3.
Quando la nave prese in pieno il banco di ghiaccio, il capitano Winter stava dormendo. Il mare si tinse di rosso e tutti, proprio tutti, i passeggeri si spaventarono a morte.
Hoch stand der Sanddorn am Strand von Hiddensee
Micha, mein Micha, und alles tat so weh
Die Kaninchen scheu schauten aus dem Bau
so laut entlud sich mein Leid in`s Himmelblau
So böse stapfte mein nackter Fuß den Sand
und schlug ich von meiner Schulter deine Hand
Micha, mein Micha, und alles tat so weh
tu das noch einmal, Micha und ich geh
Via, via, vieni via di qui,
niente più ti lega a questi luoghi,
neanche questi fiori azzurri…
via, via, neanche questo tempo grigio
pieno di musiche
e di uomini che ti sono piaciuti
(Paolo Conte, Via con me, 1981)
Di fiori azzurri ce ne son diversi in natura, ognuno con la sua sfumatura di celeste, d’azzurro, o d’indaco, fino al blu intenso, fino a sfumare nel violetto. Vengono in mente il fiordaliso, (cliccate sul campo qua sopra, fiordalisi e papaveri), il nontiscordardimé (la myosotis alpestris), o altri fiori di prato di cui non so il nome, fino alle ombre blu della genziana e di certi anemoni.
Ma nella mia testa uno dei primi ricordi di mitico fiore azzurro spunta fuori da una poesia che da ragazzetto avevo sentito decine di volte recitare da Arnoldo Foà, in uno di quei quarantacinque giri che allora usavano, di poesie dette da grandi attori: era questa una scelta di poesie di Federico Garcia Lorca,
Una terra invernale. Il respiro scorporato dei cieli, convogliato in piccoli globi bianchi di neve, che volteggiano e cadono come piume. La Regina siede nel castello, guardando il silenzio all’esterno: la cornice nera d’ebano della finestra, racchiude il paesaggio in una distanza di freddo irraggiungibile e compatto. Lei attraversa il confine pungendosi il dito con un ago mentre cuce. Tre gocce di sangue si versano sulla neve, creano un’immagine di lontananza e sorprendente bellezza che contagia l’immaginazione della donna:
“Se solo avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue, e nera come il legno della finestra (15)”.
Markus Werner, Zündel se ne va, 2008, Neri Pozza, 158 pag.
Le traduzioni sono capsule del tempo. All’improvviso dal passato, spesso anche lontano, tornano romanzi folgoranti, che descrivono un mondo che crediamo di ricordare alla perfezione, ma che in realtà è sepolto malamente nella nostra memoria fallace.
La preda erodeva il mio corpo. Acqua evaporava, e combustibili macromolecole si consumavano nel moto di muscoli incandescenti. E l’anima anche si consumava, ritirandosi e spalancando un vuoto accogliente, ergonomico. Lì si accoccolò la preda, si addormentò beata; per sempre al sicuro, dolce ninnananna del cozzar di denti e ruminar di mascelle.
se è luce solo la luce plebeo il buio mi puniva
e il dovere sembrava vita scuotevo le mani facevo come l’aria
“lo stesso vento”, morivo uguale
a te parlavo nuova, come fosse il caso a dire non c’è vivere
“non è capace, nessuno di noi, neanche a far ombra
a un altro” e cadendo ci rialziamo somigliando a chi
scese al bisogno, alla pena o era fedele al mondo,
“è piccolo il mondo e tu non sai che si nasce grandi,
ci rimpiccioliamo di paura quando il cane abbaia, ci stana
come gli uccelli e una freccia di cartone indica la via del cielo,
come siamo o la tua casa”.
Le poinçonneur des Lilas
di Serge Gainsbourg
trad. Francesco Forlani J’suis l’poinçonneur des Lilas
Le gars qu’on croise et qu’on n’ regarde pas
Y a pas d’soleil sous la terre
Drôle de croisière
Pour tuer l’ennui j’ai dans ma veste
Les extraits du Reader Digest
Et dans c’bouquin y a écrit
Que des gars s’la coulent douce à Miami
Pendant c’temps que je fais l’zouave
Au fond d’la cave
Paraît qu’y a pas d’sot métier
Moi j’fais des trous dans des billets
Sono il bigliettaio di Lilas
quello che vedi ma non guardi mai
e non c’è sole sotto terra
Strana crociera
Per fare in fretta e che finisca
Ho un Reader Digest nella tasca
Leggo quel che è scritto con le dita
Di gente che a Miami fa la vita
Io faccio lo schiavo sulla linea
Sotto in cantina
non ci son mestier da inetti
Io faccio buchi sui biglietti
Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia di un prestigiatore nemico?
G. Bufalino, Le menzogne della notte
I Lemmings (DMA design, 1991) cadono da una botola. Non sono cattivi, non sono buoni, non sono intelligenti e nemmeno stupidi. Sono indistinguibili gli uni dagli altri, indossano una uniforme, un grembiule quasi scolastico. Coincidono con ciò che indossano, bidimensionali. Il quadro di gioco è un percorso astratto e composito. Lo scopo è condurre, in un tempo stabilito e in un’altra botola, almeno una certa percentuale di lemmings. Non importa quali lemmings arrivino nella seconda botola ma solo quanti. Tuttavia, per farlo, il giocatore deve assegnare un ruolo, una funzione, a qualcuno dei lemmings. Il giocatore ne sceglie uno qualsiasi e lo investe scalatore, bloccatore, costruttore, perforatore, minatore, paracadutista, scavatore e kamikaze. Il giocatore dispone di una funzione di pausa per studiare il quadro di gioco e di una funzione di autodistruzione nel caso risulti impossibile salvare la percentuale di lemmings richiesta e non voglia attendere lo scadere del tempo. Nessun lemming può tornare nella buca dalla quale è caduto .
di Étienne BALIBAR
(il primo articolo di questa serie è uscito qui, a.i.)
1.Il razzismo tra storia e avvenire
Perché classifichiamo una serie di comportamenti sotto la comune categoria di «razzismo»? Per quale motivo un insieme di discorsi, estremamente diversi tra loro, che tendono a isolare, a stigmatizzare, a minacciare, a discriminare dei gruppi umani o sociali, sono considerati come razzisti? Perché qualifichiamo come «razziste» pratiche differenti — alcune spontanee, altre istituzionali — che hanno in comune il fatto di generare l’oppressione, l’ostilità, la sfiducia reciproche, che possono sfociare nella violenza estrema e che sono comuni a tutte le società, a quelle contemporanee come a quelle sviluppatesi nel corso della storia? Con mia grande sorpresa, la copiosa letteratura che oggi si consacra allo studio del «razzismo» discute del carattere antico o moderno del «fenomeno razzista», delle sue variazioni quantitative e qualitative, ecc., ma non si pone quasi mai questa domanda. Essa tende a considerare la risposta come acquisita, facendo della categoria di «razzismo» uno strumento il cui utilizzo nell’analisi sociologica e politica non pone alcun problema. Si passa direttamente alla discussione delle differenti definizioni, delle teorie concorrenti e dei loro limiti di validità. Alla base di questo atteggiamento è la convinzione che vi sia un fatto incontestabile: da un tempo più o meno lungo, esiste un fenomeno cui è dato il nome di razzismo; le sue manifestazioni sono molteplici; esso si trasforma con il passare del tempo senza tuttavia coincidere con ogni forma di violenza, né con ogni manifestazione di odio collettivo. Ma non sarebbe forse il caso di domandarsi da cosa deriva quest’evidenza?
Clandestinamente, mi sono già autoinvitato sotto la tavola celeste, imbandita (con ognibendiddio) per gli oppressi, gli sfruttati, i sofferenti, i perseguitati a causa della giustizia, gli emarginati e gli esclusi (con una parola comune: i poveri). Mi accontento delle briciole che cadono a terra. E delle gocce versate.
Prestatemi ascolto. Questa è la storia di Pašana (si legge Pasciana) conosciuta anche come Anna e affettuosamente chiamata dai suoi innumerevoli famigliari Bica (nonna), madre prolifica con una discendenza che già supera il centinaio di persone (fra figli, nipoti e pronipoti sparsi in tutta Europa). Se ne è andata, vecchia di quasi ottant’anni, l’estate dell’anno scorso, all’alba, alla vigilia di ferragosto. Era da tempo malata. Non la vedevo da diversi giorni. La notte prima, a causa di un forte mal di testa, non riuscivo a prender sonno e, fra gli altri pensieri, rimuginavo un po’ di sensi di colpa. Negli ultimi tempi l’avevo trascurata. L’indomani mattina vado al “kampo” (è la parola con cui nella lingua dei romá si chiama l’accampamento) per farle visita. Incontro suo nipote Alexander . “Dov’è Bica?”. “L’ hanno portata all’Ospedale”. “Sta male?” “E’ morta” “Se ne è andata stanotte, ti ha cercato tanto, ieri mi ha fatto telefonare tante volte nel tuo studio, ma tu non c’eri”, mi dice una donna.
Se ne è andata senza ottenere la “pensia” (così chiamava la pensione) tanto attesa e che lei si era convinta le spettasse.
intervista con Jean Ziegler
[Il prossimo 6 giugno si terrà a Roma un vertice speciale della Fao. per l’occasione Il Manifesto ha pubblicato il 23 maggio un’intervista a Jean Ziegler, esperto internazionale dell’ONU; a complemento di questa riporto quest’altra, rilasciata nel 2005 al giornalista Giuseppe Accardo durante la presentazione del suo ultimo libro “L’impero della vergogna” al canale televisivo francese TV5. Mi sembra scavi molto di più nei problemi e sia comunque assai attuale, l’unico aggiornamento che richiede è quello di sostituire al nome di Sharon quello di Olmert, a.s.]
(Traduzione dal testo francese di Manuel Antonini)
D. Il suo libro si intitola L’impero della vergogna. Qual è questo impero? Perché “della vergogna”? Qual è questa vergogna?
Nelle favelas del nord del Brasile, capita alle madri, la sera, di mettere dell’acqua nella pentola e di infilarci delle pietre. Ai loro figli che piangono per la fame, spiegano che “presto la cena sarà pronta…”, sperando che nel frattempo i ragazzi si addormentino.
Provi a misurare la vergogna provata da una madre davanti ai suoi figli vittime della fame e che lei è incapace di nutrire.
L’ordine omicida del mondo – che uccide attraverso la fame e l’epidemia 100.000 persone al giorno – non provoca solamente la vergogna tra le sue vittime, ma anche fra di noi, occidentali, bianchi, dominatori, che siamo i complici di questa ecatombe, coscienti, informati e, tuttavia, silenziosi, vigliacchi e paralizzati.
Come dice il nome stesso, gli incontri degli Alcolisti Anonimi sono anonimi. Non occorre firmare nulla, né mostrare un documento d’identità, e nemmeno rivelare il proprio vero nome. Ma gli incontri non sono privati. Chiunque può parteciparvi. E chiunque è libero di riconoscervi: dal viso, dalla voce, dalle storie che raccontate. L’anonimato non vuol dire privacy.
Ciò è ovvio e poco interessante, ma molti sembrano dimenticarsene quando utilizzano un computer. Pensano “è sicuro” e si dimenticano che “sicuro” può voler significare molte cose diverse.
(Questo è un testo audiovisivo: pregasi ascoltare.)
per urti oculari si trasmette l’aggressività degli specchi
tra il muro e lo specchio: il corpo sottratto
so che non è avvenuto altro che un gioco
e mi tengo a questa coscienza e la osservo
che si sviluppa più rapida di un geranio
tutta piena di finte e rapine
tanto guardano sempre da un’altra parte
con la fragilità di una pellicola
La cucina economica nera, piena di carbone e di legna, brilla come una zucca illuminata. Gli sbattiuova ronzano, i cucchiai girano e girano intorno alle scodelle di burro e zucchero, la vaniglia addolcisce l’aria, lo zenzero la rende piccante; odori di cottura, morbidi e stuzzicanti, saturano la cucina, si diffondono per la casa, si allargano nel mondo con gli sbuffi di fumo del camino.
Truman Capote, da Un ricordo di Natale
Quando ero piccolo la casa dei nonni è stata per me una scuola di odori. Ero alto come il tavolo della cucina di Siena o di Chiusdino, e forse proprio le dimensioni contenute mi permettevano di curiosare tra i fornelli senza essere ripreso. Mi ricordo mio nonno e mia nonna, una ditta gastronomica che si attivava dalle prime ore del mattino. Nonno Guido si era costruito la fama di esperto di cibarie, e così mi portava con lui a cercare spigole e tartufi, ma anche cose più banali, come le bombolette di seltz dal Mancini in Piazza del Campo. Quel distributore dell’acqua di seltz rosso fiammante ha allietato non poco le mie inestinguibili seti estive. Mio babbo diceva che al nonno appiccicavano il pesce vecchio, ma ai miei occhi di bambino la sua infallibilità di gastronomo incallito sembrava inevitabile, e del nonno mi fidavo come ci si fida dei grandi, quando si è piccoli.
Tanto lo so che pensi, quello che non vorresti pensare e ti attanaglia la mente, ti fa mio prigioniero. Non sono quella con la maglia a righe, tarchiata, corta e male incavata, e nemmeno quell’altra che sbiascica ingiure e maledizioni come una preghiera da tre milioni – tre- di bestemmie. C’ho la maglia rosa, io, come i ciclisti, come le femmine; quella che all’inizio del reportage non parla, annuisce soltanto. E so anche che ti stai domandando come mai ti stia parlando così, nella tua lingua, quella dei pensieri nobili, la lingua dei “molti” diceva Dante, no?
“Ma che dico? Tanto lo so che quando mi hai visto per la prima volta alla televisione – come se non sapessi che quelli come te, il televisore non ce l’hanno, cioè ce l’hanno ma lo chiamano rete, come quando noi si diceva la prima rete…- hai pensato al tedesco. Lumpenproletariat. Si dice così? Sottoproletariato, “carne” eterna da macello,… plebaglia ,cani bastonati”, “feccia della società”, lazzaroni. Chiavica. Pardon. Insomma “rifiuti”, immondizia altro che fiore del proletariato. Insomma con noi non puoi farci niente, questo lo capisci? Una rivoluzione poi…
Certo che ho gridato fuori, fuori, e ci mancherebbe pure che quegli zingari se ne stessero dentro. Che poi dentro non ci stiamo nemmeno noi, convieni? E ti fa comodo pensare a noi, anzi sono proprio io colei che ti ci ha fatto pensare, come alle anime dannate dell’Inferno, insomma altro da te che invece sei nobile e hai nobili pensieri. Ma noi, io non sono nemmeno quello, e lo sai.
E allora tiri in ballo Pasolini, l’amore che lui aveva per i “popolani” come noi, solo che lui con i popolani ci divideva il piatto, la vita, non tu che, se potessi, alla zingarella che ti strattona, ci daresti un pugno in faccia.
Noi non apparteniamo neppure a quella aristocrazia, a quella preistoria, caro, e questo tu lo sai. Io sono un tumore, lo capisci, un’escrescenza della tua buona coscienza, della tua “istanza” e allora, tienimi con te, portami a spasso con i tuoi pensieri, fa’ pure finta che io non esista, in fondo cosa vuoi che sia una malattia! Tanto lo sai, che se mi estirpi, muori.
All’origine di una fiaba c’è sempre una paura. Un ostacolo, un confine da varcare. Questa paura è la vegetazione inarrestabile del bosco, le ombre sul fondo dell’acqua, il muro di cinta di una casa ostile, la volontà del padre, la malattia, la perdita, il mutamento inatteso del corpo. L’eroe si trova ad essere il centro propulsore della difficoltà, il catalizzatore della violenza che prende i suoi tratti identitari per essere espulsa. Dove ora si trova c’è caos e incertezza, c’è un mondo che deve essere riordinato, un linguaggio da scoprire per attraversarlo. In alcune famose fiabe popolari la prima parola che ci viene in aiuto è il nome stesso del protagonista, un segno incandescente, una chiave che apre i destini.
Una delle più note eroine della tradizione ha perduto il nome originario; le viene dato un soprannome, che indica la sua nuova natura, marginale e pericolosa assieme:
“Nella sera, quando era completamente esausta per il lavoro, non aveva un letto, ma doveva giacere vicino al focolare, tra le ceneri. Appariva sempre così impolverata e sporca che iniziarono a chiamarla Cenerentola”. (1)
su “La Liguria nero su bianco.” ( Il Foglio Letterario )
di
Marino Magliani
Un narratore ligure, progettando di raccontare la sua terra, e provando dunque a distinguerne i multipiani, che sono mille, da quello delle terrazze all’opaco, terrazze di gola, a quello dei costoni esposti, degli spuntoni sulle mulattiere che servivano da posatoio, dei fondovalle, dei tetti, non dovrebbe utilizzare il termine Liguria verticale.
Non esiste una Liguria verticale, nel senso che se la si guarda dal basso verso l’alto, la Liguria si vedrà obliqua, e dall’alto verso il basso é lo stesso, una Liguria obliqua. Per vederla verticalmente dall’alto si dovrebbe ripetere il gesto aereo di quel grande narratore, il quale sostiene che per ottenere un punto di vista verticale occorre aprire una botola nel ventre dell’aereo e guardare giù. Per ultimo non si guardarebbe mai la stessa cosa perché l’aereo si sposta.