Gentile Lettera al Rettore di Mario Sechi,
quando ti ho letta per un attimo ho pensato a quei generali della Grande Guerra che, in nome della loro alta concezione dell’onore, rifiutavano di chinarsi nelle trincee, si ergevano dritti e alteri, forti del loro grado, e finivano ahimè accoppati dai proiettili.
Non nego, Gentile Lettera, che di questi tempi volgari e confusi, in questa “società sciapa e infelice” (1), distinguersi per dignità e compostezza non è cosa da poco. È che nel tuo stile – perdonami – un poco ampolloso e prolisso, io, semplice Lettera alla Lettera, Lettera derivata, dipendente atipica, Lettera disagiata, sento echeggiare una fumosità che fa, tuo malgrado, il gioco di un “disegno strategico” oramai ben chiaro: lo smantellamento di una università pubblica e libera. Apparentemente in nome del risparmio del denaro pubblico, nella sostanza come negazione del diritto allo studio per tutti (tutti quelli che vogliono e meritano, certo), per salvare il salvabile, ovvero: salvare alcuni pochi eletti e lasciar affossare i molti disgraziati. Io sospetto che questa distruzione non sia il frutto di un piano, ma del panico delle nostre classi ‘dirigenti’. Economisti, professoroni, esperti – ma anche svariati avventori di bar – non fanno che ripeterci che non c’è bisogno di laureati, che si spende troppo nell’istruzione, che l’Italia deve investire in camerieri e gondole (2), non nella formazione dei suoi giovani e nello sviluppo delle sue idee. Cara Lettera, non sarà il caso di dire molto, molto chiaramente che l’Italia ha la percentuale minore di laureati in Europa? (3) Che spendiamo meno di tutti gli altri Stati europei per l’istruzione? Che per rapporto numero di studenti per docente siamo tra gli ultimi? Che il denaro pubblico sovvenziona scuole e università private? (4) Come si fa a dire che il problema dell’università italiana sono i (presunti) troppi laureati o le (presunte) troppe università? Non il nepotismo, non la corruzione, non la burocrazia, non la mancanza di strutture, non l’indifferenza, non il cinismo? Gentile Lettera, qui c’è in gioco molto più della “onorabilità”. Sta affondando una conquista aurea del passato recente: la mobilità sociale. Insieme al progetto di una società democratica.
Tu mi dirai che esagero, cara Lettera. Intuisco che il tuo estensore ha alle spalle decenni di Senati Accademici, Consigli di Facoltà, Consigli di Dipartimento, Progetti e Sessioni di questo e quello, e così via, che ne avrà viste, insomma, delle belle, che sarà ormai convinto che anche se molte cose cambiano nulla cambia mai veramente, e ci si può affidare a Rettori e Ministri con tranquillità, sapendo che nessuno vuole veramente buttare alle ortiche il diritto alla conoscenza.
Io invece, Lettera di terza classe, insieme a tante compagne lettere scritte negli ultimi anni (5), ti confesso che faccio fatica a fidarmi, per via di tutte le cose che ho visto da quaggiù: ho visto facoltà dove gli studenti sono chiamati “i nostri clienti” e promossi in massa in quanto tali, ho visto inviti a limitare il carico di studio per ciascun insegnamento a “300 pagine”, ho visto ricercatori segati perché pubblicavano o osavano fare concorsi senza il benestare del professore di ‘appartenenza’, ho visto precari lavorare gratis dodici ore al giorno nell’illusione di essere riconosciuti come lavoratori veri (!), ho visto biblioteche far bruciare – BRUCIARE – i libri e le pubblicazioni di candidati a concorsi perché all’impresa di facchinaggio scadeva il contratto di servizio esternalizzato e aveva bisogno di recuperare le proprie casse e i bibliotecari non sapevano dove mettere “tutta quella roba”.
(Tra l’altro, Lettera, come fai a dirmi che i “baroni” non esistono più? Certo, non essendoci più trippa per gatti, pardon, risorse economiche, i tipici potenti narcisisti e intrallazzatori si sono ridimensionati. Ma il baronato, le sue logiche e i suoi effetti, in verità si è istituzionalizzato, è diventato ufficiale: cosa altro sono i contratti di insegnamento “a titolo gratuito”? (6) O le sanzioni disciplinari per chi osa protestare? (7))
Tutte cose tipiche, certo; sulla bocca dell’ultimo dei forcaioli come del primo attore di Striscia la notizia. Diciamocelo: molti italiani, compresi tanti laureati scottati dalle logiche accademiche, preferirebbero far marcire l’università che mantenere in vita le pratiche che l’hanno animata finora.
Dovrò aggiungere, allora, che ho visto, incontrato, conosciuto tanta gente in gamba, studiosi dedicati e sottopagati, ho visto dei puri, degli insegnanti amatissimi, degli studenti appassionati, progetti e convegni che all’estero se li sognano, la possibilità di far realizzare ragazzi e ragazze provenienti dai ceti sociali più umili, e, infine, quel misto di competenza, trasversalità e unicità che fa la fortuna dei tanti colleghi che decidono di andarsene dall’Italia.
Il problema è quello che vediamo tutti e due, tu, Lettera professorale, e io, Lettera precaria: che la classe dirigente di questo paese sta distruggendo il meglio delle università, senza intaccare i suoi malcostumi. Uno dei dei quali consiste nella mancata assunzione di responsabilità da parte di chi ha il potere, piccolo o grande che sia. Uno dei quali consiste nella mancata trasparenza nel reclutamento (o la mancanza totale di esso). Uno dei quali consiste nel disprezzo verso gli studenti. Uno dei quali consiste nel pensare per corporazioni e gerarchie, e non per qualità delle idee, della didattica, dei progetti e dei prodotti di ricerca. Uno dei quali consiste nel tacere, tacere a oltranza, il fatto che le università vanno avanti grazie al lavoro sottopagato e irregolare di un vasto numero di precari (non esistono anagrafi, ma alcuni dicono che siano all’incirca il doppio degli incardinati) (8). Uno dei quali consiste nell’ignorare che gran parte dell’università è fatta di insegnamento, una attività così screditata e passé, che persino tu, Lettera, preferisci parlare di “comunità di studiosi e studenti”, e ovunque, dalla Camera dei deputati al talk-show televisivo, si gloria l’immenso valore della ricerca – mentre la si va depauperando – e si tace quello della docenza. Ma, Lettera, non voglio parlare della cibernetica o dei bosoni, con cui né io né tu abbiamo famigliarità, ma che cos’è la ricerca umanistica se non condivisione delle conoscenze, trasmissione, partecipazione e trasformazione dei saperi?
Lettera, dici di non avere voce, ma hai molte parole. Una in più ne servirebbe, a me pare, ed è basta. Che a farla vibrare insieme nelle facoltà produrrebbe tavoli di discussione trasversali, informazione agli studenti, assemblee aperte, blocchi e scioperi, consapevolezza che in un paese piccolo, antico, popoloso e con poche risorse primarie come il nostro occorrono più laureati, più sinergia, più reti, più pensiero. Produrrebbe, forse – sempre che non sia già troppo tardi per andarcene nelle trincee – resistenza.
Sinceramente,
Lettera di Renata Morresi
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Note
2) Camerieri e gondole, le fantastiche ricette di Luigi Zingales: http://www.youtube.com/watch?v=tHpIgkw4ZwU
4) Quanto spendiamo. Per chi ha pazienza, qui le tabelle OCSE su università e istruzione.
5) Tante compagne lettere, come questa.
8) Quanti sono i precari all’incirca (al minuto 2:00): http://www.youtube.com/watch?v=rlVPcVR-_lk
Qui un recente sondaggio on-line per contare quanti sono i precari all’università:
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Il gioco si richiama a Doom (1993) nella storia e nell’ambientazione: gli ambienti sono spesso bui, labirintici ed opprimenti, gli esterni sono inospitali. Deve molto anche ai successivi Quake e QuakeII di ID Software, per la dimensione esplorativa negli ambienti, le architetture monumentali, i problemi fisici (i classici salti, piattaforme mobili e movimenti a tempo). Viene usata abbondantemente l’oscurità come elemento di incertezza per coinvolgere emotivamente il giocatore: molti livelli sono in penombra e alcuni assolutamente bui, la torcia elettrica non è utilizzabile insieme ad un’arma e ciò costringere il giocatore a scegliere se vedere o sparare, o a snervanti cambi di mano tra pila e fucile divenuti ormai proverbiali.


