Raoul Bruni, Da un luogo altro, Su Leopardi e il leopardismo, La Nuova Meridiana, Le Lettere, Firenze 2014
Raoul Bruni, Da un luogo alto, Su Leopardi e il leopardismo, La Nuova Meridiana, Le Lettere, Firenze 2014
di: Francesca Fiorletta
Esce per Le Lettere, nella collana La Nuova Meridiana, Da un luogo alto. Su Leopardi e il leopardismo, una dotta e ben articolata raccolta di saggi di Raoul Bruni, critico letterario e docente fiorentino, attualmente adiunkt all’Università Pedagogica di Cracovia.
Dalle Operette morali alla tragedia antica, passando per lo Zibaldone e i Paralipomeni della Batracomiomachia, Bruni ripercorre criticamente il percorso filosofico e filologico dell’immenso poeta di Recanati, non trascurando altresì di puntare il fuoco dell’attenzione sugli stretti e indispensabili rapporti che intercorrevano fra Leopardi e gli intellettuali di spicco della sua epoca.
Gli ultimi due capitoli, inoltre, sono accuratamente dedicati all’influenza imprescindibile che ha avuto Giacomo Leopardi su tutta la cultura novecentesca, italiana e non solo. Influenza qui intelligentemente rimeritata e ben evidenziata grazie soprattutto all’ausilio di due importanti figure: Giovanni Papini e Giuseppe Rensi.
[1] In uno dei film più significativi degli ultimi anni, La venticinquesima ora di Spike Lee, c’è una scena in cui due dei tre amici protagonisti della storia conversano in un appartamento le cui finestre si affacciano su Ground Zero. Frank lavora a Wall Street e Jakob è insegnante di inglese. In una pausa della conversazione lo sguardo dei due si volge all’esterno: nella luce fredda, lunare, dei fari del cantiere, le scavatrici e le macchine – enormi ma dall’alto minute come giocattoli o insetti metallici – si aggirano lentamente e spostano e ammassano detriti lungo i percorsi tracciati sul suolo dalle gigantesche ruote delle ruspe, come in una cava a cielo aperto nel centro di Manhattan.
In uno dei suoi tanti gialli, Agatha Miller, sposata Christie e quindi Mallowan, fa dire al suo Hercule Poirot che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi diventano una prova.” Nel suo breve trattato sulle combinazioni costruite dal caso, il postino di Girifalco di coincidenze, cui lui aveva assistito, ne aveva annotato ben 465. Questo dato sarebbe, da solo, sufficiente per sostenere che in quell’anomalo trattato – un quaderno riempito soltanto da una lunga lista di coincidenze – gli indizi e le prove su come il fato possa ingarbugliare le vite delle persone di certo non mancano. Il romanzo (Breve trattato sulle coincidenze, Nutrimenti, 2014) che prende titolo e origine dal quaderno del postino, ha portato il suo autore, Domenico Dara, tra i finalisti del Premio Calvino 2013.
In ricordo di Shaimaa El-Sabbagh (1983-2015): il simbolo della sinistra egiziana
di
Giuseppe Acconcia
Per le strade delle città egiziane la disillusione e lo sconforto hanno lasciato spazio alle più cruente proteste da un anno a questa parte. Nel 2014, per ricordare i giorni della rivoluzione, vennero uccise sessanta persone. Questa volta sono 23 i morti, 97 i feriti e 500 gli arresti negli scontri per il quarto anniversario dalle proteste di piazza Tahrir del 25 gennaio 2015. Scontri tra manifestanti e polizia si sono svolti al Cairo, Alessandria d’Egitto, nel governatorato di Beheira e nel quartiere popolare di Mataryya.
Ma per sdegno e dolore, la morte di Shaimaa El-Sabbagh è senz’altro la vicenda che segnerà non solo queste nuove contestazioni ma l’intero impegno politico anti-regime della frammentata e divisa sinistra egiziana. Shaimaa, 32 anni, è una poetessa e una martire degli operai e dei lavoratori egiziani. È stata uccisa da un poliziotto nel pomeriggio di sabato. L’attivista del partito dell’Alleanza socialista stava partecipando a una manifestazione organizzata dal movimento di sinistra in piazza Talaat Harb, a due passi da piazza Tahrir. La giovane, madre di un bambino di cinque anni, Bilal, stava portando fiori e rose a Tahrir per commemorare i morti delle rivolte del 2011 quando è stata raggiunta da un proiettile di gomma, sparato da un poliziotto che si trovava a pochi metri di distanza da lei. Secondo l’autopsia, il colpo ha perforato cuore e polmoni di Shaimaa. «Il marito, Osama, trasportava in braccio il suo corpo insanguinato, l’ha condotta dietro al caffè Bustan mentre suo figlio Bilal piangeva», ci racconta l’amica e attivista Reem Gamal che ha assistito alla scena. «In ospedale, per dare l’autorizzazione per la sepoltura, hanno chiesto ai familiari di dire che si è trattato di suicidio», ha aggiunto la giovane attivista.
In realtà dal momento della morte di Shaimaa, i media egiziani hanno iniziato a dare una versione completamente insensata sulle circostanze della sua fine, puntando il dito addirittura contro i suoi compagni di partito. Soltanto sul quotidiano filo-governativo al-Ahram si è levata una voce critica contro la polizia dell’editorialista Ahmed Sayed al-Naggar. «È assurdo. Le autorità egiziane tentano costantemente di discolpare la polizia», ha commentato Reem. Anche il Segretario del partito socialista, Talaat Fahmy è stato picchiato dalla polizia durante la sparatoria. Sei sono i feriti in seguito agli scontri, costati la vita a Shaimaa.
«Sempre dalla parte dei lavoratori delle fabbriche di Alessandria», è il ricordo di Shaimaa dell’attivista per i diritti dei lavoratori, Mahiennur el-Masry, più volte in prigione per il suo attivismo al fianco degli operai e in attesa di un nuovo verdetto il prossimo 9 febbraio per un attacco alla stazione di polizia di Alessandria, durante la presidenza Morsi. «Prima delle rivolte del 2011, Shaimaa era un’attivista di sinistra senza un’affiliazione precisa. Durante le contestazioni di piazza Tahrir ha iniziato a fare politica con l’Alleanza socialista. Era una delle donne più sincere e impegnate per la difesa dei diritti dei lavoratori che io conosca, partecipava a scioperi e sit-in nelle fabbriche di Alessandria ed era un membro dell’ufficio permanente dei lavoratori che raggruppa sindacalisti, attivisti e operai», ci racconta commossa Mahiennur.
Per Moataz Elshennawy, portavoce del partito dell’Alleanza socialista, si è trattato di un «assassinio premeditato» a opera della polizia. Moataz ha anche aggiunto che la manifestazione non era stata autorizzata (in base alla legge anti-proteste è impossibile ottenere autorizzazioni in tempi utili per manifestare) ma era stata annunciata in anticipo. Il procuratore del Cairo ha aperto un’inchiesta sulla morte di Shaimaa. Il ministro dell’Interno ha negato invece la responsabilità della polizia negli attacchi, mentre il premier Ibrahim Mahleb ha assicurato che chiunque si sia reso responsabile della sua morte sarà giudicato in un giusto processo.
Per le strade del Cairo è subito apparso un murales in memoria della grande rivoluzionaria operaia che era Shaimaa. Si vede la giovane che stringe tra le mani un manifesto a sostegno di poveri ed indifesi, come era solito vederla alle porte di fabbriche o durante gli scioperi a cui prendeva parte. I funerali di Shaimaa ad Alessandria si sono trasformati in una grande manifestazione degli attivisti socialisti e di sinistra contro il regime di al-Sisi. Centinaia di compagni gridavano canti contro la polizia e innalzavano cartelli con la sua foto.
Il candidato alle presidenziali della Corrente popolare, Hamdin Sabbahi ha reagito duramente alla notizia della morte della giovane attivista: «È inaccettabile che venga versato il sangue di egiziani che protestano pacificamente». In un’affollata conferenza stampa, politici egiziani liberali e di sinistra tra cui Medhat el-Zahed e Hala Shukrallah, hanno duramente condannato le «tattiche oppressive» del governo.
Le proteste di ieri, nonostante il lutto nazionale dichiarato per la morte del re saudita Abdullah, sono state organizzate dai Fratelli musulmani, dal movimento 6 Aprile, che ha chiesto ai suoi affiliati di raggrupparsi in alcuni quartieri circostanti piazza Tahrir: Abdel-Moneim Riyad, Abdeen, Opera e Bab Al-Louk; e da vari gruppi socialisti. Decine di attivisti islamisti che mostravano le foto dell’ex presidente Mohammed Morsi, secondo loro, l’unica e legittima guida del paese, sono stati immediatamente arrestati dalla polizia.
Anche il noto rapper Ahmed Mohsen che suonava con Amr Haha e Alaa Fifty nel quartiere periferico di Matariya, ora il cuore delle contestazioni dei Fratelli musulmani, è rimasto ucciso negli scontri del 25 gennaio. La sua famiglia, come nel caso di Shaimaa, ha ammesso di aver subito pressioni prima che venisse autorizzata la sepoltura del giovane a dichiarare che si fosse suicidato per non allungare la lista dei contestatori, uccisi dalla polizia, nelle proteste.
Secondo il ministro dell’Interno, Mohamed Ibrahim, uno degli artefici del massacro di Rabaa al-Adaweya del 14 agosto 2013, con le contestazioni di domenica scordsa, i Fratelli musulmani avrebbero voluto «un’altra rivoluzione». In realtà, da fonti del movimento, apprendiamo che il principale partito di opposizione, ora in clandestinità, ha chiesto ai suoi sostenitori di scendere in strada solo in piccoli gruppi senza arrivare a uno scontro diretto con polizia e militari per evitare una nuova carneficina, mantenendo un profilo basso, come di consueto dopo il massacro di Rabaa. In merito alla morte di Shaimaa, Ibrahim ha detto che se l’inchiesta dovesse rilevare responsabilità di un ufficiale di polizia, sarà lui stesso «a portarlo al processo». Parole piene di ipocrisia poiché la polizia in Egitto continua ad agire con metodi arbitrari e nella totale impunità. Secondo Ibrahim, i poliziotti avrebbe anche sventato vari tentativi di assalti a stazioni di polizia.
La morte di Shaimaa conferma una volta di più quanto la repressione non colpisca solo i movimenti islamisti ma anche i partiti laici, di sinistra e i movimenti giovanili. Non solo, chiarisce che la disillusione per il fallimento delle rivolte non si è ancora trasformata in disimpegno. Per questo al-Sisi non può dormire sonni tranquilli. L’aggressività di polizia e del ministero dell’Interno, insieme al ritorno degli uomini di Mubarak, se uniti a nuove manifestazioni di piazza, possono mettere a dura prova la tenuta del regime dell’ex militare, costretto a procrastinare lo stato di emergenza nel Sinai per altri tre mesi, e creare condizioni esplosive in vista delle elezioni parlamentari di marzo. Per riappropriarsi dello spazio pubblico i movimenti giovanili egiziani hanno indetto una manifestazione in piazza Talaat Harb in memoria di Shiamaa, che è stata seppellita nello stesso cimitero del simbolo delle rivolte egiziane del 2011, il giovane Khaled Said, ucciso ad Alessandria dalla polizia, il prossimo 29 gennaio.
Domenico Della Monica, Sciascia uomo solo. La vita e le battaglie civili di uno scrittore “scomodo”, Comunità Casa del Giovane, novembre 2014.
Libro anomalo. Autore un medico, da trent’anni appassionato di letteratura, scrittore di saggi e di racconti alla Čechov, collaboratore di pagine culturali, insomma uno di quelli che il nostro Effeffe chiama “volontari della cultura”. Come editore, non un editore vero ma semplicemente una comunità: quella della Casa del Giovane, dove si recuperano ragazzi sbandati e si insegna loro un mestiere – fra cui, appunto, stampare i libri. Eppure Sciascia uomo solo non è un libro da poco, basti dire che è stato presentato all’Archivio di Stato di Pavia insieme a Nicoletta Trotta del Fondo Manoscritti, il mitico fondo creato da Maria Corti, da cui sono emerse ovviamente anche lettere di Sciascia. Ma a tutto ciò l’autore sembra non dare importanza: per Della Monica queste cento pagine (guarda caso cento erano le pagine annue che scriveva quasi regolarmente Sciascia) sono solo un modo per pagare il suo debito di lettore a un maestro di vita, di scrittura, di nobiltà d’animo come non ce ne sono più. Sono cento pagine che sanno sintetizzare con scorrevolezza di linguaggio chi era e chi non era Leonardo Sciascia, i suoi rapporti con la politica, con i preti, con la religione, il suo amore viscerale per la Sicilia e per l’Italia, e i suoi libri, naturalmente: da quella Civetta, che lui non amava, sino A ciascuno il suo, a L’affaire Moro, al suo Candido, scritti come quasi tutti gli altri nella sua casa di Racalmuto.
Recensire quello che di per sé è già la recensione di una vita non aggiungerebbe nulla a quanto Domenico Della Monica ha già detto con parole ben calibrate. Ecco allora la scelta di proporre qui di seguito le pagine di introduzione, tra le più belle del libro. Pagine che racchiudono tutto il rammarico per un’assenza. Quasi ci rendessimo conto dell’autentica importanza di un bene solo quando l’abbiamo perso.
***
Da Sciascia uomo solo di Domenico Della Monica
Sono venticinque anni che la sua voce s’è spenta. Una voce che ci manca, mi manca.
Quella voce che nell’aula del Parlamento e nelle pagine dei giornali si scontrava aspramente nel giudizio sui rapporti tra Stato e Brigate Rosse e sui cosiddetti “professionisti dell’antimafia” con giornali e giornalisti famosi.
Era stato l’ultimo degli intellettuali italiani “impegnati” a vestire con onore questo aggettivo, dai primi anni Sessanta fino alla sua morte. Ci manca quella voce che non era mai prevedibile, la voce di un uomo che non stava né di qua né di là ma sempre a ridosso della ragione critica e illuminista; un uomo che veniva dalla sinistra ma che era impietoso con “i cretini di sinistra”, un uomo che ci ha insegnato a decrittare la parola mafia ma di cui erano inesorabili le sferzate nei confronti dei “professionisti dell’antimafia”.
È morto prima di vedere Tangentopoli e Giulio Andreotti accusato di essere in combutta con la mafia, e la consacrazione di Indro Montanelli da parte dell’opinione pubblica di sinistra laddove, anni prima, Sciascia era stato uno dei pochissimi a dirne bene. Non ha potuto vedere il degrado e la crisi dei nostri partiti, travolti dagli scandali, ben più squallidi e tristi di altri precedenti. Ci mancano le pagine che avrebbe scritto Sciascia, eccome se ci mancano.
Delle generazioni di intellettuali siciliani che hanno lasciato il loro marchio sulla storia letteraria e civile del nostro paese, veniva dopo Vitaliano Brancati, nato nel 1907, e dopo Elio Vittorini, nato nel 1908.
Era quasi coetaneo di Gesualdo Bufalino, nato a Comiso nel 1920, di cui era stato proprio Sciascia a scoprire e rivelare il talento.
Era siciliano al cento per cento, sicilianissimo. Lui, così parco di parole, sceglieva volentieri una parola siciliana a confidare un giudizio o un’emozione agli amici più fidati. Aveva conosciuto e amato Parigi ma anche la Spagna come nessun altro intellettuale italiano del secondo dopoguerra, ma era in quella sua casa di campagna della “Noce” che si ritirava a trovare il ritmo e l’arabesco di quelle cento pagine annue che erano divenute il suo stemma narrativo. Era stato lui una volta a ricordare una lettera di Blaise Pascal a un amico, dove Pascal si scusava di avere scritto così tanto: di scrivere breve non aveva trovato tempo.
Cento pagine o poco più. A cominciare da quel gioiello del 1956, Le parrocchie di Regalpetra, un libro che faceva i conti con il Neorealismo e li chiudeva. E poi i quattro magnifici racconti riuniti con il titolo Gli zii di Sicilia, i saggi dedicati a Luigi Pirandello e al pirandellismo, romanzi come Il contesto o Todo modo che facevano da metafora di un’epoca della politica italiana. E poi quei libri che si situavano a metà tra l’invenzione narrativa e l’indagine poliziesca, e a farne da spunto era la morte di un geniale fisico siciliano o il suicidio dello scrittore francese Raymond Roussel. E poi quel libro-pamphlet che non è forse il suo più bello, L’affaire Moro del 1978, ma certo quello che più facilmente torna alla memoria. E gli innumerevoli atti d’amore alla sua Sicilia, talvolta quei libri nati dalla sua collaborazione con Ferdinando Scianna, un siciliano di Bagheria, tra i più noti fotografi italiani. E poi le collaborazioni ai giornali, dal Mondo nuovo diretto da Lucio Libertini negli anni Sessanta alla Stampa degli anni Ottanta, passando per il Corriere della Sera.
Sulla prima pagina del quotidiano milanese, si era alla metà degli anni Ottanta, apparve un suo articolo il cui titolo e il cui contenuto gli sarebbero stati rinfacciati per sempre: “I professionisti dell’antimafia”. Questo articolo criticava in maniera severa un magistrato siciliano che era stato promosso perché appariva particolarmente meritevole nella “lotta alla mafia”. Quel magistrato si chiamava Paolo Borsellino, anni dopo dilaniato da una bomba mafiosa.
Al siciliano Sciascia non piacevano le consorterie, neppure quella dei “professionisti dell’antimafia” che aveva tra i suoi esponenti anche il sindaco di Palermo Orlando, un ex democristiano che aveva ottenuto notevoli consensi con le sue denunce dei misfatti della mafia (ma qualche magistrato palermitano ha avuto modo di raccontare che mai era venuta dal sindaco un’informazione importante, una pista valida a contrastare e combattere la mafia in concreto).
Agli occhi di Sciascia i professionisti dell’antimafia erano retori che sfruttavano a loro favore la rabbia sacrosanta dell’opinione pubblica contro la “piovra”.
Il criterio polemico era giusto, ma il nome scelto (Borsellino) quanto di più sbagliato.
“Sono stato mal consigliato” confesserà più tardi Sciascia a Gianni Riotta.
Lo scrittore e Borsellino si incontrarono qualche anno dopo e Sciascia riconobbe di aver sbagliato.
Ho sempre trovato ignobile che alla morte di Borsellino i nemici di Sciascia abbiano potuto scrivere che quell’articolo abbia contribuito a “isolare” Borsellino, quasi a rendere più agevole l’azione dei suoi assassini. E dell’accanimento dei suoi nemici restano memorabili gli interventi di Arlacchi in due numeri successivi di Repubblica.
Parole non di critica ma quasi di insulto alla memoria di Sciascia, e che suscitarono furibonde reazioni tra gli amici dello scrittore.
E mi dispiace che il quotidiano romano (di cui sono assiduo lettore) fece più volte da punta di diamante dello schieramento avverso a Sciascia. Quest’ultimo e il direttore di Repubblica avevano più volte incrociato le lame della polemica: dissapori nati nel 1978, al tempo del rapimento di Moro, quando Sciascia venne tacciato di essere uno dei creatori dello slogan “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, ciò che non aveva mai scritto né pensato. Innumerevoli volte smentirà che quello slogan gli appartenesse e lo condividesse. Giudicava, questo sì, che la classe dirigente italiana del tempo di Moro era moralmente indifendibile. E ognuno può essere d’accordo o meno con questo giudizio.
Sciascia era un uomo imprevedibile, come ogni spirito libero, al confine tra gli schieramenti e le opposte verità. Era sempre stato di sinistra, ma rinunciando alla sua vena liberale e libertaria; da intellettuale siciliano celeberrimo i comunisti avrebbero voluto utilizzarlo come una bandiera: riuscirono infatti a convincerlo nel 1975 a sedere in consiglio comunale di Palermo nelle loro file: ma si trovarono ben presto puntata in volto la sua lama polemica. E infatti l’esperienza durò poco, pochissimo.
Da antifascista, fu attratto dal destino di un intellettuale siciliano fascistissimo, Telesio Interlandi. A lui avrebbe dedicato le consuete cento pagine annue, se la morte non lo avesse fermato. La casa editrice Sellerio ha lasciato bianco quello che avrebbe dovuto essere il numero 200 della collana “La Memoria”, il libro su Interlandi. Poco prima di morire Sciascia consegnò a un suo amico, il giudice Enzo Vitale, i fogli e gli appunti che aveva preparato, tanto ci teneva a che un giorno quel libro venisse alla luce. Sciascia, uomo al confine tra due culture, era incuriosito dal personaggio Interlandi: si chiedeva com’è che un siciliano di talento avesse sconfinato nel reame dell’abiezione, quello della predicazione antisemita. Ai suoi occhi era un indizio tra i tanti di come i colori della vita siano chiaroscurali, di come ben poco sia interamente nero o interamente bianco.
La malattia era entrata da tempo nel suo sangue. Gli ultimi mesi furono molto dolorosi: fu un suo amico siciliano a battere a macchina il testo del suo ultimo libro Una storia semplice, pubblicato postumo da Adelphi. A Ferdinando Scianna un paio di giorni prima di morire confidò che vivere a quel modo non aveva più senso. Con la sua morte scomparivano i mille tratti della sua umanità, perché l’uomo Sciascia non era meno nobile dello scrittore, il suo cuore e la sua mente erano una sola armoniosa macchina di conoscenza e di vita. Spenti l’uno e l’altra, non ci resta che cercarli su uno scaffale. È il solo conforto che rimane a noi che l’abbiamo tanto amato.
Nei prossimi giorni il sistema dei commenti di Nazione Indiana si rinnoverà e verrà sostituito gradualmente con il nostro nuovo forum, Eulalia. I commenti saranno aperti come al solito, ma per scrivere si passerà attraverso Eulalia, lo strumento che usiamo già per la comunicazione interna e per la posta dei lettori. Occorre registrarsi (è facile, anche tramite il proprio account Facebook/Google/Twitter), è molto comodo per leggere e discutere (specie su dispositivi mobili) e a noi piace moltissimo. Pian piano tutti i nuovi articoli useranno il nuovo sistema, mentre i vecchi conserveranno le discussioni storiche, per l’archivio.
Per noi si tratta del completamento logico di un percorso iniziato quest’estate, quando abbiamo spento la mailing list usata dalla redazione da più di 10 anni per trasferire la collaborazione interna su Eulalia. L’esperimento è andato oltre le più rosee aspettative, con un coinvolgimento attivo, piacevole e a produttivo di tutta la redazione, tanto che l’abbiamo poi esteso alla posta dei lettori, sostituendo il vecchio indirizzo email che nessuno riusciva a seguire con regolarità. Ora proponiamo Eulalia ai nostri commentatori e commentatrici, sperando che metta ancora più a suo agio la splendida comunità di Nazione Indiana.
Eulalia è fatta con il software Discourse, 100% open software con molteplici virtù, e ospitata sui nostri server.
É saturnina la Luna, atra, melanconica, sospesa nell’attesa infinita della fine che non arriva mai.
Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore.
Lei, la Luna, ci salvò e ci diede la parola.
Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale.
(Lunaria, Mondadori, 1985)
Il 21 gennaio 2012 è scomparso Vincenzo Consolo, uno dei più raffinati scrittori italiani, tra gli ultimi intellettuali europei della sua generazione, classe 1933, ad aver vissuto le luci e le ombre del Novecento. A tre anni dalla morte, Mondadori pubblica finalmente il Meridiano “L’opera completa” di Vincenzo Consolo, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre. Il volume raccoglie i romanzi e i racconti, le scritture liriche e quelle d’intervento sociale, restituendo così l’immagine poliedrica di uno dei più grandi cesellatori della lingua italiana, le cui opere sono state tradotte in diversi Paesi e studiate nelle università di tutto il mondo.
Dello scrittore Vincenzo Consolo, collaboratore dell’Einaudi di Calvino e Ginzburg, m’impressionò, già da adolescente, l’originalità della voce: una lingua barocca ma schietta, appassionata, sempre in bilico tra contemplazione e denuncia, una scrittura legata profondamente alla sua terra. Consolo era ossessionato dalla Sicilia, così come tutti i grandi scrittori sono ossessionati dalla propria identità, dalla verità e dal divenire: la sua opera racconta un’isola visionaria e tragicamente reale, tra mito e storia, poesia e narrazione, alta letteratura e cultura popolare. A rileggere i suoi testi, oggi, si notano alcune figure che ritornano, ossessive, per tessere un mondo fragile e sublime, inquieto, in dissoluzione. Una di queste figure è il faro, presente anche nel titolo della raccolta di saggi Di qua dal faro (Mondadori, 1999): il faro per Consolo è un baluardo, la luce della ragione contro l’oscurantismo, una barriera contro il caos della notte.
La contrapposizione tra luce e oscurità si rivela poi, in tutta la sua potenza, nel romanzo di Consolo che più ho amato: Nottetempo, casa per casa, premio Strega nel 1992. Si tratta di una storia ambientata a Cefalù, in provincia di Palermo, ai tempi della nascita del Fascismo. Per Consolo, l’adozione del romanzo storico è sempre da intendersi in chiave metaforica rispetto al presente: gli anni Venti sono così un’epoca d’oscurantismo simile a quella che l’autore presagiva agli inizi degli Anni Novanta, all’alba del “nuovo ventennio”. La metafora storica era già presente nel romanzo sul Risorgimento tradito, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato in pieni anni Settanta e etichettato come l’ « anti-Gattopardo », in cui Consolo racconta di un nobile siciliano illuminato che tenta di resistere al potere reazionario della nuova Italia, per parlare in realtà dell’Italia post-sessantottina, ipocrita e refrattaria a un reale cambiamento. Ma torniamo a Nottetempo, casa per casa. Qui, alla violenza fascista e alla perversione del potere fa eco un altro oscuramento della ragione, questa volta misterico, soprannaturale. Proprio nei primi anni Venti, infatti, si trasferiva a Cefalù Aleister Crowley, il mistico artista inglese che inneggiava alla libertà dei sensi e a un mondo esoterico che rasentava il delirio visionario. Alla ragione del faro si riflette e s’oppone così la poesia della luna, che è anche, irrimediabilmente, segno di follia e di dolore, come per il padre del protagonista Petro Marano, che corre rabbioso nelle notti di luna piena per quietare il suo male catubbo (la licantropia).
Ecco delinearsi il paradosso dello scrittore, la tensione irrisolvibile tra prosa e poesia, tra la storia oggettiva del faro, da un lato, e i mondi immaginari della luna, dall’altro. In questo orizzonte si muove la lingua musicale di Vincenzo Consolo, trovando nelle parole la propria salvezza. La vera sconfitta è l’afasia, l’impossibilità del racconto, il silenzio della morte. Così Consolo, come Petro Marano, cerca redenzione nel racconto, che sembra nascere da una nostalgia per l’unità perduta, da un’aderenza naturale tra le parole e le cose. Questa sorta di autenticità perduta, di bellezza primordiale, Consolo la insegue, ostinato, in tutta la sua opera, inventandosi una lingua che resuscita le voci greche, arabe, spagnolesche e francesi che hanno abitato, secoli fa, la Sicilia.
Vincenzo Consolo adorava la sua terra, e non solo perché rappresentava il teatro della sua infanzia, ma anche perché lo scrittore guardava alla Sicilia come centro del Mediterraneo, ricettacolo di culture d’oriente e d’occidente, porta d’Africa, culla della letteratura italiana e della civiltà europea. Ecco perché, negli ultimi anni della sua vita, intervenne spesso nel dibattito pubblico sull’emigrazione, allorché la Sicilia veniva considerata non più come porta, ma come muro d’Europa. Ma la Sicilia di Consolo è anche una terra del Sud, di un Sud d’Italia che è simile a tutti i Sud del mondo, e che è dunque terra tradita, ferita dalle storture del potere, schiacciata dalle meschinità umane, dalle mafie, dall’avidità, dall’ignoranza. Da emigrato al Nord Italia, a Milano, dove s’era trasferito già negli anni Sessanta, Consolo scrive di sradicamenti, di fughe, di un’Itaca a cui è impossibile ritornare.
Ho avuto l’onore di incontrare Vincenzo Consolo e il piacere di frequentarlo negli ultimi anni della sua vita, insieme alla compagna Caterina Pilenga, suo riferimento prezioso e costante. Durante quelle cene nelle osterie di provincia, restavo affascinato dai racconti d’un mondo quasi picaresco, che non esisteva più, e dai suoi aneddoti sui maestri della letteratura mondiale o sui personaggi leggendari del popolo siciliano, sempre dipinti con sagacia e profonda umanità; dagli occhi di quest’uomo minuto e fiero trasparivano le immagini delle sue opere, la loro complessa semplicità, l’ironia, la discrezione, la rivolta.
Vincenzo Consolo ci lascia un’opera densa, in cui ogni parola ha un peso e marca la propria estraneità al cicalio dei best-sellers contemporanei e dell’editoria mercenaria. La sua scrittura ci ricorda che la letteratura è una cosa seria, un tempio in cui entrare con rispetto, senza rinunciare però al contraddittorio e allo sberleffo, alla commedia dentro la tragedia, alla trivialità e al sorriso, alla speranza in un mondo diverso, nonostante la catastrofe. Consolo ha creduto sempre, caparbiamente, alla potenza della lingua e alla necessità della luce, forse proprio perché temeva con profonda angoscia il silenzio e le tenebre. La sua maestria letteraria abbracciava dunque ora la luna, ora il faro, e cercava di far proprie, allo stesso tempo, paradossalmente, la visionarietà del poeta Lucio Piccolo (la luna) e la tensione sociale di Leonardo Sciascia (il faro). Questo movimento torna sempre alla sua Sicilia, che è anche metafora dell’Italia, in una lotta appassionata, irrisolvibile e mai elusa, contro l’oscurantismo.
Da Milano, Consolo « scendeva » spesso in Sicilia, nella sua Sant’Agata di Militello, e lo faceva quasi fosse un dovere, una questione di principio. Proprio a Sant’Agata di Militello si tennero i suoi funerali, tre anni fa: una lunga processione silenziosa e commossa, lontano dai clamori dell’Italietta del 2012, agli antipodi d’un mondo che non lo capiva più, e da cui Consolo si teneva lontano. Lui, il razionale lunatico Vincenzo Consolo, si nutriva di disillusioni e continuava a scrivere, finché ne ebbe le forze. Quando lo interrogavano sul tempo presente o sull’avvenire di quest’Italia matrigna, Consolo amava citare un verso di un poeta spagnolo a cui era particolarmente affezionato, Antonio Machado; un verso semplice, tre parole: « desperados esperamos todavia ».
di Antonio Sparzani
Forse tra i più titolati a celebrare un giorno della memoria sono i sopravvissuti alla barbarie nazista e i loro diretti discendenti. Per fortuna molti di loro si sono accorti che la barbarie può continuare se non ci si affretta a riconoscerla e a smascherarla. Per questo esiste il sito http://ijsn.net/ , nel quale la sigla è l’acronimo di International Jewish Anti-Zionist Network. Quella che segue è una non molto elegante ma corretta traduzione di quanto appare sul loro sito, a questo indirizzo:
In quanto sopravvissuti ebrei e discendenti di sopravvissuti del genocidio nazista, noi condanniamo senza equivoci il massacro di Palestinesi a Gaza e la contestuale occupazione e colonizzazione della Palestina storica. Condanniamo inoltre gli Stati Uniti per aver fornito a Israele i fondi per portare avanti l’attacco e più in generale gli stati dell’occidente per il loro uso della forza diplomatica per proteggere Israele dalla condanna. Il genocidio comincia con il silenzio del mondo.
Siamo allarmati dall’estrema e razzista de-umanizzazione dei Palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un tono febbrile. In Israele i politici e i politologi, nel Times israeliano e nel Jerusalem Post, invocano apertamente il genocidio palestinese e gli israeliani di destra adottano simboli nazisti.
Siamo inoltre disgustati e oltraggiati dall’abuso da parte di Elie Wiesel della nostra storia in queste pagine per giustificare l’ingiustificabile: lo sforzo complessivo di Israele di distruggere Gaza e l’assassinio di più di 2000 Palestinesi, comprese varie centinaia di bambini. Nulla può giustificare il bombardamento di rifugi delle Nazioni Unite, di case, ospedali e università. Nulla può giustificare che si privi la gente di acqua e di elettricità.
Dobbiamo levare collettivamente la nostra voce e usare le nostre forze per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in atto del popolo Palestinese. Chiediamo che finisca immediatamente l’assedio e il blocco di Gaza. Chiediamo un pieno boicottaggio economico, culturale e accademico di Israele.
“Mai più” deve voler dire “Mai più per nessuno”!
La lista di 359 firme, che trovate nel link citato, si apre con quella di Hajo Meyer, sopravvissuto di Auschwitz, Olanda.
di Shaima El Sabbagh, attivista e poetessa egiziana, uccisa dal regime il 24 gennaio mentre portava fiori rossi a piazza Tahrir, per ricordare l’anniversario delle rivolte del 2011
Non sono sicura
Davvero, non era altro che una borsa
Ma da quando l’ho persa, sono guai
Come affrontare il mondo senza di lei
Specialmente
Perché le strade ci ricordano insieme
I negozi conoscono più lei che me
Perché era lei a pagare
Riconosce l’odore del mio sudore e le piace
Conosce tutti gli autobus
E ha un rapporto diverso con ogni autista
Ricorda il prezzo del biglietto
Ed ha sempre gli spiccioli giusti
Una volta ho comprato un profumo che non le piaceva
Me l’ha fatto versare tutto così non potevo mettermelo
A proposito
Ama anche la mia famiglia
E si porta sempre dentro una fotografia
Di tutti i suoi cari
Chissà cosa prova ora
Forse è piena di paura?
O disgustata dalla puzza di sudore di un’estranea,
Infastidita dalle nuove strade?
Fermandosi in uno dei negozi dove entravamo insieme
Sceglie ancora gli stessi articoli?
Comunque le chiavi di casa le ha lei
E allora sto qui ad aspettarla.
Tradotta in inglese dall’arabo da Maged Zaher e in italiano dall’inglese da Pina Piccolo
Pina Piccolo, poetessa e traduttrice, risponde idealmente a Shaimaa e alla sua dolce poesia.
Insieme a Nadia Agustoni, che ringrazio per avermi fatto conoscere la vicenda di Noor Inayat Khan, in questo particolare momento di odio, stupidità e intolleranza, nel GIORNO della MEMORIA, vogliamo ricordare e celebrare la figura di una donna delicata, colta, fragile e tenace, che con coraggio e sacrificio ha contribuito alla sconfitta del Nazifascismo e con la sua multiculturalità religiosa e il suo rigore morale è un monito luminoso per questi tempi bui.
[ Noor Inayat Khan: Enemy of the Reich 2014 ]
di Orsola Puecher
C’era una volta un principessa indiana di nome Noor, nel cui sangue si mescolavano spiritualità e coraggio. Era figlia di una ragazza americana, Ora Ray Baker [1892-1949] e del maestro Sufi Hazrat Inayat Khan [1882-1927], che dalla sua città natale Baroda nell’India occidentale si era recato in Russia, obbedendo al suo maestro Syed Abu Hashem Madaniper, per diffondere il sufismo nel mondo. La via di ascesi spirituale passava attraverso la musica. Inayat era infatti musicista, nipote di Maula Baksh, il fondatore della Facoltà di Musica dell’Università di Baroda, e di Casimebi, a sua volta nipote di Tipu Sultan, il sovrano della Mysore settecentesca. Tipu Sultan [1750-1799], detto la Tigre di Mysore, l’ultimo grande potentato dell’India, viveva in un palazzo fortificato sull’isola di Sering Pathan, sorvegliato dalle tigri e combattè strenuamente gli Inglesi e la Compagnia delle Indie inventando delle speciali lance esplosive, i Mysorean rockets.
Noor nasce a Mosca il 1 Gennaio del 1917. Le viene dato il nome di Noor-un-nisa “luce della femminilità”. Il padre la culla cantandole antiche canzoni indiane. In casa la chiamano con il soprannome di Babuli.
Il clima in Russia si fa incandescente e i Khan partono nell’estate del 1917, prima alla volta di Londra, dove vivono in estreme ristrettezze economiche, poi dal 1920 si stabiliscono a Parigi nella grande Casa della Benedizione, Fazal Manzil, donata da una discepola e circondata da un magnifico giardino. Noor cresce fra musica, suona il veeda, il pianoforte e l’arpa, e meditazione, cerimonie e letture di testi sacri. Amatissima dal padre, con sua sorella Khairunnisa, nata il 3 giugno del 1919, e i due fratelli Vilayat, 19 giugno 1916 e Hidayat, 6 agosto 1917, spesso si esibisce in una piccola orchestra, che con i suoi concerti allieta il numeroso pubblico cosmopolita della casa.
Noor è timida e riflessiva, silenziosa, disegna e scrive poesie e favole fin da bambina.
Noor-un-Nisa Inayat Khan [14 anni]
La lampada della gioia
Una sirena una volta salì su una nave
Con il mare in tempesta,
E mentre navigava, le
Onde saltavano e spruzzavano allegramente,
Perché sulla nave aveva appeso una lampada
Che emanava una luce così dolce,
Che chiunque vedeva il suo splendore
Si riempiva di gioia.
Noor-un-nisa Inayat Khan [age 14]
The Lamp of Joy
A mermaid once went in a ship
Upon the stormy sea,
And as she sailed along, the
Waves arose and sprung in glee,
For on the ship she hung a lamp
Which gave a light so sweet,
That anyone who saw its glow
With joy was sure to meet.
da Shrabani Basu Spy Princess: The Life of Noor Inayat Khan
The Hystory Press 2006
[Hazrat Inayat Khan – 1926]
Amati da Dio, il “Messaggio Sufi” è un messaggio attuale, che viene trasmesso all’umanità. Non è un messaggio dall’Oriente, ma è il Messaggio dell’Anima, dello Spirito.
[La parola Sufi significa saggezza e deriva dalla radice “Sofia”. Il compito di questa saggezza è di trasmettere il messaggio attuale all’umanità, in modo che le persone possano riconciliarsi in una migliore reciproca comprensione, che nasce superando le diverse divisioni di casta e religione che dividono il genere umano.]
Il “Messaggio Sufi” è una risposta al grido dell’umanità odierna: in questo momento, in cui il materialismo è onnipresente e il consumismo è in continuo aumento.
Il “Messaggio Sufi” rispetta tutte le Religioni, riconosce tutte le Scritture, tiene conto di tutti i Profeti tenuti in considerazione da grandi porzioni di umanità, ed è la Radice e l’Obiettivo comune: “La Sapienza è Unica”.
Nel 1926 la morte del padre, avvenuta in India durante un viaggio per ritrovare le sue radici, è una vera tragedia per la famiglia, la madre cade in una profonda depressione e si chiude nella sua camera muta e al buio per anni. E’ Noor allora a prendere in mano le redini della casa e la cura dei fratelli e delle sorelle, con dolcezza e maturità, mentre la congregazione Sufi viene portata avanti dagli zii paterni. Insieme agli studi classici continua a coltivare la musica iscrivendosi al Conservatorio, poi consegue la Laurea in Psicologia Infantile. Pubblica un libro di favole, Twenty Jataka Tales, collabora a Le Figaro e ad alcune trasmissioni radiofoniche. Ma la guerra si avvicina e come molti francesi lascia Parigi con la famiglia in una lunga colonna di profughi, continuamente bombardata dagli Stuka tedeschi, che con fagotti, masserizie e ogni mezzo disponibile lascia la città. Dopo un’avventurosa traversata giungono a Londra. Il mondo esterno ha distrutto l’isola di mistica pace di Noor e una sempre maggiore consapevolezza spinge lei e il fratello Vilayat a fare qualcosa di concreto per contribuire alla Guerra contro il Nazismo. Per cultura, per educazione Noor non riesce a sopportare qualsiasi sopruso e a maggior ragione l’ideologia totalitaria e razzista di Hitler. Mite per natura ed educata alla pace sente comunque la spinta a combattere con ogni mezzo il male assoluto. Lui si arruola nella RAf e e lei nel Servizio Ausiliario. Si addestra insieme ad altre ragazze e si adatta docilmente alla dura vita militare, così diversa dalla sua precedente. Anzi prova per la prima volta un senso di libertà e di autodeterminazione, che forse, se fosse vissuta nel contesto tradizionale della sua famiglia, dove ancora vigevano i matrimoni combinati e la donne era molto limitate nei loro movimenti e nelle loro aspirazioni, difficilmente avrebbe potuto sperimentare. La principessa si sta trasformando in una donna forte e determinata. Si distingue per la sua abilità di telegrafista tanto da essere scelta per entrare nella SOE,, Special Operations Executive, un nuovo corpo speciale segreto voluto da Churchill per compiere azioni di sabotaggio oltre le linee nemiche e supportare i movimenti di resistenza antinazista. Verrà mandata a Parigi per tenere i contatti e aiutare a coordinare l’invio di nuovi agenti e di armi ed esplosivo per la resistenza francese. Un compito fra i più pericolosi: era molto facile venire intercettati dalla polizia segreta tedesca durante le trasmissioni e la radio doveva essere continuamente spostata. Ma purtroppo fin dal suo arrivo a Parigi il suo Nucleo, denominato Prosper, è infiltrato da spie e i tedeschi sono a conoscenza di tutto. Gli altri agenti vengono arrestati, ma Noor, rimasta sola, rifiuta l’offerta di Londra di tornare e resta per cercare di riorganizzare la rete. Esausta dai continui spostamenti e travestimenti, in seguito a una spiata per denaro, il 13 Ottobre 1943 verrà catturata e portata nella sede di Avenue Foch, dove, nonostante gli interrogatori durissimi e le lusinghe, non parlerà, tentando anche di evadere, cosa mai vista in quel lugubre luogo di torture, per ben due volte. I tedeschi si impadroniscono dei suoi codici e trasmettono fingendo di essere lei. A Londra colpevolmente non si accorgono, se non dopo molto tempo, della frase in codice di 18 lettere che era il segnale convenzionale che lei era stata catturata. Noor viene classificata come ⇨ Notte e Nebbia, i prigionieri più pericolosi e vessati, e portata prima in carcere in Germania, sempre con le catene a mani e piedi e in isolamento totale, fino al 12 Settembre 1944, quando con tre agenti donne viene tradotta a Dachau. Le altre saranno uccise e cremate la sera stessa dell’arrivo. Noor per un’estrema punizione lungo tutta la terribile notte del 13 Settembre 1944 viene picchiata, torturata e violentata dalle SS e poi fucilata all’alba, in ginocchio, con un colpo alla nuca. La sua ultima parola: Liberté.
Quando durante il tirocinio Noor faticava e non riusciva a codificare i messaggi in modo soddisfacente, Leo Marks, il suo istruttore, per motivarla decise di affrontare la “principessa” nel suo stile, riferendosi soprattutto a una delle sue favole della raccolta Venti vite del budda, Il ponte delle scimmie, in cui 80.000 scimmie vivone felici su di un albero alle sorgenti del Gange.
Là, dove l’acqua gorgogliava saltando da una roccia all’altra, si ergeva un albero magnifico. In primavera era carico di teneri fiori bianchi e in seguito si riempiva di frutti così speciali da non avere paragoni, ai quali i dolci venti delle montagne regalavano il gusto del miele.
da Noor Inayat KhanVENTI VITE DEL BUDDHA
Traduzione di Federica Alessandri
2014 Lit Edizioni Elliot
Nonostante le raccomandazioni del loro capo di non lasciare cadere in acqua un solo frutto, uno di essi portato dalla corrente giunge a Benares nel regno di Brahmadatta, che lo assaggia e organizza così una spedizione e trova l’albero e le scimmie.
All’alba le uccideremo e mangeremo sia la loro carne che i manghi.
[ibidem]
Il capo delle scimmie allora sale sul ramo più alto dell’albero e tenendo in mano un lungo giunco salta su di un altro albero oltre il fiume. Ma è troppo corto per legarlo ed egli, aggrappato al ramo, chiama le scimmie, che si salvano passando sopra il suo corpo, una però gli spezza la schiena. Il re Brahmadatta, commosso, lo fa scendere e gli chiede chi sia ed egli, prima di morire, gli dice:
«O re» rispose la scimmia «io sono il loro capo e la loro guida. Hanno vissuto con me su quest’albero, io sono stato un padre per loro e li ho amati. Non provo dolore nel lasciare questo mondo dopo aver conquistato la libertà per i miei sudditi. E se dalla mia morte tu trarrai un insegnamento, ne sono più che felice. Non è la spada che ti fa re, ma solo l’amore. Ricorda che dare la tua vita non è un grande sacrificio, se nel farlo garantisci felicità al tuo popolo. Non usare il potere per governarli trattandoli come sudditi, ma usa l’amore trattandoli come figli. In questo modo tu sarai l’unico re. Non dimenticare le mie parole, quando me ne sarò andato, o Brahmadatta!»
[ibidem]
Marks dunque disse a Noor:
I messaggi cifrati hanno una cosa in comune con le scimmie: se salti troppo forte su di loro gli puoi spezzare la schiena – e questo è ciò che hai fatto con questo. Dubito che Brahmadatta potesse decifrarlo, e so che nemmeno le mie scimmie nell’ufficio codici potrebbero.
da Shrabani Basu Spy Princess: The Life of Noor Inayat Khan
The Hystory Press 2006
Un principio basilare per lei era di non dire mai bugie. Marks allora le fece osservare che sbagliare un codice era come mentire e metteva in pericolo la vita di molte persone.
Ogni volta che codifichi un messaggio pensa alle lettere come scimmie che cercano di attraversare il ponte tra Parigi e Londra. Se cadono, saranno catturate e fucilate… ma non possono attraversarlo da sole, e se non le aiuti guidandole lentamente e metodicamente, un passo alla volta, dedicando loro tutti i tuoi pensieri e tutto la tua cura, non raggiungeranno mai l’altro lato. Quando c’è una verità da trasmettere, non lasciare che il tuo codice dica delle bugie.
[ibidem]
Motivata dai suoi principi interiori Noor si impegnò a decifrare velocemente e con assoluta precisione i messaggi e così alla fine riuscì a far attraversare tutte le scimmie, facendosi lei stessa ponte e sacrificandosi fino alla morte per far loro ritrovare la strada della libertà.
Nadia Agustoni
La libertà senza paura
Noor Inayat Khan morì a Dachau il 13 settembre 1944. Aveva trent’anni e alle spalle una vita straordinaria. La arrestarono le SS tedesche, dopo averla cercata a lungo, perché agiva come telegrafista per i servizi segreti inglesi in Francia e quindi in aiuto della resistenza. Tentarono di strapparle le informazioni di cui era in possesso torturandola, abusandola e vessandola, ma non disse una parola. Un busto commemorativo è stato posto in sua memoria a Londra in Gordon Square, la piazza che vide tra i suoi residenti diversi appartenenti del gruppo di Bloomsbury.
Noor era figlia di un maestro indiano Hazrat Inayat Khan, un Sufi dell’ordine Chishty con molti allievi in occidente, e fu educata al cosmopolitismo, al rispetto delle tradizioni religiose e culturali, alla musica e alla letteratura. Se il padre si rese interprete dei significati esoterici delle grandi religioni, rileggendone i testi e spiegandoli, Noor rilesse alcune favole buddiste, tradotte ora anche in italiano, perché giungesse a tutti un messaggio che contrastasse l’odio e la barbarie che culminarono nei tredici anni del potere nazista, ma le cui radici erano molto più lunghe.
Nel suo lavoro coi servizi segreti profuse un forte impegno. Sapeva di correre grandi pericoli, ma non arretrò. Colpiscono la determinazione, la consapevolezza dei rischi e l’assenza di odio per il nemico, cui tuttavia non concesse nulla. La sua fine iniqua, come fu per intere masse di persone, non ha solo il significato di un sacrificio o quello dell’eroismo, ma ci fa pensare a come non sappiamo niente degli altri. Non possiamo veramente né capirli, né interpretarli. Leggendo le sue favole buddiste si fa fatica a pensarla coinvolta in una guerra, ma solo fino a che non si comprende che quasi sempre vediamo solo ombre. Con gli occhi puliti potremmo avere la percezione che la visione del male non annienta, né annichilisce chi è immune dall’odio, ma sa combatterlo. L’odio, qualunque parola prenda in prestito, è subito svelato: non ha a cuore nulla; il flirt con la morte e la volontà di potenza sono le due uniche carte. Basta pensare al “mai morti” e a tutto l’apparato fascista della Decima Mas, alla guerra di Spagna del 1936 con i falangisti e il loro “Abbasso la intelligenza viva la muerte” o a quei gruppi che in nome di una politica o di una religione praticano l’uccisione sistematica degli avversari o lo sterminio.
La personalità di Noor ricorda, per la determinazione e la visione non angusta, altre figure del tempo: Etty Hillesum e Simone Weil. Senza cercare paralleli troppo azzardati, l’ottica di spendersi per salvare gli indifesi è certo un collante comune, come il senso di carità e l’avere tentato di comprendere il nemico. Se questo non le aiutò allora, la prospettiva del tempo trascorso mostra che videro lontano e ci porta adesso ad incontrarle, con le loro stesse domande, con lo stesso senso di volere un mondo più giusto, anche proprio quando sembra impossibile.
La libertà che offre il sottrarsi alla paura è quanto ci serve per contrastare i demoni, interiori ed esteriori, senza trattarli da demoni, ma anche senza alibi per non vedere, usando strategie di adattamento invece di pronunciare un no chiaro. Un no, che se spogliò Noor di ogni difesa e sicurezza, ci fa capire che il confine tra acquiescenza, complicità ed essere davvero altro, è proprio quel corpo ferito e violabile, ma su cui si inscrive la condanna e la fine del male.
Una vecchia forma di esoterismo di primo Novecento concepisce la storia umana come trionfo e dominio dell’elemento uranico, giovio, sull’elemento terreno, ctonio, demetrico. Si allinea su questa visione, sostenuta con ampia dovizia di argomenti storico-religiosi apparentemente profondi, l’idea che l’elemento demetrico sia femmina, materia e terra, in opposizione allo spirituale elemento uranico maschile.
Io vedo Fanny e Alexander e trovo due strade, che in certi momenti, nei miei spazi di geometrie non-euclidee, riesco a pensare insieme: quella di un’arte mai colma abbastanza di sensualità e stupore, quella di un’arte piena di lavoro e studio.
“Forse siamo la stessa persona, e tra noi non ci sono confini, forse passiamo l’uno nell’altro, e mirabilmente scorriamo all’infinito l’uno attraverso l’altro”, dice Ismael, transgender e sensitivo, ad Alexander, mostrando la voragine che assilla/che nutre il bambino, aprendo la voragine che ci culla ed inghiotte. Pronuncia queste parole Ismael, persona indecidibile, persona per eccellenza, ma è come se ne avesse dette altre, come se avesse pronunciato la mia spiegazione: che abbiamo vissuto nell’inspiegato, che viviamo, a dispetto di quanto vorrebbe lo spietato Vergérus, sul confine tra la menzogna e la verità, e non c’è mai stato un posto altrove.
O forse devo calmarmi, non farmi affatturare da questo cosmico, fragile, bellissimo non sapere, procedere invece con disciplina, coscienza, ordine e amore – in quest’ordine li elenca Oscar, il direttore del teatro, nel suo discorso sulla ‘piccola’, non ‘grande’, funzione dell’arte: capire, almeno capire un poco. Forse devo considerare i limiti della materia, le carenze dell’umano, il bisogno di costanza e cura. E anche senza compiacermi, invilupparmi, ossessionarmi delle meraviglie dell’immaginazione e dei suoi tormenti, fare quel che è giusto, procedere al lavoro, stare con chi amo, perché “forse siamo la stessa persona, e tra noi non ci sono confini”.
Questo film di Bergman dovrebbe vederlo ogni artista, io credo, “piccolo” o “grande”.
Tutto può avvenire, tutto è possibile e verosimile. Tempo e spazio non esistono, sopra un insignificante fondo realistico l’immaginazione trama e tesse nuovi modelli: un miscuglio di ricordi, di vicende, di libere invenzioni, di stravaganze e d’improvvisazioni. I personaggi si scindono, si moltiplicano, si sdoppiano, si eclissano, si condensano, si dileguano, si raccolgono. Ma una coscienza è su tutti, quella del sogno; perché non ci sono segreti, incoerenze, scrupoli né leggi.
AVVERTENZA
da August Strindberg IL SOGNO [1902]
Orsola Puecher
Fanny e Alexander è un film sul teatro e sull’aspetto teatrale delle vite, che sempre si giocano [to play – jouer – spielen = giocare/recitare], con impercettibli cambi di scena, tra realtà e finzione, immaginazione e verità. Inizia con un teatrino giocattolo e termina con la lettura dell’Avvertenza al dramma di Strindberg “Il sogno“. Tutto può avvenire, tutto è possibile e verosimile. Tempo e spazio non esistono… E al teatro è anche una dichiarazione d’amore: la famiglia Ekdahl ne gestisce uno e molti dei suoi componenti sono o sono stati attori e fanno parte, come dice nel discorso di Natale alle maestranze il padre di Alexander, del piccolo mondo racchiuso fra le spesse mura di questo edifico infinatemente ricomposto e migliore del mondo grande. Il loro stesso cognome con l’aggiunta di un h richiama quello del protagonista de L’anitra selvatica di Ibsen, Hjalmar Ekdal. Personaggio che consola se stesso di illusioni, testo in cui il mondo di menzogna e finzione degli adulti si contrappone alla purezza dei bambini. La battuta di Relling, il cinico medico:
Se togli la menzogna vitale a una persona media, le togli, allo stesso momento, la felicità.
è simile a quella del discorso di Gustav Adolf Ekdahl alla tavolata bianca e vaporosa dei battesimi-ricomposizione borghese di tutti i contrasti, in cui dice:
Noi Ekdahl amiamo i nostri sotterfugi. Togliete a un uomo i suoi marchingegni e vedrete che sbatterà la testa e menerà colpi in aria.
Nelle immagini iniziali del film, prima che il campo dell’inquadratura si allarghi, si ha l’impressione, per qualche attimo, di trovarsi in un teatro vero, con il boccascena sormontato dalla scritta EI BLOT TIL LYST – Non per il solo piacere – che ne richiama il ruolo edificante ed educativo e che riproduce fedelmente quello del Royal Theater di Copenaghen, insieme al suo sipario storico, con l’Acropoli di Atene e le due statue che tengono in mano la maschera tragica e la maschera comica. L’illusione dura fino al momento in cui si alza il sipario e appaiono le sagome di carta dei personaggi e poi al sollevarsi del fondale di alberi con un castello e le sue torri, il teatrino diventa la cornice per il viso pensoso di Alexander, bambino ombroso, pieno di fantasie, continuamente visitatore e visitato dal mondo ultraterreno.
Nel documentario sulla lavorazione del film Dokument Fanny och Alexander, da 43:18 in avanti, durante la riprese di questa scena, realizzata con metodo eminentemente teatrale nella regia dei gesti e nella costruzione di un sottotesto emotivo alle intenzioni, Alexander e il regista si fronteggiano dal piccolo boccascena con le candeline tremolanti della ribalta accese. Burattino e burattinaio possono scambiarsi le parti, intercambiabili e sovrapposti. Personaggi necessari e omologhi di uno stesso gioco meraviglioso ed emoziante, e la didascalia, scritta da Bergman, recita:
Il teatrino di burattini.
Questa, vedi, è la magia più grande. Fa venire la pelle d’oca.
La magia dell’arte che sta sempre nell’ambiguità fra finzione e realtà. E forse la vera sola differenza fra vita e arte sta nella cesura definitiva della morte. Sempre Gustav Adolf nel discorso del battesimo:
D’improvviso, arriva la morte. D’improvviso, si apre il baratro. D’improvviso, arriva la tempesta e la catastrofe è su di noi.
Alexander al funerale del padre la rifiuta, combattendola con una apotropaica catena di parolacce e nomi di cose sporche, che ripete come un mantra, ma sarà poi visitato continuamente dai fantasmi, che appaiano fra le cortine e i broccati della casa-teatro, prima quello tenero e arreso del genitore e poi quello implacabile del vescovo padrino, di cui tanto la morte aveva desiderato nell’ascetica canonica, mondo duro e punitivo, quasi un film in bianco e nero nel film a colori, contrapposto al rosso dorato, caldo e luminoso di casa Ekdahl, e che, quando tutto sembra virare verso un happy end, gli apparirà minacciandolo Non ti libererai di me.
Lo stesso Quintetto per archi e pianoforte in MI bemolle Maggiore – Op. 44 di Schuman nei due movimenti che accompagnano le prime due scene è una lunga variazione di un tema in 4/4 di Marcia Funebre, che batte i suoi colpi inesorabili e pesanti, fatali, a volte confondendosi, a volte riemergendo dall’armonia. Come se si potesse tacitarne il ricordo e la minaccia solo per qualche attimo. Nella scena del teatrino la musica è più leggera avvolgente e sognante:
Ma quando Alexander apre la porta mimetizzata nel muro, che divide il suo appartamento da quello della nonna, torna a battere funerea, una statua può muovere il suo braccio di marmo e tutto diventa inquietante:
Mariasole Ariot
Le cose incomprensibili fanno uscire di senno, perciò è meglio dare la colpa agli apparecchi, agli specchi, alle proiezioni.
C’è un luogo in cui tempo e spazio perdono corpo e coordinate, e dove perdono corpo, i fantasmi ne recuperano con un senso raddoppiato : si animano le statue, i morti, le cascate sprofondano, una marionetta avanza come un Dio minaccioso, solo sott’acqua la possibilità di un aggancio. E’ un gorgo.
Le mie due figlie sono scese per prime, ma hanno perso la presa e il fiume le ha ghermite, trascinandole nel fondo. Io ho cercato di salvarle, ma sono stata travolta da un gorgo di acqua nera che ha risucchiato i miei vestiti. Soltanto sott’acqua sono riuscita ad afferrargli le mani e ad attirarle a me.
Ma è solo nel mettere in forma l’invisibile che il visibile perde una quota di terrore, si sposta nella messa in scena, scritto ed esoricizzato.
Fanny e Alexander è allora l’esperienza pura dello spaesamento, dell’esilio da sé e – proprio in quell’esilio, proprio perché esilio – del ritrovarsi.
Faccia a faccia con il reale dell’allucinare, testa contro testa, senza confini, quando ciò che scuote e sovverte non è l’insolito, l’anormale, ma il quotidiano : quando il pianto è impossibile e scoppia in una risata.
Ti seccherebbe se piangessi un pochino? Niente da fare, è inutile, non ci riesco.
Se le figure femminili portano la voce, le figure maschili portano il perturbante dello sguardo. Due padri : il primo gentile, debole, amato nella zona rossa, il secondo gelido, crudele, odiato nella casa blu. Cambiano le inquadrature, le tinte, le luci calde virano al freddo. Le feste diventano punizioni, i racconti non sono ammessi, il teatro si sposta nel retroscena, il meraviglioso ha il sopravvento.
Ho visto una luce misteriosa, c’era una di quelle bambine, immobili.
I fantasmi sono ovunque. Le mummie respirano.
Tutto ha vita. Vita inspiegabile e piegabile : Alexander la piega, la sforma, si sforma, riscrive una storia già scritta, la manovra.
Perché non è il compiuto ad esoricizzare i fantasmi, ma l’atto stesso della messa in scena, della ripresa, della costruzione di una zona potenzialmente infinita, incompiuta perché interrogativa :
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
Fino agli inizi del XX secolo, un ipotetico e attento occidentale che si fosse messo in testa di viaggiare per buona parte delle terre dell’Islam approfittando delle regole dell’ospitalità familiare popolare, avrebbe fatto sicuramente caso alle storie riguardanti le arguzie di un arzillo vecchietto, diffuse un po’ dappertutto e raccontate da genti diversissime tra loro.
Le storielle, a volte astute, a volte argute, seguono generalmente uno schema preciso: qualcuno (spesso il “popolo”, o un potente) va dal vecchietto, o lo incontra casualmente. Dopo avergli domandato qualcosa, riceve una risposta caustica o che lascia inebetito l’interlocutore.
A volte l’interlocutore è un religioso, un teologo, un appartenente ad un ordine monastico che sorregge lo status quo dei potenti di turno ammantando il tutto di ritualismo e o di misticismo, il ché pone il vecchietto ai limiti dell’eterodossia.
Nasreddin, questo è il nome del vecchietto, un nome che subisce adattamenti fonetici in diverse lingue (e dunque viene trascritto in tanti modi diversi). È temuto e rispettato per la sua saggezza sintetica ed è, per il popolo, un fondamentale riferimento di giustizia pratica.
Il viaggiatore avrebbe potuto trovarlo in tutti i Balcani passando per la Bosnia, l’Albania e nella cristiano-ortodossa Romania (Nastratin Hogea) proseguendo verso la Turchia, l’Iran, l’Azerbaigian, l’Uzbeskistan, l’India, la Cina, solo per non affaticarsi troppo a cercarlo altrove.
Un personaggio talmente comune che molti gruppi umani se ne contendono l’appartenenza: gli Uzbeki lo vogliono di Samarcanda, altri lo ritengono di Kufa, nell’Iraq meridionale. Un’altra tradizione, che narra le gesta di Sari Saltuk Dede, il santo selgiuchide che portò per primo (sempre secondo tradizione) in Europa (Dobrugia, tra Romania e Bulgaria attuali) dei musulmani turchi anatolici, lo lega a questi ultimi.
Secondo questa tradizione, che ha molto di storico, Nasreddin Hoca (Hoca = Maestro) sarebbe nato in un villaggio anatolico nei dintorni di Shivrihisar tra Eskishehir e Ankara, durante la prima metà del XIII secolo e morto ad Akshehir in tarda età.
***
Naturalmente la forte valenza anti-autoritaria e tendente all’”ordine normalizzante” di questo personaggio, si è prestata ad usi politici nelle più diverse situazioni e nei luoghi e nei periodi più diversi: lo troviamo ad esempio come antagonista musulmano del “Prete” (in questo caso l’Arcivescovo Makarios) durante la crisi di Cipro, così come nel suo rapporto conflittuale con il grande Tamerlano.
Agli inizi del XX secolo, grazie all’iniziativa di un grande intellettuale satirico azero, Jalil Mammadguluzadeh, che visse a cavallo tra la seconda metà del XIX e il primo trentennio del XX secolo, il vecchietto diede il nome a una rivista politico-satirica illustrata, “Molla Nasreddin”, che aveva un obiettivo molto particolare: nelle intenzioni dei redattori sarebbe stata letta “in tutto il mondo islamico, dal Marocco all’Iran”.
La particolarità di questa rivista era soprattutto la satira feroce contro lo stile di vita dei fanatici religiosi, la corruzione, l’ineguaglianza sociale tra le classi e quella dei sessi, gli amministratori coloniali, oltre a un fortissimo carattere nazionalista (anti-colonialista?) verso le grandi potenze dell’area: gli ottomani, gli iraniani e i russi.
Mammadguluzadeh fu minacciato più volte di morte e varie volte fu aggredito, così come i membri della redazione, da parte di fanatici religiosi o da persone che si sentivano offese dalla pungente satira della rivista.
Fondato nel 1906 a Tblisi, “Molla Nasreddin” catalizzò le firme di vari esponenti dell’intellighentsia azera che sovente pubblicavano con pseudonimi. La sua diffusione fu enorme, per l’epoca, circolando veramente dall’Iran alla Russia, senza dimenticare l’Impero ottomano.
Il forte carattere eversivo e rivoluzionario portò a una stretta sorveglianza da parte delle autorità zariste e già dopo i primi numeri venne bandito dalle autorità ottomane e iraniane.
Ai bandi Mammadguluzadeh rispondeva con sferzante e non velata ironia, attaccando direttamente il sultano ottomano Abdulhamid, il quale non è certo passato alla storia per la sua indulgenza.
E infatti la prima reazione del governo ottomano fu quella di inviare, nel marzo del 1907, Fevzy Bey, console generale ottomano a Tbilisi, a presentare lamentele presso le autorità russe e a chiedere espressamente la chiusura della rivista, in quanto aveva pubblicato caricature offensive del Sultano e degli ottomani.
A questa motivazione si aggiunga che, in un numero specifico, Molla Nasreddin aveva apertamente dissacrato importanti autorità religiose della Transcaucasia e perorato la causa dell’uguaglianza tra uomo e donna.
La rivista fu bandita varie volte in Russia: nel 1912, nel 1914 e, definitivamente, nel 1917. In quello stesso anno riaprì a Tabriz, nell’Azerbaigian iraniano. La pungente satira da “non credenti” di Molla Nasreddin aveva già interessato il parlamento iraniano, nel 1910.
Nonostante il bando delle autorità di vari paesi, la richiesta della rivista da parte dei lettori era travolgente, così come il carattere di Mammadguluzadeh. Le copie che sfuggivano ai sequestri arrivavano anche in Gran Bretagna, Francia, Italia, Cina, India e persino negli Stati Uniti.
Il seme era gettato: in quasi tutto il mondo turco e tataro musulmano venivano edite riviste della stessa tipologia, tra le quali una rifacentisi allo stesso personaggio, “Hoca Nasreddin”, a Istanbul.
Con la salita al potere dei bolscevichi “Mollah Nasreddin” proseguì le sue pubblicazioni ma fu costretta ad adattarsi alle strette linee-guida di regime. Rimase in vita, nella sua ultima versione, dal 1922 al 1931. La redazione, che aveva sede a Baku, chiuse qualche mese prima della morte del suo ideatore.
c’è senso nel recedere dei corpi
di là dall’orizzonte della nebbia
c’è senso lungo il passo degli storpi
c’è senso nella mente che si annebbia
nel sonno senza sogni della pietra
c’è senso nella spiga e nella trebbia
e nella corda lenta della cetra
e nel ricordo e al calo della vista
nel gelo della brina che si invetra
nel fumo d’erba o al tiro della pista
dell’illusione che corrode i sensi
e le narici e in lacrime si incista
per allucinazioni di scompensi
per immaginazioni senza sogni
per norme di ragioni che non pensi
c’è senso nell’oblio per cui ti sogni
e ti deformi d’incubo e di nube
e ti dissolvi al segno dei bisogni
sedimentati di pietà di pube
e ti conformi alle misure informi
c’è senso alla chiusura delle tube
ovariche al contratto non conformi
per figli non voluti nell’azienda
c’è senso nelle greggi e negli stormi
nella favela o dentro la fazenda
c’è senso nella via dell’ignoranza
nel faccendiere e in ogni sua faccenda
c’è senso nella ruota della danza
e nel derviscio in rotazione eterna
c’è senso nella fragile incostanza
per la monotonia che la squaderna
per la stereotipia degli atti imposti
per la schizofrenia per l’eco interna
di voci e di pensieri esterni opposti
e per l’estraneità l’ambivalenza
dei sentimenti un senso c’è nei costi
che forza la ricchezza o la violenza
o la scaltrezza fatua dei regnanti
un senso c’è bisogna farne senza
lasciare il senso unico ai passanti
agli ossequenti agli insolventi ai servi
al cedere continuo degli istanti
per vortice d’inverno ai vuoti impervi
bisogna farne senza o farne senso
che muti in forma nuova e non conservi
il vecchio corpo al gioco del consenso
* * *
[il dio che tu credevi da bambino]
il dio che tu credevi da bambino
bambino un po’ crudele un po’ feroce
il dio che tu credevi da assassino
il demone che poi ti rende atroce
il dio di vuoto che ti cuoci a crudo
nel buio del tuo cuore senza voce
e senza luce il dio del nuovo ludo
da chiesa da moschea per banca e soldo
il dio dei tuoi che va per mète nudo
per pessimo infinito il manigoldo
che regna nel tuo cielo senza sole
il dio che per due mitra e un libro assoldo
il dio del tuo petrolio che ti vuole
il dio che tu non preghi e che ti chiama
il dio che ti calpesta con le aiuole
il dio che atterra e suscita e non ama
il dio che non consola ma tortura
il dio di quel romanzo senza trama
che inizia male il dio controfigura
natura snaturante e snaturata
il dio della ragione senza cura
e della tua parola sragionata
il dio del sole vecchio al giorno nuovo
il dio della tua fede smisurata
il dio che covi al chiuso del tuo covo
nell’incommensurabile rancore
che spine ti incendiava sul tuo rovo
il dio che non è gioia né colore
per l’assoluto dell’anaffettivo
il dio dello schizoide il malfattore
da Sinai a deserto il dio corrivo
al sangue al sesso al fuoco al ferro al fumo
delle città distrutte il dio mal vivo
della discordia il dio del tuo profumo
di vittima del boia che ti frulla
il dio dell’ateismo che presumo
il dio perverso della morte in bulla
di questa civiltà senza criteri
il dio del vuoto il dio che non sa nulla
il dio dei brogli il dio dei ministeri
il dio di fatuità che riconosci
per tuo sadismo negli inconsci neri
il dio che al sacrificio disconosci
per la menzogna che ti nutre in seno
il dio serpente in cui non ti conosci
che per le gocce effuse al tuo veleno
il dio del portafogli che ti riempi
nel privilegio adesso che sei pieno
per la misericordia dei tuoi scempi
nel tuo ragionamento senza forza
ceduto con la forza ai controesempi
per la tua sciocca forma senza scorza
il dio che per creare il quadro è in posa
sotto l’acetilene che si smorza
il dio che sfoglia la sua bianca rosa
ti ama non ti ama per le leggi ligie
e ti amministra il coso nella cosa
il dio che flirta con le galle bigie
eunuchi maschi o femmine è lo stesso
il dio che non ammette volto o effigie
il dio contratto il dio ribelle ossesso
presente e assente nella parusia
il dio che non comprendi il dio si è espresso
per l’abbandono della tua abulia
per la filosofia dell’abbandono
per debolezza di lealtà e sofia
il dio che avaro si riprende il dono
e per misericordia te lo rende
il dio che credi d’essere e non sono
che scarsa al mondo verità risplende
il dio che senza gloria il fango smuove
e terra poco del suo giorno prende
che il fango nel frattempo non si muove
e non ti lascia indietro che l’incuria
e il suo programma di tristezze nuove
e la sua legge di ragione spuria
e il bell’inferno chiuso nel sacrario
che per confine ha solo incendio e furia
e stupri in posizione al missionario
e il senso della sciabola e del libro
e l’oro accumulato nel divario
che troppo in servitù di rabbie vibro
il dio delle escissioni e dei fucili
il dio che in società non equilibro
la bestia che ci fa già troppo vili
il dio di cui sei scimmia poco buona
il dio che si incatrama nei barili
il dio che la realtà non ci condona
Da tempo ogni raccolta poetica di Franco Buffoni costituisce una notevole sorpresa. Invece di confermare le aspettative dei suoi lettori abituali Buffoni preferisce incamminarsi, di volta in volta, lungo nuovi sentieri: ricorrendo a soluzioni formali e tematiche sempre diverse, sollevando interrogativi puntualmente più inquietanti. È accaduto così per Guerra (2005), Noi e loro (2008) e Roma (2009). Il medesimo procedimento si può riscontrare in Jucci, l’ultima raccolta poetica di Buffoni pubblicata di recente da Mondadori.
e in fin dei conti il tutto è solo un gioco
se pure a volte sia stampato in serie
che l’uomo arguto se ne prende gioco
così che poi se insisto nel mio gioco
quel tizio arguto lì ci resta male
che pur arguto non sa stare al gioco
ed è perciò che me ne prendo gioco
perché poi tutto si farà per scherzo
e se qualcuno non starà allo scherzo
peggio per lui che non comprende il gioco
perché poi non c’è mai nulla di nuovo
nel farsi a tutti costi il volto nuovo
sarà che in fin dei conti sono nuovo
o forse ancora non capisco il gioco
o sarà poi che quanto c’è di nuovo
è peggio d’altro che non è più nuovo
perché le novità stampate in serie
non odorano più granché di nuovo
quel che c’era di nuovo è meno nuovo
d’un uovo vecchio appena andato a male
né riesce la ricetta in bene o in male
e non ci sento mai puzza di nuovo
perché ci resta poi lo stesso scherzo
se chi ci scherza non s’aspetta scherzo
e certo non è poi mica uno scherzo
almanaccarci a forza un senso nuovo
e di certo non io la prendo a scherzo
che certo non è farsa e non è scherzo
per trasmutate regolette al gioco
che il caso t’ha giocato un gramo scherzo
e sì che non staremmo più allo scherzo
e certo che non sono cose serie
due voci messe in riga e uscite in serie
che poi ci torna un po’ stantio lo scherzo
per qualche vecchia farsa andata a male
che tutto è male poi quel che va male
e certi si saranno fatti male
per farsa falsa o mal concetto scherzo
da spirito del tempo andato male
nel tempo d’uno spirito del male
che poi non ci vedrei granché di nuovo
nel rivangare ancora un vecchio male
per due ricami in croce andati a male
o per un libro vecchio o per il gioco
del fallo in ostensione al fuori gioco
mostrando in gara chi farà più male
il bene che farà montato in serie
per maschere di scene semiserie
e sì gli attori alle commedie in serie
ripetono battute espresse male
di bocca nelle farse poco serie
e i moralisti con le facce serie
non tollerano spirito né scherzo
in materie di fede uscita in serie
o non ne capirò di cose serie
che non capisco il tuo bel mondo nuovo
e la sua bella gente di bel nuovo
finta in un dramma di persone serie
perché tutto mi sembra ancora un gioco
forse perché in realtà non sono in gioco
perdona dunque se mi piglio gioco
di tutto questo tuo bel mondo nuovo
di bella gente che non sta allo scherzo
sorridi in mezzo al caos di tanto scherzo
che tutto il tempo ci sta andando a male
per marche di cervelli offerti in serie
Lo Scuru è un anfratto, un antro, e parimenti è un pertugio, percorribile come un sentiero ma ineluttabile come una caduta, uno sprofondamento, una voragine oscura di cui pure se ne riconoscono i margini ma non il limite. È una lacerazione, inflitta con una lama becchettata, una ferita, e le mani sul manico del coltello sono, a sorpresa, due: quella dell’autore, Orazio Labbate, e la tua, lettore. Quel che ne segue è un lento scarnamento, un rimestare, uno spolpare quella ferita stessa, un entrare ed entrarsi dentro con dolore, oscuro e sadico. Ma Lo Scuru, indugiando ancora nellametafora, è primariamente, io credo, un angolo buio dove si comincia a vedere solo permettendo ai propri occhi di abituarsi, e di soffrire, poco o tanto dipende da te. Lo Scuru mi ricorda un quadro di Caravaggio, come La vocazione di San Matteo, quel gioco d’ombra incombente e di infima luce, quasi evanescente e che però esiste; e quella bramosia che ne consegue, forse sadica, fanciullesca, e che rapisce spingendo a scoprire cosa potrà mai esserci dentro quell’oscurità, dietro i giocatori ebbri, tra le loro gambe sotto il tavolo, nell’angolo buio alle spalle di Gesù Cristo.
E proprio la figura del Cristo, evocata ossessivamente dal protagonista durante tutto il romanzo, credo segni la linea di confine, ormai netta, tra quelli che sono stati per secoli i nostri universi di senso, esoterici e vitali, e quelli che viviamo oggi, vacui e incartapecoriti. Per me che ho letto Lo Scuru sotto Natale, lo scarto è stato rovinoso. L’inquietudine annidata tra le pagine e la potente rievocazione di un mondo che sembra così antico quantunque non ancora del tutto sparito, contrastano troppo con le lucine, i sorrisi di circostanza, la gioia ostenta, cui si è ridotta questa ricorrenza. Oltrepassando quel confine, perciò, Labbate pare quasi lanciarci un monito.
***
Razziddu Buscemi è un siciliano espatriato in America che giunto alla fine dei suoi giorni, come spinto da un bisogno fisico, da un desiderio di purificazione, racconta se stesso e la storia della sua vita, in un intreccio imprescindibile con la terra nativa, Butera, paesino rurale posto all’estremo meridione del nostro Paese. È un mondo magico quello che a tinte fosche dipinge Labbate, intriso di superstizione, di ritualità, di maldicenze e di omertà popolare, un mondo controverso, insomma: semplice e salvifico per chi accetta e si rimette alle regole culturali e religiose vigenti, oscuro e maledetto per chi, invece, quelle stesse regole sente di doverle mettere in discussione, di trascenderle, per raggiungere non già la salvezza della propria anima, ma la semplice consapevolezza del sé, la pace, o qualcosa di vagamente simile. La storia di Razziddu è un lento, inesorabile conflitto contro i suoi demoni, costantemente esposto alla mercé di forze solo in apparenza benigne e solo in apparenza malefiche. Il sacrificio sarà l’unica soluzione possibile, sebbene forse, non del tutto definitiva.
E al sacrificio è chiamato anche il lettore. La lingua, un misto d’italiano e di dialetto che s’inseguono e si completano riga dopo riga, non sempre aiuta la lettura, ma finisce poi per imporsi, con il seguire della lettura, come imprescindibile, come urgenza materiale, fino al paradosso di sembrare che non possa esserci vera comprensione, immedesimazione, altrimenti. Impegno e disponibilità chiede l’autore. Una volta sancito il patto però, le difficoltà iniziali restano sullo sfondo e il valore tenebroso dell’opera erompe dalla pagina. Una lingua – per chiudere da dove ho iniziato – che ci catapulta ancora sull’orlo del baratro, a danzare assieme all’autore che, come un giocoliere sfacciato, ci costringe a rimanere in equilibrio tra l’abisso dell’esoterismo e dell’incomprensibilità persino, e la magica architettura di una potente, quanto oscura, struttura letteraria.
Totilogia – Involatura sulla poesia di Gianni Toti
[dia•foria/ n. 11
Edizioni Cinquemarzo, settembre 2014
1. Era l’autunno del 2011. Il «Sole 24 Ore»lanciava un sondaggio con la complicità della casa editrice Mondadori: a quali autori del Secondo Novecento dedicare un Meridiano? Si rincorsero vari nomi. Tra essi anche quello di Gianni Toti. Gianni Toti? Gianni Toti: poeta sperimentale, classe 1924, romano di nascita, planetario di residenza e di sguardo poetico. Nessun gruppo al quale associarlo e cerimoniosamente ricordarlo; nessun salotto, nessun sofà su cui relegarlo; nessun credo (politico, poetico) che non abbia subito da parte sua ripensamenti, dubbi, turbamenti. Poeta e giornalista, persino cineasta. E poi “poetronico”. Poeta elettronico da quando, all’inizio degli anni Ottanta, coniugò la propria voce poetica all’immagine in movimento attraverso mixer, memorie di quadro, oscillo e vector-scopi e infine mediante i linguaggi delle arti digitali.
2. Il Meridiano ovviamente non si fece. Rimase però la necessità di un ritorno alla poesia di Toti. Il suo nome era stato inserito in svariate antologie minori di poesia sperimentale. Solo Giuseppe Zagarrio, negli anni Settanta, gli aveva dedicato un saggio complesso e corposo per la storia della letteratura italiana contemporanea Marzorati. Non altro. Poco e trascurabile altro. L’ultima raccolta poetica di Toti risaliva al 2004, tre anni prima della sua morte: “I Penultimi Madrigali”, un libello dalla copertina viola, suoi disegni sparsi tra le pagine. Del 2003, invece, la sua ultima “VideoPoemOpera”: “Della morte del trionfo della fine”; il suo accorato e preciso rifiuto dei totalitarismi religiosi e delle ideologie mortifere. Nessuno, nemmeno lui in vita, aveva pensato a ripubblicarne l’opera poetica per intero, un’opera proteiforme cresciuta su se stessa dalla metà degli anni Sessanta, dalla prima raccolta “L’uomo scritto” (Sciascia 1965), suscitando apprezzamenti e polemiche, premi e incomprensioni.
3. Nel 2013, in una mirabile sincronia, un docente di italianistica dell’Università La Sapienza, Francesco Muzzioli, e un giovane studioso toscano, Daniele Poletti, hanno ridato accesso all’opera poetica di Gianni Toti. Muzzioli ha collezionato tutte le raccolte totiane date alle stampe in un ebook per l’editore Onyx. Lo ha intitolato: “Tutti i versi”(in free download a questo indirizzo: http://www.onyxebook.com/toti-tutti-i-versi/). Poletti, attivo co-autore della raffinata rivista/blog “diaforia” (www.diaforia.org) ha composto uno sfogliabile, proponendo un’antologia poetica: “Totilogia”. Lo scorso settembre 2014, quest’ultima è stata trasferita con alcune integrazioni in formato cartaceo per le edizioni Cinquemarzo.
4. Per riproporre la poesia di Gianni Toti è stato determinante il contributo dell’editoria digitale. Un’editoria che non risponde strettamente all’economia del mercato del libro, ma riserva territori ancora franchi animati dalla libertà e dalla difesa dei contenuti intesi come tali, come “contenuti”privi di proiezioni d’incasso. Il digitale consente di impaginare quantità di parola scritta senza farla equivalere al corrispondente costo di carta stampata. Riflessione elementare, questa, ma imprescindibile nel condurre qualsiasi ragionamento sullo stato delle cose. [Un po’come per la fotografia, il rischio è però che “aumentino gli scatti e diminuiscano le domande a cui essi rispondono”. Insomma, che sbiadisca l’identità e lo stato di necessità della scrittura dietro l’alibi “si può, e dunque perché non farlo”.]
5. Mi limiterò qui a ragionare su come le due pubblicazioni digitali destinate a Toti vivano anzitutto nella loro prima funzione: dare accesso ad una scrittura altrimenti non più accessibile. Le raccolte poetiche originali sono ormai pezzi rari, sparsi tra qualche biblioteca pubblica, qualche asta ebay e qualche bancarella dell’usato. Entrambi i curatori dell’opera totiana si sono infatti avvalsi dell’archivio Gianni Toti, conservato presso La Casa Totiana, associazione culturale fondata nel 2009 (si veda il sito: www.lacasatotiana.it), attualmente impegnata in un’ambiziosa operazione di digitalizzazione delle carte e delle videopere del poetronico.
6. Le due opere, mi viene da aggiungere, quella totale e quella antologica, vivono poi insieme, a loro insaputa. La pubblicazione di “Tutti i versi” può essere valorizzata dai numerosi contributi critici proposti dall’antologia. E l’antologia può relazionarsi e significarsi attraverso il confronto con l’intera opera totiana.
7. Il gesto della selezione a partire da un tutto impone di compiere delle scelte e di compiere delle rinunce, in ragione di preferenze e sensibilità personali, in ragione di un discorso che il curatore desidera condurre tra le opere del poeta che sta attraversando. Rimane, dentro di lui e dentro il lettore più avvertito, il dialogo fra ciò che c’è e ciò che non c’è. Poletti, per esempio, decide di portare con sé anche alcuni racconti di Toti, allargando la sua visione di poesia totiana, a comprendere la narrativa più fulminante, quella dei “Racconti da palpebra” (1989) e quella di “Poco dopo gli ultimi tre femtosecondi” (1995). Una scelta questa che condivido e potrei condividere ancor di più se avvenisse dopo aver integrato anche tutto il discorso poetico (nato sulla carta in forma di scrittura poetica) che Toti ha svolto nelle sue opere in video. Una scelta, in generale, che andrebbe maggiormente illustrata. Ma dalla versione digitale alla versione su carta, viene meno la bella introduzione riservata da Poletti al progetto online. Conoscendone la sensibilità poetica, nonché il rigore e la dedizione, gli stessi che adopera quando sceglie di rispettare tabulazioni, maiuscoli, accenti dell’impaginazione originale delle poesie di Toti, e dei testi critici, dispiace che non si presenti apertamente come “Curatore”. Perché il curatore di un’antologia è una sorta di “co-autore”, e merita di darsi nome e cognome. Daniele Poletti, peraltro, proviene da territori poetici che rendono fortemente credibili e documentate le sue interpretazioni poetiche.
Cito dall’introduzione online:
“Uno dei motivi di questa disappartenenza (ndr. di Toti), di questo cammino solitario (comune a pochi altri autori come Alberto Faietti o Augusto Blotto), è la direzione presa e intrapresa, totalmente inversa rispetto a quella dei colleghi dell’epoca: la scrittura di Toti esordisce nella tradizione per poi attestarsi nella vertigine dell’invenzione e della sperimentazione fino alle ultime raccolte, in modo oltranzista, ma diremmo connaturale alla volontà di trovare nuove vie di interpretazione e di suggerimento sulla lettura del mondo.”
E dal finale:
“l’unicum della scrittura totiana trova a mio avviso il suo unico predecessore nel poeta barocco Ludovico Leporeo.”
8. L’antologia ha il grande pregio di comprendere contributi critici ricchi, pertinenti, scritti ad hoc sulla selezione fornita da Poletti, e finalmente di provenienza variegata, di critici di vecchia e nuovissima data, di poeti, di artisti, di chi conosceva Toti di persona e di chi lo ha conosciuto solo sulla carta. Online alcuni di essi, come il contributo di Paolo Albani, possono essere apprezzati in viva voce.
Il libro cartaceo a tutti gli effetti fa parte di un progetto transmediale. Qui stabilisce una risonanza che ne restituisce tutto il valore.
9. Infine, una conclusione, ora che è stato garantito l’accesso alla poesia totiana. Il passo successivo, richiesto a chiunque desideri approcciare l’opera di Toti, è cominciare a corredarla di apparati critici. Il discorso che possiamo condurre rischia il già detto e il già sentito. Credo che strumenti filologici applicati ai manoscritti di Toti e alle loro varie stesure, possano consentirci di compiere quel necessario salto di comprensione. E poi c’è tutto l’inedito, le centinaia di migliaia di poesie, raccolte da Toti e da Toti già riordinate in faldoni cronologici, a partire dagli anni Sessanta. C’è una eccezionale possibilità di seguire, giorno dopo giorno, la storia della sua scrittura, la partitura compositiva della sua voce.
[ Una serata della rassegna Tu se sai dire dillo 2014 è stata dedicata a Gianni Toti (1924-2007), tra l’altro pioniere della video poesia in Italia, di cui è stata presentata per la prima volta la pubblicazione dell’intera opera di poesia ‘scritta’ o lineare, curata da Daniele Poletti. L’archivio delle opere di Gianni Toti è curato dalla Casa Totiana . La comunicazione di Silvia Moretti qui pubblicata è relativa al suo intervento nell’ambito di Tu se sai dire dillo. Segnalo qui il link alla registrazione di alcuni momenti della rassegna , un mio ricordo e una breve scheda biobibliografica del poeta. B.C. ]
Giovanni Toti (Roma 1924-2007), “Vania” nella Resistenza romana (1943- 1945), è stato per decenni giornalista de “L’Unità”, de “La voce della Sicilia” e “Paese Sera”, inviato speciale in tutto il mondo per “Vie Nuove” e direttore del rotocalco della Cgil “Lavoro” dal 1952 al 1958. In Ungheria ha incontrato Marinka Dallos, la compagna amatissima, mancata agli inizi degli anni ’90, coloratissima pittrice naïf, che si era scoperta intensa interprete delle antiche memorie della campagna ungherese sposate sapientemente con le nuove esperienze di vita italiana e soprattutto romana. Dal mondo egli ha portato e tradotto in Italia testi sconosciuti e a volte scomodi, ha partecipato ai “cinegiornali liberi” con Cesare Zavattini e Jean-Luc Godard nel ’68-‘69, curato la rivista “Carte Segrete”. Negli anni Novanta ha ideato e diretto la collana “I Taschinabili”, edita da Fahrenheit 451. Tra i tanti suoi amici possiamo annoverare Neruda, Pasolini, Metz, Cortàzar, Lilj Brik, Che Guevara, ma anche artisti e poeti di ogni età meno conosciuti di tutto il mondo. Lo spirito di Toti è sempre stato combattivo, provocatorio, indagatore, coraggioso nell’accendere dibattiti e sempre pronto a contrastare le approssimazioni e le mode culturali, la “falsa coscienza” dei festival e dei convegni, da Pesaro a Venezia, da L’Avana a San Paolo, a Mosca, a Parigi. Gianni Toti era un autore coltissimo dell’avanguardia letteraria e audiovisiva, avversario dei realismi più o meno socialisti. Lungi dal negare la sua appartenenza al partito comunista italiano, non è mai venuto meno alla personale identità creativa e a un’attenta critica degli automatismi del linguaggio. Ha sempre affermato con convinzione, erede in questo di pensatori quali Croce e Gramsci, che “l’arte è educatrice in quanto arte, non in quanto arte educatrice“. Sentiva e viveva l’arte come creazione sempre sperimentale e strumento privilegiato per pensare l’impensabile. Sovente avvertiva la necessità di ripetere anche a se stesso: “Il faut penser l’impensable”. Negli anni ’80 ha fatto parte degli autori della breve stagione della “Sperimentazione Programmi” della Rai-radiotelevisione italiana, dedicata alle tecnologie elettroniche con videopoemi non trasmessi dalla nostra tv ma conosciuti, studiati e premiati in tutto il mondo. Ha realizzato la parte più consistente delle sue VideoPoemOpere soprattutto in Francia, sia a Marsiglia che al Centre International de Creation Vidéo (CICV) di Hérimoncourt (Montbéliard-Belfort) dove gli è stato intitolato un edificio, l’Espace Gianni Toti, dedicato a mostre e attività artistiche.