista diretta da Pasquale Prunas, è il 15 novembre 1945 con il sottotitolo di “Quindicinale di letteratura ed arte”, lo stesso che abbiamo conservato insieme al logo disegnato dal suo direttore che nel suo editoriale avverte che la rivista sarà “contro ogni classificazione, numerazione, sezionamento, contro ogni politica suddivisione del sentimento, contro ogni barriera doganale”. Contro, è la parola che ripete Pasquale Prunas per ben tre volte, con una foga che quasi ci pare di sentirglielo dire. Contro vuol dire schierarsi, prendere posizione e difenderla, anche a costo della propria vita, anche pagando il prezzo di una sconfitta per quanto inevitabile, nonostante ogni ragionevole dubbio di riuscire nell’impresa. Novembre è un mese importante per l’arte intesa come avanguardia. Il 9 novembre 1918 Guillaume Apollinaire moriva stroncato dalla febbre spagnola pochi anni dopo essere stato ferito gravemente sul fronte il 17 marzo del 1916. Come viene magnificamente ricordato nel testo scritto da Laurence Campa, curatrice presso Gallimard dell’opera del poeta e autrice di quella che viene considerata come la migliore biografia di Apollinaire in circolazione, “Guardare il mondo con gli occhi di Apollinaire, vuol dire tenere d’occhio “le belle cose nuove” e accoglierne la loro epifania. Vuol dire cercare delle meraviglie.” Ci sono tempi in cui indugiare su di esse, farsene allo stesso tempo testimoni e beneficiari, conservatori e custodi, non potrà che significare essere inevitabilmente contro . Contro parole d’ordine urlate in ogni angolo d’Europa e che intimano, invece, separazione, barriere, classificazioni. Il valore dell’amicizia è fondamentale nella grande avventura delle avanguardie, avventura che vale la pena ricordarlo si è sempre fondata sulla vita delle riviste, sulle vite di chi ha sempre creduto all’arte e alla letteratura come a una missione oltre ogni ragionevole calcolo, al di là di tutte le ambizioni personali. Come ai tantissimi e spesso rimasti ignoti poeti caduti sul fronte di quella terribile guerra. E abbiamo voluto rendere omaggio anche ai nostri brothers in arms d’oltralpe, a Lakis Proguidis direttore dell’Atelier du Roman, rivista internazionale e al nostro fianco sin dal numero zero della nuova serie di Sud e che festeggia i suoi venticinque anni di vita in questi nostri stessi giorni. Allo stesso modo va letta la pagina che vede celebrato l’amore di due nostre storiche firme, l’americano Roger Salloch e Yvonne Baby, immortalati da Henri Cartier-Bresson perché significa per noi soffermarci sul meraviglioso. Ma qual è il misterioso legame che unisce il grande poeta francese al Rosso Maniero? Alla nostra città dell’origine? Da qualche anno con il presidente Giuseppe Catenacci, ci confrontavamo su fonti probabili d’appartenenza del padre del poeta alla nostra valorosa per quanto irregolare schiera degli ex allievi. Il punto di partenza era stato una bellissima mostra allestita al Musée de l’Orangerie: Apollinaire : lo sguardo del poeta. Tra le varie opere e fotografie presenti a quella magnifica mostra, una aveva catturato la mia attenzione, quella in cui si fa riferimento al pére militaire napolitain inconnu. Conoscendo la sensibilità degli ex allievi alle belle donne una campanella d’allarme è risuonata in me e così immediatamente con Il Presidente Catenacci ci siamo messi alla ricerca del nostro piccolo tesoro storiografico. Tra l’altro l’ex allievo Renato Benintendi, pubblicava su Loro di Napoli sempre nello stesso periodo una nota stringata ma estremamente precisa.
Così è nato il titolo Napolinaire (in origine con due elle ma poi come suggerito da Jean- Charles Vegliante corretto nella versione attuale) un mot valise che ci rendeva possibile il viaggio che pagina dopo pagina i nostri lettori faranno. Per la prima volta alcuni testi saranno leggibili nella lingua originale perché volevamo rendere visibile la dimensione internazionale del nostro progetto oltre che dei nostri lettori. Ultima annotazione. Al principio della nostra corrispondenza Lawrence Campa, da vera studiosa ci suggeriva di indicare al lettore che l’identità del padre del poeta rimaneva a tutt’oggi non provata e che la pista da noi battuta sembrava appartenere più alla leggenda che alla realtà storica. Ecco perché lasceremo ai nostri lettori la possibilità di scegliere, tra la realtà e l’immaginazione, sapendo pur tuttavia come quest’ultima possa in maniera quasi involontaria produrre delle vere e proprie meraviglie, speriamo, come questo numero diciotto che graficamente porta la stessa firma, quella di Marco De Luca e il gesto generoso della sezione estera degli ex allievi. Buona lettura. Segue il magnifico testo di Pasquale Panella scritto per noi.
Pasquale Panella QUESTA POESIA NON È
Questa poesia è un calligramma ossia
una poesia in forma di poesia
È il gatto Jago, è la cana Musa,
così ritratti a mente con le lettere
Si vede che hanno i baffi? Sì, si vede
Sono i suoi capelli, le parole,
le frasi che le scendono sul collo,
le ciocche e i riccioli delle cì, delle esse,
anche le doppie punte delle doppie lettere
Di chi? Si vede: i suoi di Lei
(diciamo Lou)
E le sue labbra, tutte
È il sole della O in corpo
grande grande, coi raggi delle frasi
tutt’intorno, che non significano niente
finalmente, o cose terra terra, dal sole
sopra questa terra, cose come:
io sono la frase luminosa, io sono
la frase accecante, io sono la frase
calda calda, io sono la frase della foto
sintesi clorofilliana (e questa raggiunge
le frasi a forma di foglia a pagina aperta,
perché si chiama pagina la faccia della foglia)
Immagine di copertina e per editoriale di Andrea Pedrazzini
Perché, l’ho sempre detto, non vorrei essere
letto ma guardato, visto,
non io in persona ma io pagina, io scritto,
oppure anch’io, però che faccio un fischio,
che m’esce pieno d’effe e i e u dalla bocca
(le congiunzioni stanno dentro il fischio),
e per gambe ho due frasi articolate,
e per piede ho un piede classico,
tarso, metatarso, arsi, tesi,
manciate di sillabe ossee
lanciate come dadi
Ci si diverte, sì, ci
si diverte a far
passi poetici
Ma sì, queste parole se ne vanno
(ma sì che si può dire, sì, dillo:)
come le rondinelle in volo
vanno, e il filo della frase
oscilla abbandonato
come un tratto di
frazione, ottima
in aritmetica
se poi vuoi
fare due
conti
Questa poesia è un calligramma ossia
una poesia in forma di poesia
così ti rendi conto che la parola non è
che scritta (la parola scritta)
Ti sei mai reso conto, tu, di questo:
che la parola è scritta?
E questo basta perché la carta canti?
Ora, Guglie’, tu dici: i calligrammi
per convincere l’occhio a accettare
una visione totale della parola scritta
(ossia ch’essa non sia soltanto scritta)
Ma questo da che ti viene? Dillo
Dall’insopportazione di accettare
che la parola porti in carico tutt’altro:
pesi parziali, però pesanti più della visione
totale che, in quanto tale, è appunto
apparizione leggerissima di cose
come in sogno, soprannaturali,
sopra per leggerezza, ecco perché sopra
Ti viene dalla sofferenza, questa:
che la parola, carico e carretta in un tutt’uno,
porti al mercato il suo significato
e addirittura l’interpretazione
costringendo l’utente a un lavorìo
da scaricatore, sottopagato, anzi pagato
niente, con dissennato sciupio
di forza lavoro in pluslavorìo
e con esiti, tra l’altro, assai fallati
a danno e scapito e ammaccature
dei pezzi della macchina poetica
Allora è giusto fare i fiorellini,
le rondini, il gatto coi baffetti,
il cavallino, un ritratto
con le guance bianche,
un liofante, una cravatta
sul petto della pagina,
la pioggia e l’orologio,
il mandolino, il garofano e il bambù,
e il cuore trafitto dalla freccia, sì,
sulla corteccia dell’albero a parole,
che sono tutte rondini, poi, quelle parole,
storni, tordi, mosche, moschini,
corvi, cornacchie, passeri, colombi,
api melense, le pungenti vespe
E allora se ne volino
se tu batti le mani alla poesia
Ma sì, se ne voli la parola scritta
poi che è stata messa in riga,
forzata a lavorare sul binario
unico del rigo, ma sì, evada,
se ne vada in evasione
E se ne voli
per un battito di ciglia pure il mare
(o in un altro battito
tenendo gli occhi chiusi, ti ritorni)
Infatti me ne sto
(stavo ma me ne sto)
sullo scoglio a Sorrento
nemmeno diciottenne, me ne sto
tra noi fiocinatori in costume storico
ossia lo slip del mare punto e basta,
col sole che è pungente sugli arpioni
In queste condizioni parlare di poesia,
che cosa molle sarebbe, nemmeno la medusa
morta a riva. I versi? Ma che versi?
La murena a bocca aperta, quella sì.
I tentacoli del polpo, altro che versi,
la spigola invincibile, la seppia
che di notte è luminosa
e ’a fess’ ’e sòrete
O scorrettezza, sta’ accorta
a non correggerti col tempo
Ma che bellezza, quando scrivere
era solo immaginario, quando
undicimila tonni vergavano il mare
come versi, crescendo a nuoto,
sodi, penetranti dentro il Golfo
Poi si diventa fessi appresso ai versi
sulla carta: le parole scritte dai terrestri
(ma i tonni hanno più corpo e pinne
e guizzo e una tremante morte)
Perché dico questo? Perché ho in mente
i poeti corretti, i poeti correnti, i poeti
serali a passeggio in Corso d’Opera,
insomma, i poeti che, m’è parso di capire,
colano sulla pagina, sì, essi colano
E poi non so chi siano, ma chi sono?
Poeta è chi ti dà del poeta, perché non sa
chi sei, se lo sapesse non s’azzarderebbe
Iscritta nel Vesuvio, ho visto da Sorrento
la tua testa a pera, o Apollinapoli, come
nello specchio dei tuoi versi estroversi,
usciti fuor di segno (socievoli, espansivi,
tonni, forse?, e le forme poetiche, forse,
sono formazioni migratorie?, dirette
alla tonnara sanguinaria di chi legge?)
e la fiamma rovesciata del tuo cuore
e i re che muoiono sulla corona scritta
e, gira gira, rinascono nel cuore dei poeti
E che vuol dire? Questo: che i re rinascono
nel cuore dei poeti, più chiaro di così
si muore anche da re, fiocinando
in un tutt’uno un re, un poeta e un cuore,
bel colpo, bella mossa, e nello specchio
tu sei chiuso vivo e vero come gli angeli
immaginati e non come riflesso umano
Anche questo vuol dire esattamente
quel che è detto, come è vero
che con ‘surrealista’ tu intendevi
‘sopra detta’ l’opera, tu la volevi
surrealizzare ovvero ‘sopra-dire’,
sovrapponendo alla parola scritta
un tuo disegno, inteso anche come
macchinazione, un macchinario scenico
a parole, perché scrivere (e figuriamoci
scrivere da poeta) è cosa fantasiosa, sì,
ma la parola scritta è un limite reale,
così tu illimitasti la parola in vignetta
ingenua, in costellazione di lettere
nel profondo spazio bianco della pagina
(non sopra e basta ma nella pagina
ossia in un sopra-ovunque come se essa
non fosse più piattamente piana),
in un disegno (che come quello
composto dalle stelle è un’illusione umana)
fatto di parole e sfatto dalle stesse
che, dirompenti dal rigo, espansive,
chissà dove poi vanno a non più dire
E come scrisse Aragon? (E quel che è scritto
può essere letto al contrario
anche per dritto). Scrisse che tu conoscevi
la volgarità turbativa che al meglio
si esprime nelle vignette delle cartoline
rispetto alle quali la sincerità e la vita
fanno le loro pessime figure
E c’è da decidere chi ci rimette:
se le vignette o la sincerità e la vita
(chi legge decida in quale verso legge il verso)
Insomma, se non c’è un disegno,
c’è forse, nella vita, un disegnino,
un calligramma candido sul bianco
della pagina, il più sincero segno
(perché ingenuo, quindi rivoltoso)
di una sfacciata sfiducia nella parola
scritta se non è scritta come fosse un gioco,
perché se non è un gioco è solo scritta,
stampata come un calco macchinoso,
un pezzo della macchina poetica,
e poesia significa produrre, e se appartiene
a un mondo è al mondo della produzione
che appartiene, basta saperlo, basta
sapere che anch’essa produce i suoi fumi
e le scorie soffocanti dell’umano,
senza poi fare troppo i sensibili e i contriti
e i suscettibili al destino dell’umanità,
che è palesemente solo uno:
l’onesta distruzione di sé stessa
(e sarà l’unica onestà di cui è capace)
anche ridendo del piagnisteo conservatore
di chi oppone il suo lamento all’estinzione
E che sarà mai? Un calligramma sarà
Il verso che si allontana dal suo rigo,
tutta la poesia in un disegnino, verso
un destino espansivo che è lo stesso
della cipria sotto uno starnuto,
della farina sotto una manata,
della polvere di stelle assai cantata:
la polverizzazione nello spazio
Per farcela una volta, la volta buona,
a non diventare merce citabile
né materiale da interpretazione
ma (guarda che ti dico) verso d’amore,
divertimento e amenità per gli occhi,
goduria e bellezza, il piacere,
nel quale noi sfoghiamo la certezza
che dopo il godimento c’è estinzione
Hai voglia a fare, voglia, sì, voglia
a dire, hai voglia, hai quella voglia
di sparire
Ché basta col pensare di pensare,
parlare di parlare, scrivere di scrivere
Il gatto coi baffetti sta lì (questo
è il significato) per abbandonare
la pagina senza nemmeno dover scrivere
con che rumore, perché non fa rumore
(come si dice?, si dice: felpato, felpato
il suo pensiero, felpato il suo parlare,
o recondita armonia dell’aggettivo
che, sotto sotto e accanto accanto,
più del sostantivo rende, esso, l’idea:
ti sei mai reso conto che l’aggettivo
rende ideale la parola, non più cosa?),
le rondini taglienti la taglieranno, la pagina
(senza stare a cercare un sinonimo del taglio)
e il rumore dello strappo è sì un garrito,
le vocali del cavallo sono zoccolate
sempre più lontane dalla pagina,
il liofante aspirerà con la proboscide
la pagina e sé stesso, e il ritratto di Lou
è soltanto un invito, un manifesto
delle nuove regole del testo, svanente
casomai lei si facesse viva col suo viso,
in carne e ossa, non soltanto annuncio
ossia in tournée in una lontananza assai da te,
e io mi slaccio la cravatta dal petto
della pagina, la pioggia ha raggiunto
il taglio basso e scola come le poesie
dei poeti, appunto, e l’orologio segna
la sua unica ultima ora, il mandolino
coglie l’ultimo tremito della mano
che lo suona, il garofano sfoga gli ultimi
suoi petali, e nel bambù passa l’ultimo
ritmo cavo come l’ultima corsa della metro,
e questo è il momento del finale, il momento,
non dico di quale tempo, se dell’anno, del mese,
della settimana, del giorno, qui non è più
questione di racconto, e questa poesia non è,
è il momento e basta, questo, qui, il momento
in cui ti dico: fai di me, fai di me, fai
(invece di far io la poesia, fai tu di me, foutu)
E quel che voglio è quello che vuoi farmi,
fuor di significato ma in pieno senso, o Lou
Non è esattamente come se il mare, nei romanzi di Bruno Morchio, finisse per essere altro, ma come se l’autore andasse oltre l’immagine di puro contraltare alla costa, siano romanzi ambientati in Liguria, a Genova soprattutto, in Sardegna, o, in parte, in cittadine della Riviera come Pieve Ligure, ad esempio Uno sporco lavoro (Garzanti, 2018), l’ultimo pezzo del mosaico, con un protagonista, Bacci Pagano, che al solito riesce ad aggrapparsi a qualcosa di vissuto per interrogare il futuro. E quasi sempre funziona, nel senso che quel mare emerge, diventa il contenitore di una “memoria del futuro”. Mare guardato da mezza costa, dal deserto di pietra, un punto di vista simile a quello dei cimiteri sul mare, Le Trabuquet, Le vieux Chateau. Il cimitero di Paul Valery a Sete. Da un luogo dove qualcosa è finito, e resta il mare. Forse è tutta quella malinconia dell’entusiasmo, come la chiamerebbe Pablo d’Ors, a distillare la memoria miracolosamente, pura eppure imperfetta, mancante (o troppo piena di vita) come se di quel mare (e della memoria) qualcosa si debba per forza perdere e alla fine non resti che il colore, blu, ligure, rispecchiato dal blu siderale col quale ci si ferisce alzando gli occhi dai carruggi.
È un senso di Liguria urbana, quello che si respira a Genova, solo a Genova, dove tutto è di pietra, e lo è molto più che altrove, in Liguria, più ancora che nella sua sua ruralità. Tutto suda e trasuda, e ci sono odori incredibili (di minestrone, sosteneva Tabucchi), per dire che chi ci vive, i Bacci Pagano, non hanno a disposizione vite normali, non riescono a sopportare il peso di tutta quell’archeologia, e allora in quella ricerca un po’ ci si perdono come ci si perde a Sottoripa… Ciò che provo a dire è che i romanzi di Bacci scavano dentro un materiale talmente unico, storico (dorico?) che dev’essere un po’ come se i Bruno Morchio in qualche modo si mettessero a scrivere le loro saghe e a costruirle, smontando e lavorando su quel fondo di mineralità, prima ancora di trovare o cercare le trame. Come se ci giocasse per un noirista l’inconsueto fascino di lavorare su un paesaggio prima ancora che sulla trama. E allora uno resta lì, a Genova, o altrove, con Bacci, e vorrebbe dirgli che forse il gusto di quella cosa lì della verità nei gialli con lui si potrebbe anche perdere. Genova (ma poi passeremo a Pieve, che qui è più che altro quel male che veniva dal mare, per usare un titolo di Giuseppe Conte) col suo centro storico in mano agli emigranti, questa Genova che per tanto tempo ha contrastato la potenza sovrastante “piemontese”, impedito a costoro il mare. Genova che pian piano ha ceduto tutto, prima il mare, poi la terra, lasciando che dall’enclave il nemico allargasse il passaggio, erodesse altre vallate, chiudesse litorali, spintonasse tutto ciò che era possibile verso levante o verso ponente… Per ultimo, stretta da due riviere, orti e giardini, Genova si è rimpicciolita, chiusa nei suoi spazi stretti e ombrosi, è dovuta scappare oltre pozzanghera, ha persino permesso all’infezione nazista di cercare dai suoi moli una rotta, quella Genova che in qualche modo ha lottato contro l’invenzione del terrore, è quella la Genova che ha generato la malinconia, e i suoi eroi, i sopravvissuti, gli eredi della Resistenza, i discendenti di una Liguria che non c’è più, che hanno iniziato la loro lotta, sotterranea, buia, i suoi eroi, figli di operai di Sestri Ponente, hanno protestato, i suoi giovani e pieni di speranza e di sete di mondo e di giustizia, hanno partecipato… E il caso è che si siano fatti sorprendere con una pistola in mano, pistola non loro, ma di cui sono entrati in possesso, certo, per caso, per pochi frammenti di tempo, e tra il ritrovamento del ferro e l’istante in cui lo stesso sarebbe finito in un cassonetto ne erano in possesso… Ecco, sarà sempre questo il pezzo di memoria incancellabile, il mare che diventa altro, per Bacci Pagano, mare che ferisce e non si distingue dal cielo, l’ossessione, le cantonate, vere e figurative, la cifra della sua malinconia. Lasciate perdere la verità, che c’entra, leggete là dentro la malinconia di un perdedor che assomiglia ai perdedor di Bolaño, ma con qualcosa in più, anzi in meno dei perdedor di una letteratura selvaggia, con in meno la bile negra… Quella cosa che quando scoppia schizza ovunque e che caratterizza una certa letteratura, ma che quando leggiamo Bacci Pagano non troviamo… Perché? Questo non lo so… Ma è così che ho letto Uno sporco lavoro, e quella città che sembra voglia stupire a tutti i costi, con la sua lingua della memoria, dentro Uno sporco lavoro ce la ritroviamo fin da subito, basta un sanatorio, la concessione di una madaleine, la sfogliatella. Il resto, sulla vespa asmatica che arriva e si spegne, ci porta in una stanza e ci mostra i corpi di due persone che sono state giovani, belle, abbronzate, palpitanti, piene di tempo davanti, e alle quali ora è concesso un altro po’ di tempo per rivedere un vecchio mare al fondo del quale sono colati a picco proiettili, caricatori, sogni, un mare che finisce contro una spiaggia piena di scogli dietro i quali trovare rifugio se ci sparano; un sentiero che incide la scogliera e una gran villa con piscina e la strana servitù, formata da una curiosa signora lombarda e un antipatico ma intelligente domestico; con una bellissima, molto più bella di quanto non lo sia davvero, baby sitter, e un bambino al quale per la prima volta in piscina è concesso di nuotare con i braccioli; e una moglie fragile, viziosa, bellissima, forse meno di quanto non lo sia davvero, e un affarista sovrappeso e losco, e traffici di armi, politici di rango.
A guardare questa gente che appare o appare solo ai margini, e a guardare quel mare largo con motoscafi e malavitosi tatuati e armati, lo zaino in spalla con la pistola, un Bacci Pagano della prima ora, abbronzato, che in giardino, a bordo piscina, davanti a una tavolata ben bandita per una colazione importante, prende solo un caffè, mi fa venire in mente che almeno in questo, se non mi sbaglio, non assomiglia all’autore.
Piccola città. Una storia comune di eroina di Vanessa Roghi, Laterza, 2018
Tutte le città felici si assomigliano fra loro, ogni piccola città infelice è infelice a suo modo. Eppure, per quanto sia vero, nelle tante e diverse grandi infelicità delle città piccole è sempre possibile ravvisare qualcosa in comune. Qualcosa che forse solo chi è cresciuto nella noia delle giornate tutte uguali tipiche della provincia riesce a cogliere in una maniera dolorosamente autentica, in grado di arrivare prima di qualsiasi discorso razionale.
È il 29 agosto 1997. Nelle sale britanniche esce un piccolo film, l’esordio al cinema del regista Peter Cattaneo, su scommessa del produttore italiano Uberto Pasolini che lo finanzia: si intitola The Full Monty. È la storia di alcuni lavoratori di Sheffield, rimasti disoccupati dopo la chiusura dell’industria siderurgica locale, che si mettono in testa di fare gli spogliarellisti.
Alla fine dell’estate il film inizia la sua corsa che non si fermerà più, arrivando a diventare uno dei maggiori successi nella storia del cinema inglese: costato 3,5 milioni di dollari ne incassa 250 milioni in tutto il mondo. In Italia esce con il titolo Full Monty – Squattrinati organizzati. Nel Regno Unito ottiene il maggiore incasso di sempre, poco prima di venire superato da Titanic (1997). Fa incetta di premi in tutte le manifestazioni, fino al riconoscimento più prestigioso: il premio Oscar come migliore colonna sonora. Il British Film Institute lo posiziona al numero 25 tra i film inglesi più belli del XX secolo. Viene amato, imitato, storicizzato, diventa un musical e uno spettacolo teatrale. È il più grande successo commerciale che si ricordi per un film sul tema del lavoro.
Ma com’è possibile che una piccola storia di disoccupati sia diventata cult? Senza la pretesa di una risposta definitiva, rispettando la componente di «mistero» nella fortuna di un film, al risultato partecipano diversi fattori. In premessa va ricordato che il racconto si inserisce nella profonda tradizione del cinema operaio britannico: quello praticato fin dagli anni cinquanta grazie al movimento del Free Cinema, l’ondata di nuovi autori dichiaratamente di sinistra (Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson) che contestavano la produzione ufficiale descrivendo le condizioni di vita della working class.
Per citare un solo esempio, classico imprescindibile di quegli anni è Sabato sera, domenica mattina (Saturday Night and Sunday Morning, 1960) di Karel Reisz, tratto dall’omonimo romanzo di Alan Sillitoe: ricostruzione della quotidianità di un operaio, incarnato dal giovane Albert Finney, in particolare nei due giorni che compongono il weekend di riposo dalla fabbrica, passati a bere birra e ingannare il tempo tra avventure occasionali.
Nel corso dei decenni, poi, il motivo operaista viene portato avanti dal regista centrale di questo cinema, Ken Loach, con i suoi film degli anni ottanta e novanta e la definitiva consacrazione iniziata con Riff Raff (1994), pellicola operaia che condivide con quella di Cattaneo la presenza dell’attore Robert Carlyle. La figura di Margaret Thatcher porta nuova linfa al cinema inglese della contestazione: tra minatori in sciopero, privatizzazioni selvagge e problemi sociali ecco titoli come My Beautiful Laundrette di Stephen Frears (1985) o Grazie, signora Thatcher di Mark Herman (Brassed Off, 1996). Cenni di film e scenari che non riguardano direttamente Full Monty, però ne preparano il terreno: servono per suggerire che poveri, deboli e operai qui hanno sempre avuto cittadinanza, storicamente hanno trovato uno spazio, e dunque il pubblico è già abituato a seguire lavoratori e disoccupati sul grande schermo.
Il racconto di Full Monty si apre con le immagini di repertorio dell’industria siderurgica di Sheffield: i filmati rievocano la prosperità passata per poi arrivare alle miserie del presente, dopo la grave crisi degli anni ottanta che ha provocato il fallimento e la chiusura delle acciaierie. Lasciando a casa – più o meno – un’intera città, o perlomeno la maggioranza assoluta degli uomini adulti in età da lavoro. Le conseguenze sono evidenti: sempre dall’innesto iniziale, nell’epoca delle fabbriche attive vediamo i cittadini che vanno a ballare e riempiono i locali. Ma la crisi dei cittadini ricade con forza sulla psicologia dei lavoratori inoccupati e delle loro famiglie, ponendo fine anche al concetto di divertimento.
Il film è ambientato nei tardi anni ottanta: non c’è più impiego. Per questo all’inizio Gaz e Dave ci vengono mostrati intenti a rubare travi in un’acciaieria dismessa. Gaz, molto magro, è interpretato da Robert Carlyle, all’epoca volto nuovo del cinema operaio britannico, scoperto proprio da Loach in Riff Raff e appena consacrato nel ruolo di Francis in Trainspotting (1996) di Danny Boyle. Il suo collega è l’esatto opposto, Dave incarnato da Mark Addy, goffo e sovrappeso: configurandosi come classica coppia basata sugli opposti, i due amici sono quanto di più lontano si possa immaginare dallo stereotipo dello spogliarellista, come fa notare Gerald, il loro ex capo con la faccia di Tom Wilkinson. Entrambi sono troppo: l’uno troppo magro, l’altro troppo grasso. Ma sono anche troppo disoccupati, e Gaz deve garantire un’esistenza dignitosa a suo figlio, di cui rischia di perdere la custodia perché in ritardo con gli assegni alla ex moglie. Quando in città passa un gruppo di spogliarellisti professionisti, facendo il pienone, ecco la folle idea che germoglia nella mente dei disoccupati: fare lo striptease per sbarcare il lunario.
Nella prima parte Peter Cattaneo descrive le giornate di queste persone senza lavoro, lavorando sulla sceneggiatura di Simon Beaufoy, importante screenwriter del cinema inglese qui al suo esordio, che arriverà perfino all’Oscar con The Millionaire (Slumdog Millionaire, 2008) di Danny Boyle. Gaz e Dave fanno poco o niente: vivono di piccoli espedienti, parlano tra loro, bevono birra. A riassumere la sostanza della loro condizione è la scena ambientata nel centro dell’impiego. I disoccupati si iscrivono, riempiono i moduli, ma non nutrono alcuna fiducia nelle opportunità del job center, quindi passano il tempo a giocare a carte. Il racconto inscena, seppure con acuta ironia, la sostanziale immobilità del sistema di welfare, che non serve a trovare davvero un nuovo lavoro; nel frattempo la crisi ha messo tutti sullo stesso piano e, particolare significativo, l’ex caporeparto viene costretto a riempire le carte esattamente come i suoi ex operai. Nella povertà di tutti avviene un livellamento in basso.
C’è, ovviamente, una possibilità di riconoscimento in questi operai per chiunque si senta tradito dalle promesse dell’Inghilterra industriale. Oltre alla naturale empatia, l’altro indizio di successo del film è riposto nella sua struttura, ovvero nella scelta di non parlare direttamente di politica: qui non si criticano governi, non si attacca la signora Thatcher, è la storia di poveri cristi che cercano lavoro, non sono iscritti a partiti o sindacati (e se lo sono non lo dicono), vogliono solo un’occupazione. In tal senso Cattaneo si propone come negativo di tanto cinema inglese apertamente politico: prima di tutto la sua è una commedia. E la scelta di porre il problema in forma di intrattenimento divertente e popolare non è una diminuzione, al contrario: ha contribuito a diffondere il film e divulgare anche la questione industriale sullo sfondo.
Full Monty si presenta allora come la storia di un gruppo di persone con un’impresa da compiere, un classico canovaccio da cinema hollywoodiano: obiettivo difficile, sulla carta impossibile, emulare gli spogliarellisti ma con un fisico inadeguato, senza alcuna abilità nel ballo. Per gli amici iniziano le prove e i risultati sono esilaranti. Tentativi che risultano sempre intrecciati con la loro condizione, incastonati nell’ambiente di lavoro, come attestano chiaramente due sequenze: nella prima Gaz azzarda una danza in officina perché l’ha vista fare in televisione, salvo poi perdersi tutte le monete nel lancio della giacca; nell’altra i personaggi sono in fila per depositare una richiesta di lavoro, alla radio parte Hot Stuff di Donna Summer e loro gradualmente accennano passi di ballo. In tal senso la colonna sonora era un tassello centrale: la scelta della compositrice Anne Dudley si rivela vincente, totalmente centrata sulla discomusic degli anni settanta e ottanta, da You Sexy Thing degli Hot Chocolate fino ai brani di Flashdance, per arrivare all’immancabile You Can Leave Your Hat On di Tom Jones, simbolo universale di ogni spogliarello, che esplode nel finale quando arriva il vero «full monty» (in gergo inglese «servizio completo»). La trascinante soundtrack – come detto, premio Oscar – è uno dei motivi principali del successo del film.
Anche se tecnicamente non è un musical, Full Monty è un caso unico di film musicale sulla disoccupazione contemporanea: deboli, poveri e licenziati ballano scatenati, e così consegnano a tutti una speranza, una nota ottimista che invita a reinventarsi col sorriso, attraverso la metafora dello striptease come nuovo impiego. È anche il primo, grande film che anticipa la crisi degli anni duemila: girato nel 1997 per raccontare una crisi degli anni ottanta, la fine della fabbrica di Sheffield suona come previsione di altre e più drammatiche chiusure. Anche Sydney Pollack inscenava una danza in Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don’they?, 1969), un drammatico e sfiancante ballo a premi nella California della Depressione. Cambiano tempi e toni, ma i poveri per sopravvivere continuano a ballare.
[dal vastissimo archivio di Nazione Indiana ripubblichiamo questo articolo del 27 Dicembre 2012]
di Rinaldo Censi
Tra i film che Sergej Michalovich Ejzenstejn avrebbe voluto realizzare e che sono rimasti allo stadio meramente cartaceo spiccano numerosi trattamenti letterari: si va dall’Armata a cavallo (Babel) a Don Quixote, da Sutter’s Gold (tratto dal romanzo L’or di Blaise Cendrars) a un Giordano Bruno da filmare a colori, e poi Black Majesty (dal romanzo di George V. Vandercook, sulla rivolta di Haiti nel XVIII secolo e sulla figura di Henri Christophe, leader rivoluzionario poi incoronato imperatore sull’isola…), An American Tragedy da Dreiser, e ancora Malraux, e altri progetti da Puskin, Maupassant, Dostoevskij… senza dimenticare i famosi tentativi di filmare Il capitale. Sembra che durante la sua vita Ejzenstejn non abbia fatto altro che questo: gettare se stesso in progetti immaginati, sognati, desiderati. A volte magari per capriccio.
In realtà questa lunga lista luttuosa di film non realizzati funziona davvero come resoconto di un’ossessione, una magnifica ossessione.
C’è un profondo sapere che ruota intorno alla figura di Ejzenstejn: filosofia, letteratura, storia dell’arte, architettura, musica, teatro, antropologia. Ogni elemento sembra funzionare come un’incognita capace di dialogare, porsi in posizione dialettica con la sua ricerca filmica. Proprio qui, in questa lista di desiderata, e in questa inesausta speculazione intorno alle arti – di cui il cinema sarebbe parte integrante –, possiamo cogliere in filigrana i motivi, la scintilla che ha innescato il furioso attrito polemico tra Ejzenstejn e il suo collega Dziga Vertov. La riproposizione di una silloge di scritti di Vertov, curata da Pietro Montani (un’edizione ampliata rispetto alla prima pubblicata in Italia, nel 1975, dai tipi di Mazzotta, sempre a cura di Montani) – D. Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, Mimesis, Milano, 2011 e l’uscita di un bel saggio dedicato ad Ejzenstejn (Antonio Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino, 2011) riportano a galla la questione, quella di un’idea di cinema che diverge, e di un diverso rapporto con il reale.
Ejzenstejn e Vertov fanno parte di un’epoca in cui fare cinema significava anche pensarlo, teorizzarlo: in poche parole, la dimensione teorica e quella meramente pratica si sostenevano vicendevolmente: la prima sfociava nella seconda, operando a volte come una specie di cartina di tornasole. Epstein, Delluc, L’Herbier, Pudovkin, Legér, solo per citarne alcuni: scrivere e fare cinema, testare i poteri di una dissolvenza incrociata, di una sovrimpressione, sperimentare i poteri di una giuntatrice, incollare due strisce di pellicola, valutare l’evanescenza dei corpi, la loro “presenza”, modulando le focali (sfumato, sfocato, nitidezza). Ma anche: come porsi di fronte alla realtà che si filma? Proprio qui, in questo spazio esiguo e sottile, ma capace di schiudere baratri e distanze siderali, si gioca il fare cinema dei due russi.
Il cinema, le arti, il montaggio: da qui esce l’opera di Ejzenstejn, meglio, l’opera emerge dalla lotta, il contrappunto, la collisione di questi elementi. Ogni elemento viene posto in posizione dialettica. Il cinema, la realtà e il montaggio: da qui si fa strada invece la pratica filmica di Vertov. Una pratica non tesa alla realizzazione di film, ma all’utopica costruzione di un film infinito, una sorta di cine-cronaca, un flusso che non aveva altro obiettivo se non quello di portare a compimento la coscienza rivoluzionaria del proletariato, in una rivoluzione marxista. Kinopravda. E poi cineocchio. Kinoglaz, cioè: «Decifrazione della vita così com’è. Incidenza dei fatti sulla coscienza del lavoratore». In un certo senso “l’essenziale del Kinoglaz”, titolo del testo da cui abbiamo estratto la citazione.
I fatti dunque, il nocciolo di una realtà fatta di gesti, azioni, duro lavoro, ciò che fonda la vita delle persone. Vertov insiste alacremente su questo aspetto denudato da ogni velo “artistico”, in maniera indefessa; viaggia sui treni della rivoluzione, attua un cinema non-recitato, respingendo «l’arte alla periferia della coscienza», considerandola diletto borghese, gioco di prestigio. Il cinema e la vita sono ben altro: «E’ la vita stessa che noi poniamo al centro della ricerca e del lavoro. (…) Al posto dei doppioni della vita (rappresentazioni teatrali, cinedrammi) noi introduciamo nella coscienza dei lavoratori, i fatti, grandi o piccoli, selezionati accuratamente, fissati e organizzati. Fatti presi dalla vita dei lavoratori stessi e da quella dei loro nemici di classe» (“L’essenziale del Kinoglaz”, in D. Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, p. 85).
Ciò che Vertov nega è l’idea che il cinema debba poggiare su una rappresentazione della realtà, filtrata attraverso forme che egli considera desuete: il teatro, la letteratura, l’arte. Ed è invece proprio su questo perno che sembra muoversi Ejzenstejn; la sua dialettica del montaggio, la sua pratica filmica emergono in un costante e serrato confronto con queste forme artistiche. Proprio tra il “fatto”, il “documento” e la “riproduzione”, il “modo di rappresentazione”, si gioca la battaglia delle idee. Lo segnala prontamente Pietro Montani nella nuova introduzione agli scritti di Vertov: «Per Vertov, “riproduttivo” è proprio il cinema di finzione, che va respinto e combattuto perché il suo modo di rappresentazione non è originario ma derivato, non si fonda sull’autonomia formale e costruttiva del nuovo strumento tecnico ma dipende da altre forme – il teatro, le arti figurative e la letteratura – di cui si limita a riprodurrre parassitariamente i modi di rappresentazione». Da qui la critica di Vertov al cinema d’intrattenimento europeo e americano (sebbene egli ringrazi gli Stati Uniti per aver dinamizzato le sequenze, per lo meno in termini ritmici), e l’accusa ad Ejzenstejn di aver utilizzato in Sciopero, il suo primo film (1924), alcune forme di montaggio e di grafica delle didascalie da egli sperimentate in Kinopravda (1922) e Kinoglaz (1924), piegandole appunto in una finzione, un modo di rappresentazione.
Sarà la prima di una lunga strenna di polemiche tra i due. Vertov accusa Ejzenstejn di succhiare tutto il denaro per la produzione dei film. Vertov (e con lui i Kinoki, i cineocchi) prende soprattutto le distanze dalla «materia attoriale con cui è costruito il film, tutti i suoi momenti teatrali e circensi, tutte le deviazioni artistiche, alte o decadenti, le sue pose tragiche (quand’anche tagliate con le cesoie) di “muta sacralità”» (“Kinoglaz a proposito di Sciopero”, p. 86). Sciopero – questa l’accusa – non capterebbe la vita così com’è, ma ne riprodurrebbe le fattezze basandosi su quello che Vertov si affretta a chiamare “teatro degli stupidi”. (Ejzenstejn, di par suo, definisce Vertov un primitivo, alle prese con un cinema che egli non manca di definire “ornamentale”.)
Alcuni termini riescono a focalizzare meglio la questione in gioco: l’insistenza di Vertov sulla dimensione “teatrale” e “circense” ci permette di sottolineare come per Ejzenstejn il montaggio fosse indissolubilmente legato a un procedimento “attrattivo”. Una specie di choc: qualcosa di improvviso colpisce lo spettatore, lo scuote; di più, lo vedremo, lo fa uscire da sé, innescando una sorta di regime estatico. Per Vertov invece il montaggio va inteso come atto fondamentalmente “critico”, di analisi scientifica: forma di consapevolezza politica. Tutto ciò suona arcaico ad Ejzenstejn, che, rispondendo alle accuse di Vertov, taccia i Kinoki di mera “contemplazione”: «Il “cine-occhio” – egli scrive – non è solo il simbolo di un modo di vedere, ma anche di un modo di contemplare. Ma noi non dobbiamo contemplare, dobbiamo fare. Non abbiamo bisogno di un “cine-occhio”, ma di un “cine-pugno”. Il cinema sovietico deve penetrare nei crani!» (Un approccio materialistico alla forma cinematografica, testo pubblicato da Ejzenstejn nel 1925).
Dare coscienza allo spettatore (Vertov); impressionarlo, colpirlo, “montarlo” (Ejzenstejn): ecco a grandi linee le due polarità su cui agisce la pratica del montaggio. Questo procedimento porta il segno di una lotta tra visibile e invisibile, detto e non detto. Per Ejzenstejn l’energia psichica passa, inevitabilmente, tra due giunte di pellicola. “Attrazione”, “Exstasis”, “ Formule di Pathos”, “fare a pezzi”, “smembrare”: sono alcuni dei termini da lui utilizzati nel corso del tempo, variazioni che migrano e si concretizzano nei disegni, nei testi teorici (si veda il monumentale progetto Metod, mai portato a termine), nei film, e il cui fine ultimo resta quello di istituire un rapporto spettatoriale e insieme una pratica filmica.
Certo, anche per Vertov il montaggio è un modulatore di energia, ma questa deve emergere, sprigionarsi, nell’atto meramente tecnico-materiale (il riferimento va qui a ciò che Montani chiamava più in alto «l’autonomia formale e costruttiva del nuovo strumento tecnico»), senza appoggiarsi a sovrastrutture o giochi d’attore, negando le influenze desunte dalla letteratura, dal teatro, dalla pittura. L’uomo con la macchina da presa (1929) è forse il momento più alto, in grado di concretizzare questo potenziale tecnico e “politico” (insieme a Entusiasmo, il suo primo film sonoro).
Vertov non avrebbe mai perso tempo ad analizzare un dipinto di El Greco, giusto per farvi emergere, o rendere palpabile, non tanto una rappresentazione di personaggi estatici, ma «una rappresentazione estatica dei personaggi» (così Ejzenstejn in un’analisi del Laocoonte, affrontata nel suo “El Greco e il cinema”, citato nell’Ejzenstejn di Antonio Somaini, p. 357). Curvature dello spazio, posizione arcuata dei corpi, colori che «sembrano “scorticati” dalle figure e vagano dispersi sulla tela»: è la configurazione, in poche parole, di un regime estatico. A cui Ejzenstejn accosta (atto di montaggio) un espediente tecnico: la focale 28 millimetri, «l’obiettivo estatico par excellence», quello che «risponde all’esigenza fondamentale dell’estaticità: grazie alle sue caratteristiche ottiche, può realmente dare alla forma la possibilità di uscire da se stessa, dal suo rapporto abituale con lo spazio reale».
Fare uscire la forma dal suo spazio reale. Doveva essere qualcosa di intollerabile per Vertov. C’è insomma una dimensione estetica/estatica a cui Vertov resta totalmente allergico. A questo programma, a questo regime egli sostituisce dunque quello scientifico. C’è una realtà concreta, che bisogna analizzare attraverso le immagini e il montaggio.Un obiettivo: la realizzazione della rivoluzione comunista. Per lui il reale (il fatto) è il gesto di un lavoratore, non di un attore che interpreta la parte di un operaio. Utilizzare un figurante significherebbe tradire la rivoluzione, velandola col vecchio ciarpame artistico. La differenza è sottilissima, almeno per chi crede che, al cinema, il reale emerga dall’effetto che l’immagine produce sullo spettatore. Eppure è tutta qui la furia, la verità urlata da Vertov, stretta nello spazio esiziale dell’analisi di un gesto: dobbiamo distinguere quello vero da quello falso. Un po’ come levare gli errata dalla storia.
Da questa semplice operazione di riconoscimento può scaturire una rivoluzione.
La copertina di Nostalgia della mano sinistra (racconto in due tempi per una voce)
di Giorgiomaria Cornelio
Le parole di Giovanni Prosperi hanno un’umida vivacità, o almeno così pare vedendo aprirsi, sulla pagina, la botanica filamentosa degli steli. Dove uno penserebbe di trovare i becchi del fiore si srotola invece una fiamma che la febbre policroma ha bollito sino a farne nuova ortografia: una virgola che partecipa alla stessa natura della cometa, oppure un punto lavorato come una specie di scintilla incisa nella carta.
Le parole: continuiamo a metterle una davanti l’altra, abbaricate in file orizzontali…
Se Prosperi ha saputo ripiantarle in un terriccio di feconda, verticale solitudine è perché ha trincato il suo inchiostro dal Liber Mundi con la medesima attenzione di un caparbio miniatore, e penso qui a Belbello da Pavia e a certe pagine dell’Offiziolo Visconti che hanno ancora oggi – pietrificate nella materia della danza – immagini che nessun poeta è riuscito a sciogliere senza avariarne la sfavillante rivelazione:
Ormai
la
parola
è
oggettistica
,
che
cerca
di
fare
migliorie
nella
casa
del
pensiero
Bisognerà dunque studiare le rotanti germinazioni di Prosperi al di là di questa miglioria domestica o giardiniera (per quanto miracolosa), oltre le smunte vocazioni calligrammatiche e le devastazioni in cui s’affaccendano gli artisti dell’infernale cimiciaio contemporaneo. Giovanni ha frequentato ben altro apprendistato (“doveva essere Roma quel quartiere del mondo dove incontrai Emilio Villa”, confida in un appunto), ed è forse per questo che nella sua poesia il pensiero si fa agire, dove “si fa agire” potrebbe essere inteso nel doppio orizzonte di quanto del pensiero partecipa attivamente allo schiudersi delle forme (come neumi vegetali partoriti dalla coincidenza tra idea e azione, da questo condurre la materia pensata a materiale gestazione ) e di quanto si fa prendere nella trama, si fa raschiare e bucare dal libero andare della mano: una mina di colore fatta brillare sopra una riga, una cancellatura come uno sputo d’intonaco, e due o tre tremori che concimano -quasi in ogni lettera- il principio di un diverso bocciolo…
Due pagine da Nostalgia della mano sinistra
Ma se a ogni parola Giovanni ha dato il compito di stare ritta sulle sue gambe è perché egli incolonna nient’altro che un formidabile montaggio, grani di cinema (nelle / vene / del / buio / bisogna / far / passare / la / luce ) senza il cortile del fotogramma, e sempre sul limite della bordatura: le poesie, i racconti e le favole si posano certo tra pagine di quaderno, ma anche tra gli involucri di sigaretta, sulle tovaglie, nel retro di qualche logora cartolina per screpolare quanto già vi era stato impresso, invio sopra invio (come poi tacitamente avviene in tutta la storia delle comunicazioni). Capita pure che Giovanni vada scalando il volto di chi gli si trova davanti per trarne prisma e cera da ritratto istantaneo: questo significa avere la “camera” impiantata nella mano, e le penne possono soltanto “correre / dietro / sulla / carta ”, fuori da ogni principio di individuazione.
Stasera, da uno spigolo d’Irlanda, mi sembra di vedere in questi ceppi verticali anche qualcosa di un residuo megalitico, qualcosa della pietra che interviene a formare la poesia e le erbe che faranno la tana tra fessure, come in uno di quei muretti a secco sparsi per le campagne ed edificati blocco su blocco. In queste composizioni è davvero possibile osservare la consistenza di un intervallo, dello spazio vuoto come cerniera tra due ordini di smottamento. Alla stessa maniera, la poesia di Prosperi si riforma ad ogni riga, ribatte la vita con la vita: non solo una somma di momenti inaugurali, ma un fuoco maturo a tal punto da poter lavare ogni parola via via che si procede a costruire.
Da Prologo all’Estetica del fumo (2003)
L’iperico, la mentuccia, la lavanda, la ruta e il rosmarino sono ingredienti poveri, ma lo speziale li ha comunque raccolti in veglia per l’acqua di San Giovanni. L’alfabeto di Prosperi si bagna alla stessa fonte benedetta. “Bisogna / curare / le / impalcature / dell’/anima ”, scrive lui, e questa formula, così umile e così lieve, può bastare da sola a riparare il sottile vocabolario della poesia.
Alla fine decisi di visitare il Niavaran Palace, quasi fosse un implicito tributo a mia madre. Con la amica iraniana che mi accompagnava fingevo di provare un sincero interesse storico, da architetto, anche se, a ben vedere, l’idea di visitare la sontuosa dimora estiva degli Scià di Persia non mi entusiasmava particolarmente. Ma quand’ero bambino mia madre mi parlava di Farah Diba, della sua bellezza e innata eleganza. Essere a Teheran e non andare a vedere casa sua mi sembrava un affronto ai suoi racconti d’infanzia. Alla fine a colpirmi non fu lo sfarzo. Non furono le pelli di orso posate a terra a mo’ di tappeto, le sale degli specchi, le camere reali. Neppure il guardaroba magnifico (davvero elegante, aveva ragione mia madre) dell’imperatrice. Fu il bagno dei suoi figli, con ancora attaccati alle piastrelle gli adesivi della Disney, di Pluto, di Topolino, o la camera del maschietto, mio coetaneo, con il pupazzo di Mazinga in bella mostra, come un qualsiasi ragazzino di tutto il mondo in quegli anni. È la potenza della cultura pop, pensavo, capace di accomunare ragazzi lontanissimi per censo e storia personale. Se gli Stati Uniti hanno dominato il novecento è stato non solo per la loro potenza economica o militare. È stato anche per la capacità seduttiva del loro immaginario. Lo stesso che, per le strade di Teheran mi faceva incontrare giovani che indossavano le tshirt di Iron Man.
La forza dell’immaginario pop americano – cinematografico, televisivo, fumettistico, etc. – non sta nella sua spettacolarità. Quello è solo un espediente. Il modo di vedere, interpretare il mondo, di raccontarlo, si basa su due fondamentali assunti: la colpa e la famiglia. Prendiamo il caso esemplare di Spiderman, un adolescente dalla famiglia complicata, senza genitori, cresciuto dagli zii, che all’improvviso si ritrova con un potere inimmaginabile. Che però, da immaturo qual è, non ha saputo mettere al servizio della comunità, provocando, involontariamente, la morte dello zio Ben, quello che lo aveva cresciuto insegnandogli che “a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità”. È grazie al suo senso di colpa che Peter si traveste, combatte il crimine, tiene nascosto a sua zia May, e a tutte le persone che lo amano, la sua vera natura. È il suo senso di colpa che lo rende un eroe.
Sono appena uscito dal cinema, con mia moglie e le mie due figlie. Siamo andati a vedere il blockbuster della stagione: Infinity War. Divertente, spettacolare, visionario. Ma, come cercavo di spiegare alla mia famiglia (che chissà quanto si stava annoiando a sentirmi parlare), non è quello il motore implicito del film. Quello che lo tiene in piedi non sono gli effetti speciali ma i complessi rapporti familiari che mette in mostra. C’è un dio norreno, Thor, che è cresciuto assieme a un fratello adottato ma senza conoscere la sua vera sorella di sangue; c’è un miliardario farfallone e egocentrico che continua a rimandare la data del suo matrimonio; c’è un supercattivo, Thanos, che ha allevato due figlie facendole combattere fra loro (e una di esse trama per ucciderlo); c’è un giovane albero antropomorfo in piena contestazione adolescenziale; innamorati che non si dichiarano, orfani, padri putativi, coppie improbabili, una pletora infinita di tipologie, dalle più tradizionali alle più assurde, roba da mandare in visibilio Sigmund Freud. Per dirla in un tweet: un gruppo di scalcagnati eroi solitari provenienti da mondi differenti litigano e si difendono a vicenda come fossero una famiglia.
Mi sono sempre chiesto perché mia madre, una donna del popolo semianalfabeta, sia sempre stata così precisa nell’araldica del jet set. Magari non conosce il nome di un politico o di uno scienziato, non sa nulla di arte o letteratura, ma quando si parla di famiglie reali è capace di elencare alberi geneaologici e fitte parentele per non so quante generazioni. Non stiamo parlando, ovviamente, solo di sangue blu. Anche gli attori hollywoodiani, i personaggi televisivi o gli esponenti dell’alta società fanno parte di quel mondo visto da lei solo da lontano. Solo immaginato, come fosse un Eden (quando poi Hollywood incrocia l’aristocrazia allora è come se il tavolo da gioco sbancasse).
Credo che abbia a che fare con la parte infantile che ci portiamo dentro tutti. Credo che mia madre, sua sorella, le sue amiche del centro per anziani, verifichino costantemente se le fiabe che venivano raccontate loro da bambine alla fine si avverino per davvero. Se, insomma, dopo lunghe traversie, il principe e la principessa, vivano sul serio “per sempre felici e contenti”. La rivoluzione islamica in Iran, l’incidente a Grace Kelly, i tradimenti di Carlo, la fine di Diana, i suicidi dei rampolli reali o alto borghesi, le tragedie continue, le meschinerie, i litigi fra ereditieri, sono per lei, oggettivamente, sinceramente terribili, inaccettabili, ingiusti. Il bosco va attraversato, i mostri combattuti, ma alla fine il bene, l’amore, la felicità familiare deve regnare suprema. La vita di chi vive una vita da favola deve essere favolosa, senza indugi, altrimenti cosa ci resta?
Come faccio a dirle che nessuno può vivere “felice e contento” per tutta la vita? Non è un caso che le fiabe finiscano con quella formula. Chi ha mai saputo raccontare cosa succede dopo? Com’è la vita di due persone “felici e contente”? A chi interessa per davvero? L’eterna felicità ha qualcosa di mistico, di metafisico. È il Nirvana dei buddisti, è la contemplazione dantesca di Dio in Paradiso. Ma qui, sulla terra, nella vita vera, senza crisi, fratture, senza colpa, non c’è storia.
Insomma, aveva ragione il solito Tolstoj. Ricordate l’incipit di Anna Karenina? “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.” Raccontare una famiglia felice è noioso, è molto più divertente raccontare quelle infelici. E ora che ci penso, se a Tolstoj ci aggiungiamo il tema del senso di colpa sviscerato da Dostoevskij in Delitto e castigo mi viene da dire che in fondo il famoso immaginario pop americano è debitore in toto del romanzo russo ottocentesco.
Il nucleo sociale fondamentale di ogni società è la famiglia, in ogni sua forma. Esiste, anzi, una storia dell’idea di famiglia (allargata, parentale, mononucleare, etc.) che racconta di suo la società stessa che l’ha creata. Raccontare la famiglia è, per esperienza diretta, raccontare l’esistenza. Indentificarvici. “Vuoi diventare uno scrittore?” lessi una volta su un libro. “La tua famiglia è fottuta!”
Il bagaglio di dolori e di infelicità che ti porti dietro diventa il tuo patrimonio da spendere come narratore. È per questo che non sarò mai un grande scrittore, purtroppo. Amo mia moglie, adoro le mie figlie. Una famiglia noiosissima. Ricordo che quando anni fa pubblicai un romanzo che parlava di un divorzio, gli amici, i lettori, ne rimasero affranti. “Mi dispiace” continuavano a dirmi, “eravate una così bella coppia”. Un libro così duro non poteva che essere autobiografico. Ho passato mesi a raccontare in giro che a casa andava tutto bene. Che era solo finzione. (probabilmente qualcuno ci sarà pure rimasto male).
Ho paura che se nella vita voglio continuare a fare lo scrittore ho bisogno di una famiglia più incasinata. Per un po’ avevo sperato nel conflitto generazionale con Laura e Sara, le mie figlie. Macché, ascoltiamo la stessa musica, guardiamo gli stessi film, leggiamo le stesse riviste. Poi ho sperato nel primo amore di Laura. Mi sono immaginato il suo primo fidanzato entrare in casa mia. Già me lo pregustavo coi capelli a cresta, viola, pieno di tatuaggi e anelli al naso, scurrile, rozzo, arrogante. Un mezzo tossico, pericoloso, uno di quelli che mette gli scarponi inzaccherati sui cuscini del divano, ordinando a Laura di andargli a prendere una birra. Sarebbe stato perfetto. Potevo litigare con lui, arrivare alle mani, buttarlo fuori di casa (“Sparisci dalla mia vista!”), inseguire mia figlia che nel frattempo si era barricata in cameretta, bussare alla porta (“Apri, sono tuo padre!”) per ricevere solo singhiozzi e urla (“Ti odio! Non ti voglio più vedere!”).
Niente da fare. Il fidanzato di mia figlia è un bravo ragazzo, educato, gentile, servizievole. Dei due il rozzo sono io. Impossibile odiarlo. Mia moglie l’ha praticamente adottato. Qui o Sara, la figlia più piccola, fra qualche anno mi combina qualche guaio o mi tocca cambiare mestiere, che altrimenti resterò per sempre uno scrittore mediocre. Che ci posso fare, vivo in una famiglia felice e contenta. Devo per caso sentirmi in colpa?
(precedentemente pubblicato su Lampoon the fashionable, n° 14 settembre 2018)
La sonda spara ultrasuoni nel petto. Al primo contatto con la pelle la sua testa scivolosa mette i brividi, poi prevalgono le immagini. Sullo schermo una sagoma medusoide pulsa nell’oscurità. Si dilata e si contrae in mezzo a quel nero dove all’improvviso potrebbero comparire palombari. Oppure astronauti. Ma non c’è nessuno nel petto, ci sono solo le cose contenute in ogni essere umano. La dottoressa aggiunge altro gel e continua a perlustrare piano, alla cieca, gli occhi sempre fissi sul monitor, indugiando un po’ sotto lo scalino delle costole. Si ferma, ingrandisce, scruta i due vani inferiori, appena visibili nel pulviscolo, divisi da una parete che si scuote al loro stesso ritmo, spazzata da una corrente incessante.
È tutta roba mia quella, non è la fossa delle Marianne, non è un pianeta sconosciuto.
Distolgo lo sguardo e contemplo il profilo azzurrino della dottoressa, chissà per quanto ancora assorbita dal suo viaggio, la sinistra sulla sonda, la destra sulla tastiera. Sento il suo alito di sigaretta. Mi piace una cardiologa fumatrice al centro di medicina dello sport. Alle sue spalle e appeso il disegno anatomico dell’organo che sta esplorando, pero nessuno ci crederebbe a confrontarlo: tubicini rossi, tubicini blu, l’illusione beffarda di un sistema invulnerabile, la sezione di un motore eterno. Fuori dalla porta le voci della segretaria e del tizio arrivato dopo di me che ora sta già pagando, ancora in lieve affanno per la prova da sforzo, poche parole ne allegre ne tristi, la solita routine del certificato, idoneità agonistica. Anch’io ero così l’anno scorso. Perché l’ecocardiogramma oggi, non bastava il test sulla cyclette? E una domanda che ho preferito non fare. Ogni tanto serve un pollo da spennare, ecco la verità. Ora mi alzerò dal lettino con un bel referto inutile in mano e dovrò solo elargire a questi ladri una donazione di ulteriori novanta euro, eccola qui l’anomalia sistolica.
E quando ormai mi sto rivestendo e la dottoressa si è spostata alla sua scrivania zeppa di portaocchiali e cavi di alimentazione e chiavette usb e ombrellini da cocktail, sento che dice: “Eh si, per un po’ lei deve stare a riposo.”
Nella palestra nuova, dove mi sono iscritto correggendo un vecchio certificato per attività non agonistica, sfrutto quasi esclusivamente la piscina scoperta, una vasca da cinquanta metri che al mattino e frequentata da silfidi e tritoni della prima squadra (corsie dalla 1 alla 4), qualche avvocato dorsista che fa il pieno di endorfine prima di entrare in studio (corsie 5 e 6), donne del tipo alternativo alle patite degli attrezzi, senza protesi ungulari, spesso anche senza smalto o tutt’al più nero vinile e solo ai piedi (corsie dalla 6 alla 9) e leoni dei Parioli in quiescenza, che trascinano le infradito chiacchierando a piccoli gruppi sull’ampio bordo vasca come antichi filosofi peripatetici.
Immagino di perdere i sensi. Ieri Alberto mi ha parlato di sincope. Eravamo al solito indiano di piazza Vittorio.
“È un’ipotesi remota, pero il rischio c’e. Non sapessi quanto sei fissato, ti ordinerei di smettere. Devi ridurre intensità e frequenza. Fai il dieci per cento di quello che facevi, non di più.”
In acqua si può perdere i sensi? Penso alle centinaia di scene, nei film, nei cartoni animati, in cui lo svenuto viene risvegliato da una secchiata d’acqua. No, non può succedermi finché nuoto. Basta che tenga la faccia sempre sotto. Basta che respiri il meno possibile. Mi vedo disteso accanto alla scaletta, il bagnino che mi osserva a un palmo dal naso – il fiatone, la maglietta fradicia, gli occhi sgranati – mentre rigurgito un rivolo di colazione ai piedi dei curiosi raccolti in cerchio sopra di me. Oppure non si accorge di niente, resta a leggere il suo Kindle e io galleggio bocconi nell’indifferenza generale, con gli ultimi residui di ossigeno che si ritirano dal cervello come aloni di vapore sul vetro.
Appena entro in spogliatoio prendo venti gocce di Lexotan contandole sulla lingua, senza bisogno del bicchiere.
MAURO COVACICH (Trieste, 1965) è autore della raccolta di racconti La sposa (2014, finalista Premio Strega) e di numerosi romanzi. Presso La nave di Teseo ha pubblicato nel 2018 in una nuova edizione il “ciclo delle stelle”, A perdifiato (2003), Fiona (2005), Prima di sparire (2008), A nome tuo (2011, da cui Valeria Golino ha tratto il film Miele), e La città interiore (2017, finalista Premio Campiello). Nel 1999 l’Università di Vienna gli ha conferito l’Abraham Woursell Award. Vive a Roma.
C’è una via Roma quasi in ogni città di Italia, c’è una via Roma speciale a Reggio Emilia. Questa storia può aiutarci a immaginare che si può vivere bene ovunque, se i cittadini escono dalle proprie case e cercano la felicità negli spazi pubblici, nei progetti comuni, nelle case degli altri.
In via Roma a Reggio Emilia i cittadini condividono progetti e servizi, ma soprattutto l’utopia di una città ideale dove la creatività genera relazioni di fiducia. Da un approccio artistico e divergente ricavano la risposta alle istanze strettamente sociali.
Proviamo a chiederci se la creatività può contribuire a costruire una società coesa, fondata sulla convivenza e gli scambi tra persone diverse per età, cultura, provenienza. E se, viceversa, un quartiere coeso può essere uno stimolo per le persone creative, attratte per loro natura da quei luoghi del mondo favorevoli all’ispirazione. Quesiti che possono trovare risposta nell’esperienza dei cittadini di via Roma a Reggio Emilia, e probabilmente in tante altre piccole storie più o meno note che si nascondono nelle strade del nostro Paese.
Una via “degradata” si è trasformata in un laboratorio di innovazione
Via Roma a Reggio Emilia è una strada del centro storico dove i richiedenti asilo vivono in hotel fatiscenti e i creativi organizzano mostre d’arte in luoghi insoliti, dalle lavanderie ai distributori automatici. Fino a metà del Novecento la via era abitata dal Popolo Giusto, una schiera di indigenti solidali che – secondo i racconti – rubavano ai ricchi per dare ai poveri. Poi è arrivata l’ondata di migranti che l’ha elevata alle cronache locali per questioni di risse e spacci. Ma, come scrive il geostorico Antonio Canovi, “Il degrado è una componente fondamentale del processo di metabolismo che determina accrescimento, rinnovamento e mantenimento degli organismi viventi. E il metabolismo di via Roma non ha mai smesso di lavorare”.
Oggi via Roma è un laboratorio di innovazione sociale che conserva un’anima popolare e accogliente, senza rinnegare il proprio passato. Il cambiamento ha preso forma attorno a una piccola impresa collettiva: organizzare una costola del festival cittadino “Fotografia Europea”, che nei cortili e nelle case private trova la sua dimensione più vivace e underground. Da cinque anni, il quartiere si anima grazie al lungo lavoro volontario di professionisti e artisti, attirando migliaia di appassionati in cerca di atmosfere coinvolgenti fuori dallo spirito delle gallerie.
Ma in via Roma si viene anche nel resto dell’anno, perché sono tornate le osterie e si sono moltiplicati gli eventi culturali. In cinquecento metri si allineano botteghe locali ed etniche, istituti superiori, la scuola di Comics, la Camera del Lavoro, l’osteria Ghirba gestita da una decina di donne, bar e locali notturni da cui si può osservare la vita di una città normale, poco frequentata dai turisti, molto apprezzata dai viaggiatori che arrivano senza aspettative e si lasciano sorprendere da un’atmosfera felice anche senza clamori.
Un piccolo orto condiviso ospita frutti che appartengono a tutti, non solo a chi li coltiva. Coinvolti nel progetto, i richiedenti asilo si impegnano a seminare pur non avendo la certezza di poter rimanere così a lungo da raccogliere. E ad agosto sono loro gli unici a prendersi cura delle piante, mentre gli altri vanno in villeggiatura. In via Roma ognuno trova il proprio posto. “Il suo fascino”, scrive sempre Canovi, “è di essere un quartiere non tanto premoderno quanto piuttosto antimoderno: quello che succede qui in occasione di Fotografia Europea, ma anche in altri momenti, è la rivelazione di una sorta di intelligenza collettiva che anima un nuovo popolo giusto”.
La creatività favorisce la coesione sociale
Cosa c’entrano la creatività, l’arte, con la coesione sociale? L’arte contemporanea oggi non ha bisogno di opere tangibili per essere apprezzata, ma può assumere il mondo come tela. Christian Caliandro immagina un nuovo ruolo per l’artista, che potrebbe “sognare di cedere importanti quote e gradienti di autorialità a favore di un processo culturale dal basso, che abbia a che fare davvero con una comunità e con le sue istanze e con le sue esigenze profonde (non presunte) e con le sue vocazioni” e quindi mettersi in testa “di far venir fuori da tutto questo un’opera collettiva che magari non sembra più neanche un’opera ma proprio un pezzo di esistenza quotidiana (di quartiere, di città, di educazione, di urbanistica, di cinema, di letteratura, ecc.), dedicandosi a costruire una grande e funzionante infrastruttura di relazioni umane e trasferendo lì (lì dove è sempre stata, o dove sempre avrebbe dovuto essere: nel territorio dell’umanità) la sua dimensione autoriale”.
Il piccolo miracolo di via Roma si è costruito per la convergenza di alcune circostanze favorevoli. Il quartiere è abitato e frequentato da persone non autoctone, che vi sono approdate senza una rete sociale a fare da cuscinetto per la propria migrazione. Persone motivate a ricostruire una sfera di legami che li rendono più forti e integrati. Persone che cercano occasioni di riscatto da condizioni precedenti. Persone che possono inaugurare nuovi filoni creativi, originali e dirompenti, perché non ancorati al passato e alla tradizione. Forse perché gli immigrati devono dimostrare qualcosa e vivono esperienze diversificanti, ovvero “eventi o situazioni molto inusuali e inaspettati che sono attivamente sperimentati e spingono l’individuo al di fuori del campo della ‘normalità’”, secondo la definizione della psicologa Simone Ritter.
In parte, come spesso accade nei quartieri “alternativi”, si tratta di persone creative: non necessariamente artisti e talenti, ma in generale persone sensibili ai problemi, flessibili, capaci di strutturare in modo nuovo le proprie esperienze. Oggi consideriamo la creatività come un processo intellettuale divergente rispetto al normale processo logico astratto: è per questo che la creatività offre molte chances in più per affrontare problemi ordinari o straordinari… e risolverli.
Scrive E. Weiner in Geografia del genio: “Gli artisti sono più sensibili degli altri, importano la sofferenze di un mondo imperfetto, la processano, la riformulano come arte e la esportano, alleviando la loro tristezza e aumentando il nostro piacere. Un esempio di simbiosi perfetta”.
La creatività permette di guardare lontano, oltre la lite di condominio e le classiche lamentele del comitato di quartiere. La creatività è immaginazione: quando le comunità sono capaci di una visione a lungo termine, riescono a intravedere il risultato oltre i propri sforzi. Nei lunghi preparativi di un festival, la coesione sociale si crea perché le persone si incontrano e lavorano insieme. Sudare sullo stesso metro quadro fa sentire tutti più vicini.
Ma c’è di più: i linguaggi creativi costruiscono il racconto degli eventi e dei loro retroscena, rendendolo più visibili per il pubblico e per la stessa comunità. Prendiamo appunto il caso di via Roma: le rassegne, i festival e i progetti diventano storie per il sito, il giornale di quartiere, i profili social, le conferenze stampa, i blogtour, i flipbook per bambini. C’è perfino una app che permette di citofonare virtualmente agli abitanti della strada per conoscere le loro storie (l’app “Via Roma Trip” si può scaricare gratis, per iOs o Android). Media e linguaggi che compongono un racconto crossmediale molto diversificato, ma al contempo veicolano un’idea comune di società.
La coesione sociale favorisce la creatività
La creatività trova il suo habitat ideale dove succedono cose inaspettate e circola un discreto numero di personaggi stravaganti. Ci sono tante storie di incontro dentro un grande contenitore di coesione sociale come via Roma. Alcuni esempi? I fotografi francesi aiutano i richiedenti asilo a esprimere la propria idea di bellezza. La parrucchiera sudamericana presta il negozio per organizzare un dj set. I ragazzi sinti suonano la chitarra durante un vernissage. La signora Giuliana mostra le foto dei suoi morti durante un tour teatrale nelle case private. I blogger di viaggi si ritrovano in osteria per preparare il nuovo numero di una rivista. La blogger americana impara a “chiudere” i cappelletti.
E poi in via Roma ci sono i bar, che non hanno l’atmosfera dei caffè viennesi ma sono buoni luoghi di incontro dove scambiarsi idee in modo informale. Molti artisti e pensatori ne hanno bisogno per fare il pieno di socialità prima di ritirarsi nella solitudine creativa.
Le residenze d’artista come antidoto al provincialismo
Via Roma è il cuore alternativo di una città di medie dimensioni, troppo piccola per concedere evasioni da flâneur. L’antidoto al provincialismo è l’introduzione dell’elemento “alieno”: ogni anno gli abitanti invitano alcuni artisti a trascorrere una settimana come ospiti del quartiere, mentre gli esercizi commerciali della via aggiungono alcuni benefit, dal taglio gratuito di capelli dal barbiere o dalla parrucchiera, al servizio lavanderia o a un buono colazione, un pasto o un piatto di cappelletti presso i ristoranti. La formula della residenza d’artista è diffusa un po’ ovunque, ma in via Roma si traduce in una relazione di vera e propria ospitalità. Quando arriva, ogni ospite scombina le carte e offre nuovi spunti.
Gli abitanti ci tengono a condividere questa esperienza con chiunque sia interessato, così organizzano eventi pubblici aperti alla cittadinanza. Via Roma non vuole essere un’oasi nel deserto, ma un’esperienza replicabile, un invito a sperimentare in altri contesti. Nel mondo dell’arte si parla sempre più spesso di secret concert, di esposizioni di artisti nelle case private, di catering riservati, contesti nei quali la condivisone non è pubblica. In questo scenario, Via Roma vuole configurarsi come un contesto che offre possibilità di ricerca, aperto ma non evidente, accessibile ma non scontato. Un contesto che non coinvolga solo un’élite, ma riesca ad attirare persone diverse, curiose e interessate.
L’ideologia della fiducia contro il clima della diffidenza
I tempi sono cambiati e la sfida della fiducia appare ancora più difficile. Da un lato preme un home enterteiment sempre più sofisticato (ciascuno guarda le vite degli altri sullo schermo di un tablet), dall’altro tuonano le voci minacciose di chi predica la diffidenza e l’esclusione. Qual è la strada di via Roma? Ora che non c’è più la necessità di consolidare legami di fiducia al proprio interno, è interessante vedere cosa sceglie la comunità anche in relazione al contesto esterno.
Intanto, il gruppo informale che ha lavorato in questi anni al progetto ha costituito l’associazione “Via Roma Zero”. Come a sottolineare che si è sempre all’inizio, non si è fatto ancora abbastanza né si può dare nulla per scontato. “Zero” è il numero civico di chiunque si senta parte di via Roma anche senza possedervi una casa, per il profondo bisogno di legarsi a un territorio in cui si riconosce. Dove le cose in comune non emergono dagli algoritmi di una profilazione digitale, ma dalla buona abitudine di salutare per strada anche chi non ci assomiglia.
Questi tempi duri richiedono una grande giovinezza interiore e lo stupore dei bambini per contrapporsi ai balbettii di un pensiero conservatore e regressivo.
Il tema del lavoro è nodale nell’opera di Gadda, sì che, anche quando non sia l’argomento specifico, ma resti laterale o sottotraccia, il linguaggio che ad esso rimanda è pervasivo in tutti i suoi scritti, e si tratta di lavoro operaio, meccanico o artigianale, di lavoro contadino, di lavoro intellettuale, fin almeno dalla Meditazione milanese, del 1928, nata intorno al tema della gnoseologia di Leibniz, in cui si afferma che, come il lavoro, anche il vivere è costruzione, giacché anche la vita è un macchinario, sia pure organico, e la natura umana è «ingegneristica».
In Azoto, uno fra i suoi numerosi articoli di argomento tecnico-scientifico usciti su rivista fra il 1921 e il 1956, e raccolti in volume postumi nel 1986, troviamo la contestazione a Rousseau circa la superiorità della natura primitiva non ancora depravata dall’uomo, e la convinzione che la disposizione a rendere il mondo artificiale è, ossimoricamente, il naturale dell’umanità e il più alto livello morale cui essa pervenga. Ogni sapere è insieme tecnico e creativo, frutto di disciplina e libertà, con l’auspicio, pertanto, con l’inevitabilità potrebbe dirsi, della confluenza nella letteratura dell’elemento scientifico-tecnologico e di quello umanistico, peraltro rarissima nella cultura italiana, e che consente pure a Gadda di superare il suo primo malessere per gli studi di ingegneria, intrapresi, ci racconta, per compiacere la madre, ma che trovano, così, definitiva e pacificata dimora nella sua coscienza come linguaggio e come sistema metaforico.
Tale sintesi fra scienza e saperi umanistici, già invocata da Galileo, è condivisa, fra i contemporanei italiani di Gadda, solo da Primo Levi e da Calvino. Per Gadda, in particolare, l’operaio, il contadino, lo scrittore costituiscono la loro opera secondo una legge che tuttavia ingloba la creatività, perché essi hanno di fronte e intorno innumerevoli strade possibili. Coerentemente, Gadda si presenta come “ingegner fantasia, con penisole e promontori nelle lettere, scienze, arti, varietà, con tumori politici ed annichilimenti dopo i pasti …”, nell’associazione fra razionalità e creatività, come si è detto, ma anche, va notato, con l’inserimento dell’elemento politico come malattia e di quello naturale come annientamento, sia pur temporaneo (“dopo i pasti”).
Artificiale come propriamente umano e costruzione dell’artificiale come caratteristica nobilitante dell’umanità al massimo grado, rimandano, per una suggestione che non mi pare di superficie, al Leopardi dell’Elogio degli uccelli, in cui gli abitanti dell’aria sono considerati gli esseri più vicini alla sensibilità umana “dacché è notevole come quel che appare ameno e leggiadro a noi sembra tale anche a loro; laddove gli altri animali, tranne forse quelli addomesticati e usi a vivere cogli uomini, nessuno o pochi valutano come noi l’amenità e la bellezza dei luoghi. E non c’è da maravigliarsi: perché non sono dilettati che dal naturale. Ora in queste cose, una grandissima parte di quel che noi chiamiamo naturale non lo è, anzi, è invece artificiale: come i campi lavorati, gli alberi e le altre piante coltivate e disposte in ordine, i fiumi, stretti fra certi argini […] e cose simili, che non hanno lo stato […] che avrebbero naturalmente. Cosicché l’immagine di ogni ambiente strutturato da qualunque civiltà, […] è artificiale e molto diversa da come sarebbe per natura. Dicono alcuni […] che la voce degli uccelli è più gentile e più dolce, e il canto più modulato, nelle parti nostre che in quelle dove gli uomini sono selvaggi e rozzi; e concludono che gli uccelli […] assorbono qualcosa della civiltà degli uomini […]”.
Con Primo Levi, poi, Gadda è il solo scrittore del Novecento italiano a non ritenere il lavoro alienazione e sofferenza, ma liberazione e scoperta, conduzione a razionalità di sé e del mondo, seppure per il solo Levi esso arrivi a offrire la possibilità di qualcosa che nella vita umana, e nella forma più certa, costante, duratura, possa dirsi felicità.
Ma seguiamo l’ulteriore speculazione sul lavoro dello scrittore milanese, ne Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, quinto dei saggi, scritti tra il ’27 e il ’57 e apparsi nel 1958 in un volume col titolo complessivo I viaggi la morte. Qui la letteratura è indicata quale eredità delle generazioni precedenti, che pertanto “travalica i confini della personalità e ci dà modo di pensare a una storia della poesia in senso collettivo”. Che non significa banalmente avere dietro di sé una tradizione, ma essere consustanzialmente dentro un patrimonio ideologico, metaforico e linguistico costituito nelle generazioni, l’unico che abbia valore, fino al punto che Gadda intende annullare i tratti individuali, separati, isolati, che gli appaiono ripugnanti, lo schifoso io, e forse privi di senso, in definitiva inesistenti. E perciò con la menzogna dell’io Gadda respinge anche il linguaggio consunto e retorico, per assumere non soltanto il vocabolario veritiero delle tecniche, ma anche quello dei dialetti, altro prodotto delle generazioni, e dunque contro l’imposizione fascista di una lingua unitaria, omologante, negatrice delle differenze, cioè del radicamento nella storia. In tal modo, la letteratura diviene un ambito di verità.
Come questo si traduce nella scrittura gaddiana è ben noto: nelle descrizioni numerose e accuratissime, scientifiche e iperrealistiche, nel linguaggio mescolato, nel pastichernello sguardo di Argo che il narratore pone sugli uomini, sull’ambiente, sugli oggetti, sugli eventi; nell’ambiguità, nel polimorfismo psicologico dei personaggi, nei misteri sempre irrisolti, nei bandoli di matasse cento volte in via di scioglimento, ma che continuano a mostrare nell’esistenza sempre nuovi garbugli. Lo scrittore è scienziato, ma anche filosofo. In lui si manifesta eminentemente un altro tratto costitutivo della natura umana, quello indagatore, come, metaforicamente, quello di un commissario, Ingravallo, cui nel suo ambiente, magari con qualche ironia dettata dall’inferiorità morale e intellettuale, è attribuito appunto un tratto da filosofo. E da indagatore e filosofo egli cerca, in un’opera mai finita, ma sempre stoicamente ripresa e portata avanti, di scomporre, analizzare e comprendere la combinazione degli elementi che costituiscono il pasticciaccio brutto del mondo. Certo, malgrado intuizioni corrette ed illuminazioni, malgrado lo scavo accurato, la cura, l’attenzione alla materia, la lunga esperienza, l’abilità, la passione, la dedizione inesausta, ne La cognizione del dolore, steso fra il 1938 e il 1941, come nel Pasticciaccio, concluso nel 1946, l’ultima mossa per lo scioglimento manca, fallisce. Ma il dovere era e resta lo stesso: per dirla, in qualche modo, con Galileo, ‘provare e riprovare’.
(Questo articolo è in debito con Susanna Barsella, per la questione del lavoro e della lingua in Gadda e, per lo sguardo filosofico e indagatore di lui, con Mario Porro, che incrocia poi sul tema della coniugazione fra letteratura e scienza auspicata e attuata sia dal Gran Lombardo che da Primo Levi. Letto al “Festival internazionale di Filosofia, La Filosofia, il Castello e la Torre”, Ischia, settembre 2018).
Immagini tratte dall’Archivio storico Cgil nazionale
Swimmers, Sukhum, Republic of Abkhazia, 2005 ph. Jonas Bendiksen
___
da Walter Benjamin, Immagini di città, a cura di Enrico Ganni, Torino, Einaudi, 2007.
“Mosca”, pp.34-35.
[…] Che niente riesca proprio come era stato progettato e come ci si aspettava, quest’ovvio portato della realtà, si impone qui in ogni singolo caso così ineluttabilmente e così prepotentemente da rendere comprensibile l’atteggiamento fatalista dei russi. E quando a poco a poco si fa strada nella vita collettiva un tentativo di razionalizzazione, ciò, almeno inizialmente, non fa che complicare la situazione. (In una famiglia che disponga solo di candele si è provvisti meglio che non dove c’è un impianto elettrico la cui alimentazione però è continuamente disturbata). Nemmeno nella capitale della Russia c’è, malgrado ogni «razionalizzazione», il senso di un valore del tempo. Il Trud, l’istituto sindacale del lavoro, a mezzo di manifesti murali ha condotto, sotto la direzione di Gast’ev, una campagna per la puntualità. Da allora si è assistito a Mosca a una proliferazione di orologiai. Essi si sono concentrati, quasi si trattasse di una corporazione medievale, in certe strade, al Kuzneckij most, nella ulitza Gercena. Ci si domanda a cosa veramente possano servire. «Il tempo è denaro»: per accreditare una parola d’ordine così strana si è fatto ricorso, nei manifesti, persino all’autorità di Lenin. Tanto una tale mentalità è estranea ai russi. Su tutto prevale il loro istinto giocoso. (Si arriverebbe a dire che per loro i minuti sono come un elisir di cui non sono mai sazi, che il tempo li inebria). Se, ad esempio, per la strada si gira la scena di un film, essi dimenticano perché e dove vanno, si accodano alla troupe per delle ore e arrivano al lavoro frastornati. Nella gestione del tempo il russo resterà fino all’ultimo «asiatico».
Una volta avevo bisogno di esser svegliato alle sette: «Domani chiamatemi alle sette». Questo provocò nello svejcar – così si chiamano qui i portieri – il seguente monologo shakespeariano: «Se ci ricorderemo, La sveglieremo; se però non ci ricorderemo allora non la sveglieremo. In verità, di solito ci ricordiamo, e quindi in tal caso chiamiamo. È vero, qualche volta succede che ci dimentichiamo se non ci pensiamo. Allora non svegliamo. Un obbligo vero e proprio non c’è, ma se ci viene in mente al momento giusto allora lo facciamo. Dunque, a che ora vuole essere svegliato? Alle sette? Ecco, adesso lo scrivo; vede, il biglietto lo metto qua. Così lo troveranno. Naturalmente, se non se ne accorgeranno non La sveglieranno. Ma per lo più noi chiamiamo».
L’unità di tempo fondamentale è qui lo sieicias, cioè, il «subito». A seconda dei casi si può sentirselo dire dieci, venti, trenta volte, ma poi bisogna rassegnarsi a lasciar trascorrere ore, giorni e settimane prima che ciò che era stato assicurato in quel modo si verifichi. Così, non è in genere facile che ci si senta rispondere «no». La risposta negativa resta affidata al tempo. Catastrofi e collisioni temporali sono quindi all’ordine del giorno, così come i «remont». Essi rendono ricca ogni ora, pieno ogni giorno, un lampo ogni vita. […]
___
[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
“Mentre il capitalismo è inteso come una totalità complessa e in continua espansione, molti aspiranti progetti anticapitalisti di emancipazione continuano ad avere una profonda paura di transizionare all’universale e resistono alle politiche che riflettono sul quadro d’insieme, condannandole come vettori necessariamente oppressivi. Tale falsa garanzia considera gli universali come assoluti, generando una disgiunzione debilitante tra ciò che cerchiamo di destituire e le strategie che promuoviamo per riuscirvi.”
XF Manifesto, Laboria Cuboniks
Il libro di recente pubblicazione “Xenofemminismo” di Helen Hester (uscito a novembre 2018 con Produzioni Nero, tradotto in italiano da Clara Ciccioni) da’ una panoramica illuminante sul tema del postumanesimo coprendo nello specifico i temi della riproduzione sociale e dell’ accelerazionismo. Il saggio si propone di estendere il discorso iniziato dal Manifesto Xenofemminista del collettivo Laboria Cuboniks (“Xenofeminism: A Politics for Alienation”) e allo stesso tempo di muovere verso la riprogettazione del mondo facendo un passo ulteriore nella direzione di una ridefinizione delle relazioni. Attraverso esempi pratici il testo mette in evidenza i vincoli del sistema culturale circostante all’interno del quale nascono le tecnologie, e pone le basi per la considerazione di un attivismo femminista consapevole.
Iniziando dalla definizione di Xenofemminismo (XF), “una forma di postumanesimo anti-naturalista, tecno-materialista e per l’abolizione del genere” , la dissertazione di Hester spiega molto chiaramente i tre argomenti principali a supporto del movimento XF: la tecnologia come uno strumento per l’attivismo , la natura come campo sconfinato della scienza , e il genere come concetto ridicolo e obsoleto.
Concludendo direi che questo libro è una lettura obbligatoria, un punto di vista razionale e altro carico di accelerazionismo disilluso, una chiamata all’azione che va dritta al punto.
Esaminerò brevemente il testo con la speranza di generare qualche diffrazione significativa.
La tecnologia è sociale tanto quanto la società è tecnica
La mitologica percezione di tutto cio’ che e’ tecno come capacità di rimediare qualsiasi imperfezione e’ molto oltre una visione realistica del mondo in cui viviamo.
La tecnologia e’ uno strumento che rimane legato, dal primo concepimento dell’idea fino al suo repurposing, alla sudicia condizione di distribuzione del potere e delle risorse . Non c’e’ nulla di pulito e puro riguardo alla tecnologia e lo XF dovrebbe esserne conscio quando il suo utilizzo mira ad impattare la vita di una donna/queer.
Il punto di partenza della Hester e’ un campanello d’allarme per le menti disincantate che credevano ancora in un futuro tech-salvatore che avrebbe automagicamente liberato l’individuo. In breve, un discorso attivista che considera gli aspetti tecnologici come materia di “esperti”/”altri” non capisce il potenziale di questi strumenti per l’intervento politico , e nega la propria responsabilità facendo un passo che oltrepassi la complessità socio-tecnica.
Il naturale come spazio di contestazione
Sulla stessa linea del progresso tecno-materialista c’è l’importanza di eliminare l’ipocrisia di una categorizzazione semplicistica del vissuto. Ciò risiede nell’approccio anti-naturalistico, il quale spiega come nulla sia sacro, nulla sia’ soprannaturale, e a maggior ragione la natura in se’ non lo sia. Hester chiarifica questo concetto sollevando l’argomento problematico per cui alcune politiche femministe tendono a romanticizzare la sofferenza causata dalla condizione biologica (ad esempio la gravidanza). Questo tipo di progetto politico che delinea la natura come limite, porta solo all’idea conservatrice della differenza radicale. Il corpo dovrebbe invece essere il luogo di intervento tecnopolitico femminista.
Un mondo in cui Il genere si moltiplica
Il terzo punto del discorso XF è l’abolizione del sistema di genere binario , o in altre parole: XF non e’ una chiamata per l’austerità del gender ma per una post-scarsità del genere . Hester non si riferisce solo al genere ma a tutte le strutture che agiscono come criterio di oppressione incluso il concetto di identità stesso. E’ immediatamente chiaro che centinaia di menù a tendina non possono essere la soluzione e che la diversità così com’è oggi nel discorso politico sta solo fingendo di coprire lo spettro dell’alterità.
Un futuro tecno-alieno
Dopo aver esplorato i fondamenti dello XF nella prima parte del libro, Hester continua la sua dissertazione immergendosi nel problema della riproduzione sociale e biologica. Affrontando l’idealizzazione del* Bambin* (metafora di un futuro che necessita di essere protetto) e mettendo in evidenza come questa norma subdola sia la sistematica consolidazione della riproduzione infinita dell’identico.
Parzialmente supportata dal mito della femminilità nel discorso eco-femminista, il vocabolario utilizzato da queste politiche descrive specificatamente come tossica qualsiasi cosa che fermi il divenire del* Bambin*, rivelando così una paura della mutazione: il queer come elemento inquinante.
Preservare questo futuro immutato è uno degli obiettivi che la nostra società del consumismo ha consolidato attraverso un meccanismo di copia guidato dalla ripetizione/alienazione.
Per una società che si muove sforzandosi per l’alterato e non per l’utopica copia del sé è necessario enfatizzare la solidarietà XF e la riproduzione relazionale (“Generate parentele, non bambini!”).
In fine Hester conclude il libro con le “tecnologie XF” portando degli esempi tangibili di come possa essere una tecnologia xenofemminista, e quali siano le dipendenze che non possiamo ignorare quando la tecnologia viene riadattata. Ad esempio: conoscere l’importanza dell’assistenza sanitaria open source e dell’accesso all’auto-aiuto non deve soddisfare, perché stiamo ancora facendo affidamento su un’infrastruttura medica e un sistema di informazione dato.
E’ forse necessario muovere oltre, verso una mentalità che revisioni le modalità di hacking in modo da ripensare e proporre nuovi sistemi alternativi. Questo e’ l’effettivo campanello d’allarme che le politiche di sinistra non possono ignorare ed e’ anche una domanda aperta per i prossimi passi della tecnopolitica xenofemminista.
***
Accelerazionismo del Gender
Diffrattendo oltre dalla tesi di Hester, vorrei proporre le basi per la possibile esistenza di un movimento gender accelerazionista.
Mentre e’ sotto gli occhi di tutti che la xenofobia verso le ramificazioni del gender non è morta, e al contrario prolifera con il crescere dei movimenti di estrema destra in tutto il globo, d’altra parte facciamo esperienza di uno sforzo molto interessante da parte di molte aziende capitaliste verso la multiculturalità e la multi-diversità degli ambienti di lavoro. Una prospettiva neoliberale che porta un senso di appartenenza ai colleghi affiliati.
La maggior parte delle corporazioni hanno politiche antidroga, politiche contro l’alcol negli ambienti di lavoro, politiche dog-friendly, politiche per la consegna di frutta gratuita contro la carenza di vitamine, e pure politiche direzionali per il programma di esercizi di ergonomia per quelli che stanno bloccati a smanettare al PC. Ma voglio mettere in discussione il fatto che queste politiche non vadano abbastanza a fondo, perché il gender rimane comunque il meno definito con “solo” le comunità LGBTQ ad avere la più grande fetta di considerazione nelle politiche anti-discriminatorie.
Ed è per questo che propongo di far salire a bordo del movimento accelerazionista gender tutte gli sforzi per la diversità’ e di spingere a velocità massima.
Che cosa significa portare più donne nella forza lavoro con politiche egualitarie? O supportare trans e omosessualita’ durante le dimostrazioni per i diritti civili (es. conglomerati multinazionali come Amazon hanno partecipato e finanziato intere porzioni delle Pride Parades in varie città del mondo)? Questi sforzi non provano nulla se non possiamo raggiungere lo stesso per tutti i generi (im)possibili.
Dovremmo cercare e muoverci verso una sistematica richiesta per piu’ e piu’ inclusione e diversificazione, “Che sboccino un centinaio di sessi!” , e chiediamo poi che queste categorizzazioni kantiane siano incluse in ogni singola politica / decisione economica.
Creando una spirale di continui lavori in corso per la costruzione di politiche appropriate ad ogni nuovo genere che nasce, la pressione di un tale sforzo finirà per esplodere in un genere NaN che avrà un’unica via d’uscita accettabile dal loop: quella di riconoscere il concetto di genere come obsoleto.
C’è una vasta realtà di azioni quotidiane che può essere il punto di partenza per tale accelerazione. Sostenere e lottare per l’inclusione, con ogni mezzo possibile e penso ai meme per esempio, o il ri-formare e il ri-proporre algoritmico è un’altra possibilità. Una duplice battaglia sul lato dialettico con argomentazione che consideri una diversificazione esponenziale, e sullo spettro troll-matico creando un significato sopra un significato in uno sforzo iperrealistico che rispecchi la riproduzione sociale.
Lasciate che ogni XF dirotti il vostro sistema e preparatevi per la mutazione.
All’inizio si pone una questione di metodo. “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce. Era inesplicabile a lui stesso. Eppure era il progetto più forte e preciso che avesse mai formulato in vita sua.”: così l’incipit di Eclissi (Nutrimenti, Roma 2016, pag 7). Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare che Il pantarèi (ora riproposto da TerraRossa edizioni, Bari 2019, a quasi trentacinque anni dalla prima edizione – SPS-Sapiens, Milano 1985) punti all’oscurità, alla complessità tipiche dei maggiori romanzi del Novecento, per cogliervi un’indicazione su come proseguire il lavoro in questo che diviene un genere completamente diverso nel secolo che ci precede.
Non è certo arbitrario questo parallelo metodologico o, se vogliamo, progettuale fra i miei due soli romanzi finora pubblicati. In più di un’occasione ho lasciato capire che l’incipit di Eclissi, “Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce”, appeso lassù in cima alla prima pagina come un esergo, è anche una dichiarazione d’intenti, una promessa fatta al lettore più attento, o viceversa un monito rivolto a quello più frettoloso e meno disposto all’avventura. In questo senso, dunque, il progetto di Akron, il protagonista, coincide con il progetto dell’autore, ed è quindi lecito ipotizzare che non si tratti di un progetto isolato, ma che per l’autore scrivere voglia dire proprio questo: tuffarsi nelle tenebre per sfruttare la sorprendente potenza che una flebile luce può assumere quando è circondata dall’oscurità più totale. Perché naturalmente la luce che noi (intendo noi poveri artigiani della scrittura, che non osiamo più nemmeno chiamarci artisti), la luce che noi, dicevo, nella migliore delle ipotesi, riusciamo ad accendere è una fiammella davvero minuscola, come quella di un cerino, e dunque può essere di qualche utilità soltanto nelle tenebre assolute. Ma non credo che questo principio, nel quale adesso – a settant’anni – mi sembra condensarsi il segreto stesso della letteratura, mi fosse così chiaro a ventott’anni, quando concepii il progetto del Pantarèi e mi accinsi a realizzarlo. Il mio movente di allora era piuttosto, come ho cercato di chiarire nella Prefazione a questa seconda edizione, l’ambizione di dimostrare che il romanzo non era affatto morto. Certo, per realizzare un simile progetto era necessario calarsi a fondo dentro la vicenda del romanzo del Novecento e aprirsi una strada fra i cespugli dei suoi apparenti paradossi fino a trovare un filo di coerenza da seguire. Il che equivale forse a dire che occorreva inabissarsi nell’oscurità fino a cogliervi una piccola luce. Di questo però non ero consapevole a quei tempi: credo di essermi lasciato guidare dall’istinto o, se preferisce, dalla mia passione di lettore, che era già forte e consolidata, e dalla mia vocazione di scrittore, che cominciava ormai a palpitarmi sottopelle. In fondo il progetto del Pantarèi è nato nella mente di un ragazzo che, fino ad allora, aveva avuto della letteratura un’esperienza esclusivamente passiva: una mente ingenua e avventata, anche se provvidenzialmente armata di senso critico e ironia. Eppure questo romanzo si colloca così armoniosamente all’inizio del mio percorso, lungo e accidentato, di scrittore, che si direbbe un esordio studiato a posteriori.
A pagina 98 del Pantarèi in un momento di esaltazione il narratore protagonista leva una preghiera a padre Joyce: “Lode a te, organismo uno e trino. Gloria al padre intelletto, al cuore figlio e alla santa spiritualità del corpaccio nostro gaudente e dolente. Padre Joyce che sei nei cieli, posa i tuoi occhi sofferenti su di noi, […] Amen.” Se non bastasse questa dichiarazione di poetica, Il pantarèisi dimostra nel complesso joyciano: molte sono le parti di flusso di coscienza, le variazioni stilistiche di capitolo in capitolo, i giochi di parole, i termini-macedonia sintesi di più vocaboli, la radicale opposizione al linguaggio semplificato in auge nell’attuale industria editoriale. Nel romanzo successivo, Eclissi, è stata invece rintracciata da vari commentatori soprattutto l’influenza di Proust. Verso quali Maestri si sente in particolare debitore?
I due autori che lei cita, Joyce e Proust, costituiscono in effetti, con Svevo, la mia personale trinità letteraria: sono cioè i tre grandi sulle cui pagine mi sono formato come romanziere. Di conseguenza rappresentavano anche, per me, a quel tempo, tre padri, tre ingombranti modelli dai quali era necessario che mi allontanassi se volevo conquistare una mia autonoma personalità di scrittore. Il pantarèi mi ha offerto la preziosa occasione di separarmene mentre rendevo loro omaggio. Ciò detto, non posso negare che Joyce abbia nel Pantarèi un ruolo privilegiato, che sia una sorta di primus inter pares. E la buffa preghiera che Stern gli rivolge ne è la prova. La conferma viene da questa frase rivelatrice: “Ricordagli che, come tu hai stabilito, non vi sarà altro romanzo dopo di te.” Insomma, l’ho dichiarato esplicitamente: la mia intenzione di dimostrare che il romanzo non era morto, che al contrario aveva ancora un futuro, era principalmente una sfida a Joyce. Era una sfida ad armi impari, si capisce, ed era anche una dichiarazione d’amore. Ma, proprio come il mio protagonista Stern, io rifuggo, in ogni campo, dalle unioni monogamiche. Perciò l’amore da me portato a Joyce in quella mia stagione non esclude affatto, e neppure ridimensiona, l’amore per gli altri miei modelli. Il pantarèi è tutto un gioco a rimpiattino fra discorso esplicito sul romanzo del Novecento e discorso nascosto, crittografato, sullo stesso tema. Ciascuno degli otto autori trattati nel romanzo ha a sua disposizione un capitolo in cui si parla di lui nella parte saggistica e si celebra qualcosa di suo nella parte narrativa. La cosa è tutt’altro che scoperta, anzi, spesso è ben celata, ma chi ha pazienza (e una buona conoscenza degli autori in questione) se ne può sincerare. Ora, la maggior parte degli autori compare soltanto nel suo capitolo “di pertinenza”, Svevo e Proust affiorano invece in vari luoghi, anche – per così dire – in casa d’altri, e per finire Joyce mette lo zampino un po’ dappertutto. Posso aggiungere che il progetto del Pantarèi, che già accarezzavo da diversi anni, si fece più concreto grazie a una memorabile rilettura dell’Ulisse, durante una vacanza fuori stagione in Liguria, fra il settembre e l’ottobre del 1976. Quindi: sì, è vero, nel Pantarèi Joyce è primus inter pares. La stessa cosa accade, a ruoli in parte rovesciati, in Eclissi, dove il nume tutelare è Proust (la svolta irreversibile della narrazione è legata a un’irruzione violentissima di un ricordo involontario nella coscienza del protagonista), ma anche Joyce e Svevo ricevono i loro debiti omaggi, grazie all’occhieggiare continuo, dal passato, di Trieste e del suo dialetto (che Svevo parlava ogni giorno e che Joyce ha consacrato, facendone una delle tessere del mosaico linguistico di Finnegans Wake).
Uno dei più pesanti attacchi alla struttura del romanzo positivista da parte del romanzo moderno è quello al narratore onnisciente, come ben messo in luce a pag 63 del Pantarèi. Tuttavia Eclissi è interamente scritto in terza persona, nonostante l’abbondante uso dell’indiretto libero, e Il pantarèiin parte: come mai questa fedeltà alla terza persona?
Il ricorso alla terza persona non esclude affatto il sovvertimento della regola ottocentesca del narratore onnisciente. Un esempio mirabile di romanzo scritto in terza persona e dove nondimeno tutto è raccontato esclusivamente dall’interno della coscienza dei personaggi è Mrs Dalloway di Virginia Woolf, grandissima scrittrice che non figura nel canone del Pantarèi soltanto perché, nella particolarissima prospettiva critica del mio romanzo-saggio, ho inevitabilmente privilegiato il tema della destrutturazione del genere romanzo rispetto a ogni altro. Mrs Dalloway non è il solo esempio di questo tipo nella produzione di Woolf. Tutt’altro. Lo scelgo perché le sue modalità di scrittura sono facilmente descrivibili e l’effetto di novità (il romanzo, uscito nel 1925, è di soli tre anni posteriore all’Ulisse di Joyce) macroscopico. Qui abbiamo una voce narrante che dobbiamo per forza definire “esterna”, visto che non appartiene a nessuno dei personaggi del romanzo. Ma il suo modo di essere “esterna” è davvero curioso. Basta gettare gli occhi sulle prime due pagine del romanzo, che cito nella traduzione italiana di Nadia Fusini (La signora Dalloway, Feltrinelli, Milano 1996), per farsene un’idea. All’inizio del romanzo Clarissa Dalloway sta uscendo di casa. La prima frase che leggiamo (“La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei.”) non ci dice nulla di quel che sarà di questa terza persona, delle sue trasformazioni repentine e infinite. Ma già dopo sette-otto righe cominciamo ad averne un assaggio: “Che gioia! Che terrore! Sempre aveva avuto questa impressione, quando con un leggero cigolio dei cardini, lo stesso che sentì proprio ora, a Bourton spalancava le persiane e si tuffava nell’aria aperta. Com’era fresca, calma, più ferma di qui, naturalmente, l’aria la mattina presto, pareva il tocco di un’onda, il bacio di un’onda …”. La voce narrante è entrata nella testa della protagonista e ne sfoglia i pensieri, i ricordi, ne capta le sensazioni di gioia, di freddo, il piacere tattile dell’aria che la tocca, che la bacia come un’onda. Se poi voltiamo pagina e ci accontentiamo semplicemente di leggere le prime righe della seconda, possiamo cogliere con poco sforzo qualcosa di veramente nuovo: “Si irrigidì appena sul marciapiede, aspettando che passasse il furgone di Durtnall. Una donna affascinante, pensò di lei Scrope Purvis (che la conosceva come ci si conosce tra vicini a Westminster); somigliava a un uccello, a una gazza verde-azzurra, esile, vivace, malgrado avesse più di cinquant’anni, e le fossero venuti tanti capelli bianchi dopo la malattia.” Non è meravigliosa questa mossa che un uso nuovo della terza persona consente a Virginia Woolf? Quelle notizie banali, eppure preziose, forse indispensabili, che uno scrittore fornisce solitamente circa l’aspetto fisico del suo personaggio ci vengono trasmesse, in virtù di un invisibile gioco di prestigio, attraverso i pensieri di un altro personaggio, un personaggio minimo, che di lì a poco uscirà di scena, ma il cui cervello è stato visitato per un istante dal microbo della voce narrante come per un misterioso contagio. Questo micro-organismo continuerà a saltare di cervello in cervello per tutto il romanzo, incarnandosi via via in una serie di personaggi dei quali il lettore verrà a conoscere il pensiero dall’interno. Ecco perché dico che la scelta della prima o della terza persona diventa indifferente, una volta che si è fatta, a monte, la scelta ben più radicale di un punto di vista interno alle coscienze. L’una e l’altra, prima e terza persona, hanno i loro vantaggi e i loro limiti. Lo stesso Joyce, nell’Ulisse, non sceglie la prima persona, ma una terza instabile, mobilissima, che tende a trasformarsi di continuo in prima: per un istante, come accade spesso, o per un intero capitolo, come nel celebre monologo finale di Molly Bloom. Dei romanzi di cui si parla nel Pantarèi soltanto tre (la Recherche proustiana – con l’importante anomalia di Un amore di Swann –, La coscienza di Zeno di Italo Svevo e Morte a credito di Céline) presentano un Narratore in prima persona che è anche il protagonista della storia. Perciò non c’è nulla di strano nel fatto che Il pantarèi, sorta di beffardo “estratto Liebig” del romanzo del Novecento, sia scritto prevalentemente in terza persona, con frequenti scivolamenti nella prima. L’uso della terza persona mi offriva fra l’altro il grande vantaggio di poter mettere in scena un gioco di specchi fra me stesso, il mio sdoppiamento in autore del romanzo, la figura di Stern come eventuale doppio dell’autore, l’autore dei saggi come doppio di Stern, e ancora Sax – protagonista del romanzo incompiuto di Stern – come altro doppio di Stern lontano anni luce dal primo, e di insinuare così nell’aria del libro un altro dei temi cruciali del romanzo del Novecento: il problema dell’identità, sul quale s’impernia l’intera opera di un grande autore come Max Frisch che – pur non potendo a sua volta figurare nel canone del Pantarèi – meritava certo di essere evocato. La prima persona l’ho usata in un inedito che mi sta particolarmente a cuore, Sciofì, Fifì e l’Amor, perché lì mi era indispensabile. Eclissi è un romanzo per il quale ho scelto una voce narrante ingannevolmente tradizionale, che è classica nella forma e si lascia credere onnisciente nella natura, ma che viene a tal punto intaccata e incrinata dal multilinguismo dei personaggi (ci sono cinque lingue diverse in quel piccolo libro) da trasformarsi nell’officina stessa della mia sperimentazione letteraria.