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Il sogno politico di un’azione poetica: su “Sonnologie”

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di Gianluca Garrapa

(Se ti pare di scorgere una qualche opacità nella lettura delle poesie di Sonnologie, tale difficoltà di intendere immediatamente le immagini di questa scrittura, è da ascriversi al soggetto-cittadino stesso che ne ritrae in scrittura-contro-politica l’operazione politica della dissocietà del mediale quando cerca di colonizzare l’inconscio con savoir faire subliminale.)

Sonnologie è l’ultima raccolta poetica di Lidia Riviello, postfazione di Emanuele Zinato, edita del 2016 per Zona contemporanea.

Sonnologie, i cui versi qui compaiono in corsivo, procede con un andamento onirico e racconta il plagio globale e l’asservimento mentale dell’individuo comune alla violenza subliminale del sistema socio-politico. La scrittura è un vero e proprio esercizio mentale che pare dire: vedi? È questa la lingua dei sogni indotti dal capitalismo che respiri.

Auto-antologia-6. Giovanna Frene

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di Giovanna Frene

 

Castore e Polluce, in prospettiva aerea

L’ultima fioritura del corpo sarà                      eterea.

 

Il semprenero sempreverde sbuca e fiorendo                      fiorisce

e s’addice alla sua sorte che il virgulto adduca la sua                      morte.

 

Ma qui quale pietra serba il nome e come nel suo                   progressivo

inceneritosi decedere fissare nell’aria la perenne                      memoria

tra astri alternativamente semprevivi                    sempremorti?

 

La visione veduta offusca la ragione e ovunque                      semina

cecità: per i due occhi spenti insieme, per i due volti gemelli     schiantati

non esiste ulteriore fioritura di mura neppure nel                      vento:

la prima semina fiorì in orbite in orbite fiorì il                      lampo.

 

Se il seme non muore non può nascere la                      pianta

[se noi non moriamo non possiamo essere                      seppelliti]

senza la cassa-bacello nessun                      tempo

di attesa legherebbe i vivi ai                      morti

perché cresca la pianta che non                      muore

il tempo della sospensione deve essere ogni volta                      seminato.

 

Se l’ultima semina seminò l’etere                      fiorito

e non un sasso cancellò l’anonimato stellare del                      fiore

qui rinvigorisce il puro ramo del domani al                      sonno

alterno [eterno, sempreverde, semprescuro,                      inferiore]

e sotto la cenere lo stesso sentimento ovale di un                      momento

scaglia al cielo ingenerato un infuocato furore                      divino.

 

La disapprovazione del germoglio, il consenso del                      seme:

più vicino alla sua lontananza insedia la materia l’orto                 sfiorito:

il tempo corporale fiorendo                      sfiorirà:

la terra schizzata in alto e il prato profondamente                      spostato:

e l’azione carnale totalmente votata alla                      ustione:

il seme bruciato prima della fruttificazione                      apparente:

Nonpenso Nonfaccio & dunque [Corp.]                      Nonsono

 

Risplende lassù nel sonno il                      cielo

anzi è un’orbita vasta per sempre                incandescente

prematura fioritura nell’alto                      osanna            nell’alto

osama os-oris – –

 

(In memoria dell’11 settembre 2001)

Da: Sara Laughs, D’If 2007

 


 

Giovanni dalle bande nere

…la sua propagazione non è l’opera di un istante, non

di qualcuno: che salvaguardia la tecnica e la scarsezza

di merce, lo scopo, indebolisce il mezzo; l’arma contro chi spara è puntata

scarica, solo se chi poi è colpito non si sposta per primo in avanti; si muore

per cancrena, per leggerezza di campo, di corazza, cavalli piccoli; vinti solo dal vinto.

 

si aprono i piedi immacolati delle nuove propagazioni come cammini

da registrare, parti di tre, disarmati: necessario negare il sopra, se sotto; necessaria

se dopo, l’abrasione; dire al monumento che se saldo, crolla, se crollato,

resiste al dispaccio finale che risolve il vuoto come “perché”:

 

è stato risposto che per salvare, perché lo serva e lo salvi, si rivolge

alla fonte della perdita, all’io non concesso, al fine respiro

dello strumento invocato, che precipita

con le mani, non se ritratte, o non volendo; servendosi:

 

come in terra, i nostri nemici sono

piccoli vermi, inermi schegge di colubrina sullo spessore, e sempre

nello stesso gioco non conta non poter vedere, prima che volere;

il cambiare le cose in prospettiva, come invenzione, postazione, circonferenze di età:

 

cerchi la gamba tra le gambe e non la vedi,

nome sottomesso a leggi, da sé vinta,

in sé corrosa.

Da: Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011

 


 

Sestina bosniaca, o del penultimo giorno dell’umanità

 ovunque andassi, la gente mi considerava un debole

(Gavrilo Princip)

I.

se anche andassi per una valle oscura, non temerei alcun bene, perché tu sei con me:

se anche andassi a ritroso, ritroverei il corpo esploso, la pallottola

per l’eternità, una pura paternità in prospettiva: in somma, un impero centrale

 

II.

…un proiettile non va esattamente dove si vuole: ma due su due sono un bivio

perfetto, imboccato a ritroso come per difetto, o per eccesso di zelo:

si spinge indietro la macchina fino al punto esatto del suo non-ritorno

 

III.

…devi vivere per i nostri figli: non sembra vero che il ritroso si ripresenti per caso, aspetto

di un gesto grave, vista la fragilità, che afferra al petto, non il posto accanto, vuoto

il vuoto, sussurrato nella corsa del corteo pasquale di famiglia, che ha i suoi Decreti

 [solenni, le sue Astuzie

 

IV.

come la storia: dobbiamo ricominciare tutto daccapo! il ritroso, il secco, lo sconcerto dei

[fiori

raccolto con stizza da chi si accorge che non si tratta di una tabacchiera, torna

indietro per cercare di smettere il calcolare, ma in un tempo incalcolabile

 

V.

…un tipico esempio della barbarie balcanica (…) ma in città non c’è alcun segno di lutto:

un tipico esempio della barbarie viennese, o più che altro europea, ovunque

ci sia musica, nessuno piange a ritroso per più di un quarto d’ora, da sempre

 

VI.

come sempre vivere attentamente in perenne mobilitazione, anzi

pensare finalmente a un’eredità biologica senz’altro fondamento,

dove un riformato non riformi mai davvero il mondo, ma solo sempre lo finisca

 

Liquefazione – Sestina bizantina

…essere in sé quello che si è costruito, e allo stesso tempo

galleggiare in superficie. buio come un pugno, dai piccoli padri

 

presenti, sempre presente il carro del vincitore, la discesa

strategica con le armi degli altri, tutte o poco

 

per volta, l’invisibile forma un monolite stridente

con la sconfitta, e la rigetta diritta a Ovest come

 

occasione per rispedire indietro le insegne del principio

“Orienta la spada sul seme della vicina distruzione”

 

: detronizzato il diminutivo, e prima destabilizzano

ancora il vuoto infiltrando l’ignoto, e altro, e in alto

 

si perda il gioco universale di unire ciò che l’uomo ha diviso

smembrando piuttosto il mondo che il suo potere

 

 

Stenditi a terra – Sestina di Crimea

 

tutto ciò che si sapeva

rimarrà come eredità

…come spesso gli uomini singolarmente intelligenti, aveva un numero limitato di idee,

un numero limitato di supposizioni, per ogni singolo soldato steso a terra:

rifare il campo di battaglia, se non si può proprio tutta la guerra, girare

al largo da queste vere carogne repellenti, ricreare da vicino se non il morbo

del vero, il vaccino del veritiero: fare la carogna per intero, in sostanza,

dare la notizia non della mattanza, ma della “bellavista”:

vedi che il braccio non sia fuori retta con la testa rotta, assesta

il colpo definitivo al cavallo centrale, centra la vera carne

malata, prima che infetta: una degenerazione veramente battagliera

di una schiera di inermi frantumati, a sfondo perduto, una quinta di fondamento

per una storia fotografica del genere umano davvero alla mano:

quella che raccolto ora, sanguigna, dal bordo della scena

 

[Su come nell’Ottocento si ricreavano a posteriori i campi di battaglia per fotografarli]

Da: Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca Editore 2015

 


 

Canzoni all’Italia

PEOMA / PEUMA / PIUMA

(Canzone all’Italia)

 

in memoria di mio padre

1.

… e mi vedo davanti il Peoma nel mezzo tra Gorizia e il Sabotino e un punto molto battuto da vari mesi di lotta su questo punto di terreno è tutto fracassato

… e mi rivedo davanti il Peoma, solo un nome farneticato da popoli interi, ancora

per poco, un discorso alla lettera abbagliante, vomere che rivolto lo sguardo alla terra

lo rivolge dalla terra al cielo, lettera abbagliante ogni notte, battuta, ribattuta

rivolta ossessione senza oggetto, e tra poco senza soggetto, valloncello

scherzoso, esploso            (“grida al vento il mio tormento”)

 

2.

… Il Peoma è una collina davanti a noi vecchia posizione del nemico e perduta da lui tempo fa e vinta da noi per un po di tempo ma dovemo pur noi lasciarla perché tempestati

di fronte e dai fianchi dal piombo nemico

… ma dovendo pur noi lasciarla, questa vita, sotto il fuoco di una giusta sineddoche

sconosciuta, ma dovendo pur noi posizionare l’arredo cerebrale ai piedi di Sua Maestà

[lo Stivale,

ma dovendo pur noi specie durante la la note lottare di spesso, ma senza la detta

[conversione,

dispesso balzare da l’ignuda trincea allo squillo della patria intrusione: beata ci fu questa

[lunga dormita

che al turista commuove la vita: si sconta vivendo            (“grato…ricovero di guerra…

[sotto terra“)

 

… Questa collina costo 20 miliaia di uomini nelle lotte molto sono la sopra la terra si consumano col tempo.

… si consumano “Col tempo” (Giorgio da Castelfranco), si accampano fin dentro le nostre

[narici, secondo

ordini impartiti dall’alto, si trapiantano più favorevoli al terreno, si dissodano

da soli il riscatto, l’unico sepolto, il giusto campo comprato per molto, si diventano ciò

[che sono

oltre la forma, oltre si dissemina la franca sostanza sopra la terra, sopra

la terra si sta forti a petto ignudo, senza scudo

senza

 

In questi giorni piccoli gruppi di soldati vanno a prendere fucili e baionette nel Peoma e davanti le nostre trincee 400 500 metri dove vi si trovano parechie miliaia di cadaveri, ogni fucile viene dato un compenso vi si trovano pure armi tedesche.

… vi si trovano parecchie miliaia di fucili e di baionette, da recuperare: una vera metafisica

del risparmiare, questa prodotta su sé stessa dalla pancia gonfia

del produttore, bugonia di patrii pensieri liquefatti sul terreno osceno, pronti all’uso, il

[prossimo

sempre a servizio del consumatore, consumati nel successivo servizio, già serviti

parechie miliaia di volte            (“pure se per quel dì solo di fede il fante si nutrì“)

 

 

… I cadaveri non si possono sepellire per il loro numero e il nemico non ci permette il tempo sono già putrefatti e un enorme odore vi si trova da non poter respirare, vi sono bersaglieri 9-12:

per il loro numero, senza permesso, occorrerebbe un giorno illimitato: tutte le strade

sboccano in nera putredine, al sogno del non-nato restituito al fato, a noi

che di memoria presto perimmo, o di salubrità dell’aria che tira,

ma pallottole, da non poter proprio respirare, così che vi posa sicura tranquilla

l’aquila vigilante: ci solleverà la fatica i confini le orbite vuote

 

6.

… Fanteria 33 36 carabinieri, granatieri e tedeschi, quando si tocca per levarci la baionetta si stacca mezzo il corpo, vi sono teste bracia gambe qua e là

… come se fosse una metafora, quando si tocca il linguaggio per levarci la baionetta

si frantuma mezzo il corpo: anche dopo questo non si dovrebbe più scrivere “poesia”:

[che cos’è che non

va nel corpo putrefatto del testo che non lascia recuperare l’acumine, il nesso,

il senso così severo del finire? di nuovo grida al vento

il mio scontento e dormirò in mezzo al campo, teste bracia gambe qua e là sui prati

 

(dopo Ruysch)

… un campo di cadaveri, non ce palmo di terreno che non sia battuto e non ce metro che non vi sia ferro e piombo…

: l’accorgersi del morire fu la nostra vera conquista, non come

un sonno santo e beato scivolammo nel passato della vita, ma fretta

della fine ci penetrò e un sentimento grandissimo ci squassò da dentro:

per fortuna un campo di cadaveri ha pure il suo quarto d’ora di celebrità

parlante, e tu passante ricorda che noi soffrimmo nel morire,

e che ci fu tremendo il corpo all’apparir del vero spirito

esalato, e vedemmo il piacere minato saltare in aria, per aria

qui non rimane niente altro che una sola voce, voce che grida

nel deserto di chi conobbe l’esser morto come certo smembramento

o appallottolamento frontale, o lume che sale per le scale in lontananza

covando non so quale ignota nullità, sicuro sogno,

o vita, istesso nervo battuto e ribattuto

 

8.

(“Tutte le batterie un solo ardore

Tutte le volontà un nervo istesso”

D’Annunzio)

Non c’è niente di lugubre nei soldati che muoiono in guerra, se non il fatto che è la Patria che li manda a morire. Forse è solo la Patria ad essere lugubre

 

snervante

 

[Pubblicata il 19 settembre 2016 in www.atelierpoesia.it]

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NOTA AL TESTO

La località Piuma (anche Peuma o Peoma) è una collinetta di fronte a Gorizia che fu teatro di sanguinosi combattimenti nel 1916; in termini bellici, viene inquadrata sul Fronte del medio Isonzo, tra il Podgora e Oslavia. Notizie dettagliate su tale località si trovano in più passi del diario di guerra di Giuseppe Bof, Ritorno a quei giorni (Istresco, Treviso 2015), vissuto a Crespano del Grappa (TV) e ivi morto nel 1971; le citazioni lunghe che attraversano la poesia sono tratte da questo volumetto. Ogni gruppo di versi cita, in chiusura, deformandole, alcune delle epigrafi originariamente presenti nel Cimitero Militare di Redipuglia sul Colle Sant’Elia, ora dismesso, risalente agli anni Venti e precedente l’attuale Sacrario; le epigrafi furono scritte da Giannino Antona-Traversi Grismondi, Fausto Salvatori e Gabriele D’Annunzio. La messa in scena della guerra è qui puramente allegorica; tuttavia, vero è che “Resterà una eterna memoria della presente guerra”: è bene ricordare che così il fante Giuseppe Bof, nella piccolezza della sua singola biografia, aveva colto la portata dell’evento di cui era testimone.

 

2.

Contro-futuro arcaico

 

“Sappia che non siamo in tempo di pace. E lei è un militare.”

(Guido Morselli, Contro-passato prossimo)

 

I.

…si giunge a Vallerisce le granate piovono tuti sono partiti

un attacco feroce e impegnato sul Podgora.

Piove sulle trincee come piove sul mio cuore, su le cicatrici

fastose del passato: piove sul fango raggrumato dei sangui dei non-nati:

piove sui corpi devastati, sulla gora del versante sgranato, la grana della foce

recita litanie nere in lastre più nere: mira: Isonzo: mare

 

II.

…poi si parte in armi e lungo la via si trovano dei caduti

un nostro tenente e steso sformato nella palta un altro compagno…

poi si parte per un futuro più arcaico del passato, spinti da furenti

precettori impastati nella palta da cui tutto promana: le Mani

di Dio, l’Uomo, il Figlio dell’Uomo, l’altro figlio dell’uomo, quello

assassino tra le urne elettorali, per cui “balzeremo anche noi di sotto terra”

 

III.

…altri feriti sincontra la lotta continua il nemico avea già sfondata la prima trincea

facendo parecchi prigionieri del 116° e venendo fino al posto di medicazione…

…io non credea mirare un’avea in tanto spasimo, nel teatro delle operazioni:

io non volea l’opera lirica in bocca al primo villano che s’arrovella sul Carso:

ma in un futuro ricomposto come puzzle da un Pollock, bilancia alla mano,

cosa peserà il Tempo su i fasti della Storia crionizzata?

 

[Pubblicata il 22 dicembre 2016 nel “Corriere della Sera” ]

NOTA AL TESTO

Ogni strofa inizia con le parole, in corsivo, di Giuseppe Bof, un soldato semi-colto della Grande Guerra, autore di un taccuino pubblicato dall’Istresco nel 2015, Ritorno a quei giorni. Diario di guerra. L’unica citazione tra virgolette è tratta da un’epigrafe del vecchio cimitero militare di Redipuglia, sito sul Colle Sant’Elia.)


Autopresentazione

In un suo recente volume, Abbiamo ancora bisogno della storia?, Serge Gruzinski si pone l’interrogativo capitale del senso della storia in un mondo globalizzato e appiattito sull’apparente assoluto presente della Rete. Il problema che si pone è duplice, perché in realtà alla globalizzazione stanno facendo ovunque contrappeso molteplici spinte locali e localiste, e di contro la Rete stessa va a configurarsi come una implementazione della capacità umana di memorizzare (casomai, il problema è la sovrabbondanza di informazioni che la macchina processa senza intelligenza, e che invece all’uomo processante potrebbe causare una cecità mnemonica, tale da non poter fissare i dati in oggetti mnemonici, e dunque non avere paradossalmente un passato culturale, ma solo individuale). La proposta “aperta” suggerita da Gruzinski è paradossalmente anacronistica, e prende il suo slancio dalla prima mondializzazione europea, che lo storico fa risalire al XVI secolo, l’epoca della scoperta del Nuovo Mondo: una volta progressivamente liberata dalla distorsione eurocentrica della storiografia moderna, si tratta appunto di reinquadrare (in modo da osservare le “aggregazioni che si formano e si disarticolano sul pianeta in differenti momenti della sua storia”) e di riconnettere (a partire anche dalle stesse fonti)  elementi tra loro eterogenei, sia in senso sincronico, che in senso diacronico. Per certi versi, il compito del poeta oggi non è dissimile da quello dello storico, posto che la domanda potrebbe essere “Abbiamo ancora bisogno della poesia?”: la tradizione è inalienabile rispetto a qualsiasi tentativo di scrittura, ma bisogna rifondare non solo l’idea di tradizione, ma anche la sua sostanza (cosa e come si va a reinquadrare, cosa e come si va a riconnettere); con questo bagaglio, lo sguardo del poeta sulla contemporaneità non potrà che essere più profondo e duraturo, e specialmente sarà in grado di superare la semplice categoria del “poetico”.

L’allegoria è uno dei modi del dire che permette di fare delle connessioni a focalizzazione indiretta, e allo stesso tempo, superando la forza dell’analogia, di stabilire delle inquadrature con oggetti multipli; permette, infatti, di attuare procedimenti simili a quelli che lo storico Carlo Ginzburg racconta nel primo dei saggi del libro Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, dal titolo Memoria e istanza. Su una coppa d’argento dorato (Anversa, 1530 circa). Partendo dall’acquisizione in campo iconologico delle “formule del phatos” di Aby Warburg, Ginzuburg ricostruisce, partendo dalle prime testimonianze scritte dell’incontro degli europei con il Nuovo Mondo, la vera storia che il fregio di rilievi di una Coppa d’argento dorato, conservata ad Anversa, racconta: oltre ad essere un manufatto-palinsesto di epoca gotica e rinascimentale, le sue scene rappresentano uomini, animali, piante, edifici del Nuovo Mondo, ma in una formula rinascimentale (e questo tra l’altro permette allo storico non solo di datare la coppa, ma di stabilirne il probabile esecutore e la finalità per cui fu realizzata), la quale trova nell’oggetto rappresentato la libertà di esprimere “sul piano del linguaggio gestuale l’intera gamma delle emozioni”, quelle che durante il Rinascimento non sarebbe stato conveniente, né possibile, esprimere; si tratta insomma di selvaggi rappresentati in una “lingua visiva” che si rifà principalmente alle incisioni Mantegna e Pollaiolo, ma anche a maestri tedeschi. L’analisi di un manufatto artistico porta infine lo storico a riflettere sui concetti di memoria culturale, sociale e individuale, che sempre si intrecciano e si mediano a vicenda: nel caso della Coppa, la memoria culturale da un lato viene usata per ridurre la distanza geografica e la novità, tanto da rendere famigliare il Nuovo Mondo, mentre dall’altro crea la distanza mitologica per coprire la ferocia della conquista europea. Quindi, ciò che la memoria individuale avvicina, la memoria sociale allontana.

Il mio avvicinamento alla sfera dell’allegoria non è avvenuto all’inizio, in realtà, in riferimento alla mia poesia, ma in ambito critico, durante la stesura della mia Tesi di Laurea sulla poesia del primo Zanzotto (A che valse? e Dietro il paesaggio), che avevo letto in un’ottica completamente figurata; questo mi aveva dunque permesso di concludere che nel mondo emblematico del giovane poeta la storia, e la sua violenza, fosse in realtà del tutto centrale nel suo orizzonte poetico, più ancora del paesaggio, che diventava sfondo degli elementi allegorici. Di questa storia, sia sociale che individuale, emergevano tutta la loro crudezza traumatica i due elementi cardine: la morte delle due sorelline, gemelle, e la furia della Seconda guerra mondiale. Proprio partendo dal concetto di trauma, mi è perciò più facile a questo punto ricostruire a posteriori e a ritroso come è concresciuta in me, più o meno coscientemente, l’esigenza di spostare il mio dire sulla storia, fino a pensare di poter interamente fare una poesia della storia. Se il primo fattore è riconducibile a un impegno critico, il secondo è riconducibile a un elemento individuale, ovvero il fatto che i miei due nonni parteciparono alla Prima guerra mondiale, e in particolare quello paterno combatté sul Monte Grappa, ai cui piedi risiedo. Quando ero piccola, la presenza in casa del nonno, che io ricordo buono ma ombroso, un po’ mi intimoriva, perché sapevo che aveva combattuto in guerra ed ero terrorizzata all’idea che avesse ucciso degli uomini. L’ombra traumatica che mio nonno aveva dentro di sé è riemersa in me, e alla mia coscienza come mia, solo due anni fa, quando ormai avevo già scritto più di un libro con una focalizzazione storica, ma stavo lavorando a Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, e poi avrei iniziato a scrivere le Canzoni all’Italia, a cui sto lavorando, dopo aver appunto trascorso un luglio caldissimo sul Carso nella zona del Basso Isonzo (tra l’altro proprio in occasione delle ricorrenze delle prime grandi “spallate”), luoghi dove tuttavia mio nonno non aveva combattuto, essendo un alpino. Ora, tornando a ciò che Ginzburg ha suggerito attraverso la Coppa di Anversa, e insieme anche ai procedimenti indicati da Gruzinski: come ho già scritto altrove, il trauma può essere considerato la causa scatenante della mia visione allegorica; non solo la Storia diventa allegoria della mia personale storia, ma i meccanismi della sua rappresentazione sono derivati da fonti di vario genere, e specialmente i fatti vengono tradotti con altri fatti, e le immagini emblematiche si fanno carico di esporre con diverse lingue visive dimensioni emotive diverse, spesso censurate dalla stessa cultura. Lo stile è solo la porzione di mondo che si è riusciti a intuire e memorizzare.


Nota biografica

Giovanna Frene, poeta e studiosa, è nata ad Asolo (TV) il 16 dicembre 1968; vive a Crespano del Grappa (TV), e talvolta altrove.

Ha pubblicato: Immagine di voce, Facchin 1999; Spostamento. Poemetto per la memoria, Lietocolle 2000 (Premio Montano, 2002); Datità, postfazione di A. Zanzotto, Manni 2001; Stato apparente, Lietocolle 2004; Sara Laughs, D’If 2007 (Premio Mazzacurati-Russo 2006); Il noto, il nuovo, con traduzione inglese, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca editore 2015. Ha curato il prosimetron Orfeo è morto. Lettere intorno un’amica uguale (Lietocolle 2002), di Federica Marte.

Ha pubblicato poesie in riviste italiane e straniere, come “Paragone”, “Il Verri”,

“Anterem”, “Poesia”, “Gradiva”, “Atelier”, “Italian Poetry Review” (New York, 2010), “Aufgabe” (New York, 2009); e più volte nei blog di “Nuovi Argomenti”, “Nazione Indiana”, “Atelier”, “Poesia 2.0” e nel blog di poesia della Rai.

È inclusa in varie antologie poetiche, tra cui: Nuovi Poeti italiani 6, a cura di G. Rosadini, Einaudi 2012; Poeti degli Anni Zero, a cura di V. Ostuni, Ponte Sisto 2011; New Italian Writing, a cura di J. Calahan e R. Palumbo Mosca, “Chicago Review”, 56:1, Spring 2011; Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Sossella Editore 2005.

È tradotta in antologie di poesia italiana statunitensi, argentine, inglesi e spagnole.

Come studiosa e critica, ha pubblicato saggi e recensioni in volumi e riviste.

Attualmente svolge un Dottorato in Storia della Lingua a Losanna, con il prof. Lorenzo Tomasin, occupandosi della lingua poetica di Metastasio.

 


[Auto-antologie prosegue con Giovanna Frene e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco TomadaVincenzo FrungilloFrancesco FilìaViola AmarelliEugenio LucreziRenata Morresi e Gianni Montieri. Una mia lettura critica dei testi poetici di Giovanna Frene si può leggere qui. B.C.]

Era la guerra

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di Fabio Chiusi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come ti avvero
nulla. Come ti posseggo
nel nostro cercarci oltre le frasi
è forse una gura che brilla
oltre noi, è forse una voglia
irraggiungibile, una veduta:
potresti domani avere pace?
Oppure non servirebbe a contenerla, materia
che si nutre di te; di questo, purtroppo, ho parlato
e non risponde una voce, non di questo scaffale
dispongo, me ne addoloro: non posso inverarlo.
Ma se siamo desiderio e preghiera,
se miserabili e possenti per tutta la potenza delle mani
appresa da chi con altre, più forti,
ha violato il possibile
lascia sia vero il riposo, vera
la benedizione.

Festival delle metropoli

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Il Festival delle Metropoli è un festival di narrazione urbana itinerante che attraverserà Milano nei 4 giorni di BookCity. Un viaggio alla scoperta della città, dei suoi luoghi e delle sue storie.
Saranno 6 itinerari (di cui i primi due dedicati alle scuole) in 4 giorni, da percorrere a piedi attraverso racconti, letture, incontri, performance, proiezioni, musiche.
Dal 16 al 19 novembre, scrittori, artisti, giornalisti saranno chiamati a raccontare una storia on the road insieme ai cittadini-narratori conosciuti con “Una strada una storia”, il tour di incontri che abbiamo realizzato presso associazioni, cortili e biblioteche dei quartieri milanesi. Al centro dei racconti ci saranno una via, un quartiere, un aneddoto, un ricordo – sia esso letterario, personale, storico, musicale, architettonico – che riguarda la città.
Per saperne ancora di più, visita il sito festivaldellemetropoli.org e la pagina Facebook.

Ecco i link peri iscriversi ai diversi itinerari (esclusi quelli dedicati alle scuole):

Venerdì 17 Novembre – h 15:45
Visioni milanesi
dal QT8 a Dergano, fra visioni urbane e cinematografiche
Mappa del trek:
https://goo.gl/h16WsN
Iscrizione
http://bit.ly/2zoMrnt

Sabato 18 Novembre – h 08:45
Fiere e mercati
Dal confine di Milano alla nuova centralità di CityLife
Mappa del trek:
https://goo.gl/fHFZGD
Iscrizione 
http://bit.ly/2zq8TwI

Sabato 18 Novembre – h 14:45
Una città per cantare
Da Bisceglie all’ex Ansaldo a passo di musica
Mappa del trek:
https://goo.gl/7DaG74
Iscrizione 
http://bit.ly/2heS117

Domenica 19 Novembre – h 08:45
L’invasione pacifica
La “calata degli barbari” dal parco Nord alle porte della città storica
Mappa del trek:
https://goo.gl/g64iyL
Iscrizione
http://bit.ly/2zoDvyH

La partecipazione è gratuita previa iscrizione.

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Festival delle Metropoli è un progetto di Trekking ItaliaSentieri_Metropolitani e Clinc che si articola in tre azioni: la prima, conclusa la scorsa settimana, è una raccolta di storie nei quartieri Niguarda, Padova, Corvetto, Giambellino, Lorenteggio, QT8 e Gallaratese; la seconda è un calendario di itinerari che attraverseranno questi quartieri durante Bookcity; la terza è la restituzione di tutte le storie raccolte sul sito e sull’app di Sentieri Metropolitani che idealmente diverranno un museo immateriale della memoria metropolitana.

Il progetto Festival delle Metropoli – le città narrate, è promosso dal Comune di Milano con il contributo di BookCityMMCOOP Lombardia e AKU.
Media partner: AbitareRadio Popolare

Proust contro Cocteau

1

[È uscito per Archinto Proust contro Cocteau di Claude Arnaud (trad. di Anna Morpugo); pubblico qualche estratto del capitolo intitolato L’incontro, ringraziando l’autore e l’editore. ot]

di Claude Arnaud

Cocteau non ha mai saputo dove avesse visto Proust per la prima volta. Era stato forse in rue de Bellechasse, a casa di Mme Daudet, vedova dell’autore delle Lettres de mon moulin? Nella residenza di parc Monceau dell’acquerellista Madeleine Lemaire, «la donna che ha creato il maggior numero di rose dopo Dio», dove s’incontrano pittori e aristocratici? In quella di Marie Scheikévitch che riunisce il fior fiore della cultura o, come sembra più probabile, da Mme Straus, vedova del compositore della Carmen?

A meno che sia successo sui divanetti rossi di Larue, il ristorante dove si cenava dopo uno spettacolo, prima di finire da chez Maxim’s…

I baffi neri già attraversavano il viso olivastro di Proust, tra il suo sguardo di gazzella e il suo sorriso stanco. Ma aveva i capelli a spazzola o la riga in mezzo? Era ancora glabro e pallido «come un uovo di Pasqua» o aveva già quella strana barba nera che lo faceva assomigliare alla salma del presidente Carnot? («La metteva e la levava con la rapidità dei fantasisti di provincia quando imitano gli uomini di Stato», dirà Cocteau.) Divenuto nel frattempo la memoria dell’ambiente che cominciava a descrivere, Proust sembrava occupare retrospettivamente con la sua presenza ogni salotto.

Si era alla fine del 1909 o agli inizi del 1910, questo perlomeno sembra certo. Cocteau aveva ventun anni, Proust quasi quaranta. L’incontro deve essere sembrato loro naturale quanto ovvio, visto che né l’uno né l’altro ha ritenuto utile descriverlo. Probabilmente le parole piene di ammirazione di Reynaldo Hahn, il musicista più amato dai salotti, e le confidenze di Lucien Daudet, figlio di Alphonse, che erano le persone più vicine a Proust, avevano dato a quest’ultimo l’impressione di conoscere già Cocteau: ne avevano tanto vantato la prontezza intellettuale, la disinvoltura sociale e il tatto nell’esercitare l’impertinenza!

Entrambi ammirati in egual misura, Hahn e Daudet figlio già trattano «il piccolo Marcel» con le attenzioni dovute al genio ancora lontano dall’essere tale, agli occhi di Parigi. Che importa se la musica del primo è già suonata ben oltre i confini dell’Europa e se l’eccentricità del secondo spinge regolarmente Proust a dirsi influenzato dal suo stile? Sono loro a celebrarlo in una città che continua a vedere in lui un semplice cronista mondano fatto per descrivere all’infinito le feste del conte di Montesquiou sul «Figaro», o uno di quei fortunati dilettanti assai più bravi a commentare l’opera degli altri che a produrne una propria.

Malgrado due anni prima Proust abbia annunciato pubblicamente di volersi dedicare alla scrittura e abbia pubblicato le poesie, i pastiches e ritratti dei Plaisirs et les jours, non è stato convincente. È da così tanto tempo che parla del suo work in progress – è al suo terzo tentativo – che la cerchia di Mme Cocteau arriva a dubitare dell’esistenza stessa di questa grande opera, vedendovi null’altro che un pretesto per interminabili telefonate e altre inopportune inchieste genealogiche. Quando non riduce Proust a uno snob che ostenta insopportabili pretese letterarie per potersi infiltrare nel loro mondo.

Fu probabilmente Lucien Daudet a presentargli Cocteau, dopo essersi fatto cantore precoce dei suoi talenti e avergli offerto quel po’ di fiducia in se stesso che ancora gli mancava. Ritenendo che il suo ambiente fosse migliore di quello di Proust, figlio di un’ebrea che grazie al matrimonio con un professore di medicina cattolico si era «ripulita» fino a un certo punto, Daudet aveva presentato il ragazzo che aveva undici anni meno di lui senza risparmiarsi. Meno complicato oltre che meno gaffeur, con un gusto più sicuro rispetto a Proust, che si accontenta di mobili orrendi e di un abbigliamento approssimativo, Cocteau era stato subito ricevuto nel salotto di sua madre. Per quanto il luogo fosse rimasto immutato dalla morte di Alphonse Daudet, la risonanza di Tartarin de Tarascon e del Petit Chose continuava ad attrarvi il fior fiore dei vecchi letterati, e il giovane Cocteau vi aveva presto ottenuto la propria investitura. Impaziente di diventare un personaggio, oltre che un poeta, si era messo a rivaleggiare con Lucien Daudet, quell’amico squisito dal quale prenderà l’abitudine di sottolineare le frasi alzando l’indice, come il San Giovanni Battista di Leonardo, quasi le sue visioni folgoranti gli venissero dal cielo.

Ora, Proust ha sempre apprezzato l’intelligenza sintetica, la sensibilità esacerbata e il discernimento letterario di «quel bel giovane con i capelli arricciati, inamidato, impomatato, imbellettato e incipriato» come lo descrive Jules Renard. Abbastanza acuto da influenzare le opinioni di un ambiente di cui padroneggia perfettamente gli ingranaggi, Daudet figlio, tuttavia, non si mette troppo in vista. Per quanto Proust lo incoraggi a scrivere, ritenendolo assai più dotato di sé, raramente avverte l’esigenza di pubblicare. Privo di ambizioni, a dispetto di un reale talento come pittore – allievo di Whistler, lascerà un eccellente ritratto di Montesquiou – sperpera i suoi doni come fosse un nababbo. Dal momento che ogni forma di impegno interiore minaccerebbe quel distacco aristocratico che egli intende opporre a tutto, questo giovane ricercato preferisce circondarsi di persone «che lo fanno dannare», salvo poi «morire di noia» quando non ha più speranza di incontrarne qualcuna. «Gli uomini che vedete sono eroi, ierofanti, semidèi, donne, fate, principesse, sante», aveva proclamato il Sâr Péladan ai visitatori del sesto salon della Rose-Croix del 1897: se la nascita avesse consentito a Lucien Daudet la fortuna di essere tra loro, sarebbe stato appagato. Vittima di quell’«eccesso di un gusto da proprietario terriero, magari dilettante del giardinaggio» di cui Proust, dopo averlo amato invano, parlerà con quel suo affetto perverso, si accontenta di reggere il leggiadro ombrellino dell’ottantaseienne Eugénie, vedova di Napoleone III…

Proust era appassionatamente andato in cerca del giovane Lucien Daudet, dei suoi grandi occhi castani e delle sue lunghe ciglia, del suo senso dell’assurdo e delle sue doti di imitatore. Comunicando con eguale snobismo masochista – «Quando ceno fuori amo stare a capotavola, è la prova che sono a casa di gente per bene», dice Daudet –, condividono incontenibili esplosioni di risa notturne, che li elettrizzano e li lasciano estenuati. Dal momento che Daudet desiderava solo i ragazzi del popolo, la frustrazione aveva finito per esaurire le attese di Proust, ma la complicità era sopravvissuta alla delusione.

[…]

Il clamore suscitato dai Ballets Russes funse da catalizzatore all’incontro. Scoprendo Nijinsky e Karsavina alla prova generale delle Danze polovesiane del principe Igor insieme a Lucien Daudet, Cocteau tesse ovunque le lodi di questa troupe giunta dalle steppe. Conquistato dall’eccitazione suscitata dai russi, che paragona all’elettricità che circondava l’affaire Dreyfus, Proust fa dei balletti di Djagilev, popolati di sultani e di etère, l’espressione ultima dei sogni orientali della sua galassia amicale. Con le sue arie da principe persiano, Cocteau conferisce un ultimo tocco asiatico al profilo da emiro di Daudet-il-piccolo o ai modi da «ragià vestito all’europea» che assume lo stesso Proust quando, sotto la barba nera, indossa i suoi sparati bianchi.

L’entusiasmo di Cocteau si volge dapprima a Nijinsky al quale Proust preferisce la Karsavina, che riaccompagna nella notte, «livido, educato e timido come un fantasma». Ma entrambi subiscono il fascino esercitato dalla personalità feudale di Djagilev, con le sue sonore risate, i suoi intrighi bizantini, i suoi mostruosi rancori. Baritono mancato e musicista abortito, l’impresario riesce a imporre a tutti la propria volontà con esplosioni di collera degne di Ivan il Terribile. Con un sadismo che sfocia nella comicità, Djagilev finisce per imporsi come un oggetto di scherzosa venerazione. 
Convinto com’è che ogni essere sia animato da un fuoco sacro, Proust continua a interpretare la Parigi di Haussmann alla luce degli antichi miti. Nelle duchesse del Faubourg, vede divinità mascherate degne della regina di Saba, e negli energumeni delle Halles nei quali a volte s’imbatte all’alba, vede lontani eredi di Ercole, con le loro clave insanguinate. Ma gli piace anche disfarsi di questi eccessi, come del ricordo della propria ossequiosità pubblica, dissezionando questo campionario umano con quella crudeltà tinta di derisione tipica della cultura omosessuale dell’epoca.

Con una buffoneria capace di «far piangere un pezzo di marmo», a detta del loro amico Jacques Porel, anche Cocteau si diverte a mettere in ridicolo i vertici della società che insieme incensano nei salotti. Una volta consumato il «delitto», il loro massimo piacere consiste nel risuscitare le vittime con imitazioni ancora più feroci, così da garantirsi un controllo «postumo» su questi modelli dilaganti, come farà Proust trasformandoli in metafore letterarie superiori. A meno che non sia Lucien Daudet, che imita il suo amico Marcel in modo esemplare, a contraffare a sua volta quest’ultimo quando imita Djagilev…

Proust agiva di fronte a un nuovo interlocutore come di fronte a un estraneo, a detta di Lucien Daudet. Si sforzava di capirlo, poi si metteva a parlare la sua lingua, per evitare di umiliarlo. Dal momento che questa lingua in generale era più rozza della sua, imparava presto a padroneggiarla. Ma Cocteau si avvale del suo stesso genere di idiomi e le sue espressioni sorprendenti lo affascinano. La sua «conversazione piena di trovate» riesce a scatenare quelle risate che lui trattiene con la mano, prima di imbrattarsene la barba, scoppiando a ridere come «dietro il ventaglio di una donna», Cocteau dixit. Questi momenti di ilarità lo aiutano ad attraversare la notte, unico luogo ormai che abita con un piacere garantito, quando non lo riportano ai giorni in cui credeva ancora nella vita. Giudicando Cocteau «intelligente e dotato in modo davvero notevole», vanta a tutti l’estensione dei suoi doni e la presa dei suoi occhi «ammalianti». Non sono così numerosi, gli scrittori divertenti; Proust e Cocteau ebbero subito la fortuna di suscitare l’uno nell’altro il riso fino alle lacrime.

[…]

 

OT GALLERY (una retrospettiva # 2)

0

MOSTRE TEMPORANEE

 

a cura di Massimiliano Manganelli

 

La stanza è interamente occupata da un enorme lavabo nel quale scorre continuamente l’acqua, da un rubinetto altrettanto enorme. Si esce solo attraverso lo scarico.

Dolore minimo

2

di Giovanna Cristina Vivinetto

 

La prima perdita furono le mani.
Mi lasciò il tocco ingenuo
che si addentrava nelle cose, le scopriva
con piglio bambino – le plasmava.
Erano mani che non sapevano
ritrarsi: mani di dodici anni,
mani di figli che tendono al cono
di luce – che non sanno ancora
giungersi in preghiera.
Mani profonde – come laghi
in cui nessuno verrebbe a cercare,
mani silenti come vecchi scrigni
chiusi – mani inviolate.

La prima scoperta furono le mani.
Ricevetti un tocco adulto che sa
esattamente dove posarsi – mani
ampie e concave di una madre
che si accosta alla soglia ad aspettare;
mani di legno e di fiori
di ciliegio – mani che rinascono.
Mani che sanno aggrapparsi anche
all’esatta consistenza del nulla.

***

La seconda perdita fu la luce.
La malattia mi tolse la vista
dei campi abbacinati dal sole,
la trama arsa e viva dei litorali
siciliani dei miei tredici anni.
Passai quegli anni tra i fili
di panni stesi divorati dal sole,
vasi sbriciolati di terracotta
dove steli di basilico e lavanda
si inerpicavano verso la linea
del cielo – quasi a raggiungerla,
a toccarla. La luce era tutto.

La seconda scoperta fu la luce.
Non la luce che accende i terrazzi
né quella che assottiglia le strisce
di costa, ma la luce delle case
al tramonto – che si mischia all’ombra,
la luce setacciata dall’intreccio
dei rami e quella che si schiarisce
a fatica dopo un temporale
– dopo un grave malanno.
Conquistai la luce intatta dei corpi
vergini – delle fonti d’acqua
perenni che nessuno sa.

 

***

La terza perdita fu il perdono.
Avrei voluto scusarmi per i toni
accesi verso il tuo non comprendere,
la rara gentilezza dei miei
quattordici anni quando parlavi
senza premesse. Ma la colpa
non era di nessuno: non era tua
che mi indicavi il corpo e mi dicevi
di stare attenta, che non sarebbe stato
facile – non era mia che non riuscivo
a perdonare il tuo insinuarti
maternamente tra pelle e nervi
a scovare tutte le incertezze, gli stalli
che a quel tempo non avevo.

La terza scoperta fu il perdono.
Quando fui grande abbastanza
per capire cosa volesse dire
essere madre, un perdono tondo
e commosso provai per te, e provai
per le altre donne-bambine come me
e lo provai per me, che tenevo
fino a quel punto il filo rosso dell’infanzia
e da un giorno all’altro, adultamente,
non tenevo più.

 

*Le tre poesie sono tratte dal libro Dolore minimo in uscita il prossimo aprile nella collana Lyra giovani (diretta da Franco Buffoni) per l’editore Interlinea

 

Suttaterra – Orazio Labbate

1

SUTTATERRA

Estratto dal nuovo romanzo di Orazio Labbate

(Tunué Edizioni, novembre 2017)

II

Gemevano le alte foglie del campo di granturco mentre il vento le sfregava come se dovessero scintillare per la nascita di un fuoco. Nelle campagne di Milton le magie si consumavano da sempre, sullo sfondo di sempre eguali e indifferenti cosmi. La casa dei Buscemi, squallida eppure maestosa, in un singolare stile vittoriano, si sollevava su due piani. Nerastra e beffarda, innalzava i suoi mattoni scuri arrivando fin quasi ad alterare il confine delle nuvole. L’edificio che le faceva da contraltare, al di là del loro campo, pareva invece cambiare densità al crepuscolo. Era una bianca e lignea chiesa, all’origine metodista, sulla quale risaltava un tetto grigio scuro e screziato, come sopravvissuto a un incendio, da cui svettava uno stretto campanile assommitato da una nera croce di ferro. Quando il sole tramontava, il biancore della facciata della chiesa veniva ferito da una luce che la faceva simile a pelle umana ustionata, arrostita. Scampanava, la struttura religiosa: l’officio apparteneva a Dale Murray, pastore di antiche origini irlandesi, grasso e altissimo, con una manciata di peli punicei sulla testa, i cui occhi verdicci erano gonfi come nodi di un albero marcio. Contava l’uomo settant’anni di vita. Al rintocco della melodia, quando la campana veniva vibrata attraverso le sue mani robuste e ulcerate, si scagliava la liturgia religiosa dei venti e dei verbi. Il suono si abbatteva nelle ampie stanze dei Buscemi. Faceva fischiare le croci appese nel soggiorno, rigonfiava le pareti e scollava la carta da parati ricamata di temi romantici e poi sbatteva sulla grande foto di famiglia incorniciata. Ogni sera Dale Murray soleva conversare a distanza col predicatore Razziddu Buscemi, affinché quest’ultimo sempre si ricordasse di sfaldare la ragione nel suo sonno: sfasciare le impalcature celesti, scannare gli agnelli sacri belanti tra le polveri del Sinai, svestire il figlio di Dio. Abbandonata la campana, il pastore imboccava un megafono e rivolgendosi al padre di Giuseppe cominciava a vociare: “Razziddu! Razziddu! Colui che hanno inchiodato è l’uomo della croce: il Signore dei Puci vivente! Allegro guardò coloro che gli fecero violenza. Egli sapeva che siamo nati ciechi. Egli aveva le nostre facce e altre ne esigerà! Confessatevi! Rendetegli la carne! Che il fuoco dello Spirito Santo riduca a spoglie i vostri cuori immondi e vi protegga!”.

Prima che la sera violasse l’arida strada verso il campo di granturco e i passeri divenissero corvi con la tenebra, il robusto prete concludeva il suo salmo. Così dal campanile, prendendo a poco a poco aria sufficiente, e mentre slargava la bocca tirando fuori i denti dal becco dello strumento, il pastore faceva un passo in avanti e si palesava agli occhi dell’avvocato fattosi predicatore.

“Giuseppe, Giuseppe…”, diceva quello al figlio. “Sei l’annunciatore. Hai sentito? Dobbiamo affrettarci! Con il volto lattescente, il Cristo oscilla il suo riflesso su di noi, come un demone mirabolante. Ci riguarda le anime, il Figlio di Dio, attraverso lo Spirito Santo. Tese le sue membra sulla croce e poi le distese per incatenarsi. Perciò, bada, è gobbo. Il mio Cristo di Butera, il Signore dei Puci, avresti dovuto vederlo, vasapacchio schifoso! Aveva oscure stelle sopra il suo mantello blu e clamoroso avvelenerebbe chiunque non sia pronto a sfuggire dal suo lavacro. Lo incendiai, sai, quel mostro che infestava Butera. Ma a nulla valse. Ascoltami! Solo la Madre può trascinare in basso la connessione delle sue ossa appuntite!”, così farneticava furiosamente l’anziano al figlio mentre figgeva oltre la finestra della sua camera da letto, con l’indice e il medio, il gran buio incombente sul campo. Giuseppe sedeva dolente sul giaciglio di Razziddu ché il padre gli stritolava frattanto il braccio, e il giovane poteva recitare solo scongiuri e rimescolare a voce bassa paroline da ventriloquo: “Padre stai parlando della stessa Signora che riposa sui muri della mia stanza? Padre… come devo procedere nel salvarmi?”. “Come osi chiedermelo? Non è tempo, maledetto! Non è tempo… siamo spiriti disorientati. Viviamo nell’imminenza degli scandali del Figlio e della Madre”, rispondeva Razziddu assaporando qualcosa nell’aria, con gli occhi che saettavano da sinistra a destra, rievocando immagini distorte della sua giovinezza sognata. Poi, quando si faceva notte, da quel fondo di buio definitivo che assimila noi tutti, lo lasciava finalmente in pace e per entrambi arrivava il momento del sonno, ma nelle loro camere c’era un castigo immanifesto.

La stanza di Giuseppe aveva le pareti di gesso bianco prive d’ogni ornamento. Si stagliava soltanto in capo allo squallido lettino un poster mal stampato, coi colori tutti sgranati, della patrona di Gela, la Madonna dell’Alemanna. Lungo un modesto tavolo in legno d’acero riposavano la misera plastica di un rosario mariano e un santino, anch’esso raffigurante la Madonna gelese. Una Bibbia invece sembrava fluttuare ché si trovava al limite dello spigolo di un marcio comodino attaccato al giaciglio. Dal tavolo, nottetempo, il ragazzo sollevava una candela, e subito si rischiarava il poster dell’Immacolata.

“Guarda verso l’alto o ripiega lo sguardo al Cristo infante?”, sussurrava Giuseppe a un tempo estasiato e terrorizzato da quella truce donna di Dio. Poi, più vicino al volto di carne scura, s’accertava che la Madre di Cristo non avesse denti aguzzi e nella testa non abitassero corna. Nel continuo volgere del mondo notturno sentiva parlare nel sonno il padre. Allora si dirigeva a piccoli passi al cospetto del grande letto matrimoniale, ai cui piedi stava aperta, sventolando, una copia dello Uniform Commercial Code. Una camera che mai accoglieva la madre Rosa, la quale a tali ore era solita girare ossessivamente per tutta l’abitazione, come una strega ammattita che infesta le case diroccate.

“Mi trascina lungo il deserto. Indossa un nero cappello. Il capo soffre la croce. Sanguina. Ha la faccia di sua madre. Sotto la testa ci sono… ci sono… spine della sacra corona. La faccia della Madre… ride. Le guance si arricciano all’insù fino alle orecchie. Tira a sé il mio piede. Si gira…”, borbottava cose del genere Razziddu composto nel letto, e di tanto in tanto spalancava gli occhi, ma in realtà continuava a dormire. Il vento che penetrava dagli interstizi delle larghe finestre del corridoio suonava come un miagolio. La camera del vecchio era, in quel buio infinito, un grosso mare in cui il giovane si sentiva annegare. Era già nel sangue di Razziddu Buscemi l’incominciamento della mortificazione del figlio. Lo aveva allevato nell’odio contro la religione del Signore, ma col tempo il vecchio si era istupidito e incattivito, si era fatto bilioso e poi nuovamente religioso, bigotto, posseduto da una fede oscura che lo portava addirittura a predicare in giro per Milton: e ora, quel figlio cresciuto nella diffidenza per gl’idoli, lo nutriva invece perfidamente con i suoi freschi esorcismi mariani. Il legno laccato che sfavillava a contatto con la luce della luna incorniciava il giaciglio dell’avvocato fattosi predicatore, adornato di un Cristo bambino in plastica, ciondolante al muro. Sul mobile della grande specchiera campeggiavano parecchie foto famigliari intorno a una, più grande: nell’argento annerito della cornice lui, il figlio e la moglie si stringevano un anno prima in occasione di una lontana festa.

Razziddu fissava l’obiettivo. Era vestito di un lucido completo nero interrotto da un paio di rossi stivali da cowboy. I baffi bianchi dell’uomo salivano ritti alle occhiaie come a sorreggere le orbite spente di umanità. A braccetto, la moglie Rosa sulla quale ricadeva un abito in misera stoffa a tema floreale: vecchia larva denutrita dalla faccia allo stomaco, quasi incassatosi a comprimere le costole tanto era magra. Della sua fresca bellezza giovanile era rimasta in foto solo una lievissima ricordanza, rintracciabile nell’ologramma che brillava nei ghiacci immensi dei suoi occhi blu. In disparte ma in piedi, alla destra del padre, Giuseppe sfidava la sembianza ordinata di Razziddu indossando un giubbotto in pelle su cui, nel lato sinistro del petto, sporgeva un simbolo ricamato nella forma di una croce di falsi brillanti. Poi una maglietta bianca sulla quale era stampata l’icona di una cantante dai capelli biondo ossigenato, il volto che simulava beffardamente l’estasi di una santa; portava infine un paio di stivali di cuoio la cui punta d’argento scintillava. I jeans di lui si strappavano alle ginocchia; i capelli invece erano tirati all’indietro e sorretti da una massa di gelatina scintillante.

Quando il padre nel sonno smetteva di parlare e si acquietava, dritto e rigido, le mascelle tirate, il figlio ogni volta sperava che fosse morto. E ogni volta Razziddu Buscemi alzava e sgonfiava il mantice dei polmoni. Una volta destatosi la punizione avrebbe avuto di nuovo inizio. A volte, nella notte, il giovane prendeva una torcia elettrica e usciva sotto la luce di cenere della luna, per andare a rifugiarsi dentro la grossa cuccia di Marty, il loro husky. In compagnia della bestia, in mezzo a quel tepore penetrante che si trasferisce all’uomo quando un animale lo compatisce, conversava col cane schiarendogli il muso con la torcia. “Dimmi, quando arriverà l’Angelo a sterminare papà?”, diceva alle fauci dell’animale che nel chiarore artificiale non comprendeva e invece abbaiava come a mendicare altri alfabeti. “Se non muore, allora preferirei morire a mia volta, piuttosto che ritornare dalla Madonna.” Con la pronuncia di quel nome, sgravatosi il cielo del fardello delle tenebre e annunciando l’alba, ecco comparire sulla soglia di casa Razziddu.

“Dove sei figliolo? È tempo di pregare! Vieni qui, picciddu mio!”, diceva ad alta voce mentre il gelo di quell’ora pareva cementare il suo fiato. Ogni volta il padre lo stanava rannicchiato nella cuccia, facendosi luce con una candela sacramentale che lo rendeva pallido come un Re Magio alla vista del figlio di Dio. “No. Ti prego. No. Non voglio!”, diceva Giuseppe e il cane ringhiava in direzione di Razziddu e verso ciò che presentiva attorno alle forme dell’uomo. Fanno così gli animali quando sanno dei demoni, epperò sfugge loro la forza del simbolo per scacciarli, giacché non possono reggere nessuna cosa. Zampe hanno e polvere di zampe offriranno al Diavolo. Lo tirava fuori per i capelli e il ragazzo si rotolava come bestiame avviato al mattatoio, e il padre allora si voltava ridendo e raschiava quella terra trascinandovi il figlio.

Gli stivali, indossati sulla camicia da notte, battevano sulle pietre che punteggiavano il cortile come gli zoccoli del Diavolo. “Padre perché? Perché?”, e intanto tossiva ché la bocca aperta veniva a riempirsi della terra che Razziddu camminando rialzava in spire polverose. Alle soglie del portico sollevava in braccio Giuseppe. Poi con ferocia gli strappava il pigiama di flanella di dosso e nudo lo genufletteva dinanzi all’edicola votiva scavata sulla sinistra della porta d’ingresso della casa. L’edicola conteneva una Madonna dell’Alemanna in porcellana su cui Razziddu aveva sottolineato più volte le occhiaie con un pennarello rosso, a significare lacrime di sangue. “Prega, adesso, che Lei ti accolga, come ha fatto il figlio. Fatti accettare. Prega. Dille che puoi ficcarti nel suo grembo”, diceva il padre a Giuseppe che si dibatteva. E ancora Razziddu diceva: “Ripeti questo: Ave Maria, colma di grazia, che il Signore morda il tuo seno e da esso io mi possa allattare finché nutrito del tuo latte e del tuo sangue io acceda al regno più radioso. Amen. Ripeti questo, maledetto!”.

E non si placava finché Giuseppe non ripeteva. Poi c’era da scendere al rifugio, un buco nel terreno con una rozza scala scavata nella terra, che si apriva in una soffocante stanza di cemento, realizzato da Razziddu paventando l’apocalisse nucleare. Lì, nella camera sotterranea, si trovava un minuscolo altare su cui spiccava un’ulteriore statua della Vergine. Le pareti erano dipinte di corna che riempivano, piccole, minuscole, grandi, grosse, la faccia della Madonna dell’Alemanna.

Nel contempo, in quella caverna stretta dove si trovavano pochi scaffali colmi di taniche d’acqua e scatolette di carne secca, bambolotti col sangue disegnato sulla fronte a pennarello imitavano la figura di Gesù con la corona di spine.

Diceva il padre: “I nostri corpi sono assemblee. Chiudi gli occhi e raccogli le tenebre per poi espellerle nel ventre della Donna”. Mentre il figlio a occhi chiusi piangeva, le lacrime baluginavano al tocco della luce della candela del padre e cadevano sul pavimento in lamiera, componendo vertici di triangoli sulla zigrinatura.

Quei giorni avvelenati continuavano a trascorrere anno dopo anno, senza che mai giungesse alcunché a lavarne il sangue. Anzi si rinnovavano persino nel regno conchiuso di Dio quando, durante la messa domenicale officiata dal pastore Murray, la Saint Mary’s accoglieva anche i sermoni di Razziddu Buscemi. Lassù, nei pressi del tabernacolo, reggendo il leggio svestiva i panni di avvocato della contea e gridava, come invasato: “Sono ormai un mucchio di ossa indecifrabili i nostri corpi. Cosa aspettate, cari fratelli? Orsù, cercate di erigere nelle vostre case la soluzione perché dappertutto i morti ci stanno accoltellando le carni. Qui ad avere un coltello carne ce n’è. Ognuno di noi cuoce il figlio di Dio dentro di sé. Dovete capire come interpretarlo e grazie a chi. Ripetete con me: Sì! Sì! Lo volete? Sì! Sì! Sacrificherete? Sì! Sì!”. I fedeli all’inizio lo scrutavano perplessi, ma dopo qualche anno avevano cominciato a farci l’abitudine e a gridare con lui “Sì! Sì! Osanna!” facendogli brillare gli occhi di scintille porporine.

La Saint Mary’s era povera di finimenti. Sedie e sedili, null’altro. La riempivano di identità le persone. Contadini magri. A volte le loro bestie. Donne grassocce. Bambini tenuti a stecchetto. Dalla sommità del campanile cadevano e superavano le vetrate gli astri, ridotti a nervi sottili. Preso poi il posto di Razziddu, Dale Murray ultimava il rito. Imboccava le ostie alle fauci di quella platea, di quella gente di Milton che si incamminava compatta verso le sue mani che grondavano sudore stantio.

Durante una di quelle sere di ritorno da messa, a Giuseppe, giunto al culmine del suo tormento, venne l’idea di dedicarsi alla dominazione della morte. Così, pensò, avrebbe forse potuto alleviare il dolore irreligioso della sua vita. Aveva ventisette anni, tempi giusti per divenire impresario di pompe funebri. Quando lo annunciò, nel padre sopraggiunse la collera come se fosse stato seminato olio di fuoco in mezzo al suo cuore di grano avariato. Così Razziddu percosse Giuseppe. Lo fece con la cinghia, nel punto stesso in cui gli fu data la notizia, al centro del campo di granturco, durante la raccolta estiva. Il nerbo e la fibbia incisero il petto ignudo del figlio. Gli scavarono pure la pelle del volto, mentre si torceva all’insù la carne della cinghia assieme alla carne del ragazzo. Da lì venne il taglio che porta Giuseppe ora sotto i soli. Razziddu alla fine gli sputò sulle ferite, a sigillare col disprezzo la rivelazione di avere in casa un futuro beccamorto.

Ma quegli anni, o dannose cerimonie, si mostrarono in parte buoni al ragazzo. Nel lavoro trovò consolazione, e conquistò inoltre l’amore. In un anno di lavoro incessante aveva fondato la Buscemi’s Funeral Home: l’ufficio era nel soggiorno, il garage era usato per costruire e levigare le bare, mentre la camera per l’imbalsamazione aveva dovuto metterla in cantina, giacché il padre gli aveva proibito l’uso del rifugio antiatomico. Un anno ancora dopo, l’agenzia di pompe funebri poteva dirsi ben avviata, se non fiorente. Fu allora che una donna dalla chioma chiara e arruffata sbucò un giorno dalla fitta piantagione. Correva come se una bufera stesse per travolgerla da un momento all’altro ed era ricoperta, soltanto lei, di una luce lunare vagolante. L’astro non irradiava più, se non dintorno alla donna, che si avvicinava come fuoco opalino preparato dalle sante iscrizioni. Santa era la carne, e ricapitolata la pelle di lei smagliava. Come informata di un prodigio essa veniva a sconvolgere le sue sorti: non c’era dubbio, per come abbatteva tremante le ombre della sera.

“Salve. Può aiutarmi?”, furono le parole tuttavia prosaiche che rivolse ansante a Giuseppe. “Che cosa le è successo, signorina?”, rispondeva il ragazzo pulendosi intanto le mani sulla sua nera giacca da beccamorto. Sfregava su di essa la formalina con cui aveva eternato i defunti. Quando la guardò negli occhi, il suo cuore ne fu accecato.

“Mi chiamo Maria, sono la figlia dei Boccadifuoco… Ho l’auto in panne, laggiù, lungo la strada”, diceva la ragazza riprendendo fiato il più possibile. Conosceva Giuseppe quel nome, proferito a volte da suo padre. Immigrati come lui, gelesi di origine. Lamentava il fatto che non venissero mai in chiesa. Neanche una volta però aveva parlato di una figlia.

“Io sono Giuseppe Buscemi… Piacere… piacere di conoscerla. Vuole… un bicchiere d’acqua? Venga, entriamo un attimo in ufficio, cioè in casa…”, rispondeva, scoprendosi a stringerle il polso. E mentre quella beveva e gli sorrideva, la fissava.

Intanto, le stelle cadevano a sassate, rigando il buio e ustionando il tetto della Saint Mary’s.

 

 

Orazio Labbate (Butera, 1985). Ha esordito nel 2014 con Lo Scuru (Tunué), a cui sono seguiti la Piccola enciclopedia dei mostri e i racconti di Stelle Ossee. Torna al romanzo con Suttaterra.

Per una ricezione politica del romanzo storico

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di Giorgio Mascitelli

La ricca produzione di romanzi storici, non raramente di buona qualità, ma soprattutto molto impegnati sul piano del rigore documentario nella ricostruzione dei soggetti trattati, sembra riflettere una marcata volontà di reazione a quello stato di cose descritto da Fredric Jameson in base al quale vivremmo in una nuova fase storica nella quale “siamo condannati a indagare la Storia per mezzo delle immagini e dei simulacri pop di quella storia, che come tale resta irraggiungibile per sempre” ( F.Jameson Postmodernismo, trad.it., Roma 2007, p.42). In questo senso è rappresentativo di un atteggiamento e di una preoccupazione diffusi quanto scrive William T. Vollmann, nell’introdurre le note esplicative delle fonti usate per il suo romanzo Europe central: “Questi racconti si fondano su fatti storici, ma con un rigore inferiore rispetto alla serie dei Seven dreams. Il mio fine, in questo caso, era quello di scrivere una serie di parabole su alcuni famosi, famigerati o anonimi attori morali europei osservati nei momenti di importanti decisioni. I personaggi che compaiono in questo libro sono, in gran parte, realmente esistiti. Ho svolto ricerche sulle loro biografie con tutta la cura di cui sono capace, ma la mia resta pur sempre un’opera di narrativa” ( op.cit., trad.it, Milano, 2010, p.963). In queste righe il lettore italiano non faticherà a trovare analogie con gli scrupoli, o forse sarebbe meglio dire le ossessioni, manzoniani nell’impostare il proprio rapporto con la materia storica, eppure il bisogno di Vollmann di fondare la validità letteraria delle sue parabole sul suo rigore storiografico non risponde solo alle esigenze di una poetica individuale. Infatti quanto scrive Vollmann esplicitamente è la premessa implicita di molti romanzi contemporanei e tale circostanza mi sembra che indichi innanzi tutto un tentativo di sottrarsi a quella condanna a cui si riferiva Jameson.

In realtà questa preoccupazione sembra essere una fisiologica presa di coscienza critica di alcuni dati del panorama culturale contemporaneo (  basti pensare a tutta  un’ambigua produzione di docufiction e di storie romanzate che dall’ambito del puro intrattenimento tendono progressivamente a presentarsi con pretese di impegno storico ed estetico) ed è naturalmente sempre positivo quando la letteratura mette in discussione i valori ideologici prevalenti. Sappiamo bene che il rapporto della cultura dominante del nostro tempo con la storia è una visione caleidoscopica in cui i fatti del passato non sono collocati lungo linee interpretative unitarie, ma appaiono come singole scenette, edificanti o meno, di una sorta di onnipresente wunderkammer, le quali, invece di allacciare fili di continuità con il passato, diventano optional iconografici per adornare un eterno presente immutabile nelle sue autorappresentazioni ed esternazioni ideologiche. E’ la cosiddetta condizione postmoderna, ma è anche in concreto l’esperienza che noi facciamo quotidianamente con il flusso di immagini e notizie con cui la rete ci inonda. Benché questa esperienza del flusso non sia affatto un elemento ineluttabile né una conseguenza neutrale dell’innovazione tecnologica, ma sia innanzi tutto un modo di percepirsi e rappresentarsi di una società in cui gli spazi di azione pubblica sono bloccati, la rete favorisce questa percezione della storia e della storicità come wunderkammer, in cui per così dire ogni avvenimento ha il suo link, in ragione delle sue caratteristiche comunicative; bisogna tuttavia aver chiaro che essa nasce per motivi storici, culturali e ideologici indipendenti dalle sviluppo del web.

A questo proposito è indicativo l’annuncio dello scrittore inglese Howard Jacobson, del quale mi capitò di occuparmi alcuni anni or sono ( cfr. G. Mascitelli Riscrivere la storia in Alfabeta2, 22/9/2013), della pubblicazione di una nuova versione de Il mercante di Venezia depurato da tutti gli elementi antisemiti. Questa ansia di riscrittura della storia, pur dettata da nobili motivi civili in questo caso, è un tipico esempio di come la costellazione culturale contemporanea abbia timore della propria storicità e avverta il bisogno di riorganizzare il passato e le sue opere entro i rassicuranti criteri del presente, fenomeno che a sua volta riflette una percezione della storia come repertorio da cui trarre ad hoc immagini ed exempla secondo le necessità delle circostanze.

D’altra parte la storia alla borsa dei valori epistemologici, e di conseguenza politici, attuali non gode esattamente di buona salute: il vento dell’utilitarismo e del neopositivismo che muove da quelle autentiche corazzate del sapere contemporaneo che sono le università statunitensi, le maggiori delle quali hanno ormai un bilancio superiore a quello dell’istruzione pubblica di un paese europeo di medie dimensioni, ha decretato che la conoscenza storica è inutile, improduttiva e non scientifica. Si potrà obiettare che non c’è nulla di nuovo in queste idee, che erano già tipiche dell’età vittoriana, ma sicuramente i mezzi economici, mediatici e tecnologici per realizzarle, ossia renderle credibili, oggi disponibili non si sono mai visti prima.

In un contesto di questo genere lo scrivere romanzi storici appare come una scelta in controtendenza rispetto alle coordinate della cultura contemporanea dominante ed è perciò comprensibile che molti scrittori fondino il loro lavoro sul rigore del dato storico. Questa ricerca di una piena attendibilità è ovviamente il sintomo della serietà di uno scrittore e come tale deve essere salutata, ma vi è un rischio che si nasconde in questo approccio. Il rischio è quello di pensare che l’evocazione meticolosa di un passato e la ricostruzione di una realtà storica siano di per sé garanzie sufficienti per fondare esteticamente il senso di un romanzo storico; si tratta però di un’illusione perché “il ‘reale’ in letteratura e nell’arte in genere, è piuttosto un ‘effetto di realtà’, che si basa largamente su convenzioni; tant’è vero che ciò che appare ‘realistico’ in un’epoca può non apparirlo in un’epoca successiva, o che l’effetto di realismo può essere raggiunto in modi molto diversi” (P.D’Angelo Le nevrosi di Manzoni, Bologna, 2013, p.202). Il romanzo storico, infatti, non può limitarsi a essere una storiografia diversamente raccontata, ma trova il suo significato più profondo nelle capacità di annodare fili tra un determinato passato e un determinato presente in nome di un’idea, individuale o collettiva in questo contesto non importa, di vita ed esperienza umane. In questo senso il romanzo storico trova il suo epicentro letterario e morale nella capacità di evocare implicitamente vite o mondi o società possibili e nel contempo di approcciarsi criticamente al presente tramite una vicenda passata, insomma per sintetizzare il suo carattere principale è quello di affrontare il passato a partire da una certa idea del presente.

Il panorama che ho sommariamente tratteggiato sopra non incide soltanto sugli autori, ma influenza fortemente anche il pubblico. Bisogna infatti tenere conto che il romanzo storico è tra tutti i sottogeneri letterari quello nel quale la ricezione gioca un ruolo molto forte nel determinare il significato di ogni opera. Il fatto che esso lavori su una materia di pubblico dominio, che ha una dimensione naturalmente collettiva, mette in gioco il rapporto dei lettori con essa più di quanto accade con testi di altro genere. In questo senso, semplificando un po’, si può affermare che la storia di questo genere ci ha consegnato varie forme di ricezione delle opere, a volte nemmeno ricercate programmaticamente dagli autori, le più importanti delle quali sono quelle che potremmo chiamare monumentale, comunitaria e politica.

Nella prima l’argomento storico favorisce la sacralizzazione di un passato come fondamento e limite invalicabile di una società. Il passato opera sul presente nel segno di un’esemplarità e di un’irripetibilità che rende però possibile la vita adesso, una vita migliore di solito, e che è fonte di giudizio sui fatti attuali. E’ l’antica historia magistra vitae dei Romani. Lo scrittore qui “usa la storia come mezzo contro la rassegnazione” (F.W.Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad.it, Milano 1983, p.17) e segue la fede nella capacità dell’umanità di creare, se non l’eterno, il duraturo. Vi è dichiaratamente un intento del genere nel romanzo di Vollmann citato prima, per esempio, ma la sua realizzazione non dipende che in minima parte dalla volontà e dalle capacità dello scrittore perché esso può essere realizzato solo in virtù di una postura culturale del pubblico disponibile ad accogliere e validare un simile fondamento.

La ricezione comunitaria, che è la più direttamente connessa con il Romanticismo, opera nel presente in nome di un passato negato o disatteso: essa raccoglie un’eredità non riscossa da parte di una comunità a partire dalla quale scuote o meglio contesta lo stato di cose presenti. In alcuni casi finisce con l’avere una funzione mitopoietica o, più precisamente, di invenzione della tradizione o, al contrario, una funzione critica di riscoperta della verità negata e, cosa più inquietante, talvolta entrambe le funzioni. In questo tipo di ricezione gioca un ruolo decisivo la cura storica dell’autore dell’opera nel rendere certi particolari e aspetti delle vicende trattate, ma è nel contempo quella che più dipende dagli orientamenti culturali e ideali del pubblico. Vale la pena di ricordare che in anni recenti è stato Spike Lee, con il film Miracolo a Sant’Anna ( 2008), a  riproporre un’opera che favorisse quasi programmaticamente una ricezione comunitaria per ricordare le pratiche discriminatorie subite dai soldati di colore della 92ma divisione Buffalo durante il secondo conflitto mondiale. Tuttavia le polemiche sorte con l‘ANPI e numerosi spettatori italiani in relazione al modo in cui la strage di Sant’Anna di Stazzema veniva rievocata nel film ( ossia come rappresaglia nazista per azioni partigiane e non come azione precedentemente pianificata) rivelano che il potenziale mitopoietico di un’opera storica tende potenzialmente a sollevare una sorta di conflitto delle ricezioni con altre comunità, anche se in questo caso specifico vi fu forse una mancanza di scrupolo nella stesura della sceneggiatura. Mi sembra  però certo che la ricezione comunitaria tende a favorire la percezione di un’identità comunitaria che si contrappone ad altre.

Caratteristica della ricezione politica è, invece, quella di trovare nel passato un paradigma e una matrice del presente. Il passato diventa un esempio non nel senso morale quanto come modello in negativo di un’operatività o di una logica del potere e in positivo dell’opposizione a esso. La distanza temporale è, per così dire, abolita perché c’è nel passato qualcosa che è ancora attivo e agisce. Lo sguardo del lettore trova allora una genealogia dello stato di cose presenti oppure una parte di passato che non passa perché coincide con il presente. Il testo allora interroga il lettore chiedendogli di prendere partito rispetto alla realtà che vive e di farsi carico della parte non pacificata della storia narrata.  Quando per esempio ne Il cimitero di Praga Eco o meglio l’agente segreto che è l’io narrante del romanzo racconta le circostanze dell’attentato mortale a Ippolito Nievo, tutta la serie di strane morti che costellano la vita pubblica italiane fino a oggi è riassunta esemplarmente senza bisogno di essere citata, almeno agli occhi di chi non si è ancora rassegnato all’impunità di queste morti.

Come dicevo sopra, tutte queste forme di ricezione dei romanzi storici sono in crisi a causa del contesto generale, ma è in particolare quella politica a subire maggiormente i danni di questa situazione. Ciò si spiega con la crisi della politica, dove con questa espressione non intendo la crisi in cui versa il ceto politico professionale in buona parte dei paesi occidentali, ma il processo di depoliticizzazione radicale che attraversa le nostre vite. Questo processo si configura come una perdita di cittadinanza o, se si preferisce, come un diventar passivi nell’esercizio delle nostre prerogative politiche a causa del predominio dell’economia. E’ quello che Daniele Giglioli ha chiamato stato di minorità e “che si riflette nel rimpianto evidente con cui gli autori anche i più giovani guardano alla storia spietata del Novecento” ( D.Giglioli, Stato di minorità, Roma-Bari, 2015, p.8). Il Novecento evidentemente viene visto con nostalgia perché era un tempo in cui era possibile, pur con mille contraddizioni, essere attivi.

Ora questa nostalgia, che fotografa d’altra parte una situazione oggettiva, cela in sé un rischio e una potenzialità positiva: quanto al rischio è abbastanza agevole indicarlo nelle serie difficoltà o addirittura incapacità a stabilire un rapporto con il presente, che non sia quello meramente nostalgico dettato dal desiderio di evadere da un mondo che per il resto sembra aver chiuso qualsiasi via di fuga possibile. Questo rischio è particolarmente alto perché insito innanzi tutto non nel lavoro degli scrittori, ma nella ricezione dei loro testi ( ecco perché insistevo tanto nell’affermare che le forme tradizionali di ricezione sono tutte in crisi) da parte del pubblico. Questo significa allora che gli scrittori si trovano a lavorare in condizioni di isolamento culturale e che possono contare solo sulle loro individualità per evitare lo scacco di un mancato rapporto con il presente, che a sua volta minaccia la pregnanza e il significato stesso delle opere.

La potenzialità positiva è che questa nostalgia possa evolvere in altri sentimenti più produttivi, anche magari rabbiosi, ma che consentano di giungere di nuovo a una critica del presente tramite quella del passato. Personalmente sono convinto che questo potrebbe essere un fattore culturalmente importante per un pubblico che   vive appunto una deriva come quella che ho evocato sopra. Arrivo ad affermare che il romanzo storico può svolgere un effetto positivo nell’innestare processi di presa di coscienza che contribuiscano a ripoliticizzare la cultura e quindi la società. E’ per questo che penso che la questione del romanzo storico sia oggi cruciale, anche se complessa.

Certo non mi nascondo che a fronte del fatto che gli autori si trovino oggi a operare in un crinale così pericoloso, disseminato di trappole postmoderne, l’unica contributo che posso portare è quello di un po’ di ottimismo della volontà. Sarà forse poco, ma dati i tempi che ci troviamo a vivere, non abbattersi, pur restando consapevoli della situazione, mi sembra un elemento prezioso e un incitamento sufficiente per proseguire.

( questo intervento è stato scritto e poi letto nell’ambito del convegno World Wide Web, tenutosi a Bolzano l’8-9 settembre scorsi, g.m.)

 

 

A Tula. Dialogo con un fantasma

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[È da poco uscito di Massimo Rizzante Il geografo e il viaggiatore. Lettere, dialoghi, saggi e una nota azzurra sull’opera di Italo Calvino e di Gianni Celati per Effigie. Ne pubblichiamo un capitolo, dedicato al dialogo con un morto illustre.]

 

di Massimo Rizzante

 

Città del Messico, febbraio 2015

 

Di stanza a Città del Messico. Abito nella Casa Refugio Chitlatépetl, tra Condesa e Hipódromo, quartieri sicuri e ricchi della capitale: basta uscire in strada e osservare il passo tranquillo dei cani di alto bordo e dei loro padroni.

Dopo qualche giorno decido di andare a Tula, l’antica capitale dei Toltechi, un popolo prudente e saggio, il cui regno durò cinque secoli e che fu sempre fedele a Quetzalcóatl, il celebre dio raffigurato come un serpente piumato.

Dopo un’ora e mezza di corriera mi trovo di fronte a una zona archeologica dominata da una grande piramide sopra la quale quattro enormi guerrieri in basalto, gli Atlanti, guardano l’orizzonte. Perché sono salito fin quassù? Per vedere gli Atlanti?

Non proprio. Sono qui per parlare con il fantasma di Italo Calvino.

Quante cose abbiamo perso nella vita

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di Pasquale Vitagliano

 

Le isole proprio non le capisco,
Con tutto quel mare intorno,
Sprecate nel silenzio del nostro sguardo.
Le montagne sopra a volte
Ti danno le spalle senza riserva
E il mare giace inamovibile.
I balconi sopraggiunti comunque qualcosa
Domandano in danno ai palazzi
Che autistici s’ergono senza espressione.
Anch’io silenzioso ascolto guardo
Questo quadro senza senso deluso
Per non aver trovato il modo di inserire
Il tempo certo che senza un linguaggio
Tutto sarebbe andato perso.

 

 

 

 

La perdita è il perno di questa teoria
Prima abbiamo cominciato con le persone
Perdite secche nemmeno i nomi ci hanno lasciato
Se non una mota di facce gesti azioni senza più paternità.

Poi abbiamo cominciato a perdere idee e concetti
E le parole sempre più peste nella testa troppe
Le cose che si fanno quando è una perdita di tempo
La memoria perché agiamo ora qui senza preavviso.

Alla fine finiamo per perdere le cose che portiamo
Le chiavi come le chiami quelle altre cose gli oggetti
Le cose che non trovi perché te le hanno tolte
Oppure perché le hai lasciate là dove sono sempre state.

 

 

 

 

Non lo puoi mettere a vista
Perché lo dovresti scrivere
E’ impossibile essere caravaggio
Dovresti leggere non guardare
Al massimo immaginare ed è difficile
Incantare col deretano derreiran dernier
Di-retro posteriore e non quella luce ignota
Sul cavallo oppure su un carnefice in ginocchio
E non c’è luce sulla sintassi se non questo
Bianco-nero cartaceo e piatto e immateriale insomma
partita persa pure con le figure e le immagini
Rimetto il futuro di questi versi nell’ideografia.

 

 

 

 

Non riesco ad adeguarmi ai twitter
Almeno se tratto versi anche se dicono
Che twitter ha riscoperto gli epigrammi.

Alla parola twitter preferisco la parola rutto
Perché proprio non riesco a cinguettare
Con le cose della vita che eruttano e tremano.

Rutto erutto tremo vibro non cinguetto
La lava la schiuma persino la salsa che ho dentro
Ventriloquo la più struggente delle suonate.

Spezzate le icone macchiate che spacciano
Facce di bimbi e pompini oscurate questi sfondi
Spastici e orrendi uccidete questo infernale vocio.

Spioni senza ideologia scemi simoniaci sfaldati
Senza alcuna voglia di parlare davvero salvati
Solo da una parola senza volto da un volto senza nome.

 

 

 

 

Che il presagio menta
Che menta il morso
Che menta il feto nascosto
Che menta il nome inaudito
Solo queste menzogne
Postulano il quieto vivere
Perché se il presagio vive
Vive sanguinante il rimorso
Vive succhiando l’ amarezza
Vive il soqquadro sovrano
Vive quello che resta dei corpi.

Benedette le vite dei coscritti
Piene di grazia e senza peccato.

 

 

 

L’anima perduta dei Circoli Arci

1

di Francesca Matteoni

Questo articolo è apparso lunedì 11 ottobre sul quotidiano online ReportPistoia, a cui si deve il titolo, che mi sembra appropriato. Lo rilancio su Nazione Indiana perché penso che possa essere utile a chiunque sia interessato al volontariato culturale, specialmente negli spazi Arci, sempre più in abbandono. Ho aggiunto link a eventi e blog locali per ulteriori informazioni – il link cui rimando per la Casa in Piazzetta è in realtà un archivio blog di un laboratorio tenutosi lì nel 2014 (fm).

Dopo i recenti fatti che hanno messo il Circolo delle Fornaci sotto riflettori di cui si farebbe volentieri a meno, ho pensato che era il momento di raccontare un’esperienza diversa in quel luogo di cui sono stata parte attiva. Ho pensato, soprattutto, che in un lungo periodo di crisi dell’Arci, che difetta riguardo l’offerta culturale e il dibattito politico, serve più che mai il racconto, perché i fatti non parlano da soli: anzi, se lasciate soli, cadono nell’oblio. No, non è ammissibile che Casa Pound provocatoriamente pretenda di fare raccolte di beneficenza in un luogo fondante della sinistra sociale. Non è nemmeno corretto etichettare tutta la beneficenza come buona: buono è ciò che aiuta l’emancipazione dalla povertà di ogni tipo – economica, spirituale, intellettuale; buona è la ricerca del benessere di tutti, aldilà di etnia, credo, classe, non ciò che crea dipendenza verso un gruppo ideologico che avversa concetti di uguaglianza, rimarca assurdi confini identitari e preferisce la paura alla conoscenza. Ma quando i luoghi restano vuoti e le formule non corrispondono alle pratiche reali, il minimo che può succedere è che altri subentrino, sostituendo i loro scopi ai valori che dovrebbero resistere oltre personalismi e lotte di potere. Sono cresciuta a un campo di distanza da dove sorge l’attuale circolo delle Fornaci. Allora c’era una pista irregolare di pattinaggio e una struttura messa su alla meglio per le iniziative estive del circolo, che si trovava in Via di Sant’Alessio. Una catapecchia in confronto all’edificio moderno che vediamo oggi, eppure quella catapecchia era piena di vita e si animava ancora di più durante la Festa dell’Unità, mentre le sale dell’attuale circolo fanno un po’ tristezza al confronto. Ho passato le estati dall’infanzia all’adolescenza in quella pista, a litigare, fare comunella, a rifugiarmi sotto la fornace per starmene in pace fra le sterpaglie e il casottino dei pattini di Tiberio, Artemio Balli, il  presidente della società di pattinaggio. Sono diventata più o meno adulta, ho lavorato e studiato all’estero, sono tornata. E al mio ritorno c’era il circolo fresco di inaugurazione.

Nell’autunno del 2013 ho iniziato a proporre iniziative, per poi entrare nel consiglio qualche mese dopo: era novembre ed eravamo reduci da una delle tragedie in mare che aveva colpito i profughi a Lampedusa. L’assessore alla sanità dell’isola aveva lanciato un appello per una raccolta fondi e pensai che potevamo raccoglierlo, con un concerto di solidarietà. C’era da una parte da rispondere a un’emergenza vera; dall’altra da fare musica – e se nei circoli non si fanno suonare i ragazzi, si contribuisce a togliere loro spazi, a rendere l’aria cattiva, a fermare quel meraviglioso senso di libertà e sovversione che vive nelle migliori esperienze musicali. Il punk rock è libertà, citando Kurt Cobain. I ragazzi devono poter suonare, anche stonando, andando fuori tempo, trovando il loro tempo. All’evento parteciparono vari gruppi – rap, punk, dream pop, rock. Tantissima gente. Iniziò la collaborazione con Lorenzo Fedi, il giovane fonico dell’Arci, che al circolo Garibaldi organizzava concerti, intercettando gruppi italiani ed europei e dando voce ai giovanissimi della provincia, molti dei quali frequentavano la sala prove della Casa in Piazzetta. Grazie all’aiuto di Lorenzo abbiamo dato vita a concerti, ospitando emergenti, gruppi di varia provenienza, perfino parigini, esperimenti giovanili, animando serate, pomeriggi e nel gennaio 2015 la Notte Rossa dell’Arci alle Fornaci.

Era bello ed era vero – esisteva un filo connettore con il Circolo Garibaldi e Casa in Piazzetta, memori che le Fornaci erano già la scena di un importante evento sociale legato alla musica: lo S’concerto di Quartiere, esperienza decennale di radicamento sul territorio e spazio per le espressioni giovanili. Poi, convinta che volere è potere, ho ideato alle Fornaci un festival di poesie, “Perché tale è la mia natura”, fratello minore del festival L’importanza di essere piccoli, promosso dall’Associazione Arci Sassiscritti di Porretta Terme, che da anni porta poeti e cantautori nei borghi dell’Appennino emiliano e che tra il 2014 e il 2017, durante la scorsa amministrazione, ha coinvolto anche il comune di Pistoia. Poeti di caratura nazionale, autofinanziamento, interazione con operatori e artisti locali. Quando dissi che volevo fare un festival di poesia alle Fornaci, qualcuno sgranò gli occhi, come se fossi pazza. Ma questo accade perché da una parte spesso la gente ignora che l’anima della poesia non è roba da salotto: sta nei margini, si nutre del contatto con il molteplice e il diverso; dall’altra ha un pregiudizio sciocco verso questo quartiere e dimentica che l’unico modo per cambiare le cose è osare avere una visione. Tantissimo lavoro e bellezza e, in negativo, molta solitudine nel fare. L’anno dopo il festival ha avuto la sua seconda edizione in due diversi momenti: uno primaverile gestito dai ragazzi di Piazzetta e aperto agli adolescenti con le loro poesie e la loro musica; e quello estivo, per cui grazie all’interessamento di Arci provinciale e la mediazione di alcuni del consiglio, arrivò anche un finanziamento per coprire le spese.

Illustrazione e grafica di Ginevra Ballati

Ad aggiungere impegno a maggio il circolo aveva ospitato la festa annuale di Nazione Indiana, realtà intellettuale della rete, il più antico dei blog letterari della cui redazione faccio parte, insieme a scrittori e poeti del nostro panorama. Incontri sull’educazione di genere, sull’Islam, sui libri di recente pubblicazione dal fumetto al reportage, al cinema e al video, coinvolgendo educatori e operatori del territorio come l’insegnante Pina Caporaso e Michele Galardini, direttore del festival Presente Italiano e attivo al circolo con un programma di cineforum. Ero tuttavia stanca e abbandonata a me stessa – non riuscivo più a reggere tutto da sola. Così dopo il festival me ne sono venuta via, salutando un’ultima buona iniziativa del Circolo – una festa Arcobaleno realizzata insieme ad Arcigay di Pistoia. Era il 2015 e io già mi stavo impegnando per il paese dove risiedo, Santomoro, collaborando con il Centro Sociale di cui ora sono la presidente. Venendo via ho portato con me alcune cose, adattandole e migliorandole: Zucche Vuote! i laboratori per bambini di Halloween, diventati qui una piccola tradizione; e la poesia, che si è trasformata in esperienza laboratoriale e itinerante nella Valle delle Buri, con il progetto Il Viaggio dell’Eroe. La musica è rimasta indietro, con mio grande rammarico: si agisce a seconda dello spazio in cui siamo, delle esigenze del territorio in cui ci muoviamo – cose che imparo quotidianamente in questo paese alle pendici dell’Appennino. Cosa mi resta? Amici, esperienza, il valore dell’impegno. E cosa vuol dire tutto questo? Prima di tutto che spesso c’è un modo errato di intendere il volontariato sociale. Questo significa seguire e attuare un immaginario vivo e sociale, non donare semplicemente un po’ del proprio tempo, ma far sì che ci sia posto per le idee, mettendosi in discussione perché sappiamo che il risultato sarà gratificante, che la gioia sta nel condividere. Secondo, che nei circoli non basta mettere vagamente a disposizione delle stanze. Bisogna accompagnare chi viene, servono figure di bravi mediatori, che creino legami con il mondo urbano, riconoscendo “chi ci è” da “chi ci fa”. Queste sono responsabilità precise che chiunque voglia attivarsi nell’Arci dovrebbe considerare: volontariato non significa fare alla meno, significa che c’è qualcosa che conta più dello stipendio nella nostra scala di valori e per cui, magari, lo stipendio è funzionale. Significa offrire luoghi per la diversità di espressione e comportarsi da buon ospite quando qualcuno arriva: farlo sentire a casa. Perché questo erano, talvolta ancora sono, i circoli: le case di tutti, la Casa del Popolo. Una casa dove la sinistra dovrebbe mostrare la sua faccia migliore e comunitaria. Le case se non si curano crollano. Le porte non vanno soltanto aperte – bisogna uscire a cercare l’altro, sempre, come scriveva il poeta Hölderlin, e infine invitarlo, lasciarlo entrare.

Il perturbante

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[Di seguito, un estratto del romanzo “Il perturbante”, Autori riuniti 2017, finalista e menzione speciale al Premio Calvino 2016]

di Giuseppe Imbrogno

Da due giorni si sono abbassate le temperature. L’inverno è arrivato, ha messo fine a un lungo autunno, tra un mese scarso sarà già primavera. È ancora tempo di saldi, ogni volta durano qualche giorno di più. Detesto la primavera, detesto l’estate. Tra un numero sufficiente di anni potrò finalmente vivere una lunga, unica stagione autunnale di saldi perenni.

È giovedì sera, sono in Corso Buenos Aires, non ho niente da fare, niente da comprare. Cammino lentamente, guardo le vetrine, guardo le persone, camminano sul marciapiede, attraversano la strada, entrano ed escono dai bar, dagli store d’abbigliamento. C’è molta gente sul marciapiede, bisogna stare attenti per non urtare qualcuno, esserne urtati, i negozi sono semivuoti. Due orientali mangiano anelli di calamaro fritti seduti al tavolo esterno di un bar, esposte all’ingresso ci sono le fotografie retroilluminate di alcune pietanze. Pizza capricciosa, lasagne, cotoletta alla milanese, rucola e pomodorini.

Arrivederci casa, addio.

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di Filippo De Matteis

Il fumo dei crolli iniziò a salirci negli occhi mentre prendevamo l’ultima curva, che avrebbe sepolto per sempre negli specchietti il profilo delle case e decapitato i grandi pini dentro una nuvola. Mi chiedesti di guidare più veloce, per non svenire.
Partivamo troppo presto, in quella vita. Sempre quando c’era ancora luce, così che le cose non si nascondessero attorno a noi. Volevamo che rimanessero e che la notte fosse solo l’epoca del viaggio e mai della partenza.
Neanche allora ci riuscì di programmare il nostro addio al buio. Di quello che ci avrebbe ferito, ci toccò ferirci.

Come il primo giorno del mondo. Un ritratto di Franco Ferrara

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Casa di Franco Ferrara e di sua moglie Raffaella, Settembre 2017
Casa di Franco Ferrara e di sua moglie Raffaella, Settembre 2017

 

di Giorgiomaria Cornelio

 

Sebbene ogni presenza oscilli nel vento breve di una foglia
E ogni parola disperda la propria luce
Nel letto deserto di un’assenza
E nel gelo di chi ha donato a tal punto
Da credere di non aver mai donato
Franco Ferrara, Questo intendevo dire

Incominciare, perciò, nell’osservanza della parola, facendo l’inventario delle carte in esilio. Insistere a far nascere la ferita del senso. Accertare, in anticipo, l’equivoco, l’inadeguatezza di ogni resoconto, e il filo d’oro del legare insieme i postumi del transito: “questa mia mano, che è della stessa terra della memoria*”. Franco Ferrara (16 marzo 1935 – 23 gennaio 2014) è stato poeta di versi “senza mendicherie di plauso o pitoccando governi, potentati, costanzesche adunanze d’osti, mimi, parolai, orchesse leste al calappio di con buche genitali, o lisciando elisiri di letterari menestrelli o cori di castrati”, e tanto basta a riparare la debile definizione di poesia come pura regione di circostanze: semmai l’enigma all’opera, il fuoco sopra ogni segno.

In una lettera all’editore a proposito della seconda edizione dello PseudoBaudelaire, Corrado Costa scrisse che per “il poeta non c’è nessuna biografia – a tutela della sua immagine.” Per Ferrara parliamo allora d’immemoriale, come se la definizione continuasse a ritrarsi, ad opporsi al certificato d’esistenza che lo volle, allo stesso tempo, docente, critico letterario, esploratore, fondatore di riviste letterarie ed autore televisivo. Prendendo poi a sbrecciare un poco la compagine dei resti, i “cinque continenti strappati al midollo dell’anima”, i quasi 40.000 volumi appigliati ovunque nella sua casa così irrecintata (avendo allora concentrato il nubifragio in unico auto-de-fé: esoterismo, alchimia, letteratura, religioni orientali…), il greto del testo reclama lo studio combinatorio, la vigilanza, il volgersi e il rivolgersi nell’altrove del viaggio e del deserto: non solo quello dell’Africa Sahariana, dove pure Franco Ferrara è stato nel corso delle sue spedizioni seguendo le piste carovaniere utilizzate dai Romani, ma anche quello scavato e innervato nel corpo delle adunanze, delle reminiscenze fossili, del silenzio che trattiene “l’alba di due eternità”, e custodisce il canto d’amore d’un violino (Imzad, Edizioni Ripostes, poemetto legato alla lingua parlata dai Tuareg dell’Haggar e Premio Gozzano nel 1989).

Ferrara fa del deserto la capitale della moltiplicazione dei due tempi, e del tempo una stagione del sangue: poesia è “allevare l’uragano sulla fronte della siccità”. Qui l’accadimento e la storia sono cause pendenti, e la destinazione del detto è la carie. Sicché da un capo all’altro dello scisma si edifica la galassia nel corpo dell’altro, e l’amore diventa minuta ricreazione del mondo: “Vorrei bruciare incensi di comete per la tua anima (…) e rapire la prima parola di Dio per fartene un nido” (Lettere a Natasha, edizioni Ripostes, 1986, lungo poema in forma di corrispondenza iniziata altrove, come originato senza origine). Qui, infine, la poesia fa luce prima dell’alba, e bisognerebbe ascoltare senza piegare le parole soltanto al sigillo dell’oracolo, ma riconoscere un’altezza che è precedente ad ogni altezza, cioè una formula per rifare il mondo (diciamo, noi ultimogeniti: per uscire dal “postmoderno”):

Mentre anche la natura si ripete, essendo ogni nuova primavera la stessa eterna
primavera (cioè la ripetizione della creazione), la « purezza » dell’uomo arcaico, dopo
l’abolizione periodica del tempo e il ricupero delle sue virtualità intatte, gli permette, alla
soglia di ogni « vita nuova », un’esistenza continua nell’eternità e quindi l’abolizione
definitiva, hic et nunc, del tempo profano. Le « possibilità » intatte della natura a ogni
primavera e le « possibilità » dell’uomo arcaico all’inizio di ogni nuovo anno non sono
quindi omologabili. La natura ritrova soltanto se stessa, mentre l’uomo arcaico ritrova la
possibilità di trascendere definitivamente il tempo e di vivere nell’eternità. Nella misura
in cui fallisce nel farlo, nella misura in-cui egli « pecca », cioè cade nell’esistenza «
storica », nel tempo, sciupa ogni anno questa possibilità. Però conserva la libertà di
abolire queste colpe, di cancellare il ricordo della sua « caduta nella storia » e di
tentare nuovamente una definitiva uscita dal tempo.
(Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno)

La prima pubblicazione di Ferrara, I pascoli della nostra mano, viene fatta risalire al 1960, e a questa fecero seguito, tra gli altri volumi, la “Storia della sorgente del tronco bianco”, traduzione da Tymoteusz Karpowicz come rivolgimento, divagazione, rinvio del senso ed invito a pensare il “testo” come estremità mutevole, da cui sempre si passa, e “Nella polvere d’oro d’una antica stanchezza: manomissioni e licenze” sempre su testi di Timoteusz Karpowicz e di Ursula Koziol.
A metà degli anni 90 Ferrara aveva iniziato a comporre un romanzo rimasto incompiuto, sua “dilettosa narranza”, dal titolo Ritorno all’Indie meridiane

ovvero
sulle vicende realissime e postreme
di Aliotto da Guienna
Lupo Goliante, Ghiandino Colapicco, Livriero di Vega
e Albarello Cometa
che le su dette
narrò.

Sempre continuando ad impietrire la parola, a farne una cera, un nido paretimologico che trattiene la densità dell’andare, cercando così non il governo di un’origine certa, ma lo spazio, la terra eletta del tappeto dove “le figure rovesciate si ricomporranno nel tessuto splendente, nell’atlante perfetto dei significati” (Cristina Campo), Ferrara ha rivolto la sua poesia oltre il letargo delle categorie interiori e del tempo presente: perché “mitologia è ontologia”, mattino di un altro giorno, conferenza sulla caligine, viaggio che non ha fine, canto:

“(…) E aver raccolto il deserto nel cavo della gola
Aver nutrito col sangue l’indifferenza delle pietre
Aver assunto la leggerezza della nebbia
Per confondere ciò che l’assenza ha lasciato
nei miei occhi
Aver piegato parole come ginocchia
Per colmare lo scarto esiguo tra due onde
Aver fissato parole di una solitudine nuda
Come un cuscino sgualcito dall’assenza
Aver scavato parole per alimentare le vene
e disciolto ogni vena per ricomporla in parola
e da labbra umane essere dissolto in suono.
Questo intendevo dire.”

 

 

*Tutte le citazioni sono versi di Franco Ferrara, laddove non indicato altrimenti

 

 

 

OT GALLERY (una retrospettiva # 1)

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a cura di Giulio Marzaioli

 

La OTgallery, sebbene non scavata nella roccia, è a tutti gli effetti una galleria. Inaugurata il 30 settembre 2014, la galleria, ideata e diretta da Giulio Marzaioli, è stata realizzata sul web (otgallery.org, attualmente off-line) con la collaborazione tecnica di Elisa Davoglio. Ospita una collezione permanente di 11 installazioni, a cura di Giulio Marzaioli, e 17 mostre temporanee curate (in ordine di allestimento) da: Massimiliano Manganelli, Andrea Raos, Alessandro Broggi, Alessandro De Francesco, Mariangela Guatteri, Damiano Abeni, Brunella Antomarini, Alessandra Greco, Andrea Inglese, Luigi Socci, Vincenzo Ostuni, Simona Menicocci, Maria Grazia Calandrone, Riccardo De Gennaro, Renata Morresi, Gian Maria Annovi, Giorgia Romagnoli. A tre anni dall’inaugurazione presentiamo una retrospettiva in 2 tappe (con cadenza settimanale) che ripercorrerà, a partire dall’allestimento della collezione permanente, il tracciato proposto, nell’auspicio di una nuova riapertura della galleria al grande pubblico.

La vergine Maria

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Di seguito, un racconto sul sesso, le aspettative e le prime volte.
Dal tuo terrazzo si vede casa mia” di Elvis Malaj, edito da Racconti Edizioni.

di Elvis Malaj

Maria aveva trascorso l’intera mattinata chiusa in camera, e dopo una lunga ricerca su internet aveva scoperto di essere ancora vergine.
L’una era passata da un pezzo quando girò la chiave per aprire la porta; chiamò subito Giuseppe, il suo ragazzo. Il giorno prima avevano litigato. A Giuseppe, Maria piaceva molto. Le mandava un sacco di messaggini sul cellulare, a volte qualche poesia. Quella mattina le aveva scritto solo: «Ciao, che fai? :)» – e solo perché se non le avesse scritto, la cosa sarebbe sembrata grave. Lei però non aveva risposto.
«Ti ho pensato tutto il giorno» fu una delle prime cose che le disse Giuseppe al telefono.
Maria prese il telefono e tornò in camera sua, non voleva che gli altri l’ascoltassero.

Come Rajoy mi fece diventare indipendentista

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di Mónica Flores

“Io non ho voglia di andare d’accordo,
ho voglia di andare, d’accordo?”
Caparezza

Questo mio testo nasce da una poesia scritta ieri con la rabbia provocata da una realtà assurdamente surreale. Ieri, nel bel mezzo della notte, mentre i miei pensieri erano oscuri quanto la selva di Dante, sputavo sulla carta del mio quaderno parole che nel futuro saranno ricordo.

Catalunya

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di Antonio Sparzani

(Nell’agosto 2009 pubblicai qui quattro post del genere diaristico sulla mia recente vacanza in Catalogna, terra che molto amo e nella quale mantengo vere amicizie. Dati i recenti avvenimenti, ripubblico qui, come testimonianza di amore e di dolore, un piccole collage del terzo e del quarto di quei post.)

Se esci dalla stessa porta [stavo parlando della cattedrale di Santa Maria del Mar] e guardi quello che prima non avevi visto tanta era l’ansia di entrare a vedere quella meraviglia che già lo sapevo che era tale l’avevo vista tante volte ma così sempre desidero fare nei posti rivedere le cose già viste che sono sempre diverse dal ricordo che ne conservo e hanno sempre cose nuove da dire e da mostrare ad esempio quel dettaglio lì del portale mai l’avevo notato se appunto esci ti trovi in una piazza che ha il nome di Fossar de les moreres come dire il fossato ma come ora saprete anche la fossa dei gelsi

Come della rosa

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di Teresa Fiore

Tiziana Rinaldi Castro Come della rosa Effigie edizioni, 2017, euro 19

La letteratura incentrata sull’esperienza degli Italiani all’estero ha una lunga, e spesso poco nota, storia, e al suo interno quella degli Italiani negli USA, e in particolare a New York, ricopre un ruolo importante, abbracciando storie antiche e nuove di partenza dall’Italia e di ricerca di uno spazio di vita in un altrove. Come della rosa di Tiziana Rinaldi Castro (Effigie, 2017) s’inserisce in questa variegata galassia letteraria in maniera del tutto originale. Scardinando la convenzionale storia della tensione tra “casa” e “nuovo mondo” propone un romanzo di case multiple e mondi sincretici che si sviluppano intorno a un’identità aggregativa, fatta di incontri, esplorazioni e di ricerca interiore. Bruna di Michele, soprannominata Lupo, lascia il Sud d’Italia per la Grande Mela negli anni Ottanta: il suo percorso di fotografa freelance e donna in lotta contro la dipendenza dall’alcol s’intreccia a quello del cubano Emiliano Westwood, narcotrafficante e fornitore d’armi alla guerriglia salvadoregna, mentre le loro vite s’intrecciano ai riti del culto yoruba guidati da Mama Adebambo, sacerdotessa del tempio di Harlem. Il loro itinerario, fatto di pena e guarigione, così come di rivelazioni e segreti, è anche un viaggio fisico, non solo attraverso le strade crude del sud del Bronx o della Brooklyn di quell’epoca, ma anche negli spazi sterminati del sudovest degli Stati Uniti e persino del Messico. Ma Come della rosa è soprattutto un viaggio attraverso miti, letteratura, arte e musica che si fanno lingua, per scoprirsi e capirsi attraverso le citazioni e la costante affabulazione.

 

Più che un romanzo fluviale, come è stato definito da Pier Luigi Razzano nelle pagine di Repubblica, l’ultimo libro di Tiziana Rinaldi Castro è un rizoma, direi. Il fiume parte da un punto e procede allontanandosene, mentre il rizoma è l’estensione sotterranea del fusto di una pianta che si sviluppa soprattutto in orizzontale, in molteplici direzioni, e gemina nuove piante. Questo concetto di natura botanica è ben in sintonia con un libro che vuole essere un roseto, come suggerisce la similitudine del titolo, nella sua inconsueta sintassi: la rosa – simbolo d’amore, amicizia, morte, terapia, iniziazione – qui regala tanto profumo quante spine. Ma ritorniamo all’altro concetto di natura botanica, il rizoma: per riprendere il significato attribuitogli da Deleuze e Guattari, che a loro volta lo riprendevano da Jung, il rizoma rappresenta un continuo flusso di energia creativa, anche se sotterranea e a volte non visibile, che non segue leggi gerarchiche né paradigmi antitetici, ma si muove, prospera e crea in senso plurimo. Il concetto di rizoma è per definizione legato alla creolizzazione, e mi è venuto in mente leggendo il romanzo di Tiziana Rinaldi Castro che, creola lei, non poteva che scrivere un romanzo creolo e rizomatico, appunto, tessendolo attraverso una scrittura addensante, cagliata, per usare un termine sciasciano. Le valli del Cilento che si associano alle strade della metropoli newyorkese, le frasi in dialetto campano di nonna Angiolina a cui fanno eco le battute in spagnolo cubano di Emiliano, le pozioni terapeutiche yoruba che convivono con il ricordo delle tradizioni cattolico-pagane del Meridione italiano. E poi gli infiniti richiami artistici e mitici senza confini che si fondono tra loro: da Edgar Allan Poe ad Antonio Machado e José Martí, passando per Parsifal e Dioniso fino a Miles Davis, dalle poesie di Garcia Lorca … a  quelle della nonna in Italia, mentre le massime di Mama, che chiede a Bruna ed Emiliano di raccontare e di raccontarsi per guarire, sono come le congas della narrazione, ne scandiscono il ritmo profondo.

 

In tanti cercano i parallelismi tra le storie del romanzo e la storia dell’autrice, che, originaria di Sala Consilina (Salerno), si è trasferita a New York nel 1984, e qui è diventata sacerdotessa yoruba nella comunità Lucumì. Ma è proprio nella trasposizione di un’esperienza in materia narrativa intrisa di letteratura e narrazione che va ricercato il senso di Come della rosa. Nella implicita biblioteca borgesianamente babelica del libro hanno uno spazio speciale i testi della tradizione americana, così cari alla scrittrice, e per certi versi motore del suo viaggio oltreoceano, frutto di letture giovanili rinvigorite da esperienze di vita negli USA, sia negli spazi urbani che in quelli aperti della natura, e dall’amore per il jazz. E seppur resti praticamente assente la tradizione letteraria italiana in questo romanzo scritto in italiano all’estero e pubblicato in Italia, il libro affronta e in maniera non convenzionale l’emigrazione, che per quanto scelta, pone sempre quesiti sul senso di appartenenza. Quando Emiliano incita Bruna a diventare sacerdotessa yoruba, lei rivela la sua esitazione: “forse dimentichi che appartengo a un’altra cultura.” E in un momento ancora più indicativo, Bruna, arrivata dall’Italia da pochi anni, si identifica con gli italoamericani – fenomeno raramente riscontrabile – quando Jean Michel Basquiat (sì, proprio lui) fa ridere a crepapelle Emiliano imitando Don Vito Genovese, e lei confessa: “Io li guardavo un po’ scucita, incerta se ridere con loro…. perplessa nel vedere la mia gente insultata.” Ma la titubanza rispetto al senso di distanza da una cultura non è affatto ricerca di purismo nella vicenda raccontata da Tiziana Rinaldi Castro; è semmai cauto e riverente avvicinamento nella propensione ad accogliere, ad aggregare appunto, perché il vero ritorno per chi parte è in effetti impossibile.

 

Ma proprio in questa sua ricerca esistenziale, Come della rosa, forse inconsapevolmente, s’inserisce nel corpus della letteratura degli italiani d’America – come il poeta di inizio secolo Emanuele Carnevali, “vagabondo  seminatore di parole da un buco della tasca”, per citare un suo famoso verso  – e anche nella ricca tradizione degli scrittori italoamericani come Kym Ragusa, autrice di The Skin Between Us: A Memoir of Race, Beauty and Belonging, incentrato sulla ricerca del passato siciliano per capire il presente di italoafroamericana, partendo dal rapporto con e tra le nonne, figure chiave anche nel romanzo di Tiziana Rinaldi Castro, che con scrittori come Ragusa s’incontra e pubblica saggi. Schivando con sensibile intelligenza il rischio della ricerca, talvolta improduttiva, dell’identità enico-culturale nel rapporto lineare tra terra di partenza e terra di approdo, l’autrice di Come della rosa predilige gli altrove che si incontrano e ci fanno loro tanto quanto noi li rendiamo nostri. Come la New York, creola e molteplice anche lei, vero teatro del tortuoso cammino spirituale dei protagonisti. Un luogo che Bruna “cammina” à la de Certeau, scardinando le norme di controllo del sistema. Sono tra le pagine più liriche del romanzo quelle sulle passeggiate per New York, al tempo stesso esplorazione di luoghi da documentare con la fotografia, scoperta di sé, medicina contro la dipendenza. E assumono un valore ancora più pregnante in questa fase storica di frenetico boom edilizio, il più intenso e aggressivo nella storia di una città che distrugge e crea costantemente, giorno e notte, perché non dorme. Come dice con sguardo perspicace la voce narrante del romanzo di Tiziana Rinaldi Castro: “È una prerogativa di questa città vedersi demolire dinanzi agli occhi il fondale di stagioni della vita: ospedali, chiese, scuole, cosa che altrove accadrebbe soltanto in ragione di una guerra o una calamità naturale e che qui fa dire già al ventenne: ‘Ai miei tempi lì c’era…’” E in questo senso, Come della rosa, è un documento e un omaggio a una New York di cui avere nostalgia, ma che la città stessa non dà il tempo di rimpiangere, se non attraverso la letteratura (e il cinema, e l’arte in generale). Tra i tanti “cammini” di una città che Bruna definisce “generosa”, ma con la quale in tanti hanno un rapporto di odio e amore per questa “cosa viva”, ci sono i passaggi sui ponti, luoghi simboli del collegamento. Bruna li scala, malgrado i divieti, anche di notte, per sentirli vibrare, per vibrare dentro, per da lì cogliere nuovi punti di vista sulla città con la sua macchina fotografica. È in questi ponti che si ritrova il senso del viaggio e della ricerca, intellettuale, emotiva, spirituale – umana – raccontato da Come della rosa, un ponte che per essere costruito distrugge qualcosa, che crea nel presente il futuro, legando il passato che già esiste, e che invita a cercare delicati equilibri tra terraferma, isole, correnti marine e venti. Come della vita.

4321 e il grado zero di Paul Auster

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di Francesca Fiorletta

Scrivendo di sé nei sei mesi che aveva impiegato per terminare il suo breve libro di centocinquantasette pagine Ferguson si era ritrovato dentro un nuovo rapporto con se stesso. Sentiva un legame più intimo con i suoi sentimenti e allo stesso tempo si sentiva più lontano, quasi distaccato, indifferente, come se durante la stesura del libro fosse diventato paradossalmente una persona più calda e più fredda, più calda perché si era aperto e aveva mostrato le sue viscere al mondo, più fredda perché poteva guardare quelle viscere come se appartenessero a un altro, un estraneo, uno senza nome, e non sapeva dire se quella nuova relazione col suo io di scrittore fosse positiva o negativa, migliore o peggiore. Sapeva solo che il libro lo aveva sfinito, e non era sicuro che gli sarebbe tornato il coraggio di parlare di sé. 

Non proprio centocinquantasette, in realtà, ma per l’esattezza novecentotrentanove sono le pagine che compongono “4321″, il romanzo-mondo, il romanzo-vita di Paul Auster, recentemente edito da Einaudi, nella traduzione di Cristiana Mennella.