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Manuela Ormea IL BARONE RAMPANTE

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di Manuela Ormea
Il Barone rampante
Viaggio di lettrice 5
 
da Il mondo che verrà
incontri con l’altrove di Italo Calvino
2022 Lo studiolo Edizioni Sanremo

   
   Razionalità ed invenzione fantastica costituiscono il nucleo del romanzo. In quest’opera è richiesta la capacità di guardare la realtà contemporanea ponendosi ad una giusta distanza. Così il protagonista della narrazione, giovane rampollo di una nobile famiglia di fine Settecento, può osservare fatti e particolari altrimenti non visibili, o non osservabili con la stessa chiarezza.
   La vicenda immaginaria del Barone rampante, collocata nel periodo dell’Illuminismo e della rivoluzione francese, assume connotati fiabeschi proponendo una chiave di lettura originale. L’originalità è pur sempre un valore se nel capitolo XXIV del romanzo possiamo leggere: «Anche le idee più fuori dal comune potevano essere le giuste».
   Il barone Cosimo Piovasco di rondò sale sugli alberi di Ombrosa senza più discendere a terra perché, «per essere con gli altri veramente, la sola via era quella d’essere separato dagli altri». Il fantastico qui si impone come gioco ostinato e ribelle, come «meditazione sugli incubi o i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo». E qui il desiderio è forse il poter essere fedeli a se stessi e ai sogni della propria infanzia per tutta la vita, senza cedere a compromessi.
   Per Calvino le fiabe rappresentano un «catalogo degli elementi fondamentali della vita, una successione degli avvenimenti fondamentali della vita dalla nascita alla morte».
   Le fiabe tuttavia non forniscono soluzioni facili ai problemi della vita; esse sono piene di ambiguità e contraddizioni, ritraggono un mondo talvolta crudele e dalle soluzioni spesso insoddisfacenti. Non c’è una vera e propria proposta morale da seguire. Secondo Calvino si vive oggi con questo lascito morale: ciò che va bene a me può non essere utile ad altri. Ognuno deve cercare la propria via e quindi il significato della tradizione è legato necessariamente a ciò che questa riesce a dire sulla condizione contemporanea. Oggi le illusioni sono poche, ma – dice Calvino, «poche illusioni sono meglio di tante false promesse».
   Calvino non ha mai eluso la complessità, talvolta ‘mostruosa’, della realtà, bensì l’ha affrontata attraverso strategie di distanziamento che potessero rivelargli aspetti diversi da opporre alla ristrettezza del vivere. Lo ha certamente fatto nel Barone rampante, dove l’aspetto fantastico dell’opera è connesso al modo di organizzare le immagini (e la visione del mondo): dalla sala da pranzo della villa d’Ombrosa, il dodicenne Cosimo Piovasco di rondò, dopo aver rifiutato di mangiare un piatto di lumache, fugge su un leccio e vive per sempre sugli alberi. Da lassù Cosimo guarda il mondo da una diversa e insolita angolazione. «Ogni cosa da lassù era diversa, e questo era già un divertimento». (II)
   Si innamora di Viola (la Sinforosa), una bambina indipendente e ribelle come lui, capace di salire sugli alberi e farsi rispettare da una banda di ladruncoli di frutta; e parla a distanza col fratello più giovane (Biagio, la voce narrante) che solo allora, con i piedi ben piantati per terra, capisce la gioia di stare a piedi nudi in un letto caldo e bianco. Dagli alberi, dove costruisce le proprie tane e una sorta di libreria che contiene pure l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, Cosimo riesce a comunicare con la famiglia e con gli ombrosotti, ma anche con viandanti e soldati di passaggio; dall’alto di olmi, ulivi, gelsi e magnolie va a caccia di cibo e risolve problemi idraulici, escogitando un sistema di fontana pensile; ospita fanciulle e ragiona col precettore Abate di monarchie e di repubbliche, del giusto e del vero nelle varie religioni, del terremoto di Lisbona, della pirateria e chissà di che cos’altro, sulla scorta di tutte le pubblicazioni più ‘scomunicate’ d’Europa. Così facendo il tempo corre e Cosimo si ritrova ultrasessantenne, solo e malato su un grande noce dal quale, in una giornata di libeccio, spicca il volo aggrappato alla fune di una mongolfiera.
   Nell’ultimo capitolo (XXX) del romanzo, dopo la sparizione di Cosimo, il narratore dice: «Prima era diverso, c’era mio fratello; mi dicevo: ‘c’è già lui che ci pensa’ e io badavo a vivere. (…) Ora che lui non c’è, mi pare che dovrei pensare a tante cose, la filosofia, la politica, la storia, seguo le gazzette, leggo i libri, mi ci rompo la testa, ma le cose che voleva dire lui non sono lì, è altro che lui intendeva, qualcosa che abbracciasse tutto, e non poteva dirla con parole, ma solo vivendo come visse. Solo essendo così spietatamente se stesso come fu fino alla morte, poteva dare qualcosa a tutti gli uomini».
   
   Si tratta del problema di essere, di essere veramente; di essere integro e intellettualmente onesto. Calvino cerca l’uomo ovunque pensa si possa nascondere: tra le fronde di un leccio, in un’armatura o nella parte del corpo offesa da una palla di cannone. tutti ci sentiamo incompleti e realizziamo da soli solo una parte di noi stessi. È nell’incontro con l’altro, con la diversità (dentro e fuori di noi) che forse riusciamo a individuare certi valori fondamentali molto semplici: fraternità, solidarietà, volontà di non accettare il mondo così com’è, desiderio di cambiarlo e renderlo un posto migliore in cui vivere. «Ogni uomo vivendo deve fare violenza alla vita, per vivere una vita che abbia un senso», ha detto Calvino in un’intervista del 1957. già allora, egli si poneva il problema della molteplicità dei linguaggi e della consapevolezza di questa molteplicità in una civiltà, non solo letteraria, in cui nessuno può più essere sicuro e appagato da un unico modo di esprimersi. Meglio scrivere opere frammentarie e disordinate, senza una fine, che opere che si beano della loro compiutezza meccanica.
   Il Barone rampante è un romanzo che, in questo senso, esprime un movimento in atto nel mondo reale, la continuità e continua diversità del reale. È storia di metamorfosi come può esserlo la narrazione di un’educazione, un’ascesa (o discesa) sociale, singola o collettiva, una scelta di coscienza e una tensione morale. Credo che quella del Barone rampante sia una storia emblematica di quelle che a Calvino interessava raccontare: «storie di ricerca d’una completezza umana, d’una integrazione, da raggiungere attraverso prove pratiche e morali insieme, al di là delle alienazioni e dei dimidiamenti, che vengono imposti all’uomo contemporaneo».
   Mutilazioni, incompletezze e crisi che possono essere estese oggigiorno ad ogni individuo della generazione Covid-19, privato di entusiasmi, confinato in casa e distanziato/dilaniato nel corpo e nella mente, ma che ha bisogno di aggrapparsi a nuove speranze e visioni del mondo più giuste e sostenibili.
   Anche in questo orientamento va intravista l’unità poetica ed etica di questo romanzo ‘fantastico’ in particolare e degli altri due romanzi allegorici della genealogia degli Antenati: Il Visconte dimezzato e Il Cavaliere inesistente.

Incroci

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di Alberto Comparini

Gustave Courbet, Autoritratto con cane nero

Il gomito di FS aveva rotto una doga in legno il 7 febbraio 2021 a Milano avevate scopato qualche volta prima che il 2020 finisse tra i botti cinesi lei diceva che facevamo l’amore, lo ripetevi anche tu stupito e piuttosto imbarazzato a bassa voce facevamo l’amore era vero: per amore le avevi comprato un bollitore il 3 febbraio 2021, anche se non bevi thè infusi tisane e detesti i gatti. Era una dicotomia estremamente stupida questa eppure così dirimente che da lì a pochi mesi avrebbe provocato una rottura definitiva del letto, della coppia, e in parte del bicipite femorale. Ma tant’è, secondo lei facevamo l’amore, secondo il proprietario la doga era rotta, e secondo me doveva cambiarla FS. 

Figuriamoci. 

In questo solco discontinuo di sesso di doghe e di amore fissavi immobile le rifiniture da completare, i Meridiani incasellati sulle credenze per opere e per autore, le scatole vuote, i vestiti di AC buttati in ogni angolo della stanza. La sera prima avevi impostato la sveglia alle 5 del mattino, per te e per i tuoi marcatori era un orario particolarmente insolito quasi ostile per girarsi in continuazione sul lato sinistro del materasso muovere lentamente le falangi delle mani sentire gli arti prendere possesso dell’aria ripetere nuovamente gli stessi gesti alzarsi. Il corpo aveva reagito male a quell’improvviso cambio di rotta era stordito attraversato lateralmente da un sentimento di nausea, e nemmeno oggi al risveglio è riuscito a trovare una soluzione definitiva per la doga e per l’oscillazione degli esami. Che poi FS non si era mai interessata per davvero a entrambe le questioni aveva reagito male al telefono era gennaio l’inizio dell’anno o giù di lì non mi ricordo bene non era importante quel giorno non le interessava proprio sapere come funzionasse il moto dei corpi glielo avevi provato a spiegare più volte al terzo piano di via Lampi 14, dicevi, il moto del pendolo è simile a quello dei corpi: una massa puntiforme fissata alla estremità di un filo inestensibile è soggetta all’attrazione gravitazionale, i valori di una relazione oscillano tra un polo e l’altro fino a quando il bilancio energetico si esaurisce, i corpi smettono di muoversi perdendo la loro armonia nello spazio. 

Aveva bisogno di respirare diceva la linea era instabile non capivi aveva già spento il telefono.

Giri gli occhi dal solco verso l’orologio da polso, va bene, era ora, lo sapevi dal 14 aprile 2022 che in quella mansarda non saresti più ritornato. Peccato, perché l’appartamento aveva le travi in legno e un box privato che sprecavi con una bici da strada di seconda mano. D’estate la temperatura era più che sopportabile, almeno così ti aveva garantito l’agente immobiliare al telefono poche ore dopo la breve telefonata al momento della visita di controllo; certo, la città era più un paese che un capoluogo di regione, non si poteva mentire su questo, ma vivevi al terzo piano la vista dava sul monumento Battisti e la cucina era nuova di pacco, della Scavolini Pesaro proprio come la squadra di basket dove giocava GT dove saresti potuto diventare AC come EC aveva fatto per anni prima di diventare EC+AM chissà come avevano fatto nel dicembre 1985 (erano gli anni ottanta la felicità non era legata all’individuo; ancora oggi non sai chi sono EC e AM, la loro identità è ferma agli ottanta è un’equazione semplice plurale riproduttiva eteronormativa almeno così si legge nella moltiplicazione quotidiana di messaggi immagini video qualche sticker un po’ cringe un po’ boomer nella chat di famiglia). 

Ogni tanto verso sera sentivi i vicini scopare: le pareti non sono particolarmente sottili più di una lettera si è chiesta ridendo se anche loro sentissero le nostre consonanti incastrarsi ma gli urti i piatti i corpi incastrati fanno proprio molto rumore, questi vicini avevi deciso di chiamarli T e L per la larghezza delle spalle e la lunghezza dei piedi. In realtà non vuoi conoscere davvero i loro nomi, T e L stanno insieme da qualche anno hanno un pappagallo che ripete i rumori i suoni invece sono facilmente replicabili da qualche anno volevano ripetere il più possibile quei rumori meccanici anche senza i suoni del pappagallo, soprattutto tra le 18 e le 20 dopo il lavoro di T. Per L era una sorta di lavoro, l’amore. 

Nel giro di un anno la tua camera non aveva perso tempo a riempirsi di polvere e oggetti di consumo (perché ci sono due Alexa sul comodino, di chi sono questi corpi ammassati ad altri corpi, non respirano). Una volta, della camera, se ne occupava con diligenza e poca grazia SK, una robusta donna slava sulla cinquantina nata in un paesino sperduto tra le colline del Montenegro. Su WhatsApp SK usava espressioni sintetiche, per lo più sgrammaticate ed eccentriche, ma almeno la sua lingua era efficace: si esprimeva quasi solo all’infinito, SK, segni diacritici non pervenuti in un’ora di lavoro era in grado di ricreare l’ordine precedente della settimana precedente faceva impressione la simmetria di questo ordine senza punteggiatura dopo sette giorni di autonomia e resistenze interne, ma all’ottavo giorno del sesto mese SK aveva smesso di tollerare le mie richieste, era diventata insofferente alla miopia delle mie parole come molte altre combinazioni di corpi e lettere senza nome. 

SK non rispondeva più da almeno un anno incastrato tra le cuspidi del materasso potevi osservarne l’assenza tra gli accumuli compulsivi di polvere lungo le travi a vista che dominavano l’intero arco della camera da letto prima che la luce iniziasse a forzare controvoglia la debole resistenza delle tende automatiche. Negli angoli del soffitto le ragnatele vivevano di vita propria, serenamente, non avevano nulla di cui preoccuparsi (nemmeno dei tuoi eccessivi riguardi). Erano ragnatele in mezzo ad altre ragnatele, non potevi rimuoverle, oramai erano parte integrante dell’appartamento. E poi, e poi piacevano molto a FM, una tua ex coinquilina di Bologna, la Psi secondo FL, secondo la coinquilina italo-americana di Berkeley aveva dei capelli bellissimi, con MB, la coinquilina italo-americana di Berkeley, parlavi in maniera obliqua di FM, eri spesso d’accordo con lei quando si parlava in inglese di FM. Ma che dire di più di FM, FM aveva un gran bel culo si girava le sigarette dopo ogni pasto appoggiando lentamente la spalla destra alla finestra della cucina per casa sfilava con un accappatoio bianco in spugna di cotone con la leggerezza dello scorpione prima di scomparire dopo le 7 per andare al lavoro. Nella sua stanza all’interno 4 faceva l’amore con un suo amico di nome M, M aveva una distinta parlata pugliese a colazione ogni sabato mattina, un pomeriggio si era presentato così al citofono dicendo sono un amico di F (M era innamorato di F e per F provavi sentimenti contrastanti). Eri geloso delle loro ragnatele.

Il contratto d’affitto (4+4 carattere, 10 times new roman, interlinea 1.15) era finito in una cartella giallo ocra insieme ad altri documenti abitativi ancora oggi indossa una veste paratattica di refusi vincoli amministrativi espressioni legali. In parte gli assomigliavi (corpi squadrati, vagamente claudicanti, per lo più balbuzienti nei modi rudi e nel linguaggio), entrambi eravate convinti di essere chiari nell’elenco ossessivo di regole e di pronomi con cui vi presentavate ad amici ad estranei a un’orda di potenziali acquirenti. 

Per questa affinità di pensiero (volevi diventare, ma forse lo eri già, da un pezzo, quel foglio di carta) e di mercato (i corpi come le relazioni hanno una durata contrattuale le persone sono sostituibili, replicabili, come i contratti) avevi accettato di firmare un impegno di quattro anni senza pensarci troppo: le dimensioni dell’immobile (55 metri quadrati calpestabili, compresi di uno scasso, diceva RB), le firme (le iniziali, AC, a lato di ogni foglio in formato A4), i doveri dell’utente (550 euro al mese, più spese, era un vero affare rispetto ai prezzi inflazionati del centro storico, si possono avere anche degli animali, T+L hanno anche due gatti guardano T+L quando emettono dei suoni il pappagallo riproduce il rumore del citofono), la cedolare secca, dice Google, è un regime facoltativo, che si sostanzia nel pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali. Nient’altro, ma almeno il diritto amministrativo tutela locatori e conduttori, entrambi consumano i loro corpi attraverso questo spazio condiviso (le leggi sociali nel frattempo sono saltate, locatore e conduttore sono categorie liquide e il loro legame si può estinguere con una semplice telefonata).

Il 2 febbraio 2021 era un martedì pomeriggio (il treno ÖBB parte da Bologna alle 11:52 e arriva a Trento alle 13:57: le Österreichische Bundesbahnen non sono mai in ritardo), hai appena controllato sull’agenda (ikea vodafone idraulico rettore deutsch, la stringa di impegni si interrompe di domenica sarebbe arrivata FS da Milano non si era ancora decisa a diventare FS da Genova), il giorno prima avevi preso la patente B dopo essere diventato ricercatore, quando avevi diciotto anni eri sulla sedia a rotelle (guardavi spesso il soffitto da ragazzo amavi senza motivo GR non volevi farla finita, almeno non in quel modo per di più a letto come uno dei tanti personaggi mediocri della commedia umana), lo avevi promesso alla famiglia di SF quando avevi chiesto a SF di diventare un’equazione semplice plurale riproduttiva eteronormativa. Adesso appartenete tutti a un’altra vita senza doveri e vincoli amministrativi.

I padroni di casa erano stati molti gentili al tuo arrivo (una Bialetti gioia con 32 cialde una bottiglia di spumante per festeggiare, non potevano saperlo ma bastano poche gocce di alcol per sopprimere il tuo sistema immunitario), per questo, infatti, glielo dovevi, almeno un minimo di ordine. I pagamenti li facevi sempre con ampio anticipo, eri un inquilino modello per gli standard a cui si erano abituati FF e suo marito (questo era il suo nome, marito, il loro vincolo contrattuale reggeva ancora grazie a questo titolo) dopo che la figlia era andata a vivere altrove con il compagno (ma a chi avevano affittato la casa fino al mio arrivo; ti chiedi quali spazi hai occupato fino a questo momento, mentre scrivi, in questo preciso momento, siedi su una sedia in plastica verniciata di un nero che non è tuo né sai riconoscere, era di qualcuno che non pagava l’affitto con ampio anticipo, altrimenti oggi non occuperesti questa sedia con il tuo corpo il 2 febbraio 2021). 

A quest’orario insolito la valigia era ancora vuota, lei aveva insistito perché tu la tenessi, io non la volevo ma cosa potevo farmene delle sue ragioni, quando le mie, di valigie e ragioni, erano rimaste sospese tra le intermittenze verbali della nostra connessione (a Londra, nel tuo appartamento, avevi visto i primi segni della radioterapia intorno al mio volto le ossa avevano scavato profondamente la carne all’altezza degli zigomi e delle cavità nasali gli occhi erano già spenti, senza terapia ti ricordavo diverso). Qual è il protocollo in questi casi, come si procede quando è una valigia a tenere in piedi gli equilibri economici di una relazione: si ricorre a un corriere internazionale? Un altro viaggio a Parigi, per di più a spese dell’università? 

Sarebbe stato sufficiente fare un bonifico, ma lei insisteva, aveva insistito, continua anche ora a insistere dall’altra parte dello schermo mentre stai scrivendo questo testo (entrambi abbiamo tolto l’ultimo accesso, aspettiamo solo di leggere sta scrivendo écrit…), anche adesso, adesso che non esistiamo più nelle vite dell’altro. Da un paio di mesi la chat è silenziosa, non ne voleva proprio sapere, della valigia (una American Tourister Fly Light, dice l’etichetta, è davvero comoda), ora è sotto il letto, insieme alle mie ragioni e a un numero indefinito di valigie, meno comode e di qualità nettamente inferiore all’American Tourister Fly Light di NS (almeno due sono della Samsonite, turchese e deep red, avevano ancora 3-4 viaggi di vita, volendo anche 7-8 se ci si limitasse per una volta a viaggiare in Europa). Le vite dei corpi si usurano in viaggi.

Ci eravamo conosciuti in rete (un’app per incontri, ma io volevo solo parlare francese, sai ci sarebbe una posizione aperta alla Sorbona, non è vero sono in visita per l’estate mi piaci, come posso dirtelo senza usare il periodo ipotetico della realtà in francese il verbo della protasi deve essere espresso all’imperfetto indicativo). In rete, come tutti, come te che scrivi e leggi, volevo comprare solo un po’ di amore prima di morire, la prostituzione in Italia è illegale in Francia hanno adottato il modello nordico, meglio non rischiare, anche se il prezzo da pagare è lo stesso: come sulle strade del Brennero al Bois de Boulogne buona parte di questo gioco è già fruibile nella tipologia di foto scelta per acquistare beni di prima necessità (un primo piano non risalta il viso nasconde semplicemente il corpo). Perché nella finzione, della rete, non distinguiamo nulla ignoriamo di distinguere cosa vogliamo ignorare la realtà la finzione la rete, quasi nulla, credo, nell’acquisto dei beni di prima necessità (una scopata, un libro, un comando vocale per nascondere ai vicini un altro libro, un’altra scopata). 

Mi saluti sulle scale della BnF. Appena mi avvicino il tuo mezzo sorriso conserva la sua smorfia allungata fino alle rughe della fronte, avrai circa la mia età ne sono convinto a nessuno piace raccontare agli affetti vicini e lontani ho conosciuto una persona su Tinder. Eppure rimane un mezzo sorriso soddisfatto, e lo capisco, le foto sull’app sono respingenti, molto più delle mie risposte; però, anche in te c’è qualcosa di diverso, meno evidente, è quasi un contrasto ricercato tra il patrimonio della tua famiglia e il pallore della pelle, portavi un vestito attillato verde, e il verde più del vestito risaltava il conflitto delle tue gambe. Ti avevo scritto una cosa stupidissima a cui non mi avevi risposto (giustamente, mi dicevi, cosa si può rispondere a questa opening line Cambridge! I almost went there), poi una sera siamo usciti, ti va se camminiamo lungo la Senna, camminiamo lungo la Senna noti la mia andatura claudicante, ci fermiamo ti prego non fermarti continuiamo a camminare tra la folla indistinta di turisti e residenti fino a una fermata della metropolitana ce la posso fare senza fermarmi (forse dovresti scrivere tu di questo incontro, io sono fin troppo lucido, non bevo grazie prendo solo undici farmaci al giorno, nemmeno tu bevi, i miei genitori sono morti di cancro). 

Abbiamo ripetuto più volte questa uscita, intrecciato lingue e corpi svestito e rivestito con la lingua gli stessi corpi. Aveva funzionato piuttosto bene con me immagino anche con una decina varianti algoritmiche di AC (sportivo ma col dottorato, alto, molti capelli, accademico, non ti piacciono i fucking accountants come si dice in italiano persone ordinarie), per te era più semplice, io non posso nemmeno ubriacarmi. Eppure c’era qualcosa di genuino nel modo in cui mi baciavi: erano le tue mani a confondermi mentre l’effetto del toradol svaniva tra le contrazioni incontrollate dei miei arti inferiori, la mia erezione sul tuo corpo ti divertiva più delle mie cicatrici, mi chiedo cosa pensassi quando mi hai chiesto di salire nel tuo appartamento.

Nella traiettoria meccanica che ci ha spostato di petto dai muri alle finestre fino al tavolo della cucina ripetevi controvoglia un modulo che avevi imparato a conoscere da un anno e mezzo (LZ lavora a Londra tu a Parigi io non c’entro niente con il tuo mondo). Mentre sei sopra di me, ripetiamo con cura maniacale ogni gesto, ogni atto era una precisa iterazione di questo linguaggio, sono d’accordo c’era armonia tra le lingue e i corpi, mi vuoi dietro, va bene, il compromesso è accettabile; dietro scopro queste persone, sento che con queste persone abbiamo intrattenuto le conversazioni della Senna, ripetuto questi goffi tentativi di seduzione per portare a letto l’immagine del nostro desiderio (ma a cosa serve se non puoi neanche venire, ci sarà un modo per togliersi i pantaloni e i calzini le gonne e i collant senza troppo imbarazzo, senza che i pantaloni e i calzini le gonne e i collant diventino il centro del nostro imbarazzo). 

Proprio per questo intollerabile imbarazzo che ci era rimasto addosso dopo gli eccessi della prime volte qualcosa di materiale doveva rimanere impresso tra di noi (una macchia sulle lenzuola, un segno sul collo, una gravidanza indesiderata, la trama di un soft porno), prima che arrivassimo a sperimentare i silenzi e le attese tra Italia e Francia – non è vero, volevi che ci fosse qualcosa, di vero tra di noi, ma io non potevo permettertelo, prima che tu e io, insomma, qualcuno che assomigliasse a me te io tu lei noi, entrambi, o almeno i figuranti che impersonavano durante i nostri incontri, non sei d’accordo sarebbe meglio tornare a frequentare altre approssimazioni algoritmiche, magari migliori dei rispettivi profili. Poco importa, alla fine, se la proiezione dei corpi non corrispondeva più all’immagine del desiderio che avevamo consumato dal vivo: sopra una certa soglia diventiamo meno selettivi, superato il primo ciclo di chemioterapia non sappiamo più cosa vogliamo. 

Eravate distesi sul letto, entrambi cercavate una linea di confine tra la pelle dei corpi e le zip, la zip della valigia non si voleva chiudere, si era già inceppata in due occasioni distinte: il 12 agosto dello stesso anno, a Chicago, ma tu non esistevi ancora chissà cosa facevi a Parigi quella sera il 4 settembre dello stesso anno prima di conoscermi. (eri già qui quando sono entrato in casa, era inverno faceva freddo non ho il covid, va bene spogliami, quante scuse, ma comprare una coperta nuova significa creare uno spazio nuovo nell’appartamento non posso proprio in questo momento, perdonami il mio tempo è ridotto). Sulla superficie della coperta anche i corpi facevano un po’ fatica a muoversi in quella insolita disposizione degli eventi: alle 5, nessuno dei due voleva ammetterlo (questa storia si trascinava da mesi tra stazioni e aeroporti solo per avere una storia da raccontare in qualche messaggio vocale in un’altra app, ma almeno questa non era a pagamento, e poi al telefono l’amore era quasi gratuito), nessuno dei due aveva voglia di avere voglia, niente, nemmeno la valigia si lasciava toccare voleva solo essere lasciata in pace. 

I corpi finiscono in obitorio, di solito la famiglia è chiamata a riconoscere questi corpi, a confermarne l’identità, come se i morti fossero ancora vivi: 192cm, capelli ricci, barba incolta, spalle larghe, fisico asciutto, probabilmente avrà un passato da atleta, chissà cosa faceva da vivo non è rilevante l’ora del decesso ce l’abbiamo, assomiglierà al padre in altezza, le labbra e i lineamenti del volto sono dolci, direi quasi materni, soprattutto le labbra e le ciglia, ma aspettiamo che arrivino i genitori prima di trarre conclusioni affrettate. 

Anche per strada era così, soprattutto sulle app dello smartphone, dove si può ordinare qualunque cosa in qualunque modo dove è impossibile sfuggire allo spaziotempo del web. Basta un click (rispetto al mouse il trackpad rende questo acquisto più umano, ma l’umanità ti è costata fin troppo alla fine di settembre: 135,00€ su Amazon): per ordinare la cena, ordinare dei vestiti, ordinare dei libri, ordinare un passaggio in macchina, ordinare un incontro romantico; non si finisce più di ordinare nel loop degli ospedali e del web, ma per farlo ci vogliono una foto profilo e una carta di credito – la foto, la carta, questo testo, e pure questo ordine ha dei costi di commissione che variano a seconda dell’uso e del consumo delle nostre mancanze; insomma, per fare ordine, ordinare, mettere ordine nei vuoti delle singole giornate (i pasti, il lavoro, il porno, la depressione), bisogna creare un’identità virtuale, rendere questa identità virtuale il più simile alla propria identità materiale, per poi produrre al momento dell’acquisto l’ennesima curva algoritmica dell’utente. Click.

Anche prima delle app, quando il tuo raggio di azione, al massimo, era la scuola secondaria, le compagne di corso all’università qualche intruso nella compagnia del liceo che hai ostinatamente continuato a frequentare fino all’estate del 2012 senza smartphone vivevi di approssimazioni estetiche prive di oscillazioni algoritmiche e di percentuali instabili. Eri dipendente, dalla famiglia e dai farmaci, poi è successo qualcosa, sei improvvisamente cambiato dopo l’Erasmus (la malattia non giustifica ogni cosa, ma ti piace scriverlo, ripeterlo ad alta voce, tanto non è vero, tu però ci credi, ne hai fatto una ragione di vita, più di una persona crede che tu stia mentendo), e la compressione dei corpi che non respirano aveva iniziato a definire il contorno di ogni acquisto.

Per la valigia, invece, non abbiamo app di incontri (ma come la si potrebbe chiamare, questa app: salva-valigia? Non conosciamo i dati sul rapporto domanda/offerta delle valigie dei morti, certamente non in Italia, i dati sono ancora confidenziali; chi vuole appropriarsi della valigia di un morto, a me da già fastidio l’idea di occupare lo spazio di un inquilino che non pagava l’affitto con ampio anticipo). Né conosciamo i suoi reali desideri, al di là delle funzioni e dei ruoli if any che i beni materiali hanno una volta che entrano che appartengono insomma che finiscono nelle nostre vite, almeno fino alla scadenza della garanzia (dei beni immateriali non sappiamo proprio cosa farcene). Ma quanto può durare un corpo, dottore? 

La valigia aveva ceduto per un peso eccessivo di memorie – sei volutamente patetico, avevi perso quasi due aerei per questo abuso emotivo (uno studente cinese al secondo anno di chimica aveva sistemato la zip una giornalista francese non poteva fare altro che sostituirsi alla valigia, immolarsi, diventare questa valigia). Il treno, però, a questo giro non potevi proprio perderlo, la morte deve avermi fatto un favore quel giorno (la lista di attesa si era improvvisamente accorciata un giorno avevo ricevuto una telefonata da uno 051, entrambi sapevamo come sarebbe andata la conversazione), il ricovero è fissato alle ore 8, sia puntuale. (non so bene perché, gli storici della lingua hanno idee diverse a riguardo, ma le sentenze lette con uno spiccato accento emiliano hanno il suono amichevole di un invito in osteria.) 

Il corpo invece aveva ceduto da diverso tempo. L’accumulo di cellule aveva formato una massa, la massa si era moltiplicata, continuava a moltiplicarsi a occupare nuovi spazi, in poco tempo si era sostituita ad altre masse, queste masse avevano avuto la sfortuna di essere collegate troppo bene o troppo male ad altre masse ma perché nessuno ne parla anche le masse hanno dei sentimenti, dei doveri, una famiglia, vogliono vivere e crescere, cambiare casa, spostarsi, realizzarsi, come ognuno di noi (qualche principio etico deve pur guidare la metastasi delle masse). Che poi, ancora oggi dopo la tua morte, non si è mai capito quando le invasioni di masse avessero smesso di essere intermittenti e parziali, ma che importa, già ora è troppo tardi per ricostruire la cronologia degli eventi (non sei l’unico a essere te, per misurare il tempo sarebbe meglio usare altre espressioni linguistiche, magari più sintetiche, come in francese e tedesco, cancellare l’io dalla massa dei pronomi, diventare on est e man kann, tanto tra qualche ora non ci sarai più, sei già diventato questa massa). 

La convivenza tra queste parti di te non è pacifica, ma tanto basta, al corpo, per subire i primi danni molecolari. All’inizio erano impercettibili (l’equilibrio, l’appetito, il sonno, sarà l’età, diceva il medico di famiglia), ma il passaggio dagli inside joke di amici e parenti (lasciatelo stare deve dormire) a dei veri e propri pattern comportamentali (vomitare, spuntare sangue, non riuscire a pisciare) aveva trasformato il medico di famiglia in oncologo, le sessioni di tiro in flebo, la panca piana in un lettino da condividere con altri utenti. Per tutti, fortunatamente, gli orari erano gli stessi (per lo più serali, 19-21, le sedute erano miste per bambini adulti anziani la morte almeno in questo è davvero democratica), come i medici, che ai nostri occhi di malati immaginari sono tutti uguali; loro, conversely, fanno classifiche di serie A, B, C, promozione, terza categoria, UISP e CSI in base a chi ce l’ha più lungo (alla peggio, ci pensa l’assicurazione a salvaguardare il record dei chirurghi, bisogna pur regolare il giusto ricambio di vivi e di morti nei reparti a prevalente indirizzo oncologico dell’Istituto Ortopedico Rizzoli in via Pupilli 1 l’aria era irrespirabile, come lo sguardo degli altri pazienti, e i parcheggi sono a pagamento anche per i medici). 

Allo IOR il tasso di mortalità è incoraggiante, almeno on paper. L’edificio, che risaliva inizialmente al 1896, si allungava dolcemente sui colli bolognesi fuori dalle mura vicino a porta San Mamolo a sud di Basket City; Maps suggerisce un tragitto in macchina da Bologna Centrale, quindici minuti senza traffico e poi si può già sentire l’ago dell’anestesista attraversare le vertebre lombari nella schiena. Il viaggio prevede percentuali relativamente basse per il ritorno, ma questo Trenitalia non poteva saperlo (è una questione di cookie, credo, altrimenti avresti già ricevuto sconti, promozioni, qualche offerta natalizia per le famiglie, anche le famiglie devono partecipare all’esecuzione dei figli, o almeno così diceva la brochure all’entrata, una volta superati la porta automatica di ultima generazione i controlli post inter ante covid la tassa di soggiorni il check-in al banco dei testimoni).

Trenitalia ti chiede se vuoi prenotare anche il biglietto di ritorno, come puoi spiegare a un sistema codificato (l’algoritmo, la famiglia, una fitta rete di connessioni virtuali, in pubblico si ostinano a chiamarvi amici, la chat su facebook è morta da anni) che non ti interessa l’upgrade in prima classe, tantomeno i 3 euro per la guerra in Ucraina, di cui non ti è mai importato nulla (NS non ci credeva, ma non è importante ora); per tornare indietro bisognerebbe avere la macchina del tempo, procedere con un check-up completo, anticipare una malattia prima della sua diffusione, rovinare la vita di quelle masse, quando anche quelle masse avranno avuto le loro ragioni e le loro valigie per continuare a essere una massa; il problema, però, è che senza questo sistema linfatico non avresti nulla di cui parlare (le patologie hanno il vantaggio di essere strumenti narrativi, raccontano e si raccontano facilmente, spesso male, ma almeno raccontano qualcosa, si lasciano raccontare, lasciano, negli altri, almeno un racconto), e in ogni caso la freccia presa il giorno stesso costa 43 euro, costa troppo, non ne vale la pena.

Il diritto naturale dice che vita e età dovrebbero procedere di pari passo, i genitori non devono seppellire i figli, come i prezzi dei regionali che rimangono fissi pure durante l’inflazione e la crisi del gas, mentre gli intercity e le frecce variano offrono servizi migliori a chi conosce con precisione la propria aspettativa di vita, i figli devono seppellire i genitori: insomma, la vita sulle frecce è un lusso (gli intercity fanno schifo come i regionali, più dei loro passeggeri e delle pompe funebri), te ne rendi conto sfogliando il calendario del computer, i post del social media manager di Taffo Funeral Services sono molto divertenti. Ti fermi, ci hai pensato bene prima di prenotare, dicevo, basta un click e non si torna più indietro: cosa comporterebbe sul bilancio familiare vivere un giorno in più, ora, alle 5:15 del mattino: 40 euro. Tre euro in meno, alle 5:15 del mattino, convincerebbero un genovese ad azzardare l’acquisto, ma di genovese non hai neppure il cognome, la fidanzata, il diploma di scuola superiore (i genovesi, quelli veri esistono ancora, dopo la Brignole Sale e la Barrili vanno al liceo classico Andrea D’Oria, chi non vuole imparare il greco al massimo va al Cassini in centro, di certo non al King). La residenza l’avevi già spostata quattro volte.Nella camera da letto di via Lampi 14 da cui osservavi svogliato la sterilità degli angoli retti, l’abbaino era dotato di un’intelligenza artificiale. A ogni ora era in grado di percepire le variazioni climatiche il grado di umidità dell’aria la temperatura degli ambienti interni ed esterni; la sua superficie è particolarmente forse eccessivamente sensibile al contatto con l’acqua, come la tua pelle dopo l’eiaculazione ritardata; in pochi secondi si chiudeva dopo aver emesso un rigurgito metallico, la tua voce si era strozzata così, prima di venire. In questi casi, l’occhio non può che accompagnare impotente l’azione dell’abbaino, seguirne la traiettoria ortogonale, aspettare che l’aria diventi satura di anidride carbonica, nel sangue; una soluzione sarebbe staccare la corrente, la spina del respiratore, ma per quello ci penseranno i padroni di casa e l’anatomopatologo domani sera.

Overbooking: Maurice Maeterlinck

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Flore coloriée de poche du littoral méditerranéen de Gênes à Barcelone y compris la Corse.Paris,P. Klincksieck,1902..http://biodiversitylibrary.org/item/40191

Poeta dal piccolo fiore in bocca

di

Marco Vitale

“Tra tante invenzioni, astuzie, differenti precauzioni, citiamo ancora, a titolo di esempio, la prudenza della Hyoseris radiata, piccola pianta a fiori gialli, abbastanza simile al Dente di leone, che si trova spesso sui vecchi muri della Costa Azzurra. Per assicurare nello stesso tempo sia la disseminazione che la stabilità della specie, essa presenta due tipi di semi: gli uni si staccano facilmente e sono dotati di ali per consegnarsi al vento, mentre gli altri, che ne sono sprovvisti, restano prigionieri nell’infiorescenza e non vengono liberati se non quando essa si decompone.” Niente sembra sfuggire al penetrante sguardo di Maurice Maeterlinck mentre si posa su questa quintessenza del regno vegetale che è la vita dei fiori.

Uscito per la prima volta nel 1907 L’intelligence des fleurs (ora in italiano nella bella edizione a cura di Giuseppe Grattacaso, Elliot, 2022) costituisce una significativa tappa che il poeta belga, tra i maggiori della grande stagione simbolista, dedica all’investigazione del mondo naturale. La vita dei fiori, come quella delle api, delle termiti, delle formiche passa davanti alle sue lenti per ricomporsi su una pagina preziosa, ricca di screziature, semitoni, figure retoriche – “Si può credere di cogliere i profumi stessi della luce del sole quando il giorno è più caldo, quando suona mezzogiorno…” ‒ cristalli lessicali che giungono spesso dall’erudizione botanica, ma ad altro, siccome a simbolismo si conviene, rinviano.

Che cos’è allora questo libro singolare? Questo minutissimo osservare “l’umile Salvia” che si riproduce, e così le Ginestre, le povere infiorescenze di macchia o di palude ‒ nella sua densa premessa al testo Grattacaso stabilisce una significativa correlazione con Pascoli, e più avanti con i licheni di Sbarbaro ‒, che cos’è questa luce che permette di cogliere quanto avviene in un tempo segreto, rivelando impensabili stratagemmi e ingegnerie antichissime? Sì, perché “il genio del fiore” ‒ e questo anche a voler “oltrepassare il crinale misterioso e probabilmente immaginario che separa il mondo vegetale da quello animale” ‒ ci precede sul nostro piccolo pianeta con le sue strategie di riproduzione e di difesa, talora elaboratissime e non sempre votate al successo, con il suo anelito alla felicità che deve fare i conti con quanto ne è fisicamente remora, in altri termini con il proprio destino (e questo dovrebbe dire qualcosa anche al distratto sentire di noi progenie sapiens sapiens). Così, quanto non ha il bene di cambiare luogo perché radicato al suolo, pena la sua stessa sopravvivenza, cercherà il più possibile di tendere verso l’alto e trovare nell’aria le proprie probabilità di vita: “Alcuni fiori, gli anemofili, si affidano alla cura del vento. Ma la Salvia, ed è il caso che si ripete più frequentemente, è entomofila, cioè ama gli insetti e si affida solo alla loro collaborazione.”

Siamo dunque difronte a un libro di squisita divulgazione scientifica? Di filosofia della natura? In parte sì, ma siamo soprattutto in presenza di un’opera di poesia, tanto più affascinate in quanto nella sua preziosa tessitura linguistica circola la stessa aria della musica “dopo la battaglia”, della pittura en plein air con le sue meravigliose variazioni cromatiche e di luce, e le pagine sulla vita delle ninfee sono per questo oltremodo suggestive. Sì, c’è la musica che in quegli anni si distacca dall’infatuazione wagnérienne per trovare una dimensione più intima e raccolta, una musica “pittorica”, è stato anche detto, che si nutre della grande poesia della modernità francese ed è appena il caso di ricordare come uno dei suoi capolavori – il Pelléas et Mélisande di Debussy – origini da un dramma di Maeterlinck, seppure il rapporto tra poeta e musicista fu in questo caso tutt’altro che semplice. Si tratta dunque, e appare forse come il pregio maggiore del libro, di una complessità che arricchisce di fascino e satura una pagina a un tempo nitidamente “scientifica” ed evocativa, nutrita di immagini e pensiero, musica essa stessa e non si può concludere questa nota senza dar conto della tenuta con cui Giuseppe Grattacaso – un poeta – ha saputo volgerla nella nostra lingua, con un lavoro sul ritmo attentissimo e senza smagliature.

 

Extrait

traduzione di Giuseppe Grattacaso

“Il mondo vegetale che a noi sembra così pacifico, così rassegnato, dove tutto appare accettazione, silenzio, obbedienza, raccoglimento, è al contrario il luogo dove la rivolta contro il destino è la più veemente e la più ostinata. L’organo essenziale, l’organo che dà nutrimento alla pianta, la radice, la lega indissolubilmente al suolo. Se per noi è difficile scoprire, tra le grandi leggi che ci opprimono, quella che più pesantemente preme sulle nostre spalle, la pianta invece non ha alcun dubbio: è la legge che la condanna all’immobilità dalla nascita fino alla morte. Per questo fin dall’inizio sa meglio di noi, che disperdiamo i nostri sforzi, contro chi ribellarsi, e l’energia della sua idea fissa che sale dalle tenebre delle sue radici per organizzarsi e sbocciare nella luce del fiore è uno spettacolo incomparabile. La pianta si protende tutta intera mossa da un unico disegno: sottrarsi attraverso l’alto alla fatalità del basso, eludere, trasgredire la pesante e oscura legge, liberarsi, rompere la stretta sfera, inventare o invocare le ali, evadere il più lontano possibile, vincere lo spazio in cui il destino la rinchiude, avvicinarsi a un altro regno, penetrare in un mondo mobile e animato…Che ci riesca è sorprendente, così come se noi riuscissimo a vivere fuori dal tempo che un altro destino ci assegna, o ad accedere a un universo liberato dalle più pesanti leggi della materia. Vedremo che il fiore offre all’uomo un prodigioso esempio di insubordinazione, di coraggio, di perseveranza e di ingegnosità. Se, per affrontare le molte fatalità che ci schiacciano, come ad esempio il dolore, la vecchiaia e la morte, avessimo adoperato la metà dell’energia dispiegata da quel piccolo fiore del notro giardino, ci è permesso di credere che la nostra sorte sarebbe molto diversa da quella che è”.

(Maurice Maeterlinck, L’intelligenza dei fiori, Elliot edizioni, Roma, 2022, a cura di Giuseppe Grattacaso pp.24-25)

È ancora troppo umana questa umana rivoluzione

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Segno di Giuditta Chiaraluce

 

“Così nel 1394, a Mortain, in Normandia, un maiale viene posto alla berlina e offerto al ludibrio del pubblico prima di essere impiccato, non soltanto per avere ucciso un bambino, ma anche per avere a metà divorato le sue carni quando si trattava di un venerdì, giorno di magro”

Michel Pastoureau, Medioevo simbolico

 

Succede un veleno.

Succede              nel largo dei tronchi,

nella rimessa sbilenca,      nella casa di

ghiaia,          nelle tubature indaffarate.

 

Cresce l’amianto.             Chiucchiurla,

impiglia.          È furia di rabbia ruvida.

Ce l’abbiamo dentro.

 

E tu, bestiaccia d’azzardo,         volpe scura,

che mordi l’orecchio,    che tanto squaderni,

che hai occhio e benda   e non dai la zampa,

che metti al mondo

cose azzurre,       cose affilate,

e fai lo screzio e la sbeccatura:

 

se solo sapessi            – se solo –

in che guaio si è ficcato l’umano!

 

Vedi: quello con l’accetta e la pala,

quello coi grovigli d’acciaio

– coi grovigli di vetro -,

quello   è l’Uomo,

senza  rammendo,

per via      dei Padroni.

 

Volpe: se solo.    Allora

capiresti.

 

Ma tu non vuoi.

Ti ho sentita parlare      davanti

all’oca.               Pestavi il muso.

Raccontavi:

 

«Otto secoli      sono trascorsi        da

quando processarono la prima scrofa.

 

Vestita di unto,                  di giacca,

di brache alle zampe          di dietro,

di guanti             alle zampe davanti.

Mozzato il grugno, tagliata la coscia,

messa la lugubre maschera,           la

impiccarono per aver divorato

un lattante.

 

E non di lunedì,

e non di martedì,

e non un giorno qualunque,

ma il giorno di magro

– quando la bocca

risparmia la carne.

 

Se questa è la loro   giustizia,

se questo è il loro  tribunale,

noi cosa c’entriamo?

 

Dovrebbe, il guaio, toccarli più

a fondo,     spaurire e dare sera,

con macerie       in grandi tozzi.

 

Invece guarda: è di nuovo sicuro il

piede che calpesta.   Come fossimo

cosa diversa,                   nata secca.

 

Potrebbero,            allora, salvarci?

 

Rinunciano all’erpice, ma non al campo.

Lo pretendono. Temono ortiche e dardi,

l’impiastro senza nome,              il punto

d’ incrocio,

di giuntura.        Tutto in loro languisce,

s’incorsa,    e va dritto in cima al malore.

 

È ancora troppo    umana

questa umana rivoluzione.»

Eritrea: una felicità insopportabile

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di Daniela Mazzoli

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Prima colonia del Regno d’Italia, l’Eritrea resta ‘nostra’ fino al 1941. Le Nazioni Unite la dichiarano nel 1952 confederata alla regione etiope. Dopo una lunga lotta di liberazione ottiene nel 1991 l’indipendenza dall’Etiopia, e in seguito a un referendum del 1993 diventa uno Stato autonomo a regime dittatoriale. In questo Paese di estenuanti conflitti e lotte per il raggiungimento e il riconoscimento di un’identità politica, lo scrittore e poeta Tommaso Giartosio nel 2019 fa un viaggio insieme a un gruppo di fotografi, accompagnati dal loro coordinatore Antonio Politano. Di questo viaggio costruisce una memoria, un racconto diaristico in forma epistolare. Scrive Tutto quello che non abbiamo visto, per i tipi di Einaudi.

Spostarsi è scomodo, da qualsiasi posizione si parta, anche la più favorevole al viaggio. E fa paura anche quando si desidera farlo. Ogni viaggio inizia come una contraddizione. Mette subito in crisi l’abitudine alle parole, che cosa significhi per esempio ‘desiderare’, volere qualcosa, volerla fare: lo vogliamo davvero se inizia con un istinto di paura? Dice Giartosio che le prime esperienze di viaggio che ricorda nella vita sono partite da un conto alla rovescia: ogni giorno passato depennato dalla lista dei giorni verso il ritorno.

Comincia così il suo libro sull’Eritrea, il racconto di un viaggio fatto insieme ad altri compagni, fotografi però. Un percorso fatto di incontri, ma da osservare, da scrutare come entrando nel silenzio di un museo. Si va per vedere qualcosa di estraneo, per risolvere il segreto di un luogo? Viaggiare è un compito? Vedremo.

Il posto è lontano ma soprattutto sconosciuto realmente. Ci sono diverse condizioni climatiche, culturali, economiche, differenti malattie. Bisogna prendere le misure, studiare, immaginare prima più cose possibili, mettersi al riparo. Resta comunque un margine di imprevisto più ampio di quello che si prefigura girando tra simili in quartieri familiari. Sua figlia sulla soglia dice “papà vedi di non morire”.

Viaggiare è tradire, promettere di tornare e tornare uguali, non farlo; sentire mancanze che non proveremo. Più forte è la nostalgia del presente, quando i figli non se ne accorgono nemmeno di noi, nella prossimità. Lo sappiamo che partire significa dimenticare il punto di partenza, mentre si intravede dove stiamo andando.

Il viaggio è promiscuità. Negli aerei, nei treni, sulle navi, ci si trova accalcati, più stretti agli odori, ai volumi, si divide l’aria nell’aria altrui. Ogni viaggio passa per qualche forma di galleria, di costrizione da cui poi ci si libera uscendo dalla fila, evadendo, restituiti alla piena luce: si comincia a venire al mondo ogni volta daccapo.

Giartosio racconta così che la prima apparizione in questo paese d’arrivo sono i corpi, diversi dal proprio, fatti in un altro modo, con muscoli più resistenti e sottili, nervi più tesi, altri riflessi, altro sudore, movimenti controllati e nuovi. Avere un certo corpo e desiderarne un altro, sentire nella pelle di un esile immobile eritreo: scoprire se vengono pensieri diversi, una gioia o dolori inimmaginabili, non osservabili dall’esterno. Quella piccola illusione che si insinua, poi, andando avanti, del credersi meno alieni quanto più si interagisce con le persone del posto, si visitano edifici storici o uffici quotidiani, si interrogano gli abitanti sul perché delle cose, la vera forma della politica, non quella raccontata sui libri di storia o i reportage che sono sempre di parte. Ascoltare direttamente la parte lesa, il popolo sotto dittatura: chiedersi se se ne accorge, se è convinto o vinto, rassegnato, come mai resta invece di scappare, ma potrebbe? Ecco: il potere della comprensione. Trovare le differenze tra i due disegni quasi identici, che siamo noi e quelli che andiamo a conoscere.

L’autore incontra tanti altri, tante forme dell’alterità: chiama ‘alteritrea’. Racconta le donne, ai matrimoni stracolorati, allegri -il pudore della fantasia- proprio come ci si immagina che possano essere quando davvero è una festa. Racconta i bambini, piccoli coraggiosi, più svelti di lui, più ignari ed esperti, che lo inseguono allo sfinimento disperato, proprio perché inesauribilmente vitali. Gioca a nascondino, giocano. A sparire per poi rivedersi, riguardarsi. Racconta le guardie, che sono spie anche di se stesse. I fili spinati che non esistono, se non come una breve corda a volte. E i fucili che non si vedono ma ci sono, e carichi. Incontra i vecchi, proprio vecchi, vestiti di vecchi vestiti occidentali, altri vestiti come noi. Ci ricordano a noi stessi, nella forma che abbiamo avuto presentandoci, con quel poco che gli abbiamo lasciato.

Chi ha lasciato cose in questo paese? Di chi è il fantasma che si sente ancora circolare nei bar, nelle scuole sperdute, nelle architetture, negli sguardi fieri e diseredati? In un vuoto che non si colma. Una specie di padre, una traccia di buio nelle assolatissime città, sopravvissute ma come relitti, in posa per uno scatto estetico? Un padre buono, un amministratore dei beni, o un usurpatore? Un educatore col vizio del lascito imperfetto o un narcisista invadente, un semplicissimo superficiale? Più di quanto succede con gli invasori che depredano e distruggono, un colonizzatore espropria dell’identità il Paese in cui si insedia: , lo annichilisce . Ne confonde l’identità sovrapponendogliene un’altra, da cui la popolazione deriva qualche beneficio in termini di sviluppo e benessere. I colonizzatori costruiscono case, strade, teatri, scuole. Portano ‘civiltà’. Ed è un inganno dolorosissimo, con strascichi così lunghi che i colonizzati e soprattutto i postcolonizzati ne mostrano ancora le cicatrici, qualche volta con un senso di umiliazione, altre volte con reazioni di insofferenza, permalose. Quello che incontrano i fotografi e lo scrittore è un Paese dall’identità indurita e in difesa, come i coralli che circondano le Isole Dahlak: una barriera che protegge e imprigiona, e spesso distrugge le barche di chi non ne conosce i passaggi. Ma è comunque sontuosa.

Giartosio fa una lunga corsa verso un tuffo in un’acqua mai vista. L’incontaminato ‘altro’, la propria nudità tra pesci con cui provare a parlare, non guardare più sopra la superficie ma al di sotto. Restare a bocca chiusa e occhi aperti.

Il pullman fa una lunga corsa in discesa da Asmara a Massaua, una discesa di quasi sessanta chilometri: doverla affrontare suscitava i dubbi più forti al momento di decidere se andare. Come avrebbe vissuto quello spavento? In modo significativo quella prova gli viene preclusa: la crema solare finita per sbaglio negli occhi gli impedisce di vedere il paesaggio lontano, nella luce intorno fino all’orizzonte, e di provare anche il terrore che temeva. Solo uno sguardo breve gli è concesso da quel fastidio imprevisto, lo sguardo delle cose nel pullman, piccole, vicine. Questa diventa la sua filosofia dello sguardo, alla fine del viaggio. Guardare significa anche rinunciare a vedere. Guardare è una forma di abbandono, è una ricerca ma anche una perdita.

Non voglio dire più niente, dice lui a un certo punto. Perché al termine del cammino si ha voglia di tacere; è chiaro il limite che sarà tutto nel nostro ritorno. Anche tornare è un tradimento. Persino quando abbiamo fatto tutto per bene, riconoscendo dove siamo e dove non potremo mai essere. Proprio perché per andare e tornare dobbiamo essere qualcosa e non altro, uno sguardo e non altro, un obiettivo che inquadra tutti gli altri obiettivi ma non tutto.

Giartosio incontra l’alterità anche nei liberi e volenterosi compagni, testimoni curiosi, avvezzi, acuti. Perché nel viaggio ognuno è prossimo e sodale ma anche sempiterno estraneo.

Il libro ha in incipit una dedica alla madre, che era, diceva lei, un po’ africana. La madre, altro assoluto, partita proprio dal più immediato tentativo di fusione. Un po’ africana, diceva. E forse è sua la misura del viaggio, la sola possibile, che la si prenda come principio o al traguardo. Con tutto quello che abbiamo visto o capito degli altri, dell’altro, saremo sempre solo “un po’” nei suoi panni, conformi. Il resto ci rimarrà segreto, un mistero.

Giartosio ci insegna, forse non voleva farlo, che c’è una felicità insopportabile nel viaggio, una felicità piena di strazio nell’incontro, nel vedere e ricordare il dettaglio e il piano più ampio, senza risparmiarsi, camminando sempre, lasciandosi abbagliare dalla miseria, ferire dalla bellezza del tempo. Una felicità fondata sulla propria incompletezza.

La scrittura del suo libro rimette a posto i pensieri spaventosi e confusi che abbiamo quando non leggiamo. È fatta come il viaggio che racconta: ci fa vedere, ci spiega, come se fosse facile vedere, come se fossimo bravi ad accorgerci delle stesse cose anche noi, che lui le dice però. E a volte nasconde delle poesie nelle righe dritte, come la poesia è nascosta nelle ore solite, uguali ogni volta. Quando arriviamo alla fine della lettura, con un bagaglio tanto più pieno e leggero, lo sentiamo benissimo che ci sono molte cose che abbiamo perso a ogni angolo. Che hanno voluto conservarsi, restare a vivere senza di noi. Le nostre molte altre eritree.

E la morte non avrà alcun dominio

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di Radoslav Petković

 

(Questo testo è apparso per la prima volta su Nin, il 23 giugno 2020. La traduzione dal serbo è di Božidar Stanišić.)

 

L’epidemia di corona ha messo a nudo i punti deboli della scienza moderna e nella lotta contro di essa siamo, più o meno, tornati agli stessi mezzi usati dalle persone dei tempi passati: quarantene e isolamenti.

“Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona sta bene, a coloro è massimamente richiesta lì quali già hanno di conforto avuto mestiere e hanno trovato in alcuni…” [1]

Inizia così uno dei libri più famosi della letteratura europea, il Decameron di Giovanni Boccaccio. Dato che “famoso” ha cessato da tempo di significare letto, dovremmo dire qualcosa di più su questo libro. Quindi, così: a Firenze, nel 1348, durante la peggiore pestilenza, sette ragazze e tre giovani fuggono dalla città in una villa, o più esattamente in alcune ville nelle vicinanze. Trascorreranno lì dieci giorni e, siccome all’epoca non c’era né Netflix né altro di simile, racconteranno storie per ammazzare il tempo che allora, come oggi, potrebbe, in certe circostanze, essere troppo lungo; solo più tardi, nei ricordi e nei ripensamenti, si comprende che in realtà è passato in un lampo.

Ora potremmo essere tentati di dire che quelli erano tempi migliori e più creativi, in cui le persone non mettevano il naso negli schermi per consegnarsi allo streaming e dovevano invece sforzarsi un po’ ma, come sempre quando iniziamo a lodare il passato, lodatore temporis acti, non è male esercitare una certa prudenza. Nonostante le ville in cui stavano vivendo, e la natura meravigliosa, perché Boccaccio evidentemente sogna giardini paradisiaci, c’è poco che agli eroi di questa prosa possiamo invidiare. È il periodo in cui la “morte nera”, la peste bubbonica, devastava l’Europa, e la maggior parte della popolazione europea moriva in questa epidemia; due terzi o tre quarti, a seconda delle stime. Una delle eroine, o una delle narratrici del Decameron, ci dice questo: “Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: – i cotali son morti -; e – Gli altrettanti sono per morire -;  e, se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo” [2] .

Ma, se possibile, le cose vanno anche peggio: quando ritorna a casa, Pampinea ci racconta di vedere lì “l’ombre di coloro che sono trapassati …, e non con quegli visi che io soleva. Ma con una vista orribile, non so donde il loro nuovamente venuta, spaventarmi” [3] .

Nonostante durante l’epidemia di corona a molte persone venissero in mente le epidemie di peste bubbonica, queste fortunatamente non sono paragonabili alla nostra a motivo del tasso di mortalità incomparabilmente inferiore; non abbiamo statistiche attendibili, ma la peste bubbonica, che per questo ha preso il nome di “morte nera”, ha ucciso tra i due terzi e i tre quarti della popolazione europea; lo stesso più o meno è avvenuto anche nella Firenze del Boccaccio. Ma ci sono alcune somiglianze, quelle che non avremmo creduto possibili.

Diciamo: la fede nel potere della scienza ha addormentato tutti e, un po’ paradossalmente, la teoria che il corona virus sia stato prodotto in laboratorio nasce proprio da questo, dalla visione del mondo estremamente antropocentrica concepita nel Rinascimento. L’epidemia di corona ha messo a nudo i punti deboli della scienza moderna e nella lotta contro di essa siamo tornati, più o meno, agli stessi mezzi usati nei tempi passati: quarantene e isolamenti. Gli storici hanno registrato come, durante l’epidemia di peste a Srem (Sirmia), nel XVIII secolo, l’esercito chiudesse le zone infette e come le punizioni per chi le abbandonava fossero molto severe, comprendevano la morte.

Nessuno protestò; allora il concetto di diritti umani era davvero sconosciuto, soprattutto nella Monarchia asburgica, e sembra che questi metodi, per quanto brutali, non fossero proprio inefficaci; un monumento vicino alla strada principale Irig – Ruma [4], popolarmente chiamato “statue”, segna il luogo in cui fu fermata la peste. Nel corso di quel secolo si svilupperà quello che viene chiamato il “cordone sanitario”. A suo tempo se ne occuperà in particolare Adrien Proust, rispettabilissimo padre di un figlio ben più famoso, Marcel Proust, e Camus, quando scriverà La peste, utilizzerà proprio il suo libro Difesa dell’Europa contro la peste. Allora, anche quella che oggi chiamiamo “distanza sociale” non era sconosciuta e sembra essere stata violata: ecco perché un personaggio dei Promessi sposi manzoniani esce in strada solamente con due pistole cariche; mi sembra che oggi, per le strade delle città serbe, questa idea non sia affatto male.

Boccaccio cita poi due spiegazioni dominanti per l’origine dell’epidemia: da un lato essa è una conseguenza della posizione dei corpi celesti, dall’altro è la punizione di Dio per i peccati umani. Per l’epidemia di corona, oltre a quelle di laboratorio, ci sono più spiegazioni. Il teologico castigo di Dio, è molto vicino a ciò che potremmo chiamare teoria ecologica; semplificando, ma non troppo, il virus è la vendetta della natura per il nostro atteggiamento nei suoi confronti; teoria particolarmente cara al pensiero di sinistra, che è felice di adottare lo schema di pensiero che caratterizzava i teologi medievali, specie quelli inclini a profezie sull’imminente distruzione del mondo; quella distruzione, e tutti gli orrori che l’accompagnano, possono essere tranquillamente paragonati a una rivoluzione che distrugge il vecchio mondo, ma solo per crearne uno nuovo che possiamo chiamare Regno di Dio, comunismo – o come vogliamo. L’epidemia di peste somigliava veramente  agli orrori descrittici nell’Apocalisse di Giovanni; l’epidemia di corona ne è oggettivamente lontana nonostante che, in alcuni punti (realisticamente) e soprattutto nelle versioni mediatiche, per numerosi e apparentemente diversi motivi ma sempre con il desiderio di ottenere un qualche effetto, ci sia stato uno sforzo per avvicinare la realtà alle immagini apocalittiche; file di bare nel nord Italia o visioni del presidente serbo mentre afferma che se non gli si darà ascolto, i cimiteri di Belgrado saranno troppo piccoli per accogliere tutti i defunti; diabolici esercizi di obbedienza.

C’era anche un’altra narrazione, apparentemente terrificante, su persone che muoiono senza poter vedere i loro cari; ma la cruda verità è che questa è spesso l’immagine della morte contemporanea quando si muore in un ospedale; lo è nel cosiddetto coma artificialmente indotto – quindi drogato. Ma bisogna anche essere consapevoli che una “antica” immagine di morte, dove il moribondo giace circondato dalla sua famiglia con la quale si saluta serenamente, era l’immagine della morte ideale, la morte del giusto che, lo sanno tutti, non è obbligatoria nemmeno per il giusto; e autori del passato, come Michel de Montaigne, hanno saputo portare esempi di varie morti, comprese le morti dolorose dei giusti e le morti facili dei peccatori.

Gli incubi di Pampinea, in cui i defunti vicini e cari le appaiono con un aspetto spaventoso e orribile, ci aprono a un altro paradosso della morte. Dovremmo ricordare, a questo punto, le credenze e le usanze popolari del tempo in cui le persone morivano in casa, almeno quelle che la avevano una casa. Queste credenze e usanze nascevano essenzialmente con la motivazione e lo scopo di proteggere i vivi dalla possibile influenza maligna del defunto; con l’atto della morte, la madre o il buon nonno si sarebbero trasformati, come negli incubi di Pampinea, in un pericolo latente. Che la morte sia un grande cambiamento è certamente qualcosa su cui, immagino, sia un ateo ardente che un credente bigotto sarebbero d’accordo; ma, come scriveva Rilke, la morte è grande e può far sentire la sua voce pure in luoghi inaspettati. La civiltà occidentale di oggi sopprime il pensiero della morte; il corona ha costretto molti a iniziare a pensarci più seriamente.

Ma come sapevano bene le persone del passato, compresa la sconcertata Pampinea, essere vicini alla morte non necessariamente ci rende migliori. Sarà un caso che la prima delle storie del Decameron ci parli di un eroe a dir poco sospetto, come ci racconta Boccaccio, cioè ser Ciappelletto, che prima di morire inganna un pio frate con una falsa confessione. Sebbene fosse l’uomo peggiore possibile, dopo la sua morte fu considerato un santo e chiamato San Ciappelletto. Il soggetto in questione, in Borgogna per alcune delle sue dubbie vicende, si ammalò mortalmente e, per ripagare in un certo modo i suoi ospiti, pur inorridito ebbe l’idea di dover confessare sul letto di morte tutti i suoi terribili peccati, che nessun monaco o papa gli avrebbe perdonato; il peccatore così non avrebbe potuto essere seppellito ma sarebbe stato gettato nella fossa e sarebbero finiti malamente anche i padroni di casa. Allora chiede che gli trovino un pio monaco, il migliore che hanno, e farà della sua confessione una commedia tanto da sembrare così innocente che dopo la sua morte il popolo gli strapperà tutti i vestiti, considerando una fortuna averne il più piccolo pezzo. E lo seppellirono in chiesa, in una delle cappelle, e la gente andava ad accendere candele e fare voti.

Cosa dobbiamo pensare di questa storia, posta all’inizio del Decameron, tutta scritta, se non nell’ora della terribile epidemia, certamente con un ricordo vivissimo di essa? Nella più ampia percezione, cioè al di fuori della cerchia degli esperti, il Decameron è visto come una raccolta di allegri racconti erotici; opinione non del tutto errata, se solo si è consapevoli che queste storie, sicuramente le più popolari, sono una piccola parte delle centinaia che sono state raccontate.

È stato detto: non si mente nell’ora della morte. Se siamo ancora consapevoli del contesto ideologico in cui Ciappelletto vive e muore, la trama è ancora più drammatica: l’ultima confessione e l’ultima unzione sono l’ultima possibilità del peccatore di riconciliarsi con Dio, di ricevere il perdono ed evitare così la terrificante eternità di martirio infernale. Molto si può scrivere su questo comportamento di Ciappelletto, come è stato scritto, anche se, possiamo concludere, come uno dei più grandi lettori ed interpreti del Boccaccio, Erich Auerbach, rimproverando all’autore di aver raccontato una terribile avventura soltanto per il suo risvolto comico.

Ma che sia anche così; perché Boccaccio ha messo questa storia proprio all’inizio? Non dimentichiamo il lettore a cui l’autore si rivolge: è un testimone sopravvissuto alla peste e, quasi certamente, ha perso qualcuno degli a lui più prossimi.

Il poeta inglese Dylan Thomas ha scritto, in occasione della morte di suo padre, che non se ne vada docile in quella buona notte: Non andartene docile in quella buona notte, / i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; / infuria, infuria, contro il morire della luce [5]. Se Auerbach avesse perfettamente ragione, se tutto fosse solo una commedia e una farsa e se fosse proprio l’oscurità, come sanno i saggi, ad aver ragione, Ciappelletto sfrutta l’ultima occasione per deridere quella saggezza proprio come gli eroi di Boccaccio fuggono dall’orrore quotidiano all’apparizione di giardini paradisiaci, divertendosi a raccontare storie.

E la morte non avrà alcun dominio [6], scriveva ancora Dylan Thomas; almeno nella poesia, almeno nella narrazione.

 

Note
[1]  Giovanni Boccaccio: Decameron, Utet, Torino 1958, pag. 1
[2] Ibid, pag. 15
[3] Ibid, pag. 16
[4] Cittadine in Sirmia (Vojvodina, Serbia)
[5] Traduzione di Ariodante Marianni
[6] Traduzione di Corrado Aiello

 

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Radoslav Petković  è nato nel 1953 a Belgrado dove si è laureato presso la Facoltà di Filologia, Dipartimento di Letteratura Generale. Ha pubblicato romanzi: La strada per Dvigrad (1979), Gli appunti dall’anno delle fragole (1983), Le ombre sul muro (1985), Destino e commenti (1993.), La memoria perfetta sulla morte (2008); raccolte di racconti: Il rapporto sulla peste (1989), L’uomo che viveva nei sogni (1998); libri di saggistica: Il saggio del gatto (1995), Parlando di Michelangelo (2006), L’internet bizantino (2007), L’uso degli elfi (2008), L’uovo di Colombo (2017).

Le opere di Radoslav Petković hanno ricevuto prestigiosi premi letterari, tra cui il Premio Nin del 2003 per il romanzo dell’anno (Destino e commenti).  I suoi romanzi e raccolte di racconti sono stati tradotte in francese, greco, ungherese, inglese, tedesco, russo, slovacco e bulgaro; in italiano esistono soltanto due racconti, pubblicati nel panorama dei racconti belgradesi Casablanca serba (Feltrinelli, Milano 2003), a cura di Nicole Janigro. Le sue prose sono incluse in diverse antologie serbe e jugoslave e all’estero.

Ha tradotto dall’inglese i libri di Defoe, Chesterton, Stephenson e Tolkien.

Attualmente vive e scrive a Novi Sad.

 

Proust Céline, la mente e l’odio

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di Mauro Baldrati

Possiamo definirlo un pamphlet questo libro di 137 pagine di Valerio Magrelli, accademico francesista, uscito per Einaudi Stile libero (Proust e Céline, 15 €), nella collana VS, ovvero “contro” . Leggiamo la definizione di pamphlet: “Opuscolo, libretto, scritto di carattere polemico o satirico, libello”. Poiché l’argomento è “Céline Vs Marcel Proust”, la sola sezione su Céline, che corre come un metrò lanciato a folle velocità nel sottosuolo, costituisce l’ossatura, con sopra i muscoli e gli organi interni, del libretto di carattere polemico o satirico. E’ proprio lui, l’autore del romanzo più rivoluzionario della letteratura moderna, Morte a credito, come l’ha definito Gilles Deleuze, a rappresentare un pamphlet vivente. Sia Céline sia Proust sono autori, e uomini, fusi coi loro scritti a tal punto che potrebbero affermare, come Kafka: Io sono letteratura. Magrelli li segue, cerca gli indizi di questa fusion, dove la vita, e la realtà, si fondono col racconto e l’immaginazione. Infatti il testo non è composto solo da due autori di enorme spessore letterario e umano, ma anche da un narratore abbastanza neutrale (perché nessuno lo è veramente) che cerca di agire da dietro le quinte, mimetizzato tra la boscaglia come uno sniper. Ma qua e là esce allo scoperto, si diverte un mondo mentre attinge dalla sgargiante tavolozza letteraria i colori per la sua pala votiva: l’elegia dell’odio, oggetto della prima sezione del libro, intitolata Odi et odi.

Qui il nostro misologo (secondo la mitologia platonica colui che ha avversione per le discussioni e i ragionamenti astratti), Valerio Magrelli, si avventura nella fitta ragnatela dell’odio, in tutte le sue forme artistiche: attraverso i frequenti richiami a opere di altri autori che si sono addentrati in questa foresta intricata, come Jan Miernowski, che si propone di studiare “l’odio come nozione estetica, valore artistico, motore stesso dell’opera letteraria”. Oppure le varie sfaccettature dell’odio verso la poesia, come Antonin Artaud, che nel 1944 scrive Rivolta contro la poesia; o Georges Bataille, che, tre anni più tardi, intitola un suo libro L’odio della poesia. Ma non solo la poesia è oggetto di odio, anche le altre attività artistiche. Lo stesso Magrelli nel 2014 pubblica Odio la musica? E Manlio Sgalambro nel 1994: Contro la musica. E come non notare i riferimenti a Kleist, Dumas, Kundera, Musil, Bernhard, tutti avversari della musica, compreso Tolstoj, che scorge nella musica un fenomeno terribile, nefasto. Poi, finalmente, arrivano le querelle, gli insulti tra autori, che fanno sorridere il mimetico Magrelli: “A me interessavano gli scontri diretti fra scrittori. Insomma, volevo il sangue”. Ecco allora che Jules Renanrd definisce George Sand “La vacca bretone della letteratura”. Leon Bloy su Maupassant: “La sua perfetta stupidità trapela dagli occhi, gli stessi di un cane che piscia”. O Vigny su Sainte Beuve: “Pare un rospo che avvelena le acque”.

Il viaggio nel mare agitato dell’odio, man mano che la navigazione procede, punta sempre più chiaramente verso un obiettivo: l’odio può essere un sentimento nobile e creativo, e dietro la genesi di un’opera d’arte si nasconde spesso un contrario. Forse l’amore stesso ha come lato B l’odio. Marcel Proust in persona riflette sui lati B: “Se al fondo di quasi tutti gli ebrei c’è un antisemita, al fondo di ogni omosessuale c’è un anti-omosessuale”.

Passiamo così alla sezione centrale. Se, per puro divertimento, paragonassimo questo pamphlet alla Commedia, scenderemmo all’Inferno: è proprio lui, Louis Ferdinand Céline, il centro non solo nevralgico, ma nevrastenico: “Bisogna infilarsi nel sistema nervoso, nell’emozione e restarci fino capolinea” (da una lettera a Milton Hindus del 15 maggio 1947). E, sempre per il nostro disimpegnato divertimento, il Virgilio che ci guida sarebbe proprio Magrelli, che affronta Céline da varie angolazioni: una breve biografia, che si apre con la nota di singolari coincidenze, che forse rappresentano indizi psicanalitici della sua ossessione per Marcel Proust: Céline ha trascorso la sua infanzia, figlio di piccoli commercianti di merletti, nel Passage Choiseul, “sorta di squallido acquario Urbano nel cuore di Parigi”, dove, nel 1892, il ventunenne Proust frequentava la libreria Rouquette, al n. 71. E suo padre, tra il 1884 e il 1885, fu compagno di scuola di Proust al liceo Condorcet. Forse proprio da qui, come una piccola sorgente che diventa un fiume poderoso, nasce l’odio, bilanciato da un’attrazione irresistibile per l’autore della Recherche?

In Céline è lo stile ci addentriamo nella tematica della lingua in Céline, la sua ossessione per un francese originario, “puro”, elegante, di Villon, di Rabelais, imbarbarito e impoverito dalla sua involuzione modernista e scolastica. E anche la sua avversione per le traduzioni, che finiscono per annientarlo, prosciugandolo dalla “musichetta” che lo veicola, frantumandone la melodia. Reagisce al degrado imperante con la sfida alle convenzioni, elaborando una forma superiore di bruttezza: “Egli mira a una bruttezza ancora più brutta, sublimamente brutta, a un abietto ancora più abietto, a un odio ancora più odioso”. Lo stile, per Céline, è tutto. E lo stile, secondo una famosa metafora, viaggia, anzi, corre follemente come il metrò, sulle rotaie rappresentate dai furiosi tre puntini di sospensione, ritmato dai martellanti punti esclamativi.

E poi l’odio, la materia prima, sempre e comunque. Ha osservato George Steiner: “Come in Jonathan Swift, in Céline la sorgente dell’immaginazione e dell’eloquenza sfrenata è l’odio (…) In un gruppo ristretto di maestri – Giovenale, Swift, Céline – una misantropia furiosa, una nausea contro il mondo, danno luogo a progetti di notevoli proporzioni. La monotonia del disgusto diventa sinfonica.” L’odio è totalizzante, a 360 gradi: odio verso gli ebrei, i comunisti, gli omosessuali, i letterati, i professori, i ricchi, gli aristocratici (che, secondo lui, costituiscono il “popolo” di Marcel Proust). Odio aggressivo verso Gallimard, che inonda di insulti perché ha inserito Proust nella Pléiade, mentre lui no, nonostante le pressanti richieste. E qui, nel cuore pulsante della “sezione Céline” Magrelli non fa sconti. Il suo ritratto non ha reticenze, come invece si è tratteggiato negli anni, forse per una forma di pudore verso quel nazista antisemita esaltato che è stato. Non fu un collaborazionista per caso, ma attivo, militante, sostenitore dell’arianesimo tout court. “Io sono razzista e hitleriano, e voi non lo ignorate” scrive nel 1939 a Robert Brasillach, un altro scrittore filo nazista, giustiziato dopo la liberazione. Ma non solo. Come un implacabile PM Magrelli richiama gli studi del linguista e filologo Antonin Duroffour e del filosofo/sociologo Pierre-André Taguiieff i quali hanno dimostrato che Céline ha addirittura denunciato sei o sette persone per appartenenza alla religione ebraica e due al partito comunista. “Vivo ancora più di odio che di pasta asciutta” (da Un castello all’altro).

In Caino e Abele passiamo alla contrapposizione tra i due opposti, Céline e Proust, autori di opere assolutamente antitetiche. L’ha notato un proustologo esperto come Alessandro Piperno: “Se Proust complica la sintassi fin quasi alla saturazione, Céline la spacca in mille pezzi; se Proust lavora sulle nuance, le pieghe dell’interiorità, l’inattendibilità dei sensi, Céline elegge il grido, il sarcasmo, la bava alla bocca a strumenti di conoscenza; se il Narratore della Recherche è un rampollo della buona borghesia parigina nevrotico, classista e stanziale, l’eroe del Voyage è un miserabile, un globetrotter in balia della Storia; se il milieu proustiano è composto da milionari, esteti e cocotte dalla sessualità controversa, l’umanità di Céline è indigente e delirante”.

Eppure, se non come sempre, almeno molto spesso, i due opposti finiscono per attirarsi. Entrambi vengono considerati gli inventori della autofiction. Usano l’autobiografia, ma per metterla al servizio dell’autonomia del testo. Il periodo lungo proustiano, asmatico, circolare, col quale dà vita al suo acquario tropicale, popolato da pesci palla, coloratissimi mostri stupendi quanto inutili, sembra attirare come un ragno la frase secca dell’allucinato conduttore del metrò letterario. Il quale, secondo una tesi che serpeggia nel testo di Magrelli, attestata, o quanto meno suggerita, da varie teorie (anche se qualcuna pecca per eccesso), reagisce alla diabolica fascinazione del sussurro proustiano che gli incendia il cervello, con pareri sprezzanti: “Proust è un bavoso (…) Spiega troppo per il mio gusto: trecento pagine per farti sapere che Tizio incula Tizio, è troppo.” Il suo francese giudeizzato, modellato, orientale, liscio, scivoloso come la merda gli fa schifo, come i suoi cicisbei morti o moribondi che popolano quel mondo della borghesia intellettuale e “preziosa” che tanto detesta.

E veniamo a Proust, mente, odio. Qualcuno di quei furiosi cercatori di difetti che bruciano vivi sul web con lo scopo di stroncare qualunque testo scritto da chiunque, forse ne troverebbe alcuni buoni per metter al muro Magrelli, ma non potrebbero mai insinuare che non possieda il dono della sintesi. In una manciata di pagine riesce a condensare decenni di studi critici, biografia, esegesi dell’autore delle Recherche. Soprattutto la mente, che a differenza di Céline, il quale produsse diversi romanzi, Proust visse per un unico, immenso testo, con un’architettura complessa, meticolosa fino a un’ossessione di stampo medievale: “Sette volumi che raccontano in che modo il protagonista, incerto sulla propria vocazione di narratore, solo verso le ultime righe si decida a scrivere il romanzo che noi abbiamo appena finito di leggere… Soltanto al termine del lungo percorso iniziatico, superando le proprie debolezze e l’atroce incalzare del Tempo, Marcel deciderà di scrivere, e scriverà ciò che il lettore ha appena terminato di scoprire. Una storia che inizia dove finisce, e finisce dove inizia.”

Ma c’è odio in Proust? Secondo Daria Galateria e Marisa Verna questo sentimento gli era estraneo, tuttavia si tenta di individuarne tracce nel sentimento verso la Germania, che dopo la disfatta di Cedan scatenò l’Affaire Dreyfuss, per il quale Proust si schierò apertamente con gli innocentisti. E le pagine spietate in cui descrive il voltafaccia dei salon nei confronti dell’amato Swann, reo di essere ebreo e dreyfussiano, insultandolo crudelmente alle spalle, ne sono una testimonianza. Oppure l’odio per l’essere amato che ci tradisce, sempre; l’oggetto della passione che sfugge, che non ci permette di possederlo né di capirlo. E’ una delle grandi discese agli inferi della Recherce, di cui risulta vittima uno dei grandi personaggi del romanzo, in Un amore di Swann.

Comunque sia Proust è un oggetto, un obiettivo di Céline, essendo morto da dieci anni quando fu pubblicato il Voyage. Non ha mai conosciuto il suo acerrimo nemico, né letto i suoi strali, né ha potuto sfidarlo a duello, come forse avrebbe fatto di fronte ai suoi sprezzanti giudizi antisemiti e omofobi. Tuttavia Magrelli dà spazio anche a quei coraggiosi studiosi che hanno creduto di rilevare, dietro l’odio di Céline, una forma di morbosa ammirazione, che l’avrebbe portato addirittura a riscrivere la Recherche, col suo stile contrapposto, con le sue frasi spezzate, ardenti e contundenti.

L’Odio come copertura, come forma rovesciata di Amore, Rifiuto come il lato oscuro del Desiderio; Céline hater compulsivo di Proust, in realtà perdutamente innamorato, proprio come Swann con Odette.

 

NdR: sullo stesso saggio di Valerio Magrelli “Proust e Céline”, Nazione Indiana ha già ospitato il 3 aprile una recensione di Pasquale Vitagliano

 

 

 

Ciao Franck, compagno di viaggio

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Quando Franck racconta della sua musica tutti rimangono in silenzio ad ascoltare la vibrazione di ogni corda del suo discorso, a partire dai giorni della vocazione, quando per caso diventa amico del suo vicino di casa liutaio. Pochi mesi dopo essere arrivato a Parigi, aveva preso casa nella rue Grégoire-de-Tours, a Saint-Germain.

“Un giorno il postino si sbaglia e mette nella mia buca delle lettere una busta indirizzata ad Alain Vian. Io gliela recapito e uscendo mi imbatto in un grande locale in cui il fratello di Boris Vian, liutaio, conserva tutto un mucchio di vecchi strumenti. Mi sono bloccato come se fossi stato davanti a una visione insieme terribile e meravigliosa. In mezzo a tutta quella matassa di strumenti musicali c’era una piccola fisarmonica rossa. Identica, vi giuro, a quella che i miei genitori mi avevano regalato da bambino e che avevo completamente rimosso, insieme ai miei, naturalmente. Lui si accorge della mia esitazione e, quando gli spiego il motivo della mia sorpresa, mi chiede di suonarla. La imbraccio e dalle prime note vedo che diventa rosso in volto come preso da una rabbia improvvisa e non capisco perché. I suoni mi vengono naturali, certo, ma quello era uno strumento che volevo dimenticare, perché mi ricordava cose che non amavo, perché esprimeva una musica da liscio, da musette, che era vecchia, di quel vecchiume che ti resta appiccicato addosso peggio di quelli che la ballano sulla Marne. Lui che invece avrebbe voluto suonarlo non c’era mai riuscito e questo lo rendeva furioso. Me n’ero ripartito con quella piccola fisarmonica rossa e di tanto in tanto tornavo da lui per fargli sentire qualcosa. Solo dopo una decina di incontri in cui sostanzialmente mi massacrava per come suonavo, ha cominciato ad apprezzare le composizioni nuove che gli proponevo. Interpretazioni di Rota e Bizet, Rolling Stones o cose mie che avevano l’aria di interessarlo. Fisicamente era alto, più alto di suo fratello ma con una faccia simile. Non parlavamo mai di suo fratello, immaginavo quanto potesse essere pesante il fardello che si portava dell’essere fratello di; in fondo era lui ad aver dato vita alla rinascita di Saint-Germain. Mi raccontava del Tabou di Sartre. Pubblicamente disprezzava la vita dei locali alla moda ma di fatto ci passava le sue serate come tutti gli altri. La sua collaborazione con Juliette Gréco ne è una prova. È lui a passargli un testo di Queneau, Si tu t’imagines, quello con cui la sera del debutto l’interprete aveva completamente sedotto François Mauriac e Marlon Brando; Jean-Paul Sartre aveva immaginato per lei la sola canzone mai scritta, Rue des Blancs Manteaux, tutte musicate da Joseph Kosma, quello delle foglie morte di Prévert. Comunque lui amava Simone Signoret, e quanto più amava la magnifica attrice, tanto più detestava Yves Montand che a parer suo non la meritava.

Per me la fisarmonica è uno strumento che fa esprimere ciò che altrimenti non potrei esprimere del mio mondo interiore. Innanzitutto dà voce alla mia malinconia ma anche alla gioia che mi porto dentro, è un cocktail che cambia ogni volta le misure dei suoi ingredienti come se captasse l’energia che ha intorno. A proposito di danza posso dire che vivo una grande contraddizione per esempio. Non mi piace tutto il repertorio legato ai balli popolari, non mi è mai piaciuto, eppure mi rendo conto che tutte le mie composizioni si fondano sulla danza, su una danza che non può essere ballata tipo, che so, Piazzolla, che tutti i tangheri odiano perché non li fa ballare.

(traduction de Christian Abel)
Lorsque Franck parle de sa musique, tout le monde se tait pour écouter les résonances de son discours, qui commence avec les jours où sa vocation est née, quand, par hasard, il s’est lié d’amitié avec son voisin luthier. Quelques mois après être arrivé à Paris, il avait emménagé rue Grégoire-de-Tours, à Saint-Germain.
“Un jour, le facteur se trompe et met dans ma boîte à lettres une enveloppe adressée à Alain Vian. Je la lui remets et lorsque je sors, j’ avise un grand local, dans lequel le frère de Boris Vian, luthier, conserve tout un tas de vieux instruments. Je suis resté figé comme devant une apparition terrible et merveilleuse à la fois. Au milieu de cet enchevêtrement d’instruments de musique se trouvait un petit accordéon rouge. Il était pareil, je vous jure, que celui que mes parents m’avaient offert quand j’étais enfant, et que j’avais complètement zappé, comme eux, bien sûr. Alain se rend compte de mon hésitation et, lorsque je lui explique la raison de ma surprise, il me prie de l’essayer. Je m’en saisis et dès les premières notes je vois que le visage de mon luthier s’empourpre comme sous l’effet d’une rage subite et je ne comprends pas pourquoi. Il est sûr que le son me vient naturellement, mais c’est un instrument que je voulais oublier car il me rappelait des choses que je n’aimais pas, car il était l’expression d’une musique surannée, une vieillerie qui vous colle à l’esprit pire que ceux qui la dansent sur les bords de la Marne. Alain, de son côté aurait voulu en jouer mais n’avait jamais réussi et c’est ça qui l’avait rendu furieux. Je m’en étais allé avec le petit accordéon rouge et, de temps à autre, je passais lui faire écouter un morceau. Ce n’est qu’au bout d’une dizaine de visites pendant lesquelles, pour l’essentiel, il dézinguait ma façon de jouer, qu’il a commencé à apprécier les nouveaux morceaux que je lui proposais. Des interprétations de Rota, Bizet, des Rolling Stones ou des trucs à moi qui avaient l’air de l’intéresser. Physiquement, il était grand, plus grand que son frère mais avec le même visage. On ne parlait jamais de son frère, j’imaginais bien le fardeau qu’on porte pour être “frère de”. Au fond, c’est lui qui a donné vie à la renaissance de Saint-Germain. Il me racontait le Tabou de Sartre. En public, il faisait part de son mépris pour l’existence de ces boîtes à la mode, mais qu’en fait, il y passait toutes ses soirées comme tout le monde. Sa collaboration avec Juliette Gréco en est la preuve. C’est lui qui lui avait passé le texte de Queneau Si tu t’imagines, celui avec lequel, en l’interprétant le soir de ses débuts, elle avait complètement subjugué François Mauriac et Marlon Brando. Jean-Paul Sartre avait composé pour elle la seule chanson qu’il ait jamais écrite, Rue des Blancs Manteaux, mais elle fut mise en musique par Joseph Kosma . Quoi qu’il en soit, il aimait Simone Signoret, et, plus il aimait cette actrice magnifique, plus il détestait Yves Montand qui, à son avis, ne la méritait pas. Pour moi, l’accordéon est l’instrument qui permet d’exprimer ce qu’autrement je ne pourrais pas exprimer de mon monde intérieur. En premier lieu, il donne une voix à ma mélancolie mais aussi à la joie que je porte en moi, c’est un cocktail dont les ingrédients changent à chaque fois comme s’il captait l’énergie qu’il y a autour de lui. En ce qui concerne la danse, par exemple, je peux dire que je vis une très grande contradiction. Tout le répertoire lié aux bals populaires ne me plaît pas, il ne m’a jamais plu, et pourtant, je me rend compte que toutes mes compositions se fondent sur la danse, une danse qu’on ne peut pas danser, du genre Piazzolla, que tous les tangueros détestent car il ne les fait pas danser.”

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di Carla Isernia

Edward Hopper

L’appartamento della signora Elena affaccia su due cortili interni: il balcone su quello con la fontana a forma di agrifoglio (che a lei dal primo piano sembra più un cuore); le finestre delle stanze al di là del corridoio, invece, si aprono sulle facciate di due palazzi, uno ocra e l’altro caffellatte. Su entrambi i cortili molte finestre e balconi sono chiusi da verande con vetri opacizzati, grate di sicurezza, tende da sole. L’appartamento è silenzioso anche se l’ingresso principale dello stabile dà su una delle strade più trafficate del quartiere. Potere schermante dei palazzi con otto piani e almeno due scale.

Da qualche mese la mattina la signora Elena si gode il silenzio dal balcone su una sedia a sdraio coperta da un plaid con immagini natalizie anche se è aprile. Le piace aspettare le signore che attraversano il cortile e vanno verso l’androne, sentire i loro saluti – a volte le chiedono come sta, come sta sua figlia, a volte camminano veloci e le riservano solo un cenno di saluto –, vederle tornare cariche di buste, con verdure, frutta, pane, detersivi e dolcetti, a stento coperte dalla pattina del carrello della spesa. Spesso pensa che se non ci fosse tutto quel silenzio nel cortile non coglierebbe il suono dei supermercati, il fruscio delle buste di carta, il sibilo delle affettatrici, il ticchettio delle bilance elettroniche, il rumore bianco dei congelatori a pozzetto che tutte si portano attaccato addosso.

Da allora, la giornata sonora della signora Elena inizia con l’eco delle conversazioni pettegole sui ballatoi delle scale, nella maggior parte dei casi in lingue straniere, in casa il ticchettio dell’orologio da cucina, il ronzio, a volte, del condizionatore, il borbottio della caffettiera, la voce argentina della badante che scarabocchia in cirillico la lista delle cose da comprare. A volte, in camera da letto c’è la radio accesa. Se è fortunata ed è ancora sulla sdraio in balcone, la signora Elena sorride insieme agli scolari che tornano a casa, alle voci che raccontano storie incredibili, qualche pianto, un capriccio, lo strofinio delle scarpe trascinate sul pavimento grezzo del cortile, il drin di un campanello, il suono grave di un citofono.

Dopo pranzo nella sua vecchia poltrona vicina alla finestra la signora Elena nota di più i suoni delle case: metallici di pentole e posate, bassi di piatti e bicchieri, qualche voce in lontananza, sottile, spezzata, musica e parole dai televisori accesi, dalla sua cucina solo il suono sordo provocato dalla vibrazione bassa e continua del megafrigorifero – quando venne il tecnico, chiamato apposta per registrare l’altezza dei piedini, il mastodonte tacque senza ritegno –. L’ora successiva è morta, resa ancora più silenziosa dalle tende, dalle mantovane, dalle persiane e dai doppi vetri.

Verso le cinque, quando la facciata del palazzo ocra tira fuori tutto il giallo, la signora Elena recita il rosario a bassa voce sintonizzata su TV2000. In piedi alla finestra osserva i pensionati che si accingono alla loro passeggiata quotidiana ­– parlano sempre di calcio con il portinaio – e i pochi signori silenziosi che due volte alla settimana aspettano pazienti l’arrivo del medico di famiglia. Uno fuma una sigaretta elettronica, il fumo produce un’ombra volante sull’impiantito grezzo e grigio. Gli altri suoni, quelli di fuori, della strada al di là dei palazzi, non arrivano a lei, filtrati dalle persiane, dai muri, dalle verande, dagli infissi, dalle zanzariere.

La sera, quando il portone di ingresso viene chiuso, la strada è già invasa da macchine in doppia fila di giovani che consumano pizzette, panini, pita, graffe e gelati. E mentre in strada l’aria si riempie di odori acri, dolci, salati, fastidiosi, invitanti, stuzzicanti, appetitosi, di voci alte, basse, allegre, brillanti, forti, sguaiate, e di suoni di clacson, prolungati o appena accennati, ripetuti, infastiditi, arrabbiati; e i motorini dei rider si infilano tra le auto, frenano all’improvviso, urtano il bordo dei marciapiedi, facendo sobbalzare le vivande depositate nei portapacchi coibentati, la signora Elena commenta al telefono con la sorella le notizie del giorno. Solo molto più tardi, dopo la cena e il programma in cui ballano o cantano, o il film poliziesco pieno di azione, sparatorie, sirene, inseguimenti e scontri, un po’ in lontananza le arriva il clangore metallico del camion della differenziata.

Era un fisico il marito della signora Elena e quando avevano parlato dei suoni e dei silenzi – oh, quanto avevano parlato della bellezza del silenzio –, lui aveva spiegato che i filtri sono dispositivi che selezionano un particolare tipo di onde e che il suono che passa dipende dal filtro utilizzato. E così l’onda che arriva al suo appartamento dopo avere provato ad attraversare i palazzi, averli aggirati, essersi infilata negli interstizi, essere stata portata dal vento, diffusa, riflessa, è smorzata, è una miscela di onde laceranti delle sirene, scoppiettanti delle marmitte, roboanti degli acceleratori, stridule dei freni.  Una somma di suoni che nel mondo di dentro dei cortili non copre il cinguettio degli uccellini, ed è spesso difficile scomporre in quelli che la compongono.

Qui, i filtri sono fatti di stampe e quadri, poltrone e divani, tavoli e tavolini, sedie di legno, di metallo e di tappezzeria, credenze contenenti servizi buoni, soprammobili preziosi, fotografie di famiglia; di materassi e biancheria, vestiti, soprabiti e cappotti, collane, bracciali e orologi, scarpe e cappelli; di libri, carte, cartelline, computer e stampanti; di sanitari, piastrelle, termosifoni e caldaie. Dispositivi diversi, che assorbono, appannano, velano, deformano, aggiungono, ai rumori di fondo delle case, ai rumori bianchi quando ci sono, alle voci che provengono dalle radio e dai televisori, musica leggera, classica, disco, acid, rap, rock, telegiornali, il rosario su RadioMaria.

Da qualche mese Elena prende un farmaco che le era stato prescritto per la nausea in gravidanza, cinquanta anni fa. La focomelia, il primo effetto collaterale, venne osservato troppo tardi; malformazioni del feto, teratogenicità, è stata una fortuna che Maria sia nata soltanto con un difetto di udito. «Ammesso che la causa sia stata veramente quella», dissero pure senza vergogna. Elena ha chiesto con forza un altro farmaco, ha pensato di arrendersi al tumore, e poi si è fatta convincere proprio da questa sua figlia alta e spigolosa che ha bisogno di una luce ad indicarle il campanello che suona. «Non puoi lasciarmi da sola», le ha strillato Maria su un blocco a quadretti con la penna che si porta sempre dietro, «non ti assisterò» ha detto a gesti, «non ti parlerò più», le dita a indicare la bocca cucita.

E Maria le ha anche trovato una badante che la assista mentre lei è fuori, che la accompagni dalla sedia al divano, dal divano alla poltrona, che le aggiusti il plaid e decida quando fa troppo freddo per stare fuori, che le cucini, le accenda la TV alle cinque, che la aiuti a mettersi a letto. È uscita sul ballatoio delle scale una mattina Maria e ha chiesto alle ucraine, russe, rumene e filippine che lavorano nel palazzo, si è fatta capire, ha spiegato bene – Elena, con la sua voce e le sue orecchie, non avrebbe saputo fare meglio –. Dimentica sempre la madre che Maria ha studiato, si è fatta strada, ha vinto un concorso non riservato, lavora, come quasi tutte le donne della sua generazione.

Non si è spaventata Elena, quando ha cominciato a perdere un po’ del suo sano appetito, né della arsura continua, né dei piccoli tremori che non riesce a controllare – niente a che vedere con la morsa allo stomaco che non l’abbandona da quando si rese conto che in Maria qualcosa non andava –. Neanche ora ha perso il suo senso dell’umorismo, né l’attenzione agli abiti che indossa, all’ordine in casa, al cibo sano e variato.  È solo la sera a letto, quando i suoni sono affievoliti dalla porta della camera, dalle lenzuola, dal cuscino, dalle coperte, che si domanda se esista un filtro per i pensieri che lasci passare solo quelli belli, che permetta un sogno leggero, che la faccia tornare indietro a quando la vita prometteva senza condizioni. Da qualche parte in fondo lei sa che un filtro così non esiste e se esistesse neanche sa se per lei funzionerebbe. Allora accende la radio, come dispositivo di materiale opportuno che lascia passare una particolare informazione sonora (tagliando fuori tutte le altre), e finalmente dorme.

Sinistra, movimenti e guerra in Ucraina

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I curdi siriani del Rojava che pure sono stati essenziali per sconfiggere lo Stato islamico (Isis) in Siria hanno sempre ricevuto numerose critiche. Una delle più importanti ha riguardato il loro rifiuto di sostenere sia l’autocrate siriano, Bashar al-Assad, sia i ribelli, attirandosi in fin dei conti la diffidenza di entrambi e contribuendo alla narrativa delle opposizioni siriane per cui chi non sta dalla parte dei ribelli finisce per sostenere al-Assad.

Una parte della sinistra europea ha sposato la causa curda, messa a rischio nel suo progetto di autonomia democratica, teorizzata da Abdullah Ӧcalan che marcisce in isolamento nelle carceri turche e di cui è stato pubblicato in queste settimane il libro, Sociologia della Libertà (Edizioni Punto Rosso, 2023), dai continui raid turchi, dalle operazioni militari a partire da «Ramoscello d’Ulivo» (2018), dall’occupazione del Cantone di Afrin e, sin dall’inizio dei movimenti iraniani anti-governativi (settembre 2022), anche dall’esercito iraniano. Invece c’è chi da sinistra continua a professare il suo scetticismo e a criticare la posizione dei curdi siriani: appoggiando apertamente al-Assad o additandoli come gruppi militarizzati, sostenuti dalla Coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, che in verità poco ha fatto per i curdi del Rojava.

E così ancora una volta la guerra in Siria rappresenta il banco di prova centrale per valutare anche come la sinistra europea ha reagito al conflitto in Ucraina, quale ruolo hanno i movimenti e cosa resta della neutralità tra Russia e Nato.

La Russia di Putin e la guerra in Siria

È vero che, così come è successo con i curdi, chi ha assunto a sinistra una posizione di neutralità rispetto alla guerra in Ucraina, soprattutto criticando l’invio di armi a Kiev che inevitabilmente avrebbe trasformato il paese in una nuova area di conflitto a tempo indeterminato, così come è avvenuto in Siria, si è trovato ad essere accusato di fare il gioco del presidente russo, Vladimir Putin. E così l’atteggiamento prevalente di molti, rispetto al conflitto in corso, ha riguardato il desiderio di una certa, e forse momentanea, sovrapposizione a sostegno delle posizioni atlantiste della Nato, come le uniche accettabili o il «male minore», in un contesto di guerra di aggressione, quale è stata quella avviatasi con gli attacchi russi del 24 febbraio 2022 in Ucraina.

Appoggiando questa interpretazione che vede chi a sinistra esprime posizioni di neutralità come un sicuro sostenitore di Putin, si compie però un errore importante. Criticare l’invio di armi a Kiev non significa automaticamente sostenere le decisioni russe in Ucraina. Se Putin ha potuto attaccare l’Ucraina è principalmente dovuto al fatto che la comunità internazionale gli ha sempre permesso di fare il bello e cattivo tempo in Siria e in Libia dopo il 2011. In realtà è stato con l’intervento di Putin in Siria, e l’appoggio iraniano, così come con l’intervento russo in Libia, e l’accordo con la Turchia, che i due stati falliti del Mediterraneo centrale e orientale hanno trovato un precario equilibrio che ha bloccato fin qui qualsiasi processo elettorale, la mediazione delle Nazioni Unite in Libia, e riaccreditato al-Assad in Siria, anche dopo il terribile terremoto del 5 febbraio scorso in cui il presidente siriano ha giocato di nuovo l’arma dell’emergenza umanitaria per ricoprire il ruolo del «salvatore» dalle macerie della guerra.

E così è evidente che Putin, così come al-Assad, e gli altri autocrati regionali, da Abdel Fattah al-Sisi al nuovo discorso «fascista» e anti-democratico del presidente tunisino, Kaes Saied, non rappresenteranno mai un’alternativa credibile all’anti-americanismo che una parte della sinistra ancora spera di incarnare nel suo posizionamento rispetto alle dinamiche geopolitiche regionali. Quindi nel caso specifico, se suona ridondante credere che la stessa Nato che ha distrutto la Libia con i disastrosi attacchi del 2011 sia migliore della Russia di Putin, è altrettanto scorretto credere che il pacifismo e la contrarietà all’invio di armi in Ucraina significhi appoggiare le posizioni di Mosca. Si tratta di una sorta di guerra impari per chi è peggiore tra i due fronti del conflitto. In uno scontro che non esprime due posizioni davvero alternative. In altre parole, non solo si tratta di una guerra al ribasso, a chi fa peggio dell’avversario ma anche uno scontro in cui più che trovare chi ha ragione, è meglio partire dal presupposto che in realtà hanno tutti torto.

E così ancora una volta le dinamiche di conflitti e movimenti che hanno attraversato il Nord Africa e il Medio Oriente sono utili per analizzare le attuali dinamiche interne alla sinistra rispetto alla guerra in Ucraina e stigmatizzare sia il posizionamento di chi ha ancora nostalgie «putiniane» o «assadiane» sia di chi ha sposato completamente le ragioni della Nato, difendendo invece le posizioni di una neutralità che riconosca i torti di entrambi e non le ragioni di qualcuno.

Propaganda mediatica e movimenti

Che la guerra in Ucraina sia principalmente una guerra mediatica lo ha dimostrato l’atteggiamento chiaramente provocatorio che il presidente russo ha assunto dall’inizio del conflitto. È sembrato subito evidente che la guerra in Ucraina fosse più che altro una dimostrazione di forza, la prova che la Russia continua ad avere il pieno controllo in quella regione, come è sempre stato. E la debole e ambigua reazione occidentale non ha fatto altro che accreditare questa posizione.

Lo stesso fanno le autorità iraniane che continuano a provocare giovani e attivisti, difendendo l’imposizione dell’obbligo dell’hejab, tentando di scoraggiare la partecipazione femminile nelle proteste di piazza con arresti, violenze in carcere, e avvelenamenti di centinaia di studentesse, come di recente è avvenuto nelle scuole di Qom. Eppure il movimento «Donna, vita, libertà», iniziato dopo la brutale uccisione della giovane curda, Mahsa Amini, da parte della polizia morale lo scorso settembre, è la sfida più estesa e significativa alla Repubblica islamica dopo la rivoluzione del 1979. Un movimento che va ben oltre l’obbligo del velo e coinvolge giovani, studenti, minoranze curde, baluchi e arabe, lavoratori e commercianti, diaspore all’estero.

Anche in questo caso, la leadership iraniana non fa altro che alimentare le proteste, innescare nuove mobilitazioni, per esempio non accettando la diffusa pratica di molte donne iraniane di non voler più portare il velo, per mostrare in ultima analisi di essere in grado di ristabilire l’ordine in caso di alta conflittualità. E le mobilitazioni continueranno, come ha assicurato l’avvocata per la difesa dei diritti umani in libertà vigilata, Nasrin Sotudeh. Mentre le autorità iraniane sembrano sempre più allineate sulle posizioni di Mosca, per superare l’isolamento internazionale, anche dopo l’ammissione dell’invio di droni che sono stati utilizzati dalla Russia di Putin per attaccare Kiev, sebbene, nelle dichiarazioni ufficiali, Teheran continui ad affermare la sua neutralità nel conflitto.

Iran e Arabia Saudita: rivalità e amicizia

A questo si aggiunge il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, dopo la crisi diplomatica del 2016, che si sono rincontrati nelle scorse settimane in via ufficiale grazie alla mediazione cinese, a conferma che i due paesi, nei momenti critici, o quando è necessario stabilire per esempio i livelli di produzione e i prezzi del petrolio in sede Opec, trovano sempre un accordo che assicuri benefici sia per Teheran sia per Riyad.

In altre parole, così come Russia e Stati Uniti non rappresentano modelli alternativi nella gestione dei conflitti geopolitici regionali, non lo sono neppure Iran e Arabia Saudita, impegnati entrambi a sostenere i rispettivi attori politici di riferimento per procura in Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Libano e Yemen. I grandi nemici, o dipinti come tali dai media occidentali, riescono sempre ad accordarsi invece quando sono in gioco i loro interessi. E hanno entrambi torto quando hanno a che fare con i movimenti di contestazione e non rappresentano in nessun caso un’alternativa l’uno all’altro. Così come le rivendicazioni per i diritti e l’uguaglianza dei lavoratori e delle donne saudite, qatarine e del Golfo non sono meno rilevanti di quelle delle donne iraniane.

Proprio la disastrosa guerra degli Stati Uniti in Iraq del 2003, di cui ricorre il ventennale, e il progressivo disimpegno di Washington dal Medio Oriente che ha contribuito per esempio al ritorno dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, hanno lasciato uno spazio senza precedenti alle autorità iraniane nei paesi vicini. E così le proteste giovanili e con una grande presenza femminile del 2019 in Libano e in Iraq oltre ad essere anti-americane erano anche mobilitazioni contrarie all’influenza dell’Iran nei due paesi. In altre parole, scegliere con chi stare tra Turchia, Iran e Arabia Saudita, così come schierarsi tra Russia e Nato, non è una vera scelta tra due alternative. E non è su questo su cui dovrebbe interrogarsi la sinistra oggi.

 

Appartenere alla sinistra nel 2023 significa, come sempre invece, essere contro la guerra, in Iraq come in Ucraina, sostenere la società civile e le opposizioni in questi paesi, e in particolare i movimenti. Significa stare con gli oppositori russi, con i curdi del Rojava, con le migliaia di prigionieri di coscienza, come Alaa Abdel Fattah in Egitto, con il fronte «anti-fascista» in Tunisia, inclusi giornalisti, sindacati e con tutti coloro che combattono la xenofobia di Kaes Saied che ha messo a rischio i migranti subsahariani nel paese, costringendoli a una fuga senza precedenti, e con i movimenti iraniani che chiedono la fine dei limiti imposti ai diritti di tutti da parte degli ayatollah che hanno tradito la rivoluzione del 1979.

Tratto da Effimera

 

Les nouveaux réalistes: Fabrizio Pelli

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Soul Kitchen

di

Fabrizio Pelli

Quando il medico gli prescrisse per la prima volta l’acido valproico, F., paziente bipolare, non aveva programmato di sentirsi così sereno. Grazie a una sgangherata epifania, si era convinto di non essere altro che un malato come un altro; ché se esisteva un farmaco per curarsi, allora una malattia della mente non era diversa da quelle della pelle, dei reni o del fegato.

«Dotto’, mi sento già meglio, sa? M’è bastato che mi dicesse che una cura esiste per farmi rinvenire: non credo di aver più bisogno delle med-».

«Come un fiore appena annaffiato», il dottore lo aveva interrotto, «Ma questa a me pare tanto una malcelata paura. Ne abbiamo già parlato, e le ho detto che non ha nessun bisogno di affidarsi a quel che legge su internet. Questi farmaci non sempre hanno effetti collaterali gravi».

Il suono croccante dello strappo del modulo prestampato aveva ricordato a F. il rumore degli schiaffi che il padre gli recapitava sulla guancia tutte le volte che aveva paura.

«Forza», gli sembrava di sentirlo anche in quel momento, «Che non possiamo far notte: c’è da muoversi».

Così, F., in preda a memorie spaventose e a una rinnovata sicurezza, si era diretto in farmacia e lì aveva comprato le sue dosi tondeggianti di stabilità emotiva.

Aveva mantenuto il ritmo scandito dalle somministrazioni come un metronomo, imperturbabile e meccanico, senza più chiedersi – o addirittura dimenticandosi – degli effetti collaterali di cui aveva letto largamente su internet: danni al fegato, causa di ulcere dolorosissime di cui pensava capaci solo gli ubriaconi, reni irritati e una fantasia sull’addio autoforzato manifesta solo in una percentuale piccola di pazienti; insomma, il suicidio.

Un giorno di luglio, quando la canicola faceva ondeggiare le strade, a F., per un improvviso attacco di malinconia, era venuta voglia di un piatto abbondante di pennette al pomodoro. Il sugo sarebbe dovuto essere denso, come lo preparava sua mamma, rigorosamente senza aglio, ma piuttosto con un soffritto di cipolla che lo rendeva dolce e acido, completo e bilanciato per natura.

Samurai, col suo coltello a mezzaluna, si muoveva veloce sul tagliere, tritando finemente ogni residuo di cipolla. E più la tritava, più questa piangeva un profumo pestifero che riusciva a sfondare i cancelli di peli, salire nelle narici e andargli a strizzare le ghiandole lacrimali. F. piangeva, e per piangere meno cercava di sdrammatizzare, scherzando sul sale sciolto nelle lacrime: «Le metto a bollire, così ci cuocio le pennette».

Dopo aver messo a soffriggere le cipolle in un filo – piuttosto spesso – d’olio, inondato la padella di pomodoro sanguigno e finalmente gettato la pasta nell’acqua bollente, F. si era tuffato sul divano della sala-cucina. Lì, scrollando il cellulare, si era accorto di non aver ancora smesso di piangere – le sue lacrime: goccioloni di pioggia fittissima. E cominciava a sentirsi contrito e colpevole di non aver chiamato sua madre nei giorni precedenti.

«Sarà almeno una settimana», aveva detto, perdendo il conto dei giorni sulle dita. Come quella volta in cui era stata ricoverata per un piccolo intervento, e lui, rapito da impegni spesso ingigantiti per giustificarsi, non solo non era andato a trovarla, ma non l’aveva nemmeno chiamata per chiederle come stesse, se si fosse ripresa dalla dormia (chiamava così l’anestesia completa) e se l’operazione fosse andata bene. Dopotutto, però, nemmeno lei lo aveva chiamato, e questa consapevolezza gli aveva causato un piccolo brivido, preludio elettrico di quell’ansia che piano piano iniziava a crescergli nello stomaco.

«Ecco, non mi vuole più bene», mugolava, «Non le interesso più. Il benservito, m’ha dato, la sua vendetta, ché almeno una telefonatina dopo la visita dallo psichiatra poteva farmela».

F., incapace di sopportare il senso di colpa, la rabbia e l’ansia tutti insieme, come in una fucilazione dove il condannato è uno, ma i fucilieri tre, si era reso conto che quel pianto innescato dalla cipolla aveva preso altre vie, aveva cambiato cause, e ora proseguiva in autonomia a disidratargli gli occhi. E più lui perdeva tempo a disperarsi, più la pentola sbavava schiuma amidosa che minacciava di cascare sul piano cottura, magari di bagnare e spegnere il fornello, e lasciar uscire uno spiritello di gas, invisibile e maligno, che lo avrebbe ucciso senza alcuna remora. F. se n’era reso conto così, immaginando una grande esplosione, o un sonno forzato e il conseguente soffocamento.

Per un istante – uno solo – l’idea gli era sembrata anche dolciastra, di quel dolce acidulo che gli ricordava il sugo al pomodoro: morire e non dover pensare più a nulla, non essere più costretti a sopportare questi martirii quotidiani: l’ansia, una frusta; la rabbia, un marchio a fuoco; la colpa, un veleno costipante. Ma quando rinvenne, quando si rese conto che quel pensiero non poteva essere così dolce – si trattava comunque di lasciarsi morire – F. era saltato sulle due gambe motrici ed era corso a controllare la pasta. Dopo aver calmato il bollore con un giro di cucchiaio, aveva cominciato a sistemare il piano di lavoro, ponendo il tagliere nel lavandino e con lui anche il coltello a mezzaluna.

Era sempre strato maldestro, andato a vivere da solo unicamente per dimostrare a se stesso che forse anche lui poteva vantarsi di un minimo di indipendenza. Ma le carenze del suo saper vivere si manifestavano in piccolezze come un contenitore di vetro, rotto perché messo in forno, il microonde fuso per averci scaldato gli spaghetti di soia conservati nella scatola di alluminio o, come in questo caso, in un taglietto sull’indice per via della sua incapacità a lavare correttamente un coltello.

F. aveva alzato il dito, mettendolo controluce: il sangue usciva copioso. Aveva guardato di nuovo il coltello, poi il dito, poi il coltello, poi il dito, e ogni volta che si voltava verso quella mezzaluna, gli sembrava che somigliasse sempre di più alla falce della Morte, venuta lì per portarselo via. Magari tagliandogli le vene con quello stesso coltello. Sì, attorno ai manici vedeva i quadratini di cipolla ordinarsi in falangi e falangine, fino a ricostruire una mano bianca, ossuta, che gli avrebbe tagliato gli avambracci e lo avrebbe aspettato fino al completo dissanguamento.

Di fianco a lui, attaccata a una presa della corrente, il cavo del cellulare si era attorcigliato formando un nodo tondeggiante e pendeva dal mobile verso il pavimento.

«Pure il nodo scorsoio e il cappio, pure questo scherzo!», aveva gridato iniziando a pensare di essere – finalmente – diventato pazzo; non più ascrivibile alla loggia dei bipolari, ma puramente pazzo, di quelli che la gente indica e sottovoce dice: «Questo è stato l’errore di Basaglia».

Preso dal panico, F. era tornato sul divano e si era coperto gli occhi. Tarato il respiro, gli era sembrato che una voce accompagnata da un alito caldo lo stesse chiamando. Aveva sbirciato, insicuro, per controllare di essere solo. Il suono, la voce, veniva dalla finestra in fondo alla stanza.

Più per curiosità che per coraggio, con lentezza guardinga aveva intrapreso la spedizione, ed era arrivato davanti al vetro. Ci si rifletteva, ma non al meglio: gli sembrava che alcuni lineamenti non fossero del tutto suoi. Simili, sì, ma non identici.

«Tuffati», gli aveva ordinato il riflesso, in cui finalmente riconosceva il volto di suo padre, «Tuffati, su! Mica ho voglia di aspettare la notte».

«Pa’, Dio mio! Non voglio buttarmi».

«Tuffati, forza! Come ti ho insegnato in Sardegna, sugli scogli: di testa, con le mani appuntite per tagliare l’acqua».

Incapace di mettersi contro a suo padre, persino al suo riflesso, F. aveva aperto la finestra e aveva guardato di sotto: l’asfalto ondeggiava – un mare solido e nero con righe drittissime di schiuma bianca. Avendo accettato il suo destino, F. aveva chiuso gli occhi, si era arrampicato sulla finestra, e si era lasciato andare, aprendo le braccia come un rapace, o come un Cristo sconclusionato.

Sotto casa di F., il fruttivendolo che aveva appena sistemato i pomodori, le arance e le fragole nelle scatole sulla strada, era stato testimone del volo, più pindarico che strettamente detto, di un falso suicida. F. era atterrato sulla frutta, alzandosi prima col busto, poi sulle gambe, ricoperto completamente di sughi rossi.

«So’ morto?», aveva chiesto al fruttivendolo che lo guardava senza particolare stupore.

«No, è solo sporco».

Dopo questa conferma petrosa, F. era tornato di sopra a passi pesanti di vergogna. Arrivato sul pianerottolo, dopo aver aperto l’uscio con le chiavi di scorta che teneva nascoste sotto allo zerbino per sincerissima sfiducia verso se stesso, era andato prima a spegnere il fornello, pasta ridotta a poltiglia e pomodoro ormai un coagulo piastrinico, e poi si era lasciato fagocitare ancora sporco – o condito – dal divano.

Aveva chiamato il medico al cellulare.

«Dotto’, posso disturbarla?»

«Mi dica! Sto andando in pausa pranzo».

«Sono stato male, non voglio più prenderlo, il valproato».

Il medico aveva sbuffato, un toro pronto alla corrida, cercando di silenziare un sussulto di superiorità.

«Facciamo così: le racconto come funziona il farmaco, qual è il suo meccanismo, così magari si calma e si convince che abbiamo tutto sotto controllo, d’accordo?»

«La ascolto», F. era tutt’altro che convinto.

«Vede, l’acido valproico è sia un inibitore del GABA–T, sia un bloccante dei canali al sodio. Up–regola il signalling inibitorio e down–regola il signalling eccitatotorio. L’effetto è un’ipereccitazione netta. Ha capito?»

«Mica tanto».

«Meglio», a F. era sembrato di sentire la pelle del medico scricchiolare e tendersi in un sorriso, «Non ci pensi troppo, anzi! non pensi troppo e basta, prenda le compresse e vedrà. Si dia tempo, con questi farmaci ce ne vuole per vedere effetti tangibili. Guarirà, si fidi che guarirà. Ora la saluto che mi è arrivato il piatto».

«Speròm. Arrivederci dotto’, la ringrazio».

F., sempre dolente, ma calmato dalla fiducia del dottore nella sua scienza, aveva deciso di accettare la sua sorte, ché se c’erano passati anche altri, magari qualche possibilità di saltarci fuori ce l’aveva anche lui. Era tornato al piano di lavoro, aveva acceso il fornello riempendo la pentola con acqua nuova, e aveva cominciato a tritare una nuova cipolla, concedendosi a un nuovo pianto, sì, ma fasullo e naturale.

 

 

 

Gea’s Dinner

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di Mariagiorgia Ulbar

Per motivi famigliari ho trascorso 21 giorni nella mia casa di origine e ho foggiato oggetti al tornio nel “garage dei topi”, un piccolo laboratorio casalingo ricavato da una stanza di rimessa che apparteneva a mia nonna, in disuso da parecchi anni e solo ultimamente rinnovata. Visitata nelle sere di maggiore umidità da una famigliola di scorpioni, sono andata avanti a modellare 21 oggetti di uso comune in terra bianca, quali tazze, ciotole, bicchieri, piatti, barattoli e uno spremiagrumi, non senza qualche imprecisione e qualche incidente. Essi sono andati a comporre Gea’s Dinner, un progetto sperimentale che vede un mio testo poetico frammentarsi in 21 parti, un ipertesto su ceramiche di uso comune. Ognuno dei 21 oggetti è stato decorato e cotto seguendo il processo tradizionale della maiolica che prevede una prima cottura dei manufatti a 980° e una seconda dei manufatti decorati a 930°. Gli oggetti sono rimasti dall’inizio alla fine uniti nei vari passaggi, nell’idea di perseguire il concetto di frammentazione e unione in contemporanea. Ho corso tutti i rischi del caso: di rottura, di danneggiamento, di non riuscita. Probabilmente Gea stessa si è fatta divinità tutelare dell’esperimento e ogni passaggio è riuscito senza intoppi. Ogni oggetto contiene qualche parola di un mio testo poetico inedito, che potrà esistere ed essere letto, nella sua interezza, soltanto quando gli oggetti verranno riuniti in una ipotetica “cena”.

Alle 21 persone che, a scatola chiusa, hanno scelto di aderire al progetto pagando il prezzo di un ipotetico libro, per una cifra compresa tra i 10 e i 25 euro a seconda dell’oggetto, ho comunicato via via i passaggi e infine ho consegnato gli involti legati con carta e spago – evitando plastiche, anche quella del nastro adesivo – e una lettera di accompagnamento che spiega gli intenti del progetto e fornisce le istruzioni per portarlo a compimento. Ogni persona è libera di usare l’oggetto come crede, ma è pregata di immaginare, in un momento, di doverlo utilizzare per partecipare a una cena con altre persone, usandolo come contenitore per del cibo o altro che si vorrebbe condividere. Per ora, data l’impossibilità di creare un incontro reale per motivi geografici e organizzativi, ho chiesto di inviarmi delle foto che ritraggano l’oggetto preparato per la cena e in cui sia possibile vedere le parole su di esso riportate, per permettere un collage che servirà a ricostruire e rendere leggibile il testo.

L’oggetto in ceramica è la pagina di un libro, un libro che, come tutti i libri, è fatto di materia organica, del frutto di un’astrazione cerebrale e di un atto creativo, di frammenti che compongono un tutto. Nella fattispecie, è un libro di poesie composto da una sola poesia che occupa lo spazio di 21 oggetti di uso comune in ceramica – quelli che potrebbero convergere nello spazio di una tavola per una cena – e nelle mani di 21 persone. Gea’s Dinner è un esperimento letterario e artistico che vuole toccare una visione della letteratura come opera unica che accade nello spazio intermedio tra la produzione di chi scrive e la ricezione di chi legge e usa l’opera nella sua vita personale. È anche una presa di posizione rispetto all’industria editoriale, che sta spingendo le categorie estetiche ed etiche verso un’annessione alle categorie commerciali, in un errore di interpretazione tanto squallido quanto pericoloso, che segna la storia umana. Con Gea’s Dinner mi interessa sottolineare l’idea che la poesia, per esistere, ha bisogno di un incontro semplice, essenziale e per questo ho scelto di lavorare su una materia basilare che è la terra che, nel processo di trasformazione in ceramica, incontra gli altri tre elementi fondamentali che sono l’acqua, l’aria e il fuoco. Mi interessava che fosse sottolineato, in questa opera, lo stretto rapporto tra la natura e i suoi doni, l’intelletto e la mano umana, una certa alchimia insita nella materia tangibile e in quella artistica, la connessione tra persone, spazi, intenti e la salvaguardia di alcune necessità fondamentali, toccate concettualmente e metaforicamente: il diritto alla nutrizione per l’umanità intera, l’incontro con gli altri, anche gli sconosciuti, la realtà, l’irrealtà, l’azione creativa come energia vitale.

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Mariagiorgia Ulbar ha pubblicato I fiori dolci e le foglie velenose (Maremmi 2012), la silloge “Su pietre tagliate e smosse” all’interno dell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2012), le plaquette illustrate Osnabrück e Transcontinentale (Collana Isola 2013), la raccolta Gli eroi sono gli eroi (Marcos y Marcos 2015), Un bestiario (Nervi Edizioni 2015), Lighea (Elliot 2018). Hotel Aster (Amos 2022) è la sua ultima pubblicazione. Insegna, traduce, modella la ceramica e tiene laboratori di “scrittura e immaginazione”. Dal 2012 è editrice e curatrice di La Collana Isola che pubblica piccoli libri sperimentali di poesia e illustrazione.

 

 

Mots-clés__Cactus

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Cactus
di Giulia ScuroOrnella Tajani

Jacques Dutronc, Les cactus -> play

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Da: Ernst Jünger, Serpentara, in Autunno in Sardegna, trad. Mario Bosincu, Le Lettere, 2020.

Una delle piante del cortile era un cactus, che diffondeva i suoi polloni sul tetto basso. Avevo fatto appena caso al viluppo grigio-verde con cui si innalzava; era poco appariscente e simile al braccio di un vecchio o ad un sauro disseccato addormentato nel fango. Una sera si dispiegarono da questo basamento secco tre fiori di una magnificenza che non avrei mai immaginato. Guizzarono in alto come tre corone dentellate d’argento abbagliante, sormontate da stami dorati. Spiccarono così contro il cielo della sera quali ornamenti regali e coronamento della casa. Persino la signora ne fu colpita, sebbene gli uomini del Sud si accorgano a malapena di ciò che avviene nella natura, mentre hanno la vista più acuta per tutti i mutamenti sociali. Rimase ferma a guardare, mentre era intenta a sbrigare una delle numerose faccende a cui si dedicava ai fini del nostro benessere, indicando verso l’alto: «Guardate questo miracolo. Eppure ci sono uomini che non credono in Dio».
In effetti, c’era qualcosa di particolare in questi fiori posti come lampade miracolose sul tetto ingiallito. Quale luce ne era irradiata! Il cortile appariva mutato, nobilitato dallo splendore dei lumi che ardevano preziosi. La mattina dopo il fulgore era appassito. La bellezza ha tratti d’arcangelo e resta, tuttavia, solo un messaggero dell’Assoluto che promette cose indicibili.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Jukebox: Roger Waters

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Cronistoria di un minuto

Roger Waters in concerto a Bologna
di
Elvio Carrieri
Mentre salgo le scale pare di trovarmi in guerra. L’asfissia, la stanca umidità, spari e spari ovunque. I miei compagni umani si dibattono tra  attacchi epilettici e prese di coscienza, chi è rimasto escluso fuori dal tornello bestemmia sillabe che si scontrano e quasi altisonanti formano un nome, che però a me, soldato in preda al furore del mattino, non è dato conoscere. Alzo gli occhi e lancio una preghiera al coperchio che mi fa da cielo, tiro un sospiro, stringo la mano a chi mi sta accanto e singhiozzo nell’affanno. L’agonia pare esser terminata, ho ancora saliva nella bocca, l’aria mi passa ancora trai bronchi. Una mitraglia! Una sfrontata mitraglia interrompe il mio soliloquio, è tornata l’angoscia guerresca del soldato, c’è qualcuno che mi reclama a sé, ma non lo vedo. Non lo sento. Il collo mi impedisce di girarmi. Un proiettile mi fora lo sguardo, l’occhio cade inerme sullo schermo. Sono al buio. Lui è una sagoma rossa, appena illuminata. Di fronte a me troneggia Roger Waters. Mi indica, ho il suo dito puntato nelle pupille. “You! Yes, you! STAND STILL!”. Il suo grido è una bomba lacrimogena.
È certo dal principio che la mia serata sarà condotta da questo satiro e che sto per assistere a un cerimoniale di sacrificio che ha come fine ultimo quello di abbattermi con un proiettile e farmi risorgere dal bossolo.
La messa ha per me inizio in ritardo sulle note di Another Brick In The Wall, eseguita nella sua interezza in ognuna delle tre parti che la compongono, come fosse un canto popolare dal quale doversi altezzosamente liberare al più presto. La cantano tutti, dal primario dell’ospedale Sant’Orsola alla casalinga di San Lazzaro di Saveno. Non c’è uomo o donna nell’Unipol Arena che non provi nel fegato lo stimolo di buttar fuori queste schegge antiautoritarie, immerse nella bile, mentre il satiro vestito di nero opportunamente svanisce nel nulla. Siamo tutti anti-establishment, troppo, per renderci conto che il nostro canto è diretto all’auctoritas nascosta, al musicista ultra settantenne che avrà in mano le nostre interiora per due ore e mezza. Senza alcun ritegno Waters ha da subito intenzione di far indignare i presenti, e così compaiono in ordine sul maxischermo fotografie di Ronald Reagan, Barack Obama, Donald Trump, Joe Biden: criminali di guerra. Nessuno escluso. La condanna del satiro diventa verbo in tutta l’arena, e il popolo esulta, impazzisce infervorato nella collettiva sommossa anti USA. “Cominciamo bene!” penso mentre un ragazzo altrettanto infervorato (ma non per le stesse ragioni) mi grida in faccia parole che non capisco. Sono così immobilizzato da non rendermi conto che ostruisco la vista. Chiedo scusa e umilmente, col mio passo felpato che resiste a ogni genere di autorità, cerco il mio posto.
Dopo l’attacco al fulmicotone, la chiesa si zittisce in preghiera, e il satiro apre bocca per la prima volta. Fa quello che ogni artista che si rispetti dovrebbe fare di fronte a un pubblico: parla di se stesso. Parla della sua vita. Ci racconta, mentre i più virili si trattengono dal non scoppiare in lacrime, di quando era ragazzino insieme al suo amico Syd Barret (l’arena sospira al solo nome del maledetto perduto) e i due vennero folgorati alla vista del primo vero gruppo Rock’n Roll che abbia mai solcato questa terra:i Rolling Stones.
Da quel momento, sostiene Waters, vollero vivere il sogno, il sogno puro, autentico e primigenio che solo la musica rock poteva permettersi di impiantare nelle menti dei giovani inglesi degli anni sessanta. A questo punto, l’arena s’incupisce. Tutti, non uno escluso, conoscono la storia di questi due ragazzi della provincia inglese. Suoneranno, la psicosi assalirà l’uno e la nevrosi l’altro, poi cambieranno il mondo. Così il ragazzino di quasi ottant’anni che mi sta di fronte si allontana dalla buona compagnia di Pan e Dioniso per auto incoronarsi padrone dell’elegia: vuole raccontarci la storia della sua band. Noi tutti in coro lacrimiamo, e lo invitiamo a cullarci.
Dopo aver ricevuto dal groove sensuale di Have a Cigar l’erotica illusione di poter vivere nella nostalgia dei bei tempi andati, noi tutti uomini e donne ammassati nella calca scarichiamo la tensione, e diventiamo santi. La dodici corde intona le prime note di Wish You Were Here, e dal rito pagano l’Unipol Arena invoca una divina liturgia. Stringo la mano a chi mi ha accompagnato in questo rito, appoggio l’indice sulle guance e sento le lacrime. Guardo il volto angelico alla mia destra e penso che abbiamo ancora molto da imparare dalla musica e dal suo valore catartico, e che no, Aristotele non ci ha insegnato assolutamente nulla. Il latte immateriale che ho sulle dita mi ricorda che sono un uomo, e che devo esser grato al satiro che mi guida in questo cerimoniale bacchico e beatificante se posso amare chi mi giace accanto.
Per un attimo invidioso il musicista che ribolle in me reclama la propria autorità, e invade questo spazio purificato con le proprie considerazioni. Noto che, finora unica pecca, l’arrangiamento risentito e ristretto di Shine On You Crazy Diamond non rende giustizia alla maestosità onirica del brano. Penso che sia un modo di reclamare la propria autonomia rispetto agli ex compagni, un secco ed implicito messaggio inviato a David Gilmour: posso farcela anche senza di te. Questa volta il satiro non mi convince. Il brano, annoto nelle mie masturbazioni mentali, ha bisogno di iniziare con quelle quattro note, ma il mio delirio autocelebrativo non mi dà neanche tempo per compiacermi, perché osservo una pecora avvicinarsi. Una gonfiabile pecora di plastica volteggia nell’aria accompagnata dall’organo ossessivo ed inquietante della suite space-funk Sheep. Sotto la scritta erotica e imponente “RESIST AUTHORITY” la platea è illuminata e l’animale fa il giro dell’Arena, tutti lo osserviamo avvicinarsi, tutti lo fissiamo con accidia, tutti, mi rendo conto a posteriori, lo filmiamo. Se durante il rito evangelico di Wish You Were Here non c’era un uomo la cui virilità era rimasta intatta, nel brano più acutamente socio politico Sheep, dove Waters cita Huxley e Orwell, noi tutti, come pecore, filmiamo la pecora che ci si avvicina per scrutarci negli occhi. La considerazione mi destabilizza, soprattutto perché non è merito del mio ingegno. Durante questa isteria, un’isteria che accade ovviamente in interiore homine, il pubblico viene abbandonato a se stesso, e il fauno, conscio delle proprie malefatte, svanisce dalla struttura. Non potrei esser certo che ognuna delle ventimila persone nell’Unipol Arena abbia percepito lo stesso, ma per un quarto d’ora, tra una foto e l’altra (sigh), un senso di voraginosa inconsistenza ha tremato sotto i piedi dei più audaci (a livello di pensiero, s’intende).
Non ci è concesso riposo alcuno. Mr Waters ci ha ingannati con la sua assenza. La vertigine è ancora lì, nelle fondamenta di acciaio della struttura, pronta a corrodere i nostri vestiti.
È così che all’improvviso dal tetto pendono quattro bandiere inflessibili, che alla mente riportano una certa simbologia innominabile, e che al cuore non lasciano il tempo di tornare in sincronia col proprio battito. Roger Waters, il fauno ascetico dalle zampe caprine, viene fuori da un cunicolo del palco e sale le scale con la gravitas di chi ha composto un capolavoro, ne è conscio, ed è in procinto di vomitartelo addosso.
È avvolto da una lunghissima giacca di liscia pelle nera, il volto oscurato dagli occhiali, a qualunque uomo minimamente consapevole di storia contemporanea ricorderebbe un dittatore, un gerarca che a primo impatto sembra poco democratico. Le chitarre lo annunciano, è l’uomo vero, il satiro barbuto, che in trombe elettriche viene a consolarci e a redimerci dalla miseria in cui egli stesso ci ha lasciati; si muove da una punta all’altra della croce sul riff operistico e magniloquente di In The Flesh. L’Unipol Arena è a metà del suo percorso di purificazione. Il resto del concerto sarà il perfetto e definitivo medley della colpa, del martirio e della santità. Il Fauno, dal suo palco a forma di croce situato al centro della platea, ci chiama a raccolta in nome dell’antieroe del suo capolavoro The Wall, sull’ostinato della chitarra di Run Like Hell. L’arena pare immobilizzata nello sguardo e fluidificata nei movimenti: tutti, all’unisono, battono le mani.
Nel mentre un maiale ingozzato, che pare uscito da Animal Farm, ci vola attorno abbastanza lento da consentirci di leggere l’imperativo dal quale è stato marchiato: Fuck The Poor. La musica ballabile di Run Like Hell fa di contrasto con l’inesorabile constatazione scritta sul costato del maiale. Noi tutti, questa volta scoordinati, balliamo. E ignoriamo.
Alla fine del rito mondano il pubblico è derubato della luce che fino ad allora l’aveva illuminato, e l’Unipol Arena, nera, apocalittica, asfittica, è rischiarata da una gigantesca scritta sul maxi schermo: FREE JULIAN ASSANGE. Alzo gli occhi e penso che non c’è bisogno di far politica per schierarsi nel sociale. A tratti la giustizia è semplicemente lì che brilla. Seguono scritte minimali accanto al volto in bianco e nero di Roger Waters che canta De Javu, da solo, con una chitarra acustica e ventimila persone pronte a diffondere apostolicamente il verbo della libertà e dei diritti umani. “LOCK UP THE KILLERS, FUCK THE PATRIARCHY” e ancora “WE ALL NEED RIGHTS”. Siamo tutti uniti, questa volta non scoordinati, questa volta lo percepisco. Per colmo di schizofrenia il satiro mette fine alla patetica sviolinata sui diritti umani e invia il segnale: ecco il ritmo di un registratore di cassa in sette quarti, un maiale immerso nel verde sul maxischermo, un riff semplicemente immortale, e l’intera Unipol Arena viene giù d’un fiato. Particolare plauso nell’esecuzione di Money va dato ai musicisti solisti, sassofonisti e chitarristi che hanno fatto i compiti e non cannano una singola nota rispetto alle partiture originali di The Dark Side Of The Moon, opera alla quale il satiro Waters ha scelto di dedicare l’ultima parte del concerto.
Molteplici possono essere i motivi di questa scelta, soprattutto se si nota che in spettacoli come questi si procede al millisecondo, e nulla, neanche una nota, è lasciata al caso. È questo il momento in cui la croce al centro della platea viene avvolta dal prisma più famoso della storia: ad uno ad uno, come nelle albe più (s)fortunate, si scompongono i colori. L’ordine di esecuzione dei brani riprende in modo certosino l’ordine del secondo disco di The Dark Side Of The Moon, e come nell’originale, il momento più lisergico rimane la Us And Them di Rick Wright.
Una progressione di quattro accordi che Michelangelo Antonioni liquidò con le seguenti parole:
È meraviglioso, ma è troppo triste. Mi fa pensare a una chiesa
Strano pensare che sia stato il momento in cui chiunque si è sganciato dai propri limiti ontospaziali. Sarà che sono quattro accordi, sarà che l’Hammond di Wright era l’unico strumento a poter introdurre un brano del genere, o forse sarà proprio quel terzo accordo dissonante nella progressione, unico nella storia del rock degli anni ‘70, ma a metà di Us And Them ho smesso di ragionare sulle logiche astratte e concrete della descrizione del reale e ho baciato chi mi stava accompagnando in questo viaggio. Questi brevi secondi rimarranno il momento più alto della mia esperienza nella sua estrema complessità narrativa.
Al limite delle nostre voci e delle nostre sensibilità, il fauno sacerdote decide di interrompere il tutto, ci fa sorridere col suo italiano affannoso, si beve un bicchierino sul palco e ci dice:
I feel the empathy in this room
Non ho mai visto una rockstar, un performer, un artista, un illustre medico o ingegnere gestionale così umano e così vulnerabile. Roger Waters, l’uomo vero, il Satiro barbuto, ha denunciato la civiltà come illusione e ci ha al contempo dato speranza nell’umanità. Per un attimo non ho condiviso la descrizione nietzschiana della figura del satiro, quella di un uomo greco, semi-animalesco, che corrisponde ad uno stadio pre-umano dell’umanità stessa, anteriore ad ogni forma di civiltà, e dinanzi al quale ogni civiltà si svela come menzogna, in quanto si edifica sull’occultamento del dolore. No, in questa celebrazione non vi era occultamento del dolore. Per un momento, a fine concerto, Roger Waters si è appoggiato su un pianoforte, mi ha raccontato della morte di suo fratello, di sua moglie, di Bob Dylan, ha reinventato la forma canzone, ha pianto di fronte a me, lo giuro con i miei occhi, ha sollevato il suo pubblico contro l’armamento nucleare, ci ha terrorizzati tutti quanti, e ci ha mandati in pace, in nome dell’umanità. Adesso siamo liberi di poter scrostare i resti della pelle dal nostro corpo, perché siamo noi ad esser diventati satiri.

Il poeta e lo storytelling

2

di Andrea Inglese

Di che genere di storia sei portatore?

Christian Salmon

 

Il demonio si avvicina per dirti: “C’è in realtà un enorme bisogno di poesia!” o “È incredibile quanto la nuova generazione s’interessi di poesia!” o “C’è una sorprendente rinascita della poesia!” Io non ci credo ovviamente. Al di fuori dei suoi momentanei effetti consolatori, o di circostanze sociali e storiche abbastanza rare, la poesia e le scritture affini interessano poco e pochi, ma non per forza un gruppo socialmente omogeneo. (Altra cosa di cui sono convinto, per inevitabile lezione della storia – ma sempre possibile di smentita –, è che la poesia ha interessato a lungo, ossia possiede una sua strana permanenza transculturale, pur nella sua palese mancanza di caratteristiche unitarie o essenziali.) Le ideologie che essa veicola possono essere molteplici, ma il suo terreno di predilezione rimane il linguaggio preso a controtempo e contropelo – almeno dai Romantici in poi ­ per uscire dal o entrare “diversamente” nel mondo. Di fronte all’imperativo diffuso di esprimersi, che è veicolato dalle forme di vita attuali, il/la poeta o simile dovrebbe perlomeno sentirsi in perfetta inadeguatezza: che pretesa ha il suo enunciato di dire diversamente il sé e il mondo di fronte all’inesauribile produzione giornaliera di enunciati sul sé e sul mondo? Le strategie possono essere varie, ma le soluzioni ottimali scarseggiano.

Si può sempre, però, tentare di rovesciare lo scenario, e proporre il poeta come figura adeguata al qui & ora. Basta costruirsi una storia del poeta che si è o si pretende di essere. Oggi chiunque sia portatore di una storia, foss’anche un poeta, suscita un’immediata solidarietà e interesse. Che la storia del poeta poco c’entri con la poesia – che non costruisce storie semplici – sembra proprio una contraddizione. Ma qui è meno la coerenza che conta, quanto l’efficacia sul piano pragmatico. In quest’ottica è addirittura necessario che la poesia galleggi il più possibile fuori dalle circostanze storiche che l’hanno prodotta, che ne sia insomma avulsa, e che quindi conquisti uno statuto almeno apparentemente immune dalle insidie a cui è esposto il linguaggio nella sua storicità. Per questo motivo è necessaria una storia, ma non per ciò che è scritto, ma per colui che la scrive. Le storie facili, comprensibili, ripetitive e ripetibili, sono le sole che ognuno può costruire fuor di qualsiasi difficile e incerto apprendistato letterario, e infatti la maggior parte di esse non hanno alcuna pretesa letteraria, e servono soltanto a fornire prestigio alle persone che ne sono portatrici. Perché mai qualcuno che scrive poesia non dovrebbe inserirsi nel filone, e annunciare che anche il poeta come tutti ha una sua storia, ed essa implica in subordine l’esistenza della poesia? Quello che però conta è che, in questo caso, la poesia c’è perché c’è il poeta. Non è la scrittura che dovrà portare in qualche strano modo al mondo, e verificare la sua pregnanza e rilevanza in questo esercizio. No, sarà sufficiente – perché poesia ci sia – la storia del poeta, che è storia di qualcuno che sta nel mondo ben conosciuto e condiviso, qualcuno che esibisce atteggiamenti e posture del tutto adeguate al presente, con il suo colorito specifico, il suo turchino poetico o fucsia lirico. E a quel punto si potrà dire che finalmente la poesia può interessare tanti, può raggiungere tutti (come sostiene di tanto in tanto il demonio).

Libertà selvatica

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di Paolo Costa

( il brano riportato è tratto da L’arte dell’essenziale: un’escursione filosofica nelle terre alte, La bottega errante, Udine, 2023, euro 15, di Paolo Costa)

Ora non ricordo più se l’ho letto in uno dei suoi libri o gliel’ho sentito dire di persona – probabilmente entrambe le cose sono vere – ma so per certo che Reinhold Messner ha più volte spiegato la sua sovrumana capacità di uscire vivo da situazioni apparentemente senza scampo con la forza ciclopica della sua collera, della sua «aggressività congenita». In una situazione di grande pericolo, per citare le sue parole, «mi trasformo in una specie di animale selvatico. Mi si dilatano le pupille e il mio corpo sprigiona energia, coraggio, rabbia. Ho scariche di adrenalina al massimo livello. Una sorta di aiuto inconscio per sopravvivere. In certe situazioni senza questo tipo di istinti tanto io quanto alcuni dei miei compagni saremmo morti». Se capisco bene il punto, quello che lo scalatore altoatesino ci sta dicendo con il suo solito stile ruvido è che nei momenti in cui la montagna ci porge il suo volto più freddo, ostile, se non si vuole soccombere, l’amore, il rispetto, la pazienza, devono lasciare spazio a una furia cieca, animale: a un arcaico desiderio di essere lasciati in pace.

Vorrei far notare qui, en passant, come l’emozione dell’ira sia strettamente legata alla critica sociale, al desiderio di emancipazione, di riscatto. I profeti biblici, per fare un esempio classico, sono spesso inviperiti col popolo di Dio, talvolta persino con Yahweh. E lo stesso vale per i profeti secolari. Partendo da Giordano Bruno per arrivare fino a Marx, non si può certo dire che nel pantheon moderno degli intellettuali militanti ci sia stata carenza di brutti caratteri. La rabbia, d’altro canto, è spesso la principale risorsa contro l’oppressione sociale e il migliore antidoto al fatalismo che essa di norma genera in chi è stato abituato ai soprusi fin dall’infanzia. Se, come ho suggerito sopra, il senso d’impotenza, l’inermità, può essere una conseguenza della povertà-di-mondo – del sentirsi cioè abbandonati a sé stessi nel proprio sforzo idealistico di appagare il desiderio umano di pienezza – è però anche, a maggior ragione, l’effetto perverso di un mondo povero, un mondo che ti condanna senza colpa alla servilità.

Nell’amore per la libertà, detto altrimenti, non può mai mancare un fondo di collera, di sano odio per l’ingiustizia o, più banalmente, di insofferenza verso il paternalismo di chi si sente in diritto di trattarti come un bambino e può permettersi di umiliarti senza alcuna giustificazione razionale.

Se non sbaglio, l’equivalente dell’abito emotivo del teorico critico in montagna è l’attaccamento a una libertà che non saprei come definire se non “selvatica”. In questo caso, la reazione alla overwhelmingness della Natura, al suo assolutismo, si manifesta a un livello minimale come adesione spontanea alla propria fatticità naturale, al dato primitivo dell’essere vivi. Non solo si vive senza farsi troppe domande, ma si accetta di vivere senza risposte. Si vive perché si è al mondo e tutti coloro che pretendono qualcosa in più risultano di per sé sospetti.

C’è effettivamente qualcosa di liberante in questo modello di esistenza a una sola dimensione in cui la vittima predestinata della sorte si accomoda negli interstizi di un cosmo che ha un suo rozzo ordine naturale con cui è possibile venire a patti senza pagare costi inaccettabili. Citando obliquamente il filosofo francese Étienne de la Boètie (XVI secolo), si potrebbe parlare in proposito di “servitù non volontaria”: una condizione di subordinazione che, almeno comparativamente, potrebbe rivelarsi meno doma di quanto non sembri. Di fronte a una montagna che ci sovrasta ci si può sentire cioè “liberi” come i servi scaltri di un padrone svogliato e distratto.

Mi spiego meglio perché l’idea si presta a molti equivoci. In montagna, al culmine dello sconforto, della miseria, dell’abbandono, la scoperta di quanto sia profondo il nostro bisogno di “selvaticità” può essere vissuto come un’autentica liberazione. Parlando di selvaticità mi riferisco qui precisamente al bisogno di essere affrancati da parti di noi stessi che ci sono diventate estranee, ingombranti, persino nemiche. In questo senso il termine è da intendersi come un sinonimo di semplicità.

Ma fino a che punto ha senso definire “libera” questa condizione priva di interiorità, senza voce, il cui modello implicito è un’esistenza vissuta sulla pura superficie? Non c’è qualcosa nella nostra mentalità di uomini moderni che ci impedisce di aderire totalmente a questa prospettiva? Può esserci libertà dove c’è abbassamento, regressione, contrazione del sé?

La mia risposta a questa domanda è sì, esiste un nocciolo di libertà primaria che dipende dal contrarsi più che dall’espandersi, dall’aderire alla propria natura selvatica anziché dal distanziarsene. Già Messner, con il suo riferimento non casuale all’animalità, ha indicato la direzione in cui vorrei far procedere l’analisi ora. Pensiamoci su. La pietra dello scandalo nel caso della natura selvatica è evidentemente la noncuranza. La meraviglia che si può provare di fronte a una forma di vita animale o vegetale indipendente, autosufficiente, che sembra chiedere soltanto di essere lasciata in pace, è una sfida insidiosa ad alcuni pilastri dell’immaginario filosofico moderno. Come si può infatti giustificare o dare senso a un’esistenza che si esaurisce nel suo atto, che non rinvia ad altro da sé, che non è segno di nulla? Non dà in fondo la nausea una simile pienezza d’essere che non ammette l’idea che le cose potrebbero essere diversamente da come sono, che è semplicemente “in sé” senza essere mai “per sé”?

Per chi non ha già risposto affermativamente a questa domanda, il punto, credo, è proprio stabilire se non vi sia qualcosa, se non di fallace, di incompleto nel modo in cui la maggioranza dei moderni ha concepito la libertà (ossia come una forma di autodeterminazione, di fuoriuscita da una condizione di servile passività). Una lezione significativa che si può forse ricavare in quella dichiarazione implicita di estraneità a ogni progetto di riforma, riscatto o redenzione dell’esistente incorporata nel concetto selvatico di libertà suggerito sopra risiede proprio nel suo essere una pietra d’inciampo per l’attivismo moderno, per l’idea cioè che si possa essere in pace con sé stessi solo aggiungendo qualcosa a ciò che si dà spontaneamente.  C’è una parte di noi che ha forse qualcosa di essenziale da guadagnare dalla constatazione che vi è un fondo dell’esistenza – anche dell’esistenza umana – che si accontenta semplicemente di essere là, prima di qualsiasi «giustizia o misura», per evocare una bella canzone di Chico Buarque de Hollanda, O que será, che parla con perspicacia di «quel che non ha governo / né mai ce l’avrà / quel che non ha vergogna / né mai ce l’avrà / quel che non ha giudizio».

La mia impressione, per esprimersi fuori dai denti, è che ci sia qualcosa di filosoficamente denso da meditare in montagna in quegli attimi disarmanti che mandano a gambe all’aria le scissioni moderne tra forza e debolezza, libertà e necessità, senso e non senso. Non ha però le sembianze di una lezione che si possa tradurre compiutamente in parole. Assomiglia piuttosto a un sospiro di sollievo o a un urlo liberatorio: «Allora c’è altro oltre la commedia o la tragedia umana! Non tutto dipende o non dipende da noi! Esiste semplicemente un senza-di-noi!». Anche se questa intuizione non racchiude tutta la verità di cui abbiamo bisogno, ne è nondimeno un tassello importante. Tanto più oggi, di fronte al possibile catastrofico fallimento del sogno moderno di ricondurre il mondo intero a un ordine senza eccezioni.

La voglia fortissima di non essere chi rimane – poesia e fotografia in Mia Lecomte

1

di Massimiliano Damaggio

 

Forse non molti sanno che Mia Lecomte è anche fotografa. E che la sua attività di fotografa – la capacità di vedere di ogni cosa un momento, un aspetto unico e irripetibile – è strettamente legata alla sua scrittura. E viceversa. In lei poesia e immagine sono entrambe risultato dello sguardo, del modo che ha di restituirlo allo sguardo del mondo. Come risulta evidente mettendo in dialogo i testi dalla sua ultima raccolta poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022, con una nota di Ugo Fracassa) e le fotografie che lungo gli anni lei ha pubblicato ed esposto, in gran parte raccolte nel suo sito personale.

In Lecomte, la fotografia è ulteriore angolazione e lente d’ingrandimento. Non tanto su un “particolare”, ma su un “non particolare” di vuoto e assenza che la sua poesia spesso provoca quando la scrittura, improvvisa, brusca, si ferma, finisce, s’interrompe e chi legge sente chiaramente che dopo c’è qualcos’altro – che non è dato leggere. È la mancanza, le mancanze che la fotografia dell’autrice sembra cercare. L’inquadratura del “bianco” di cosa non è detto. Gli smottamenti di “nulla” fra i versi. Asciuttezza, assoluta assenza di foschia, nella fotografia come nella parola, per percepire tutto il detto, il non detto e il forse.

 

 

Caro XYZ

 

ora raccontami di te
dammi notizia
qui le tue lettere
non sono mai arrivate
Dietro le porte
come una luce voci attorno
sta la famiglia
Per il resto
tutto l’inverno è vuoto

 

(da Lettere da dove, 19)

 

Come si guarda il vuoto? Come se ne scrive? Come lo si rappresenta?

Nelle fotografie, come nelle poesie di Lettere da dove – in particolare nella prima delle cinque sezioni in cui è suddiviso il libro – molto, se non tutto, è passato, è stato, è andato. Non è rimasto. Molto non è mai stato. Una stanza vuota piena di un letto vuoto. Una figura senza volto, a metà coperta da una tendina, dietro la finestra di una cucina. Una battaglia immobile fra soldatini a cavallo che corrono verso un nemico fuori dell’obiettivo. I segni lasciati sul muro da ciò che una volta potevano essere i gradini di una scala. La prospettiva glaciale di panni stessi su fili perfettamente paralleli, e un tavolo di fòrmica, e un grembiule viola attaccato al muro, vuoto, liscio, senza il minimo ricordo del corpo che l’ha indossato. Immobilità, “trattenersi” in un luogo e in un tempo dove ciò che non c’è più si fa “trattenere” in tutta la sua assenza.

 

SGOMBERO

 

Il primo giorno hanno smontato il superfluo:
non luccicava neppure sul lato meno ruvido
l’hanno dovuto appoggiare

il secondo dedicato all’imballo:
riponevano necessità piccolissime
in scatole all’orizzonte
più e più lontane

il giorno che si dice terzo è soltanto molto vuoto
un abisso non in grado di stare

(intanto pare abbia avuto inizio
la sesta estinzione di massa)

 

(da Lettere da dove, 47)

 

 

In scrittura questa creazione di vuoto e assenza, oltre che con la “secchezza” e il rigore espressivi – che evitano pericolose derive sentimentalistiche quando si tratta di temi come l’assenza – è dovuta anche a un puntiglioso lavoro di giustapposizioni visive, di dettagli su dettagli, immagini a cascata su altre immagini che invece di produrre caos visivo, semantico, rumore di fondo, “intagliano” negli occhi del lettore una precisissima forma del vuoto: l’assenza che si scava il proprio spazio nel pieno delle cose.

Poesia, fotografia, sguardo. Il momento in cui la luce penetra l’occhio e crea, ricrea, ricostruisce, mette a dimora un seme destinato a sbocciare quando sul bianco della pagina si apre e richiude l’obiettivo, e la forma si congela in un’immagine immobile, fotografica, e in una evanescente, scritta. Due pesci morti che nuotano insistentemente sul ghiaccio del bancone, gli occhi vivissimi, cristallo perfetto che ancora riflette, nella sua definitiva fissità, tutto il movimento che manca.

 

 

MANUTENZIONE STRAORDINARIA

 

Oggi si è rotto ancora qualcosa
Dettagli dalle fondamenta
al tetto nelle strutture
pezzo a pezzo
un elenco crescente dal passato
verso la completa distruzione
La casa in cui mi trovo
prosegue il vuoto
per cosmiche variazioni
Da qui a breve
pulire non sarà più mio compito
dio mi perdoni
potrò concedere ai detriti di posare

 

(da Lettere da dove, 49)

 

 

Leggendo, guardando le poesie di Mia Lecomte, il percorso è quello su un sentiero di “velamenti”, di partenze, arrivi e subitanee ripartenze. Sembra a volte un giocare a nascondino, un non voler esserci a tutti i costi. Sembra quasi che l’autrice, in poesia e in fotografia, in realtà non ci sia, non sia dietro la macchina, non abbia in mano la penna: sembra essere qualcuno andato via con altri, di cui rendiconta l’assenza. Come nelle immagini della Versilia a fine stagione, quando “sono andati via tutti” e regna un sentimento di sospensione a tempo determinato che solo i luoghi in “disuso” riescono a dare, dove anche il mare con le ombre dei bagnanti è già ricordo, anticipazione del ricordo. “Goloso anticipo della morte”, citando Carlo Bordini. È un’immagine bellissima, che Lecomte reitera spesso nella sua scrittura, nel suo fingere (sembra) di non essere l’unica rimasta, l’ultima a testimoniare la pensilina vuota dopo la partenza: chi desidera far parte del quadro, del ricordo, dell’assenza, e infine del vuoto che lei stessa ritrae. La voglia fortissima di non essere chi rimane.

Anche l’inquadratura fotografica, così come la parola, è rigorosa, precisa: un modo per avere sotto controllo tutta la scena, esaminarla e ricomporne le tessere sulla carta. Angolazione perfetta, geometrica, punto di fuga all’infinito, impalcatura essenziale delle cose, lessico scarno, colori algidi che tendono a sbiadire. Come il ricordo. Fotografia fredda, indagatrice, poesia frontale: un’eco di Ghirri e l’iperrealtà di una realtà imprigionata in momenti di impossibile immutabilità, poesia che non cede mai – o non vuole – alla carnalità di uno Jodice, ad esempio, dove la pietra della statua non è pietra ma altro.

Nella poesia di Lecomte avviene il contrario a tutti gli effetti: il suo sembra un compito di testimonianza ultima – e quindi freddo disincanto, distanza – di cosa si è spento. E in questo più che l’immagine riesce la parola, capace di sottili sfumature di senso e significato. A volte, anche nella sua apparente nitidezza semantica, una parola porta in sé, etimologicamente o per utilizzo acquisito, una sorta di diluizione del proprio significante in altre immagini, in rimandi, in echi. Cose che un’immagine non può. Ed è questa possibilità che l’autrice approfondisce in scrittura: il suono dell’eco, dello straniamento, della presenza di un’ombra in uno dei tanti musei “delle cose morte”.

 

 

TRA I REPERTI

 

Restano le meteoriti
c’è scritto sotto:
effetto dell’impatto e della combustione
Occupano la sala grande
tra mucchi di cenere tizzoni verticali
Brillano spente
rotolano immobili
tanto fredde che sembrano scaldare
Al centro del museo delle cose morte
non c’è che una didascalia
la loro
si legge ancora:
eppure queste (malgrado le apparenze)
stanno vivendo
D’altra parte
è giusto chiedersi
quando l’amore consuma fuori orbita
cosa ne può restare
La notte a volte
qui scende così in fretta

 

(da Lettere da dove, 77)

 

 

Autobiografie non vissute, Terra di risulta, Intanto il tempo, Al museo delle relazioni interrotte, Là dove hai il corpo. Sono i titoli di libri di poesia di Mia Lecomte. Come per questo Lettere da dove, il lettore si chiede: dove è chi scrive? Dove viene fatto entrare chi legge? Non c’è luogo, non c’è corpo. L’inquadratura è quella di una finestra da un interno, una tenda leggera che la copre, come una nebbia, e lascia vedere solo l’ombra di un fuori che potrebbe essere “casa”.

La poesia in fondo è forse una questione di sguardo. Di come uno sguardo riesca a farsi guardare da altri – gioco di trasferimenti di realtà (o irrealtà) da uno sguardo a un altro. Fino a quando l’immagine chiede di essere solo sé stessa, basta la fotografia. Quando chiede di muoversi, di ondeggiare, di farsi e disfarsi negli occhi altrui, letta, è necessaria la parola. Soprattutto per guardare adesso il vuoto che sarà poi.

 

 

BLACK FRIDAY

 

Prima di morire sarò già morta
una questione di mesi forse anni
o avrò deciso in un unico giorno
Me ne sarò andata ogni sera
a tavola la forchetta nel piatto
o tutto a un tratto
una mattina improvvisa d’estate
Sarò già morta amore mio
già ordinata la cassa
(scegli oggi per risparmiarti il domani)
aperta in uno sbadiglio fiammante
Dovrai solo scomporre le lettere
vocali e consonanti non necessitano
in alcun modo di punteggiatura
detradurre il tradotto
lasciare che ricominci al contrario
avvolta da capo ogni recondita agonia
quello che sarà stato di me

 

(da Lettere da dove, 89)

 

 *

[Le immagini sono di Mia Lecomte, tratte da https://www.mialecomte-ph.com/]

 

La Catabasi vorticosa della memoria. Una conversazione poetica con Andrea Donaera

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di Chiara Donnini

All’inizio di marzo è uscita per l’editore fiorentino Le Lettere la raccolta poetica di Andrea Donaera, Le estreme conseguenze, nella collana novecento/duemila diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni. Ne parliamo qui con l’autore.

Chiara: Ciao Andrea, la prima domanda che vorrei farti origina dall’esergo della tua raccolta, Le estreme conseguenze. In apertura tu poni due narrazioni suggestioni che mi sembrano già un’esplicita dichiarazione di poetica: una di Alberto Savinio che racconta la fine del poeta Apollinaire, quasi al termine delle prima guerra mondiale, vista attraverso gli occhi dell’amico Ungaretti che sul letto di morte gli porta i sigari toscani: “La giornata è caldissima. Il grasso del poeta cominciava a decomporsi” e una di Walter Benjamin che si sofferma sul “rimuginatore”, collezionista e custode di ricordi reliquie, Baudelaire: “Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà, facilmente, un labirinto”. Di esse mi si imprimono due parole immagini: il corpo e il labirinto.
Partendo dall’etimologia e dalla definizione di poesia, che deriva dalla parola greca poiesis, ovvero il fare, il produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione e il cui slittamento semantico si trasferisce poi su tutte quelle opere o parti di opere ritenute particolarmente ispirate e suggestive, ti chiedo: cosa è la poesia per te? E’ soprattutto corpo (il corpo del poeta, il corpo del testo), quindi metrica, scansione rimica, restrizioni, o è soprattutto labirinto, quindi ispirazione, suggestione, smarrimento, incantamento?

Andrea: Per me la poesia è un accadimento: mi succede, mi capita. C’è alla base un processo di scrittura generale: a volte prende la forma di una storia, di un romanzo, di un racconto; altre volte mi piace provare a costruire dei versi, a comporre qualcosa in quella strana libertà che è la scrittura poetica. Ma sostanzialmente è tutto un grande discorso, tutto uno scrivere, che si conforma in base al momento o in base all’idea che sto provando a sviluppare. Sicuramente la poesia non è uno sfogo, non è una scrittura di getto – anzi, è la scrittura a cui dedico più tempo, più rigore, più riscrittura e più revisione. Perché ho degli obiettivi e delle intenzioni, quando mi capita tra le mani la scelta poetica: dare concretezza e corporeità ai concetti – non (solo) descrivere qualcosa, esporre un pensiero, ma farlo emergere con una sorta di natura tattile. Un fatto visionario, naturalmente, ma un buon motore, per me, nella ricerca di scrittura. E poi l’intenzione principale, sin da quando ho cominciato a scrivere (non solo poesia) è quella di evocare – non solo qualcosa, ma qualcuno: la poesia per me è un esercizio di negromanzia, un tentativo (quasi sempre disperato) di riesumare, attraverso la parola (nella sua vocazione più magica possibile), qualcosa o qualcuno che non c’è più, smarrito dietro. E dato che, nella vita, brucio tutti i ponti alle mie spalle, c’è parecchio materiale che può essere soggetto a un atto negromantico.

C: Ecco, parli di poesia come negromanzia, che era, sì, l’evocazione dei defunti ma aveva anche uno scopo divinatorio. Da questo slittamento origina la mia seconda domanda: la poesia tra il monito delfico “conosci te stesso” e il tentativo di comprendere il mondo, la metafisica, tra la narrazione mitica di ciò che accade, epos, e la comprensione ultima del senso, telos. Come diceva William Blake tradotto da Ungaretti (ecco che ritorna): Vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvatico,/tenere l’infinito nel cavo della mano e l’eternità in un’ora: la discesa nell’animo del poeta consente al poeta di vedere anche l’altro da sé? La poesia che fa introspezione, fa anche metafisica?

A: Credo che tutta la metafisica sia un modo di fare introspezione – e viceversa. Se scavo troppo e troppo avidamente, in fondo, dentro di me, e scopro un demone antico che mi abita da sempre… è difficile non chiedersi come sia potuto accadere, anche in termini non mondani.

C: Ricollegandoci alla prima domanda sul significato della poesia e del poetico, tu, Andrea, sei riconosciuto anche come narratore in prosa (Io sono la bestia, 2019 e Lei che non tocca mai terra, 2021 sempre NN Editore) e qui infatti alterni una narrazione in versi a una narrazione in prosa. Puoi dirci del senso e dei pesi che hai voluto dare alle due forme in questa tua raccolta?

A: Come accennavo poco sopra, per quanto mi riguarda, da anni, sto semplicemente scrivendo un unico discorso, il quale assume diverse forme. Si sta sviluppando un unico mondo di scrittura, con personaggi, idee, luoghi, temi, forme, stili, che ricorrono e si rincorrono. Questo libro di poesie è una sorta di spin-off del racconto “La notte delle ricostruzioni” (Tetra, 2022), ma contiene anche pezzi dal romanzo “Io sono la bestia”, senza tralasciare che il protagonista è l’Andrea di “Lei che non tocca mai terra”, e inoltre ci sono prose da “Una Madonna che mai appare” (la silloge che fu pubblicata nel XIV Quaderno di poesia contemporanea edito da Marcos Y Marcos nel 2019).

C: Sempre a proposito della struttura della raccolta, scegli di usare una seconda persona singolare nei versi, un tu, e una seconda persona plurale, un voi, nella prosa. Ci puoi parlare di questa tua scelta in termini formali e in termini simbolici? In che relazione stanno tra loro?

A: Nella mia ottica rappresentano l’incapacità del protagonista di dire io – di dirsi, di definirsi, smarrendosi in una ricerca plurale, sia esso uno specchio fantasmatico o una collettività dove mischiarsi. Ho imparato questa tensione tra smarrimento di sé ed esposizione lirica in uno dei miei romanzi preferiti: “Un uomo che dorme” di Perec – al quale queste poesie devono molto.

C: Collegandoci al tu noi ancestrale che narri – ancestrale perché racconta di una terra ancestrale, il Salento, e perché origina dal tuo passato, l’adolescenza – in che senso questa raccolta è anche una narrazione di formazione? Da quali domande interiori parte, quali segreti racchiude? E quali sono i sentieri di crescita che traccia – lineari, ricorsivi? E, infine, a quali desideri, sogni aspira, ritorna?

A: La ricerca di una “golden age” della nostra vita – un’epoca in cui tutto era bello e niente andava storto – credo sia drammaticamente fisiologica in ogni essere umano: circoscriviamo un momento, lo mistifichiamo, e a quel frangente connettiamo un falso passato splendente da far corrispondere a un presente che non ci soddisfa. Questo succede a me con l’adolescenza, e questo processo torbido e poco sano è una delle colonne portanti del palazzo di carta che sto provando ad allestire con i romanzi, i racconti e queste poesie. Inoltre, attraverso un percorso di analisi, ho finalmente constatato con nitidezza un elemento: ancora oggi scrivo per gli stessi identici motivi per cui scrivevo quando avevo quattordici anni. Non è una cosa buona, ma la letteratura, per me, è anche capitalizzare le cose poco buone che ci riguardano.

C: Grazie, Andrea, per averci raccontato un po’ del poetico che ti abita e ti dico arrivederci con una tua suggestione.

Es
Ricordi d’essere stato certo, un tempo:
d’essere davvero solo corpo-schizo:
             tutto macchina, tutto desiderio:
                     tutte cose che non saprai mai più:
sai solo che non era e non è vero –
sai che non sai quali sono le cose
vere:
hai letto che nel cervello non sono presenti i ricettori
del dolore; ti hanno detto che le cellule del cervello
crescono con il passare del tempo; pare che il cervel-
lo abbia una memoria tra i tre e i mille terabyte; è
certo che l’80% del cervello sia costituito da acqua:
eccetera: ed ecco:
e quindi: sai solo che sei una macchina:
ma rotta, stanca, ferma:
tanto inferma da non essere più
(e tu non sei più tu:
se mai ci fosse stato un qualche tu).

Disfacimenti

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di Manuel Maria Perrone

 

illustrazione di Ettore Tripodi

Abbiamo parlato troppo.

Abbiamo detto tutto.

Però:

a me piaceva quel profumo,

le notti d’estate,

quando si stava zitti.

Quante immagini ci stanno in un occhio ?

E quante parole in una bocca ?

E poi ?

Poi si diventa ciechi ? O poi si tace ?

Si muore quando si sono viste troppe cose ?

O quando lo si è detto tutto ?

Prima almeno c’era la televisione.

Adesso siamo noi la televisione.

Siamo l’intrattenimento per un pubblico che si intrattiene da solo.

Che si dice troppo,

che lo fa vedere tutto.

Ti ricordi la televisione ?

Almeno la si poteva spegnere:

poi abbiamo perso il telecomando.

Abbiamo perso il controllo,

siamo rimasti accesi.

Per ore e per anni.

Parlando ininterrotti,

guardandoci esterrefatti

(aprile 23)

La vita è infinita finché non scopri che finisce

Sono caduto dall’altro

E ho capito me stesso

(marzo 23)

Sono triste che entriamo in guerra:

mi ero appena abituato all’apocalissi 20/21.

Posso almeno tenere la mascherina ?

La mascherina mentre guardo cadere le bombe .

O posso ammalarmi per non mettere l’uniforme ?

Perché nella vita le istruzioni per l’uso sono sempre sbagliate o scadute?

Come se ogni volta

usassimo l’aspirapolvere

con le istruzioni del tostapane.

Che poi i tostapani sono sempre uguali.

E anche gli aspirapolveri.

Che tanto si rompono.

Gira e rigira serve sempre una scusa alla miseria.

E gira che gira di scuse ce ne sono cinque.

La rabbia.

La fame.

La paura.

Il rancore

e la vergogna.

Che sono poi tutti sinonimi dell’ ignoranza.

Vorrei vaccinarmi contro la miseria.

Non la mia ma quella del mio pianeta.

Perché mi spiace che quando facciamo fatica ripetiamo sempre gli stessi errori:

continuiamo a infilare il pane nel posto sbagliato

e a mangiare polvere.

(Marzo 2022)

Gli spagnoli sanno

che il protagonista è Sancho.

Che la storia non la fa chi va avanti,

ma quelli che seguono borbottando.

Che si – certo- c’è quell’Hidalgo allampanato che combatte il vento

ma quella figura eterea è un lontano miraggio

mentre noi siamo qui a lottare contro la materia di cui è fatto il mondo.

Che per ogni eroe ci sono milioni di penelopi

che aspettano il loro momento.

Milioni di Sanchi

che riparano mulini a vento.

Che la vita non è occhio per occhio, ma chiodo piu chiodo piu chiodo

uguale casa.

E se non casa almeno qualcosa.

Lo sanno i faraoni che senza schiavi gli imperi sono miraggi.

Ci guardavamo poco, nel bus e nella metro.

Poi è venuto il telefono ad abbassare gli sguardi,

e poi le maschere, a fare mummia i volti .

Il mondo ha perso i confini e nessuno guarda più all’orizzonte,

la speranza è materia da illusi e la rabbia concime per tonti.

Sono scomparse le stelle e restano solo alcuni grumi,

che continuano a splendere, postumi, lontani nel tempo.

Si sa che non c’è amore ma solo prendersi in prestito a cambio di un sorriso;

e un regalo.

E i soldi, si sa, non sono mai stati una questione di sopravvivenza.

Ma i sogni, i sogni erano l’anima del mondo,

il suo respiro sottile – e adesso:

seppellite le speranze, resta solo un corpo stanco che chiede di dormire.

Viviamo un mondo che dorme in piedi correndo: un mondo che dorme il proprio ritardo.

Ma perché dobbiamo alzarci la mattina?

Se non c’è spazio per porsi domande,

se lottare è il sintomo di una psicosi latente,

perché dovremmo alzarci, ancora e per sempre?

Essere giovani ha un unico e sporco difetto: invecchiare il più in fretta possibile,

facendo finta di niente.

Ricominciamo dalle rose

2


 
di Nadia Agustoni
[Inedito 2022]
 
mastica duro il cane della ricchezza
le ossa bianche del paese
le nostre ossa
spolpate

vuole frasi soffici il pancino molle
una lingua adeguata
all’industria
agli obitori.

ammutoliamo nei macelli
ma splende
la sordità
di chi accumula

i loro fucili puntati dai giornali
la realtà creata
per acclamazione
e a ogni lauto pasto

le patrie servite
col cicchetto dei potenti:
ma chiamateli porci
i porci.

non ci affligga la claquè
col demerito
paghiamo noi il conto
tenetelo a mente

pulite il culo
ai ricchi
ai partiti
a chi volete voi

qui ricominciamo dalle rose
portiamo fiori per ognuno
scriviamo poesie
laviamo ogni pensiero laviamo la morte

le vostre menzogne.
 
Picnic sull’erba [2007]

Palermo (la città interna)

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di Noemi De Lisi

 

La città-stomaco ti ha inghiottita
smembrata, disciolta dall’acido gastrico
(eppure esisti ancora).

Hai fatto un patto con la città-stomaco.
Ti sei lasciata mangiare, distruggere,
in cambio volevi scomparire solo per me
e diventare una moltitudine.
Frantumata in proteine, grassi e zuccheri,
ora sparsa nel sangue sei il sangue
nutri la città in forma microscopica
(è la mia città interna).

La città-stomaco ti ha scomposta
ti ha divisa, ma solo per riprodurti.
Ora ci sono molte parti di te che vivono
dentro l’organo muscolare della città.
Sei all’interno, ti spandi come un’infezione
(gorgoglio, gorgoglio, parlami).

Ce l’hai fatta, hai attraversato una digestione,
e hai dovuto sacrificare il nucleo più vero di te.
Cosa ricordi prima del massacro?
La città prima della masticazione, noi.
I vicoli di crepe e di buche
li imitavamo per non cadere.
Ci adattavamo così alla città, fingendoci la città
(ti allenavi già al processo di sparizione).

Sei ovunque fatta a pezzi e sei sparita.
Solo a tratti la comparsa della tua moltitudine:
ogni schiena nei vicoli di crepe
il calcestruzzo bruciato sui denti
l’acciaio contro le bocche
i colpi, i colpi
e le ombre in tremori addensate ancora
attorno alle pozzanghere elettriche sull’asfalto
i riflessi, i riflessi
(quello che di te è sopravvissuto).

 

*

 

Fratture, macerie
sono queste le tue nuove parole,
l’alfabeto genetico della città.
Per parlare non devi aprir bocca.
È così, non la apri.
La città è il tuo messaggio – dentro le budella.
La pelle sepolta, i teschi, i mattoni, le finestre aperte.
Cerco la tua voce nelle cose distrutte.
Le crepe ovunque, le vene di questo cemento,
c’è una casa che crolla, sei tu che mi chiami?

 

*

 

 

ESERCIZI #3 PALERMO (LA CITTÀ INTERNA)

La Legge della scienza personale è semplice da seguire. L’alchimia non è una scienza, si azzarda qualcuno fuori da noi; e allora vattene, gli rispondiamo, schifoso, vattene! Abbiamo bisogno di fede in questo momento, tutta la fede del mondo. Rimasti soli, allora, igienizzati da cattivi presagi e sfortune, possiamo prepararci a compiere il nostro atto di fede nella scienza personale. Secondo la Legge N°8884, ora è possibile resuscitare le persone. Dobbiamo solo decidere se resuscitare un morto o un vivo. È tutta una questione di fisica e materia umana. La Legge ordina di cercare un luogo al chiuso specifico per la trasmutazione dei piani reali. È necessario trovare la città interna. Si tratta di un buco dentro le budella, uno spazio rinchiuso dentro al chiuso, una stanza minuscola e profondissima scavata dentro al dentro. Attenzione a trovare quella vera. Questo è un luogo specifico, che non scava in gravità libera verso il basso, ma attraverso un piano orizzontale: più scava e più tocca tutte le superfici. La città interna è rinchiusa dentro ogni cosa contemporaneamente. Solo gli schifosi senza fede non potrebbero mai trovarla. Adesso che siamo rinchiusi qui, non voglio chiedervelo ad alta voce cosa scegliete, tanto abbiamo gli stessi desideri. Non voglio proprio dire niente a prescindere qui, shhh zitto e pure tu stai zitta. Parliamoci con la mente, tanto lo sapete fare, non mentite. Scegliamo di resuscitare un vivo, certo. Secondo la Legge N°8884 della scienza personale, è possibile resuscitare un vivo donandogli l’iper-esistenza: una vita nella vita, un’addizione dei piani reali, una presenza strabordante. Basta la trasmutazione elettromagnetica di un ricordo sul piano reale della materia presente, affinché la persona-oggetto di un ricordo la smetta di vivere svanita nella città esterna, ma si rigeneri in una nuova iper-esistenza nella città interna. Per avviare il processo è necessario un sacrificio. Siamo pronti a tutto per resuscitare quel vivo. Scateniamo la pelle, il prurito, schiocchiamo le ossa, sfregano, si consumano, diventano polvere, e la nostra polvere viva, frenetica, la mischiamo con i nostri liquidi più veri, le lacrime, il mestruo, le lacrime, il muco batterico, l’acido gastrico. Le nostre ossa si contagiano fra di loro e la polvere diventa fango. Abbiamo dovuto sacrificare i nostri scheletri, certo. Occorrono molte macerie umane, materia dura e forte. Occorre sacrificare la durezza, e renderla tenera, melmosa, una palla di fango, un nucleo, che ci riassume. Nella fase successiva del processo, la Legge ordina una radiazione elettromagnetica spontanea per generare una vita nella vita, per questo è necessario ricordare. L’elettricità neurale della memoria eccita il nucleo del sacrificio innescando a sua volta il ribaltamento dei piani reali. Bisogna resuscitare quel vivo qui accanto a noi, dentro ogni cosa contemporaneamente, qui, nella città interna, quella dove possiamo comandare tutto e cambiare le sorti.

  • Cos’è questo rumore? Siete voi che battete i denti oppure… oppure viene da fuori, dalla città esterna? È un tremore liquido, forse è la pioggia. Non vi distraete, siamo così vicini. Ricordate, ricordate ancora.
  • La memoria è strabordante, l’elettricità è tanta, così tanta che la città esterna, fuori dal nostro buco, ci trova. Ci sta crollando addosso.
  • Il nucleo si è aperto in mille pezzi, si è spento. Non funziona più niente. Dove siete? Non vedo senza luce. È stato un massacro.
  • Me lo sentivo, non volevo dirvelo per non farlo accadere, ma sapevo che sarebbe andata a finire così. È la punizione per aver cercato di cambiare i piani reali della materia umana. Una Legge pericolosa… eppure eravamo così vicini a riabbracciare quel vivo.
  • La città ingoia i morti e i vivi, li incatena allo stesso piano, non restituisce niente. È stato fatto tutto il possibile e abbiamo sbagliato. Siete pronti a dimenticare anche i vivi adesso?

*

[L’immagine in evidenza è un dipinto di Rafel Bestard]