Home Blog Pagina 83

Note sullo ius soli

1

Alighiero Boetti, Mappa

di Giorgio Mascitelli

Sulle ali del successo alle Olimpiadi il presidente del CONI Malagò ha aperto la questione del cosiddetto ius soli sportivo ossia una rapida concessione della cittadinanza italiana per i figli di immigrati che abbiano risultati agonistici di interesse nazionale e hanno approfittato di queste dichiarazioni anche esponenti del PD e di associazioni antirazziste per rilanciare il tema più generale e importante dello ius soli per tutti. Ovviamente, per quanto sembrerebbe logico il contrario, i due argomenti non sono così strettamente legati perché una scappatoia legale per consentire a qualche decina di atleti di rinforzare le nostre nazionali è un provvedimento accettabile anche per leghisti e fratelli italici, mentre non lo sarà mai l’affermazione di un diritto generalizzato. Per quanto triste, non c’è nulla di sorprendente in ciò perché viviamo in un mondo in cui soldi e successo aprono tutte le porte e le storie dei figli di badante che vincono la medaglia d’oro, per quanto belle, sono raccontate anche per farci dimenticare di quegli ingrati che invece hanno vinto un bel posto in qualche magazzino o centro di stoccaggio e pretendono perfino di poter scioperare per avere condizioni di lavoro decenti.
In realtà la questione dello ius soli è una questione cruciale per l’Italia nel contesto storico in cui viviamo, anche se andrebbe integrato con lo ius culturae, ossia con l’assegnazione della cittadinanza a chi ha frequentato un ciclo scolastico in Italia non solo perché è assurdo escludere dal diritto alla cittadinanza gente che magari è arrivata in Italia all’età di 2 o 3 anni e ha frequentato l’intero percorso scolastico nel nostro paese, ma anche perché è solo nella cultura e nella lingua la possibilità di essere italiani. L’identità italiana in senso moderno e politico infatti nasce nell’Ottocento, in particolare dopo l’esperienza napoleonica, ed è più vicina all’idea francese di nazionalità come adesione culturale a una determinata civiltà rispetto a quella tedesca del Blut und Boden ossia all’idea etnica della nazionalità come dato ereditario e immutabile. Questa idea è alla base del Risorgimento italiano non solo per l’influenza della cultura francese ma per la peculiare storia italiana di piccole patrie e riceve la sua conferma ufficiale quando le spoglie di Foscolo vengono traslate nel 1871 nella chiesa di Santa Croce a Firenze con una cerimonia che sa di canonizzazione civile non solo del poeta, ma anche della sua idea contenuta ne I sepolcri che la chiesa fiorentina sia il cuore stesso dell’identità italiana perché ospita i resti di Michelangelo, Galileo e Machiavelli e simbolicamente anche quelli di Dante. Abbiamo qui affermata in una forma radicale l’idea che essere italiani è un’identità di tipo culturale, sganciata tra l’altro da motivi religiosi perché l’idea di Italia come entità politica contrasta con la visione cattolica universalistica del paese sede del papato, di cui norme come lo ius soli e lo ius culturae possono essere considerate le conseguenze logiche in un nuovo contesto storico.
Nella storia italiana successiva vi sono stati anche tentativi di promuovere una concezione etnicistica specie durante il fascismo e in particolare, non a caso,  nel periodo della conquista coloniale dell’Etiopia,  dove l’idea di una continuità etnica e razziale tra Impero Romano e Italia moderna viene ripresa dal regime in più modi, ma questa concezione resta fondamentalmente estranea alla cultura effettiva del paese e viene respinta implicitamente anche dalla Costituzione tramite l’articolo 6 ( relativo alla tutela delle minoranze linguistiche). Dunque lo ius soli appare innestato sulla parte migliore della storia dell’idea d’Italia e sottolineo questo perché la questione dell’attribuzione della cittadinanza a questi italiani non è solo il riconoscimento di un diritto di tante persone, ma è anche l’occasione per una riflessione sull’identità italiana nel XXI secolo.
In Italia si è affermata una vulgata basata su analisi giornalistiche un po’ frettolose, sul successo delle compagnie low cost e su alcune pubblicità di maglioni che vede  nella globalizzazione e nel processo di unificazione europeo la dissoluzione dello stato nazionale e lo stemperarsi delle singole identità. Purtroppo il processo di unificazione europea, per tacere di tutti gli altri problemi, prevede non il superamento solidale e federale degli stati nazionali, ma la loro inclusione in un’area economica che promuove una forte competizione economica tra gli stessi stati e non prevede affatto forme di solidarietà e aiuto, ma il sottostare ad alcune regole comuni in un clima di sfiducia reciproca. In questo contesto la visione europeista idealizzata, di cui si potrebbe citare un esempio nella battuta di Cottarelli un paio di anni fa sul fatto che Leonardo non fosse né italiano né francese ma europeo, impedisce non solo di prendere atto della situazione reale, ma anche di riflettere sull’importanza futura per l’Italia di questo provvedimento. Insomma, per dirla in maniera grezza ma chiara, ci aspettano decenni in cui se ci sarà qualche decisione economica, che so un contratto di fornitura di vaccini o il controllo su eventuali aiuti di stato a un settore, saremo considerati europei a tutti gli effetti, se invece scoppierà qualche grana nel Mediterraneo, resteremo semplicemente italiani.
Purtroppo infatti la fine della guerra fredda e il crollo del muro di Berlino non ha portato, come si credeva all’interno di un certo tipico di retorica, alla fine dei confini ma alla loro modificazione  e al loro spostamento, come ha notato Adriano Prosperi in un libro importante Un tempo senza storia. In particolare il Mediterraneo e dunque l’Italia si trova proprio sul confine di una certa faglia non solo tettonica, ma anche politica nel quale conflitti storici come quello israelopalestinese si assommano a nuove tensioni, a nuovi interventismi di potenze che vivono il loro momento di revanscismo e a problemi epocali, dalle migrazioni all’avanzata della desertificazione. In questo contesto incendiario l’Italia è un paese dal peso economico, demografico e quindi politico declinante che ha tra le poche risorse dalla sua un certo soft power. Con questo termine non alludo solo all’apprezzamento per lo stile di vita e la cultura italiane, ma anche i residui del prestigio politico ( gravemente danneggiato dal disastro della guerra libica) che la politica mediterranea dell’Italia condotta dalla parte meno atlantista della DC, Mattei o La Pira per fare dei nomi, aveva presso i paesi della sponda Sud. Ora lo ius soli e soprattutto lo ius culturae rafforzerebbero notevolmente questo soft power, esattamente come mantenere questa situazione di apolidia informale di una parte della popolazione italiana formerebbe una bolla di tensione dai confini e dagli esiti incerti, che finirebbe con il diventare sul lungo periodo un elemento di debolezza strutturale per l’Italia, così come lo è stato per la Francia un certo tipo di politica abitativa risalente agli anni settanta, che ha finito con il formare dei ghetti pronti a esplodere alla prima occasione.
Se poi si guarda a tutto questo problema con gli occhi della generazione di mio figlio che ha dodici anni, la questione diventa allo stesso tempo più urgente e più assurda: si sta parlando cioè di persone che sono compagni di classe e di gioco dei nostri figli nella maggior parte delle cose simili e uniti a loro. Non si può neanche parlare di una generazione più preparata delle nostre all’incontro con lo straniero perché non c’è nessuno straniero, nessun diverso, in definitiva nessun incontro perché questi giovani sono sempre stati qui. Una buona politica deve rendersi conto che questo dato umano e generazionale deve necessariamente trovare corrispondenza nella legge, pena il rischio di tante piccole tragedie private di fronte a banali passaggi della vita di ognuno e la loro potenziale ricaduta in dinamiche politiche e sociali difficili da prevedere. A chi si oppone per banali calcoli elettorali a un provvedimento ragionevole e storicamente motivato prima ancora che giusto o umano va ricordato che l’Italia, specie in un contesto preoccupante come quello attuale, non può permettersi una frattura tra un paese di diritto e uno di fatto.

Il mio piano

0

di Maël Guesdon

tradotto dal francese da Laura Giuliberti

Questo testo inedito è tratto dal libro  Mon Plan, che uscirà in Francia il prossimo autunno per la casa editrice José Corti.

Non sono naturalmente paranoico ma ho l’udito finissimo. Le mie orecchie ruotano su se stesse, la mia attenzione si sdoppia. Le frasi lontane che non dovrei sentire mi seguono ovunque vada. Qui ogni rumore diventa un segno, ogni segno una domanda: scorgo dietro di me dei corridoi agitati ma il tutto si scioglie nel caldo opprimente. C’è il mio udito finissimo e vagabondo, la mia natura fiduciosa, serenissima, e la violenza che fa circolare le frasi senza tregua.

[…]

Mi sento vicino al posto in cui sono, e tuttavia molto distante. Esiste un legame segreto, una misura riassestata tra la mia fiducia naturale e la distanza a cui circolano le frasi che non dovrei sentire: abbastanza lontano perché io sappia che si spostano alle mie spalle, ma abbastanza vicino perché possano aggrapparvisi.

*

Da una certa prospettiva le frasi consolano sempre i suoni dispersi. Fischiettano le ultime parole. Sento le voci voltate le spalle. La superficie funziona come una corrente che mi porta di traverso. C’è questa inevitabile coincidenza che fa sì che le parole passino alla distanza perfetta affinché io le intuisca sapendo che mi vengono nascoste.

*

Non sono naturalmente paranoico e lo sanno tutti. Ignorano le mie orecchie che ruotano su se stesse, parlano di me quando sono in un posto in cui le frasi possono seguirmi. Prendono il tempo necessario a descrivere ogni minimo gesto soffermandosi sui dettagli che sfuggono a qualsiasi commento. La notte la calma copre una forma di inquietudine e io so che siamo incastrati nella misura in cui mi incastrano. Giro in tondo in questo spazio protetto dove qui può essere detto senza referente. Sento una frase, segue l’inquietudine di averla sentita. Fisso la frase come si affonda in un dettaglio.

*

Se osassi dire a quelli che parlano che la mia bonomia è turbata da un udito troppo fine, forse capirebbero da quale violenza è estratta la violenza che li attraversa (quanto si prenda gioco di loro) e proverebbero a essere sinceri con me per vendicarsi di lei.

*

Il cerchio dei commenti traccia un limite. Mi circonda molto equamente. Bisognerebbe che ruotassi su me stesso in maniera regolare concentrandomi sul silenzio che segue il male non appena viene detto. Bisognerebbe posizionarsi in questo sfalsamento, inseguirlo ogni volta che il mondo si ritira.

*

Quando chiamo Trenitalia per comprare o cambiare un biglietto, mi avvisano esplicitamente (tanto è di notorietà pubblica la mia buona natura) che la mia chiamata è registrata. Da qualche tempo, registro anch’io le conversazioni e avviso altrettanto esplicitamente che la mia chiamata è doppiamente registrata. Diffondo in tempo reale la registrazione in corso. Chiedo i cognomi, i nomi dei miei interlocutori, date di nascita, indirizzo, IBAN, nella speranza che vedano in me la violenza da cui sono prodotti e che pensano di creare.

*

Quando per disgrazia non sei naturalmente paranoico, ti rendi conto che dovresti logicamente esserlo. È per questo che adesso rivolgo innanzitutto a me stesso la mia diffidenza. Vado contro la mia natura, mi tormento con una crudeltà che eccede la mia buona natura, affinché in risposta mi dia tormento e perché così il larsen, saturando l’ascolto e l’amor-proprio, liberi gli altri dall’obbligo di dire qualcosa.

*

Maël Guesdon (Parigi, 1983) ha pubblicato, tra l’altro, Voire (Corti, 2015). Tradotto in italiano da Fabiana Bartuccelli con il titolo Ovvero, il libro è uscito nel 2019 per Lietocolle. Insieme a Marie de Quatrebarbes e Benoît Berthelier, Maël Guesdon coordina la rivista La tête et les cornes.

*

Immagine:   “Rétroviseur-mobile” di Jacques Carelman, tratta dal Catalogue d’objets introuvables.

La notte dei ponti scuciti

0

di Mauro Tetti


Il tre maggio del millenovecentoquarantatre le torri della città bastionata crollavano, i soffitti cedevano, tutta Cagliari veniva iscoveccada, così dice Zina, e io non l’ho mai capito cosa voleva dire iscoveccada fino a che non ho visto i video della città iscoveccada e ho capito che vuole dire scoperchiata, nel senso di togliere copertura, nel senso di distruggere. Zina dice che c’erano i militari della batteria antiaerea CiCentotrentacinque, gliel’aveva detto suo marito che non mi ricordo come si chiamava ma posso dire con certezza che non è mai diventato vecchio lui, perché morto infartato giovanissimo: fai che c’aveva trent’anni quando è morto, mese più mese meno. E questi militari della batteria antiaerea CiCentotrentacinque, nel colle di Sant’Ignazio, a Cagliari, il tre maggio del millenovecentoquarantatre, leggevano e rispondevano a un comunicato di Capo Carbonara:
-Preparatevi, arrivano gli aerei.
-Molti sono?
-Mamma mia. C’è il cielo pieno.

È così siamo nati sotto il segno delle bombe, non io che sono molto giovane, a dirlo è sempre Zina che adesso non è più giovanissima e insomma, di giovedì nel calendario ne ha segnati parecchi. È stata sfortunata perché ha preso marito a sedici anni, poi appena dieci anni dopo lui è morto infartato e ci ha lasciato ben cinque figlie, tutte femmine e belle bellissime da non credere. Così dicono tutti, che da giovani sembravano pure qualcosa ma adesso Oiamammia, dicono, ti geli per paura quando di notte le vedi passeggiare nel retro del villaggio cercando con gli occhi le luci delle torce dei venditori di conchiglie. Vabbè saranno pure state belline ma chi può dirlo con certezza, visto che noi dal villaggio non ci spostiamo da secoli e gente bella bella non ne abbiamo visto mai. Lo dice Zina sì, era bello mio marito quanto era bello, ci amavamo molto, ma sono stata sfortunata. Cinque figlie, sola e senza lavoro, come facevo a mantenerle? Così le ho regalate a dei ricconi di città ma quelle dopo due mesi sono scappate, non ce la potevano fare a vivere in quell’ambiente tutto pulitino perfettino. Sono tornate camminando sul ponte tenendosi per mano. Ma quale ponte o Zina?
Questo ponte che collega il villaggio alla città.
Ma non c’è nessun ponte o Zina.
Gli abitanti di questo villaggio vedono cose che non esistono. Vivete nelle fiabe dice il sindaco della città bastionata che viene sempre a scroccare pesce, fritto, a malignare, viene con tutta la sua arroganza nazionale e poi se ne va. Vivete nelle fiabe, dice. Ma guarda questo poi, arrestenudda, sempre meglio di te che invece vivi nella negazione, perché sei negato, bravo solo a riempire la pancia di frittume.

O callonedduoù. Ulula Giglio Testagrande l’amico mio, e usa questa espressione che nella lingua franca del villaggio vuol dire pallone gonfiato, Giglio Testagrande è rimasto incastrato qui anche lui da secoli e ora vive con noi. Ma prima di parlarvi di lui, della piccola isola e del nostro villaggio vi dico di me. Che io parlo e parlo sempre ma non dico l’essenziale e voi non sapete nemmanco che voce ho, se ho voce di femmina o maschio, come mi chiamo e quanti anni ho, eccetera. La voce può sembrare di maschio ma io sono nata femmina, di anni ne ho due o trecento e mi chiamo Sharon e sono nata sirena, vivo in un casotto al villaggio e faccio la bagnina, salvo i vostri figli quando vanno nell’acqua molta e non riescono a tornare, sistemo le vostre sdraio ancora prima che salga il sole dal Mediterraneo e vi accompagno nella postazione fronte mare a prendere quel sole quando sale. E anche se di ponti per uscire dall’isola non ce n’è più, per noi esiliati al villaggio c’è sempre una mandria di turisti stesi al sole che riesce a raggiungerci. Arriva giugno e quelli puntuali vengono col jet privato o il Suv o la Cadillac, io preparo il tappeto rosso fino alla battigia dove loro si sbragano e bevono cocktail decorati che prepara Patri l’altra sirena amica mia molto brava con i cocktail. Peccato che Patri ha le guance molto rosse, si vede che ogni due dita di vodka conserva undici gocce alcoliche per lei, così arriva la sera con tramonto esplosivo rosso che sembra Apocalypse Now a Santa Gilla che Patri si è bevuta due o tremila gocce di vodka, mette musica di mariachi e sulla Playa parte un ballo latino americano, poi cade svenuta, da ricovero. Fa molto ridere però, che toga, è per ridere dice lei, lo faccio per ridere. È così ogni giorno. Patri la mia amica del bar le manca un incisivo e nel buco tra i denti davanti ci mette sempre la cera poi quando beve birra calda la cera si squaglia ed è di nuovo sdentata e ubriaca.

Mi annoio a guardare i vostri bambini nuotare col fischietto li faccio avvicinare, poi quando tutti vanno via e scende la sera mi tolgo i boxer il costume e rimango così nuda e faccio un bagno nell’acqua calda al buio, mi piace fare il bagno nuda. Anche quando piove corro sulla Playa tolgo i vestiti e nuoto nuoto forte forte veloce veloce fino a che non sono stremata senza forze, che ce ne vuole comunque perché ho delle braccia così, e nuoto fino a che la pioggia non si unisce al Mediterraneo tutto e c’è una nebbiolina fitta fitta, il mare in tempesta che non si capisce più dov’è il cielo e dov’è l’acqua, dov’è l’africa e dov’è l’isola. Potrei morire. Ma non muoio mai.

Un’altra volta ancora stavo per morire. È venuta questa, una del continente si capiva dall’accento, era sola, occhiali a specchio, pareo, brillantini, capelli neri neri lucidi e quel corpo che sembrava una statua. Tutta palestra, ho pensato, ma non troppa ché comunque doveva essere morbidissima a toccarla, ho pensato. Poi non ho più pensato niente, ho agito, le sono corsa dietro e l’ho aiutata con le cose del mare, l’ho accompagnata alla sdraio panoramica camminando riva riva e la guardavo. Lei si è seduta ha sfilato via gli occhiali a specchio che io non avevo mai visto nessuno togliersi gli occhiali così, ha detto Ciao bimba. Ciao bimba, ma quale bimba? Non c’è nessuna bimba. Mi sono guardata intorno. Poi mi ha chiesto un Campari con ghiaccio da bere lì davanti al Mediterraneo e io sono andata da Patri e le ho detto: Patri senti, dammi il Campari più buono che hai. E lei: Ma sei scema sono tutti uguali, e me l’ha dato. Portato il Campari lei felicissima, faceva dei sorrisi, e anche io. Bimba a me? Pensavo. Faceva dei sorrisi, come ti chiami? Ha detto. Io? Mi chiamo Sharon ho detto, e tu? Io Serena. Che nome, ho pensato. Poi ha iniziato a parlare parlare del continente, del mondo fuori dal villaggio, dei libri. Ha tirato fuori dei libri e io ascoltavo e ascoltavo tutti quei nomi francesi tedeschi inglesi italiani, avventure, storie d’amore. A me piacciono i polizieschi, tipo serie tivù omicidi detective ho detto, e lei ha tirato fuori un libro di detective. È un giallo, ha detto. Cosa le racconto adesso, ho provato a raccontare la storia del ponte del villaggio che era proprio lì, indicavo la laguna e lei non ci credeva, era proprio lì e ci univa alla città ed eravamo cittadini anche noi. Niente non ci credeva, abbiamo riso molto. E insomma quella sacca del mare che aveva era piena di libri: Minziga, ho detto, quanti libri, e Serena rideva, poi dal nulla fa così: Senti me la spalmi un po’? Girata di spalle sdraiata sull’asciugamano, teneva la crema solare in mano. Ma chi io? Tu sì. E io morta. Ho messo la crema sulle spalle di lei e quella rideva e rideva, come rideva, è fredda diceva. Sentivo il cuore battere a caso che sicuramente stavo per morire. La sua schiena era durissima e lucidissima, anche un po’ qui ha detto, toccandosi le natiche abbronzate: quanti ponti avranno attraversato queste gambe pensavo tra me, un milione di ponti e salito un milione di scale per essere così e immaginavo di camminarci io dietro di lei su un ponte eterno, senza stancarci mai, niente. Immaginavo lei camminare in questo ponte lunghissimo fino a vedere la luce, essere illuminate entrambe da questa luce e sentirci libere dall’esilio delle isole e camminare per sempre. Pensieri, solo pensieri. Spalma spalma che come spalmavo la crema sulle gambe mi sembrava un tempo lunghissimo e ho sentito una sensazione strana come di pipì addosso proprio lì davanti a tutti e davanti a lei, e non mi dispiaceva affatto anzi: una paura però questa sensazione, mi è presa una paura che sono scappata volata da Patri. Oh Patri ho detto, Oh Sharon, ha detto lei, vai a lavorare non lo vedi che c’è Giglio Testagrande l’amico tuo che sta affogando. Ma cosa? Ed era vero invece, Giglio Testagrande stava affogando facendo il bagno nella laguna oltre la Playa. Ho tirato un salvagente, ho urlato: Ceh, Giii’, o Gi’ non me lo bagno il costume per te arrestenudda, vieni fuori. E quello non veniva fuori un sacco di gente si è alzata, tutti i turisti ubriachi ballando Macarene hanno lanciato i cocktail per vedere cosa stava a succedere. Niente, di Giglio Testagrande si vedevano solo i piedi all’aria, il corpo sott’acqua, la testa faceva da ancora. Anche Serena si è alzata con la crema tutta spalmata per vedere e tutti dicevano Ceh, ceh, ceh, sta morendo, esh, ish, osh, ceh. Ma ghini gazzu è? Ha chiesto Ulisse del villaggio che non ci vede bene dall’occhio sinistro. Ulisse è piegato gobbo per via dell’età, lui già l’aveva visto il ponte, la conosce bene quella storia delle bombe visto che di anni ne avrà diecimila. C’ha i tatuaggi fatti quando era imbarcato marinaio che adesso non ne rimane niente sono tutti scoloriti, dice che a furia di fare bagni in quest’acqua sporca di petrolio di tutte le industrie e raffinerie ti viene via la pelle pezzo per pezzo. Ulisse dice che ha avuto le febbri nei porti di Genova, Marsiglia, Gibilterra. La polmonite nell’Atlantico, lo scorbuto nel Golfo di Guinea. Sulla scapola sinistra ha tatuato l’isola di Saluaga e la sua latitudine, dove in una delle baie gli hanno cavato l’occhio sinistro per scommessa. Così dice Ulisse e chissà se sono cose vere o inventate. Le ossa dice, sono come spugne, e adesso soffre tutti i dolori del mare e dell’umidità. Mah, chissà.

Basta pensare, ho detto, con un passo di danza ho levato la canottiera rossa e mi sono tuffata nella laguna verde, ho nuotato per recuperare Giglio Testagrande che era più morto che vivo.
Serena mi guarda come per dire: Beh?
Io la guardo come per dire: adesso muore.
Tu lo sapevi che non sapeva nuotare? Ha chiesto Patri ubriaca.

Abbiamo fatto catena umana per tirarlo fuori, tutti i continentali impauriti, un chilometro di catena umana nessuno aveva il coraggio di fare giochi tipo palpatine o anche solo di aprire bocca. Testagrande era già ubriaco di mare quando l’abbiamo tirato fuori, forse era già morto? Un uomo muscoloso ha spostato la cricca di turisti agitando pugni all’aria, sono un medico, ha detto, sembrava venuto da una di quelle riviste per sole donne, tutto depilato, si è messo in posizione sopra il cadavere di Testagrande agitava i pugni all’aria e non pensava a niente, ginocchia nella sabbia, petto in fuori, ha iniziato un potente massaggio cardiaco trecento pugni nel petto e un soffio leggero nei polmoni: scirocco. Ci siamo guardati come per dire: Minca. Bravo quello lì. Bravo davvero. Infatti lo salva. Nel mentre i cani dei continentali piangevano con i randagi del villaggio. Una cagna cieca e pidocchiosa sembrava parlarci e dire qualcosa, ma cosa? Nel mentre tutto il villaggio che applaudiva il dottore, lui niente si è alzato e ha ripreso in mano la sua bibita. Bravo davvero.

Poi ti racconto quella storia del ponte e delle bombe, ha detto Ulisse a Serena, lui ancora parlava e parlava delle sue ossa e non si era nemmanco accorto che c’era uno morendo affogato. Ma ogni volta parla parla e del ponte non dice proprio niente. Tutti così sono al villaggio che ti viene quasi da pensare che il ponte non è mai esistito, che sono tutte bugie. Nel mentre Serena mi guardava e applaudiva pure lei, e io niente, dovere, ho detto, ma ero tutta gasata per il salvataggio. Dopo abbiamo riso molto ci siamo messe a parlare e ho detto: Stanotte c’è festa. Lei mi ha guardato come per dire che la notte si dorme. Non sanno questi continentali che nel villaggio il tempo è tutto strano, inganna sempre, e la notte non si dorme. Qui succedono cose che delle volte non si capisce proprio. È arrivata signora Simbula che di mestiere fa la cartomante e l’amica del prete, due cose che non ci azzeccano ma che le danno da vivere, si è messa lì nel centro della playa, ha allestito il suo banchetto con i tarocchi per leggere il futuro dei continentali che aspettavano in fila: Oggi nasceva un uomo ha detto, e puntava un tipo abbronzato depilato, tu dice, è il tuo compleanno? No, fa lui. Signora Simbula la cartomante si sbaglia sempre ma ci crede tanto in questi sbagli che finisce che diventano realtà. Volta sempre una carta che indica tutte le occasioni andate, sprecate per un soffio, per un tiro di dadi sfortunato. Basta una carta e il tempo va alla rovescia, in questo posto. È qui che in uno sbalzo di secolo spuntano esseri viventi mai pensati prima: fuscelli d’acciaio che squarciano il cemento, funghi che s’intrecciano a radici di ringhiere arrugginite e sparano spore come chiodi. In uno sbalzo di secolo e verso il passato spuntano casotti come palafitte sulla prima porzione del mare, donne e uomini giungono dalla città bastionata su macchine di lusso, trainate da bianche cavalle ornate di fiori. Cose così.

Uau, urlava Serena, applaudiva per il pronostico della cartomante, nel mentre Patri ha partito una musica reggaeton e iniziava a ballare scatenata sulla pista. Tutti brindavano per il salvataggio e Testagrande rideva ma non capiva niente, Serena ha detto che aveva ancora acqua nelle orecchie e io ho detto che quello l’acqua ce l’ha nel cervello e l’ha sempre avuta, Serena rideva quando parlavo così ho pensato che quello era il momento buono, l’occasione giusta: sai quando i momenti cruciali ti si appiccicano addosso? Così.

Mi sono avvicinata al suo viso ma Serena voleva ancora sapere la storia del ponte e maledetta io che ho parlato di questo ponte e delle bombe che ci lanciano di continuo dal millenovecentoquarantatre. Dopo dopo, ho detto, dopo ti racconto, adesso è il tuo turno ho detto, le ho tenuto la mano e ci siamo avvicinati al molo che costeggia la laguna. I pescatori scalzi armeggiavano con l’attrezzatura di fronte alla laguna, si alternavano per lanciare le lenze sullo stagno, ma è un gioco che non si riesce a capirlo fino in fondo. È sempre così. Le lenze disegnano linee nell’aria, si muovono su e giù verso la laguna, segnano piccole parabole nel cielo. Ora tocca a me, dice un altro, e così continuano a lanciare in direzione della città bastionata. Prego, dice uno dei pescatori e porge una canna da pesca a Serena e lei felice ha preso la canna e ha lanciato una parabola di lenza nel cielo. Tutto sembra incomprensibile quando succede, finché la notte nel villaggio si mostra per quello che è realmente: una magia. Scende la sera e le fiammelle incendiano l’ingresso della laguna, le lampare, sopra l’acqua si illuminano mille, forse duemila o forse più, si illuminano le linee tratteggiate e disegnate dalle lenze dei pescatori durante il giorno, rappresentano altrettanti ponti immaginari che collegano il villaggio alla città bastionata, alla città murata. Serena non poteva crederci, che spettacolo ha detto. I più abili disegnatori hanno costruito una fitta rete di ponti e autostrade, che come ragnatele fosforescenti rimangono sospese tra la laguna e la notte. E ancora altri pescatori con canne da pesca come pennelli hanno disegnato ville e castelli, torri immense e scale a chiocciola, piscine e piazze, colonne e templi circondati da mille linee ancora. Poi il disordine del gioco si frantuma con le prime luci dell’alba allora i ponti intrecciati, i ponti sovrapposti, i ponti ad arco, a sbalzo, sospesi, a carpiata, levatoi, basculanti, i ponti fatti di lenze li vedi scucirsi ogni mattina e non puoi farci niente. Ogni giorno si ripete uguale al precedente, cuci e scuci, i pescatori riprendono il lancio delle lenze, per costruire un’isola nuova e sospesa, più alta e impenetrabile, indistruttibile. Ma è solo un gioco, che al risveglio è già scucito e abbandonato, perché non c’è ponte che ti possa liberare dall’esilio delle isole.

Nel mentre la playa era una festa tremenda tutti ubriachi ballando reggaeton e limonando sulla rena e io ero davvero felice che la storia del ponte era ormai un ricordo lontano. Così facciamo al villaggio, sostituiamo le disgrazie con cose da niente, giochi e maschere, filastrocche di re e regine, di esserini con braccia e gambe che per sortilegio diventano pinne di bavosa. È uno stratagemma per ingannare la memoria e non diventare folli. Mi sono avvicinata da signora Simbula la cartomante, ciao signora Simbula ho detto, girami una carta, lei tremava e diceva stai attenta tesoro mi sembri troppo felice oggi. Ma cosa vuole questa? Ho pensato, tonta puoi essere? Non portarmi sfiga. Gira una carta. Ora era la mia carta, la vedevo stesa sul banchetto: il folle. Signora Simbula sorrideva, ma vattene cugurra, ho detto a voce bassa per non farmi sentire che comunque è una signora anziana e se mi sentiva poi mi mazziava veramente o mi faceva il malocchio giustizia ti prenda maledetta strega. Mi sono girata ho pensato boh, vado da Serena e gliela racconto questa storia del ponte, è giunto il momento, magari in riva al mare dopo il molo lungo ora che si fa buio, la cerco con gli occhi in mezzo a tutti i ballerini e al polverone della playa. Casino totale di casse, Patri ubriaca persa era già senza l’incisivo che limonava con uno continentale ubriaco anche lui ballando la cumbia ed erano abbronzati e sembravano davvero fichi non staccavano mai le bocche, sono calamite, ho pensato. Cerca che cerca ho visto Serena che parlava fitto fitto con Ulisse avanzo di galera, le starà raccontando la storia del ponte ora vado e la salvo ho pensato ridendo dentro, Sereeee urlo, Sereeee, ma come sono vicina ho visto che si baciavano anche loro. Era tutto un delirio, mi è preso un colpo al cuore: proprio con quell’avanzo di galera doveva baciarsi, giustizia, che maniera. Non è possibile, ho detto, forse mi sono sbagliata, guardo bene e no, non mi ero sbagliata erano tutto un bacetto qui bacetto lì palpatine come non ne avessero mai dato prima. Mi sono messa a correre sulla playa, forse non ci capivo più niente cosa mi prendeva mi batteva fortissimo il cuore. Ho raggiunto il molo scavalcato e proseguito nella spiaggetta più piccola quella stuggiata che volevo far vedere a Serena, ho lasciato dietro le luci e la musica lontano, sembrava proprio un piccolo pianeta di alieni e io cosa ci faccio qui, ho pensato. Mi è venuta voglia improvvisa di fare il bagno, ho tolto i vestiti e nuda mi sono tuffata, era calda e le ondine schiaffeggiavano piano piano la superficie del corpo, nuotavo e nuotavo fortissimo fino a che non mi mancava il fiato e forse piangevo mentre nuotavo ma il nostro mare è già pieno di pianti quindi chi se ne accorge.

Finita la nuotata ero più tranquilla ancora un po’ di singhiozzi ma fa niente, però ho pensato che la storia del ponte che collegava il villaggio alla città e di come è venuto giù, ho pensato che non mi andava più di raccontarla, del disastro delle bombe e della dinamite, del disastro della dinamite nel cuore della notte, senza preavviso, non mi va più di raccontare questa storia. Preferisco parlare di noi, di me dimenticata nel villaggio. È in questo posto che camminando lungo la laguna e fino alla playa, nuotando ogni volta fino a perdere le forze mi riempio di felicità estrema, solo in questo posto succede, non posso nemmanco saperlo cosa succede fuori perché fuori dal villaggio è impossibile andare ma quello che si prova qui è un miracolo che tutti nascondono, e a nascondere i miracoli si prolunga l’oppressione. Da qui si vede la città bastionata martoriata dalle bombe, nuotando sembra di precipitare in qualcosa di molto profondo per poi galleggiare di nuovo sulla superficie d’acqua fosforescente come se fosse un mare di un pianeta di una costellazione che non si è mai vista in tivù, mi sento di nuovo bene quando nuoto qui e penso che un giorno parleranno di questo ponte distrutto e di questa terra dimenticata e tutto quello che diranno l’avrò già detto io, così tutti, a quel punto, si accorgeranno della mia vita invisibile.

La “Bestia divina” di Mario Fresa (e i suoi fiori caduti nell’ansia di un labirinto)

0

di Prisco De Vivo

 

“Colui che farà ricorso ad un veleno per pensare

ben presto non potrà più pensare senza veleno.”

Charles Baudelaire

 

“La poesia è crudele e solitaria”, con grande icasticità ha sentenziato Valerio Magrelli  nel suo saggio La lettura è crudele: così come spietata e crudele è l’estroflessione intimistica e controversa dell’ultimo libro di poesia di Fresa, Bestia divina (La scuola di Pitagora Editrice); un testo fondato sul dissidio di ciò che è naturale e ciò che non lo è.

Molthenstain

0

di Claudio Kulesko

I cavalieri avanzano lungo il sentiero, uno dietro l’altro, a testa bassa. Dai margini, battaglioni di querce li scrutano in un silenzio sacrale.

L’ultimo della coda solleva il capo e si guarda attorno, percorrendo con lo sguardo l’orizzonte verdeggiante.

«Sono ore che marciamo. Non un cinguettio, un fruscio tra i cespugli. E qualunque direzione prendiamo, il vento batte sempre dritto davanti a noi.»

La donna alla testa si volta a guardarlo da sopra la spallina della divisa.

«Sempre il solito, Molthenstain. Koragh’thor si estende per seicentoquaranta ettari. È il bosco più ampio e intricato della regione. Non c’è niente di strano.»

Molthenstain sospira stancamente.

Sotto di lui, la giumenta sbuffa, inquieta. Le sfiora la testa con il dorso della mano e aggrotta la fronte.

«E gli uccelli?…» prova a controbattere.

L’uomo dinanzi a lui grugnisce: «Con questo caldo se ne staranno nei loro nidi!»

Molthenstain chiude gli occhi e trae un profondo respiro.

Prova a ricordare da quanto tempo stiano vagando nel bosco. Ore? Giorni? Mesi?

Riapre gli occhi ed è solo. Un tremulo raggio di luce trapela tra le fronde.

Di colpo, ricorda tutto.

China la fronte sul collo della cavalla ed emette un gemito strozzato, gli occhi colmi di lacrime.

Koragh’thor estende la sua ombra su di lui, insinuandosi nella sua mente come un dubbio.

Ma Molthenstain resiste. Stringe i denti, furente, e fa risuonare la sua coscienza in quella del bosco, invitandolo a lottare, ancora una volta. Per un fugace istante, le chiome sfavillano di colori alieni e i rami si ritorcono, rilucendo di un sinistro bagliore.

Il bosco lo incalza. Le loro menti si sovrappongono, si intrecciano, si fondono in un furente amplesso. Per sempre prigioniere l’una dell’altra.

Cavalieri avanzano lungo il sentiero, uno dietro l’altro, a testa bassa.

Kant à la boulangerie

1

di

Francesco Forlani

 

 

 

 

Un pays des merveilles

Con estrema grazia, la mia vicina pianista ha una discrezione aristocratica e moscovita, mi aveva comunicato il desiderio di sua figlia, anch’ella musicista e piccola piccola così (ma gigante nel cuore), di condividere con me il mercoledì mattina il tragitto da casa a St Lazare in metrò. In realtà mi sentivano uscire di casa presto, una decina di minuti prima che anche lei, talvolta con una custodia del violoncello che la superava in altezza, si mettesse in cammino per andare a scuola. Così dall’autunno fino al nostro ultimo giorno di scuola, ogni mercoledì mattina alle sette e cinque, bussava alla porta con discrezione aristocratica e moscovita per avvisarmi e si andava. Penso che un giorno ne scriverò, lo sto già facendo ma in fondo si tratta di una nota a piè pagina di vita, per qualcosa di ampio e sul fondo romanesque. Perché tale rituale faceva di noi enigma di noi stessi. Quel percorso infatti, a piedi, in autobus e poi in metrò fino alla Stazione Sans le hasard ( senza caso ) non si giustificava in nessun modo su un piano razionale. Esisteva tra me e quella famiglia una relazione? No.

Condividevamo il pianerottolo, è vero, ma con quella distanza di chi non si conosce davvero. Loro avevano letto il mio romanzo francese e io ascoltato i loro dischi, ma nulla di più. Eppure ogni mercoledì mattina per mezz’ora facevamo quel tratto di strada che ci portava ai nostri rispettivi destini, quelli necessari del dovere, di alunna e professore. Con molta formalità sedevamo uno di fronte all’altro e se era lei a raccontare del compleanno della sua amica del cuore e dello scherzo che aveva in mente di farle, io da parte mia inventavo storie fantastiche fuori dal mondo, da quel mondo, solo per farla sorridere un po’ in mezzo a facce imbronciate per lo più.

la lettera di Alice

Quando sono rientrato oggi dal mio ultimo giorno di scuola in cui generalmente per noi contractuels è difficile sentirsi al proprio posto – non siamo quelli che lasciano la scuola per altre scuole nè tantomento coloro che restano, perché di noi si saprà soltanto a pochi giorni dalla rentrée – ho trovato in una busta infillata nello stipite della porta di casa questa lettera. Ho provato una gioia profonda nel leggerla perché avevo tra quelle righe trovato casa e una risposta a quanto mi “sconcicava” i pensieri di questi giorni. Per persone come noi, molte più di quante non si immagini, non è importante sentirsi al proprio posto ma esserci, stare lì, proprio dove noi siamo perché la vita prima o poi passa anche di qui.

 

 


 

Kant à la boulangerie

Bonjour Francesco, j espère que tout se passe bien pour vous.
Je suis Haib, on s’ était rencontrés il y a quelques semaines dans une boulangerie avenue d’ Italie.
En attendant notre tour vous m aviez expliqué que vous aviez utilisé l’ image d’une queue devant un magasin pour expliquer à vos élèves l’impératif catégorique de Kant… : )
J’étais avec mon petit garçon…
Vous vous rappelez ?
J’ai commencé Par-delà la forêt, super !!
“Plus le boisement est hétérogène, mieux il résiste au vent, avaient dit les experts à l’époque. C’est pour cela qu il y a de la mixité, ici…”
magnifique !
Je vous avais demandé si on pourrait prendre un verre un jour, et discuter notamment de l’ anthologie de la littérature classique sur laquelle je travaille et destiné au grand public. D’ailleurs je me pose la question de savoir s’il n y aura pas aussi des auteurs de philosophie “abordables” (Platon, Nietzsche…) dans mon anthologie.
Je serais honoré de vous revoir et de discuter de cela avec vous.
Quand vous voulez Francesco !
à bientôt j espère.

Certo che mi ricordo di te, del gigante con bambino; di come fossimo arrivati contemporaneamente davanti alla boulangerie, forse io in anticipo di un decimo di secondo; di come nel tuo fotofinish morale questo bastasse a cedermi il passaggio. Non potrò dimenticare come la curiosità del piccolo verso i dolciumi esposti in vetrina lo portasse a sporgersi oltre il suo posto superandomi a più riprese. Ho bene impressa nella memoria la frase che ti ho detto su come la felicità di un bambino potesse valere bene la mia rinuncia alla precedenza. E mi è ben chiara nella memoria la risposta che mi hai dato, con estrema dolcezza, declinando l’offerta. “È giusto che mio figlio impari ad aspettare, ad assaporare le cose arricchite dall’attesa.” Ho bene in mente di averti raccontato di come poche ore prima durante un corso di filosofia che avevo fatto con una classe de Saragozza, avessi descritto l’imperativo categorico kantiano con l’immagine di una fila; di come si potesse, istintivamente, rispettare una regola divenuta legge universale e anche del fatto che si potesse creare un’eccezione alla regola ma alla sola condizione che esistesse un’unanimità dei presenti. Ai ragazzi avevo fatto l’esempio delle persone anziane o fisicamente fragili a cui, durante le lunghe file del periodo di confinamento, veniva accordata la possibilità di accedere direttamente o di come in una stazione o in aeroporto, a causa dell’imminente partenza, si potesse chiedere alle persone in fila di passare. Quando siamo usciti mi hai chiesto di trattenermi ancora qualche minuto per raccontarmi del tuo libro. Un omaggio alla lettura dei libri, il voler condividere con altri non avvezzi alla carta stampata delle idee, la gioia profonda che ne avevi ricevuto. Quasi da autodidatta, da cercatore d’oro, volevi offrire ad altri come te le tue carte d’esplorazione. Balzac, Dostoevskij, Kafka, Rilke, Victor Hugo, ma anche filosofi come Deleuze, di cui conosci a memoria ogni voce del suo Abbecedario. L’entusiasmo di una scoperta che solo una lunga attesa può provocare.


 

L’urlo

Fortunaaa, Fortunaaaaaa, Fortunaaa. Un grido non affatto disumano risuonava nel parco accanto alle spiagge, sfiorando i cancelli in ferro battuto delle palazzine, accarezzando i muri di cinta in calce del villaggio estivo, bussando forte alle porte dei residenti sprofondati nel sonno pomeridiano. Mentre il sole della “controra” assediava le persiane tirate e in controluce, e ogni cosa viva evaporava in una coltre sospesa sull’asfalto, perfino il cielo, questa parola ben scandita dalla voce roca di una donna robusta attraversava ogni giorno lo spazio vitale dei residenti, ogni giorno, alla stessa ora, implacabile.

Era forse il mantra recitato ad alta voce da un intero popolo divorato dal fatalismo e che invocava la guarigione dalla cattiva sorte? Una parola che rivendicava il diritto a una fortuna cieca per la maggior parte ma che sembrava vederci benissimo per pochi altri? Piuttosto una preghiera modulata sillaba dopo sillaba, prima di sfumare nel silenzio e nel vuoto di una risposta inutilmente attesa?

Ogni pomeriggio d’estate una madre si sporgeva pericolosamente da un balcone al terzo piano di una palazzina situata nel cuore del Parco di Sant’Albina di Scauri per avvertire la figlia che tutta la famiglia si era messa a tavola. Sua figlia di nome Fortuna.

Vedute dal Salève

0
Veduta di Ginevra dal Saléve; acquaforte acquerellata di Johann Jakob Biedermann, pubblicata attorno al 1800 a Basilea da Birmann & Huber (Bibliothèque de Genève, Archives A. & G. Zimmermann).

Veduta di Ginevra dal Salève; acquaforte acquerellata di Johann Jakob Biedermann, pubblicata attorno al 1800 a Basilea da Birmann & Huber (Bibliothèque de Genève, Archives A. & G. Zimmermann).

di Antonio Sparzani

Faggi rossi, abeti, querce e tigli circondano lo chalet di questa parte del Salève, detto chalet Paul, dal nome del nonno di Françoise, ginevrino di vecchio stampo, austero farmacista e padre di una numerosa famiglia che nei decenni è parecchio aumentata di numero, fino a inglobare il sottoscritto. Il Salève è una montagna lunga e stretta, detta “il balcone di Ginevra” dato che, quando non c’è il candido e compatto mantello del brouillard mattutino si vede giù in basso non solo una buona porzione del Lemano, il lago di Ginevra, ma anche l’intera città, ultimo baluardo svizzero che s’infila nel territorio francese. Le Rhône, ovvero il Rodano esce dal lago, riceve le acque dell’Arve e scorre poi completamente in Francia fino a sfociare, attraversata la Provenza, nel mare nostrum, il vecchio Mediterraneo ben sorvegliato dalle colonne d’Ercole a ovest, ancorché ferito, più di un secolo fa nei pressi di Suez, per le comodità dei viaggi marittimi dei naviganti umani.
Domenica primo agosto era la festa ufficiale svizzera, perché era stato il giorno nel quale i primi tre cantoni, Uri, Schwytz (che diede poi il nome all’intera nazione) e Unterwald, anno 1291, Absburgo imperanti, si eran messi d’accordo di ribellarsi a qualsiasi altro dominio e di formare uniti l’embrione di un nuovo stato: ora i cantoni, dopo molti complicati allargamenti, aggiunte e ulteriori suddivisioni in tutti i secoli successivi, sono diventati specie di grosse province con notevoli autonomie legislative, e sono ben ventisei: costituiscono uno stato federale nel cuore dell’Europa occidentale, l’unico (con la Norvegia e ora anche il Regno Unito) che non ha ritenuto di aderire all’Unione Europea. Ma qui sul Salève, poco più di mille metri di altezza, siamo in territorio francese, ancorché la vicinanza svizzera si senta molto, data l’abbondanza di turismo che ne proviene, tanto che hanno costruito una teleferica che porta dal monte fin giù, in una località sempre francese, da dove però parte un trasporto pubblico che collega direttamente con Ginevra, Genève per i francesi, Suisse Romande, e Genf per gli svizzeri, assai numerosi, di lingua tedesca; lingua tedesca si fa per dire perché in tutta la Svizzera tedesca si parla una lingua affine al tedesco chiamata alemanno, localmente detto Schwiizertüütsch, incomprensibile a un tedesco purosangue. Senza dimenticare che nel cantone dei Grigioni, come dire l’Engadina, si parla romancio, la quarta lingua (quasi) ufficiale di questa nazione.
La vegetazione spontanea cresce ogni anno rigogliosamente attorno a questo chalet così da nascondere ogni anno un po’ più il panorama circostante. Una volta si vedeva il monte Bianco e molto di più del Lemano, ora non se ne vede che un brandello, compreso tra due abeti, cresciuti a guardia del sentiero d’entrata, che chiamo le sentinelle del luogo. L’erba cresce assai abbondante durante autunno, inverno e primavera e quando si viene qui d’estate occorre falciarla e fare il fieno, grossi covoni che richiedono fatiche e tempistiche tutt’altro che cittadine, ma questa è la vacanza, l’otium che diceva Cicerone, il tempo benedetto dedicato alle cose che ci interessano da vicino, che rendono migliore la nostra vita più vera, contrapposto per l’appunto al “negotium”, il tempo perso nelle pratiche più volte a garantire un po’ di sopravvivenza in questo mondo così male organizzato. Male organizzato e molto male “mantenuto”: si cominciano già da subito a sentire i guai degli ormai probabilmente ineliminabili pesanti danni ambientali causati dalle pratiche di Homo cosiddetto sapiens: inondazioni, disgelo crescente, ondate di calore nei posti più impensati, estati quasi inesistenti ad esempio qui a mille metri dove quasi ogni giorno occorre accendere la stufa a legna, fenomeni, si dirà, che sono sempre esistiti, ma che si presentano ormai con una frequenza inaspettata.
Viene il sospetto che si sia agli albori di quella che i geologi chiamano sesta, o settima, non ricordo, estinzione, ma si obietta che i morti nel mondo per questa nuova pestilenza sfuggita per errore a qualche laboratorio, poco importa di che nazione, tutti ce l’hanno, a tutti poteva capitare una fatale “disattenzione”, sono in numero molto inferiore a quello dell’aumento annuale, anch’esso incontrollabile, dei nuovi nati. Tutto vero, ma viene il sospetto che i danni del covid siano sostanzialmente diversi e peggiori di quelli della spesso citata “spagnola” di un secolo fa. Siano cioè più sottili, più di lunga durata, capaci di minare non solo il fisico ma la psiche di molti, si vedano ad esempio le diffuse preoccupazioni degli psicologi e degli psicoanalisti a proposito della personalità degli adolescenti, e tra l’altro sull’aumento dei suicidi tra di essi.
E la scienza, la Scienza? Cosa dice questa disciplina che sembra ad alcuni così capace di certezze, così capace di risolvere i problemi che di volta in volta l’uomo si trova davanti per assicurare la propria sopravvivenza? La scienza avanza ipotesi, propone soluzioni, vaccini, medicine, trattamenti, comportamenti, ma nulla conosce di preciso, cui ci si possa affidare con certezza; a questo bisogna abituarsi, non c’è verso, io mi sono fatto le mie due dosi di Astrazeneca affidandomi appunto a una ipotesi che consideravo plausibile, ma conosco persone di scienza, che ritengo esperte e bene informate, che cercano di evitare questa pratica: i no-vax sono una platea assai eterogenea e non sono certo solo una marea di incoscienti. L’umanità, se continuerà ad andare avanti andrà sempre così, si barcamenerà in una diversità di comportamenti, alcuni dei quali si riveleranno, a posteriori, è chiaro, i migliori ovvero i più adatti alla sopravvivenza della specie; Darwin rispunta fuori sempre, così sembra funzioni il mondo; segnalo a questo proposito il recente assai interessante e gustoso libro “Imperfezione – una storia naturale” (Raffaello Cortina, €14) di Telmo Pievani, il nostro biologo-filosofo che per l’appunto occupa la prima cattedra italiana, a Padova, di filosofia della biologia.
Visto da qui, nella pace del verde e dell’aria vagamente rarefatta che permette la notte di vedere ancora meravigliose stellate, nulla di così preoccupante, il peggio sarà tutta la disperante burocrazia che sta venendo e verrà ancor più messa in piedi per spostarsi e vivere sull’unico pianeta sul quale possiamo ancora stare con un minimo di piacevolezza.

Quattro romanzi: Montanari, Landero, Schenk, Lunde

1

(Consigli di lettura agostani a pacchetti di quattro. Buon ombrellone, voi che potete. G.B.)

Raul Montanari, La vita finora, Baldini+Castoldi, 2018, 299 pagine

Innanzitutto: Raul Montanari è un grande titolista. Non c’è suo romanzo che non abbia un titolo evocativo, musicale, affascinante. La vita finora racconta la storia di Marco, un insegnante precario che trova un incarico in una scuola media privata in un paese dimenticato da Dio, imbucato in una valle lombarda. Posto dove si conoscono tutti e dove tutti sopportano il peso di una vita quotidiana segnata dal sopruso, dall’ignavia, dalla codardia. Dove si tramanda di generazione in generazione la prevaricazione e la sudditanza piuttosto che la solidarietà.

Marco lo scoprirà nel laboratorio di rapporti umani che è la classe dove deve insegnare. Divisa fra alunni fantasmatici, giudiziosi ma inconsistenti, e un piccolo branco di disadattati capitanati da un ripetente, Rudi, dall’intelligenza malefica. Burattinaio che muove i fili dei suoi accoliti, seguaci di una ridicola, e proprio per questa pericolosa, setta satanica.

Pochi gli alleati naturali del protagonista: una insegnante dalla sensualità solare e al contempo enigmatica, un prete sconfitto e disilluso, un anziano vicino di casa di origini balcaniche, ex criminale di guerra.

Il punto di forza di Montanari, come al solito, è la scrittura chiara, ineccepibile. I suoi romanzi sembrano opere di un artigiano attento, di un intagliatore, che scarta ogni ricciolo superfluo per concentrarsi sull’essenziale. È una scrittura elegante ma non leziosa, dove il lettore non ha distrazioni o impicci: deve solo accomodarsi in una lingua confortevole che lo accompagnerà nell’intreccio fino in fondo.

Infine, Montanari è un moralista. Lo dico come complimento. Ha un’idea, un’etica del mondo. Si pone di fronte al male, in questo caso incarnato dall’adolescenza dei nostri giorni (social e cyberbullista), come un giudice, e lo racconta. Spanventandosi e spaventandoci.

*

Luis Landero, La vita negoziabile, Mondadori, 2018, 297 pagine,  traduzione di Sara Cavarero

Quella raccontata da Luis Landero ne La vita negoziabile è una lunga confessione in prima persona di Hugo Bayo e della sua vita meschina. Hugo, Hughito per chi gli ha voluto persino bene, è un protagonisa ingombrante, onnipresente, autoreferenziale. Il mondo sembra si sia messo contro le sue aspirazioni, i suoi talenti, le sue passioni. Hugo è, a suo dire, una persona generosa, sensibile, intelligente. È la vita che si è accanita contro di lui, fin dall’infanzia quando la scoperta di una madre, fino a quel momento idealizzata, capace di tradire il marito per un falso medico lo catapulta nel mondo crudele degli adulti. E che dire del padre, quel bigotto sempre con la bibbia in mano ma da buon amministratore di condimini lesto con i suoi servigi a lucrarci sopra?

Hugo trova rifugio in un amico debole e in una ragazza mascolina. Le uniche persone che credono nei suoi sogni di grandezza, nel delirante mondo da adulto che vuole costruirsi. Ma la verità è che Hugo è un millantatore e un manipolatore. Perfetto esempio di una categoria umana contemporanea fatta di frustrati sempre pronti a scaricare le responsabilità e le colpe a qualcun altro.

Landero, in questo senso, ha davvero coraggio. Ci obbliga a segure la vita di un protagonista profondamente antipatico. Un ragazzo e poi un giovane uomo, senza alcun talento, se non quello istitivo d’essere un buon parrucchiere. Ma l’ego ipertrofico di Hugo non può accettare d’essere un semplice artigiano. Ogni volta s’imbarca verso nuove avventure finanziarie, capricciosamente, senza costrutto alcuno. Gli basta crederci. Coinvolgendo e spesso sconvolgendo, chi gli sta a fianco.

Lo ha fatto con la madre, il padre, con l’amico, con la fidanzata. Tutte vittime di un crudele innocente, di un angelico imbroglione, di un malmostoso contemporaneo, così simile a molti di noi.

*

Sylvie Schenk, Veloce la vita, 170 pagine, Keller editore, 2018,  traduzione di Franco Filice

Louise è cresciuta nelle Alpi francesi in un ambiente tradizionale e soffocante. Conoscerà la città e la modernità quando decide di studiare all’università di Lione. Quella è l’età degli incontri imprescindibili di ogni persona. Amici, sodali, confessori, fidanzati. Fra questi Henri, un pianista inquieto, tormentato dalla perdita dei genitori durante l’occupazione nazista, e Johann, un tedesco amante della cultura francese. Alla fine è con Johann che Louise sceglie di vivere. Ciò significa lasciare la Francia, conoscere una terra e una lingua nuova, nuove abitudini, nuovi paesaggi. Louise, per amore lo fa. Al punto che conquista la nuova lingua fino a farla diventare sua, fino a scrivere direttamente in tedesco.

Veloce la vita è un romanzo che fa del confine e del conflitto il motore drammatico di una storia all’apparenza semplice. Quella di Louise è la generazione della ricostruzione, che vuole mettersi alle spalle gli orrori della guerra, che conquista con fatica il sesso, la libertà, persino la leggerezza. Ma possiamo davvero dimenticare, vivere incoscienti, se molti dei protagonisti di quegli orrori – i fratelli maggiori, i padri, le madri – fingono di non aver fatto parte, spesso come protagonisti, a quella tragedia europea ancora incombente?

Sylvie Schenk è francese ma scrive in tedesco. Il suo è a tutti gli effetti un romanzo, ma le similitudini con la sua biografia si sprecano. Forse è per questo che ha deciso di rivolgersi alla sua protagonista utilizzando la seconda persona singolare. Un “tu” che si mette a metà strada fra l’“io” ingombrante dei memoir e il “lei” estraneo della finzione. Un “tu” che è uno specchio che riflette deformata la realtà, un punto di contatto fra le due forme di scrittura, al punto che il lettore non sa più da che parte del confine si trova, leggendo.

*

Maja Lunde, La storia dell’acqua, Marsilio, 346 pagine, 2018, traduzione di Giovanna Paterniti

Sempre più romanzi, negli ultimi dieci anni, stanno raccontando storie ambientate in un futuro per nulla distopico, dove le conseguenze del nostro scriteriato modo di gestire l’ambiente avrà conseguenze terrificanti. Gli scrittori, si sa, sono sismografi che percepiscono le vibrazioni telluriche delle paure collettive. Quelle profonde, reali, a differenza della demagogia imperante occupata a mettere in scena solo le paure superficiali, contemporanee.

Maja Lunde ha progettato una tetralogia sui temi dell’ambiente di cui La storia dell’acqua è il secondo capitolo dedicato al bene più prezioso e che diamo troppo per scontato: l’acqua. Il romanzo è strutturato su due storie che si alternano di capitolo in capitolo. La prima, ambientata nei nostri giorni, racconta di Signe, una anziana attivista norvegese sempre in prima linea per difendere l’ambiente dove è cresciuta, che decide di intraprendere un viaggio, forse l’ultimo della sua vita, su una barca alla volta della Francia. La seconda racconta di David e di sua figlia Lou, in un futuro prossimo, il 2041. Il sud dell’Europa è devastato da una violenta siccità che determina lo sfacelo delle istituzioni pubbliche, la nascita di campi per milioni di profughi climatici, la fine del patto sociale e della solidarietà fra i sopravvissuti.

Le due storie sono legate labilmente da una sorta di passaggio di consegne di un carico prezioso presente nella barca di Signe. Barca che, impantanata nel canale arido, David e Lou ritroveranno  un quarto di secolo dopo, per caso, fuori dal campo profughi gestito da ciò che resta della croce rossa. I capitoli di Signe sono i più ideologici e quelli di David i più romanzeschi, ciò rende un po’ altalenante la resa finale. Ma Lunde sa farsi leggere, ponendoci di fronte alla nostra indifferenza. Non è poco.

*

(tutte le recensioni sono apparse su Cooperazione in vari numeri del 2018)

 

I poeti appartati: Nina Živančević

2

Tre poesie

di

Nina Živančević

tradotte dal serbo da Angelo Vannini

 

 

 

AMAN ZAMAN

Qualcuno ha provato a ingannarmi

Qualcuno voleva incolparmi

Qualcuno ha provato a verniciare tutto

Qualcuno è riuscito a mascherare tutto

Qualcuno voleva irritarmi

Ma la musica era bella e abbiamo alzato il volume…

E tu hai ancora schioccato le dita

Spompato il telefono e urlato alla luna.

 

Hai detto AMAN, e io, ZAMAN!

In nome di Dio e fino alla fine dei tempi

 

Passi facili e pensieri difficili

In una notte disperata sotto un cielo splendido

Nell’aria gelida fino alla fine dei tempi

Abbiamo mosso una palpebra, guardato in agio

E intensa luce sfolgorava sul nostro orologio…

Beh, va be’, BASHI, che ragazze tessano

la stoffa dell’oblio,

in nome di Dio e fino alla fine dei tempi

 

la simmetria di quel cimitero

già ha sepolto tanti ballerini

aquile senz’ali e leoni assonnati

hanno ascoltato la nostra canzone prima che fosse registrata per la gente

prima d’essere provata e arrangiata in note eleganti

in una presenza furiosa, in una conversazione paziente

tu hai detto AMAN, e io, ZAMAN,

aman, aman, fino alla fine dei tempi.


10 silenziosi consigli mi ha dato Marina Abramović

Sii sempre coraggiosa

Fisicamente resistente

Truccati bene

Vestiti con discrezione e spogliati con indiscrezione

Vestiti con indiscrezione e spogliati con discrezione

Non ascoltare i consigli altrui, solo ausculta il tuo strumento

Fatti pagare profumatamente il lavoro, niente in questo mondo è gratis

Se devi piangere, che sia tra le braccia di un italiano

Non credere mai alle buone intenzioni di un critico

Muoviti come una nomade, come un gatto, senza casa o tetto, il mondo tutto è la tua dimora.


 

Ora lo vedi, ora non lo vedi

(per Gregory Corso)

Una volta ho incontrato Gregory a Boulder

in Colorado, gli ho mostrato d’una sua poesia la mia

traduzione che a lui è moooooolto piaciuta,

tanto che voleva provare il mio anello a testa di toro

lo fece e poi disse: ORA lo vedi, ora NON lo vedi,

sbottò e volò via, e a Ginsberg ci vollero pieni

tre mesi a scovarlo affinché mi ridesse l’anello…

 

Una volta ho incontrato Gregory a New York

dopo il mio spettacolare arresto per uno spinello di marihuana,

e ascoltata la mia triste storia 400 dollari

tira fuori dallo stivale sinistro dove sempre

teneva i soldi e me li infila in tasca,

«prendi ragazzina spiantata, ti serviranno

per l’avvocato difensore», e dell’anello non una parola

tra noi due…

 

L’ultima volta che ho incontrato Gregory,

mio padre e io camminavamo per Astor Place, in cerca di

un televisore da poco; d’improvviso sbuca Gregory come dire

dal nulla, maledicendo gli usi consumisti di un dilagante

capitalismo e inizia a sbraitare «non siete, ehi, Europei?

con una certa eleganza e gusto? beh, non vi serve

questo pattume a riempirvi il cervello di caaaazzate!» Si arrabbiò

tremendamente e poi svanì irrimediabilmente nella densa caligine

estiva, nella stanchezza di Astor Place, questa volta per sempre.

 

 

 

Anniversari a sorpresa: Carlo Porta ( La nomina del cappellano)

0

La nomina del cappellano

( Impegnati nelle celebrazioni del Sommo Poeta, e forse anche nel bicentenario dell’Imperatore, nel sessantesimo del folle volo di Gagarin e perfino nel milleseicentesimo della fondazione di Venezia, per tacere delle numerose ricorrenze private, nozze d’oro, cresime, anelli di fidanzamento, rate di mutuo e compagnia cantante,  bisogna ammettere che tutti ci siamo un po’ dimenticati che il 2021 è anche il bicentenario della morte di Carlo Porta. A mo’ d’ammenda, o forse qualcuno potrebbe dire per rincarare la dose, mi permetto di riportare una mia versione travisante in prosa italiana di un grande classico del poeta milanese La nomina del cappellan, che è, naturalmente, di un’attualità sconcertante, g.m.)

Alla Marchesa Paola Cambiasi, una vip lombarda, le era morto don Glicerio, il prete di casa, in grazia di una peripneuomonia che aveva contratto nello smazzarsi la passeggiatina della Lilla a mezzogiorno. La Lilla era una cagna maltese, tutta gozzo, tutta pelo e tutta lardo, ed era in casa Cambiasi la bestia più importante dopo la marchesa, per cui guai a farla guaire, guai a sbeffeggiarla, guai a darle del tu. L’ha imparato don Galdino che nello slancio ( fisico & spirituale) dell’elevazione le pestò la coda, per cui  sull’altare in diretta si è beccato un ‘prete coglione’ e poi un ‘fired’ in differita subito dopo in sacrestia, con tanto di deposizione della pianeta e bello veloce trottare via.  Ciononostante, non appena don Glicerio ha cominciato a dimenticarsi di respirare, ecco che salta fuori tutto un bordello di preti tirati come un fucile a elastico che vorrebbero smollarsi sul posto reso vacante dal dipartente: perché in fin dei conti, da donna Paola, sì non c’era gran rispetto per i preti, ma, figa, c’era un catering di prim’ordine da far chiudere un occhio su questo difetto non solo al primo sbarbato di cappellano, ma anche a molti dei meglio teologi di Milano. Insomma la messa era liquidata a trenta soldi e poi, senza servizi aggiuntivi, alloggio in casa, lavanderia, stiratura, cioccolato, caffè americano a colazione, la mancia a Natale, la villeggiatura, sicché, cazzo, è naturale, se correvano! Ma la marchesa non ci teneva punto a stressarsi con tutto questo casino, per cui ha comunicato a tutti i profili potenzialmente interessati di presentarsi il tal giorno e che dopo averli esaminati avrebbe scelto il curricolo più convincente ossia avrebbe fatto ciò che le fosse piaciuto ( disse così solo perché non poteva sapere di essere meritocratica: la parola infatti è stata inventata nel secolo successivo).
Il giorno del trial, anzi la mattina, ecco il palazzo tutto in movimento, preti in cortile, preti sulle scale, preti in cucina, preti nell’anticamera dell’appartamento padronale, ci sono preti di campagna, ci sono gli extracomunitari, ci sono i nostri: sembra uno stormo di corvi che si posa. Il gran rimbombo delle volte, il tramestio del mormorio di quelli di sotto, lo strusciamento di piedi, di quei ferri da mulo che hanno sotto le ciabatte quei sacerdoti, tutt’insieme fanno una fiera, uno sbraitamento che pare che siano dietro ad accoppare il Romanticismo o il Postmoderno. Abbaia la Lilla, abbaia la marchesa, entrambe risvegliate dal gran baccano; i preti sono soliti sbraitare anche in chiesa e qui ci danno dentro senza umano rispetto finché un cameriere (chiaramente il team leader )  dolce come un addetto alle risorse umane corre a strozzargli in gola tutte le chiacchiere: “Siamo in piazza, per Dio, o dove siamo? Sangue di Dio, che discrezione è mai questa? Basta, zitti: quei due in fondo…andiamo, che la Marchesa ha un cerchio alla testa! Siete maggiorenni e vaccinati e un po’ di creanza, per Dio sacrato, sarebbe tempo di averla!”. Dopo quel po’ di silenzio naturale che segue ogni intemerata, questo ambasciatore del temporale, vedendo che non ha intorno un’anima che fiata, muta voce, addolcisce l’espressione e seguita il suo discorso in questa maniera: “ Se poi prima di parlare con Lei alle volte qualcuno avesse voglia di sentire quali sono le mansioni e la mission dell’incarico, senza fare tante chiacchiere, ecco qua; così chi vuole restare resta e chi non vuole fa la grazia di sgomberare. Punto primo: quanto all’obbligo della messa, festivo o no, non c’è orario fisso per dirla; e chi è lì a servire non occorre che abbia fretta, l’orario è quello in cui Lei vuole sentirla, se vi tocca stare paramentati per due, tre, quattro ore, amen, pazienza, prendetelo come un fioretto al Signore. La messa, s’intende, sul cortino…un quartodoretta, venti minuti al massimo: due volte alla settimana dottrina per il team delle collaboratrici e per la servitù, di sera sempre la sua terza parte di rosario, salvo nel caso mancasse il quarto ai tarocchi”. Allora sentendo che uno degli skills essenziali è quello di sapere giocare a tarocchi, ce ne sono stati cinque o sei che hanno preso le scale e tra gli altri ( un vero peccato) un certo don Rocco, gran giocatore di scopone fin da ragazzo, uno talmente bravo che si gioca i funerali un mese prima di farli. “ Portare biglietti- quello intanto prosegue- fare ambasciate, fare provviste, talvolta caricarsi qualche fagotto, qualche pacchetto, correre dal sarto, dalle estetiste, dal parrucchiere, portare a spasso la cagnetta e, se occorre, scrivere un conto, una lettera al fattore”.  Anche qui sono spariti in sette o otto, uno per via della cagnetta, un secondo per quella storia dei fagotti, e gli altri cinque o sei hanno fatto la bella per non imbrattarsi con le penne, con i calamai e rischiare di sporcarsi le dita consacrate. Fra gli ultimi che sono stati visti andare via un certo don Giorgio di Zucchettino, maestro di eloquenza e di poesia dell’illustre signor Carlo Gherardini e autore di un trattato di cornutologia stampato da Iseppe Forlani di Porta Venezia. “Quanto al pranzo- quello intanto prosegue- di solito c’è posto con la padrona, salvo giusto che non venga a capitare una cena ufficiale o una persona d’alto bordo o comunque di riguardo perché in questo caso mangiamo tra di noi dello staff con le collaboratrici e me. Quanto alla campagna è tutt’altra questione: venisse anche il Papa, tutti pranzano con Lei. Là Lei si adatta anche a gente di bassa condizione, magari va a braccetto con il segretario comunale; il peggio che può capitare al cappellano di casa è quello di doversi lasciar zimbellare da un commensale salace. I restanti skills  poi sono ridere e fare i tonti, non contraddire, non passare la misura nel rispondere, a tavola ci si lasci servire, non fare gli ingordi, non allungare le mani sul piatto, non sbattere la bocca, non spalancarla, non mettersi a parlare prima di averla vuota, tenere i gomiti giù dal tavolo, non inzuppare il  pane nel vino ( summa iniuria), non frugarsi i denti con il coltello, non asciugarsi il sudore con il tovagliolo, insomma non fare nessuna di quelle porcherie che lor signori sono tanto inclini a lasciar correre come se il mondo fosse tutto loro.” Qui, vedendo quella lenza di cameriere ( team leader) che quei bravi religiosi se ne stavano quatti quatti, senza alcun segno di dissenso se si eccettua qualche arricciamento di naso e qualche smorfia, d’un salto passa alla fine dell’orazione con la ripresa di questa perorazione: “ quel che raccomando di più è questa benedetta igiene, ricordatevi che con il tanfo addosso del sudore di sotto ascella o di scarpe e con quelle unghie orlate di velluto, otterrete solo di essere chiamati porci e niente di più. Certe lendini sulle spalle, certi collarini che sembrano fatti di pelle di salame, certi colletti di camicie, certe giacchette non sono cose da portare davanti alle signore: uomo avvisato, come si dice, mezzo salvato, ho parlato chiaro e mi avete inteso”. Spaventati, sbattuti, rincretiniti come talpe quei poveri preti si sono riuniti in crocchio e, fosse effetto della sessione o di uno specchio che avessero sotto gli occhi, fatto sta che da una trentina che erano ne restò solo una mezza dozzina ( e alla fine ne sarebbe restato uno solo come gli Highlander!).
Terminata la prima scrematura, una gran scampanellata partecipa a tutti i presenti che Sua Eccellenza donna Paola infine si è alzata e che è in procinto di concedere udienza; il cameriere ( team leader) corre, si affretta e i preti intanto fanno toaletta con la saliva.
La Marchesa Cambiasi, con un elegante copricapo con motivi floreali à la Pompadour, due zeppe color nero fondente a riparar le tempie sofferenti e due grandi baffi color tabacco biondo, era seduta in sala ad aspettarli sul canapé, ma la Lilla, che stava ai di lei piedi ricoperta con uno nuovo scialle francese, non appena sente quei dodici piedi salta su, strascinando per la stanza a mò di scopa lo scialle nuovo e abbaiando a più non posso con tutto quanto il fiato dei suoi tre gozzi. E abbaia e abbaia e ringhia e mostra i denti, don Malachia, un tipo focoso, vedendosi ammutolito nel momento stesso del primo interfaccia, che presumeva amichevole e deferente, con la Marchesa, perde la flemma e le dà sulla voce e quando la chiama seccatrice fa il gesto di mollargli una pedata. Un’orsa, come dicono i poeti, che si veda strappar via o ferire l’orsacchiotto dal crudele cacciatore sotto il seno non va in così grande rabbia in così grande furor come l’Illustrissima Signora nel vedere don Malachia con il piede in aria. Per fortuna del cielo che la Lillina, con quella preveggenza che le è  propria, ha saputo schivare il colpo e accucciarsi giù, altrimenti se non vi fosse stata questa mossa, vai a sapere cosa avrebbe fatto quell’orsa per la sua cagnolina scalciata. Schivato il colpo, scacciato don Malachia, le cose erano quasi calme: già dondolava la cappellania ora su questa ora su quella chierica dei cinque candidati superstiti, quando un altro bordello ne manda via altri due in pace: è che l’illustrissima padrona di casa nel rinculare sul canapé per riguadagnare alla confort zone la sua persona agitata dall’affare del calcio, cain cain, nell’abbandonarsi schiaccia con i carichi pesanti posteriori la Lillina. Don Telesforo e don Spiridione, due pistola che ridono per niente, danno fuori a sganasciarsi in uno scoppio di risa così sciocco, così indecente che la Marchesa alfine scandalizzata sbotta anche lei con questa tirata: “ Avrei supposto che essendo loro dei sacerdoti avessero un po’ più d’educazione o, al peggio, che fossero loro noti i modi di trattare con le signore in società: m’accorgo invece in questa circostanza che non han garbo, modi, né creanza. Tuttavia poi che l’Altissimo ci ha posto in questo grado per i nostri meriti indiscutibili, è fuori di ogni dubbio farci rispettare come dobbiamo: passarci sopra, specialmente con loro, sarebbe impossibile, sarebbe una mancanza di rispetto per Noi, i mercati non capirebbero. Quanto a loro due, che il fallo sia frutto di malizia o di scioccheria basta così: se ne vadano! Quanto agli altri mi auguro che l’esempio li faccia cauti  e me ne persuadano. Così è: serva loro: adesso poi… ( Lillina? A cuccia!!).. veniamo a noi”. La Cagnetta, che fino a quel punto era stata una peste indiavolata,  ha cominciato ad agitarsi, a dimenarsi, a fare la gatta morta ( con rispetto parlando) e la viziata, ad arrampicarsi sulle gambe di don Ventura, un pretonzolo così brutto da far paura. Don Ventura, che poi tra quei tre era il più bisognoso di un beneficio, stava lì dritto dritto, spaurito spaurito, per paura di farsi scappare  un imput pregiudizievole al conferimento dell’incarico; sentiva le sue povere calzine divenire cencio, eppure, pazienza, stava lì tranquillo. Ma la Marchesa, al cui attento e compiacente occhio non era sfuggita quella simpatia, sebbene avesse lì a portata di mano due preti di maggior garbo e pulizia, vada todos, il merito innanzi tutto, ha deciso che quello di don Ventura era il profilo ideale. Appena nello staff si è saputo che egli era diventato il loro cappellano, tutti facevano vista di grande meraviglia, non potendo concepire come un tale scemo, un imbecille di prete, un giargiana, un pirla grazie a quale segreto avesse presentato il curriculum vincente.
Poi col tempo si è saputo che di curriculum aveva addosso tre o quattro fette di un salamaccio di quart’ordine avvolte nella brochure di un corso di scrittura creativa tenuto dal sullodato poeta Gherardini.

“Futilità” di Francesco Fiorentino – un’intervista all’autore e un estratto del romanzo

0

[È uscito da poco per Marsilio il romanzo Futilità di Francesco Fiorentino. Pubblico un’intervista all’autore e, a seguire, il primo capitolo del romanzo. ornellatajani]

 

___

Da dove nasce l’idea di questo romanzo?

Probabilmente il nucleo originario del romanzo – e soprattutto il carburante emotivo – me lo ha offerto la vecchia BN [Bibliothèque Nationale di Parigi, n.d.r.]. Quel luogo miracoloso dove si erano succedute generazioni di studiosi e dove sedevano fianco a fianco matematici, storici, letterati… Aveva un fascino enorme su noi giovani che la frequentavamo. Rappresentava un concentrato di quel che era ancora Parigi a fine Novecento (e non è più da tempo). Sceneggiare là incontri, erotismo, invidie mi è parso naturale. Mi dava persino una certa euforia mentre scrivevo. Tutti quelli che frequentano abitualmente una qualsiasi biblioteca sanno come questo luogo, ritenuto austero, possa generare affetti, diventare una piccola patria.

Si è occupato di letteratura francese per tutta la vita, dunque è molto difficile, nel momento in cui descrive due dei suoi protagonisti «come i personaggi di un romanzo di fine Ottocento», evitare di chiedersi a quale romanzo in particolare stia pensando. In che modo la letteratura francese studiata ha influenzato la sua scrittura? E come si passa dalla scrittura critica a quella autoriale?

In verità in quel passaggio pensavo al finale dell’Età dell’innocenza di Edith Wharton, in una chiave naturalmente parodica. Credo in effetti che le mie letture di ottocentista siano state decisive, anche perché leggo poco i romanzi di ora. Quando scrivi in proprio, le tue letture si trasformano in una serie di motivi che non ti togli dalle orecchie. Mariolina Bertini ha postato su Facebook che il mio trattamento della mondanità le ricorda quello di Stendhal, facendomi arrossire. Certo, nonostante mi sia occupato come francesista soprattutto di Balzac, il suo intuito di critica ha colto una mia scelta deliberata: per l’ironia, per la penuria di descrizioni, per la scrittura magra (come la chiamava Lampedusa), questo romanzo è – nelle intenzioni, naturalmente – stendhaliano. Un altro romanzo amatissimo che non mi abbandona mai è Adolphe di Constant. A posteriori, rileggendo Futilità stampato mi sono tuttavia accorto di quanto abbia influito su di me lo studio delle Massime di La Rochefoucauld , di cui anni fa curai un’edizione. Non solo per la presenza nel romanzo di numerose massime, anche per il sospetto con il quale si guarda ai sentimenti, per il controllo delle emozioni, per la concezione della morale come eleganza. Tutti questi miei modelli letterari sono inattuali, come vede: ma chi ha mai creduto che la grande letteratura mancasse di attualità?

In questo romanzo ha scelto un uso dei tempi verbali particolare, con una predilezione per il presente e per il passato prossimo, che ancorano la narrazione al momento attuale, e una quasi totale esclusione del passato remoto, il che rievoca, di nuovo, consuetudini sintattiche più francesi. È stata una scelta voluta?

In francese, un grande scrittore come Modiano racconta al presente e passato prossimo.  Qualche lettore mi ha detto d’essere sconcertato da certe combinazioni di tempi verbali.  Il presente è il tempo della scena e della voce narrativa che commenta. Le due forme predilette in Futilità che ha pochissime descrizioni. Elimino il passato remoto e cerco di abbandonare l’imperfetto appena possibile, senza però forzature avanguardistiche che mi sono estranee. Li sento letterari. L’imperfetto da un paio di secoli, anche grazie alla sua duttilità, è la forma verbale dominante del canone romanzesco. Per i suoi inarrivabili esempi flaubertiani e proustiani, è anche percepito abitualmente come un tempo verbale chic.

Dopo due romanzi polizieschi scritti a quattro mani con Carlo Mastelloni [uno dei quali recensito qui], Futilità è il primo romanzo completamente di suo pugno. È il romanzo di una vita? Da un punto di vista critico, le sembra che questa definizione abbia una qualche utilità o interesse?

I polizieschi scritti con Mastelloni sono stati una sfida: appoggiandoci a un genere forte, abbiamo raccontato storie, ambientate in una certa città e a una certa data, che rappresentano, secondo noi, svolte nella Storia nazionale: Trieste negli anni Cinquanta della guerra fredda, Napoli del dopoterremoto. E la sfida è stata anche scrivere a due mani: amici da sempre, siamo molto diversi e nella vita ci siamo occupati di cose diverse. Questo romanzo, per quanto breve, nasce da un lavoro di molti anni che non poteva essere che individuale. Non è un romanzo di autofiction anche se conosco bene gli ambienti e i sentimenti di cui parlo. Da una parte tratto il protagonista senza alcun riguardo, dall’altra il romanzo non si concentra solo su di lui. Molte delle cose più interessanti le dicono e fanno altri. Non è il romanzo di una vita, ma solo della mezza età maschile. Sofia, sebbene sia giovane, è completamente coinvolta in questo universo. Che uomini di mezza età abbiano una psicologia amorosa è un fatto relativamente recente. Questa prerogativa – almeno nei romanzi dell’Ottocento – è appannaggio di giovani o di donne adultere. Il prossimo romanzo lo vorrei scrivere a partire dalla gioventù, stagione, questa, ancora più decisiva nella vita individuale. Con più racconto e meno commento, come si addice a storie di giovani. Vede, il fatto stesso che progetto un nuovo romanzo, per di più su un’altra età, dimostra che questo non è il romanzo di una vita. Almeno non della mia.

___

Se un marito s’innamora di un’altra, invia avvertimenti che vengono recapitati puntualmente anche alla più distratta tra le mogli.
Chiara lo aspettava alla stazione. Già salutandosi da lontano erano imbarazzati: lui si è limitato a un cenno del capo e a un sorriso mentre lei ha iniziato a saltare sul posto. Quando si sono avvicinati, fuori da ogni consuetudine, ha goffamente cercato di baciarlo sulle labbra, poi lo ha preso per mano incamminandosi verso l’automobile. Nel tragitto verso casa, lui le chiedeva di Roberto e del loro lavoro; lei, visibilmente irritata per quelle digressioni, tornava a parlare del suo soggiorno a Parigi, di quando pensava di tornare, di come si sentiva sola.
“Se devi restare ancora per qualche tempo, ho pensato che vengo a stare io da te. Posso prendermi un congedo dalla clinica”. Era andata dal parrucchiere e si era truccata gli occhi. Il suo bel volto di quasi cinquantenne colta, riuscita nella vita, si era increspato agli angoli della bocca. Lo sguardo era offuscato in una espressione di spavento che lui le conosceva per averla vista la sera in cui era morto suo padre. Forse aveva sempre avuto paura che succedesse proprio quel che le stava succedendo.
Quando ha spento il motore dell’auto e mentre era impegnata con la chiave dell’antifurto che non ha mai saputo inserire con disinvoltura, Ugo le ha detto che preferiva restare ancora un po’ da solo a Parigi. Che questa separazione gli stava facendo bene.
Chiara e Ugo appartengono a quel genere di coppie che hanno eletto la litote a figura regina del loro lessico ordinario. Prima ancora d’ogni altro imbarazzo, ha provato stupore a sentirsi chiedere a bruciapelo:
“Hai un’altra?”
“Che vuoi dire?”
“Quello che ho detto. Ti sei innamorato di un’altra donna?”
Mentre restava perplesso, quell’altro se stesso che aveva sentito proporre a Sofia di venire a Parigi, ha ripreso la parola e non gli è rimasto che ascoltarlo sgomento mentre ammetteva sfrontatamente che si, c’era un’altra di cui si era innamorato e con cui voleva provare a stare assieme. Il verbo provare era l’unica concessione, peraltro misera, che ha fatto.
“Allora pensi proprio che sia finita tra noi?” ha sussurrato guardandolo fisso negli occhi. Sperava in una protesta che le permettesse di toccare terra, di trovare una piattaforma minima da cui partire per una campagna di riconquista.
Prima ancora che cercasse di rassicurarla, di dirle che per carità lei è e resterà sua moglie, l’altro, il parlatore, circospetto come un assediato, le ha ribattuto freddo un: “Non lo so. È proprio quanto voglio capire” che ha precipitato nello sgomento tutti e due.
Roberto non ha cenato con loro.  Ugo ha inutilmente provato a parlare di spettacoli parigini, dell’Europa dei salotti, della clinica psichiatrica. Tentava persino di fare dello spirito. Contro quell’altro sé sconosciuto a tutti e due che si era arrogato il diritto alla parola nei momenti decisivi, voleva provarle che potevano continuare a conversare come sempre, che non doveva preoccuparsi troppo di quel che gli stava accadendo. Lei proprio non ce la faceva a raccogliere questo messaggio rassicurante che forse non doveva esserlo poi tanto. Ostentava un’espressione lugubre e gli rispondeva a monosillabi. Voleva parlare solo di una cosa. Non la fermava neppure il rischio dell’indiscrezione. Eppure, loro di casa allo stile ci tengono.
Ha cercato di portare più volte il discorso su Roberto finché lei lo ha interrotto:
“È un bambino, per di più nevrotico. Mi debbo continuamente occupare di lui. Non ce la faccio più a fargli da balia”.
E così hanno parlato di quella che eufemisticamente chiamano la nuova situazione. Subito si sono delineate due strategie argomentative. Lui denunziava all’origine della crisi difficoltà del loro rapporto. Le chiedeva di ammettere che c’erano ragioni per separarsi e quasi sbalordiva che non ne convenisse. Lei gli rispondeva che il loro rapporto era passabilmente prospero e che soltanto questa sua passione era responsabile di ciò che stava avvenendo. Messo davanti a una sorta di aut aut (“allora dobbiamo separarci subito”), l’altro che parla da dentro di lui si è di nuovo intromesso affermando che, sebbene fosse sicuro di sbagliare, comunque non se la sentiva di sottrarsi a quest’amore appena intravisto. Allora Chiara si è messa a sostenere che lui non amava una nuova donna, ma voleva soltanto liberarsi di lei.
Ugo ha commentato: “Vedi, gli argomenti contano così poco in questi momenti che ce li possiamo scambiare”.
Ma Chiara ha reclamato il diritto a capire cosa stesse accadendo.
Erano le tre e mezza quando Ugo si è ritirato nel suo studio. Dietro la porta chiusa ha provato un sentimento di liberazione. Il più era fatto: non restava che attendere l’indomani e partire. Resistere ancora per poco, non commuoversi, non guardare. Si dava forza con il pensiero che stava facendo questo anche per Chiara. Che quando tutto sarebbe finito anche lei avrebbe dovuto riconoscerglielo. Improvvisamente si accorge che sta pensando come quello che parla al suo posto nei momenti decisivi. Che lo starà colonizzando?
Ha riempito il cestino della carta straccia di volantini pubblicitari e resoconti bancari, accumulatasi nella posta. La sua sedia, quella scrivania cui era rimasto seduto per giornate intere gli sembravano estranee, pronte ad accogliere un’altra persona.
L’ha raggiunta che era già a letto e guardava fisso davanti a sé.
“Non credevo che fossi il tipo di cinquantenne che si mette con una di venti anni”. La sua sembrava ancor più che una riprovazione morale, una censura di gusto.
“Ma chi ti ha detto che mi sono innamorato di una ventenne?”.
Si è voltata per non rispondere. Le ha ripetuto la domanda arrabbiato. È scoppiata a piangere. Si è chiusa in bagno e poi è andata a dormire sul divano.
L’indomani mattina quando si è svegliato, era già uscita.
Se i matrimoni si rompono, è sempre per i soliti scontati motivi. È molto più difficile capire come resistono.
Una cosa tuttavia si può dire. Si continua a restare assieme soltanto a condizione, necessaria ma non sufficiente, che si rispetti un tabù. La più ovvia di queste astensioni è prescritta dal codice civile. Chi la trasgredisce commette peccato e insieme viola quanto ha stabilito per contratto davanti alla Legge. Non è detto tuttavia che l’infedeltà sessuale sia l’unico tabù; anzi a volte non è neppure tale.
Le condizioni più o meno tacitamente accettate possono essere varie e di varia natura. Che non ci si innamori, che non si passino le vacanze con l’amante, che non si confessi l’adulterio o non lo si renda pubblico, che non si facciano regali troppo costosi all’altra, che non si abbandoni il domicilio… Conosco due che, pur detestandosi, sono rimasti sposati tutta la vita perché non potevano dire ai rispettivi genitori che si erano lasciati. Quando i vecchi sono morti, era troppo tardi.
Una decina d’anni di matrimonio sono bastati a rendere Ugo e sua moglie l’uno per l’altra persone di famiglia. Si amano come se la natura e non una scelta li avesse assortiti nella stessa casa. Le loro condivisioni partono da ricordi e gusti e si estendono fino ai cassetti della biancheria. Soprattutto sono abituati a dormire nello stesso letto.
Intorno ai cinquant’anni tuttavia una tranquilla vita domestica, che per le generazioni precedenti rappresentava un traguardo, non è più in grado di cancellare altre aspettative. Per potersela consentire senza deprimersi, a quest’età i coniugi moderni devono procacciarsi qualcosa che li impegni senza tregua. Si concentrano nella carriera, si sfiancano ad accudire figli delicati, si sciupano in avventure, si trasformano in turisti coatti, intessono intense frequentazioni mondane. Senza però nessuna garanzia che la loro relazione non si trasformi lo stesso in un inferno.
Ugo e sua moglie, che non hanno figli, si sono trovati un terzo. Roberto, di qualche anno più giovane di loro, passa con Chiara la maggior parte del suo tempo. Non si vedono infatti soltanto in ospedale, dove lavorano nello stesso reparto, quando partono per i congressi o scrivono assieme un articolo. Roberto, dopo essersi lasciato con la moglie che non sopportava la sua intimità con Chiara, da circa sei anni abita un appartamentino sul loro stesso pianerottolo. Cena spesso con loro, vede le partite alla televisione con Ugo, accompagna volentieri Chiara a fare la spesa. Sono un vero e proprio ménage à trois, senza nulla di piccante, molto abitudinario. Roberto è un buon amico che gli vuole sinceramente bene e si rimette spesso alla sua esperienza quando si tratta di pagare le tasse o di dirimere conflitti con colleghi. Tra loro non c’è alcuna rivalità e le rispettive influenze sulla vita di Chiara sono delimitate in sfere dalle circonferenze non intersecantesi. Lui non si sognerebbe di accompagnare la moglie a un Congresso di Psichiatria e Roberto non oserebbe accompagnarla a comprare i divani di casa.  Se parte, presume che passino la notte nello stesso letto, ma mai se lui è in casa potrebbero dormire assieme. È questo infatti il principale tabù su cui si regge il loro matrimonio. Nessuno può dividere il letto con altri se il coniuge dorme sotto lo stesso tetto. Un tabù in fondo vale l’altro.
Provate voi a spiegare a una ragazza di venticinque anni un matrimonio così. Contraddice tutte le idee che si è fatta in ventitré anni di televisione.  Altro che morale o religione. Tutta la saggezza catodica regolarmente assunta grazie a una interminabile serie di telefilm e di varietà, si erge come un immenso altare che le impedisce di concepire simili nefandezze. Un marito che tollera il  tradimento casalingo della moglie non può essere che un pervertito o un cinico affarista che si preoccupa soltanto di accumulare denaro. Una donna così, cioè una puttana, prima o poi spingerà l’amante a uccidere il coniuge. Quanto poi al giovane che viene irretito in un simile ménage, è inevitabilmente una vittima, un debole, uno da compatire.
“Ma non è un tradimento perché non mi sottrae niente che io desideri”.
“E non ti importa neppure di essere considerato un cornuto?”
“Non mi sono mai pensato così né mi importa molto di chi potrebbe considerarmi tale”.
“Se non fate più l’amore, che cosa fate assieme?”
“Stiamo insieme da tanto tempo. È un piacere anche questo.”
Certo non è facile descrivere sentimenti amorosi diversi dalla passione senza essere stucchevoli e un po’ deprimenti.

 

Clizia: un blog pugliese che non è solo un blog. Intervista agli ideatori

1

 

di Davide Gatto

Cinema, politica economica, letteratura, filosofia e sociologia: da Kant a Houellebecq, da Von Trier a Von Hayek, dalle regole dei social ai buchi neri. Da tre mesi, a cadenza settimanale, è ripartito dopo un periodo di latenza Clizia Web, un blog che è innanzitutto un collettivo e, da aprile 2019, anche una associazione di promozione culturale sul territorio. 

Approfittando dell’allentamento delle misure anti-Covid, incontro i due ideatori, Roberta Muri e Francesco Caiazzo, ad un tavolino all’aperto del bar sotto casa: siamo nel primo Salento e l’aria estiva è molto dolce nell’ombra nuovamente vociante del viale alberato. Conosco Roberta e Francesco da tempo; come molti altri giovani del Sud, con i quali condividono lo strappo dalle radici e l’esperienza dell’erranza per legittime e anzi lodevoli ambizioni culturali e accademiche, vivono per ora di soggiorni lunghi altrove, agognati, e di altrettanto agognati rientri. In occasione di questi, troviamo sempre il modo di incrociare esperienze, riflessioni, letture, commenti e progetti in cantiere e cantierabili: preferibilmente attorno a un tavolino del bar sotto casa, come questa volta.

L’estensione del sito (www.cliziaweb.com) recita “Blog culturale pugliese dal 2016”, e molti redattori, nelle loro stringhe identificative, si qualificano con lo stesso aggettivo. Colpisce l’insistenza sulla matrice territoriale dell’iniziativa: come conciliare il contesto trans-territoriale e “liquido” della rete con una dichiarazione così esplicita di territorialità identitaria?

Pensiamo che territorio e web siano due realtà che possono coesistere e ancora alimentarsi a vicenda tramite il continuo scambio di contenuti e di forme. Dopo molte riflessioni ed esperienze sul nostro territorio e al di là di questo, siamo divenuti consapevoli dell’urgenza di un progetto che conciliasse entrambi. L’ambiente della Rete, aperto e potenzialmente immenso, è una finestra sul mondo che ci dà la possibilità di guardare oltre la siepe, ad altri territori. In particolare, la Rete è fatta per noi soprattutto delle storie e dei rapporti con studenti, studiosi e ricercatori che conosciamo in ogni dove e che invitiamo a collaborare al progetto. In questo quadro sempre variabile e molto fitto di sensibilità e di esperienze che si intrecciano, però, è quasi necessario fissarsi e riconoscersi in un punto determinato, che è costituito nel nostro caso dall’identità territoriale. Clizia si protrae fuori, nelle università italiane, nei luoghi fisici e intellettuali della cultura, e poi fa ritorno a casa in Puglia, dove ha le proprie radici e dove ha sede l’associazione culturale. È in fondo nella natura di Clizia che questo movimento aperto su vari orizzonti cerchi degli spazi in cui plastificarsi, come avviene per esempio sui treni e nei lunghi viaggi che molti di noi compiono perché studiano e lavorano fuori dalla regione. Solo con il ritorno, però, con il restare anche, tutti questi apporti trovano il loro più vero punto di caduta, contribuendo a costruire un’identità che è plurale, dialogica, mai dogmatica. Tenere insieme sguardo locale e prospettiva globale è possibile anche grazie alle persone che fanno parte di Clizia. L’eterogeneità del gruppo, infatti, sia tra i soci dell’associazione che tra i componenti del collettivo del blog, stimola un dialogo e un confronto continui che non possono che essere fecondi in entrambe le direzioni.

Quando parlate di territorio non riesco a non pensare che siamo a due passi da Taranto e dentro il primo Salento, una realtà che forse compendia in modo esemplare tante storture dei nostri tempi: la svendita dell’ambiente e dei diritti fondamentali della persona alla grande industria e al turismo di massa, il persistente e comodo divario tra Nord e Sud, l’emigrazione forzata dei giovani più brillanti, il progressivo invecchiamento della popolazione. La rivendicazione della vostra identità meridionale e pugliese può essere dunque interpretata anche come una dichiarazione di attivismo civico, se non militante?

La rivendicazione della nostra identità meridionale e pugliese contiene chiaramente l’istanza di denuncia di molte delle storture che in modo così evidente vediamo gravare sulla nostra terra e su tanti giovani come noi. È per questo motivo che abbiamo sempre fatto ruotare l’operato di Clizia attorno a questi temi. Nel 2019, per esempio, noi studenti universitari abbiamo approfondito le vicende legate a Taranto ed alla sua grande (se non altro per dimensioni) industria e presentato il nostro contributo presso la Biblioteca comunale di Grottaglie. Per l’occasione avevamo scelto il titolo Fumo negli occhi. Le voci dei giovani sull’ex-Ilva. È indubbia quindi la matrice attivistica del nostro impegno, ma va sottolineato che esso si dispiega poi nei modi peculiari di un processo lento, di studio e di approfondimento, e che è quindi fortemente connotato in senso culturale: l’articolo sul blog, la rivista autoprodotta, la conferenza pubblica.

Avete deciso di intestare blog e associazione a Clizia, la figura chiaramente allegorica che Eugenio Montale canta nella Primavera hitleriana come colei che “il non mutato amor mutata” serba. Potete spiegare le ragioni di questa scelta e quali linee programmatiche implica?

Il mito racconta che Clizia, innamorata di Apollo-Sole ma non corrisposta, venne trasformata in girasole, costretta dunque a seguire il quotidiano corso celeste dell’amato dalla terra in cui era piantata. Montale indica proprio lei come modello mitico a cui rifarsi per attraversare la bufera che sempre imperversa sul mondo. La degradazione a vegetale della ninfa assume per Montale il significato di un riscatto da realizzare nella resistenza: impulso alla conoscenza critica, volontà di interpretare la complessità del reale e non di rifuggirla per inesistenti mondi migliori. Il mito ovidiano, ripreso da Montale, è stato il punto di partenza del nostro progetto, ciò che ci ha inspirato quando ci siamo seduti ad un tavolo e abbiamo pensato di dover creare un contenitore culturale che desse voce ai tanti giovani che, come noi, aspettavano – appunto – soltanto l’Occasione. In effetti il primo passo, ovvero la costituzione di un collettivo di persone che potesse animare il blog, ha visto molte adesioni nonostante della proposta non ci fosse che questa idea embrionale. Il mito di Clizia rivisitato da Montale era evidentemente un buon biglietto da visita, che continua oltretutto a forgiare chi noi siamo: un insieme di persone dallo sguardo plurale e attento, alla ricerca di interrogativi più che di comode risposte, ostinatamente fiduciose in quelle forze del sapere e della ragione che l’Apollo-Sole del mito simboleggia.

Nel suo Vita activa (1958) Hannah Arendt lamentava la scomparsa della praxis e della lexis, della capacità cioè di produrre il nuovo attraverso il libero confronto dialettico, dallo spazio pubblico. Forse una conferma della sua analisi è l’ipertrofia perlopiù vuota del “discorso” che la tecnologia informatica ha reso possibile, in assenza di corrispondenti novità politiche. Voi promettete di ricucire il discorso e l’azione, l’attività culturale e l’attivismo civico, la dislocazione trascendente della Rete con il radicamento immanente sul territorio; intanto, però, come contate di ritagliarvi uno spazio di visibilità tra la polvere di parole e le infinite galassie di blog che intasano l’universo virtuale?

È vero, sono migliaia i blog culturali simili al nostro per contenuti ed obiettivi. Il nostro tratto distintivo e la nostra forza è però l’identità, che è territoriale, neomeridionalista e basata sull’attivismo civico. Soprattutto miriamo a moltiplicare i punti di vista, non a sottometterli a un canone precostituito: contributi coraggiosi, ben argomentati e contrari all’opinione mainstream del momento, da cui scaturisca il dibattito, sono sempre ben accetti. Infatti non vogliamo semplicemente limitarci alla pubblicazione di articoli; ambiamo al dibattito, online così come in presenza. Vogliamo, poi, essere presenti sul territorio e dargli una voce, che giunga nella sua autenticità quanto più lontano possibile grazie allo straordinario potere di amplificazione del web. E siccome ci sono persone che per necessità o per scelta non sono presenti sui social network – che pure rimangono la cassa di risonanza principale per diffondere i contributi del blog -, abbiamo affidato per statuto alla nostra parte associativa il compito di raggiungere anche loro. A fine giugno, per esempio, stamperemo e distribuiremo la nostra terza fanzine, per la quale abbiamo scelto il tema della città, con uno speciale dedicato a Taranto. Come cambiano i luoghi che viviamo ogni giorno? Che tipo di pratiche e di consumi si sono affermati durante la pandemia? Queste sono alcune delle domande da cui partiremo e a cui proveremo a rispondere con altre domande. Faremo, poi, delle presentazioni itineranti tra le province di Brindisi e Taranto, coinvolgendo gli autori degli articoli e gli assessori alla cultura perché crediamo nei percorsi inclusivi e nel costante dialogo con le istituzioni pubbliche. È importante sottolineare che tutte le nostre iniziative sono interamente autofinanziate con il contributo dei soci e con donazioni liberali, ciò che ci consente di preservare intatta in ogni circostanza la nostra indipendenza critica.

***

Si è fatto tardi e ci salutiamo, non prima però di aver chiacchierato ancora un po’ delle loro Bologna e Vicenza, Stoccolma e Parigi, della mia Milano, di questo e di quello. E mentre rincasando esco dall’ombra nella luce netta del sole penso quanto sia importante il radicamento territoriale, solo dall’attaccamento quasi fisico a un luogo, ai suoi colori, ai suoi odori, alla gente che lo abita può nascere un autentico impegno civico e politico, penso a me, come tanti nato a Milano da genitori meridionali immigrati e fondamentalmente senza patria, consapevole e attivo politicamente ma nel modo teorico e cerebrale di chi discute di rivoluzione ma non ha una terra sua da redimere, e poi penso a Roberta, a Francesco e agli altri giovani di Clizia, alla lucida determinazione con cui intendono sfuggire al subdolo richiamo dell’Altrove che oggi laicamente si presenta nelle forme disincarnate della “realtà” virtuale e della dimensione sostanzialmente apolide delle accademie e della cultura, e poi ancora penso alla bellezza senza tempo di questi luoghi e allo scempio che solo uomini, altri uomini ne hanno fatto, e mi sembra di sapere con certezza che se mai finalmente questa terra – ogni terra – potrà trovare un riscatto, se mai finalmente una nuova strada potrà essere aperta, lo dovremo a giovani e meno giovani che come la Clizia del mito non rinnegano la terra in cui sono piantati, ma la curano amorevolmente senza mai distogliere lo sguardo dalla vastità del cielo e dal carro di Apollo-Sole che placido la attraversa.

 

 

Le architetture del desiderio nel cinema di Céline Sciamma

0

[È uscito per Asterisco Edizioni Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, a cura di Federica Fabbiani e Chiara Zanini. Il volume presenta una bella panoramica sulla produzione della regista e sceneggiatrice francese, con contributi, oltre che delle curatrici, di Silvia Nugara, Elisa Cuter, Daniela Brogi, Ilaria Feole; lo concludono una lunga intervista alla regista e una postfazione di Ilaria A. De Pascalis, che pubblico in anteprima. ornellatajani]

 

Una scrittura che lascia spazio al possibile: il cinema di Céline Sciamma
di Ilaria A. De Pascalis

Il nome di Céline Sciamma si è imposto da diversi anni come imprescindibile nei discorsi relativi al cinema europeo; sin dal suo film d’esordio, Sciamma ha catturato subito l’attenzione dei festival internazionali, ricevendo nomination e premi in tutta Europa sia per i film da lei diretti che per quelli per i quali ha scritto la sceneggiatura. La sua figura è divenuta, dunque, sempre più rilevante nella riflessione pubblica, costringendo tutt* noi a confrontarci con una serie di interrogativi che hanno a che fare con il racconto di soggettività strutturalmente trasformative, ma anche con il posizionamento di tutte le persone implicate nell’atto narrativo, soprattutto rispetto al potere che esso implica.

Sia da regista che da sceneggiatrice, Sciamma è sempre estremamente consapevole dei linguaggi che sta utilizzando, andandosi a confrontare con tutti gli aspetti della produzione artistica, e valorizzandone soprattutto il potere comunicativo. Come emerge in modo molto chiaro ed efficace dai saggi contenuti in questo volume, i vari livelli di scrittura di Sciamma sono sempre protesi verso l’esplorazione di qualcosa d’altro, di qualcosa che emana al di fuori di sé e permette un contatto complesso – aspro, seducente, straziante e rassicurante al tempo stesso – con le altre persone. Nel raccontare soprattutto gli anni della giovinezza, dall’infanzia al primo ingresso nell’età adulta, questa regista si confronta in particolare con il nascere di una necessità di entrare in comunione con i/le propri* pari, in un intreccio inestricabile di identificazione e desiderio, di paura e dominio.

Le produzioni che la vedono coinvolta in ruoli creativi di spicco propongono in questo senso una convergenza unica fra la molteplicità delle soggettività messe in scena e la diversità dei linguaggi artistici utilizzati: si pensi ad esempio al rapporto fra la musica e la performance corporea in Bande de filles, esplorato qui da Elisa Cuter; oppure alle dinamiche di produzione dello sguardo artistico e dell’immagine – fissa e in movimento – messe in scena in Portrait d’une jeune fille en feu, come spiegato in modo raffinato da Daniela Brogi. La riflessione di Sciamma espone l’articolazione di tutte le soggettività coinvolte – personalità creative, personagg* mess* in scena, spettatorialità implicate e concrete – ponendoci di fronte alla perdita di qualunque percezione unitaria e stabile del sé, a favore di una esplorazione delle frange più nascoste della propria esperienza.

Quello che forse più conta è che la sua pratica artistica è anche, e consapevolmente, una indispensabile pratica etica, per l’apertura dei possibili attraverso la propria visionarietà. Nella preziosa intervista inclusa in questo volume, Sciamma si confronta con un’altra artista femminista francese recentemente scomparsa, Agnès Varda. Di fronte alla sua poliedricità e alla ricchezza della sua creatività, sottolinea: «Per me, è questa la sua eredità. Sapere dove guardare. Come ha politicizzato il suo sguardo e come ha reso la sua vita così grande, così bella. Questo è il suo esempio per me. La gioia di essere contemporanee». Politicizzare lo sguardo per vivere in piena consapevolezza e complessità lo spazio e il tempo in cui si è collocate, come esperienza di gioia e bellezza: questo inestimabile insegnamento di Varda viene a trasmettersi anche nell’operato di Sciamma, costruendo – assieme ad altre artiste che la regista nomina nell’intervista – una importantissima genealogia di posizionamenti sovversivi impoteranti. Si tratta sempre di raccontare una prospettiva originale, di dare spazio a qualcosa che appariva impensabile, di confrontarsi con aspetti spaventosi e sconosciuti della propria esistenza per andare oltre una sopravvivenza materiale e addentrarsi in quella “gioia” così radicale.

In questo senso, è possibile associare la proposta di Sciamma a quella di un’altra artista e teorica che con i suoi scritti ha plasmato i femminismi contemporanei, aprendoci all’inesplorato. Audre Lorde scrive già nel 1977

«Per le donne, quindi, la poesia non è un lusso. È una necessità vitale della nostra esistenza. Essa forma la qualità della luce all’interno della quale noi affermiamo le nostre speranze e i nostri sogni per la sopravvivenza e il cambiamento, dapprima sotto forma di linguaggio, poi di idea, infine di più tangibile azione. La poesia è il modo con cui noi contribuiamo a dare nome a ciò che non ha nome, così che possa essere pensato I più lontani orizzonti delle nostre speranze e paure sono lastricati dalle nostre poesie, scolpite nella roccia delle nostre esperienze quotidiane.»

In altre parole, le donne possono riappropriarsi della propria agency a fronte delle forme di minoritarizzazione ed espunzione a cui sono state sottoposte dai canoni dell’arte e della storia occidentali; e possono farlo proprio attraverso la capacità creativa, intesa come inalienabile forza di produzione di nuovi immaginari e dunque di nuovi scenari per l’esistenza.

Questa comunanza fra Sciamma e Lorde, come con altre figure del pensiero contemporaneo orientate alla sovversione delle strutture tradizionali che spesso la regista cita come suoi riferimenti è dettata dalla esplicita e militante condivisione di uno sguardo queer. E in questo senso, questo volume a lei dedicato si propone in una posizione altrettanto militante ed eticamente rilevante, da un lato per la sua scelta di indagare il modo in cui tale sguardo queer si traduca in ciascuno dei film legati a Sciamma; e dall’altro per il suo legame con le scelte di attivismo delle sue curatrici e autrici, tutte figure importanti del dibattito attorno alla critica femminista e lesbica nell’Italia contemporanea. Il libro e la produzione di Sciamma si collocano nell’ambito della stessa esigenza: produrre un discorso pubblico quanto più articolato e diversificato possibile su cosa significhi essere portator* di soggettività queer e su come raccontare queste esperienze così fortemente radicali mantenendo aperto il flusso di una comunicazione condivisa.

Mi pare si renda qui indispensabile un chiarimento: si parla per Sciamma di uno sguardo e di una soggettività queer perché il suo cinema si propone programmaticamente di sovvertire le dinamiche dell’eteronormatività e di infrangere le strutture del binarismo che vede l’identità come determinata attraverso la tensione fra una serie di dialettiche (sesso-genere, eterosessuale-omosessuale, maschile-femminile). I principali riferimenti teorici che ricorrono per tutto il volume, e a cui tutte le autrici dei saggi fanno giustamente riferimento, sono quelli che sono considerati alla base di alcuni recenti sviluppi della queer theory, Judith Butler innanzitutto, ma anche Jack Halberstam e Paul B. Preciado: tutt* esponenti a loro volta di questo intreccio fra proposta teorica e pratica etica, in una configurazione degli immaginari che rivendica secondo nuove traiettorie quello slogan per cui “il personale è politico” che è stato tanto rivoluzionario per i femminismi occidentali.

Le posizioni di Butler, Preciado e Halberstam sulla performatività dell’identificazione di genere e sulla sua potenziale trasformatività rispetto alle strutture binarie in cui siamo assegnat* alla nascita diviene la struttura portante attorno a cui ruota parte delle interpretazioni dei film di Sciamma proposte dai vari saggi. Questa triade di riferimenti teorici è indispensabile soprattutto per le possibilità di ripensare cosa voglia dire essere soggettività prese dal desiderio e dalle strutture di potere negli scenari contemporanei: tutt* e tre infatti si propongono di mettere in discussione cosa voglia dire posizionarsi all’interno di uno schema dialettico, e aggiungono alla scena gli sguardi dai e nei margini, le corporeità ribelli, il recupero di sensualità e corporeità troppo spesso ridotte nei termini di una virtualità di immagini effimere e bidimensionali. Il cinema di Sciamma, come le teorie di Butler, Preciado e Halberstam, affonda profondamente nella ricerca di una dimensione sinestetica dell’esperienza, andando a recuperare anche gli aspetti più confusi, a volte spiacevoli, dei posizionamenti soggettivi e del coinvolgimento sensoriale.

È a partire da Preciado e Halberstam che Fabbiani può portare avanti la propria ricerca del corpo lesbico in Naissance des pieuvres, a favore di una messa in scena di corpi che si rivelano sempre radicalmente inadeguati rispetto alle strutture del desiderio. Ed è in questa cornice teorica che la trasformatività adolescente messa in scena dal film assume forme di ribellione, si fa portatrice di una provocazione rabbiosa. Soprattutto, Nassance des pieuvres propone un’analisi di questa crisi assumendo uno sguardo politicamente femminista, confrontandosi già con quel female gaze proposto da alcune teoriche della Feminist Film Theory come possibilità alternativa allo sguardo patriarcale e che sarà poi obiettivo programmatico in Portrait d’une jeune fille en feu. La riflessione di Fabbiani sulle strutture visive simboliche del film ricolloca le immagini di Sciamma e il suo immaginario nella sensorialità perturbante del desiderio.

La messa in discussione del binarismo di genere e sui suoi limiti è al centro anche dell’analisi di Tomboy, che Silvia Nugara ha affrontato in relazione al dibattito filosofico contemporaneo. L’interrogativo sulla riconoscibilità individuale e sociale di corpi e soggettività si confronta con le complessità dell’identificazione proposta per Laure/Mickaël e con la costruzione tramite il tessuto visivo della sua performance di genere. Si riparte ancora una volta da Judith Butler per sottolineare: «Si tratta però anche di notare che il genere, qualsiasi genere, in quanto fascio di relazioni di potere, assetto di esempi, norme e aspettative estetiche e comportamentali, è uno script che crea i nostri corpi.» Il saggio si addentra con perizia nella tortuosità delle dinamiche di configurazione di gruppi familiari e amicali da parte delle persone “transfughe” rispetto al gender che è stato loro assegnato alla nascita: parte dall’assegnarsi un nuovo nome come strumento di fuoriuscita rispetto alla soggettività assegnata dai genitori, per procedere verso la ricerca di una riassegnazione fisica nel gioco con il gruppo di pari.

Ed è proprio questo snodo dato dalla relazione fra le soggettività e i/le propri* pari che tocca un tasto fondamentale nel cinema di Sciamma. L’amicizia, e soprattutto l’amicizia femminile al centro – sin dal titolo – di Bande de filles, non è però una generica celebrazione di sorellanza: come già nei film precedenti, anzi, i rapporti fra i/le giovani mess* in scena non possono mai essere letti in modo stabile e univoco. Amplificando la confusione radicale fra identificazione e desiderio che connota l’età adolescenziale in generale e strutturandola attraverso le forme politiche della messa in scena del potere nella metropoli contemporanea, il film costruisce una serie di tensioni fra Marième e le altre persone con cui entra in contatto. Queste tensioni e complessità permettono allo sguardo della macchina da presa di indagare gli scenari della differenza, e la forza di ribellione di uno sguardo dai margini, anche in assenza di una narrazione “di successo”. Come espresso da Elisa Cuter nella sua analisi, Sciamma rifiuta l’idea di uno sguardo “subalterno”, ma resta fedele anche al suo posizionamento “estraneo” rispetto all’esperienza della banlieue che racconta; al contrario la macchina da presa va a mescolarsi ai corpi delle adolescenti che racconta senza arrogarsi il diritto di possederne lo sguardo, ma affiancandosi ad esso. È così che hanno origine alcuni dei momenti più potenti del film e analizzati da Cuter nel suo saggio: il ballo del gruppo delle ragazze sulle note di Diamonds, lo sguardo pieno di desiderio di Marième sul corpo nudo di Ismaël, l’inquadratura finale della protagonista in transito fra identità diverse.

La potente circolazione del desiderio e il reclamare il diritto allo sguardo da parte delle donne collocate ai margini è il filo che accomuna Bande de filles all’acclamato Portrait d’une jeune fille en feu. Come accennato sopra, Daniela Brogi si confronta con la complessa stratificazione creativa e artistica del film, a partire dagli sguardi interrogativi ed esplorativi delle pittrici al centro della sequenza iniziale. Viene sottolineato in generale come la messa in scena dello sguardo implichi in modo anche radicale non solo la prospettiva e il desiderio di chi guarda, ma produca anche una identificazione specifica nella persona guardata. Sciamma «non opera, in altre parole, uno sguardo orientalista. C’è un’erotica, in questa scena; ma non è un’erotica del dominio. Anche qui, in effetti, si ha un ritratto, un portrait, per la capacità di parlarci di una persona singolare, di un corpo libero, slegato dall’aspettativa di uno sguardo che la possieda.» A questa prospettiva così produttiva si deve aggiungere il fatto che questo film, come già i precedenti, vada ben oltre l’idea di una pittura – o di un cinema – che siano prodotti esclusivamente dallo sguardo.

Il cinema di Sciamma coinvolge in modo travolgente tutti gli elementi implicati nella soggettività e nell’esperienza del mondo. I nostri sensi, le nostre dinamiche di identificazione, tensioni affettive, il passato e le conoscenze, le trame che abbiamo tessuto con chi è venut* prima di noi e con chi – forse – verrà dopo: tutte queste dimensioni sono coinvolte nel momento cinematografico, dentro e fuori lo schermo, come pare sia dimostrato anche dall’ultimo film, Petite maman, secondo quanto scritto in questo volume da Ilaria Feole.

Il rapporto genealogico (nel senso più profondamente femminista e politico del termine) con un passato complesso produce nuove possibilità, rendendoci consapevoli di come l’arte non sia mai “un gesto neutro”, come detto sempre da Brogi nel suo saggio. Ed ecco che torna il rapporto anche problematico con le genealogie del passato anche quando Sciamma – nell’intervista in questo volume – dichiara «ho passato la vita ad amare film che a volte mi odiavano.» La necessità di trovare una propria posizione in un cinema mainstream che ci ha ripetutamente espunt* dalla possibilità dell’esistente è ciò che spinge Sciamma a produrre nuovi spazi che ci contengano, a dare vita a immaginari che si confronti con i posizionamenti queer.

La frase di Sciamma riconduce la riflessione sulla dimensione anche privata aperta dall’esperienza filmica, sulle difficoltà che attraversiamo nel rapporto costante con immaginari che non ci appartengono ma in cui comunque ci immergiamo. Questo confronto con l’ignoto, per i/le suoi/e personagg* come per chi guarda i suoi film, è strumento indispensabile per la sopravvivenza. E le pratiche etiche e politiche condivise da i/le suoi/e personagg* e gli/le spettator* consistono nel negoziare, faticosamente e quotidianamente, i propri spazi di libertà a fronte di una comunità irreggimentata, che spesso non comprende la necessità di spostare i confini soffocanti con cui si è costrett* a definirsi. Il suo stile, come hanno mostrato i saggi inclusi in questo volume, è orientato fra le altre cose a tradurre questa tensione continua, questa struttura dinamica in cui le soggettività sono prese, e a darci così un terreno più sicuro in cui spingere via i limiti delle identità a favore delle esplorazioni del possibile, con tutta la gioia dell’impoteramento.

“Tutti gli occhi che ho aperto”: frammenti luminescenti di rivelazione

0

di Prisco de Vivo

 

Se nel passato dell’alto medioevo si chiedeva ad una poetessa come Christine de Pizan: “Cos’è la poesia?” sicuramente, senza esitazioni, avrebbe risposto: “È un fiore che sboccia numinoso sul petto”.

Una visione gotica vicina quasi  a Cristina Campo, alla sua ossessione per la perfezione (rovesciata alla bellezza); quella celata e nascosta, irreale e cristallina che si frantuma solo con la parola e si sprigiona con lo spirito.

In modo che estremamente essenziale questa dimensione  la ritrovo anche  in Franca Mancinelli, spece in  quella sua appartenenza alla pienezza; quella voce lenta che nasce dalle crepe di un modesto vivere. Franca Mancinelli è una poetessa che vive appieno con il suo mondo trascendente, lo misura con l’intermittenza della sua crescita interiore che è dettata quasi sempre da una sola peculiarità quella di essere veritiera.

Se ci soffermiamo ai suoi primi lavori come: “Mala kruna” oppure “Pasta madre”, la sua poesia affronta la “duttilità” ed allo stesso tempo il dissolvimento della parola, quello che si incardina al racconto in una continua metamorfosi. La sua è una poesia arcuata, ed ingemmata che non è riuscita a disperdersi al tempo ed allo spazio.

Nell’ultimo periodo in cui ho incontrato Franca le ho chiesto com’è nato questo suo libro e lei, come ha risposto ad altri, ha esclamato: “mentre ero seduta sul pavimento cercavo la forma che accogliesse tutti gli occhi che ho aperto”!

La somma e la traccia nevralgica del libro risulta proprio l’intermezzo, ma, di grande intensità risultano, anche, il centro e le pagine finali del testo.

È un dettato intimo e frammentario, un discorso che rimane in un equilibrio funambolico; c’è il desiderio di cadere in un profondo spazio semantico “tutti gli occhi che ho aperto”.

Sono poesie che aprono l’anima ed il cuore per chi si esprime per sollecitazioni intime ed abbandona il corpo per attraversare le linee del suono, del sussulto e dell’estasi.

Come quegli attraversamenti silenziosi e pudici che caratterizzano le azioni delle mistiche, come quelli sinuosi e lenti che Teresa di Lisieux, la santa protettrice di Francia, con la sua tenera teologia della “piccola via”; evocava  quegli umili gesti che parlavano di verità e di rivelazioni lucide che rimangono nel fondo della  coscienza santa.

I versi di questa raccolta si innervano cosi: “Non riesco a murarmi dentro , a cementare la porta”. Una volontà dichinsoniana che sovverte il proprio corpo e lo mette in un angolo cercando di ricomporlo: “Dietro questa faccia di cartapesta risplende in tutti un sorriso perenne”.

In questi versi si evidenziano le facce dei dipinti di Ensor, le famose maschere senza anima, “i volti non volti” che scavano negli anfratti della memoria. Le memorie e gli anfratti del sogno riverberano in Franca Mancinelli come secche allegorie, talvolta, trasparenti e plastificano le parole rendendole con eleganza “corpo e immagine”: “Sono perle nel tempo, le morti le attraversano”.

Al lettore, con forte vivacità, si configura davanti agli occhi il passaggio abbandonato dell’uomo.

I suoi versi evocano “La terra desolata” di Elliot, oppure i paesaggi irreali e mefitici dell’artista tedesco Anselm Kiefer: “L’albero incandescente ha aperto i rami nel tremore l’anima fulminata tra pareti di pelle e di vene, affiora l’azzurro da un tessuto logoro”.

Il terribile è una natura luminosa e grigia che investe l’anima che rifiorisce e rinverdisce dalle sue rovine come una fenice che risorge dalle sue ceneri.

La distruzione, quella catramosa ed apocalittica, si illumina dalle parole e con esse si infiamma.

I suoi versi incalzano verso l’illuminazione, una nuova luce libra come un raggio colorato ed insorge là dove è possibile: “È un chiodo la mattina trafitta la mente / affiora un’immagine come un frutto marcio”.

Il clima è quello di un semenzaio di segni e tracce ruvide come quello dei pellegrini che in un tempo a noi lontano con i loro piedi nudi lasciavano le loro impronte, in un terreno vergine e brullo.

Così, la poesia strascica da una forma all’altra lasciando essiccare la sua fragile impronta: “Tralasciando la terra nel sonno continuiamo a discendere / in circolo tra organi e pianeti ”.

Il cuore rimane preda dell’inquietudine fin quando non trova pace in Dio. La natura deve uscire fuori dalle sue tensioni come ben faceva intuire S. Agostino.

La natura si avvicenda sempre ai nostri occhi con le sue mutazioni, e lo si ritrova appieno nella sezione di questa raccolta dedicata ad “alberi maestri”; si contorce la vita alla morte, la memoria al dissolvimento temporale e spaziale.

Nell’ultimo capitolo di questo libro il nucleo narrativo si allinea al “disvelamento”, alla commiserazione piena del proprio sentire fino a svescicare l’istinto della predizione “la fiamma viva della rivelazione”, dove è evidente la “luminescenza”, la visione dello specchio che introduce ed interrompe la lotta eterna tra il bene ed il male.

L’ispirazione finale è quella estrema dello sguardo bianco, uno sguardo nuovo che vuole rifondare il mondo con una volontà genuina e luccicante che elude il volo; quello del distacco alla terra: “Le poiane ci sorvegliano appollaiate sui reticolati dell’autostrada confermano la rotta ogni tanto vengono in volo le riconosci dalla forza che attingono dal cielo tenendo semplicemente le ali aperte”.

I poeti appartati: Antonio Arevalo

0

Regina José  Galindo
Limpieza Social
Trento, 2006
Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani

Danza di fuoco

di

Antonio Arevalo

da Le terre di nessuno

 

 

 

a Esteban Villalta Marzi

Esiste un fuoco che brucia più forte di altri.
Esiste anche un tipo di sangue più caldo di altri.
C’è  il DNA delle persone vere.
Esiste un meridione che rimane a est del mondo.
El dorado è qui a tre passi da casa.
C’è  anche un limite per tutto e un cuscino disposto a predisporsi
per noi.

Esiste anche un incubo per ognuno.
Ieri – ad esempio è venuta un’amica direttamente dall’India
con la missione
dice di farmi vedere un anello mutato miracolosamente.
Ho in mente l’ultimo chiodo della mostra di Francisco a Santiago.

Mi piacciono molto i documentari di Netflix

0

di Andrea Inglese

.

Mi piacciono molto i documentari di Netflix.

I documentari più belli di Netflix sono le storie

di successo, le storie vere di successo, ma raccontate

appunto dalla visuale del successo, sono storie di vita,

come tante altre, ma sono ben raccontate in storie di successo.

Tutto in quelle storie di vita come tante altre diventa

un ingranaggio in una perfetta storia di successo

con il finale che ti aspetti, ti aspetti una bella dose

stragrande di successo: numeri soprattutto, metri quadri

di appartamenti, cifre di automobili o di merci vendute

o ammontare di patrimonio, sono tanti ma in fondo

simili, sono gli stessi ovunque, gli ingranaggi di successo

in una bella storia di successo. All’inizio di una storia

che sembra come tutte le altre, come una storia

scipita di gente decente – magari – ma senza

quel tocco, quella fissa maniacale, quella visuale

manovrante del successo, all’inizio c’è qualcuno

che non conta niente, che non è ben visto,

che è pettinato e vestito male: un nero, ad esempio,

che vive in mezzo alla droga, alle armi del ghetto

o un italo-americano, figlio di operai simpatici,

ma vive in una stradina sporca di Brooklyn, oppure

è una donna che ha un po’ troppi fratelli-sorelle,

e dislessica, in una storia di successo è importante

partire da un certo numero di disagi,

d’inconvenienti di carriera: aver preso botte,

essere stato cacciato, licenziato, bocciato,

insultato, discriminato, considerato una mezza

calzetta, ma subito si capisce come gira una vita

che avrà successo: il tipo o la tipa di successo

innanzitutto non guardano in faccia nessuno

(anche se parlano con solennità e commozione

di almeno uno dei genitori, c’è sempre

almeno uno dei genitori che viene intervistato,

è di solito il genitore decente, che ovviamente

è molto orgoglioso, e contento delle cifre che sono

state dirottate anche nella sua vita inizialmente

a bassa percentuale di tutto), comunque il tipo o la tipa

che hanno successo soprattutto lo hanno voluto,

fin dai tre o quattro anni di vita, non hanno fatto

che pensare a come diventare i primi i migliori i più bravi,

e si sono messi al lavoro abbastanza presto

non guardando in faccia nessuno

e sono persone – lo si capisce dalla visuale

del documentario – che a un certo punto

si sono messe a lavorare, e hanno lavorato

e lavorato, e lavorato, e lavorato, hanno

– senza guardare in faccia nessuno – lavorato,

esagerando su tutta la linea, alcuni sopratutto

al telefono, e allora non smettevano più, dalle sei

di mattina telefonavano a tutti, e anche se gli moriva

della gente vicino – passanti parenti amici mogli –

loro mica si lasciavano smontare, certo

cadevano in fondo alla buca tipica di una storia

di successo – ogni storia di successo ha una buca

nera maleodorante e profonda, dove finisce di cadere

chi sta perseguendo – senza sguardi in faccia a nessuno –

il sogno infantile di successo – ma anche nella buca

annichilente e nera, continuano a fare telefonate

dalle sei del mattino, e riescono a ottenere quello

che vogliono: con sorrisi, minacce, manipolazioni,

menzogne, empatia, giocosità, ricatto, spavento,

e quindi alla fine di tutto, nonostante il soggiorno

per varie buche nere e fonde, escono tutti quanti

sorridenti nell’intervista, anche un po’ emozionati

perché alla fine essere un uomo o una donna di successo

vuol dire essere dopotutto anche un po’ semplici

esseri umani, con comportamenti ancora abbastanza umani

in fondo, anche se si è aggiunto il successo e il peso

bellissimo e alleggerente delle cifre di cose vendute

o di soldi intascati. È un peso che tonifica piuttosto

che schiacciare l’umanità di questi esseri di successo.

Sono storie vere documentate di questo tipo

che a me piacciono in Netflix. È bello vedersi

da questa visuale precisa tutti gli ingranaggi

di una vita veramente riuscita, che veramente vale

di essere vissuta, mica tutto il resto delle vite

qualunque, come la nostra che non fa mai quelle

bellissime cifre, non entrano mai, perché di certo

mancano gli ingranaggi giusti, le telefonate

alle sei di mattina, quando io ancora dormo

come un fesso puramente umano, ma così,

proprio così – un po’ per contrasto – è bello

vedersi quel documentario, mentre tutto intorno

è ancora abbastanza pandemico, c’è il difficile

problema della vaccinazione, e discussioni che a volte

sembrano persino sottili, bisogna riuscire a dire qualcosa

nei piccoli silenzi tra le cose che ovunque vengono

dette, pensare qualcosa nei piccoli spazi

non ancora pensati, ma sono frutto quasi sempre

di grande emergenza (urgenza?). Un documentario

con quella tipica visuale del successo ti fa invece

dormire anche meglio.

Un coccodrillo vivo per Philippe Sollers

0

 

di Edoardo Pisani

Pour vivre cachés, vivons heureux.

Philippe Sollers

 

È morto Philippe Sollers. È scomparso – per usare un eufemismo tanto inesatto quanto incongruo visti gli oltre sessanta titoli da lui pubblicati, uno sterminato catalogo che difficilmente “scomparirà” dalle librerie francesi – uno degli scrittori francesi contemporanei meno letti e meno amati dal pubblico eppure più rispettati dal mondo culturale e editoriale parigino, uno dei protagonisti maggiori della letteratura francese del secondo Novecento, Philippe Sollers, autore di libri belli e importanti, per quanto spesse volte troppo sperimentali, quali ad esempio il céliniano Femmes (la sua opera più conosciuta e riuscita, un romanzo estremo e mistico edito in italiano dallo straordinario Tullio Pironti) o Le Coeur absolu o Portrait du Joueur (il romanzo successivo a Femmes, con belle pagine veneziane) o il saggio Studio (un memoir che tratta di Rimbaud e di Hölderlin) o Une vie divine o le sue voluminose raccolte di saggi letterari (dei veri e propri manuali di combattimento artistico e di resistenza umana). Arbasino lo sfotteva in Parigi o cara, pasticciandone il linguaggio troppo politicizzato, teorico; Houellebecq lo ritrae ne Le particelle elementari, anch’egli sfottendolo (ma è un ritratto benevolo: Sollers rifiuta un testo troppo razzista di uno dei personaggi del libro); il terribile Marc-Édouard Nabe, uno degli autori scoperti proprio da Sollers, invece scrive, ne Le vingt-septième livre: “Vent’anni fa, Sollers mi diceva che si permetteva il 25% di compromesso e il 75% di integrità. Oggi ha invertito le proporzioni. Che disastro! Il cocktail è imbevibile…” E ancora: “Per Sollers ci sono delle cose che si fanno e delle cose che non si fanno… Sulla sua tomba leggeremo: Sono cose che non si fanno.”

Cosa leggeremo sulla tomba di Sollers? Di certo è stato un grande autore, e di certo continueremo a frequentarne le opere migliori. Ma qual è il suo vero lascito letterario? Femmes, che fece scandalo alla pubblicazione, per poi finire a mucchi fra i remainder dei mercatini francesi? I saggi di Tel quel e de L’infini, raccolti nelle edizioni Gallimard, oltre tremila pagine su Rimbaud, Céline, Proust, Hemingway, Mozart, Casanova, Kafka e via di seguito? I suoi romanzi minori, come Portrait du Joueur, in cui peraltro Sollers dice cosa bisognerà scrivere sulla sua tomba, rifacendosi a Stendhal e a Céline? O forse gli sperimentalismi dei suoi libri più vecchi, come Paradis, un intero romanzo/periodo scritto senza punteggiatura, purtroppo illeggibile (o leggibile come un libro di poesia)? O la sua bella biografia di Casanova, edita in Italia da il Saggiatore? Oppure non ne rimarrà niente, o poco, qualche rigo appena, e i suoi oltre sessanta libri passeranno prima inosservati e poi scompariranno lentamente dalle librerie?

Personalmente ne ricordo con affetto e ammirazione alcuni brani, come questo passo di Studio, riguardante gli incanti e i rimpianti delle sue battaglie letterarie e politiche e i suoi anni di vita bohémienne a Parigi, rivolgendosi a una sua ex ragazza: “Non credevi a tutte queste storie della rivoluzione, avevi ragione, avevi torto. Certe volte bisogna avere molto torto per avere ragione in una maniera che non sarà mai messa in conto, tanto meglio, poco importa. La maggior parte dei nostri amici sono morti, i nostri nemici sono dei morti viventi, hanno vinto, scrivono la Storia come vogliono, vanno in giro come superstiti nei loro spettacoli di derisione. La sconfitta è dura e amara, ma non abbiamo voluto un altro destino. Nessun giudizio, qui, a ognuno il proprio silenzio. Con chi parlare? Come spiegarsi? Lasciamo perdere. Ti rivedo, una mattina, cercando di impedirmi di buttarmi dalla finestra, e gridando, e piangendo…”

Sollers non è morto suicida, buttandosi dalla finestra, bensì è morto, o meglio morirà, ché questo è un coccodrillo che non voglio tenere nel cassetto, da vecchio e nel proprio letto, dopo oltre sessant’anni di vita culturale e artistica vissuti e combattuti sempre in prima linea, sulla pagina e nel mondo editoriale. La letteratura per Sollers è infatti innanzitutto un combattimento, una guerra del gusto continuamente rinnovatasi (Guerre du goût: questo il titolo di una sua raccolta di saggi). Nella quarta di copertina dell’edizione italiana di Femmes, si legge: “Donne, pubblicato in Francia nel 1983, appare in Italia solo dopo dieci anni. Sull’opportunità di tradurlo sembra che non fosse d’accordo un famoso scrittore italiano riconosciutosi in uno dei personaggi del libro…” Non ho mai capito quale fosse il “famoso scrittore italiano”; forse Moravia? Certo è che Donne, uno dei romanzi francesi più belli degli anni Ottanta, oggi andrebbe ristampato e riletto, come altre opere di Sollers, per la maggior parte inedite in italiano (i grandi autori francesi spesso non sono tradotti in italiano, come i grandi autori italiani, e qui penso ad Arbasino, spesso non sono tradotti in francese; è la miopia europea…).

Ma quanti libri scompaiono, quanti libri scompariranno! La letteratura è terrificante e spietata. Marc-Édouard Nabe – che un tempo era amico e complice di Sollers – ha detto recentemente che Sollers è finito nell’inferno delle lettere, perché non lo legge più nessuno. Chissà. Forse la sua morte cambierà le cose, forse, più probabilmente, no. Questo breve necrologio anticipato (Sollers non è ancora morto, ma è come se lo fosse, visto che è fin troppo stampato e pochissimo letto) di sicuro non muterà il suo destino letterario. I lettori francesi lo possono leggere ovunque, però non lo fanno; i lettori italiani possono trovarlo a fatica nei mercatini dell’usato o su ebay, dei volumi vecchi e intonsi che pure conservano tutto il fascino stilistico e avanguardistico della prima pubblicazione, però non lo cercano. Philippe Sollers è ancora vivo, ma i suoi libri italiani sono morti e sotterrati da tempo. Si spera che questo piccolo e nervoso coccodrillo letterario possa contribuire a riesumarne qualcuno.

La fabbrica Wittgesund

0
Foto di Carabo Spain da Pixabay
Foto di Carabo Spain da Pixabay

di Mario Temporale

Foto di Carabo Spain da Pixabay
Foto di Carabo Spain da Pixabay

Un tempo la fabbrica di giocattoli Wittgesund si trovava in una zona semiperiferica, lungo la linea ferroviaria che taglia da sud a nord la città. C’era, e c’è ancora, una stazione che porta lo stesso nome della fabbrica, un lascito della prima grande espansione urbana del Novecento. Oggi quella zona è stata inglobata completamente nella città. Nuovi complessi residenziali sono stati costruiti assieme agli onnipresenti centri commerciali. Le strade sono state ampliate e ridisegnate, con delle rotonde fiorite al posto dei semafori, e delle corsie per le biciclette distinte dalla carreggiata usata dalle automobili. La fabbrica non è rimasta esclusa dai cambiamenti, al contrario ne rappresenta per molti un ambizioso simbolo. Gran parte dei giocattoli si producono oggi in Romania e Cina, e la sede originaria della Wittgesund, la storica fabbrica fondata nel 1921, con i suoi alti capannoni con le famose vetrate art decò sul davanti, è stata divisa in due tronconi. Una parte, quella più recente, costruita dopo la seconda guerra mondiale, è stata trasformata in un complesso residenziale avveniristico, dove l’archeologia industriale si combina con il design residenziale. Gli appartamenti sono tra i più costosi e ambiti della città di Q., anche perché immersi nel verde dell’ampio parco che circonda, seppur ridotto rispetto a un tempo, la Wittgesund. La sede storica della fabbrica è stata ristrutturata e ammodernata senza perdere il senso del passato. L’originale insegna Wittgesund AG, disegnata dall’artista espressionista Klaus Rother nel 1921, è stata innestata in cima all’edificio principale. Qui oggi lavorano un centinaio tra designer, tecnici e impiegati. Nel 2013 è stata acquistata dalla multinazionale Shenzen Toy World, una delle più grandi aziende mondiali del settore. È un lontano ricordo della Wittgesund che negli anni sessanta richiamava immigrati dal sud d’Europa, dall’Italia, dalla Spagna, dal Portogallo. Al tempo, gli operai erano diverse centinaia, i designer e i tecnici una piccola minoranza. Anche i prodotti sono cambiati. Per gran parte del ventesimo secolo la Wittgesund ha prodotto soldatini di latta, soldatini di piombo, bambole, cavallucci, e automobiline per il mercato europeo. Oggi è specializzata in oggettistica legata ai film per bambini, moda infantile (scarpe, vestiti, divise scolastiche), e videogiochi.

Anteo aveva raccolto queste informazioni in un libro pubblicato dalla ditta Wittgesund col patrocinio della città di Q. Era un librone con molte fotografie d’epoca e alcuni testi storici che la signora Murat teneva in casa a disposizione degli ospiti. Erano informazioni forse interessanti per un banale articolo giornalistico, ma fondamentalmente inutili per la sua intrapresa. A pagina 121 c’era una fotografia della fabbrica scattata nel gennaio del 1967, dall’alto, forse dal tetto del capannone principale, al mattino quando gli operai entravano dai cancelli per cominciare il primo turno. Era una foto documentativa ma il gioco di colori della brughiera circostante e la luce tiepida di un inverno freddo e secco (si notano i cappotti degli operai) le donava un che di artistico. Anteo aveva esaminato a lungo la foto nell’illusione che tra la massa di operai avrebbe potuto riconoscere sua madre. L’aveva scrutata a lungo e si era alla fine convinto di aver riconosciuto la sagoma minuta e nervosa della madre, una ragazza di appena vent’anni che aveva finito le scuole a undici, a dodici lavorava nei campi del Friuli rurale e a diciotto era emigrata all’estero. Forse era proprio lei, quella figura quasi schiacciata nella prospettiva fotografica tra due energumeni col berretto floscio e la salopette. Forse era lei.

Anteo si sedette sul prato scosceso antistante la stazione Wittgesund, a lato del sentiero che portava alla fabbrica, distante meno di cento metri. Sedersi di fronte all’ingresso della fabbrica, o sull’aiuola, avrebbe attirato l’attenzione dei portieri, ma lì, fuori dalla stazione, al massimo avrebbero pensato ad un turista eccentrico bisognoso di riposo. Dalla sua postazione Anteo poteva osservare la fabbrica, quello che era rimasto di essa, e il nuovo complesso residenziale. Non c’era dubbio che l’ambiente trasmetteva un senso di ordine ed efficienza, qualcosa per cui gli abitanti del luogo volevano essere ammirati. Ma che cosa era rimasto dei significati di un tempo? Cosa ci faceva lui, qui?

L’ingresso della nuova Wittgseund era annunciato da due grandi aiuole con crisantemi e altri fiori di diversi colori. Erano aiuole ben curate, non c’era dubbio. Tra il personale della compagnia globalizzata c’erano probabilmente anche dei mastri giardinieri. Nell’epoca della rappresentazione e dello spettacolo, le aiuole, le insegne, e i sorrisi dei dirigenti nei video promozionali hanno la stessa importanza dei prodotti che rappresentano. Le fotografie delle aiuole, delle insegne e dei sorrisi distribuite e moltiplicate sui profili digitali dell’azienda sono ancora più importanti.

Anteo seguiva il flusso di pensieri ispirati da quello che vedeva, come una rondine fa con le folate di vento, ma lo lasciavano indifferente. Quelle immagini non rispondevano alle domande che aveva dentro di sé e che lo avevano spinto a partire, a tornare nel luogo in cui era nato. Si alzò e si incamminò verso le aiuole per vederle da vicino, anche se non c’era una ragione precisa per farlo, forse sentiva solo il bisogno di sgranchirsi le gambe.

Arrivato in prossimità della prima aiuola si accorse di piccoli oggetti infilati tra i fiori, della grandezza di sottili barattoli. Erano dei soldatini di metallo, soldatini con uniformi d’epoca, forse del primo esercito imperiale tedesco o di eserciti precedenti. Nella prima parte del Novecento la Wittgesund si era fatta un nome producendo soldatini come questi. Il fertile afflato militaristico delle terre germaniche aveva fatto sì che i soldatini diventassero il prodotto più venduto e celebrato nella storia dell’azienda, che paradossalmente aveva sede in una paese che aveva scelto di essere non belligerante. Ora i soldatini non erano più di moda, e potevano al massimo servire da souvenir storici. Rappresentazioni stiracchiate di un passato lontano, utili solo a colorare di autenticità un’azienda multinazionale cinese con il nome tedesco e parte della produzione in Romania.

Anteo si inginocchiò per guardare da vicino uno dei soldatini. L’uniforme era di colore blu, con una doppia fila di bottoni sul davanti, pantaloni con la riga rossa e una fascia bianca di traverso sulla parte alta del corpo. In testa il soldato portava un elmetto con una cupola dorata come quelle delle cattedrali rinascimentali e la cuspide in cima, dorata anch’essa. Era uno dei più buffi elementi di abbigliamento militare mai inventati, ma non c’era dubbio che il soldatino era stato costruito con grande attenzione ai dettagli. Perfino il viso del soldato era distinguibile nei suoi tratti. Chissà, forse l’artigiano che l’aveva costruito si era rifatto al viso e all’espressione di un amico, un parente o un collega, perché non aveva l’espressione che uno si aspetta di vedere in viso a un soldato, in particolare un soldato di piombo o latta. Gli occhi, ben distinguibili sotto l’elmetto, erano spalancati come quelli di qualcuno che ha visto qualcosa di terribile, o sente un dolore lancinante. Più che un soldatino da gioco o esposizione pareva una miniatura di uno dei personaggi del Compianto sul Cristo Morto di Nicolò dell’Arca, con la differenza che in quel caso i corpi esprimono nella posa e nei gesti il dolore leggibile in faccia. Il corpo del soldatino era un blocco statico e compatto, il viso era un elemento completamente dissonante. Forse era stato uno scherzo del progettista, quello di dare al soldatino creato per celebrare il prestigio della forza militare un’espressione di dolore e paura, che erano i più probabili e naturali sentimenti in contesti di guerra, ma certamente inusuali per dei giocattoli. Cosa aveva visto quel soldatino che altri ignoravano? C’era forse qualcosa nella fabbrica, nella storia della fabbrica, che lo aveva turbato o aveva turbato il suo costruttore al punto di decidere di “sabotare” il giocattolo simbolo della Wittgesund?

– Mi scusi, sig. soldatino.
– Chi è? Ah, un turista. Mi dica.
– Non sono proprio un turista.
– No, è che l’ho vista lì di fronte, così vestito, ho pensato: non è certo uno dei giardinieri. Mi è parso un turista. Ma dica pure.
– Ecco, io, vedendo la sua espressione mi sono detto: è un’espressione strana per un soldatino di latta.
– Di piombo! Non facciamo confusione. Soldatino di piombo, per favore. Comunque, dipende. Posso chiederLe quanti soldatini di piombo conosce?
– A dire il vero, non ne conosco. Da piccolo giocavo con i trenini, i soldatini non mi sono mai piaciuti.
– La capisco, anche io sarei come Lei, ma, come diceva il mio creatore, la vita è quello che è: un piatto di minestra con qualche ingrediente non azzeccato.
– Non pensavo che un soldatino di piombo potesse fare dei ragionamenti di questo tipo.
– Sempre pronti a dare giudizi, voi umani. Perché un soldatino di piombo non può avere delle idee un po’ profonde? Però in effetti, anche io quando ho visto Lei ho pensato fosse un turista. Tra i due, mi lasci dire, il suo pregiudizio è più grave.
– Mi scusi.
– Mi dica, piuttosto, cosa ci fa qui? É interessato a comprare uno degli appartamenti della vecchia fabbrica? Beh, l‘avviso subito, sono tutti già venduti.
– No, non mi interessa trovare una casa. Non più. Anni fa sognavo di avere un posto tutto mio, un piccolo posto grande abbastanza per contenere i libri che mi hanno fatto stare bene e poco altro di essenziale.
– Non mi sembra un sogno così ambizioso. Se mi dicesse che sognava di diventare un astronauta o di affittare lo stadio di San Siro per giocarci con gli amici della sua infanzia, ecco, quelli, Le direi, son sogni difficili da realizzare per le persone comuni. Ma un posto dove tenere dei libri e il necessario per sopravvivere, beh, non è un gran sogno.
– Però non si è realizzato.
– Cosa ne è stato dei libri a cui teneva tanto?
– Sono sigillati in scatole di cartone, molte scatole di cartone impilate e rinchiuse in una stanza di una casa di cui nessuno sa cosa fare, perché in un paese semi-abbandonato, dove non nascono più bambini e un po’ alla volta invecchiano tutti gli abitanti.
– Mi pare una storia che conosco, paesi decadenti, gente che invecchia e muore… Però la stessa gente prima di morire ha bisogno di qualcuno che l’aiuti a vivere ancora un po’, e quel qualcuno deve arrivare dall’estero, perché in quel luogo non c’è più nessuno che possa prendersi cura di loro. Ma poi quelli che arrivano vengono trattati da sottopersone. Gli immigrati. Non funziona così, il vostro bel mondo sviluppato?
– Beh, la sua analisi mi pare accurata. Ma come fa a sapere tutto questo?
– Non ci vuole molto a capire, mi creda, e non mi manca certo il tempo per riflettere. Li sento i vostri discorsi, li sento da molto tempo, e vi osservo. Mi pare sia la stessa storia dappertutto, dappertutto dove ci sono troppe strade asfaltate, blocchi di case malcostruite e ville, ville grandi, antenne, rosai curati dentro aiuole di cemento, e telecamere a filmare ventiquattr’ore su ventiquattro tutto quello che succede o non succede.
– Io ero venuto qui per…
– Io sarò solo un soldatino di piombo, ma voi essere umani non vi capisco mica tanto. Per esempio, anni fa, prima che mi piazzassero in questa aiuola, molti anni fa, ero in una bacheca dentro la vecchia fabbrica.
– Ma mi sta dicendo che Lei non ha una storia recente, cioè che era qui prima della trasformazione della fabbrica?
– Certo, è quello che Le stavo dicendo.
– Ma allora era qui nel 1968?
– Perché proprio quell’anno?
– Beh, è l’anno in cui sono nato io. Mia madre lavorava in questa fabbrica.
– Ah! Migliaia di persone hanno lavorato in questa fabbrica da quando sono stato creato io. A un certo punto, gli operai sono scomparsi, e qui sono rimasti solo i tipi in giacca e cravatta e quelli in scarpe da ginnastica, giubbetti smanicati luccicanti, e berretti col frontino. E io sono finito nell’aiuola. Io e gli altri miei amici e colleghi soldatini di piombo. Un tempo eravamo i modelli dell’azienda, ci portavano sul palmo di una mano e ci tenevano in una grande bacheca di vetro nell’atrio antistante l’ingresso principale. E oggi, come siamo finiti? A fare compagnia a dei fiori cedui in un’aiuola ignorata dai più.
– Ma io l’ho notata.
– Lei non mi pare molto normale.
– È una cosa che ho pensato spesso. Ma poi, che cosa è normale?
– Ah, non lo chieda a me, un soldatino di piombo con la faccia disperata. Però, sa che le dico, forse è meglio così; meglio essere reali, realisti e scomodi come me, che rappresentare una supposta medietà.
– Lei sa qualcosa delle regole della sua fabbrica, regole in merito ai lavoratori intendo?
– Che domanda insolita, io sono solo un soldatino, un prodotto della fabbrica, anche se la mia posizione di “modello” mi ha donato una prospettiva particolare. Un essere dentro e fuori allo stesso tempo, se capisce cosa intendo. Ho cercato di sfruttare al meglio questa situazione.
– Sì, lo capisco.
– Cosa vuole che Le dica sulle condizioni di lavoro? Cioè, si rende conto che gli operai oggi qui non si vedono. Quelli che costruiscono i soldatini e le bambole e tutto il resto sono lontani, in fabbriche che funzionano come caserme, e gli individui contano meno del due di picche, pagati con un due di picche. Cosa significa tutto questo?
– Parla come un comunista.
– Beh, se vivesse in un’aiuola in mezzo ai crisantemi dopo aver passato una vita al centro della scena, forse qualche idea se la farebbe venire anche Lei. Piuttosto, cosa Le interessa sapere dei lavoratori di un tempo?
– Ho delle informazioni frammentarie sui miei primi anni di vita, informazioni che mi hanno lasciato e causato confusione. Lei ha pochi dubbi sulla sua origine, immagino.
– Sì, a dire il vero, c’era un solo artigiano che sapeva fare le facce ai soldatini, lo conoscevano tutti. Era un artista di origine ungherese, un profugo della rivoluzione del 1956, che per pagare l’affitto e mantenere la famiglia disegnava e costruiva modelli di soldatini. Mi ha dato questa faccia per scommessa con un amico e i dirigenti di allora hanno pensato fosse una cosa originale, da sfruttare per l’immagine dell’azienda, così mi misero in bacheca.
– Nel mio caso è diverso. Io so di chi sono figlio, almeno lo so per quanto mi hanno detto, anche se non ho mai visto il mio certificato di nascita. In verità, sono sempre sentito fuori posto. E poi ci sono dei fatti accaduti qui, dove sono nato. Per esempio, la legge dello stato non permetteva ai miei genitori di tenermi con loro, perché mio padre aveva un lavoro cosiddetto stagionale, che stagionale in fondo non era.
– Le leggi dell’immigrazione. Ne so qualcosa, anche il mio creatore era un immigrato. In quegli anni metà degli operai erano stranieri.
– Sì. E le donne incinte alla Wittgesund potevano assentarsi dal lavoro solo per venti giorni dopo il parto. É quello che fece mia madre.
– Mi pare di ricordare, sì, poi le cose sono un po’ cambiate, ma a quel tempo era proprio così. La vita delle donne e degli immigrati è più precaria di quella di un soldatino di piombo, e quella delle donne immigrate lo è ancor di più. Me lo lasci dire, il vostro modo di creare ricchezza crea più problemi di quanti ne risolva. E poi, cosa successe a lei infante?
– Beh, qui le cose si complicano e io non so bene dove è la verità. C’è un vuoto. Dopo venti giorni io avrei dovuto sparire, non avevo titolo a rimanere in questo paese, era la legge. Mi tenne in casa una famiglia di immigrati compaesani dei miei genitori, poi un’altra ancora. E infine mi tenne una giovane donna che immigrata non era. Era difficile trovare una situazione sicura e stabile. Ora sono tutti morti e io sono venuto qui a cercare risposte fuori tempo, in questa fabbrica che non ha nulla a che fare con quella di allora.
– Certo che è un tipo, anche Lei. Venire a raccontare questa storia a un soldatino di piombo. Cosa vuole che ne capisca io di questi problemi… io al massimo posso parlarle della guerra giocata dai bambini.
– Ma la mia, in un certo senso, è stata una guerra. Una guerra contro le leggi e la confusione umana. Sa, dicono che il rapporto creato nei primi due anni di vita con la persona che si prende cura del neonato è decisivo nel determinare il destino dell’adulto.
– Ecco, sulla confusione umana potrei dire la mia, ne so qualcosa. Le leggi invece, cosa vuole, mi pare siano fatte per i poveri, i poveri come sua madre, come il mio creatore. Questa è la verità. O almeno questo è quello che ho capito. Ora però mi sa che dobbiamo lasciarci, stanno per bagnare le aiuole. Sa com’è, questi fiori succhiano acqua come delle spugne. Io ci sono abituato, un po’ di fresco mi fa anche bene alla tinta, ma se Lei rimane inginocchiato qui davanti finirà tutto zuppo. Vada vada, sono anche un po’ stanco, da quando sono qui non sono più abituato a parlare con voi umani.
– La ringrazio, sig. Soldatino. Avevo altre cose da chiederLe…
– Ripassi, magari tra qualche giorno. Mi trova sempre qua.
– Arrivederci.
– Arrivederci.

Foto di Carabo Spain da Pixabay.

La quadrilogia della fine di internet: il ritorno alla Fonte come superamento del collasso della techne

0

di Sonia Caporossi

Canteremo la resurrezione dell’anima consumata nella tecnologia. La notte, il sogno, la visione e la connessione. E tutto ciò che sublima le nostre anime a un ordine superiore di conoscenza.
(Manifesto del Connettivismo)

Con la sua trilogia o, per meglio dire, quadrilogia della fine di internet, composta dai romanzi Sentieri di notte (2012), lo spin-off Partita di anime (2014), La casa degli anonimi (2014) e L’ultimo angolo di mondo finito (2017), nella presente riedizione unificata da Galaad Edizioni dal titolo Internet. Cronache della fine, lo scrittore connettivista Giovanni Agnoloni dimostra di possedere saldamente l’imprinting della fantascienza filosofica alla Stanisław Lem e di voler realizzare, in un intreccio complesso popolato da personaggi e luoghi saldamente interconnessi, un percorso narrativo d’autore che travalichi il mero impianto della letteratura di genere, nella forma di un’epopea fantascientifico-filosofica coesa intorno all’argomento transumanista del destino post-tecnologico dell’essere umano.
Agnoloni disegna un’architettura distopica autogenerantesi sul crinale della dicotomia esistente tra la dimensione virtuale e quella iperreale: la prima dimensione narrativa riguarda infatti internet come sistema di connessione e di controllo invasivo e pervasivo che costringe gli individui all’adesione coatta e acritica a un Sistema prefigurato, atto a plasmare le coscienze; la seconda, invece, riguarda gli elementi patentemente panoptici di cui l’autore cosparge le proprie pagine come presenze inquietanti e misteriose: in particolar modo, ologrammi e droni, a loro volta sistemi di controllo sociale sui generis, di cui si dirà tra poco. Le due dimensioni del controllo psicosociale, quella virtuale e quella iperreale, riempiono le pagine della quadrilogia di una tensione tutta interna al collasso nichilista verso il nulla che si respira come incombente a livello mondiale, il cui rischio sembra essere il tema principale (nonché la morale, in senso classico) dell’opera vista nel suo insieme.
Importanti da fissare, in questo senso, sono una serie di percorsi strutturali interni all’opus maius, che detengono il valore conclamato di veri e propri correlativi oggettivi simbolicamente funzionali al narrato. Prima fra tutti, la mappatura dei luoghi e delle città d’ambientazione, in quanto lo spaziotempo (come si capisce andando avanti con la lettura dei romanzi) viene concepito nel suo insieme olonomico, senza fratture o soluzioni di continuità, nell’unità fondante del Cronotopo che funge da fondale narrativo al destino finale della coscienza dell’Umanità in consesso. L’ambientazione è pervasa da una profonda sensazione di straniamento, giacché il mondo viene colto nella fase caotica successiva al collasso tecnologico e deve pian piano, nel corso della narrazione, tornare a una sorta di ordine originario. Per questo le città descritte hanno da principio un che di poco rassicurante.
In Sentieri di notte, ad esempio, una Cracovia divorata dalle nebbie ologrammatiche impazzite ricorda visivamente l’angoscia misteriosa evocata dal film The Mist (2007) di Frank Darabont. Oscuro e inquietante, a sua volta, è il tratteggio descrittivo di Berlino, città sede della Macros, la multinazionale che per controllare il mondo ha fuso le reti europee lasciando il continente nel buio di un lungo black-out che procura a sua volta il collasso di internet. Parimenti evocativi e simbolici sono il lago di Lucerna, dove Luther, l’androide destinato a un odissiaco viaggio di “ritorno”, si risveglia; e poi Stoccolma, da dove parte Kristine Klemens per ricongiungersi al suo compagno Piotr Woźniak, un funzionario ribelle della Macros, colui che, da Berlino, cerca di organizzare la resistenza contro il neosistema di controllo che si è nel frattempo instaurato. Molti altri sono i toponimi cosparsi nella narrazione trasversale di quella che è una vera e propria saga protesa verso il ritorno alla Fonte come antico e primigenio luogo in cui ricongiungersi con l’Essere, in un richiamo evidente alla filosofia di Heidegger e al tema del recupero della genuinità dell’esistenza di contro all’avvilente prevalere di una techne che ha spersonalizzato le identità individuali, rendendole scisse da se stesse e dai propri desideri.
In effetti, nei romanzi di Agnoloni, i luoghi hanno sempre un valore ulteriore rispetto alla semplice ambientazione di sfondo: rappresentano piuttosto, nell’economia della trama, un sistematico appiglio visivo allo scandaglio dell’anima, come fossero specchi emozionali rivolti al riflesso della duplicità (non sempre necessariamente antitetica) del reale/naturale e del virtuale/iperreale, in cui i personaggi si aggirano folgorati dalla presa di coscienza di ciò che di coercitivo li circonda e dal desiderio di ritrovare il filo logico del mondo e, quindi, il flusso interno più naturale di se stessi. È ad esempio sullo sfondo di un’Amsterdam irrigata dai propri canali (il Keizersgracht, il Prinsengracht e l’Herengracht che scorrono paralleli come le trame dei due racconti che compongono Partita di Anime) che Vlaminck, il giornalista investigatore il quale indaga sulla morte di un assicuratore italiano, pronuncia una delle frasi (in forma di domanda) più rivelatorie dell’intera saga: «Davvero i fatti hanno un potere tanto forte sugli ambienti?» (Partita di anime, p. 167). Si comprende bene, dalla suggestione emanata da questo pregnante interrogativo, come le modificazioni della realtà avvengano sulla realtà stessa, le passino attraverso penetrandola fin nel profondo, in un atto metapercettivo che rende la visione un’istanza rivoluzionaria di riacquisizione della propria dimensione interiore, compiutamente lucida e ricomposta: «aveva l’impressione di osservare il mondo attraverso una lente, che gli permetteva di scendere fin dentro la radice delle cose» (Partita di anime, p. 171). La realtà si fa scandaglio di se stessa, sembra dire l’autore, nell’istante esatto in cui l’essere umano si rende conto di farne parte non come io contrapposto a un non-io, bensì come elemento olistico di un kosmos organico e armonico, senza screzi né fratture, perfectum in quanto illuminato da una coscienza connettiva superiore: la quadrilogia, in effetti, si dirige progressivamente verso un vero e proprio risveglio dell’anima del mondo che è l’anima di tutti, l’anima del tutto.
Uno dei microtemi che cospargono il fondale sommerso dell’intera opera è, quindi, il topos dell’anima lacerata, o della frammentazione dell’anima come elemento di straniamento (seguendo le tracce dell’archetipo del doppelgänger e dello sdoppiamento identitario): in effetti, questo microtema si allaccia al macrotema portante dell’intera quadrilogia, che è quello dell’interconnessione esoterico-cosmica dello spirito con il tutto che lo circonda, dentro e fuori del sé, nella ricerca di un ponte di comunicazione con chi è già al di là del confine.
Con la fine della Rete, le persone sembrano quasi voler recuperare la propria umanità perduta. Ma questa intenzione cozza inevitabilmente con lo strattone che il Sistema assesta alla psiche degli individui, messo in atto tramite un capillare meccanismo di controllo che sostituisce il precedente, ancor più subdolo perché si pone apparentemente a protezione della popolazione stessa. Questa tensione sociale reattiva interna genera il sistema degli ologrammi in Europa e dei droni negli USA: evidenti strumenti di controllo della popolazione, i quali sembrano significare che dal Sistema, nonostante i tentativi di fuga, non si può evadere. Gli ologrammi, in particolare, sono cloni intelligenti privi di materia che influenzano la condotta quotidiana delle persone. Inevitabile constatare, perciò, che «la fine di internet», nella chiave del racconto, «non era servita a nulla. La gente» preferisce, in qualche modo, «essere schiava» (L’ultimo angolo di mondo finito, p. 418).
Eppure, a dipanare il senso della trama ci vengono incontro le ragioni logiche sottese al racconto stesso. Vige infatti un vero e proprio cortocircuito logico all’interno della narrazione, in quanto il blackout di internet è un vero e proprio golpe, un colpo di Stato che il Sistema, in qualche modo, compie su se stesso! Come in un panopticon al contrario, in cui il carceriere crede di poter controllare i detenuti da ogni angolazione possibile senza essere visto essendo in realtà egli stesso uno degli osservati, la reazione a questo sistema di controllo in seconda genera a sua volta ribellione: il carceriere è contemporaneamente guardiano degli altri e di se stesso, come nel più classico “discorso della servitù volontaria” (la citazione da Étienne de La Boétie non sembri peregrina). I ribelli, allora, rappresentano la vera crepa in seno al Sistema, l’anello spezzato della catena, come programmi impazziti di una Matrice gibsoniana ormai obsoleta. Il mondo esige un atto di mutazione, o la sua stessa anima (l’Anima Mundi di ciceroniana e platonica memoria) perirà.
Nel Manifesto del Connettivismo , il movimento d’avanguardia tutto italiano a cui Giovanni Agnoloni appartiene, si legge: «Noi crediamo che il mistero dell’universo sia codificato in una chiave inafferrabile e indistruttibile: l’ologramma. Il principio olografico, il modello olonomico della mente e l’olomovimento: dalla struttura della realtà ai nostri schemi di senso la percezione conosce un solo paradigma, che racchiude le istanze della relatività e dell’indeterminazione». Quando l’ologramma (che nel Connettivismo è strumento positivo che permette di raggiungere la coscienza di sé e del mondo in quanto principium individuationis del simbolico) diviene a sua volta strumento di coercizione, l’individuo non può far altro che respirare un senso di ottundimento pervasivo, una dispersione da mancato autoriconoscimento. Questo obnubilamento è generato dalla Rete stessa, se è vero che (come si capisce chiaramente nella Casa degli anonimi) è proprio il Ripetitore di Segnale, stanziale e imperante come un totem malvagio, a rendere schiavi.
Gli Anonimi sono un’organizzazione ribelle che vuole sabotare internet; attraverso la loro azione si prefigura un processo che si dipana «dalla tecnologia al niente, quindi dal niente alla minaccia di una nuova tecnologia invasiva e perturbante» (L’ultimo angolo di mondo finito, p. 441). Non è affatto un caso che in questo passaggio sia presente il riferimento al perturbante freudiano, definito notoriamente come «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare» , nonché tracce ammiccanti della psicanalisi analitica junghiana a contenuto evidentemente archetipico, che risultano sparse un po’ ovunque all’interno della saga, nel fitto sottobosco della significazione. È lo stesso Agnoloni ad avvalorare il nostro riferimento: «Uno dei punti centrali dell’impostazione di ricerca di Jung è il tema dell’individuazione, ovvero del processo di graduale avvicinamento dell’individuo al Sé, la radice della propria identità, liberandosi dalle catene dell’Io prigioniero dell’Ombra, il grande archetipo-proiezione delle maschere apportate dalla famiglia e dall’ambiente sociale, e lasciandosi guidare da altri potenti archetipi quali l’Animus/Anima (il maschile e il femminile, da intendersi come “luogo” delle dinamiche psichiche dell’inconscio che innescano il processo stesso di scoperta del Sé) e il Vecchio Saggio (la “sede” del miglior potenziale da sviluppare e della “visione” del Sé, ormai maturo per la propria realizzazione)» .
In questo senso, e attraverso il preciso riferimento al concetto di sincronicità a sua volta studiato da Jung per cogliere le apparenti connessioni tra fenomeni a-causali (al limite della parapsicologia), Agnoloni tratta il tema della discesa nelle profondità del Sé che pervade il Connettivismo come movimento letterario-filosofico e, quindi, la quadrilogia ispirata ad esso, come tensione e intenzione principale: «La discesa nel Profondo, dunque, mette inevitabilmente di fronte a una dimensione grande quanto l’intera umanità e l’intera storia, perché gli archetipi dell’inconscio collettivo esistono da sempre, e animano – turbandolo e guidandolo – il percorso attraverso l’inconscio individuale e in direzione del Sé, sia pur potendo assumere, nel corso della storia e da una regione all’altra del mondo, forme diverse» .
I rimandi tra le scienze sono molti e si condensano, in qualche modo, in un unico punto teorico che coincide con la teoria delle sfrangiature esplicitata ne La casa degli anonimi, in base alla quale ogni atto creativo è un atto non semplicemente creatore, bensì comunicativo: esso si pone a nesso tra il destinatario, un tramite e lo scrittore stesso, in una considerazione olistica del logos come parola-chesi-fa-mondo; concetto che rimanda al tema fondamentale del Connettivismo, quello della comunicazione che riesce a superare i limiti e i confini dello spazio e del tempo, in una superiore sintesi ultrapercettiva.
La chiusa del Manifesto del Connettivismo afferma in maiuscolo, non a caso: «NOI SAREMO TUTTO». Si tratta di un dia-logos, di un attraversamento che potrei, con un neologismo critico, definire metatopico. Una comunicazione, infatti, può essere detta metatopica quando supera i confini limitati e limitanti del corpo, delle tre dimensioni, dell’universo conosciuto, per affacciarsi verso sistemi logici aperti e incommensurabili come il multiverso, l’espansione di coscienza, il mistico. La comunicazione metatopica è, perciò, un atto volontario di risveglio della coscienza, connessione antiriduzionistica dello spirito con l’ὅλος, in una visione onnipervasiva della scienza e della conoscenza. Nel Manifesto del Connettivismo si legge ancora: «Vogliamo rimontare il flusso fino a toccare la sorgente che inganna la percezione e staccare la luce: solo così solleveremo il velo». Internet. Cronache della fine, in questo senso, è un ambizioso tentativo letterario di risalire alla Fonte e gettare uno sguardo al suo interno, oltre l’orizzonte degli eventi di questo spaziotempo, per tentare una metamorfosi estatica dell’esserci.
Alla luce di questa sua intenzione originaria, si comprende chiaramente come il gioco narrativo della quadrilogia che il lettore ha in questo momento tra le mani sia complesso, labirintico, concettualmente pregno e denso. Esso è un exemplum di letteratura massimalista pur nel miracolo cordiale di uno stile piano e penetrante, mai eccessivo eppure ricolmo di pathos e di energia tensiva. Giovanni Agnoloni è riuscito a rendere omaggio alla migliore narrativa distopica, con una saga da cui traspare ovunque la profonda fiducia in un nihil migliore rispetto a quello, disperato e oppressivo, che emerge da tanta narrativa catastrofista contemporanea. Affiora con energia costruttiva, in questo senso, soprattutto l’enorme interesse che l’autore nutre nei confronti delle sorti post-tecnologiche dell’humanum, e l’importanza che il gioco letterario assume nel delineare panorami futuribili che possano insegnarci a vivere davvero pienamente come esseri umani o più-che-umani, oltre la mera, avvilente sopravvivenza.

Due terzi di Odifreddi : per difendere la scienza

6

di Riccardo Canaletti

Il Prestigiatore, Hieronymus Bosch (attribuito a)

 

Di recente è uscita nel sito di Nazione Indiana una critica a firma di Daniele Barbieri contro l’intervento di Piergiorgio Odifreddi su Massimo Cacciari e Roberto Calasso. La motivazione sembra essere una difesa della scienza dall’antiscientismo di autori come il logico e matematico ateo più famoso d’Italia. Tuttavia, credo che la critica sia stata fin troppo dura e la risposta in campo umanistico all’intervento di Odifreddi sia stato poco ponderata. Infatti, credo che si possa salvare di quell’articolo il 66,%. Mi è sembrato infatti che il testo di Odifreddi contenga tre punti essenziali, che possono costituire tre tesi separate.

Il primo di questi punti è quello su cui mi resta difficile essere d’accordo, e forse è quello per cui si è argomentato meglio nella nota di Barbieri. Riguarda il rapporto tra interpretazione e scienza. A detta di Odifreddi le due cose contrastano (in realtà credo che si riferisca alla lettura postmodernista del rapporto tra fatti e interpretazioni, che sfocia quasi sempre nell’antirealismo dei fatti, ma poniamo, in modo poco caritatevole nei confronti del matematico ateo, che intenda semplicemente che interpretazioni e fatti siano inconciliabili in assoluto). Questo è chiaramente falso. Basterebbe il breve commento di Barbieri per avere già alcuni grandi autori non troppo a loro agio con questa idea (come Rovelli appunto). Oppure si potrebbe pensare alla seconda cibernetica, ai costruttivisti, a chi ha fatto dell’oggettività tra parentesi la base per le proprie ricerche in biologia, come Humberto Maturana. O, ancora, si pensi a Putnam, che arrivò a sostenere una forma di realismo in cui i fatti, persino in fisica, fossero intrecciati ai valori. Dunque, questo rapporto non solo c’è, ma potrebbe persino essere pacifico per la scienza, molto più di quanto Odifreddi non creda. Così, abbiamo tolto di mezzo il “terzo incomodo” dell’intervento di Odifreddi. Ma gli altri due punti possono essere salvati.

Il secondo riguarda l’enorme diffusione della religione antiscientista in Italia (siamo alla fine della seconda colonna dell’articolo di Odifreddi). Si dice:

Le opere che i due individui hanno scritto […] costituiscono le “icone della legge” della religione antiscientista “alta” che impregna il mondo culturale italiano, e po’ percola fino all’antiscientismo becero della massa di coloro che di libri non ne leggono nessuno, meno che mai quelli dell’Adelphi, ma trovano in Cacciari e Calasso copertura per le loro superstizioni.

Questo è il primo dei tre temi che mi sembra si possa condividere totalmente. In Italia non solo c’è una sfiducia verso la competenza  in generale (qualcosa che anche Rovelli aveva commentato a Propaganda Live, oltretutto), ma c’è una particolare mancanza di fiducia nelle capacità della scienza di fornire delle conoscenze conclusive in determinati ambiti. “Conclusive” non nel senso di vere per sempre, mai più soggette a errore, ma piuttosto che ci permettano di capire che, per affrontare quel determinato tema, si dovrà usare d’ora in poi la scienza e nient’altro. Questa mancanza di fiducia è largamente provata da una gran parte dell’ambiente poetico italiano delle nuove generazioni, che su Facebook condivide o scrive autonomamente della pandemia a prescindere da qualunque considerazione di tipo sanitario che non sia rimasticata per loro dai giornali di cronaca (che raramente riportano le notizie in modo decente, soprattutto se scientifiche). E questo dà ragione a Odifreddi poiché la lettera di Cacciari e Agamben non è che la dimostrazione involontaria della mancanza di dimestichezza e serenità con i numeri (poiché quelli citati nel testo erano o sbagliati o male interpretati) e più in generale con la scienza (vale la pena ricordare l’idea negazionista sulla pandemia di Agamben stesso, che in più di un’occasione ha parlato di “presunta” o “cosiddetta” pandemia, o del covid come di una semplice influenza, tirando fuori dal cappello numeri a caso per mostrare la bassa pericolosità del virus). E grazie a questo genere di autori, purtroppo si riproducono le stesse uscite antiscientiste, ma più in basso, a livello della massa di cui parlava Odifreddi, con l’unica differenza che non si tratta di gente che non legge i libri Adelphi. Parliamo piuttosto di gente colta (e solo a un livello ancora più basso di riproduzione incontriamo la selva no-vax). E qui arriviamo all’ultimo punto sollevato da Odifreddi.

Si tratta del fatto che il problema non sia nel leggere questo genere di autori, ma di leggere solo questi autori. Il problema più grande infatti è la sfiducia nella competenza, ma l’enorme fiducia nei confronti delle proprie capacità, che sembrano resistere all’evidenza, al ragionamento logico, ecc. Qualche giorno fa è uscito un articolo di Giovanni Boniolo proprio sugli errori argomentativi di Cacciari e Agamben che sono pressocché identici a quelli che si trovano ai livelli più bassi del dibattito, ovvero tra la fauna variegata dello zoccolo duro dell’Adelphi.

Se si vuole difendere la scienza si dovrebbe iniziare a riconoscere che un discorso come quello di Odifreddi, per due terzi, è corretto. L’onestà intellettuale dovrebbe contraddistinguere l’intellettuale, che deve ammettere, se è il caso, di essere rimasto sprovvisto degli strumenti adeguati per comprendere il reale.

Il dizionario di Zeus! (rivista mutante)

0

Il dizionario di Danilo ci insegna, o insomma ci ricorda, perché lo avevamo già constatato, prima di fingere con noi stessi di dimenticarlo, che i dizionari esistono perché noi non siamo dei dizionari, ognuno di noi è anzi l’opposto di un dizionario. I dizionari non si confondono mai, mentre noi uomini ci confondiamo, anche il più accorto di noi qualche volta si confonde, e prende una grossa cantonata. Loro non si sbagliano, mentre noi ci sbagliamo eccome, e è proprio sbagliando che capiamo le cose di servizio e quelle importanti. Loro non tirano a indovinare, mentre noi ci troviamo una volta su due a tirare a indovinare, perché mica possiamo sapere tutto, e perché essendo orgogliosetti ci preme non fare brutta figura, senza contare che vogliamo sempre ficcare il naso in nuove questioni, sapere quello che non sappiamo. Loro non vanno mai a naso, mentre noi spessissimo andiamo a naso, nell’ignoranza completa delle complicate vicende di ogni parola, seguendo in particolare la musica criptica delle sonorità, e proprio procedendo a naso impariamo altre parole che esistono davvero, basta osservare un marmocchietto che incomincia a parlare: per tutta la vita continuiamo a navigare a vista tra le parole, che conosciamo ma anche ci sono estranee, e spesso funziona, e in ogni caso non abbiamo tante altre possibilità.

 

I dizionari non dimenticano niente, o insomma hanno la presunzione di non dimenticare niente, mentre noi dimentichiamo, per fortuna dimentichiamo, altrimenti la nostra vita sarebbe un inferno. Sono puntigliosi, con il loro ordine alfabetico e l’ostentata chiarezza, mentre noi nella vita di tutti i giorni andiamo giù un po’ approssimativamente, con la fretta che abbiamo, mica possiamo stare lì tre ore su ogni parola, e quando facciamo i puntigliosi a forza di essere puntigliosi ci viene voglia di sbracarci e dire cavolate, magari bevendo un bicchiere di vino, e insomma mescolando un po’ le linee sopra con quelle sotto, un senso di una parola con un altro ben differente. I dizionari non scherzano, mentre noi adoriamo scherzare, e scherzare è prima di tutto scimmiottare la pedanteria e invertire le definizioni. I dizionari non piangono e non ridono, mentre noi piangiamo e ridiamo, e in tutte le nostre parole c’è una eco dei nostri pianti e delle nostre risate, o almeno della nostra voglia di prendere le distanze da quello che diciamo, di mostrare che siamo quello che diciamo ma anche altro. I dizionari sono materialisti, pensano che ogni parola possa essere spiegata dalla a alla zeta, mentre noi sappiamo che tante cose non si possono spiegare, e proprio nei misteri si nasconde il meglio delle nostre esistenze.

I dizionari sanno tutto, e come tutti sanno quelli che sanno tutto sono noiosi e non sanno niente della vita. Senza sapere tutto noi sappiamo che ogni parola è legata a altre, ne richiama moltissime altre, greggi di parole, lunghi discorsi e intere filosofie, esattamente come noi abbiamo conoscenti e amici nascosti, soci e sodali di vario tipo, associazioni alle quali apparteniamo, non solo dei parenti ufficiali, e naturalmente ogni parola ha dei nemici, rivali che non sopporta, questo i dizionari non lo sanno, si limitano alle parentele strette, anche se pretendono di sapere tutto. I dizionari non hanno nessuna fantasia e nessuna inventiva, non sguaineranno mai una definizione che ci fa bene al cuore, non sfileranno mai fuori dal cappello una parola che non esiste, come noi possiamo fare quando ci pare e piace, anche senza essere dei sapientoni di quelli che si inventano un ostico parolone ogni frase che scrivono.
Il dizionario di Danilo ci fa ridere perché siamo tutti dei Danili, anche se facciamo il possibile per mostrare a noi stessi e agli altri che siamo ordinati e coerenti e univoci come i dizionari. Lo siamo quando siamo bambini e quando siamo vecchi, lì è evidente a chiunque, ma lo siamo anche quando abbiamo assimilato le regole sociali e a usare bene le parole, a fingere insomma di essere un tutt’uno con loro, perché le parole sono tante, sono troppe, e noi non possiamo saperle tutte, nemmeno i dizionari le sanno tutte, cosa ne sa il grande filosofo dei termini che riguardano la sarchiatura delle patate, e l’insigne linguista dei termini usati dagli specialisti dei lombrichi. Noi ci illudiamo di possedere il linguaggio, mentre è lui che ci possiede, è lui che parla attraverso le nostre bocche, noi siamo dei poveretti alla sua mercé, e in fondo lo sappiamo bene, l’unica rivalsa è annaspare per stare a galla, e metterci un pizzico del nostro, fare qualche bella capriola, lo sappiamo bene, altrimenti Danilo non ci farebbe ridere. I dizionari non ci fanno ridere, ci fanno sbadigliare, e sbadigliando non si impara niente, questo hanno finito per capirlo anche i teorici della pedagogia.

NdR: Le immagini di questo post sono tratte dal Dizionario di Zeus! (di Danilo Ramus), pubblicato nell’ultimo numero del mensile Zeus!, “rivista mutante” della cooperativa Il Cardo, di Edolo. Se ne veda qui sotto la storia. La copertina è di Guglielmo Chiodi, redattore della rivista. Il testo è invece la mia postfazione (dal titolo “L’analfabetismo dei dizionari”).

“Il successo della rubrica Il (Nuovo) Dizionario di Zeus!, a cura di Danilo Ramus, ci porta oggi a stamparne una raccolta con una nuova veste grafica, corredata dalle illustrazioni appositamente realizzate dalla redazione.
La rubrica fa la sua prima comparsa su Zeus! n° 30 (settembre/ottobre 2010) e termina su Zeus! n° 57 (marzo/aprile 2015), diventando il Dizionario Camuno per lo speciale dedicato alle incisioni rupestri Zeus! n° 37 (novembre/dicembre 2011).
Nell’agosto 2015 viene pubblicato il Dizionario estivo sul nostro vecchio blog WordPress (https://zeusrivistamutante.wordpress.com/2012/08/15/dizionario-estivo/). E ancora viene coniugato come il Glossario delle religioni per Zeus! n° 62 (gennaio/febbraio 2016) e il Glossario riciclato pubblicato su Zeus! – Guida Mutante
alla gestione dei rifiuti (giugno 2016).
Siamo lieti di poter condividere con i lettori di oggi questo importante pezzo di storia della nostra rivista.”