di Giuseppe A. Samonà
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Ho vissuto in Italia i primi vent’anni della mia vita, e altrove i successivi quaranta: ma in Italia sono tornato regolarmente, almeno una volta l’anno, soprattutto per via di alcuni affetti preziosi che ancora ci vivono, registrandone attraverso il tempo mutamenti più o meno significativi. È questa distanza partecipe che ha orientato le mie impressioni sul voto del 25 settembre, sulla campagna elettorale che lo ha preceduto e sulle reazioni, o i silenzi, che ha provocato nelle settimane che lo hanno seguito, in particolare imponendomi all’attenzione questioni che nella discussione italiana sono meno o per nulla considerate, o comunque facilmente risolte con formule che a me, da questo mio punto di vista lontano-vicino, appaiono spesso come luoghi comuni. Vorrei condividere queste impressioni, questi abbozzi di riflessione, forse più antropologiche – o persino in parte sentimentali – che politiche, con gli amici italofili o italiani che come me non abitano in Italia, e con quelli che continuano ad abitarci.
- Il fascismo
In Italia c’è da tempo un gran ripetere che non esiste più un pericolo fascista. Anno dopo anno sempre più forte e aggressiva nella società come nel parlamento, lo ha frequentemente ripetuto la destra radicale, dapprima suadente poi via via più sprezzante, fiera: Non siamo fascisti, volentieri precisando che non possono esserlo perché il fascismo non esiste più, non ha più senso (e dunque, va da sé, non ne ha più neanche l’antifascismo…). Ma, sia pur in una diversa prospettiva, lo han ripetuto non pochi dei loro avversari a sinistra, o per dir meglio, nel campo che si richiama al progressismo: Non sono fascisti, il fascismo non può tornare, appartiene alla storia, spesso precisando che la destra va combattuta, certo, ma il voto deve essere rispettato, la democrazia è solida, etc. Per i primi, si è trattato innanzitutto di un modo di farsi accettare, di rassicurare – più l’Europa che l’Italia, dove la parola fascismo oramai non crea più il rigetto di una volta – nella loro marcia trionfale verso il potere, e del resto il ritornello sta nel contempo mutando di colore e perdendo in intensità ora che al potere ci sono arrivati; per i secondi, viceversa, si è trattato di un modo di rassicurare se stessi, di addomesticare la possibile sconfitta, con il ritornello che si è intensificato nel mentre quella sconfitta assumeva i contorni dell’apocalisse, quasi che il negare il pericolo ne dissolvesse la realtà: un po’ come quando si evita di pronunciare il nome di una grave malattia, perché il semplice nominarla la renderebbe irreversibile, costringendoci a cambiar vita per combatterla.
Ora il pericolo, anzi, il fascismo, in Italia esiste, non è mai morto, e non è mai stato tanto florido come oggi – anche se certo non si tratta del fascismo storico, quello del manganello e dell’olio di ricino, perché la storia non si replica: e su questo ha buon gioco Giorgia Meloni a ridicolizzare l’accusa che le è, sempre di meno per altro, rivolta. Ma di cosa si tratta, allora?
Innanzitutto, a un livello più profondo, sotterraneo, va considerato quello che Carlo Levi ha definito “l’eterno fascismo italiano” [L’eterno fascismo italiano (altritaliani.net)], e su cui hanno aggiunto del proprio tanti altri scrittori e artisti (Sciascia, Consolo, Camilleri, Fellini, etc. per non citare che quelli che ho avuto modo di riavvicinare negli ultimi tempi): il lungo Ventennio mussoliniano ne è stato solo uno straordinario momento di compiuta apoteosi; i molti anni di Berlusconi (di nuovo, più o meno un ventennio…) e quelli più recenti e meno numerosi di Salvini lo hanno prepotentemente riportato alla luce, con le sue pulsioni, i suoi tic, i suoi luoghi comuni… Il termine “eterno” tuttavia non deve trarre in inganno: non rimanda a una presunta italianità innata, quanto a un terreno, a una predisposizione culturale composita che si è formata in un largo movimento della storia e i cui tratti hanno finito con l’infiltrare – come se fosse appunto da sempre – la società italiana.
Del resto è Manzoni, con I promessi sposi, a offrirne una delle più acute e inalterabilmente attuali descrizioni, come se questo romanzo del XIX secolo (la versione finale è del 1840) che retrocede l’azione nella pre-Italia del XVII avesse acquisito, attraverso l’immortalante caratterizzazione dei personaggi che mette in scena, la capacità di navigare attraverso il tempo, anticipando il futuro: che si pensi fra i più significativi al mediocre tiranno Don Rodrigo e alla corte dei mediocri e cinici asserviti che gli gira intorno, dal frivolo conversatore cugino Attilio al cialtronesco avvocato Azzecca-garbugli, con l’incomprensibile intrico di grida leggi e pene che lo aiuta e aiuta in generale l’oppressore contro l’oppresso, affermando tutto e il contrario di tutto; o ancora al vanesio e ridicolo politicante Conte zio, gonfio del proprio vano prestigio, o al Griso, al Nibbio, allo Sfregiato e agli altri bravi, gli scherani del potente don Rodrigo o dell’ancor più potente Innominato; e soprattutto a Don Abbondio, il prete codardo e arrangione, disposto a sottomettersi a qualunque potente in cambio della sua piccola ed egoista tranquillità domestica (il cattolico – convertito – Manzoni è stato vicino al pensiero illuminista e al protestantesimo versione giansenista e non esita ad denunciare il vizio insito nella struttura ecclesiastica), non a caso è Alberto Sordi, vera e propria incarnazione della viltà furba e meschina della piccola Italia, a rappresentarlo nel celebre sceneggiato televisivo della fine anni Ottanta. (Ovviamente nei Promessi Sposi, come anche in Italia, oltre ai vizi ci sono le virtù: ma, nonostante il lieto fine, Manzoni è decisamente più abile nell’eternizzare i primi che le seconde: forse perché i primi esistono veramente, le seconde sono soprattutto delle aspirazioni.).
Anzi, pochi anni prima dei Promessi Sposi – o se se si preferisce parallelamente alle prime versioni del romanzo – alcuni di questi vizi insieme ad altri li aveva già descritti Leopardi, con identica capacità di navigazione attraverso le epoche, anche se su un piano più filosofico, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani (1824 – e si noti che sia Manzoni che Leopardi pensano e scrivono prima della nascita istituzionale dell’Italia…). Ora, appunto, non sono più i personaggi emblematici a parlare, ma lo scheletro stesso della nazione, in modo ancora più crudo, attraverso alcune sconvolgenti generalità: in primis, quella da cui derivano tutte le altre, la mancanza di società stretta, la società cioè considerata nel senso del rapporto più intimo che gli individui hanno fra di loro, nella quale ognuno tiene conto di tutti gli altri – e dietro appunto, di conseguenza, la generale assenza di centro, la poca cura che si ha verso il proprio onore, l’indifferenza all’opinione pubblica, il cinismo sociale, la forte predisposizione a ridere di tutto e di tutti che va insieme all’incapacità politica etc. Con una radicalità assoluta: le possibili virtù stanno infatti sullo sfondo, sono ombre che accompagnano i vizi, in un certo senso li definiscono, non hanno esistenza propria, non interessano comunque Leopardi; e in realtà non si dovrebbe neanche parlare di vizi e virtù, ma semplicemente di incurabili peculiarità, analizzate con l’impassibile occhio clinico del chirurgo, o dell’entomologo. Qui insomma non è previsto nessun lieto fine.
Andrebbero entrambi riletti, il romanzo di Manzoni e il discorso di Leopardi, insieme agli scritti storico-politici di Piero Gobetti, che interpretò il fascismo – per riassumerlo con la sua celebre formula – come l’autobiografia della nazione. Se dovessi molto liberamente, anche attraverso la griglia storica che mi viene dai miei studi, intrecciarli insieme tutti e tre (anzi tutti e quattro, con Carlo Levi), direi: l’Italia, arroccandosi sulla Controriforma, o meglio, non essendo neanche sfiorata dalla Riforma – una Controriforma senza Riforma insomma! – è rimasta più o meno impermeabile alla modernità, immatura, strutturalmente dominata dall’ideologia piccolo-borghese, caratterizzandosi con una mancanza di autonomia, di vita libera, o più semplicemente di società autentica, nel senso del vivere insieme, anche per via di una disposizione (nel senso collettivo della polis, del vivere insieme) alla servitù volontaria e al cinismo, all’indifferenza per il bene comune – il che significa anche la preminenza del senso comico rispetto a quello civico – al quale sempre si preferiscono le diverse forme di famiglia… In questa direzione, il fascismo è una malattia soggiacente, cronica, una vocazione culturale prima ancora che politica, che come l’araba fenice sempre può rinascere dalle sue ceneri. E l’antifascismo la cura, l’antidoto – anch’esso per fortuna appartenente alla storia italiana! – l’unica possibilità di riscatto…
Va quindi considerato un secondo elemento, più drammaticamente concreto e squisitamente storico, nel senso della storia più vicina, breve. La Resistenza, che ha appunto permesso di riscattare la vergogna del Ventennio, ha di fatto, soprattutto ai suoi inizi, mobilitato un’esigua minoranza di italiani in una piccola parte del paese, facendosi più consistente solo dopo l’evidenza della disfatta. In questo senso, guardando indietro nel tempo attraverso quasi ottant’anni di vita nazionale (che in tutto, lo si ricordi, ne conta poco più di centocinquanta), non si può non constatare che questa gloriosa pagina della storia italiana è stata anche la foglia di fico che in qualche modo ha permesso di non vedere, di evitare un reale lavoro di memoria: l’Italia, vuoi per adesione vuoi per indifferenza, era stata globalmente fascista, e il fascismo, i suoi uomini, non si sono evaporati per magia dopo il 1945, ma – anche grazie a consistenti provvedimenti di amnistia – sono materialmente passati dentro gli apparati pubblici, la burocrazia, i luoghi di lavoro della nascente Repubblica italiana – ed è stata un’infiltrazione capillare, profonda. E poi c’è stato il Movimento Sociale Italiano (MSI), fondato da reduci della Repubblica Sociale Italiana e del Regime, Giorgio Almirante in testa, un partito consapevolmente, volutamente fascista, anti-democratico, anche se via via con qualche aggiustamento più di facciata che di sostanza, che costituzionalmente sarebbe dovuto essere fuorilegge – ricordate? articolo 12 delle disposizioni transitorie e finali: È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista – e invece è stato sin dall’inizio presente nel Parlamento, nonché dentro la società, più o meno oscuramente legato alle diverse trame nere che hanno avvelenato la vita del paese. Berlusconi ha avuto per così dire il merito di ridare legittimità, forza, blasone a questa destra radicale e a idee, gesti, simboli, che nella Prima Repubblica erano ufficialmente fuori dal cosiddetto arco costituzionale, e di annacquare il termine “fascista”, al suo posto trasformando “comunista” in insulto (i comunisti, lo ricordiamo, ebbero un ruolo fondamentale nella Resistenza, e poi nella scrittura della Costituzione). Quella che un tempo si chiamava maggioranza silenziosa è tornata, e rumorosamente, a parlare, è diventata la spina dorsale del paese. Ed ecco, come a compiere la parabola iniziata nel 1994 con la prima vittoria del Cavaliere, che oggi a vincere le elezioni c’è un partito che se, va ripetuto, non si richiama al Ventennio, si vuole esplicitamente diretto erede, financo in alcuni suoi elementi chiave, del MSI, a cominciare dall’assunzione come suo simbolo rappresentativo dell’infausta fiamma tricolore. Con un sintomatico rovesciamento: se un tempo il partito di Berlusconi ha guidato, come elemento principale, coalizioni di centrodestra in cui rappresentava la destra, oggi fa parte di una coalizione di cui rappresenta, come partitino comprimario, il centro moderato – di conseguenza sarebbe forse più chiaro parlare di coalizione di “estrema destra-destra”. E c’è anche, come emblematica ciliegina sulla torta, il ritorno in senato di Berlusconi in persona, nove anni dopo la sua decadenza per via della legge anti-corruzione detta Severino (che ora la destra a lui più vicina vorrebbe non a caso cambiare nella sostanza).
Insomma, il fascismo del 1922 non è tornato né sta per tornare, ma se questa destra governerà per qualche anno – e non vedo nell’immediato cosa potrebbe impedirglielo – la Repubblica nata dalla Resistenza, l’antifascismo con i suoi simboli, a partire da diversi nomi delle strade, delle piazze, dei ministeri, etc., i libri di testo nelle scuole, la Costituzione, e dietro tutte le battaglie per i diritti civili e sociali, saranno (già lo sono) oggetto di un attacco costante, e senza precedenti: anche se probabilmente tale attacco, considerando la notevole intelligenza politica e retorica di chi questa destra la dirige, non si farà in modo lineare e frontale, ma come dire, dal di dentro, localmente (i segni già si moltiplicano…) sotto la spinta di una subdola e questa sì senza mezzi termini riscrittura della Storia: cambiare il passato per regnare sul presente – il discorso di insediamente del(la) neo-nominat(a) Presidente del Consiglio è in questa prospettiva esemplare. L’Italia in altri termini non si avvia – probabilmente – a essere fascista, ma si avvia decisamente a non essere più antifascista, risvegliando valori, parole, gesti, simboli evidentemente soltanto sopiti, in totale antitesi con quelli che nei cinquant’anni successivi alla guerra hanno fatto, socialmente, civilmente, culturalmente, la forza di un paese avido di futuro, e sino a qualche anno fa ancora avvolti dalla vergogna. Il mutamento è epocale, antropologico, ben più che politico – si provi a immaginare, secondo scenari ovviamente molto diversi, se la Francia si svincolasse dalla Rivoluzione del 1789, o la Germania dalla pregiudiziale anti-nazista, o ancora gli Stati Uniti dichiarassero che la lotta al razzismo non ha più senso… – e come tale non è certo istantaneo, matura da tempo. Di fatto, quelle parole, quei gesti, simboli e valori circolano già da diversi anni, diventando più forti, più banali a ogni giro di calendario, e rivelandosi anche nei più piccoli dettagli: le esternazioni di un barista romano o palermitano, i malumori della gente al mercato, o in qualche luogo di lavoro, con ricche variazioni di esterofobia, gli scambi, le chiacchiere ad alta voce di sempre più numerosi turisti nel metro parigino, o in fila per prendere l’aereo che li riporti a casa o per salire al Partenone di Atene (cito a caso ricordando episodi di cui sono stato testimone e che negli anni si sono fatti sempre più frequenti). È come se l’immagine dell’italiano medio stesse cambiando colore – la leggendaria bonomia lascia gradualmente il posto a un livoroso incattivimento… – e il paese si isolasse sempre di più, si avvitasse su se stesso: nel senso di quell’autobiografia della nazione di cui dicevo prima. Tuttavia un paese non è mai un paese solo, ma molti: così, mentre la nuova-antica Italia si andava via via risvegliando, l’altra Italia, quella diciamo della Repubblica nata dalla Resistenza, o almeno dei suoi settori più a sinistra, ha via via perso la sua capacità collettiva di resistere, di manifestare il dissenso, di progettare il futuro, sino a cadere in una sorta di rassegnata letargia, se non direttamente a scomparire. Ecco, in questa prospettiva le ultime elezioni sono semplicemente il sigillo, la sentenza che rende ufficiale una situazione già esistente, come anche un’ulteriore, significativa scossa, un poderoso squillo di tromba, le cui conseguenze non sono ancora misurabili.
Questa nuova destra al passo coi tempi (formuletta…) ormai dichiara apertamente di voler cambiare in profondità l’Italia, anzi, la Nazione; molti suoi avversari sdrammatizzano dicendo – è una formula anche questa – non cambierà nulla, come sempre! E da un certo punto di vista è vero perché, come scriveva Giuseppe Pontiggia, l’Italia è il paese delle Sabbie immobili – anche nel senso di quel che scriveva nel Gattopardo Lampedusa: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi… Si tratta tuttavia, per così dire, di un’immobilità dinamica e pericolosa, perché riafferma un’antica e radicata prospettiva della storia nazionale. Eh già…: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… (O anche appunto, per qualificare questo risveglio con un’epentesi: … s’è destra…)
[Continua…]







































Mohamed Mbougar Sarr, La più recondita memoria degli uomini, Edizioni e/o, 2022

Appunti sulle fotografie di Salvatore Cuccurullo


















