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Fernand Deligny: tra Rhizome e Lignes d’erre

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di Lucia Amara

 

 

«E il bambino appena potrà trascinarsi, avanzerà o, se qualche cosa lo minaccia, regredirà. Il bambino è il tattico che avanza, è il tattico che indietreggia. L’avanti, il dietro? A dir il vero, non esiste l’avanti non esiste il dietro. Che cos’è l’avanti? Che cos’è il dietro? Dipende dall’estremità che prendete. Ecco perché, in battaglia si fanno talvolta movimenti aggiranti per cambiare il senso di questo avanti e indietro. Sono queste le grandi regole della tattica.»

M. Jousse

 

«L’unico eroe in questa toccante storia è l’umanità»

Géricault, iscrizione sul quadro La zattera della Medusa

 

 

  1. Rizoma, carte e calchi

 

Quando Gilles Deleuze e Félix Guattari, in Rhizome, il saggio pubblicato nel 1976 e in seguito divenuto introduzione di Mille Plateaux (1980), fanno riferimento a Fernand Deligny (e forse in molti conoscono questo nome in virtù di tale accenno), è un riferimento che gravita innanzitutto attorno alla questione dei rapporti di referenza. Nello specifico, al «metodo Deligny» si fa ricorso nel quinto e sesto punto, enumerati da Deleuze e Guattari tra i «caratteri approssimativi» di un rizoma, sotto la denominazione di «principio di cartografia e decalcomania», in base al quale «un rizoma non è soggetto alla giurisdizione di nessun modello strutturale e generativo». L’argomentazione si articola a partire dalla differenza tra carta e calco, laddove quest’ultimo assume un connotato negativo: «Tutta la logica dell’albero è una logica del calco e della riproduzione. […] Tale logica ha per scopo la descrizione di uno stato di fatto […] essa consiste nel ricalcare qualche cosa di precostituito»:

Tutt’altro è il rizoma, carta e non calco. Fare la carta e non il calco. L’orchidea non riproduce il calco della vespa, fa carta con la vespa all’interno di un rizoma. La carta si oppone al calco, è interamente rivolta verso una sperimentazione in presa sul reale. La carta non riproduce un inconscio chiuso su se stesso, lo costruisce. Concorre alla connessione dei campi, allo sblocco dei Corpi senza Organi, alla loro massima apertura su un piano di consistenza. Fa a sua volta parte del rizoma. […] (Deleuze & Guattari 2006: 46, corsivo mio)

Proprio perché incentrata su una «sperimentazione in presa sul reale», che favorisce «la connessione dei campi», una carta ha molteplici entrate, contrariamente al calco che ritorna sempre allo «stesso»:

La carta è aperta, è connettibile in tutte le sue dimensioni, smontabile, reversibile, suscettibile di costanti rimaneggiamenti. […] La si può disegnare sopra un muro, concepirla come un’opera d’arte, costruirla come azione politica o meditazione. […] Una carta è legata alla performatività, mentre il calco rinvia sempre a una pretesa «competenza » (Ibidem).

Un modello opposto alla carta è quello della psicoanalisi, o della «competenza psicanalitica»

che ripiega ogni desiderio ed enunciato su un asse genetico o una struttura surcodificante, che stampa all’infinito i calchi monotoni degli stadi su questo asse o dei costituenti su questa struttura, la schizoanalisi rifiuta ogni idea di fatalità ricalcata, non importa quale nome le si dia, divina, anagogica, storica, economica, strutturale, ereditaria o sintagmatica (Ibidem, corsivo mio).

La psicoanalisi colloca e ordina le pulsioni e gli oggetti parziali come stadi su un asse genetico, mentre essi sono «opzioni politiche relative a specifici problemi, entrate e uscite, vicoli ciechi, che il bambino vive politicamente, ossia con tutta la forza del suo desiderio» (Ivi: 47).

Il calco diventa pericoloso, secondo Deleuze-Guattari,  quando trasforma il rizoma in radici e radicelle, ossia blocca, organizza e stabilizza neutralizzando le molteplicità e seguendo gli assi di significanza e soggettivazione. È ciò che hanno in comune la psicoanalisi e la linguistica, che procedono a predisporre calchi o foto (dell’inconscio l’uno,  e del linguaggio l’altro, la questione non cambia essendo il meccanismo il medesimo):

Guardate la psicoanalisi e la linguistica: l’una non ha mai eseguito che calchi o foto dell’inconscio, l’altra, calchi o foto del linguaggio, con tutti i tradimenti che ciò comporta (non è sorprendente che la psicoanalisi abbia legato la sua sorte a quella della linguistica). (Ibidem)

Eppure, considerando che la carta ha da sempre la prerogativa di essere ri-calcata, Deleuze e Guattari ammettono che per uscire da questa logica binaria potrebbe valere il ragionamento opposto, è solo una questione di metodo; e allora si deve sempre riportare il calco sulla carta. Il riferimento è implicito: diverrà esplicito poco più avanti quando Deleuze-Guattari nomineranno apertamente il «metodo di Fernand Deligny», senza fornire tuttavia alcuna spiegazione né del metodo in sé, né del suo artefice.

 

*

 

Nel 1968 Fernand Deligny, già da un trentennio educatore nelle istituzioni per l’infanzia e per l’adolescenza deviata, aveva fondato, nel sud della Francia, tra le montagne delle Cévennes, una comunità, fatta di vaste «aree di soggiorno», distanti tra loro e sparse attorno alla cittadina di Monoblet, dove venivano assistiti bambini a parte, o indietro (secondo le definizioni correnti), che molte istituzioni avrebbero rifiutato. Insieme ai suoi collaboratori, che Deligny denominò «présences proches», presenze vicine, ragazzi giovani ma non educatori specializzati né diplomati, mise in atto un metodo per dar voce a chi, come gli autistici o i mutacici, è fuori-linguaggio (hors langage, sic Deligny). È qui che prese avvio la pratica delle carte e dei calchi, di cui si parla in Rhizome. Adottando un criterio di trascrizione sempre uguale e condiviso, venivano riprodotte le carte topografiche, o mappe, delle «aree di soggiorno», alle quali gli educatori sovrapponevano fogli trasparenti (i calchi) sui quali di giorno in giorno venivano registrati i tracciati dei percorsi e degli spostamenti quotidiani dei bambini, gli oggetti con cui essi entravano in relazione, mettendo in evidenza i «nodi» di incontro con i tragitti degli adulti. Lignes d’erre chiamò Deligny queste cartografie, in italiano linee d’abbrivio, piuttosto che linee d’erranza, come facilmente si sarebbe tentati di tradurre. L’abbrivio è un termine più adatto a riprodurre ciò che Deligny intendeva usando il termine erre, proprio perché i tragitti erratici dei bambini autistici, privi come sono di linguaggio e incapaci di un agire mirato, vengono mossi da una propulsione e si implementano solo per la forza stessa con cui si sono innescati, sconnessi totalmente da uno scopo.

Il ricorso alla carte di Deligny, in Rhizome è, dunque, esemplare, condividendo il rizoma e la carta, per la loro stessa natura, «entrate molteplici»:

Il metodo di Deligny: fare le carte dei gesti e dei movimenti di un bambino autistico, combinare più carte per lo stesso bambino, per più bambini… Se la carta o il rizoma hanno per natura entrate molteplici, si dovrà considerare il fatto che ci si può entrare per il cammino dei calchi o la via degli alberi-radice, tenuto conto delle precauzioni necessarie (qui, ancora, si rinuncerà a un dualismo manicheo). (Deleuze & Guattari 2006: 48-49)

La psicoanalisi, al contrario, si sbarazza della «carta» e fa «calco» con l’inconscio. Deleuze e Guattari cercano modelli rizomatici da opporre al puro stile «psicoanalisi infantile», che tende a distruggere la carta, sovrapponendo e predisponendo calchi arbitrari o finti. Al piccolo Hans si è continuato a «SPEZZARGLI IL RIZOMA, a MACCHIARGLI LA CARTA, a rimettergliela a posto, a sbarrargli ogni via d’uscita […] gli si sbarra il rizoma dell’edificio, poi quello della strada, lo si radica al letto dei genitori, lo si arborifica perfino nel suo corpo […]» (Ibidem). Secondo Deleuze-Guattari, Freud considera, sì, la cartografia del piccolo Hans, ma riportandola e ripiegandola sul modello familiare, sulla «foto di famiglia», che ha la medesima struttura ad albero o a fittone, che il rizoma vorrebbe eludere. Un’operazione simile ha eseguito Melanie Klein sulle «carte geo-politiche» del piccolo Richard, da cui estrae foto e copie, non comprendendo «un problema di cartografia» del suo paziente e ricorrendo a «calchi preconfezionati». Il rizoma viene così spezzato e ciò coincide con l’interruzione del desiderio:

Quando un rizoma è otturato, arborificato, è finita, del desiderio non passa più niente, perché è sempre per rizoma che il desiderio si muove e produce. Ogni volta che il desiderio segue l’albero, si verificano ricadute interne che lo precipitano e lo conducono alla morte, ma il rizoma opera sul desiderio per spinte esteriori e produttive. (Deleuze & Guattari 2006: p. 48)

Deleuze-Guattari suggeriscono di «tentare l’altra operazione, inversa ma non simmetrica. Reinnestare i calchi sulla carta, rapportare le radici o gli alberi a un rizoma» (Ibidem). L’operazione di reinnesto, se estesa allo studio dell’inconscio e del bambino, produrrebbe una relazione «rizomatica» tra l’albero familiare e la mappa del fitto reticolato di luoghi, strade o palazzi, che, in questa direzione, si configurano piuttosto come «vie di fuga» del bambino e non vengono barrate dall’asse famiglia-padre-madre:

Lo studio dell’inconscio, nel caso del piccolo Hans dovrebbe porsi nella prospettiva di mostrare come egli tenti di costituire un rizoma, con la casa familiare, ma anche con la linea di fuga del palazzo, della strada, ecc.; come queste linee si trovino precluse, con il bambino che viene radicato nella famiglia, fotografato sotto il padre, ricalcato sotto il letto materno […] come il bambino non possa più fuggire se non sotto la forma di un divenire-animale assimilato alla vergogna e alla colpa. (Ibidem)

Lo «stile psicoanalisi infantile» non riesce a comprendere – concludono Deleuze e Guattari – che «il divenire-cavallo del piccolo Hans è una «vera opzione politica».

 

*

 

Cosa succede dunque se, come Deligny, si riporta o si reinnesta il calco sulla carta? Quali configurazioni, spaziali e non, ne sortiscono? All’inizio di Rhizome scrivere e mappare si equivalgono: «Scrivere non ha niente a che vedere con il significare, ma con il misurare territori, con il cartografare, perfino contrade a venire». Quali contrade a venire ci indica «il metodo di Deligny»? Perché di questo si tratta, nel caso in cui si voglia indagare il tratto fortemente utopistico della sua inchiesta, dove utopia non deve richiamare l’irrealizzabile, ma lo spostamento e sfiatamento di luogo (e luoghi) di cui è portatrice, di certo il nucleo più essenziale e notevole dell’operazione e dell’opera di Deligny.

Riprendendo il piano politico del discorso, oltre all’operazione associata al desiderio infantile troviamo, nella riflessione di Rhizome e nell’accenno a Deligny, un altro livello di nessi, che danno conto di una serie di congiunture storico-politiche rilevanti, il cui fulcro si rintraccia attorno a un importante e durevole dibattito, avviato nel ’68,  sul tema della configurazione spaziale di una opzione politica, anche decentralizzata e centrifuga o centripeta, pertinente al modello che Deleuze e Guattari cercano nel rizoma:

In che modo i movimenti di deterritorializzazione e i processi di riterritorializzazione sono relativi, perennemente connessi, intrecciati gli uni agli altri? L’orchidea si deterritorializza formando un’immagine, un calco della vespa, la vespa si riterritorializza su questa immagine. La vespa, nondimeno, si deterritorializza diventando un pezzo dell’apparato di riproduzione dell’orchidea, ma allo stesso tempo riterritorializza l’orchidea, trasportandone il polline. La vespa e l’orchidea fanno rizoma in quanto sono eterogenee. […] non imitazione, ma cattura di codice, plusvalore di codice, aumento di valenza, vero divenire, divenire-vespa dell’orchidea, divenire-orchidea della vespa, con entrambi i divenire che assicurano la deterritorializzazione di uno dei termini e la riterritorializzazione dell’altro e si concatenano e si danno il cambio secondo una circolazione di intensità che spinge la deterritorializzazione sempre più avanti. (Deleuze & Guattari 2006: 43)

I movimenti che si producono tra vespa e orchidea, esempio tipico di rizoma, non sono asserviti a uno schema per imitazione e somiglianza, ma all’esplosione di due serie che, sebbene parallele, deflagrano in «linee di fuga», condividendo un rizoma comune pur non producendo significanza. Deleuze e Guattari ricorrono alla formula di Rémy Chauvin: «Evoluzione aparallela di due esseri che non hanno assolutamente niente a che vedere l’uno con l’altro».

La modalità con cui il metodo psicoanalitico riduce e minora i movimenti cartografici e geografici del bambino riproduce esattamente un pericolo sociale e politico. Anche laddove si riesca a produrre una rottura, o si scorga o si tracci una linea di fuga, si rischia in seguito di ritrovare organizzazioni che ristratificano l’insieme, formazioni che ridanno il potere a un significante. Deleuze e Guattari, registrando il meccanismo di ciò che si manifesta e configura come ritorno a un ordine, lo estendono poi alle più diverse situazioni e configurazioni, «dalle risorgenze edipiche fino alle concrezioni fasciste».

La pratica delle carte e dei calchi di Deligny diviene dunque una leva importante per i due filosofi, lo si legge chiaramente nel passaggio che prelude a quel «metodo»:

Sulla carta si devono sempre ricollocare le impasse, e da lì aprirle sulle possibili linee di fuga. Lo stesso dovrebbe avvenire per una carta di gruppo: mostrare in quale punto del rizoma si formino fenomeni di massificazione, di burocratizzazione, di leadership, di fascistizzazione, ma anche quali linee continuino, magari sotterraneamente, a fare oscuramente rizoma. (Ivi: 48)

Si comincia così a comprendere meglio come, per Deleuze-Guattari, il «metodo di Deligny» possa assurgere a laboratorio in cui sperimentare il concetto di rizoma e ripensarlo in termini di prassi, all’interno di domande che erompono spesso dalle medesime occorrenze. Uno dei ceppi comuni sta proprio nel reinterrogare il concetto di configurazione e i modi in cui si producono i rapporti di referenza, che Deleuze-Guattari individuano sia nella storia, intesa come complessa stratificazione di poteri e relazioni di poteri; sia nella storia, che potremmo definire ‘privata’, vista dalla parte dell’inconscio freudiano, in cui le stratificazioni fanno sempre capo a un “albero” genealogico familiare (ad essere presa di mira da Deleuze-Guattari è la psicoanalisi infantile con le sue discendenze che portano sempre direttamente al letto del padre/madre); sia, infine, nelle strutture di potere del linguaggio, come si evince dall’albero sintagmatico di Chomsky costruito secondo uno schema dicotomico. Opporsi al dispotismo della costruzione binaria e ad albero, in cui ogni elemento dipende dall’altro senza possibilità di rottura, o via di fuga, significa, dunque, pensare in termini di territorialità.

Termini e concetti quali deriva, margine e linea di fuga, sono giunti a noi da questo complesso dibattito, che mosse i suoi primi passi alla fine degli anni sessanta, di cui Mille Plateaux di Deleuze-Guattari è uno dei contributi più sostanziali, oltre che compendianti. Tornare a verificarne il punto di scaturigine è il motivo per cui è importante rimettere Deleuze e Guattari in relazione con Fernand Deligny.

Il trattamento a cui Deligny sottopone il termine «deriva» è emblematico:

La deriva di cui parla Deligny non è né esistenziale né situazionista. Essa designa lo spostamento per il quale degli operai, dei contadini, degli studenti, hanno lasciato una via ben tracciata per mettersi in situazione di ricerca. Indica lo spostamento e la cosa: la pinna verticale immersa che impedisce a un aereo o a un’imbarcazione di derivare. Ha il suo territorio (così come dice Deleuze dei nomadi che hanno un territorio), la sua gerarchia… (Alvarez de Toledo, in Deligny 2007: 804, trad. mia).

Per questa via, la condizione del bambino autistico diviene un campo aperto. Privo totalmente di linguaggio, egli è già di per sé deriva e margine, perché nel momento in cui la pensiamo, la sua condizione, lo facciamo in termini di linguaggio e con il linguaggio, quindi “quella” condizione non può che rimanere fuori. E se l’adulto (educatore o vicino e familiare), dalla sua parte, non dà alcun potere al linguaggio, saranno all’inverso questi bambini a controllare e vigilare la deriva, a garantire una postazione che diversamente sarebbe insostenibile per chi il linguaggio ce l’ha. Così, in una lettera, datata 7 ottobre 1975, a Isaac Joseph, giovane filosofo assistente in sociologia all’Università di Lyon, che aveva visitato la rete delle Cévennes nel ’74 e che curerà l’edizione dei Cahiers de l’Immuable, Deligny scrive che ha affidato a Janmari, il ragazzo che incontrerà a La Borde e attorno al quale si costruirà il progetto nelle Cévennes, il compito di «ispettore delle derive» e agli altri ragazzi quello di «controllori». Saranno le loro presenze e i loro passaggi a decidere la fondatezza delle derive di ogni area di soggiorno:

«Sono un miscredente», «Qui siamo tutti miscredenti. Qui, noi non ci crediamo alla parola, non ci fidiamo…» e qui Janmari ci aiuta a tenere questa posizione insostenibile, ci aiuta nella nostra deriva. Nessuno ignora in questa rete che il linguaggio non è religione o mito che si sostiene su una credenza o si rifiuta attraverso un’eresia, che è costitutivo del me e del sè e che nulla che germina su questo terreno sfugge al fiume di parole. Semplicemente Janmari e gli altri, permettono questa deriva della zattera che ha cominciato con questa scommessa di diffidenza, di miscredenza.

Chi deriva? Chi si vuole domandare seriamente cosa ne sarà delle loro maniere d’essere una volta che essi avranno messo la parola a rottamare ciò che è  stabilito […]. (Deligny 2007: 850, trad. mia)

Per questo Deligny, come tutti i fondatori di nuove pratiche e mitologie,  considera necessario rimettere a punto un vocabolario, azione fondamentale se si vogliono riformulare le questioni. Dunque, alla linea di fuga, che non può in alcun modo riguardare un bambino privo di linguaggio, il quale si muove nello spazio e nella vita con delle intensità più simili a una propulsione senza motore, Deligny oppone la ligne d’erre. Da qui proviene la scelta, data anche da un certa riuscita eufonica, di usare il verbo errer nella forma erre, senza precisarne né la persona né il modo e il tempo (potrebbe essere Io o Tu, indicativo o congiuntivo) e non mutando il verbo in sostantivo, errance, proprio per non rinchiudere definitivamente in una parola/forma i tragitti “senza fine” di chi è privato, fin dalla nascita, del linguaggio:

Erro: mi è venuta la parola. Essa parla di un po’ di tutto, come tutte le parole. Di “un modo di camminare, di andare”, dice il dizionario, della “velocità acquisita da una nave su cui non agisce più il propulsore” e anche “di orme di un animale”. Parola molto ricca, come si può vedere, che parla di andatura, di mare e di animale, e che nasconde ben altri echi: “errare: – allontanarsi dalla verità… andare su e giù, a caso, all’avventura”. J.-J.Rousseau lo dice: “viaggiare per viaggiare, significa errare, essere vagabondo”. Ma anche “manifestarsi qua e là, e fuggevolmente, su diversi oggetti, sorridere a fior di labbra”.

Eccoci provvisti di una parola che non vuol dir nulla, colma di senso comune come una conchiglia può esserlo di sabbia, morto venuto a riempirla, bestia defunta. E questi strani animali vagabondi, privati di propulsore, che manifestano vai a sapere cosa a tutte le estremità di questo campo che è quello del nostro sguardo, eppure hanno un nome di persona di cui sembra non si sentano segnati (Ivi: 811, trad. mia)

Davanti a questi bambini «increati dal Verbo» e «non coniugati», perché semplicemente il verbo non lo possono coniugare – come di loro dice Deligny – la categoria della psicoanalisi, che erge a fondamento il linguaggio, non può che risultare un paradigma inadeguato. Quella di essere hors-langage è una condizione da cui non si può tornare indietro, né edificarla né dargli alcuna configurazione se non di tipo strettamente spaziale: noi, dotati di linguaggio viviamo nel tempo – dice Deligny – loro, i bambini senza-linguaggio, vivono nello spazio.

 

*

 

Fernand Deligny, lontano da Parigi e dai tumulti sessantottini, lavora con esseri umani privi della facoltà del linguaggio e che non possono rivendicare alcun diritto alla parola, mettendo rigorosamente in crisi i termini e gli estremi della rivendicazione del prendere, o dare la parola (de Certeau 2007). Una presa di posizione di fronte all’ideologia che si riassume in una frase di Moindre geste, il film-documentario che Deligny girò insieme a Josée Manenti e Jean-Pierre Daniel, nel 1971: «Perché sarebbe necessario che la parola appartenga a qualcuno, anche se qualcuno la prende?». Non sono i diritti dell’alienato a interessare Deligny, ma piuttosto il contrario, cioè la sua «irresponsabilità» profonda e inveterata, la sua impossibilità a farli valere i propri diritti.

Nella prima pagina del suo diario-autobiografia, Journal d’un éducateur (1966), in visita in un asilo psichiatrico, Deligny annota:

È vero che questi bambini indietro in questo castello di Sologne vivono del tutto al di fuori del tempo e dello spazio, perdutamente apolitici […].

Liberi. Sono liberi. Essi possono esprimersi liberamente attraverso ogni sorta di onomatopea. Non sono obbligati neanche a servire le parole in quanto tali. Hanno colori a tempera e matite per esprimersi ancora, liberamente. Non hanno bisogno di fare il minimo gesto utile. Ritirati dalla nascita. (Deligny 2007:11, trad. mia)

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Figura 1. Mappa della clinica di La Borde

 

Nel 1977, Félix Guattari dedica il numero 21 di Recherches ai dieci anni di esperienza psichiatrica della clinica di La Borde, fondata dallo psicanalista Jean Oury, nella regione francese di Loir-et-Cher: «Histoires de la Borde: 10 ans de psychothérapie institutionnelle à Cour-Cheverny 1953-1963». Nella prefazione, a cura dello stesso Oury, fondatore della clinica insieme a Guattari, è evidente come l’acceso dibattito prendesse forma attorno a una riflessione  incentrata sullo spazio. Non a caso il testo è accompagnato dalla mappa della clinica (Figura 1). Un «altrove», ma qui e «presente», un «luogo puro», si staglia all’orizzonte, un luogo neutro da reinventare:

Niente è da vedere qui. Niente, se non una certa curvatura dello spazio. Tutto concorre forse, ingenuamente, a stabilire l’equazione di questa curva. […] Questo cammino, di un altrove sempre presente, che marca nella sua istanza le ripetizioni, i luoghi, le scene, incontra una quotidianità banale e abbondante. Sapere se c’è un luogo puro, un luogo di neutralità dove possa inscriversi ogni evento, ogni itinerario, foss’anche il più inabituale? (Oury 1976: 9)

Deligny reagì all’uscita della rivista con una lettera a Guattari, raccolta nel terzo dei Cahiers de l’Immuable, sotto il titolo Dal mistero al miraggio, in cui torna su alcuni punti del saggio di introduzione – ed in particolar modo su un passaggio in cui Guattari, riferendosi a un arco di tempo che va dalla fine della guerra al sessantotto, parla di «crisi generale dei punti di mistero», in cui, secondo il suo punto di vista, azioni come quella di Deligny ebbero la «funzione di raccordo»:

In questo disastro religioso, aggeggi come Saint-Alban e Deligny svolgevano la funzione di raccordo. Come hanno potuto, questi focolai del mistero, fondarsi attorno a bande di folli e di delinquenti? Si pensava che in quei luoghi accadesse qualcosa… (Guattari, in Deligny 1980: 65)

E Deligny replica:

Dove tu dici mistero, io dico miraggio. E mi va benissimo di essere preso per un “posto”. Eccomi dunque luogo. Prendersi per il “buon” luogo. (Ivi: 66)

Ricordando come Jean Oury, durante la sua permanenza a La Borde, lo avesse un giorno apostrofato “vicino”, Deligny ammette che è vero, sì, lui era un vicino. Tuttavia il vicinato implica una distanza, aggiunge: «Bisogna sempre mantenere un po’ di distanza, altrimenti si passa – e si trapassa – per davvero». E Deligny prende distanza anche dalla psichiatria di La Borde. La questione è sostanziale, anche perché egli dall’inconscio e dalla storia sposta l’attenzione su di un altro piano, mettendo in campo il concetto di «umano»:

Per me non si tratta di dire la mia in queste storie ma di precisare qualcosa di ben diverso. A voi stavano a cuore la storia e l’inconscio, a me l’umano. Ecco una parola insolita, nuova nuova. Nessuno – e io meno di tutti – sa cosa voglia dire. D’altra parte (l’)umano non vuole dire niente. […] E l’umano, relitto irriducibile, è vicino ineluttabilmente. Per questo l’ho soprannominato libertario. L’umano non è qualcosa, come io non sono un luogo. Ma può capitargli di aver luogo al di sopra di ogni mercato, di ogni mercanzia e di ogni mercanteggiare, come un punto di orientamento all’origine della necessità di libertà sempre riconosciuta. Dell’umano, a dire il vero, tutti se ne infischiano. Si trova infatti all’altro polo della persona. Se questo focolaio di mistero potesse parlare, ecco cosa direbbe. (Ivi: 67)

 

*

 

Le sovrapposizioni e i riverberi tra Deleuze, Guattari e Deligny sono importanti e non così facilmente riconducibili a una semplice genealogia o enumerazione di luoghi, concetti e opposizioni, in molti casi generatesi da un alveo storico-politico e culturale comune. Intanto, un primo dato cronologico: Rhizome esce nel 1976, stesso anno di apparizione, per la rivista Recherches, diretta da Félix Guattari, dell’ultimo dei tre Cahiers de l’Immuable di Fernand Deligny (i primi due erano usciti tra il 1975 e il 1976). Il titolo origina dalla constatazione che l’«immutabile», termine con cui Deligny allude alla ripetitività convulsiva e stereotipata dei bambini autistici, può diversamente essere assunta come regola organizzativa e ritmica su cui scandire la vita degli adulti insieme (o vicini) ai bambini:

 

È affetto

questo bambino

da autismo infantile precoce

il suo isolamento è estremo

dice la psichiatria

e quel che dice è vero

il sintomo è innegabile

e dato che è di immutabile

che ha bisogno

ne avrà quanto ne vuole

di immobile e di reiterato e di

sempre uguale.

(Deligny 1977: 13)

I Cahiers de l’Immuable sono la testimonianza e il punto più alto, la summa dell’esperienza “pedagogica” di Deligny su quelle che lui nominò lignes d’erre, e che, come abbiamo visto, corrispondono precisamente alle cartografie cui si riferiscono Deleuze e Guattari, in Rhizome. Potrebbe allora essere interessante rifare il passo da qui, mettendo ancora una volta in relazione alcuni aspetti del pensiero e della pratica di Fernand Deligny con un dibattito ampio, di carattere storico e politico, come era in quel frangente, piuttosto che semplicemente riporlo per sempre all’interno della pratica dell’anti-psichiatrica o dalla cosiddetta pedagogia libertaria. Concetti quali territorialità, deterritorializzazione e riterritorializzazione, configurazione e piani di consistenza, linee di fuga e tracce di intensità, concatenamento e modi del concatenamento in rapporto a tipologie di potere sociale, ci appaiono parole quasi rinsecchite dall’uso, che possono essere riascoltate come conchiglie vuote, nello stesso modo in cui Deligny immaginava le parole in disuso, abbandonate come banchi di conchiglie.

La figura di Deligny è complessa e raffinata, le sue aree di intervento, dalla letteratura alla poesia, dal disegno al cinema, votate a un rigore assoluto e intransigente, sono difficilmente riportabili a un’unica area disciplinare. La questione dell’autismo rappresenta nel suo lavoro un perno, prima di tutto esistenziale («Noi abbiamo raggiunto la chiave delle nostre esistenze», scrive nel secondo dei Cahiers de l’Immuable); ma, al contempo, Deligny intravede e disegna la “regola tattica” per la possibilità di un estremo confronto storico-politico. In questo doppio si gioca allora un’ulteriore possibilità di ri-leggere l’opera di Deligny.

 

 

  1. Transumanza

 

Quando nel 1968 Fernand Deligny si trasferisce nelle Cévennes per fondare la comunità di presa in carico di bambini e ragazzini considerati «im-possibili» e «in-curabili», non si tratta di un ritiro, né tanto meno di un ritiro da Parigi, o da un centro. Innanzitutto Deligny è già lontano. Egli, tra il febbraio 1965 e il luglio 1967, aveva soggiornato nella clinica psichiatrica di La Borde, a Cour-Cheverny, invitato da Felix Guattari e Jean Oury. Sarebbe più appropriato parlare di avanguardia, nel senso di un reparto avanzato, perché Deligny, nelle Cévennes, si sposta in avanti, non torna indietro come qualcuno potrebbe pensare, insinuando sulla sua comunità il sospetto di primitivismo.

Il viaggio è già inscritto nel suo romanzo. Anche per la eco di quello che Stevenson, uno degli autori preferiti di Deligny, aveva compiuto attraverso le Cévennes nel 1878 e descritto nel romanzo Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino (R- L. Stevenson 2012). I luoghi sono storicamente pregnanti, sia per Stevenson che per Deligny: in quelle montagne, all’inizio del Settecento, ebbe luogo la rivolta dei Camisards, i protestanti perseguitati dal re cattolico Luigi XIV. Durante quella che fu una vera guerriglia si verificarono strani episodi: paracusie, apparizioni, e bambini che parlavano lingue sconosciute o in glossolalie («bambini tocchi», li dice Stevenson), da cui si è trasmessa la leggenda dei “piccoli profeti delle Cévennes”. Deligny, giunto in quella regione del massiccio centrale, aveva in progetto di girare un film sui Camisards, per l’appunto.

Eccolo descrivere l’arrivo del «primo nucleo» tra le montagne:

Il nostro arrivo nelle Cévennes avveniva quasi all’indomani di un’alluvione che aveva fatto straripare i fiumi allagando le città. Tra le maglie di ferro dei tralicci dell’energia elettrica erano ancora impigliati grovigli di rami e di alberi. Sembravano nidi. Eravamo in sei oltre alcuni bambini… (Deligny 1980: 7, corsivo mio)

Colpisce il termine «nidi» perché è carico di senso nella “trasferta” di Deligny, per il quale la specie si perpetua attraverso i gesti (solo così è possibile usare un concetto altrimenti pericoloso come quello di specie). Ecco allora che uno dei gesti originari di un “umano” di cui Deligny scaverà le tracce è molto vicino a ciò che per gli animali è la nidificazione. Per questo Deligny sceglierà i luoghi in cui fermare la sua erranza e li chiamerà aree di soggiorno («unità sparse nelle Cévennes»), rubando l’espressione al vocabolario dell’etologia animale. Si sa che Deligny fosse un lettore dei Souvenirs entomologici di Jean Henri Fabre (Fabre: 1957; 2020). Si ri-porta il soggetto a un punto di origine, che è sempre spaziale: in quel luogo dove possiamo fare a meno del linguaggio.

La parabola di tali tragitti è quella originariamente tracciata a matita su fogli bianchi da Janmari, il ragazzo encefalopatico grave, proveniente dalla clinica parigina della Salpêtrière, affidato a Deligny dalla madre a La Borde, nel 1966, e che lo “inquieta”, nel senso che lo metterà nella quête, divenendo l’ispiratore del nuovo spostamento nelle Cévennes. Il disegno che il ragazzo traccia per giorni interi è una O mal fermé (una O non chiusa), come la chiama Deligny. Un cerchio aperto che diventerà la struttura portante del «tentativo in corso»: il tentativo non è un progetto né una applicazione di principi, ma una «démarche», un’andatura, un modo di camminare. (Fig. 2)

 

 Figura 2

Se il tratto della linea rimane aperto, il progetto è sempre possibile. Siamo di fronte non all’edificazione che è propria al linguaggio, perché quei bambini sono in «vacanza di linguaggio», ma all’erranza tipica di certi uccelli che nidificano utilizzando i nidi abbandonati da altre specie (De Certeau 1990: 136). Sono movimenti opposti, tutte opzioni possibili. Deligny sceglie di ripercorrere le tracce segnate della catena ercinica, ricerca il gesto primo e prima del linguaggio; fiuta la memoria dei luoghi, cerca una collocazione, il tòpos dei bambini; si stanzia fondando aree di soggiorno come possibili strutture “aperte” per “collocare” una condizione estrema e degradante, ma aperta, come quella di chi è fuori-linguaggio. Ogni area è abitata da un piccolo nucleo formato da un adulto (o massimo due) e da un bambino (o massimo due o tre). Insieme si alternano, arrivano, partono e tornano. Nessuna reclusione, per nessuno. Solo tre ragazzini, Janmari, Cristophe e Gilles (detto Toche), vivono in “permanenza” (Deligny fa discendere questo statuto dal verbo latino permanēre). Anche gli adulti possono fermarsi per periodi brevi, poi vanno.

Il rilievo del luogo individua uno dei primi nuclei di installazione, sul territorio di Séré, che Deligny guarda e descrive dall’alto, servendosi di una fotografia aerea, che accompagna l’inizio della scrittura del terzo dei Cahiers de l’Immuable: 

Questo mio diario fa da didascalia non a una carta tracciata con le nostre mani ma a una foto scattata dall’aereo che riprende un luogo chiamato Séré. Visto dall’alto appare così. Nella parte bassa dell’immagine ritrovo la spaziosa casa in cui abbiamo vissuto. Si vede il tetto: una macchiolina grigia rettangolare. E sotto quel tetto c’erano, a sfidare il buon senso e il linguaggio, mille e mille tracce successive e identiche di qualcosa che ogni giorno sorgeva tra noi e correva sul filo di una mina di grafite. Tutt’attorno, le ondulazioni profondamente erose della catena ercinica. (Deligny 1980: 8)

La transumanza, l’erranza, la devianza, il détour, il déplacement vengono eletti come principi per creare una «rete» (in francese réseau, uno dei prìncipi fondanti del progetto di Deligny), che rimpiazza l’idea di comunità chiusa, di concentramento e accentramento, schivando così la riserva dei diversi. Il territorio della rete è esteso e la distanza assicura un certo distacco tra le aree di soggiorno. Una mezza dozzina di unità distanti da cinque a venti chilometri le una dalle altre: L’Ile d’en bas, Graniers, Monoblet, Le Serret, Pomaret, Les Murettes-Le Montaud, Le Palais:

Uno di noi era andato a vivere in una valletta

a trecento metri dai casolari

Robinson

     nella sua isola

in una cunetta provvisto di alcuni Venerdì

im possibile

in sopportabile

in curabile

un piccolo corso d’acqua

una tenda

un riparo

i quattro muri senza tetto di una stella da

tempo abbandonata     Senza te-tto

Senza te

né me

(Deligny 1977:22)

Gli individui sono il luogo che abitano, territorio o isola, comunque sempre «nodo di esistenze»:

Tra di noi chiamavamo quel luogo l’Ile d’en bas senza saperlo, per noi il “soggetto”, la “persona”, erano già l’area, il luogo, il territorio, l’isola, nodo di esistenze. E esito a scrivere questa parola al plurale. Noi eravamo lì e il “noi” non era affatto pensato come un aggregato di “individui”. Era un luogo. Ce n’erano altri. (Deligny 1980: 27)

Tra gli strumenti cartografici, la fotografia è una tecnica che Deligny utilizza regolarmente. Così descrive una foto scattata durante uno di questi spostamenti, che chiama transumanze. Alla deriva, viene sostituito e succede il détour, curva o deviazione:

Venti chilometri, quel giorno, dal luogo vecchio a quello nuovo, attraverso le onde erose della catena ercinica. Gravemente psicotici questi bambini, entrambi, e la persona che cammina alla testa del gregge è arrivata qui dalla periferia di Parigi. Bisogna abbia deviato parecchio il suo destino, perché questi bambini possano sfuggire al loro, di destino, che era di essere internati. Ed eccoli tutti e tre che camminano tranquilli, nessuno più pazzo dell’altro […]. (Deligny 1977: 59)

Non c’è un tempo in questo viaggio «in vacanza di linguaggio», non c’è alcun confine tra passato e progetto presente o futuro.  Ci si muove cercando dei punti di riferimento (repères, li chiama Deligny), vivi:

Il gregge non si raccapezza, perplesso davanti a questo percorso di oggi che non finisce mai e non ritorna al luogo consueto. E quello che cammina davanti confida, per questo da farsi, in quello che segue, che è l’autore del progetto presente che si può definire così: scuoterla un po’ questa routine che invadeva ciò che è consueto, darle un po’ di aria, per discernere il grano dal loglio, i punti di riferimento vivi dalle cose morte. Capita anche a loro, alle cose, di morire. (Ibidem)

La ricerca della traccia e del contorno della figura negli scatti fotografici di questa transumanza («ci si fida delle mappe catastali di altri tempi», scrive Deligny) scava e dissotterra gesti antichi (sarà uno dei criteri per tracciare le «lignes d’erre»):

Ed ecco che la foto si mette ad evocare certi affreschi ritrovati su qualche parete rocciosa. Vi compare quel tratto che delimita, la linea di contorno che segna il confine della cosa nominata e di cui si potrebbe credere che non esiste in natura. Quelle capre eccole tracciate. (Ivi: 63)

Le paraboliche traiettorie di viaggio ricordano quelle di Don Chisciotte, un eroe letterario molto amato da Deligny, la cui erranza costruisce un’epopea di tragitti. Il gioco omofonico tra leggenda e legenda, che in francese si esprimono entrambe con la stessa parola, légende, intesse un intrigo doppio tra la grana leggendaria di cui Deligny riveste il suo progetto con i bambini e le «légende» che appone come descrizioni sia delle foto che delle linee d’erranza/lignes d’erre. L’insieme di questi elementi conferisce alle «légendes du radeau», un tono simile ai miti di fondazione, tanto da farlo divenire le mythe du radeau, il mito della zattera, un’imbarcazione di estremo salvataggio, metafora per dare nome al progetto a una comunità di fortuna, come Deligny intende il «tentativo in corso». Tutto così si carica di legenda:

Un tempo, il sale aspettava le pecore su queste pietre. I greggi stanno per scomparire, sono scomparsi da queste parti.

Vestigia, queste pietre erose dalla lingua delle pecore. Certe persone a vederle sentono come un vuoto da qualche parte, un vuoto triste. Altri che sono puri frutti del progresso, prendono le cose come vanno. […]

La prossima primavera, ne avremo certamente uno, di gregge, che passerà di qui, tra le pietre piatte, e ce ne sarà di sale sulle pietre, nonostante tutto, per vedere, per porre rimedio alla nostalgia, riparare il danno, far girare la terra in senso inverso. (Ivi: 68-69)

 Dispiegando tutte le possibilità della parola e della parola poetica, servendosi del linguaggio alto della metafora, del vocabolario desueto e di quello popolare del linguaggio idiomatico, Deligny conferisce  dignità di letteratura ai bambini senza linguaggio: dignitas inteso nel senso esteso del diritto romano. Solo innalzando il suo, di linguaggio, Deligny può garantire a quei bambini il diritto al silenzio, l’unico per cui l’educatore francese vuole e può battersi: «Divenire muti […] fare lo sciopero dell’espresso come altri fanno lo sciopero della fame […] questa decisione di legare la propria sorte a una causa persa, quella del silenzio». È l’incipit di uno dei capitoli di «Nous et l’innocent» (saggio del 1975), dal titolo Ce silence là ou le mythe du radeau, dove zattera è la metafora della comunità da fondare:

ecco che ora ci sono, in questi vasti cammini di terra trattenuti da piccoli muretti montati pietra su pietra al fianco di monti molto erosi della catena ercinica.

Ancora una volta, c’è, la quindicina di bambini autistici, ed è perché ci sono io, tra quattro mura spesse d’un metro o quasi, loro nei dintorni, fuori, lontano; i loro tragitti vi si sono iscritti, sui muri, e ciò che tengo d’occhio, è noi, noi altri là, zattera di ultimo salvataggio di vite isolate.

Le Cévennes sono vaste. (Deligny 2007: 696, trad. mia)

 

  1. Giornale di bordo

 

Dal canto suo, fisso nell’atelier situato a Monoblet, Deligny non si sposta, e vigila sulla vita dei bambini, ma “da lontano”. Questa distanza, studiata e non occasionale, necessaria e mantenuta costante, è fondamentale nello sviluppo del suo metodo. Anche le aree di soggiorno, abbiamo visto, sono molto distanti tra loro. La scrittura di Deligny è costantemente puntellata da indicatori di luogo, , haut, nous-ci, nous-là, ce nous-là, che hanno il ruolo di shifters, riportano sempre al qui e al dove, riconducono alla traccia, così come a tutto ciò che marca lo spostamento, producendo il punto di osservazione attraverso una pratica territoriale di messa a punto e configurazione di spazi. Una “misura” che si estende a tutta la relazione con i ragazzi presi in carico, affidatigli dalle istituzioni o dalle famiglie. Per questo gli educatori non sono tali e Deligny li ribattezza presenze prossime, dove prossimo non è “esattamente” vicino (il concetto di voisinage qui è messo radicalmente in crisi) perché non richiede relazione. Chi è prossimo è “lì”, presente, ed è su di lui, adulto, a essere incentrato l’intervento. Nel 1976, Deligny scrive ad Althusser:

Nella nostra pratica, qual è l’oggetto? Tal o talaltro bambino, soggetto psicotico? Certamente no. L’oggetto reale che si tratta di trasformare, siamo noi, noi là, noi prossimi di questi “soggetti” qui, che a rigore di termini non lo sono proprio (tanto) ed è il motivo perché ESSI ci sono, là. (Lettera inedita a Louis Althusser, settembre 1976, cit. in Deligny 2013: 1, trad. mia)

Allo stesso modo, ai bambini autistici, privi del patto con il linguaggio, non si trasmetteranno conoscenze, ma semmai gesti. Nelle aree di soggiorno si svolge una vita semplice, si coltiva l’orto, si fa il pane, si allevano i polli, si lavora il legno, si prepara da mangiare, si apparecchia e si lavano i piatti. (FIG. 2bis)

Figura 2bis

 

L’organizzazione della rete nelle Cévennes si basa sull’autosussistenza, nessuno ha uno stipendio e quindi non c’è circolazione di denaro. Deligny la definisce «vita da zattera»:

Gesti, percorsi, progetti avvengono nell’assenza del linguaggio. Sono mutacici, questi bambini, e l’assenza del linguaggio è un po’ come l’assenza di gravità.

I gesti di quelli che sono là, come presenze vicine a questi bambini gravemente psicotici, alcuni dei quali sono stati dichiarati incurabili, subiscono da questo fatto una sorta di «deriva», che LORO hanno deciso di non frenare.

Chi sono LORO, quelli là, che vivono volontariamente ai confini del mondo del verbo di cui si dice che è l’umano per eccellenza?

[…]

Perché un bambino possa avere un luogo altrove che nei luoghi previsti dallo Stato per il suo stato, bisogna che qualche adulto si sia sottratto alla forza d’attrazione dell’impiego che lo aspettava, qui o là, e decida di vivere nell’incessante ricerca di un «noi altri» che permetta a questi bambini «proibiti» di osare, di osare di essere, che il verbo ci sia o non ci sia.

Permettere loro di intervenire, a questi bambini che paiono segregati in un isolamento a volte estremo, rivela gli indizi di un NOI che ci sorprende e, si può dire, ci sfugge.

È quasi sempre inavvertitamente che avvengono le coincidenze tra il bambino psicotico e il NOI di queste piccole unità sparse nelle Cévennes. (Deligny 1977: 29)

I bambini (EUX, LORO) sono lì, vivono in prossimità dei gesti degli adulti (NOUS, NOI), gesti improntati a un consuetudinario ripetitivo con cui Deligny sostituisce il concetto di quotidiano. In tal modo gli si garantisce l’immutabile. In questa organizzazione ritmata e susseguente, può succedere che il bambino assuma il gesto dell’adulto, per contagio o imitazione. Sarà compito dell’educatore comporre, decomporre e amplificare il gesto del bambino, osservando, rimanendo prossimo, tracciando (azione assieme coreografica e pittorica):

Voglio dire che non smetterebbe mai

di pelare patate

o di lavare piatti

da quel buono a niente che era

eccolo diventato una straordinaria

macchina tuttofare

senza linguaggio nessun fine

una verità evidente che può evitarci di vedere

che il linguaggio può avere i propri fini

e di noi      non gliene frega niente

al linguaggio né più né meno

che a lui, il ragazzo

(Deligny 1977:22)

Dettagliatamente e magistralmente documentata in Ce gamin, là, il film di Deligny, prodotto  nel 1975 da François Truffaut, la pratica del consuetudinario affonda su NOI, gli adulti, le presenze prossime, vicini, attenti, stupiti, inquieti, commossi, ma costantemente :

Quel che mi sono detto

E che ho detto e ridetto instancabilmente

 immutabilmente

        a noi altri

                proprio a questo ‘noi’

quel che ho detto e ridetto

noi eravamo là

vicini

attenti

stupiti

inquieti

commossi

è una vasta dimora

tra due spuntoni di roccia

noi

degli esseri pensanti

esseri di linguaggio

di carne     di sangue     di ossa

e di linguaggio soprattutto

altrimenti

     su cosa volete contare?

Ma dato che il linguaggio non serve

dato che il linguaggio non ce l’ha, lui, il linguaggio

che non capisce affatto

allora

la differenza è enorme

la distanza infinita

im possibile

questo ragazzino

in sopportabile

in curabile

e noi

ai suoi occhi

in visibili

in esistenti

(Deligny 1977: 16-17)

L’assunto di Deligny è molto chiaro fin dall’inizio. Se i bambini mutacici e senza parola non potranno mai entrare nel consesso del linguaggio, è necessario creare uno spazio comune e primordiale “fuori linguaggio” (hors-langage).

Che l’umano forse non sia (tanto) di competenza del linguaggio, ecco dove mira la scommessa di queste cosiddette linee erranti. (Deligny 1980:38)

 

mutacico questo ragazzino

allora

su cosa si può contare

        quando manca il

        linguaggio?

Fidarsi dei nostri occhi

fidarsi delle nostre mani

        ci siamo messi a tracciare

questo ragazzino che non è parlante traccia

per mesi e mesi. La sua mano ha tracciato dei

cerchi nient’altro. […]

(Deligny 1977: 15)

Il primo dei Cahiers de L’Immuable (dal titolo Voix et Voir) si apre con una nota vergata a mano in cui l’infinito del verbo tracciare (tracer) è inscritto all’interno dei cerchi non-congiunti di Janmari.

Questo TRACCIARE

davanti la lettera

non finirò mai di vederci ciò che alcuno sguardo

compreso il mio

vi vedrà mai · l’umano è là

forse

semplicemente

senza nessuno con la chiave

senza voce ·

loro là

di TRACCIARE

sono di mia mano che ha improntato la maniera di maneggiare

lo stile di questo janmari che parlante non è · e tutto

ciò che io posso scrivere viene da questo

TRACCIARE che tutti gli scritti

del mondo non rischino di prosciugare. (Deligny 2007: 813, trad. mia)

*

Nel suo studio, che diventa un vero e proprio laboratorio, Deligny intraprende la pratica delle carte, così si racconta, a partire dalla difficoltà di Jacques Lin, uno dei suoi collaboratori, a fermare il flusso interminabile di quei bambini che con gesto, chiamato stereotipia, si mordono o si battono la fronte contro pietre o muri. È il 1969 e Deligny propone di trascrivere quel gesto, di dargli una configurazione spaziale sulla carta piuttosto che riportarlo a un sintomo o a una definizione clinica.

Lo stereotipo è una emozione manifesta. In quel caso c’è un’emozione profonda provocata da qualcosa. Quel dondolare di Janmari ci ha spinti a cercare nelle carte un punto di orientamento. Non credo agli stereotipi che risalirebbero a una meccanica propria del bambino autistico. Ogni movimento indicato all’infinito evoca l’idea di un possibile nodo: e lì affiora l’umano. Bisognerà pur dirsi un giorno che la specie umana non è più stupida delle rondini e delle anatre. Le carte ci consentono di scoprire il naturale che, a quanto sembra, affiora per vacanza del linguaggio vissuta dai bambini autistici. Ma certo è che non siamo soltanto dei paperi. (Deligny 1980: 15)

Da questo momento in poi, alla fine di ogni giornata, i collaboratori di Deligny, le «présences proches», si incontrano in occasione di quelle che verranno chiamate tance de cartes. Le carte vengono raccolte da Gisèle Durand, un’altra delle sue collaboratrici, Deligny commenta e, insieme agli altri, osserva. Sono mappe per vedere, servono agli adulti. I tracciati infatti permettono a Deligny di guardare a distanza per poter rilanciare la ricerca. Questo lo schema: le lignes d’erre sono tracciate su dei calchi e i calchi riportati su un fondo di carta (che rimane sempre fisso) che restituisce il piano del territorio dell’area di soggiorno. Le carte vengono approntate sia in presa diretta, dal vivo nelle aree di soggiorno, sia la sera, nell’atelier. Le sovrapposizioni svelano i cambiamenti e le trasformazioni dei tragitti e dei gesti, o, al contrario, i ritorni e le ripetizioni.

Lo scopo dell’osservazione sulla carta è chiaro. Loro, i ragazzi autistici non ci guardano e il loro sguardo è vuoto di noi: «Si tratta di apprendere a vedere ciò che non ci riguarda, voglio dire ciò che non interessa, a prima vista, né “io” né “egli”», ciò che noi non riusciamo a vedere:

Nel testo introduttivo del primo Cahiers de l’Immuable Deligny illustra e stabilisce i presupposti fondamentali del tracciare, i criteri minimi con cui si redigono le mappe di erranza: in mina grigio piombo i tragitti e gesti consuetudinari degli adulti; all’inchiostro di china, quelli dei bambini. (Fig. 3)

 

Questi QUADERNI si aprono su un tentativo in corso, rete di presenza.

La maggior parte dei bambini presenti in questa rete di aree di soggiorno, vivono lontano dalla parola; mutacici.

Qui, in questi QUADERNI, noi ci atterremo al fatto che tracciare è il proprio dell’uomo che ha l’uso della parola che lo fa essere ciò che è. Da qui queste carte di cui noi abbiamo introdotto l’uso tra noi. Trascritte alla mina di piombo appaiono le tracce dei nostri tragitti e gesti consuetudinari. All’inchiostro di china, la linea di abbrivio inscrive, in «tragitti», ciò che arriva da un bambino non parlante alle prese con queste cose e queste maniere d’essere che sono le nostre. (Deligny 2007: 811, trad. mia)

 

Figura 3

L’alternativa a una soggettività, che è mancante perché manca di linguaggio, è un’evidenza che si “leva” e brilla dai calchi. Nello stesso punto in cui il bambino torna a battere su una pietra attaccata a un albero, o torna a un fuoco antico, o a una sorgente d’acqua, c’è un ritorno perché si stabilisce una connessione di luoghi (repères, li chiama Deligny), un nodo (chevêtre), che lega noi a lui, e che, infine, ci trova. Noi, una pietra sulla sua linea di erranza. La favola ricomincia sempre da questo punto:

c’erano una volta

uomini

e pietre.

Stavano volentieri

vicino alle sorgenti

e non sapevano perché

l’acqua, è qualcosa

che non serve solo per bere

e le pietre

erano là anche loro

e il sedercisi sopra

rompere le noci

farne dei muri

non le esaurisce

ecco che ne sprizzano scintille

ecco che ne sprizzano punti di riferimento

quel ragazzino

in accettabile

in sopportabile

incurabile

ne prende sì

di iniziative

affascinato

attirato com’è

dalle cose da fare

una pietra di noi sulla linea di abbrivio

(Deligny 1977:26-27)

 

4. Zattera: contrade a venire

 

Le carte riprodotte nei Cahiers de l’Immuable furono redatte da Gisèle Durand specificatamente per servire da illustrazione alla pubblicazione dei testi di Deligny. Tre anni dopo l’apparizione delle Œuvres (2007), a cura di Sandra Alvarez de Toledo, per la casa editrice l’Arachnéenne, la stessa Durand ritrovò negli archivi di Monoblet un corpo di trecento carte tracciate entro il 1969 e il 1980, che, a differenza di quelle pubblicate nei Cahiers, erano state redatte nelle aree di soggiorno, secondo il protocollo indicato da Fernand Deligny a Jacques Lin. Questo materiale è andato a costituire, in parte, il libro-catalogo uscito nel 2013 per la stessa casa editrice (Deligny 2013, da cui sono estratte le immagini allegate al presente articolo). L’opportunità di seguire l’evoluzione delle lignes d’erre, sia dal punto di vista cronologico sia per aree di soggiorno, offre la possibilità di intravedere il “protocollo”, cioè l’insieme dei criteri comuni che chi tracciava doveva seguire, in modo da rendere leggibile la processualità dei tragitti e delle traiettorie. Gli stili di trascrizione sono molto diversi tra loro nei dieci anni di pratica (dal 1969 al 1980): in certi casi il tratto è realistico, anche se molto semplice e spesso infantile, in altri il disegno è piuttosto astratto. [Figura 4 e 5).

 

Figura 4

Figura 5

 

Quasi sempre sulla carta viene evidenziato il contorno, espresso con il termine cerne (il lessico di Deligny deve molto alla pittura), che marca e delimita il territorio dell’area di soggiorno, un’area ben definita in cui si stabilisce una relazione tra bordo e fuori. Il contorno d’area può avere due forme, espresse ancora una volta attraverso un gioco di carattere omofonico: il «cerne d’erre» e il «cerne d’aire». Il primo circoscrive i bordi o i margini estremi toccati dalle erranze del bambino e occupa tutto lo spazio circoscrivendo la condizione autistica; il secondo è il territorio del consuetudinario, in cui si svolgono le azioni giornaliere e in cui i cammini degli adulti possono incrociarsi con quelli dei bambini. Il gesto consuetudinario può essere tracciato in bianco su uno sfondo sfumato in mina di piombo, oppure essere segnalato con pastello marrone. Il contorno d’erranza e il contorno d’area si presentano sotto forma del cerchio “non-chiuso” di Janmari. (Figura 6).

 

Figura 6

 

All’interno del contorno d’area e sulla linea di erranza di un bambino può essere indicato un détour, cioè uno spostamento o curvatura nella traiettoria intrapresa che subisce, quindi, un cambiamento o deviazione. Le azioni che si svolgono nelle aree si ispirano a un agire intransitivo, contrapposto da Deligny al fare che invece è carico di finalità, impossibile nel caso dei bambini autistici il cui gesto è piuttosto privo di finalità, improntato al «per niente» (pour rien). Sui calchi l’agire è rappresentato in diversi modi, o con piccole onde e anelli in inchiostro di china; o attraverso macchie di pastello marrone, o ancora, con piccole mani stilizzate in inchiostro bistro. [Figura 7)

 

Figura 7

 

In alcuni periodi, sul margine delle carte, o anche all’interno del tracciato, viene disegnato un quadrante, come quello di un orologio, le cui lancette segnano la durata dei percorsi registrati o le ore in cui sono stati rilevati. L’irruzione del tempo sulla carta divarica ancor più lo spazio, conferendogli una sorta di ritmo interno che funziona contemporaneamente da dispositivo esterno di temporalità – Deligny infatti parte sempre dall’idea che il tempo i bambini autistici non lo sentono dal momento che il tempo è una categoria del linguaggio.  [Figura 8 e 8 bis)

 

Figura 8

 

Figura 8bis

Lo spazio delle aree di soggiorno è puntellato di «repères», ovvero punti di riferimento, oggetti o luoghi con cui il bambino (ma anche l’adulto) si mette in relazione, o a cui torna per ripetere dei gesti. Per esempio, una pietra appesa al ramo di un albero che viene percossa per emettere un suono. O il dado, un grosso cubo di pietra collocato in un sacco attaccato a un albero. Può capitare che una presenza prossima prenda il dado e lo lanci: il gesto, che si riferisce esplicitamente e volutamente all’azzardo e al caso, può essere poi assunto anche da Janmari. Si tratta di inciampi o incontri nello spazio che suscitano nuove traiettorie nel bambino. Il dondolare («balancer», per Deligny), l’oscillamento stereotipato e continuativo caratteristico degli autistici, è rappresentato da un fiore nero, via via sempre più stilizzato, disegnato in inchiostro di china. In certi casi è una piccola forma a zigzag, come la dentellatura di una sega. Questo segno è importante nella lettura delle carte perché il dondolarsi coincide con un punto di arresto, un tempo in cui le traiettorie dei bambini si fermano inesorabilmente. Sulla carta la N designa NOI, gli adulti, mentre la Y è un punto di raccordo, che nel lessico di Deligny corrisponde a chevêtre – capestro, nodo, tavola di legno che nella carpenteria riunisce elementi portanti. Nelle carte esso indica un punto in cui nello spazio si incrociano (s’enchevêtrent) i tragitti degli adulti e le linee d’erranza dei bambini, una zona precisa dove per consuetudine vengono a collocarsi o dove possono coincidere il loro agire. Il segno dello chevêtre, la Y, è tracciata a pastello grigio, o più raramente a pastello arancio. Il gambo più grande designa l’adulto e il gambo corto il bambino autistico che è sopraggiunto all’adulto, capitato o “avvenuto” (nel senso del latino advenire). Questa idea può essere ulteriormente sottolineata da un punto arancio sopra il gambo corto della Y. [Figura 9)

 

Figura 9

 

Il termine chevêtre può allo stesso tempo designare un luogo che il bambino ritrova: fonti e corsi d’acqua, ad esempio, sono tra i magneti più potenti per bambini che si muovono come rabdomanti. Nell’atelier si osservano meticolosamente questi punti di ritorno, sia perché si nota in essi una riduzione considerevole nella frequenza della stereotipia, sia perché tali nodi di incrocio sono quelli dove l’adulto o la presenza prossima dovrà a sua volta farsi acqua – come scrive Deligny, per divenire ‘attraente’ nello stesso modo in cui lo sono fonti e ruscelli. Si tratta di uno dei pilastri delle metodo Deligny: è l’adulto che ha l’obbligo di trasformarsi, divenendo il referente primo dell’azione pedagogica, e non il bambino, come per la pedagogia tradizionale.

 

Come farci acqua, dunque, agli occhi dei piccoli profeti senza-Verbo?:

e là lui vibra fino al midollo come la bacchetta

di un rabdomante

L’ACQUA

sorgente

fiume

fontana

ogni polla d’acqua scoperta

I nostri piccoli percorsi sono in bianco

il deserto

o quasi

quasi

uno di questi fili, una linea d’abbrivio c’è

che passa di lì

vedete quel vecchio luogo lassù

la linea di abbrivio porta lì

chi sa perché     questo ritorno

ostinato al vecchio luogo

capitava che l’una o l’altro di noi

l’accompagnasse

il ragazzino, lassù

fin nell’acqua

lui non      entrava nell’acqua

guardava

e noi abbiamo pensato

dato che non c’era

l’altro

per lui

come fare

per farci acqua

ai suoi occhi. (Deligny 1977: 20-21)

Il rigore con cui Deligny oppone la sua letteratura al protocollo clinico si esplica nel mettere a punto un vocabolario infallibile ed evocativo al contempo. Come se, vista la fallibilità del linguaggio, questo debba necessariamente ergersi a strumento affilato; e anche se Deligny sceglie le parole per la loro «lontananza dal senso», facendole così apparire preziose e poetiche, queste finiscono ugualmente per «impregnarsi di senso». Scrivere su di loro (i bambini), dopo avere esperito questa singolare prossimità/lontananza, varata nello spazio delle aree di soggiorno nelle Cévennes («Non bisogna staccare le parole da quelle carte che sono lo strumento della nostra pratica»), equivale in qualche misura a restituire loro la scrittura, altrimenti impossibile senza linguaggio, una sorta di letteratura che sia la loro voce, ma senza voce.

Così, la zattera non è il luogo di un’umanità naufraga, ma quello in cui si è “naufragati” dal linguaggio. È qui che Deligny impianta accuratamente il suo intervento, configurandolo in un tempo arbitrario che potrebbe collocarsi “dopo” ciò che definisce disastro del linguaggio – Deligny conosceva bene l’opera Antonin Artaud, che in questa espressione sembra evidentemente riecheggiare:

Eravamo solo in pochi

in piccole unità sparpagliate

sulle montagne da queste parti

bisognava tener duro

di giorno

di notte

malgrado l’impossibile

l’insopportabile

sulle montagne corrose

simili a grandi ondate

della catena ercinica

 

qualche zattera

dopo il disastro

disastro     il linguaggio è scomparso

come si diceva

del sole (Deligny 1977:18-19)

 

La zattera diviene dunque l’immagine finale, il battello, la nave dei folli, l’imbarcazione di Medusa, e Deligny la disegna, fluttuante tra le onde delle montagne erciniche, lanciata nel mare aperto senza linea di confine con il cielo. (Fig. 10)

Una zattera, voi sapete come è fatta: ci sono dei tronchi di legno legati tra loro in modo molto lasco, sì che quando si abbattono le montagne d’acqua, questa passa attraverso i tronchi aperti. È per questo che una zattera non è un battello. Altrimenti detto: noi non tratteniamo le domande. La nostra libertà relativa viene da questa struttura rudimentale di cui penso che chi l’ha concepita han fatto il suo meglio dal momento che non era in grado di costruire un’imbarcazione. Quando i problemi si abbattono, noi non serriamo i ranghi – non congiungiamo i tronchi – per costituire una piattaforma concertata. Ma esattamente al contrario. Noi manteniamo del progetto chi del progetto ci lega. Vedete da lì l’importanza primordiale dei legami e del modo di legare, e della distanza stessa che i tronchi possono prendere tra loro. È necessario che il legame sia sufficientemente lasco e che non lasci. (Le Croire et le Craindre, cit. in Deligny 2013 : 11, trad. mia)

 

Figura 10

 

I flussi migratori dei bambini imbarcati sulla zattera di Deligny, tra le onde erciniche delle Cévennes, somigliano a quelli descritti da Marcel Schwob ne La crociata dei bambini, non a caso modello citato in Rhizome come un’operazione rara e ben riuscita, quando Deleuze e Guattari fanno appello alla necessità di fondare la «nomadologia», da contrapporre alla Storia, scritta sempre «dal punto di vista dei sedentari». Il libro di Schwob racconta un fatto leggendario accaduto agli inizi del Duecento, quando dalla Francia e dalla Germania partirono due spedizioni di bambini, guidati da «voci bianche» e diretti verso Gerusalemme. Alcuni scomparvero in mare, altri vennero fatti schiavi, comunque mai giunsero alla città sacra. Così come per Deligny, la lente della raffinatissima scrittura di Schwob coglie il viaggio dei bambini con una profondità visionaria da sempre negata, o inaccessibile, alla pedagogia:

La terra ha oscure foreste, e acque, e montagne, e sentieri pieni di rovi. E dove la terra finisce c’è Gerusalemme. Non abbiamo né capi né guide. Ma tutte le strade ci sono amiche. Benché non sappia parlare, Nicolas cammina come noi, Alain e Denis, e tutte le terre sono uguali e ugualmente pericolose per i bambini. Le foreste oscure, e le acque, e le montagne, e le spine sono ovunque. Ma dovunque saranno anche le voci. […] Oh come sono belle le cose della terra! Non ricordiamo niente perché niente abbiamo imparato. E tuttavia abbiamo visto vecchi alberi e rocce rosse. Ogni tanto attraversiamo lunghe tenebre. […]  Così la nostra speranza è grande, e presto vedremo l’azzurro del mare. (Schwob 2004)

 

Questo articolo è stato già pubblicato da:

La Deleuziana – rivista online di filosofia – Issn 2421-3098

3 / 2016 – La vita e il numero

 

 

Postilla bibliografica:

Il presente saggio, uscito nel 2016, per le citazioni da Rhizome, si è avvalso della prima traduzione italiana di Mille piani a cura di Giorgio Passerone (Castelvecchi, 2006). Si rimanda ora alla nuova versione dell’opera in cui la prima traduzione è stata accuratamente rivista: G. Deleuze- F. Guattari, Mille piani, a cura di Paolo Vignola, con saggio introduttivo di Massimiliano Guareschi (Orthothes, 2017). Lo stesso vale per l’edizione: F. Deligny, I vagabondi efficaci, a cura di Luigi Monti, traduzione di Chiara Scorzoni (Edizioni dell’Asino, 2020).

Si segnala, infine, il lavoro di ricerca che Enrico Valtellina, anche dalla prospettiva del metodo Deligny, sta conducendo sull’autismo, il cui primo contributo è contenuto nella collana «Disability Studies», diretta da Roberto Medeghini: E. Valtellina (a cura di), L’autismo oltre lo sguardo medico. I Critical Autism Studies, vol. I, Erickson, 2020. In preparazione il secondo volume dedicato interamente a Fernand Deligny.

 

Bibliografia

 

de Certeau, M. (1990). L’invenzione del quotidiano. Trad. it. di M. Baccianini. Roma: Edizioni Lavoro.

de Certeau, M. (2007), La presa della parola e altri scritti politici, Trad. it. di R. Capovin. Milano: Meltemi.

Deleuze, G. & Guattari, F. (2006). “Rizoma”. In Mille piani. Trad. it. di G. Passerone. Roma: Castelvecchi, 34-66.

Deligny, F. (1977). Una zattera sui monti. Stare accanto ai bambini che non parlano, cronaca di un tentativo. Trad. it. di M. Bertini. Milano: L’Erba Voglio.

Deligny, F. (1980). I bambini e il silenzio. Trad. it. di G. Amati, A. Cavicchiolo, C. Vazzoler. Milano: Spirali.

Deligny, F. (2007). A cura di S. Alvarez de Toledo. Œuvres. Paris : L’Arachnéen.

Deligny, F. (2013) [catalogo collettivo]. Cartes et lignes d’erre. Traces du réseau de Fernand Deligny, 1969-1979. Paris: L’Arachnéen.

Fabre, J.-H. (1957). Le meraviglie dell’istinto negli insetti. Traduzione di E. Somaré. Milano: Sonzogno.

Fabre, J.-H. (2020). Ricordi di un entomologo. Traduzione di L. Frausin Guarino. Milano: Adelphi.

Jousse, M. (2011). La sapienza analfabeta del bambino. A cura di A. Colimberti. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.

Oury, J. (1976). «Préface», “Histoires de la Borde: 10 ans de psychothérapie institutionnelle à Cour-Cheverny 1953-1963”, Recherches, marzo-aprile 1976, 9-11.

Schwob, M. (2004). La crociata dei bambini, traduzione di G. Mariotti. Milano: SE.

Stevenson, R.-L. (2012). Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, a cura di P. Pignata. Como-Pavia: Ibis.

 

 

 

L’Anno del Fuoco Segreto: Astrazione

1

La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI

di Viola Di Grado

Una sera, in una zona fredda della Terra, mi sono innamorata di una persona. Perdonate l’imprecisione. L’imprecisione è una forma narrativa e una forma d’amore. Non ricordo davvero di che sesso fosse. Non ricordarlo è il mio tentativo maldestro di avvicinarmi alla sua essenza.
La mia memoria è complice di quella sua natura indefinibile che tanto mi attraeva. Aveva i capelli molto chiari e lo sguardo di un naufrago e la voce simile a ghiaccio che si rompe. Aveva un’età tra i venti e i cinquanta. Perdonate l’imprecisione. L’imprecisione è una forma di bontà. Scegliere cosa amare e cosa perdonare.
E poi io vivo nelle astrazioni. Concetti che evaporano così velocemente da diventare luminosi e lontani come astri. Anche Persona, adesso, è luminosa e lontana. E piccola. Credo sia mort*, a causa delle operazioni chirurgiche invasive e invalidanti sul suo corpo, oppure non mi parla più, il che tecnicamente, nella mia storia personale, è equivalente. In realtà è equivalente anche sul piano della storia astrale.
E io ne scrivo per avvicinarl*, per ingrandirl*. Amare con struggimento è un modo di ingrandire. Aveva un nome, se non sbaglio, ma anche quello è andato. È rimasto un po’ nei miei ricordi come la luce di una stella ormai defunta, poi è scomparso. Non importa.
Rimane quello che so. Quello che so è che mi sono innamorata, una sera, in un ospedale, in una zona fredda della Terra. L’amore ti dà una conoscenza imprecisa e inaffidabile di te stessa e degli altri. Io ero lì perché avevo un proiettile nello stomaco, mi avevano sparato perché sono un’aliena e me ne stavo in un giardino a guardare una pianta, non è diverso da un umano che guarda la televisione in un salotto, ma io non posso stare nei giardini degli umani, è spaventoso e li confonde, se sono creativi ne fanno film e libri, altrimenti sparano. Persona invece era lì perché voleva liberarsi del suo ombelico.
Non è facile, essere in un corpo che non somiglia alla tua anima. La sua anima era audace e indipendente. Il suo corpo invece era bisognoso. Doveva essere nutrito e ascoltato. Calmato, esercitato, liberato. Così sono i corpi degli umani.
In sala d’attesa mi disse che tutto era cominciato da lì, dall’ombelico. La mattina, prima di andare all’università (studiava cose interessanti, ma non ricordo quali), si guardava allo specchio e quel buco inespressivo ricordava l’utero in cui era stat* come un pesce nella boccia, a disposizione di un cibo che l* inondava.
Quello che era venuto dopo, nella sua vita, non somigliava alla serenità. Somigliava più alla storia di un cane che attende il suo padrone dietro la porta: che sia cibo o bastonate non importa, attende un segno, una conferma che esiste ancora, i suoi guaiti somigliano a un coro di porte che cigolano insieme in tutte le case abbandonate del creato. Persona si sentiva come un cane e ne aveva abbastanza.
Dopo la chiusura chirurgica dell’ombelico, quella sera in ospedale, iniziò la nostra breve relazione e contemporaneamente il problema delle orecchie. Non sopportava di avere bisogno dei rumori del mondo per capire come comportarsi, cosa rispondere alla gente, quando attraversare la strada. Si sfondò i timpani con un due arnesi di ferro. Poi c’è stata la bocca. Non sopportava di aver bisogno di pronunciare le cose. Di pronunciare il mio nome, persino, anche se mi amava un po’. Com’era poi, il mio nome? Perdonate l’imprecisione, è una forma perversa di libertà.
Si cucì la bocca, lasciò libero solo il naso, perché respirare era l’unico modo conosciuto per restare vivi. Quando mi urlò, quella notte, nel giardino ombroso fradicio di rugiada, “Io non ho più bisogno di nulla!”, sapevo che in quel nulla c’ero anch’io. Non aveva più bisogno di me. Non è detto che amarmi, amare un’aliena, sia importante. Ho accettato immediatamente quella verità. La voce con cui aveva urlato era la voce fragile di chi non poteva sentire la sua voce, e io presa dalla tenerezza l* abbracciai forte.
Si accesero le luci della casa. Casa sua. Due genitori pallidi, impietriti, videro un* figli* tornat* dopo mesi dall’università senza più i buchi con cui l’avevano concepit*. Un sacco di carne ricucita, un corpo astratto. E, abbracciata a l*i, un’aliena pazza d’amore. Quale parte della scena va precisata? La reazione dei genitori, la mia, il modo in cui corsi via perché sapevo che anche loro mi avrebbero sparato?
Questa non è la fine della storia. Da fuori, la Terra segue un conto alla rovescia che tiene conto di una storia più grande, di cui faccio parte anche io e persino i buchi neri. La fine della storia ti dà una conoscenza imprecisa e inaffidabile del resto della storia.
La fine della storia non è esplosiva: se ne sta in un luogo timido impreciso che non è la Terra e nemmeno il posto da cui vengo, non è il giardino in cui ho visto il mio amore per l’ultima volta: è il luogo in cui restano le storie, come in attesa,  e lì quella persona che ho amato non sente più nulla e non vede più nulla e i suoi occhi richiusi sono simili a virgole in un racconto, e io non so come contattarla dal buio del mio pianeta pieno di segnali che non possono raggiungere il suo corpo chiuso, e ne sono ancora innamorata, molto innamorata, per quanto importa, per quanto tristemente impreciso sia questo sentimento.
Perdonate l’astrazione.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Viola Di Grado (Catania, 1987) è l’autrice di Settanta Acrilico Trenta Lana (edizioni e/o 2011, vincitore del premio Campiello Opera Prima e del premio Rapallo Carige Opera Prima, finalista all’International IMPAC Dublin Literary Award), di Cuore cavo (edizioni e/o 2013, finalista ai PEN Literary Awards e agli IPTA Awards), di Bambini di ferro (La Nave di Teseo 2016) e di Fuoco al cielo (La Nave di Teseo 2019, vincitore del Premio Viareggio Selezione della giuria 2019). Collabora con “La Stampa” e con “Linus”. Le sue opere sono tradotte in sedici paesi.

La Spoon River dei vivi

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di Antonella Falco

Domenico Dara, Malinverno, Feltrinelli 2020, pp. 336, € 18,00

Una Spoon River dei viventi, di chi è rimasto, e giorno dopo giorno deve trovare il modo di andare avanti, di portare il fardello di un’esistenza che l’evento ineluttabile della morte di una persona cara ha svuotato di senso, aspettando che il tempo svolga la sua opera e renda più facile, un giorno, alzarsi dal letto e più leggero il peso che grava sul cuore.

Perché

«Ci si abitua a tutto. Alla solitudine, al dolore, alle stagioni che cambiano, all’apparente lentezza del tempo, agli amici che partono, ai ricordi che svaniscono, alla memoria che si assottiglia, all’umidità sul muro, al silenzio delle strade, ai perfidi spifferi dalle finestre, alla pigrizia dei muscoli, alla luce accecante dell’estate, alla nostalgia, alla tristezza, a un amore che finisce, ai sapori indistinti su papille filiformi.

A tutto finanche alla morte.

Ogni evento che al suo manifestarsi ci appare troppo grande per sopportarlo, e che nel momento in cui lo viviamo sembra schiacciarci definitivamente, gravare su ogni cellula del corpo, va prima o poi ad allinearsi tra i fatti consueti della quotidianità, l’abbandono al fianco della bottiglia d’olio, la disperazione tra le camicie nel cassetto, la tristezza tra i libri sulla mensola. E anche la morte della persona che amiamo, la morte che esaurisce le lacrime e i pensieri, l’evento che sembra interrompere il tempo, cancellare ogni domani, azzerare il futuro, quella morte che sembra la nostra morte, s’impoverisce, anche quella diventa una maniglia cigolante, il pomo di un appendiabiti, un calzino spaiato, una stella cadente vista all’ultimo momento. Ci si abitua a tutto, anche alla morte».

Una Spoon River dei vivi, dunque. Questa è la prima cosa che viene da pensare inoltrandosi nella lettura di Malinverno, il nuovo, bellissimo, romanzo di Domenico Dara, pubblicato a fine agosto da Feltrinelli. Un romanzo che è in realtà, per certi versi, un metaromanzo, in quanto fin dalle prime pagine vi si respira l’afflato della grande letteratura di ogni epoca e luogo, quella poesia imperitura che le parole dei grandi classici tramandano da secoli.

Timpamara, nuova immaginaria incarnazione romanzesca della Girifalco tanto cara all’autore, è un paese in cui i libri sono, anche letteralmente, nell’aria. Accade da quando, tanti anni addietro, vi fu installata la più antica cartiera della regione, alla quale si aggiunse, poco dopo, anche il maceratoio. Fu così che qualche operaio prima di gettare le pagine nell’acqua delle vasche, iniziò a darvi un’occhiata e poi, magari, a portarsele a casa. Prima pagine sparse, poi fascicoli e capitoli, infine interi libri; finché gli operai presero l’abitudine, la sera, dopo cena, di leggere e di far leggere in famiglia quelle carte, «spargendo come untori il morbo della lettura». E quando non erano gli operai a diffondere le parole dei libri, ci pensava il vento, cosicché stormi di romanzi volavano e si diffondevano in ogni angolo del paese. Non sorprende dunque se gli abitanti di Timpamara, infestati dal potere affabulatorio delle grandi storie che leggevano, iniziarono a dare ai figli i nomi di personaggi letterari e di scrittori. E fu tutto un fiorire di Victorùgo, «a tal modo scritto e pronunciato», e di Marselprù, Verter, Ortìs, Gargantuà e Pantagruèl, e di Otello, Desdemona, Armida e Valchiria. Risulta pertanto del tutto normale che il protagonista di questa storia si chiami Astolfo Malinverno, nome dovuto alla passione materna per il poema cavalleresco dell’Ariosto e per quel cavaliere che aveva osato andarsene fin sulla luna a recuperare il senno smarrito di Orlando.

Astolfo, nato zoppo, «a causa di uno sbilanciamento corporeo che era segno fisico dei tempi squilibrati che il mondo viveva e della cecità di Natura che, dispensando nella stessa portata Vita e Morte, talvolta difetta nella scelta», è il bibliotecario di Timpamara, attività a cui si dedica con passione e che rispecchia il suo carattere sognatore e visionario:

«Fosse per me ci abiterei, tra i libri: attraversata la porta della biblioteca mi sembra già di non zoppicare più, non è vero ma io lo sento, come se lì dentro non esistessero uomini claudicanti o piè veloci, distanze da percorrere o tempi da rispettare ma tutto si agguagliasse nella parola. È più di un rifugio per me: una tana, la mia camera amniotica. Qui dentro mi sento meno solo, e io la so misurare la solitudine».

La tranquilla routine quotidiana di Astolfo viene turbata il giorno in cui il messo comunale gli annuncia un nuovo incarico: il pomeriggio continuerà a svolgere la mansione di bibliotecario, ma la mattina sarà il custode del cimitero. Inizialmente timoroso che il nuovo incarico venga a stravolgere la regolarità certosina della sua vita, Astolfo accetta senza alcun entusiasmo ma ben presto instaura tra le due attività un rapporto osmotico, complice anche una misteriosa lapide senza nome e senza date: solo la fotografia di una donna dagli occhi bellissimi e dallo sguardo franco. Astolfo rimane affascinato da quel volto e lo associa a quello a lui caro della sua eroina letteraria:

«Sentì provenire da quell’immagine come un’aria di tristezza autunnale, di mondi che sfioriscono, la mestizia delle vite sciupate e dei sogni mancati. Uno scatto vecchio, di anni imprecisati, e tuttavia il volto era nitido, magnetico, e mi si fissò tanto nella mente che, quando ripresi la lettura, mi bastò immergermi nel grondante disincanto delle pagine per associare quasi naturalmente alle fattezze della sconosciuta quelle dell’eroina di Flaubert. Da quel momento, Madame Bovary ebbe per me il volto di quella foto, l’anima affine d’un essere umano nato per il cielo ma dannato alla terra, zoppa nell’animo come io nel corpo.

E le diedi così per sempre il nome a me caro, Emma Rouault, sepolta nel cimitero di Timpamara».

 

La fascinazione letteraria e la trasfigurazione romanzesca degli eventi sono una peculiarità di Astolfo che riempie la solitudine e la mestizia della sua vita popolandola di personaggi letterari. Il romanzo di Flaubert è in tal senso uno dei punti di riferimento fondamentali, è lo stesso Astolfo a dircelo:

«Questa lettura tornava nella mia vita ogni volta che avevo bisogno di consolazione, quando avvertivo cioè la necessità di annacquare e disperdere la mia tristezza nella tristezza del mondo e sentirmi così parte dell’umanità illusa e dolente».

Altro imprescindibile punto di riferimento romanzesco non può che essere il Don Chisciotte di Cervantes. Emma e l’hidalgo. Le due icone assurte a simbolo della diversità di Astolfo che ha scelto di fare della «vita interiore […] il recinto della sua esistenza». E che riconosce consapevolmente come la propria diversità consista «nell’aver confuso ciò che il resto degli uomini sa ben separare», proprio come i suoi due eroi letterari che «tentarono di imporre il loro tempo al tempo del mondo»: «due esseri simboli di quell’umanità colpevole di sognare troppo e di pensare che sia sogno, la vita».

Animato da una fervida immaginazione, Astolfo riscrive il finale dei suoi romanzi preferiti, quando questi non si concludono con la morte del protagonista (dettandone poi, per telefono, il necrologio, al giornale locale): unica cosa, la morte, in grado di dare all’esistenza un senso di compiutezza. Una posizione che rievoca le famose parole di Pirandello secondo il quale «la vita non conclude». La morte, invece, almeno per Astolfo Malinverno, evidentemente sì. Quella morte con la quale il nostro protagonista ha un’antica consuetudine, risalente alla primissima infanzia, lui, forse unica persona al mondo, a poter contemplare la propria immagine in una lapide. Sua è infatti la fotografia che campeggia sul marmo funebre di Notturno, il fratellino gemello nato morto e seppellito senza che gli venisse scattata una foto, per cui si sopperì alla mancanza usandone una dello stesso Astolfo.

In questa continua osmosi tra l’attività di bibliotecario e quella di guardiano del cimitero, Astolfo s’inventa anche il cimitero dei libri: un quadrato di terra, entro il perimetro del camposanto, nel quale sotterra i libri attaccati dalla muffa, rovinati, e ormai inservibili.

Ma come il già citato Pirandello, nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in appendice al suo Mattia Pascal, metteva in guardia su come la realtà a volte possa, per inverosimiglianza  e trovate stupefacenti, superare la più vivida immaginazione, così anche Astolfo si troverà a vivere una storia che neanche lui avrebbe mai saputo immaginare. Tutto inizia quando fa la sua comparsa nel cimitero una giovane donna vestita di nero, somigliantissima alla defunta della tomba senza nome. Attratto dal mistero di queste due donne, dal loro sconosciuto legame e dalla ignota e probabilmente dolorosa storia che le riguarda, il bibliotecario inizia un’indagine che si dipana per pagine e pagine, tra colpi di scena e momenti di grande sensibilità e commozione, portandolo a vivere un’esperienza che lo tocca nel profondo e cambia per sempre la sua vita.

Malinverno è un romanzo sulla vita e sulla morte, sul loro indissolubile legame, una riflessione sul destino e sull’amore (dal quello filiale a quello tra uomo e donna) che qui è spesso amore vissuto nel ricordo, nella memoria, nella nostalgia del tempo passato, nella malinconica consapevolezza che tutto è destinato a finire ma che niente muore senza lasciare una traccia indelebile nell’esistenza di chi rimane. Astolfo sa raccontare, e, come chiunque abbia il talento dell’affabulazione, sa ascoltare, e di storie ne ascolta tante, a volte bizzarre, a volte struggenti, a volte paradossali: tanto surreali da sembrare incredibili o così ironiche da strappare un sorriso, ma sempre, tutte, profondamente umane.

Astolfo ha il dono della compassione, la capacità di sentire empaticamente la sofferenza altrui, e si prodiga, per quanto è in suo potere, di alleviarla. Nel fare questo arriva a modificare in modo apparentemente stravagante, il regolamento cimiteriale, venendo incontro alle singolari richieste di alcuni suoi concittadini. Accade per la gamba incancrenita dal diabete e amputata del vecchio Brognaturo, il quale chiede espressamente che l’arto venga «sepolto a sé stante, fin quando morto l’intero altro corpo, cioè sé stesso, quel pezzo sia insieme a lui seppellito ad aeternum».

Accade per il bastardino bianco di Marcantonio Parghelia, maestro d’ascia in pensione, vedovo e solo, che ha in quella bestiola, amata come un figlio e che porta il suo stesso nome, l’unica compagnia. Quando il cagnolino muore, Parghelia chiede ad Astolfo di trovargli un posto entro le mura del cimitero, «un angolo appartato», perché, sostiene, «Marcantonio non era un cane, era un cristiano a cui mancava solo la parola», e pertanto come un cristiano merita di essere seppellito.

E accade per Margherita, che rimasta “vedova” del suo sposo alla soglia delle nozze, supplica Astolfo di unirla in matrimonio al suo Fiodoro, dopo che il prete del paese, quel don Pallagorio che ogni domenica pontifica «sulla vita eterna, sulla morte della carne e la resurrezione dell’anima», è rimasto sordo alla sua preghiera e l’ha congedata come fosse una poveretta impazzita di dolore per la perdita dell’amato. Ma non è sordo Astolfo a un simile appello, e, dinanzi a un amore che osa sfidare la morte e i suoi limiti ineluttabili,  si fa officiante di una cerimonia degna di un film di Tim Burton: sepolcrale e poetica, gotica e commovente (ché, se questo romanzo dovesse mai avere una trasposizione cinematografica, proprio il visionario regista di Edward mani di forbice e de Il mistero di Sleepy Hollow ne sarebbe l’artefice perfetto, tanto più che la stessa immagine di copertina ricorda la sua Sposa cadavere).

Né poteva mancare, in una storia come questa, la figura di uno psicopompo, qui incarnato dal cane Kachanka, apparso un giorno dal nulla e che misteriosamente presenzia ad ogni funerale, scortando poi il feretro dalla chiesa al cimitero.

Tanti sarebbero i personaggi degni di essere menzionati in questa storia che, pur avendo come protagonista indiscusso Astolfo Malinverno, sa aprirsi a una narrazione corale che reca in sé qualcosa della magia senza tempo dei racconti degli aedi e, come alcuni hanno notato, sembra evocare taluni aspetti del realismo magico.

Tra le tante figure presenti nel libro potremmo ricordare quella di Isaia Caramante, che si aggira fra le tombe munito di registratore e cuffie per registrare le voci dei morti, e quella di Elea Maierà, il Resuscitato, come tutti lo chiamavano da quando si era improvvisamente risvegliato nella bara in cui familiari e conoscenti lo stavano vegliando in attesa del funerale, e che da allora, ogni mattina alle nove, varcava il cancello del cimitero e «si sedeva accanto alla buca che gli avevano scavato la mattina del giorno in cui era morto, e restava fino all’ora di pranzo». Elea «aveva pagato per comprarsi quella piccola metratura che era il suo unico avere, […] e voleva lasciarla sempre a quel modo, aperta…». Muto e solitario, Maierà dopo il suo ritorno alla vita, «per quasi un anno parlò una lingua diversa, e ci volle un po’ di tempo per capire che pronunciava parole all’incontrario, portatore di un punto di vista rovesciato sul mondo, lui che era un vivo morto o un morto vivo, comprendeva il linguaggio lineare degli uomini ma lo restituiva come allo specchio, ribaltato, paladino di un sistema capovolto».

Ma numerosi altri sono i personaggi singolari che si incontrano nelle pagine di questo romanzo, personaggi di cui è bene tacere per non rovinare al lettore il piacere della scoperta. Tuttavia di uno non possiamo esimerci dal parlare, perché, pur essendo morto da tanti anni e presente, dunque, solo nel ricordo affettuoso di Astolfo, esso è fondamentale per comprendere la pervasiva inclinazione del protagonista verso le storie e l’arte di raccontare. Il personaggio in questione è quello di Catena Seminara, la madre di Astolfo Malinverno. Di tale debito è consapevole egli stesso che ne rievoca la figura in questi termini:

«Mia madre viveva delle storie che leggeva, che se avesse avuto l’istruzione, come diceva, ne avrebbe scritte anche lei, ma poiché non sapeva, fin da giovane si scriveva i libri nella testa, che i personaggi ce li aveva davanti, tutti i paesani che incontrava e a cui attaccava addosso una storia segreta, ed era una bella vita, che così anche Catena era come se vivesse dentro un libro. Siamo fatti di pensieri più che di carne, e quei pensieri ci vengono distillati nel sangue dalle idee di chi ci ha voluti, che io non ho ereditato solo il colore dei capelli o l’arrendevolezza degli sguardi ma anche le illusioni, i sogni, e le passioni per i racconti.

Di ogni persona conosciuta e sconosciuta, di ogni uomo o donna che incrociava, di ogni essere di cui si parlava, di ogni vicino di casa, di ogni cuore che batteva, perfino degli animali per strada o di ogni oggetto sfiorato, della pietra raccolta, della busta di latte abbandonata, del mondo intero mia madre conosceva e raccontava la storia. […]

Con la bocca di mia madre che narrava e animava il mondo, come se il mondo esistesse solo nella parola e con la parola, conobbi la vita e imparai ad amare i racconti e a capire presto che uomini e libri narrano in fondo le stesse storie».

Domenico Dara ci consegna un romanzo sul potere delle parole e della narrazione, sul pervasivo incanto che esse sanno creare, un romanzo che, dunque, è anche una riflessione sulla capacità della Parola di plasmare e animare il mondo, come se essa, la Parola, fosse generatrice di realtà. D’altra parte, «ogni vero artista crea la realtà nominandola» scrive un altro grande evocatore di mondi attraverso il potere delle parole, che risponde al nome di Michele Mari. E lo fa in un racconto, Grecia-Argentina, contenuto in Fantasmagonia, in cui Omero e Borges, i due grandi ciechi della letteratura mondiale, assistono a una finale di calcio anch’essa scaturita dalla lanterna magica dell’affabulazione letteraria. Né occorre sottolineare come la citazione borgesiana ripresa da Mari rimandi alla creazione del mondo come è descritta nel libro della Genesi: Dio crea il mondo e tutte le cose che lo popolano mediante un comando verbale. Egli nomina gli elementi del cosmo mentre li crea, secondo l’antico concetto di ascendenza ebraica in base al quale le cose non esistono veramente fino a quando non sono nominate. Le analogie con Mari non finiscono qui, avendo egli dedicato al grande tema della fascinazione affabulatoria esercitata dai racconti il suo stupendo romanzo La stiva e l’abisso. Mari è autore al quale ci viene da pensare anche in relazione all’abitudine di Astolfo di cambiare il finale dei libri. Michele Mari, infatti, ha pubblicato un’intera raccolta di racconti – Fantasmagonia – nella quale si diverte a consegnarci una versione apocrifa della letteratura, di quella letteratura che egli stesso ha maggiormente amato e assimilato al punto da sentirsi autorizzato a fornircene una versione alternativa, non meno potente e ammaliante di quella ufficiale.

Domenico Dara ha saputo ritagliarsi un posto nell’ambito del panorama letterario contemporaneo attraverso la specificità della lingua – in questo caso un italiano lineare ma non privo di ricercatezze, che prende il posto del dialetto presente nei primi due romanzi – ma anche di un filone tematico che fa dell’indagine sul senso della vita (e della morte, intesa come «la più grande invenzione della vita», per usare la celebre definizione di Steve Jobs), sull’importanza del racconto e della memoria e sui grandi temi universali del destino, del caso e dell’amore, il nucleo essenziale del suo narrare. Il tutto attraverso una scrittura che sembra sospendere il tempo e, così facendo, accomunare passato e presente in un continuum cronologico che abbraccia e affratella gli uomini di ieri e di oggi.

La matematica è politica

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di Antonio Sparzani

In generale sono contrario a fare di Nazione Indiana un blog prevalentemente di recensioni, ma qualche rara volta non resisto alla tentazione, specialmente quando mi capita tra le mani un librettino come La matematica è politica, firmato da Chiara Valerio, per molti anni indiana (e dunque eis aiōna) e uscita, con mio grande dispiacere, nella primavera 2012, dalla nostra Nazione per uno stupido malinteso. Il libro è uscito l’anno scorso nelle “Vele” Einaudi, direi subito dopo la cosiddetta prima ondata del Covid, ha 105 pagine e costa 12€.
Chiara è laureata in matematica, cosa che, a suo dire, l’ha avvantaggiata negli ambienti letterari che ora frequenta perché un matematico non può che essere una “persona intelligente”, essendo donna, poi, ancora più eccezionale. Ma il suo atteggiamento nei confronti di questa che viene normalmente chiamata “scienza esatta” non è quello tradizionale. Basta leggere la citazione di copertina:

“La matematica è stata il mio apprendistato alla rivoluzione, perché mi ha insegnato a diffidare di verità assolute e autorità indiscutibili. Democrazia e matematica, da un punto di vista politico, si somigliano: come tutti i processi creativi non sopportano di non cambiare mai.”

Ma come, certamente qualcuno si chiederà, non è la matematica l’unico assoluto – nella scienza – al quale possiamo affidarci nei nostri molteplici tentativi di comprendere il nostro mondo? Ecco a voi come ragiona Chiara (p. 53):

“È una disciplina che non ammette principio di autorità giacché nessuno possiede la verità da solo, le verità sono asserzioni verificabili da chiunque, o se non da chiunque (alcune volte è difficile) almeno da un certo numero di persone. Inoltre, la matematica è un linguaggio, una grammatica. Per discutere di matematica bisogna accettarne le regole. Sicché uno studioso, ma anche uno studente di matematica, è abituato a operare in un mondo di regole comuni, per ridiscutere le quali non si può essere in uno, bisogna essere almeno in due. Ovviamente la matematica non procede per voto o alzata di mano, ma per ipotesi e verifiche. Se i nostri politici avessero studiato matematica, e se studiandola l’avessero capita, si comporterebbero diversamente rispetto alle cariche dello Stato che ricoprono perché non agirebbero come singoli, ma come funzioni di un sistema più ampio del loro ego, e soprattutto non si preoccuperebbero delle cose ma delle relazioni tra le cose, dunque sarebbero più cauti nel dare una notizia falsa o non verificata, perché consci di quanto la notizia falsifichi il resto, talvolta il contesto.”

La scrittura di Chiara è strana, spesso sorprendente nei suoi accostamenti e nei suoi collegamenti, e d’altra parte è molto personale, parla di sé, delle letture che l’hanno più colpita e cui si è talvolta ispirata e torna insistentemente a parlare dell’idea di democrazia e dei suoi punti di contatto con la matematica.
In uno degli ultimi capitoli si lancia in una rapida analisi di alcuni articoli della nostra Costituzione, in particolare degli articoli 1, 2, 11, 12, 54. L’articolo 11 è quello famoso sul rifiuto della guerra, sentite Chiara:

“l’articolo 11 chiarisce che mai e poi mai l’Italia limiterà con la guerra la libertà degli altri popoli. Nemmeno la libertà a spostarsi, a migrare. Accettare la nostra libertà di muoverci temporaneamente limitata per l’emergenza Covid-19 è stato faticoso, ma lo abbiamo fatto convintamente, partecipi dello Stato. Riusciremo a essere più radicali nel chiedere politiche giuste e rispettose per interi popoli che si spostano?”

A me questa deduzione dall’articolo 11 non era mai balenata (mi era stata molto più evidente la sua contraddizione con quanto D’Alema, allora capo del governo, annunciava, in tv a reti unificate, la nostra esplicita partecipazione alla guerra nei Balcani) e tuttavia è lì da vedere.
Potrei mostrare tante altre citazioni, sempre un po’ spiazzanti, ma allora tanto vale che leggiate il libro, basta un pomeriggio e, secondo me, ne vale proprio la pena.

Mustafa Malimbo

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di Antonio Sparzani
In tutte le prime notizie della davvero tragica e ingiusta uccisione dell’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, vengono doverosamente forniti i nomi e qualche particolare della vita dell’ambasciatore e del carabiniere che gli faceva da scorta, ma, per primo, veniva ucciso “l’autista della jeep” sulla quale essi viaggiavano. Né radio né giornali ne fornivano il nome, era “l’autista”, presumibilmente non italiano, che importa il nome, chi lascia, chi piangerà la sua ingiusta morte, che tipo era, non importa, non fa notizia. Stamani sono riuscito leggendo accuratamente la cronaca su qualche giornale, a saperne il nome, Mustafa Malimbo, era congolese forse, ma non si dice. Ci sono le persone di serie B, o anche C, eccetera.

Tra ironia e disincanto: Mio zio Napoleone svela vizi e virtù degli iraniani

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di Giuseppe Acconcia

In Mio zio Napoleone (Francesco Brioschi Editore, 2020, 20 euro, p. 585, traduzione e postfazione di Anna Vanzan), l’autore, Iraj Pezeshkzad svela pregi e difetti degli iraniani. Questo romanzo umoristico familiare con ironia e disincanto racconta le gesta di un vecchio zio che vanta un passato da patriota sullo sfondo della seconda guerra mondiale in Iran. Il tragicomico ufficiale in pensione dei cosacchi, traditore dei valori della Costituzione, conquistata nel 1906, il Caro zio, fan sfegatato di Napoleone (visto in chiave anti-inglese), è circondato da figure esilaranti: l’attendente Mash Qasem con il quale costruisce un rapporto che ricorda quello tra Don Chisciotte e Sancho Panza; il dongiovanni Asadolah Mirza che vede la California come un eldorado, gridando spesso “E venne l’ora di San Francisco!” e tenta di smascherare il trasformismo del Caro zio mentre è feroce la sua critica dell’influenza inglese nel paese (“l’Inghilterra odia tutti coloro i quali amano la loro terra”); dal gelosissimo macellaio Shir Ali fino al vanaglorioso Puri, considerato il promesso sposo della giovane Leili che ha invece rubato il cuore del cugino tredicenne. Mio zio Napoleone, pubblicato per la prima volta nel 1973 e poi adattato in serie televisiva, è il romanzo di punta di Pezeshkzad, autore iraniano parte della diaspora in Francia dopo la rivoluzione del 1979. La traduttrice, Anna Vanzan, scomparsa prematuramente lo scorso dicembre 2020, è stata una delle più importanti iraniste e islamologhe italiane, ha pubblicato testi fondamentali per lo studio del femminismo iraniano come Donne d’Iran tra storia, politica e cultura (Aseq IPO, 2019), L’Islam visuale. Immagini e potere dagli Omayyadi ai nostri giorni (Edizioni Lavoro 2018), Diario Persiano. Viaggio sentimentale in Iran (Il Mulino, 2017), Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici (Mondadori, 2010), insieme a traduzioni memorabili come quella de “La civetta cieca” (Carbonio 2020) del grande autore persiano Sadeq Hedayat, nel 2017 ha ricevuto il premio MIBACT alla carriera per il suo lavoro di traduzione dal persiano. Proprio con gli occhi del giovane innamorato il cui cuore è stretto in una “morsa di ghiaccio” per l’amata Leili, parte il racconto del suo amore platonico e delle vicende che coinvolgono il Caro zio Napoleone, tra racconti di guerra, come le battaglie di Mamasani e di Kazerun, millantati e confermati solo dal fedele Mash Qasem, delle vendette e dell’inimicizia tra il Colonnello e lo zio, delle flatulenze della giovane Qamar ai doppi sensi tipici dei racconti erotici in Iran, fino a sceneggiate memorabili di finti ferimenti, evirazioni impossibili, assassini apparentemente senza spiegazione. Non mancano neppure dei racconti tutti persiani di flagellanti, odori di piatti prelibati fino alle candele accese per devozione a una saqqakhanek e agli annunci di alcol presente in medicinali che avrebbero costretto alla chiusura le farmacie, svelando tra meschinità e beffe, le ossessioni e le manie di un intero paese. Mio zio Napoleone rientra in una lunga tradizione di letteratura umoristica, quasi di scrittura farsesca per il teatro, dove il diffuso sentimento anti-inglese per il ruolo che Londra ha avuto nella prima guerra mondiale costringendo Reza Shah ad abdicare e nel colpo di stato che ha rovesciato Mossadeq nel 1953, viene associato con sagacia all’affascinazione per l’educazione Occidentale e il cosmopolitismo parte dei tratti essenziali di un intero popolo.

François Coppée tra poesia e parodia

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Félix Vallotton - Le joyeux quartier latin (1895)

François Coppée (1842-1908), poeta popolare e sentimentale, noto esponente del Parnassianesimo, è stato

il vate della piccola Parigi, fatta di vicoli e modiste, di umili e umidità. Poeta malinconico, ha nostalgia ovunque di altri luoghi: in città vorrebbe la campagna (e viceversa); con gli uccelli sente la mancanza degli uomini (e viceversa); nel presente gli manca il passato; di giorno aspetta la sera e in terra aspetta il paradiso;

così lo descrive Stefano Serri nel volume dal titolo Poesia e parodia dalla Ville Lumière. Parigi in dieci righe, apparso per Robin Edizioni. Di cosa si tratta?
Coppée è stato oggetto di innumerevoli parodie e pastiches, delle quali le più note sono firmate da Verlaine e Rimbaud. Come ricorda Olivier Bivort,

I versi di François Coppée (1842-1908) costituiscono uno dei bersagli prediletti degli zutistes, in particolare le sue decime in alessandrini a rima baciata, dedicate a soggetti della quotidianità e a dettagli realistici, confluite nella raccolta Promenades et intérieurs (1875), ma già pubblicate in vari periodici nel corso del 1871. Col tempo, i «Coppées» o «Vieux Coppées» diventeranno un genere a sé, praticato in chiave ludica da Verlaine, Germain Nouveau, Charles Cros, Jean Richepin ecc. (vedi Dizains réalistes, Librairie de l’eau-forte, 1876) (Rimbaud, Opere, a cura di O. Bivort, traduzione mia, Marsilio, 2019, p. 678).

Le rime baciate delle sue decime gli valsero però un buon successo di pubblico. È dunque interessante l’operazione pensata da Serri di raccogliere in un unico volume, con sue traduzioni e testo a fronte, la silloge sopracitata di Coppée, Passeggiate e interni, insieme al rovescio della medaglia, ossia questi noti Dixains réalistes, in cui dieci poeti si divertono a comporre per gioco dei “Coppées”. Parodiato e parodia si susseguono, creando così un piacevole contrappunto.
Presento uno stralcio dell’introduzione di Serri, seguito da alcune poesie. Segnalo, agli appassionati di questo periodo della storia letteraria francese, anche il suo precedente volume Idropatici. Storie di poeti e di liquori, sempre per i tipi di Robin Edizioni, dedicato al circolo degli Hydropathes. (ornellatajani)

Félix Vallotton – Le joyeux quartier latin (1895)

 

a cura di Stefano Serri

Parigi in dieci righe

Lo scopo di questo volume, affiancare due opere non ancora tradotte in Italia e legate tra loro dal legame apparentemente occasionale della parodia, non è solo quello di illuminare entrambi i testi di nuova luce inevitabilmente riflessa, ma anche suggerire due differenti sfumature (ed è proprio dal discriminare sfumature che possono scaturire scintille di conoscenza) sul modo di intendere la poesia.

Ma questo libro è anche il ritratto di una città, Parigi, che è forse la più cantata, decantata e declamata, nel bene e nel male, dai suoi abitanti, dai suoi visitatori occasionali e anche da chi l’ha sfiorata appena, magari in modo indiretto.

Nei due testi presentati sono molti i luoghi indicati, con il nome o con un indizio, e il lettore potrà comporvi le sue passeggiate di ricordi personali o di scoperte e curiosità. Una mappa con i luoghi indicati nelle poesie, però, oltre che lasciare molte zone in ombra, non restituirebbe quello che costituisce l’anima di entrambi i libri: gli angoli anonimi, i passanti occasionali, le figure e gli scorci che, vividissime epifanie di un istante, non potremo mai più collocare. Perché se Parigi può essere rappresentata come una città da sfogliare, una città-libro, come per Baudelaire, che ne fa la Bibbia della modernità, in realtà da questo carnet in dieci righe è piuttosto la città che sfoglia il lettore viandante, sporgendosi dalle sue pietre e dalle sue vetrine, ora come un tramonto che ci coglie impreparati, ora come una venditrice ambulante che ci inquieta e che ci porta, sempre per mano, zoppicante o spedita, un po’ più lontano dentro noi stessi.

Queste ottantanove poesie, questi ottocentonovanta versi, ci mostrano poveri e ricchi, la moda e la natura, i corpi malandati sui marciapiedi e gli amoretti da boulevard. Si trovano squarci della periferia, illuminati dalla luna, «astro degli invalidi», come la definisce Nouveau, e si guarda alla tecnologia e alla modernità con un misto di entusiasmo e scetticismo […].

* * *

da “Passeggiate e interni” di François Coppée

IV

Amo la banlieue con i campi a riposo
E i muri lebbrosi, dove un vecchio avviso
Parla di un quartiere da tempo cadente.
O vanità! Leggo il nome di un mercante:
Sarà già al Père-Lachaise, tra le sepolture.
Indugio. Qui nulla mi piace, neppure
I soffioni tremanti in un cantone.
Poi, per tornare alle case lontane,
Con i vetri che già incendia il tramonto,
Su vie buie, tra gusci d’ostrica, monto.

 

XXVI

Parigi è infernale e sogno, tuttavia,
Una città calma e senza ferrovia,
Dove, dal buon compagno sottoprefetto,
Leggerei, al dolce, un’epistola, un sonetto.
Direi piano, minuscolo peccato,
La quartina mordace che ho scartato.
Là, custodirei vaghe ipoteche.
Mi consulterebbero per le biblioteche;
E, allievo lieto, mi metterei alla mercé
Dei sommi Esménard, Lebrun, Chênedollé.

 

XXXIX

Come sigarette scrivo questi fogli,
Per me, per mio piacere; e sono germogli
Che forse era meglio non cogliere affatto
Poiché l’impressione che mi ha esterrefatto,
Il quadro incontrato per strada un istante,
Alla fine, per chi mi ascolta, è importante?
Non lo so. Perché ciò gli sia gradito,
È, come me, un sognatore incallito?
Forse in questo ruolo si può seccare?
– Su! tu mi sbirci alle spalle, lettore.

* * *

da “Dixains réalistes”

XXIII

Il piccolo impiegato al fermo posta
arriva tardi; la marcia composta;
sulla poltrona in pelle siede dolente,
poiché sa che dovrà dare al cliente
lettere, timbri, le allegre riviste,
e pure i vaglia!… Uomo oscuro e triste.
Si dice, annusando un foglio profumato,
che non viaggia e che non è amato,
e il suo nome, poche sillabe comiche,
non c’è mai nelle gazzette pubbliche.

Nina de Villard

Vennero in sella due gendarmi

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di Marco Pandin

Il 23 maggio 2019 più di mille persone si sono raccolte a Genova in piazza Corvetto per contrastare un comizio elettorale di casapound.

Della reazione brutale della polizia avrete potuto leggere diffusamente sulla stampa nazionale, che si è mossa in solidarietà del giornalista Stefano Origone di Repubblica – vittima e testimone delle violenze.
Minore circolazione ha avuto, invece, la notizia delle cinquantasei denunce e dei circa 60.000 euro di multe affibbiate a persone che la questura ha potuto identificare grazie alle numerose telecamere collocate intorno alla piazza. Persone che saranno a breve trascinate in tribunale per difendersi dall’accusa di antifascismo.

E’ stato messo in piedi un fondo di difesa e per sostenerlo Marco Sommariva (scrittore) e Marco Pandin (vecchio collaboratore di A/Rivista Anarchica) hanno avuto l’idea di chiedere aiuto ad amici e compagni impegnati nel mondo dell’arte: musicisti, disegnatori, pittori, scrittori e performer. La voce è girata tramite passaparola, scavalcando le distanze geografiche e le differenze di stile espressivo; ognuno ha contribuito come poteva e sapeva fare, in maniera volontaria e del tutto gratuita.
Ne viene fuori una raccolta composita, che proprio dalla diversità delle voci e dei segni, delle parole e dei suoni trae linfa vitale. Un libretto e due CD dove ci sono dentro Genova e Napoli e il Veneto e Roma e Catania e il Cilento. Ci sono dentro Fabrizio de André e una “Genova per noi” rifatta in un modo che lascia senza fiato. Scritti bolognesi e milanesi, canzoni in occitano e in friulano, nomi con un certo peso e una certa storia ed altri poco noti, gente abituata ai palasport e altri ai piccoli spazi dei centri sociali, voci che si sentono spesso alla radio e altre che alla radio non passano, parecchie adesioni che hanno sorpreso e reso felici i promotori.

C’è da imparare parecchio da questa solidarietà giunta senza chiedere nulla in cambio, da questa vicinanza nonostante tutto – difficoltà tecniche, lungaggini burocratiche e vincoli contrattuali, nonché l’impossibilità di spostarsi causa covid. E’ stato uno stringersi forte che ci ha insegnato a non temere né pandemie né processi né rappresaglie.

Il disegno in copertina l’ha fatto Zerocalcare e non serve raccontarlo, ma è bene ricordare che il prossimo luglio saranno trascorsi vent’anni da quel tragico G8 che vide sempre Genova come palcoscenico.

Il titolo dell’iniziativa – “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”. Fabrizio De André ogni tanto si divertiva a modificare i testi delle sue canzoni: ha inventato degli svizzeri nel bosco e una meravigliosa signorina Anarchia che s’è vista assai spesso accanto a lui fino all’ultimo. Nel nostro sogno genovese, al pescatore i due gendarmi chiesero se lì vicino fosse passato un ragazzino; lui non rispose, e a quelli venuti con le armi offrì solo una specie di sorriso.

I due CD non sono distribuiti commercialmente nei negozi. Vengono diffusi per le strade di Genova, in maniera militante. Un riferimento può essere Marco Sommariva – il suo sito/blog è raggiungibile a questo link.

Hanno partecipato, con contributi sonori, scritti e grafici:

Giorgio Canali, Andrea Sigona, Yo Yo Mundi con Marco Rovelli, Ascanio Celestini, Mars on Pluto, L’Estorio Drolo, Alessio Lega, Banda POPolare dell’Emilia Rossa, Modena City Ramblers, Nuovo Canzoniere Partigiano, Bandabardò, Lo Zoo di Berlino con Franco Fabbri, Gang, Luca Bassanese, Loris Vescovo, Simona Boo, Paolo Capodacqua, Od Fulmine con Davide Toffolo. Dany Franchi, Franti, Massimo Zamboni, Umberto Maria Giardini, Subsonica, Kina, Wu Ming Contigent, Daniele Sepe e i Fratelli della Costa, Caparezza, Luca ‘O Zulù Persico, Mauràs, Signor K, Assalti Frontali, Putan Club, Cesare Basile, Lalli e Stefano Risso.

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Marco Sommariva, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone.

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix.

Carmelo Bene e Luisa Viglietti: una storia estromessa

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di Alessio Paiano

 

 

Quando si tratta del fenomeno Carmelo Bene ci si trova sempre di fronte a due poli che ruotano uno sull’altro, la vita e l’opera, che si completano e si respingono allo stesso tempo; così diventa necessario, per una ricognizione completa dell’artista, integrare una dimensione con l’altra per colmare spazi vuoti o irrisolti. Non accade raramente di riscontrare tra i superstiti/seguaci del fenomeno CB (o presunti tali) delle appropriazioni indebite, come se l’’artista’ avesse ceduto il passo a una sua comoda riduzione, che fa comodo a molti: il ‘personaggio’ che ne deriva, adattabile sia nel caso in cui lo si voglia trasformare in un prodotto d’élite, sia che lo si investa di connotazioni ideologiche di dubbia valenza (il Bene anti-potere, il Bene anti-casta delle ultime apparizioni televisive), ritaglia sfaccettature forse corrette ma parziali. Carmelo Bene è stato uno dei pochi artisti del Novecento ad aver frequentato ogni forma artistica disponibile, a cui si aggiunge la presenza televisiva nel corso degli anni Novanta, così nei fan più gelosi del mito beniano questa parentesi sarebbe la più irrilevante e addirittura dannosa, avendo portato a un volgarizzamento dell’artista. Ma Bene ha sempre avuto come unico riferimento la demolizione del linguaggio maggioritario e delle sue funzioni moralistiche e retoriche, come già gli riconosceva Deleuze negli anni Settanta in un saggio poi confluito in Sovrapposizioni (1978); per questo appare del tutto naturale come Bene non potesse lasciare insoluto il conflitto col mezzo televisivo dopo essersi abbattuto, negli anni, contro il teatro, il cinema, il romanzo e la poesia (parlo del mal de’ fiori, poema mastodontico pubblicato da Bompiani nel 2000). A ogni riduzione, a ogni confinamento e pretesa di conoscibilità esclusiva e totale di Carmelo Bene segue idealmente la sonora pernacchia che lui stesso dedicò a chi cercava di ingabbiarlo in improbabili affiliazioni politiche.

Verrebbe da dire: al filologo bastano le opere, al seguace bastano le parole del personaggio da cui trarre una sorta di verità rivelata. Eppure entrambe non si bastano a vicenda. Ben venga allora questo libro a firma di Luisa Viglietti, sua compagna di vita e di arte come costumista e assistente dal 1994 fino alla scomparsa, poiché costituisce un tassello importante per comprendere gli aspetti inediti dell’ultima fase dell’artista. Nella sua prefazione a Cominciò che era finita (Edizioni dell’Asino, 2020) Goffredo Fofi descrive il volume alla stregua di un dono, ben consapevole (in quanto stretto collaboratore di Bene) del gioco a cui Carmelo Bene ha sottoposto tutti, spettatori, critica e fedeli, tranne quelli che ne hanno da sempre compreso il meccanismo: uno scivolamento continuo tra realtà e finzione che passa dalla mitizzazione di sé e della propria opera, tanto da rendersi necessaria prima la stesura di un’autobiografia definita «rischiosissima, reale e immaginaria», Sono apparso alla Madonna (1983), poi di una Vita di Carmelo Bene (1998) architettata con Giancarlo Dotto. Architettata, appunto, poiché si tratta di una storia guidata dal suo stesso oggetto di ricerca, come a fare gli ultimi conti con un’esistenza incomprensibile, poiché quello che da sempre interessa non è la Storia, la biografia documentata dei fatti, ma tutto ciò che non è mai avvenuto e non è stato conoscibile poiché estromesso dai suoi stessi artefici. Così Bene ne parla nell’incipit di Lorenzaccio (1986):

«Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un’azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno»[1].

Carmelo Bene, che ben conosceva i cortocircuiti dell’essere-parlante attraverso le lezioni di Freud, Lacan, De Saussure e avendo per questo, alla stregua dei mistici (su tutti San Juan de la Cruz e Teresa d’Avila) connotato la propria esistenza di una nostalgica inconoscibilità, risolve così i conti con la propria storia: quello che si può sapere, che si crede di sapere e che non si può sapere si ritrova contemporaneamente sulla scena, in un paradosso che Deleuze, parlando del suo cinema, aveva raffigurato tramite l’immagine-cristallo («l’eterna fondazione del tempo, il tempo non-cronologico»[2]) mentre Jean-Paul Manganaro, da un punto di vista più sostanziale, nella pratica dello slittamento («Egli propone una forma e intanto la smentisce, produce appunto uno slittamento rispetto al paradigma appena affermato»[3]). Cosa ci fa dunque sapere in più Luisa Viglietti? Nel suo racconto si avvicendano dettagli di vita quotidiana e i retroscena riguardanti le opere del periodo, sia in teatro con l’Hamlet Suite e Pinocchio sia in televisione, lo strumento a cui Carmelo Bene sembra dedicare maggiore attenzione in questa fase; fino all’esordio nel millennio con mal de’ fiori, di cui Viglietti fornisce informazioni filologiche e ricorda il tentativo di dialogo da parte di Bene con gli altri poeti, che a parte qualche complimento privato lo esclusero dai loro circuiti, probabilmente (a nostro avviso) per la distanza assoluta, sotto vari punti di vista, con le opere del suo tempo – di tutta risposta a questo isolamento, Bene non evitò commenti sprezzanti sulla poesia delle «anime belle», «comunicativa, edificante, a volte satura di decadentismo smidollato».

Cominciò che era finita contiene una serie di notizie inedite sulle opere e curiosità a tratti sbalorditive per chi custodisce l’immagine del mito, anche se i più semplici gesti di quotidianità domestica venivano portati da lui su un piano differente: così, se Viglietti racconta come in quegli anni Bene fosse rimasto sedotto dalla televisione, il suo non era mai un ruolo da spettatore passivo (un contrappasso impossibile), ma uno studio attento di quei ‘buchi neri del linguaggio’ che dichiarava di aver ritrovato lì, nei talk-show dove ci si parla addosso (Bruno Vespa), spesso con esiti inconcludenti o confusionari (Gigi Marzullo), senza mai perdersi un solo programma sportivo; evitava e disprezzava la TV delle vallette e delle showgirl, anche se nella storia delle apparizioni ‘improbabili’ rimane la partecipazione a Macao (1997) condotto da Alba Parietti, che da questo libro sappiamo essere una gentile prova di stima per Carlo Freccero, il quale da direttore di Rai 2 vorrà alcune messe in onda tra cui il Pinocchio del 1999:

Per la scena dell’arrivo dell’omino di burro con il carro dei ciuchini all’appuntamento con Lucignolo e Pinocchio, Carmelo mi chiese di vestirmi da Lucignolo per pochi secondi.  La scena iniziava con Sonia/Omino di burro che entrava guidando il carro, io/Lucignolo e Carmelo/ Pinocchio, ci avvicinavamo e saltavamo in groppa agli asinelli. Al primo ciak Carmelo anziché appoggiarsi con il fianco alla sella del ciuchino a dondolo, come avevamo fatto alle prove, alzò la gamba destra e ci montò sopra, l’afferrai da dietro per la cintola dei pantaloni per non farlo cadere, nessuno se ne accorse. Buona la prima! Appena finito di girare la sequenza lo accusai di essere un incosciente, lui con un sorriso di soddisfazione mi disse che era da quando li aveva visti la prima volta che desiderava farlo. (p. 143)

Ovviamente, non si parla solo di studio, arte e lavoro: al centro resta la relazione tra i due, l’amore quotidiano delle scelte d’arredo, delle cene esagerate cucinate da Carmelo (di cui Viglietti riporta le ricette, sempre le stesse ripetute ossessivamente, per dosi e ingredienti eccessive come il cuoco), degli screzi per motivi fin troppo comuni nelle coppie, che ne fanno però una storia credibilissima e tangibile. Infatti è proprio questo restituire (finalmente!) la dimensione umana dell’uomo-Carmelo Bene il grande merito del volume: ne fuoriesce, e Viglietti non ha remore nel descriverlo, un uomo solo, separatosi fin dalla giovinezza dai famigliari, di cui restano però le tracce di un’educazione fortemente matriarcale e da qui, probabilmente, il rapporto difficile con le attrici, che l’autrice cerca di comprendere, senza condannare né giustificare. Vengono poi nominati i pochi amici, a cui Bene dava molta importanza, tanto da rimanere vittima di alcune prove di generosità non ricambiata; e poi l’idiosincrasia con le spiagge d’Otranto («vuoi diventare cretina, il sole è micidiale»), l’incontro non esaltante con Umberto Eco, la paura di essere fissato dagli occhi indagatori dei bambini, le incomprensioni con l’Università di Lecce che rifiutò all’ultimo di conferirgli la laurea honoris causa (non «buon esempio per i giovani», secondo il rettore), la scoperta della malattia e la sparizione, che Viglietti racconta in maniera lucida e priva di ogni patetismo, forse anche dall’esempio di quell’uomo così abituato a darsi del tutto in scena ma così rigido nel privato. Eppure, ci racconta l’autrice, la notte prima di uno degli interventi chirurgici a cui dovette sottoporsi, pensava a quel figlio, Alessandro, avuto dalla prima moglie Giuliana Rossi e morto a quattro anni, nel 1965; un lutto inconfessabile, secondo Viglietti:

Mi parlò del dolore più grande della sua vita, la perdita di suo figlio Alessandro. Quella notte Carmelo mi parlò a lungo di quel bambino, e del dolore che nel corso di tutti quegli anni non aveva mai trovato pace. Mai prima di allora ne aveva parlato in quel modo. Quella notte riuscì a raccontarmi quanto aveva rimosso per tutta la sua vita. (p. 180)

Soprattutto il libro dà una risposta a un quesito che si pongono tutti coloro che ne riconoscono il genio: che fine ha fatto la memoria Carmelo Bene? Ma la domanda corretta è un’altra: che fine avrebbe dovuto fare la memoria di Carmelo Bene? Il testamento dell’artista prevedeva difatti la creazione della Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene, naufragata per vicende giudiziarie a dir poco pirandelliane. Le pagine più drammatiche per il lettore sono forse queste, che Viglietti preferisce come al solito ripercorrere in maniera analitica, affidandosi più ai verbali che agli impeti emotivi. Cominciò che era finita è allora il tentativo di scrollarsi di dosso almeno una parte di questa storia dal peso enorme: nel finale, donandosi al lettore con estrema sincerità mediante il racconto della sua storia personale e famigliare, Luisa Viglietti vuole testimoniare l’incontro di due solitudini che si salvano a vicenda. Una storia per anni estromessa e che questo libro finalmente restituisce, per il bene di chi resta. «Abbandonati tutti gli eccessi non gli restava che essere normale. Con un cuore grande come il suo sarebbe stato sì un’eccezione».

 

 

[1] Bene, Lorenzaccio, in Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, p. 9.

[2] Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989.

[3] Manganaro, Il pettinatore di comete, in Bene, Otello, o la deficienza della donna, Milano, Feltrinelli, 1981.

La comunione degli psiconauti

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di Andrea Zandomeneghi

[Note ed elucubrazioni su “Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio” di Peppe Fiore in La scommessa psichedelica a cura di Federico di Vita]

Fiore parte dalle sue esperienze personali con l’LSD («La dissoluzione dell’ego, l’estasi, la percezione di squarci di bellezza assoluta e senza scampo, la sensazione di unità col creato. […] L’LSD è stata una delle cose più vicine al sacro che io abbia potuto sperimentare») e le vede come accesso (rectius: come «ritorno», perché «il cosmo lisergico è sempre lì, sempre uguale a se stesso») a uno spazio peculiare, un «luogo eterno» – che come tale non è prodotto ex novo ed ex nihilo solipsisticamente dal singolo viaggio del singolo psiconauta, ma ha una sua consistenza oggettiva preesistente e addirittura immutabile – «popolato da una folla di altri – tutti gli uomini e le donne che prima di me hanno varcato la stessa soglia». Del resto se lo psichedelico rivela e mostra la mente e non si risolve in un delirio allucinatorio individualistico allora diventa possibile e pensabile un incontro con l’altro nei territori mentali rivelati, la comunione degli psiconauti come partecipazione solidale immersiva alla medesima realtà che si manifesta («l’idea che i fenomeni, spaventosi e bizzarrissimi che accadono a me siano già successi, più o meno simili, anche agli altri i è sempre risultata di conforto durante i trip. […] L’LSD mi ha permesso di stringere un legame con persone a me care così profondo che è paragonabile solo al sesso e, forse, all’essere scampati insieme a un pericolo mortale, o aver combattuto insieme, sullo stesso fronte, la stessa guerra»).

Alla luce di queste premesse diventa sensato da una parte cercare di mappare «il luogo eterno» ovvero «il mondo psichedelico» a partire dai trip report («quella che per mezzo secolo è stata solo una forma di resoconto di stretto appannaggio della letteratura specialistica o degli artisti si è solidificata in qualcosa che assomiglia a un canone: una popolazione di testi che, insieme, posso essere interpretati come un particolarissimo sottogenere della letteratura di viaggio») in cerca di «ricorrenze e sincronicità» analizzati con strumenti comparativistici, dall’altro andare a sondare in base ai risultati ottenuti quanto di realmente «condiviso» c’è nell’esperienza psichedelica operando quindi una sorta di verifica a posteriori che possa eventualmente fondare sperimentalmente l’ipotesi (la premessa) di partenza. Come materiali reportistici da lavorare comparativisticamente Fiore sceglie l’enorme massa di racconti (per lo più anonimi, ma comunque non d’autore: non partoriti con finalità artistiche e letterarie) presenti sul web («con Internet venne una forma di enunciazione di massa dell’esperienza di viaggio psichedelico») e in particolare ne seleziona qualche decina (a cui s’aggiungono le sue proprie memorie personali) dal migliore database sulle sostanze disponibile in rete: Erowid.

Procede poi a tracciare la geografia del «luogo eterno» individuando «pattern che ritornano: quelle rivelazioni che l’LSD dischiude a chiunque sia interessato a conoscere l’universale»:

NATURA («L’LSD dialoga fittamente con il mondo naturale. […] Le texture delle cortecce, le venature nelle rocce, le ramificazioni dei capillari delle foglie: sono sistematicamente tra i primi elementi che prendono vita quando la sostanza si comincia a sentire. Con l’aumentare degli effetti, la natura vive di vita propria, si fa cosciente e può rivelare un carattere cangiante»).

CREATURE («È un peccato che nessuno abbia mai pensato di stilare un bestiario delle creature psichedeliche. Ne risulterebbe un catalogo di varietà impressionante, in cui il quotidiano dialoga con l’inconscio profondo, generando entità che partecipano di entrambe le nature: reale e fantastica, naturalistica e archetipica»).

MUSICA E SUONI («Nei trip report tornano spessissimo i riferimenti alla musica e, in generale, alle esperienze sonore. La musica è da sempre una compagna di viaggio per gli psiconauti: incoraggia il trip, a volte lo guida, e dischiude sempre dei significati inaspettati»).

ETERNITÀ («Ho accennato all’inizio che un carattere ricorrente del mondo psichedelico sembra essere quello dell’archetipico, in qualche caso del mitologico. Sotto l’effetto dell’LSD, gli oggetti, le architetture, i corpi delle persone, anche senza particolari distorsioni della percezione, spesso appaiono circonfusi da una caratteristica aura di eternità»).

TEMPO («Durante il trip il tempo, come le percezioni, può assumere connotati elastici, ricorsivi, frattali. Spesso il temuto bad trip non è altro che questo: l’impressione di ritrovarsi intrappolati in una spirale di tempo che ritorna angosciosamente su se stessa. […] La psichedelia invece scardina il tempo, e con il tempo la consequenzialità degli eventi. Ci porta in un mondo in cui a un effetto non è necessariamente presupposta una causa. In qualche modo, simula il delirio paranoide»).

AUTOPERCEZIONE («In effetti è vero – gli specchi sotto LSD possono essere una trappola infernale, e ci sono poche esperienze più spaventose di specchiarsi e non riconoscersi – la mia identità misteriosamente decomposta e ricombinata in una forma che assomiglia a me, ma non sono più io. […] La dissoluzione dell’io è un’esperienza che molti psiconauti cercano, perché ci distacca finalmente da noi stessi e dal sistema di automatismi che governa la nostra vita quotidiana, ci richiama all’origine che sta prima del nostro essere gettati nel mondo: anche nella prospettiva di ritornarci poi, nel mondo, purificati da quell’abbandono»).

FOLLIA («Al culmine dell’intensità, la psichedelia smonta le catene di senso, le avviluppa in spirali di non-significato che tornano ossessivamente su se stesse. È la regione più spaventosa della psichedelia, quella che affaccia direttamente sul bad trip. […] Non esiste psiconauta al mondo, credo, che non abbia pensato almeno una volta nella vita di essere impazzito e non poter più tornare come prima»).

DIO («Un grande personaggio ricorrente dei resoconti degli psiconauti: una presenza mutevole e capricciosa che si manifesta, di volta in volta, nella forma di coscienza universale, o di luce, o di senso di unità con il creato, o di caos, o di armonia ordinatrice della creazione»).

Da Saffo a García Lorca: venti traduzioni per due poesie

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Penelope Umbrico, "Everyone's Moon", 2015 (fotogramma)

[DieciXUno – Una poesia, dieci traduzioni è una collana dell’editore Mucchi, curata da Antonio Lavieri, che ho già presentato qui. Sono ora usciti due nuovi volumi, dedicati rispettivamente all’Ode all’amata di Saffo (a cura di Sotera Fornaro) e al Lamento per Ignacio S. Mejías di Federico García Lorca (a cura di Francesco Fava): ciascuno contiene una versione inedita del/la curatore/trice. Di entrambi pubblico uno stralcio dell’introduzione e due delle dieci traduzioni presentate e analizzate, ognuna delle quali rifrange, come sempre accade, una diversa luce del testo di partenza: per questo motivo ho scelto come immagine di apertura un fotogramma tratto da “Everyone’s Moon” di Penelope Umbrico, artista i cui lavori propongono spesso suggestioni interessanti per chi si interessa di traduzione. (ornellatajani)]

Penelope Umbrico, “Everyone’s Moon”, 2015 (fotogramma)

a cura di Sotera Fornaro

[…] Di recente, uno tra i più grandi studiosi di lirica greca e dei sui aspetti performativi, Claude Calame, ha paragonato il beatbox dell’artista rap Steff La Chef proprio a quest’ode di Saffo, a mio parere con tutti i buoni motivi. Il beatbox, come ha dichiarato la stessa artista, «c’est une percussion de la bouche. On fait des bruits, des mélodies et des rythmes avec la langue, les lèvres, le nez, le larynx, le palais, les cordes vocales et le diaphragme». Ed è così che dobbiamo immaginare performata questa ode di Saffo, tanto più che il rap in questione usa la variante di Berna dello svizzero tedesco, e dunque assomiglia alla lingua dialettale di Saffo. La comparazione, che Calame attua con solide basi teoriche, serve a comprendere in generale la poesia di Saffo, anche nel suo contenuto specificamente omoerotico. Ma di tali comparazioni non c’è (ancora) traccia nelle traduzioni disponibili, sia perché, ovviamente, una vera traduzione in tal senso sarebbe piuttosto un libretto di sala, sia perché l’idea che la lirica sia una soggettiva, personale espressione dell’io, una specie di sfogo interiore, se si tratta di lirica d’amore, perdura al punto da condizionare ancora le traduzioni della poesia lirica antica.

Un censimento completo di tutte le traduzioni nelle lingue moderne di quest’ode manca, e non sarebbe impresa facile; un libro francese ha proposto il repertorio di cento traduzioni in francese. Non saprei dire se possiamo contarne altrettante in italiano: la prima traduzione a noi nota data 1572, ed è una versione molto consapevole, perché seguita da un attento discorso del traduttore, Francesco Anguilla, letterato forse di Ferrara di cui però non sappiamo nulla, che tra l’altro si serviva dell’ampio commento per poter indirettamente esprimere il suo amore per una donna, che resta anonima. Ora: il soggetto che prova le emozioni connesse al sentimento d’amore, in Saffo, è una donna. Ma il lavoro di traduzione è diventato ri-traduzione del soggetto stesso, poiché la gran parte delle traduzioni sono di uomini. Come ha scritto Salvatore Puggioni, la ricezione dell’ode coincide in gran parte con la ricezione della figura stessa di Saffo, e «innerva zone importanti della letteratura italiana prenovecentesca fino a Parini, Foscolo, Leopardi e al Pascoli ‘conviviale’, e che già dalla prima età moderna riconosce in Tasso uno degli interpreti più autorevoli». Altri hanno studiato tale tradizione, e dunque la specificità di questo nostro piccolo libro non è raccogliere dieci traduzioni, più o meno celebri, di Saffo, ma proporre nove traduzioni redatte da donne, compresa la mia, più la prima conosciuta in lingua italiana […].

trad. di Iolanda Insana

Lo vedo felice come un dio
lui che ti sta di fronte
e attento segue il suono
della voce

la tua fresca risata.
È soprassalto, mi scuote tutta.
Appena il tempo di vederti
E non so più parlare.

La lingua si spezza
brivido di fuoco rapido corre
sulla pelle
l’occhio non vede ronzano le orecchie

Sudore freddo
e tremito mi prende
e più verde dell’erba
mi sembra di morire, Agallide.

trad. di Rosita Copioli

Proprio sorte pari agli dèi ha per me
quell’uomo, che ti specchia rapito,
vicino, e la voce soave
ti assorbe

e il riso amoroso: e questo
mi atterrisce dentro il petto il cuore:
Oh, mi basta vederti, e di colpo di voce
non mi resta più nulla,

anzi a me la lingua s’è franta, rapido
un fuoco sottile corre dentro la carne,
e con gli occhi non vedo più, e le orecchie
rombano,

e il sudore m’inonda, e mi cattura
tutta il tremore, e sono più verde
dell’erba, e mi sento di poco lontana
proprio dal morire.

Ma tutto si può sopportare, giacché…
anche un poveruomo…

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a cura di Francesco Fava

1. Il Llanto por Ignacio Sánchez Mejías non è forse il più bello ma è, senza alcun dubbio, il più celebre tra i componimenti poetici di Federico García Lorca. Oltre alla sua rilevanza nella storia letteraria spagnola, si tratta di un testo che attraverso le sue numerose e qualificate versioni italiane costituisce anche un tassello estremamente significativo per la storia della traduzione e della ricezione delle letterature straniere nel nostro paese nel corso del XX secolo. Intorno all’elegia per l’amico torero morto nell’arena, composta da Lorca nel 1935, si condensano infatti le attenzioni di traduttori più che illustri, a partire – come rievoca Oreste Macrì – dagli «ardenti e mitici anni fiorentini (1936-1942) della mia generazione, quando Carlo Bo ci leggeva alle Giubbe Rosse le strofe del Llanto por Ignacio». Nel breve volgere di poco più di una ventina d’anni, tra 1938 e 1961, a cimentarsi in una traduzione italiana del testo sono, oltre a Bo e allo stesso Macrì, scrittori capitali del nostro Novecento quali Elio Vittorini, Giorgio Caproni e Leonardo Sciascia. La versione di Sciascia generò persino un’agguerrita polemica letteraria che mise a confronto poetiche traduttive e interpretazioni testuali contrapposte. E, caso unico più che raro nel panorama editoriale dell’epoca, nel 1978 il Llanto venne offerto al lettore in un’edizione che presentava insieme, l’una dopo l’altra, tutte e cinque le traduzioni appena citate. Illustre era anche il curatore del volume, Giovanni Raboni, che nell’introduzione osservava come «una lettura ravvicinata e strettamente cronologica di queste cinque letture può fornire più di un’indicazione suggestiva sulle persistenze e le metamorfosi che hanno interessato, negli ultimi quattro decenni, l’evoluzione del gusto poetico e letterario in Italia». A 40 anni dalla sua prima pubblicazione italiana, il Llanto diventava così anche occasione per riflettere su come le traduzioni giochino un ruolo non ancillare nel polisistema letterario nazionale e su quanto siano profonde le relazioni osmotiche tra poetiche del tradurre e poetiche ‘autoctone’.

Accanto alle cinque versioni storiche, tra le altre traduzioni italiane pubblicate nell’ultimo trentennio si è scelto di includere in questo volume quelle realizzate all’interno delle due importanti edizioni integrali della poesia lorchiana curate rispettivamente dagli ispanisti Norbert Von Prellwitz (la traduzione del Llanto è lì affidata a Lorenzo Blini) e Giovanni Caravaggi. Tra le versioni in altre lingue europee si propongono invece la traduzione d’autore, in portoghese, di Jorge de Sena, voce insigne della lirica lusofona del XX secolo, e quella francese realizzata per la Bibliothèque de la Pléiade da André Belamich, autorevole specialista dell’opera di Lorca.

Se questo libro fosse un’edizione multimediale, lo si potrebbe completare con due file audio: le letture del testo realizzate da Arnoldo Foà (1955) e Carmelo Bene (1965). Pur fondate entrambe sulla traduzione di Carlo Bo, in virtù della forte personalità artistica dei due attori si configurano come altrettante originali reinterpretazioni dell’opera. Il disco che riproduceva la lettura di Foà conobbe peraltro un inaudito successo di pubblico, superando il milione di esemplari venduti e rendendo il Llanto un fenomeno unico nella storia della cultura italiana: i suoi versi si incisero nell’immaginario nazionale arrivando a essere citati quasi proverbialmente, ripetuti, declamati, persino parodiati […].

[Accolgo l’intenzione di F. Fava e propongo, prima dei due estratti di traduzione, i file seguenti:

qui Arnoldo Foà legge la traduzione di Carlo Bo

qui invece è Carmelo Bene a leggerla (parte I, segue al termine la parte II)]

trad. di Elio Vittorini

I. La cornata e la morte

Fu alle cinque, la sera.
Erano in punto le cinque della sera.
Recò un ragazzo il bianco lenzuolo
alle cinque di sera.
E una sporta di calce era già pronta
alle cinque, la sera.
Ed era morte il resto, morte era
alle cinque della sera.

Sollevò il vento fiocchi di cotone.
E cristallo e nichelio
alle cinque della sera
fu seminato intorno.
Mentre l’un contro l’altro
già lottano il colombo ed il leopardo
alle cinque della sera;
il corno dentro il muscolo squarciato
alle cinque della sera.

Poi rintocchi, alle cinque della sera,
cominciarono, alle cinque di sera.
Le campane d’arsenico e il fumo.

Era a gruppi il silenzio negli angoli
alle cinque della sera.
Soltanto il toro aveva il cuore in alto
alle cinque della sera.
E col sudor di neve
alle cinque della sera
con l’jodio sparso sulla terra intera
venne la morte alle cinque di sera
e mise nella piaga le sue uova,
alle cinque di sera
in punto alle ore cinque
della sera.

[…]

trad. di Giorgio Caproni

I. La cornata e la morte

Alle cinque di sera.
Le cinque in punto di sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco.
                          Alle cinque di sera.
Una cesta di calce bell’e pronta.
                          Alle cinque di sera.
Tutto il resto era morte e solo morte
                          Alle cinque di sera.

Il vento portò via con sé il cotone
                        Alle cinque di sera.
E seminò cristallo e nichel l’ossido
                        Alle cinque di sera.
Già la colomba lotta col leopardo
                        Alle cinque di sera.
E la coscia col corno desolato
                        Alle cinque di sera.
Cominciarono i tocchi di bordone
                        Alle cinque di sera.
Le campane d’arsenico e di fumo
                        Alle cinque di sera.
Sui canti capannelli di silenzio
                        Alle cinque di sera.
E solo il toro aveva il cuore in alto!
                        Alle cinque di sera.
Quando il sudor di neve sopraggiunse
                        Alle cinque di sera,
Quando l’arena si coprì di jodio
                         Alle cinque di sera.
La morte pose l’uovo nella piaga
                        Alle cinque di sera.
                        Alle cinque di sera
Esattamente alle cinque di sera.

[…]

La scrittura di Manuel de Pedrolo è un atto di violenza

1

di Alberto Prunetti

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dalla postfazione di Alberto Prunetti a Manuel de Pedrolo, Atto di violenza (1961), Paginaotto edizioni, 2021, traduzione di Beatrice Parisi. Atto di violenza è uno dei libri più rappresentativi di Manuel de Pedrolo, scritto in pieno franchismo)

“È molto semplice: restate tutti a casa”. Il romanzo di Manuel de Pedrolo inizia così. La gente non esce di casa, nessuno va a lavoro, le strade si svuotano. La gente si affretta a accaparrare cibo e beni di prima necessità. Gli scaffali dei negozi si svuotano. Le macchine delle fabbriche si fermano.

Cosa sta accadendo? Un coprifuoco imposto dall’alto? Una pandemia? Certo, ormai è impossibile non leggere queste pagine senza pensare alle strade vuote dei giorni del Covid. Ma quello raccontato da de Pedrolo è un atto di insubordinazione di massa. Un rifiuto generalizzato a lavorare, a uscire di casa: l’ostentata negazione di mettere a servizio la propria forza lavoro. Chi c’è dietro? Un partito? Un sindacato? Un gruppo di intellettuali? Niente di tutto questo. L’atto di insubordinazione è proclamato da una sorta di comitato invisibile. È uno sciopero, certo, ma senza un sindacato. È politica, ma senza rivoluzionari di professione. È resistenza, ma i partigiani non hanno bandiere eppure sembrano inarrestabili.

E il potere cosa fa? Il potere è una forma di autoritarismo sul viale del tramonto. Una concentrazione di autorità desautorata, in piena osteoporosi. L’ossatura solida di un tempo comincia a sfaldarsi. Le iniezioni di forza muscolare non bastano a tenere assieme la carcassa della governance. È un potere old school: per definirlo, più che alla microfisica di Foucault bisogna pensare a una griglia elettrosaldata con intrecci d’acciaio, consolidati da divieti, bandi, censure, pistole e carceri. È una dittatura, quella del fantomatico Domina. Una dittatura che assomiglia molto al franchismo (non a caso de Pedrolo scrive il romanzo tra il 1960 e il 1961).

Come ogni dittatura colpisce grossolanamente a caso. I pochi che disobbediscono alla consegna e escono di casa vengono fermati e maltrattati dalle forze dell’ordine, che così rinforzano l’imperativo a non uscire. Ma il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla.

Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza.

Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere.

E che ci interroga sulla resistenza nei confronti dell’autoritarismo. Che succede quando il potere autoritario diventa debole? Come si fa a evitare che il Leviatano, ormai mostruosamente tirannico, rinasca dalle sue ceneri? E soprattutto: che ne è dell’autorità del padrone quando lo schiavo si rifiuta di uscire di casa, di mettersi disponibile al lavoro per i profitti del signore? Può un sistema autoritario che si regge – alla pari del resto dei sistemi democratici – sull’uso della violenza e sul consenso meccanico, sullo spettacolo concentrato, direbbe Guy Debord, può un tale sistema essere destituito soltanto dalla resistenza passiva dei cittadini e delle pratiche di disobbedienza civile?

Leggendo queste pagine pedroliane a me è venuto in mente lo scrittore argentino Rodolfo Walsh. Un altro che con la violenza e la dittatura ha fatto i conti, resistendo alla dittatura militare con la penna e con la pistola (morì sotto i colpi da fuoco dei repressori militari). Il tema della violenza è centrale nell’opera di Walsh, tanto che una sua raccolta di articoli si intitola proprio El violento oficio de escribir. La scrittura è un atto di violenza, un mestiere violento. O meglio: raccontare una società violenta significa fare della scrittura un atto di violenza. Una scrittura che si propone di raccontare la violenza del potere non può essere la scrittura pacificata che intrattiene: deve camminare sui carboni ardenti e soffiare sul fuoco della rivolta. È la scrittura come la intende e la pratica Manuel de Pedrolo. Una scrittura che non si può fare come se fosse un pranzo di gala, parafrasando una famosa citazione di Mao che ogni amante degli spaghetti western conosce a memoria.

Ma chi è Manuel de Pedrolo? Autore finora non tradotto in italiano, è in realtà poco conosciuto anche in Spagna, mentre in Catalogna è un punto di riferimento letterario di primo piano. Nato nel 1918 a L’Aranyó, in Catalogna, de Pedrolo esercita il suo mestiere di scrittore in anni difficili. Inizia a lavorare come traduttore e si dedica alla redazione di decine di romanzi. È molto prolifico, ma la sua vena narrativa si schianta contro la diga dei censori del franchismo. Marxista e catalano, la sua opera viene censurata continuamente. Quasi ogni suo romanzo viene di fatto in qualche modo tagliato dallo sguardo occhiuto del censore. Sette vengono totalmente vietati. Per quelli che riesce a portare in stampa ha bisogno di anni di confronto con la censura.  Tra il ’49 e l’inizio della transizione almeno trenta libri di de Pedrolo riescono a entrare nelle librerie solo dopo una lunga elaborazione di editing che si estende fino a dieci anni di lavoro. Il muro della censura si alza per ragioni diverse: politiche, morali o linguistiche. Il problema è il suo riferimento a immaginari operai e popolari, la militanza di sinistra dell’autore, la maniera priva di pudori moralisti con cui tratteggia la sessualità e infine l’uso del catalano come lingua di scrittura. La situazione comincia a migliorare solo a partire dai primi anni Settanta, con l’allentarsi della morsa della dittatura.

Atto di violenza si svolge attraverso una serie di scene, con un taglio quasi cinematografico. Alcune sono intrecciate tra di loro, altre no. Sembra quasi un montaggio che restituisce la scena dell’azione prima che il dramma si compia nel finale. Sequenza dopo sequenza, vediamo gli interni e gli esterni della città vuota. Ascoltiamo le lamentele dei padroni della fabbrica con i macchinari fermi (“Ci sono sempre i crumiri!” “Temo proprio che stavolta sarà tutto diverso”). Camminiamo con la domestica adolescente che va alla fonte, svia la cattura di un fuggitivo e viene colpita a freddo dalla pistola di un poliziotto. E poi lo scrittore e il garzone di bottega – è il ragazzo dell’adolescente ferita – che si ribella al bottegaio, che al solito è un uomo d’ordine. E ancora: la compagnia di attori teatrali pronti a rubare un’auto per riportare a casa un agitatore che non può camminare; due amanti, un gruppo di soldati di leva, gli operai dell’azienda del tram e una coppia di turisti stranieri.

Ma è nel Terzo giorno di insubordinazione generale, di sciopero dal lavoro e dall’obbedienza, che il romanzo comincia a imboccare un’accelerazione drammatica.

Terzo giorno | capitolo 15, letto da Maria Grazia Ruggieri

Al contrario di V for vendetta, qui le strade non sono piene di manifestanti. Sono vuote. Vuote di persone disposte a farsi sfruttare. E questo vuoto, questo silenzio, è un rumore che scava come un tarlo quel potere che ha la forza di svegliare al mattino, con lo squillo delle sveglie, i lavoratori. Non ci sono più ormai neanche i poliziotti per arrestare non dico i sovversivi, ma almeno i cuochi dalla lingua troppo lunga.

Leggiamo de Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa. “È molto semplice: restate a casa.”

L’Anno del Fuoco Segreto: Tongofrip

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI

di Luca Ricci

“Ci sono più cose in cielo e in terra,
Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.

Amleto, William Shakespeare

 

Luigi Menz, da giorni accampato nei paraggi di Frippane, venne raggiunto da un uomo.
– Di cosa è fatta la tua tenda?
– Gore-tex. Un tessuto antivento e impermeabile. E’ ultra leggero.
– Che diavoleria.
Menz sorrise. – Posso entrare nel villaggio?
– I vecchi si sono parlati, – disse l’uomo. – Per loro va bene.
– Domani? Per la Festa di Tongofrip?
L’uomo annuì.
– Qual è la strada migliore per arrivare?
– Devi seguire la via principale, la riconosci perché è fatta di sassi bianchi, taglia il vallone e sale lungo il versante ovest.
– A che ora?
– Parti la mattina presto, ci sono quarantacinque minuti di cammino, mezz’ora se sei svelto.
Si guardarono, poi l’uomo si allontanò e Menz si rificcò dentro la tenda. Era accampato già da qualche giorno, la negoziazione per il suo ingresso nel paese lo aveva impegnato più del previsto. Le scorte di cibo non lo preoccupavano, ma aveva sottovalutato il clima umbro di fine ottobre: di notte l’umidità diventava implacabile, gli bagnava i vestiti. Lì non c’era il tifo né il colera, ma restare intirizzito e al gelo per tutta la notte era molto peggio dei vaccini che venivano richiesti agli africanisti.
La Festa del Tongofrip era uno dei rompicapi più affascinanti dell’intera storia dell’antropologia, proprio per l’assenza totale di testimonianze sul campo, in presa diretta. A dirla tutta la maggior parte degli studiosi l’aveva declassata a leggenda priva di fondamento reale, una stramberia – molto simile a un pettegolezzo – che qualche accademico zelante si divertiva a spacciare come vera nei vari dopocena dei convegni, dopo qualche bicchiere di troppo. Nella Enciclopedia universale dei riti umani del Fropp non se ne faceva cenno. Eminenti antropologi quali Pierre Paul Broca, Lévi-Strauss, Bronisław Malinowski, Giuseppe Sèrgi, Vittorio Lanternari non ne sapevano niente. Era altrettanto vero – indubitabile – che l’antropologia, cioè la «scienza dell’umano», si era andata consolidando grazie a viaggi ritenuti esotici dalla cultura illuminista e occidentale, esploratori alla James Cook di fatto avevano circoscritto il campo degli studi alle colonie, e per un lungo periodo l’antropologia e il colonialismo erano andati a braccetto: normale quindi che nessuno avesse prestato attenzione a un caso, ancorché strabiliante, scoppiato proprio nel cuore della vecchia Europa. A quanto risultava a Menz, soltanto uno studioso aveva citato di sfuggita il caso spinoso di Tongofrip, ed era stato Arnold Weiden, l’americano radiato dalla comunità accademica per il suo sguardo poco incline al rigore scientifico. Quest’ultimo, nel suo Superstizione come evoluzione della scienza, diceva:

“Esiste un paese nel cuore dell’Umbria, cioè nell’entroterra più appartato d’Italia (c’è un’esatta equidistanza chilometrica del paese tra la costa tirrenica e la costa adriatica) che si è reso totalmente inavvicinabile dal resto del mondo: Frippane. Gli abitanti – ma forse sarebbe meglio definirli membri di una tribù – non riconoscono lo stato italiano né la sua costituzione o le sue leggi, non per una sorta di insubordinazione, ma semplicemente perché ne ignorano l’esistenza. Nel corso dei secoli questa minuscola comunità autarchica, svincolata dalle comuni leggi demografiche, non è aumentata né diminuita, attestandosi su una media di 500 persone residenti.  Aiutata nel compito dell’autosegregazione dalla posizione geografica (il paese è arroccato su un picco a strapiombo su un vallone, lontano sia dall’autostrada che dalle principali linee ferroviarie), ha continuato a sorreggersi su un rudimentale sistema economico basato sul baratto, cosa che non ha fatto altro che stringere le maglie della sua società (il baratto, infatti, è possibile soltanto quando i due contraenti si fidino ciecamente l’uno dell’altro; nelle società moderne questo approccio psicologico non avviene più neanche tra consanguinei). Pare che ogni primo novembre nel paese si tenga la Festa del Tongofrip, un rito ancora avvolto nel mistero, in un periodo dell’anno però che per motivi legati alla tradizione religiosa e contadina ama rendere grazie”.

L’indomani Menz si mise in cammino di buon’ora, e riuscì a salire fino all’imbocco del paese in trenta minuti scarsi. Venne accolto dall’uomo con cui aveva parlato il giorno prima, che lo aspettava a braccia conserte poggiato a un masso ricoperto di muschio.
– Non può fotografare, non può registrare, non può scrivere, – lo avvisò.
Menz mise via l’attrezzatura. – Solo osservare.
L’uomo annuì, prima di condurre lo studioso dentro un’abitazione del centro: le case erano in muratura, anche se avevano qualcosa di elementare, di ridotto ai minimi termini, che faceva pensare più a un villaggio che a un borgo.
– Ecco lo scienziato, – disse l’uomo, prima di accomiatarsi.
Menz fece una sorta di saluto ossequioso piegando la testa, ma la coppia di anziani coniugi a cui era rivolto non mosse un muscolo.
Una ragazzina, seduta su una seggiola di paglia, si adornava i capelli con dei fiori.
Il vecchio, intuendo la curiosità di Menz, disse: – E’ per la festa.
– Quando comincia?
– E’ cominciata.
Menz si adagiò su una sedia di paglia. Nella stanza non volava una mosca. Soltanto il contenuto di un paiolo sopra il fuoco ribolliva.
– Adesso è il momento delle sentinelle, – proseguì il vecchio.
Non fece in tempo a finire la frase che da fuori, in lontananza, si sentirono riecheggiare delle grida: “Tongofrip è arrivato”. Soltanto allora Menz capì che il nome della festa coincideva con quello di una creatura enigmatica, che probabilmente era stata divinizzata.
– Tongofrip è buono o cattivo? – gli venne spontaneo di domandare.
Il vecchio socchiuse gli occhi. – Tongofrip è Tongofrip.
Le grida continuavano, sia maschili che femminili, era gente del paese che interpretava una parte, quella di avvisare il resto degli abitanti che era arrivato qualcuno dall’altrove. Più che giubilo, esprimevano apprensione e spavento. Menz uscì, affascinato dalla teatralità del rito a cui stava assistendo, e sentì ancora meglio le urla partire dal ciglio del paese, e andar giù e disperdersi lungo il vallone: “Tongofrip è arrivato”.
Il pranzo fu consumato in silenzio. Una minestra scodellata dal paiolo e un piattino di frutta secca. Menz non capiva la natura di quella frugalità e di quel raccoglimento spaurito. Più che una festa sembrava una quaresima.
– Non mi sembra una festa, – osservò.
Il vecchio spaccò il guscio di una noce, e lasciò il contenuto sul tavolo.
– A noi non piace Tongofrip, – disse, stringendo la mano di sua moglie.
Menz annuì mentre un ragazzino rientrò a casa, chiedendo a gran voce qualcosa da mangiare.
– Sei una sentinella? – gli domandò Menz.
Il ragazzo sorrise. – Quest’anno sì. Ero troppo piccolo, prima.
Passarono un paio d’ore nelle quali a Menz fu consentito di girare per il paese. Non c’era traccia di una consapevolezza né di una rivendicazione per quella condizione di autonomia radicale, l’isolamento in quel luogo era sorto spontaneamente, e non rappresentava nient’altro che una condizione di normalità. Più che una utopia alla Moro o alla Campanella, Frippane era uno stallo della teoria evoluzionistica. D’altronde oggi la variabilità biologica dell’uomo era riconsiderata sulla base della variabilità individuale: nessun macro-gruppo etnico o religioso avrebbe potuto contrastare il genio o l’originalità di un insieme d’individui. Menz, anche per tentare di analizzare l’aspetto linguistico, attaccò bottone con alcune persone sedute fuori dagli usci.
– Chi è Tongofrip? – chiese a una donna col viso crepato dai numerosi inverni freddi.
La donna lo guardò a lungo, ammutolita, prima di rientrare in casa.
Menz ci riprovò con una bambina che disegnava sulla strada con dei sassi.
– Mi disegni Tongofrip? – le chiese.
La bambina gettò il sasso e si mise a ridere a crepapelle.
Intanto la luce era calata di colpo, dei nuvoloni compatti provenienti da nord avevano sollecitato la notte, e delle raffiche di vento scuotevano gli arbusti e gli alberacci di Frippane. Menz rientrò nella casa che gli era stata assegnata.
– Ora che succede? – domandò.
Il vecchio era nella stessa posizione di prima, appollaiato sulla sua sedia accanto alla moglie. Anche la ragazza era rimasta seduta, continuando a pettinarsi e adornarsi i capelli.
– Ora vengono i postini, – disse, con una certa solennità.
Menz prese posto sulla sua sedia e aspettò insieme agli altri. Il postino era un’altra figura del rituale, colui il quale avvisava personalmente ciascuna famiglia dell’arrivo di Tongofrip. Cominciarono a sentire bussare alle varie porte del paese. Si udirono anche degli schiamazzi. La messinscena doveva essere parecchio divertente, almeno per i più giovani. Alla fine bussarono alla porta della casa dove si trovava Menz. Quattro o cinque colpi decisi: “Tongofrip è qui”.
Il vecchio allora si alzò dalla sedia e andò al bagno a sciacquarsi il viso.
– Bisogna andare, – annunciò.
La moglie e la figlia si alzarono immediatamente, come se non aspettassero altro. Si alzò anche Menz, nonostante ignorasse, a differenza degli altri, che cosa prevedesse il copione della Festa. S’incamminarono tutti e quattro per una stradina irta, in cui entravano e uscivano folate di vento glaciali. La maggior parte degli abitanti stava già gremendo la chiesa, o meglio quel che ne restava: un piccolo troncone in stile romanico, lascito certo degli antichi insediamenti imperiali, che a Frippane chiamavano Tempio.
C’era un clima per nulla festoso, ma quasi cupo, carico di ostilità.
– Non mi sembra una festa, – osservò Menz.
Il vecchio lo fulminò. – La festa è dopo la morte di Tongofrip.
Menz si aspettava di vedere spuntare da un momento all’altro una figura vicaria del simbolo, una sorta di correlativo oggettivo, un fantoccio su cui la comunità avrebbe potuto compiere il suo rito. La Festa del Tongofrip non era la celebrazione di un Dio, quanto piuttosto un’esaltazione identitaria. Il paese accoglieva per respingere, in modo da ribadire la sua chiusura rispetto al diverso.
Menz stava imprecando per l’impossibilità di scattare qualche foto, o fare qualche registrazione, o almeno prendere qualche appunto, quando si sentì spingere verso l’altare. Si voltò e vide che a spingerlo era stato il vecchio, con una brutalità pari alla sua scorbutica reticenza. Lo continuò a spingere, ancora e ancora.
– Perché? – chiedeva Menz. – Che ho fatto?
Dalla sommità della chiesa vennero dei canti. Una delle coriste più ispirate era la figlia del vecchio, coi suoi lunghi capelli lisci perfettamente pettinati e adornati.
Poco prima di fargli raggiungere l’altare a spintoni, il vecchio gridò a Menz: – Tongofrip è lo straniero, Tongofrip sei tu.
Sull’altare ardeva sul fuoco un pentolone. Era un grande classico dei riti ancestrali, il buon selvaggio che finisce per cucinare l’occidentale ficcanaso. In effetti Menz fu calato dentro a piedi nudi, e sentì l’acqua tiepida bagnargli le caviglie, prima che l’intera scena non finisse con un applauso scrosciante, e una fastosa cena servita nel più comodo salone del resort. Menz riabbracciò così la propria epoca, con tutto lo sfarzo e il lusso del caso.
L’indomani mattina passò dalla reception per il check out. Oltrepassò un gruppo di poltrone e divani Frau, e raggiunse il bancone stondato in laminato rosso lucido.
– Pacchetto Avventura, giusto? – gli chiese un’addetta alla reception, sorridendogli.
– Sì, grazie.
– E’ andato tutto bene?
– Benissimo. Da ragazzo avrei voluto fare l’antropologo, sa? Ma mio padre aveva uno studio dentistico già avviato…
L’addetta sorrise ancora, con il medesimo fervore. – Capisco.
Menz allungò la sua carta di credito. – Posso tenere il libro Superstizione come evoluzione della scienza?
– Ma certo, fa parte del suo pacchetto. Un souvenir.
– Sì, è solo una specie di brochure, ma mi è stato utile e sarà un bel ricordo. Grazie.
L’addetta sembrò ricordarsi qualcosa. – Ha già restituito il kit tenda?
– E’ qui con me con me, insieme ai miei bagagli.
– Può lasciarlo qui, provvederemo noi a sistemarlo nel deposito.
Menz riprese la sua carta di credito e firmò lo scontrino del POS. – E’ stata un’intuizione davvero geniale comprare l’intero paese di Frippane.
– Merito di Mr Bornes.
– Ho letto recentemente una sua intervista, incredibile quanti soldi abbia fatto negli ultimi anni. Il business alberghiero sembra un innocuo passatempo per lui. Investirà ancora in Italia?
L’addetta passò a Menz la sua ricevuta, poi sorrise per l’ultima volta.
– Mr Bornes lo sta già facendo, – disse. – Sta comprando tutti i vecchi borghi dell’Umbria, per differenziare l’offerta dei suoi parchi tematici.

***

Immagine di Francesco D’Isa.

Luca Ricci è nato a Pisa nel 1974 e vive a Roma. Ha scritto L’amore e altre forme d’odio (2006, Premio Chiara, nuova edizione La nave di Teseo, 2020), La persecuzione del rigorista (2008), Come scrivere un best seller in 57 giorni (2009), Mabel dice sì (2012), Fantasmi dell’aldiquà (2014), I difetti fondamentali (2017). Per La nave di Teseo ha pubblicato Gli autunnali (2018, in corso di traduzione nei principali paesi europei), Trascurate Milano (2018) e Gli estivi (2020). Insegna scrittura per Scuola del Libro e Scuola Fenysia.

I poeti appartati: Francesco Marotta

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Dalla dimora del tempo sospeso

Lettera al figlio

di Francesco Marotta

 

 

 

Dalla dimora del tempo sospeso
all’estremità delle pupille
dove la stanza sfuma in una mobile nebbia senza fondo
un bambino scruta pensieroso il velo d’ombre
che ricompone il mio volto
in lineamenti febbrili di spina –

Paula Meehan: nella bella scatola di questa poesia

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di Viviana Fiorentino

 

 

 

 “(…) è il momento della mia vita agricola, indosso sempre, ormai, i miei vestiti da giardinaggio … Theo [Dorgan], il mio compagno, ha costruito una mini serra alta fino alla vita, ha un design stravagante, lì curo i semi germinanti …” risponde così a un giornalista di una testata irlandese la poetessa Paula Meehan dalla sua casa vicino al centro di Dublino; è la fine del mese di Aprile 2020 e l’Irlanda è in lockdown.

Radicale e indipendente, Paula Meehan scrive poesie che entrano nelle case della gente comune dei sobborghi dublinesi, così come nel mondo dei sogni e dell’immaginazione.

 Nata nel 1955, primogenita di sei figli, è stata allevata dai nonni mentre i suoi genitori cercavano lavoro in Inghilterra. Ha trascorso i suoi primi anni di vita nelle vecchie case popolari di Dublino, all’angolo tra Sean McDermott Street e Gardiner Street. La sua storia familiare e i legami con il quartiere Monto, dove la sua bisnonna era Madame nel quartiere a luci rosse di Dublino, un tempo il più grande d’Europa, sono tra gli argomenti che attraversano la poesia di Meehan, come nell’ultimo libro, As If By Magic: Selected Poems (Dedalus Press, 2020), che raccoglie i lavori pubblicati tra il 1991 e il 2016. Venticinque anni di poesia e di impegno con le politiche di genere e di classe, di amore per l’ambiente. Una poesia guidata da un impulso olistico e visionario di un mondo verso il quale la Meehan si sente grata. Ireland Chair of Poetry al Trinity College di Dublino (fino al 2016), Meehan ha ricevuto molti premi e pubblicato otto raccolte di poesie, tra le ultime Geomantic (Dedalus Press, 2016) e il già citato As If By Magic: Selected Poems (Dedalus Press, 2020). La sua scrittura per il teatro comprende le commedie Mrs Sweeney (1997), Cell (1999), come anche i testi per bambini Kirkle (1995), The Voyage (1997) e The Wolf of Winter (2003/2004). Una raccolta delle sue opere radiofoniche, Music for Dogs, è stata pubblicata da Dedalus Press nel 2008. La poesia di Meehan è stata musicata da artisti diversi, tra i quali il compositore d’avanguardia John Wolf Brennan e la cantante folk Christy Moore. Nel 2015, è stata inclusa nella Hennessy Hall of Fame ed è nella giuria del Griffin Poetry Prize.

Nella poesia di Meehan apriamo sfere e scopriamo che, dentro ognuna, ce ne sono altre: comunità, famiglia, individualità, memorie. Painting Rain (Carcanet, 2009) è la continuazione di un progetto poetico che cerca di esprimere una voce pubblica eco-consapevole attraverso la poesia, “un impulso a esprimere la memoria collettiva”. Uno dei suoi critici più prolifici, Jody Allen Randolph, colloca la sua voce “a un incrocio tra idee contro-culturali e tradizione lirica irlandese” e sottolinea l’importanza del “suo attivismo ecologico”, ma anche l’influenza della poetessa Eavan Boland (della quale si è parlato su Nazione Indiana già qui) nell’impegno femminista.

Boland e Meehan condividono il desiderio di raccontare storie di donne, di ridefinire cosa significhi poesia politica: come scrisse Boland nella poesia “The Singers”, una voce in cui trovarono una visione.

Meehan amplia la gamma di figure femminili, nella forma di una preghiera offerta a una donna sconosciuta che torna a casa da sola in “Night Walk” o come omaggio all’ex presidente irlandese Mary Robinson in “She-Who-Walks-Among-the-People.” Le donne sono spesso raffigurate come guerriere, sia che si parli de “la gentile signora / che divenne una grande guerriera nei tempi antichi” (sempre in “She-Who-Walks-Among-the-People”) o di figure familiari, come in “The Standing Army”: “Ora porto la lancia di mia madre / indosso l’anello d’oro di mia sorella all’orecchio / cammino nel futuro, orgogliosa / di essere nella casta dei guerrieri” (Pillow Talk, Gallery Book 1994).

Eppure, Meehan resiste ad apparire come femminista, non ricade negli stereotipi e presenta il suo lavoro come cross-gender. Infatti, come poetessa proveniente dalla classe operaia, l’attivismo poetico di Meehan si concentra sulle ingiustizie storiche e restituisce i temi di classe sociale, genere e sfruttamento ambientale come intimamente connessi. “La poesia agisce come un parafulmine per mettere a terra le energie dello Zeitgeist che stai vivendo”, Painting Rain fa proprio questo: trasmette un senso collettivo di perdita e di dislocazione portato dalla recessione della tigre celtica nel 2008, durante la crisi finanziaria globale. “Non credo che una poesia che parli di un governo sia più politica di una poesia sul cambio del pannolino di un bambino.” (E. O’Halloran & K. Maloy, An Interview with Paula Meehan. Contemporary Literature, Vol. 43 (1), Spring, 2002)

La prima poesia della raccolta Death of a Field, è una dichiarazione per un’estetica economica ed eco-femminista che poi percorrerà tutta la raccolta. Il tema è una delle questioni ambientali ed economiche più urgenti in Irlanda: l’eccessivo sviluppo abitativo che ha portato a un paesaggio anonimo, frammentato e sfregiato da “proprietà fantasma”; complessi residenziali nei quali molte case in costruzione furono lasciate abbandonate.

Il campo, the field, assume valore nella sua qualità di inconoscibile. Questa qualità proviene dal linguaggio della terra come corpo, un “irriducibilmente altro” con il carico del suo mistero. Meehan rifiuta la scissione binaria tra natura e cultura, mentre “rappresenta l’umano e il non umano in una relazione intima, sostenuta da una tensione tra il conosciuto e l’inconoscibile”.

Ma i temi politici ed economici non vengono affrontati mai direttamente: “(…) Lo stato comincia nelle nostre cucine. Le persone mi chiedono, scriverai una poesia sul Nord Irlanda, i Troubles, o la Bosnia? Ho molte difficoltà a sedermi e scrivere coscientemente riguardo a una situazione politica. Ma riesco, invece, a riconoscere tutte quelle situazioni nella mia vita di ogni giorno. Allora, più probabilmente, scriverò di problematiche globali, della storia di altri popoli, guardando al mio contesto immediato. La situazione del Nord Irlanda, i Troubles, sono cose attorno a noi. Altrimenti è come non riuscire a vedere gli altri come esseri umani, o identificare gli altri come nemici”.

Memoria e continuità sono gli altri due temi ricorrenti nel lavoro di Meehan. Le storie locali, gli antenati, rispondono al suo desiderio di contrastare le cancellazioni della modernità, in particolare la singolarità e la specificità storica della sua comunità operaia. In Return and No Blame (Beaver Row Press, 1984), la voce poetica dice: “Sono perseguitata da voci che echeggiano, / Voci senza corpi, / Fantasmi della mia infanzia che sognano”. Queste ombre fantasma sono presenti in tutta la poesia di Meehan, ma acquisiscono un ruolo predominante nella raccolta Painting Rain. Meehan ricorda gli eventi tragici della sua infanzia, come lo sfratto che lei e la sua famiglia hanno subito (“How I Discovered Rhyme”) o il tentato suicidio della madre (“This is Not a Confessional Poem”).

La raccolta successiva, compie il salto di una riconciliazione, apparentemente impossibile, tra il territorio della vita comune e quello mistico e dei sogni. Il titolo della raccolta “Geomantic” (Dedalus Press, 2016) deriva dal greco e significa “divinazione della terra”, un tipo di divinazione che interpreta certi pattern sul terreno creati gettando su di esso terra o pietre. Geomantic è la divinazione di quei pattern dell’esistenza che ci sembrano casuali, così apparentemente impercettibili e che nello scorrere del tempo perdiamo del tutto. La poesia tenta di resistere alla perdita e al disfacimento dell’impercettibile e dell’invisibile, creando ordine dal caos.

Il pattern del nove si ripete attraverso tutta la raccolta: 81 poesie, ciascuna con nove versi composti da nove sillabe. Ancora una volta, i temi ambientali, sociali e familiari sono intrecciati con regni del passato, sconosciuti o familiari, ma rivolti sempre verso a un futuro. Nella raccolta, The Commemoration Takes Our Minds Off the Now è una poesia ispirata alle commemorazioni del 1916 avvenute nel 2016. “Quanta parte del paese è stata frustata come un vecchio ronzino”. La “ruota karmica” ci mette in guardia contro l’influenza di causa ed effetto: quei cicli ripetitivi della vita e di coloro che sono in povertà, “che girano e girano intorno”. Le righe finali della poesia sono, allora, una domanda retorica: “Quanto devi essere folle per dare/ un senso allo stato di questo Stato nel quale ci troviamo?”

Come uno sciamano, Geomantic ci porta ai picchi delle vittorie quotidiane e giù ai minimi delle perdite personali e collettive. E mentre leggiamo, sappiamo che tutti stiamo cercando di imparare il passato, di essere nel presente e tentare di navigare nel futuro. Riferimenti mistici e mitici ritornano nell’intera raccolta, offrendoci una visione unica della vita, delle esistenze singole e delle nostre storie condivise. Le parole di Meehan sono intricate, intrise di allusioni, eppure, allo stesso tempo, deliziosamente schiette sulle verità osservate.

Nello stesso periodo in cui Meehan lavorava al carcere di Mountjoy a dei workshop di scrittura e teatro, era anche impegnata come scrittrice residente al Trinity College di Dublino. “Lavoravo in due istituzioni contemporaneamente”, sottolinea, usando la stessa parola, istituzioni, per riferirsi a questi due luoghi: “Facevo lo stesso tipo di lavoro con entrambi i gruppi di persone, anche se provenivano da contesti sociali molto diversi.”

Questa esperienza confluirà nel lavoro teatrale Cell (cella): tre donne di età diverse, provenienti dal centro di Dublino, vengono incarcerate nella stessa cella per reati di droga. Nello spazio che le rinchiude, hanno creato una specie di mondo a sé, con proprie regole e convenzioni, spesso estreme. Ma il loro mondo, all’interno di un mondo, crolla quando una donna apparentemente ingenua, riconosciuta colpevole di omicidio, dovrà condividere con loro lo stesso spazio. Chi legge non può che scorgere nella sfera chiusa della cella, le stesse regole atroci che regolano il nostro mondo civile e sociale.

“Ho smesso di lavorare lì a metà degli anni 90”, spiega Meehan. “Mi sentivo così esausta e impotente. Avevo un enorme senso di rabbia e frustrazione perché molte delle donne con le quali lavoravo non ce la facevano. Avevo il cuore spezzato; mi sarei di certo ammalata se non mi fossi fermata.”

Quando Meehan afferma che le donne non ce la facevano, lo intende nel senso più letterale del termine. Delle 12 giovani donne che hanno partecipato al suo primo laboratorio a metà degli anni 80, solo una è ancora viva. Tutte le altre sono morte: overdose, malattie legate all’AIDS, suicidio.

“Scrivere Cell è stato un modo per risolvere quell’esperienza. Non è un documentario sulla vita a Mountjoy in quanto tale; le storie raccontate sono storie composte, di più donne.”

Dei quattro personaggi di Cell, Delo (42 anni) è dentro per spaccio di eroina; Alice (49 anni) per omicidio; Martha (26 anni) per taccheggio; e Lila (19 anni) per possesso di eroina. E poi la voce disincarnata e dal suono robotico (Lisa Tierney Keogh), che controlla l’accesso alla porta della cella, dando (o meno) il permesso di visitare medici, lavanderia, palestra, assistenti sociali e avvocati.

“Ho lo stesso background sociale di molte di queste donne. Sono cresciuta con le loro madri. Per me non sono persone invisibili. Ciò che accade loro in prigione è solo una versione più estrema di ciò che sta accadendo a molte altre nella loro comunità di provenienza. (…) Chi mi conosce bene direbbe che sto elaborando parti della mia storia, nei personaggi di Cell”.

Cell parla di abuso di potere, e della mancanza di esso: Delo controlla Martha e Lila, entrambe asservite a soddisfare il suo bisogno di droga. Delo governa i letti e il loro uso, come anche la latrina. Una dittatura minacciata dall’arrivo di Alice, outsider per diversi motivi: a differenza delle altre è di campagna (dalla contea di Leitrim), non conosce la droga ed è un’assassina. Poi, nel contesto più ampio, il sistema carcerario controlla tutte e quattro le donne.

Lotte di potere, rabbia, paura, tristezza e compassione. Dove e come ci liberiamo?

“Alcune delle più grandi poesie del mondo” scrive Meehan “sono state scritte in stati estremi di prigionia e isolamento, dai poeti russi che hanno scritto all’ombra del terrore di Stalin, alle poesie di Yannis Ritsos dai campi di internamento del regime”. L’Irish Times dice di Cell: “probabilmente sarebbe inguardabile se non fosse così potente”, alludendo agli abusi di potere e la perdita di ogni intimità corporale ritratti nel dramma.

“Sono stata cresciuta ed educata da persone che avevano ancora una mentalità coloniale, con tutte le fratture identitarie che ne derivano. Per me e per i miei colleghi “operatori culturali”, molto del lavoro consiste nel disintossicare, disintossicare la cultura dal passato coloniale e trovare dei modi per cercare di spingerla verso le libertà. Penso che la parola più importante per la mia generazione, sia per questioni politiche che legate al genere, sia stata liberazione. Ma dopo che sei stato decolonizzato da un potere, sei ricolonizzato da un altro.”

Forse, la scrittura della Meehan si potrebbe provare a racchiudere nella parola unravel e nel suo doppio significato di disfare e svelare, come ci dice nei versi della poesia In Memory, Joanne Breen (Painting Rain, Carcanet, 2009):

 

I see, spun into the yarn, fibres of blue

& yellow & purple, occasionally orange.

 

I am undoing the magic of the spindle,

Unravelling

 

Vedo, tessute nel filato, fibre blu

e gialle e viola,

ogni tanto arancioni.

 

Disfo la magia del fuso,

Dipano

 

Di seguito delle traduzioni di alcune poesie di Paula Meehan (da Geomantic, Dedalus Press 2016; a eccezione della poesia “Hannah, Grandmother”).

 

 

Hannah, Grandmother    

 

Coldest day yet of November

her voice close in my ear —

tell them priests nothing.

Was I twelve? Thirteen?

Filthy minded.

Keep your sins to yourself.

Don’t be giving them a thrill.

Dirty oul feckers.

As close as she came to the birds and the bees

on her knees in front of the Madonna,

Our Lady of the Facts of Life

beside the confessional —

oak door closing like a coffin lid

neatly carpentered

waxed and buffed.

In the well made box of this poem

her voice dies.

She closes her eyes

and lowers her brow to her joined hands.

Prays hard:

woman to woman.

 

(Lettura di Meehan disponibile su Youtube qui)

 

Hannah, Nonna

 

Il giorno più freddo ancora Novembre

la sua voce nel mio orecchio —

Non dirgli ai preti niente.

Avevo dodici, tredici anni?

Luride menti.

Tieniti i peccati per te.

Non dargli soddisfazione.

Vecchi sporchi bastardi.

Per quanto potesse parlare di passere e cicogne

in ginocchio di fronte alla Madonna,

Nostra Signora dei Fatti della Vita

accanto al confessionale –

una porta di quercia chiusa come il coperchio di una bara

ben lavorato

cerato e lucidato.

Nella bella scatola di questa poesia

muore la sua voce.

Chiude gli occhi

e congiunge la fronte alle mani giunte.

Prega intensamente:

donna a donna.

 

 

 

The Luck

 

I don’t do the past, said my father,

into my oldfashioned microphone.

The rain, the eternal Irish rain,

beats and beats and beats at the window

and the fattening geese are dreaming

of the north. I knew that he’d be dead

by Samhain when the geese returned again.

We bet online and watched the horses,

all going round the bend together.

 

La sorte

 

Non rifaccio il passato, disse mio padre,

nel mio microfono fuorimoda.

Pioggia, eterna pioggia irlandese,

batte e batte e batte sulla finestra

e le oche da ingrasso sognano

il nord. Sapevo che sarebbe morto

per Samhain* quando le oche tornano di nuovo.

Scommettemmo online e guardammo i cavalli,

girare tutti insieme attorno alla curva.

 

* antica festa celtico-pagana, celebrata tra il 31 ottobre e il primo novembre

 

 

 

The Commemorations Take Our Minds

Off the Now

 

A boon to the Government; they rule

in the knowledge that none can keep track

of just how much of the country has

been flogged like an old nag to within

an inch of its life. The karmic wheel

goes round and round. I commemorate

the poor going round and round the bend.

How mad do you have to be to make

sense of the state of the State we’re in?

 

Le Commemorazioni Distolgono le Nostre Menti

Dal Presente

 

Un vantaggio per il governo; dettano legge

sapendo che nessuno ne può tenere traccia

quanta parte del paese è stata

frustata come un ronzino vecchio chiuso dentro

il centimetro della sua esistenza. La ruota karmica

gira e gira. Commemoro io

i poveri loro girano e rigirano intorno alla curva.

Quanto devi essere folle per dare

un senso allo stato di questo Stato nel quale ci troviamo?

 

 

 

The may Altar, 58 Collins Avenue, Killester

You dressed it with lilac and privet,

the good crystal vase on white linen,

wax candles, bright medals, hymn singing

to Stella Maris, Star of the Sea.

 

You prayed to Our Lady to mind you.

You believed in angels and mercy.

 

As if heaven wept at your going

it rained the whole day you left Dublin,

rained on the girl you were, setting out.

 

L’altare di maggio, 58 Collins Avenue, Killester

 

L’hai vestita di lillà e ligustro,

il vaso buono di cristallo su lino bianco,

le cere, le decorazioni luccicanti, gli inni cantati

alla Stella Maris, Stella del mare.

 

Hai pregato alla Nostra Signora di proteggerti.

Hai creduto negli angeli e nella misericordia.

 

Come se il cielo piangesse alla tua partenza

ha piovuto tutto il giorno che hai lasciato Dublino,

piovuto sulla ragazza che eri, andando via.

 

 

 

The Web

                   i giorni della merla

 

I spun those nights to Van Morrison

On Fitzroy Avenue in a dream

part Victoriana, part nightmare.

Elsewhere, at my web’s frayed selvage,

you were dying, less yourself each day

in a white cancer ward in Dublin.

I scanned your memory for this meme:

that time you talked me down, pulled me clear

of my fevered visions, my blank page.

 

La tela

                   i giorni della merla

 

Misi su quelle notti Van Morrison

in Fitzroy Avenue come in un sogno

parte vittoriano, parte un incubo.

Altrove, sulla cimosa sfilacciata di una mia tela,

morivi, meno te stesso ogni giorno

a Dublino in un qualche reparto bianco per il carcinoma.

Ho scansionato la tua memoria per questo meme:

quella volta tu mi avevi convinto, mi avevi liberata

dalle mie visioni febbrili, la mia pagina bianca.

 

 

 

The Hexagram

 

Before starting, find the lines – broken

and whole – arranged as a hexagram;

the crescent moon waxing, a token

 

in the night sky of beginnings. Palms

open to the grace of what might fall

like snow to the snow-white page. How calm

 

I am, and cool, when I hear the call.

She has found me out, in my silence,

come with rumours of heaven, of hell.

 

 

 

L’Esagramma

Prima di iniziare, cerca le linee –spezzate

e intere – organizzate come un esagramma;

la falce di luna crescente, un segno

 

nel cielo notturno degli inizi. Palme aperte

alla grazia per quello che potrebbe scendere

come neve sulla neve della pagina bianca. Ora calma

 

sono, e fredda, quando sento il richiamo.

Mi ha colto, nel mio silenzio,

viene con dicerie di cielo, d’inferno.

 

 

 

The New Regime

 

After love we sleep curled together.

I am dreaming her old dreams; she dreams

pines freighted with snow, ice storm weather.

 

Her mouth’s rimed with my milk, her hair streams

In curls and rivulets down her back.

She is spelling out the new regime:

 

its ins, its outs, my place in the pack;

where she keeps the names of the lost things;

how to bear the pain, the sweats, the rack.

 

 

Il Nuovo Regime

 

Dormiamo dopo l’amore insieme rannicchiati.

Sogno i vecchi sogni di lei; lei sogna

pini carichi di neve, in un tempo da tempesta di ghiaccio.

 

La sua bocca è brinata dal mio latte, fiumi i capelli

scivolano in riccioli e poi rivoli giù lungo la sua schiena.

Lei scandisce il nuovo regime:

 

i dettagli, il mio posto nel branco;

dove conserva i nomi delle cose perdute;

come poter sopportare il dolore, le fatiche, lo spasmo.

 

 

 

The Ghost Song

 

‘The singers and workers that never handled the air”

Gwendolyn Brooks

 

From a dream of summer, of absinthe,

I woke to winter. Carol singers

Decked the halls of some long-lost homeland.

Late-night shoppers and drowsy workers

Headed for the train.

 

So the night that

you died was two-faced, June light never

far from mind though snow fell. I handled

grief like molten sunshine, learned to breathe

your high lithe ghost song from thinnest air.

 

 

Canzone Fantasma

 

‘The singers and workers that never handled the air”

Gwendolyn Brooks

 

Da un sogno d’estate, d’assenzio,

mi svegliai nell’inverno. I cori di Natale

colmavano le sale di una casa persa da tempo.

Acquirenti notturni e lavoratori assonnati

andavano al treno.

 

Così anche la notte

Che sei morto aveva due facce, la luce di giugno sempre

Presente alla mente mentre cadeva la neve. Tra le mani

il dolore come sole che scioglie, ho imparato a respirare

la tua alta e agile canzone fantasma nell’aria più sottile.

 

 

 

The Handful of Earth

 

Under scrutiny it tells us all

we need to know about our futures,

it being composted of our past lives,

the nine years in this house by the sea.

Under the paths stars make, wild birds call.

 

I fancy I could read it like leaves

Of tea, yarrow stalks thrown down, tarot,

its minutest narratives of grief,

its aboriginal patternings.

 

 

Una Manciata di Terra

 

A un attento scrutinio dice tutto

ciò che dobbiamo sapere dei nostri futuri,

compost delle nostre vite passate,

nove anni in questa casa al mare.

Sotto i sentieri disegnati dalle stelle, chiamano gli uccelli selvatici.

 

Mi piacerebbe saperla leggere come se fosse foglie

di tè, o gambi di achillea buttati giù, tarocchi,

sue minuscole narrazioni di dolore,

i suoi disegni e ripetizioni aborigeni.

 

 

 

The Sea Cave

 

It is as close as I’ll get to her

In this life: to swim into the dark

Deep in the cave where the hot springs are,

 

to float in her amniotic dream

of children, of a husband, of home.

Flickers of light there where minnows teem

 

Like memories pulsing through my veins,

that lull me, that shrive me, uncertain

whether I hear her heartbeat or mine.

 

La Grotta Marina

 

Il più vicino che posso a lei

in questa vita: nuotare nel buio

profondo nella grotta lì dove sono le sorgenti calde,

 

e galleggiare nel suo sogno amniotico

di bambini, di un marito, di una casa.

Baluginare di luce lì dove pullulano pesciolini

 

come ricordi che mi pulsano nelle vene

che mi cullano, mi assolvono, incerta

di sentire il battito del suo o del mio cuore.

 

Prede

3

di Lisa Malagoli

Sono passati due giorni dalla morte di papà e tu stai già iniziando a cedere. Sei in ritardo, ti grido muoviti. Vorrei essere più gentile con te ma non riesco. Non mi escono le parole gentili, solo parole oneste.

«Eccomi, cazzo, eccomi» rispondi dal primo piano.

Scendi le scale con un pacchetto di sigarette in mano e i pantaloni scuri che avevi addosso quando si è sposato zio. Chiedi dov’è la stronza.

«Non lo so.»

Estrai una sigaretta dal pacchetto, te la metti in bocca. Non ti ho mai visto fumare.

«Oh, lo sai dov’è la camera ardente?»

«Ma sì che lo so. Dai, ci vediamo dopo.»

Ok. Ti dico lavati la faccia che così non ti posso vedere e tu mi guardi come un animale ferito. E anche se mi dispiace te le dico lo stesso le cose perché sono come mamma, sono onesto fino al vomito.

Io non sono papà.

*

Ci sono un sacco di persone al funerale, una quantità enorme. A huge amount of people; rende meglio il concetto, dà l’idea di massa. Da quando lavoro come interprete mi succede spesso di tradurre mentalmente stralci di discorsi che sento alla televisione o in strada, pezzi di frasi, espressioni curiose. La chiamano deformazione professionale ma nessuno dice mai quanto possa essere stancante; ti prosciuga le forze, dico davvero. Ma fare l’interprete mi piace. È la prima cosa che dico quando mi presento a qualcuno, subito dopo il nome. Mi chiamo Luca e sono un interprete – dico così. Bisogna essere svegli per fare questo mestiere – pensare velocemente, trovare l’espressione più accurata. Essere onesti. Mica tutti ne sono capaci. Lavoro in ospedale, faccio da ponte fra le persone. Secondo la Bibbia, in principio gli uomini parlavano una sola lingua e per questo si sentivano come Dio – peccavano di superbia, insomma. Un tempo gli uomini erano uniti mentre ora non lo sono più; sono solo piccole isolette, lontane fra loro. Ed è qui che arrivo io –, io sono il ponte. Sono molto fiero di ciò che faccio, sul serio. Mi piace pensare che permetto alle persone di comprendere.

Ti vedo spuntare fra donne che conosco appena, ti avvicini. Hai le guance chiazzate di rosso mentre mi allunghi un ritaglio di giornale che non prendo.

«Un tizio mi ha portato questo.»

«Che è?»

«Hanno scritto un articolo sulla Gazzetta, su papà. L’avevi visto?»

«No, che dice?»

Ritiri la mano, fai scorrere gli occhi sulle lettere d’inchiostro, da sinistra a destra.

«Parla del negozio di animali. E qualcosa sull’associazione ornitologica, sulle mostre – è un bell’articolo, dovresti leggerlo.»

Sorridi, senza alzare lo sguardo. Mi dici: «Te lo ricordi quando arrivavano i cuccioli di Golden? Papà diceva: “Giocaci un po’ e poi rimettili nella scatola”. Lo diceva o no?»

Sì lo diceva. Si sedeva di fianco a te sul pavimento. Io dalla scala vi guardavo.

«E i canarini, quelli strani, com’è che si chiamavano? – cazzo non ricordo – dico quelli storpi.»

«Gibber Italicus. Papà diceva che dovevano avere la forma di un sette perfetto – secondo gli standard.»

Disegno un sette per aria con l’indice. Un segmento orizzontale – la testa, il collo – e poi un altro obliquo, lungo – il busto.

«La forma di un sette.»

La tua voce si rompe e diventa acuta. Mi fa male vederti così, ma non posso dirtelo. Ti metto una mano su una spalla, sei caldo, come se avessi la febbre.

«Andiamo a salutare.»

La cappella famigliare è piccola, in marmo, e ha una porta di vetro lucido che mi ha sempre fatto cagare. Sulla porta è incisa una scritta: TONDELLI-BESUTTI. I nomi sono in maiuscolo, separati da un trattino. Sembra l’ingresso di uno studio notarile. Ci sono otto loculi, quasi tutti già impegnati; ci sono i bisnonni, gli zii, e un tizio che di cognome fa Gambuzzi e che non c’entra nulla con la nostra famiglia. L’avrò visto tre volte, credo sia stato il marito di zia Clara. Ora si è risposata e i genitori di quel Gambuzzi ci vengono a chiedere la chiave della cappella ogni volta che vogliono vedere il figlio. Sono sempre molto gentili e non sembrano poi dispiaciuti.

La tumulazione è veloce, l’unico rumore che si sente è quello della cazzuola che spalma la calce – tanti colpetti rapidi e stonati, come se qualcuno stesse giocando a spadaccino col muro. Le persone iniziano ad andarsene, a gruppetti. Io e te restiamo soli, a fissare la cappella.

Ti dico che non ti lascio andare messo così e mi accendo una sigaretta.

«Andiamo a mangiare qualcosa, guarda quanto cazzo sei magro.»

«Non ho fame.»

«Accompagnami e basta. Andiamo in quel bar che fa gli estratti, vicino San Paolo.»

Parcheggiamo l’auto e ci sediamo a un tavolino esterno. Io prendo un panino e tu un caffè. Non faccio in tempo a sedermi che hai già una sigaretta in bocca e attacchi a parlare di lei.

«Hai visto mamma oggi? No, ma dico, l’hai guardata? Era lì con quel sorriso beota, come se dovesse venderti un’aspirapolvere.»

Prendi una boccata di fumo e rimani in silenzio, con il gomito appoggiato al tavolo e la sigaretta a mezz’aria. Mi dici che è una stronza – oggi l’hai già detto quattro volte – che non ti spieghi come faccio ad andarci d’accordo.

«Ma lascia perdere mamma. Ne ha passate tante. Ultimamente non si scannavano più, è già una vittoria, fidati.»

Mi chiedi perché cazzo mi affanno tanto a difenderla, che poi papà era diverso, che quando hai detto a tutti di Leo lui è stato il primo ad abbracciarti senza stare a misurare le espressioni degli altri nella stanza. Ti strofini via una lacrima dalla guancia con il polsino della camicia. Ti strofini così forte che la pelle diventa tutta rossa e chiazzata. Dici che hai diciotto anni, che hai ancora bisogno di lui.

Dico che papà è morto. Anche se hai bisogno di lui.

Finisci il caffè, raccogli l’ultima goccia sul fondo col cucchiaino.

Mi fai: «Mi dà fastidio quando dici quella cosa.»

«Che?»

«Che papà è morto.»

«Ma …»

«Non mi importa.»

Mi accendo anch’io una sigaretta, sbuffo fuori tutto.

«Cazzo, ha proprio ragione mamma. Abbiamo tutti paura di dire le cose come stanno. Oh, ma ci hai fatto caso che nessuno nomina più la parola morte alla tv? Dicono che questo ha perso la vita, che quell’altro se n’è andato. Che hanno trovato il corpo senza vita di non-so-chi. Ma vaffanculo. Sono morti, punto, stecchiti. Le parole ci sono, vanno usate, mi spiego? Se dico angelo, al posto di cadavere -be’, sono solo un povero stronzo illuso, lo capisci?»

Mi rivolgi uno sguardo freddo, osservi un punto oltre me. Non mi segui, sei inchiodato a un pensiero.

Poi mi dici: «Oggi ho guardato anche te.»

«E quindi?»

«E quindi non hai mai pianto.»

Rido ma è più uno sbuffo che una risata. Ti dico che non vuol dire un cazzo.

Restiamo una manciata di minuti in silenzio fino a che inizi a singhiozzare.

«Raccontami qualcosa di lui, ti prego. Tu lo conoscevi da più tempo.»

Guardo un momento fuori dalla finestra. In effetti c’è una cosa che ti potrei dire.

«Va bene, ti racconto una roba che è successa anni fa e tu mi dici cosa ne pensi.»

*

Era settembre 2012, e stavamo ancora nei moduli temporanei. Ti ricordi qualcosa di quell’estate? Cos’avevi, dieci anni? Forse meno. Eppure, non sembravi spaventato. Facevi un sacco di domande a tutti – al papà, ai nonni, ai vecchi per strada – volevi sapere se le cose che sentivi dire erano vere. Tutta quella roba sulle trivellazioni, sui risarcimenti statali, sulla magnitudo. Non facevi che chiedere, come se ci volessi dimostrare di essere un adulto razionale, di quelli che valutano i fatti e non si fanno prendere dal panico. Non ce la siamo bevuta. Sapevamo che avevi paura, come potevi non averne? In fondo eri un bambino. Quello che sbagliavamo con te erano i modi, ti trattavamo tutti da scemo. Tutti tranne papà.

Lui sapeva come fare.

Il 29 settembre la Protezione Civile ci chiamò per comunicarci che avrebbero demolito casa nostra. È inagibile, ci dissero, Il danno è serio, non si recupera. Dissero che con tutte quelle scosse di assestamento una volta o l’altra sarebbe caduta sulla testa di qualche ciclista. Ci dissero che c’era la possibilità di entrare a recuperare le nostre cose, che ci mandavano due vigili del fuoco.

La mattina dopo ci svegliammo alle sette in punto.

Papà propose di andare a fare colazione al bar, prima. Te lo ricordi quel bar che faceva i pancake? Io sì. Era il nostro preferito. Mamma si incazzò come una furia. Disse che non stavamo andando in gita e che non c’era bisogno di indorare la pillola – usò queste esatte parole. Che ci demolivano casa e che non c’era un cazzo da festeggiare. Iniziarono a litigare, come sempre.

Lui disse: «I ragazzi hanno bisogno di un po’ di serenità.»

Lei rispose: «Certo, sei così tu, eh? Come l’estate scorsa.»

Poi papà disse: «Taci.»

Solo questo, taci. Faceva così lui, tagliava corto. Non ho mai capito a cosa si riferisse mamma con quella storia dell’estate scorsa, ma il suo tono mi fece salire una rabbia tale che avrei voluto picchiarlo. Non so perché. Forse perché, a volte, sai le cose ancora prima ancora che si materializzino sotto forma di parole.

Il paese aveva completamente cambiato aspetto e non era solo per i palazzi crollati. Certo, quelli facevano impressione, ma c’era dell’altro. C’era elettricità nell’aria, come un fremito che ti solleticava sotto le ascelle. Ascoltavamo il telegiornale o la radio, tutti smaniosi, e ci brillavano gli occhi quando qualcuno nominava il nostro paese. La gente diceva: «Zitti, zitti, che stanno parlando di noi.» Dovevano mordersi le labbra per non sorridere. I bambini impallidivano a ogni nuova scossa, ma gli anziani no. Avevano ripreso a raccontarci della guerra, ridevano e non avevano paura, loro. Scherzavano, dicevano che non avrebbero mai più dormito con un quadro sopra la testa.

Raggiungemmo il bar e ordinammo la colazione.

Il barista servì piatti e tazzine, e chiese come stavamo noi ragazzi. Il papà rispose che stavamo benissimo. Il barista chiese se avevamo saputo di quei tizi col megafono, che andavano in giro per il paese sulla Mercedes nera. Papà scosse la testa.

Il barista disse che quella gente voleva farci uscire di casa con la scusa di una nuova scossa.

Disse: «Sciacalli di merda.»

Si asciugò le mani nel grembiule nero. Disse che non l’avrebbe mai creduto che un terremoto potesse capitare proprio qui, in questo posto in cui non capita mai nulla.

Mamma si toccò quel punto esatto fra le sopracciglia – c’hai presente? Lo fa tutte le volte che sente qualche frase che reputa cretina. Disse: «Cosa c’è di straordinario? Vede mai il tg, tutte le tragedie che capitano al mondo? Stavolta è toccato a noi, tutto qui.»

Mamma era così, già allora.

Quando il barista se ne andò, tu avevi un punto di domanda stampato in faccia. Chiedesti perché quell’uomo parlava di sciacalli visto che sono animali che non vivono qui.

Papà rispose che è solo un modo di dire. Che gli sciacalli sono persone che si comportano molto male in situazioni come la nostra, che ne approfittano per rubare e fare cattiverie. Che c’erano persone buone – come noi – e altre cattive. Ma che tu non dovevi avere paura finché c’era lui con te. Che eri fortunato perché i ragazzi che crescono con una famiglia attorno sono più forti degli altri. Che bisogna essere forti a questo mondo.

Mamma pagò e camminammo fino alla nostra casa.

Passammo davanti al negozio di animali di papà che era buio e delimitato da transenne di ferro e nastri rossi e bianchi. Ad un certo punto ti girasti verso di lui con un’espressione così allarmata in viso che mi spaventò.

«Papà, ma tutti gli animali del negozio? Non sono mica morti, vero?»

Papà disse di no, che ci aveva pensato lui. Io gli feci notare che l’edificio era inagibile e transennato, e che non facevano entrare nessuno. Era una giornata di vento caldo e i nastri rossi e bianchi sbattevano ovunque. Quel rumore mi faceva sentire inquieto.

Mamma guardò un palazzo crollato in lontananza. Disse: «Sì, raccontaci come hai fatto.» Lì per lì non ci feci troppo caso. Da allora penso spesso a quella frase.

Papà rispose che una notte era entrato di nascosto e li aveva portati via. E che quando aveva aperto la porta dello scantinato i cagnolini avevano iniziato a guaire così forte che aveva avuto paura che lo sentissero da fuori.

Tu domandasti qualcosa a proposito di un certo Tom, e io chiesi chi fosse, sempre fissando i nastri. Non riuscivo a non guardarli. La sera prima del terremoto di maggio c’era stato lo stesso vento caldo. Un vento che fa maturare la frutta in un attimo.

«È il cane con quella grossa macchia bianca sul muso» dicesti, «ha la faccia da Tom, secondo me.» Eri offeso. Ti infastidiva sempre quando mi intromettevo nelle vostre conversazioni.

Una folata fece cadere a terra una transenna. Ti scappò un urletto e io ebbi la sensazione che sarebbe successo qualcosa di molto brutto, di lì a breve. Che sarebbe arrivata una scossa così forte da aprire il cemento, che saremmo precipitati tutti nel buio. Ero sicuro che sarebbe accaduto. Papà si inginocchiò e ti strinse. Disse che Tom gli aveva leccato tutte le mani e che si era guardato attorno per cercarti, perché eri il suo preferito. Ti promise che una volta sistemati con la casa lo sarebbe andato a riprendere e che sarebbe stato il tuo cane.

«Ma devi essere responsabile, capito?»

Tu ridesti forte e per un attimo il vento si calmò. I nastri si adagiarono molli e io pensai che in fondo le cose si potevano ancora sistemare.

La facciata della casa non sembrava poi tanto diversa da com’era sempre stata. Era tutto come al solito, tutto a parte una grossa crepa che nasceva sotto il tetto e correva lungo tutta la parete, come un serpente, sfiorando la finestra dello studio e gettandosi dritto contro la porta d’ingresso. L’interno della casa era molto diverso. Il vigile del fuoco ci disse di stare attenti a dove mettevamo i piedi – a vetri e calcinacci. I quadri e le fotografie erano caduti a terra, così come i soprammobili e i libri. Ce n’erano alcuni – di libri, intendo – ammucchiati in un angolo polveroso, che non vedevo da secoli. Ce li leggeva papà per farci mangiare. Pensavo di averli dimenticati, ma mi bastò leggere il titolo per ricordarmi del sapore di pasta all’uovo e del cavallino verde che tenevo fra le mani quando mamma e papà mi imboccavano. Mi piaceva affondarci le dita dentro, immaginare che avesse le viscere.

Mamma si guardo intorno, fece un giro su sé stessa. Disse: «Sembra una vita fa.»

Tu ti fermasti davanti alle scale, immobile. Ti tremavano le gambe, non riuscivi a salire.

Provai a tranquillizzarti, che con i vigili del fuoco lì vicino non ci sarebbe successo nulla.

Ti dissi: «Facciamo una gara, stammi dietro.»

Ma tu gridasti di piantarla, che ti trattavo come un cretino.

«Altro che gara, non riesco a fare un passo.» Ricordo che eri rosso in volto.

Papà si girò verso di te e appoggiò le foto che aveva raccolto da terra. Ti chiese di avvicinarti. Disse che aveva capito una cosa importante e te ne voleva parlare. Disse che aveva notato un fenomeno peculiare nel comportamento delle persone che vivevano nel cratere, e cioè che da quando c’era stato il terremoto, tutti avevano iniziato a vivere come prede. Come i cerbiatti, che se ne stanno con le orecchie tese tutto il giorno, annusando l’aria, sempre pronti a scattare avanti, col cuore a mille. Un regime di temporanea bestialità.

Tu sembravi triste.

«Allora è così che vivono i cerbiatti papà? Hanno sempre paura?»

«Non proprio. Le prede hanno trovato il loro modo per vivere una vita decente. Si difendono. Usano gli aculei, o i denti. Oppure sai che fanno? Senti questa, è la mia preferita. Ho visto un documentario sulle gazzelle, un paio di anni fa. Durante il pascolo, per difendersi dai ghepardi, le gazzelle eleggono una sentinella che tiene la testa alzata per tutto il tempo e avverte il branco in caso di pericolo. Questa gazzella digiuna pur di aiutare le altre. Adesso ti dico cosa facciamo oggi, oggi sarò io la sentinella, ci stai? Adesso vengo su con voi e non vi perdo un attimo di vista. Voi raccogliete tutto e io sto sull’attenti. Se qualcosa si muove ti porto giù. So come fare. Ti fidi?»

Lo guardavi con la bocca socchiusa e un leggero sorriso. Dicesti che andava bene, che sarebbe stato lui la sentinella.

Nel giro di un’ora recuperammo tutti gli oggetti – i miei libri di inglese, un computer portatile, gioielli, vestiti – e ritornammo nei moduli.

Quella sera parlammo a lungo, giocammo a carte e ridemmo fino alle lacrime parlando di quello scemo del tuo amico che si era fatto beccare con i bigliettini durante la verifica della Giacci. Solo mamma era silenziosa. Andammo a dormire verso mezzanotte e io mi addormentai ascoltando il rumore della pioggia che batteva sul tetto in lamiera della nostra casupola. Feci un sogno strano in cui cercavo di liberarmi dalla morsa di un animale, forse un serpente. Mi mordeva un braccio. Aprii gli occhi di scatto ma ero frastornato, ci misi qualche secondo per mettere a fuoco. C’era mamma di fianco a me, col viso fermo e pallido, che mi scuoteva tenendomi per la manica del pigiama.

Disse: «Vieni con me, devi aiutarmi a recuperare una cosa.»

Guardai l’orologio, stropicciandomi gli occhi – era tardissimo. Chiesi se dovevo chiamare papà.

Disse: «No, non li svegliamo. Prendi solo l’ombrello.»

Mi misi a sedere lentamente e infilai gli stivaletti gialli e morbidi che odoravano di gomma, e mi veniva voglia di morderli. Tu dormivi profondamente, con la bocca semiaperta e le gambe nude. Durante il tragitto non dissi nulla alla mamma ma ero emozionato. Il paese era silenzioso, illuminato solo da qualche lampione, e pensai che noi due eravamo le uniche persone sveglie nel raggio di chilometri. Avremmo potuto fare qualsiasi cosa, anche cose proibite, e nessuno ci avrebbe scoperto. Avrei potuto rompere un vetro o scrivere qualcosa sul muro; il giorno dopo sarei tornato sul luogo del crimine a raccontare come gli sciacalli se ne approfittano per fare cose brutte, all’insaputa di tutti. La pioggia diventò più forte e io mi coprii la bocca con la sciarpa, e avvicinai l’ombrello per evitare che le gocce gelide mi bagnassero la tuta. Sentii un elicottero in lontananza e immaginai il pilota lottare contro le raffiche di vento per non precipitare. Mi sarebbe piaciuto essere quel pilota. Avrei scansato i fulmini, mi sarei alzato e abbassato velocemente, fino a sfiorare i tetti dei palazzi. A un tratto quasi inciampai nelle transenne di ferro. Alzai gli occhi, eravamo arrivati davanti al negozio di animali.

Mamma disse: «Entra, Luca. Devo trovare il mio vecchio orologio, ci metterò un po’.»

Ero un po’ deluso. Passai oltre le transenne ed entrai. Mamma aveva portato con sé una torcia e iniziò a ispezionare il bancone e i cassetti minuziosamente. I sacchi di mangime erano sporchi di polvere bianca e le gabbie erano vuote. Passai le dita su quei sacchi e le annusai, la polvere odorava di vernice e cemento. Arrivai davanti alla porta che conduceva allo scantinato e vidi che era socchiusa; potevo intravedere i gradini di legno nella penombra e mi ricordai di un libro letto anni prima che raccontava di un gioco da tavolo magico, nascosto in una soffitta buia.

Chiesi se potevo scendere. Dissi qualcosa a proposito di un paio di libri di scienze che forse avevo lasciato laggiù e che mi potevano servire.

Lei disse solo: «Ok, va bene.» Disse: «Prendi la pila.»

Ricordo che la indicò col dito, senza guardarmi in faccia.

Iniziai a scendere le scale lento, illuminando i gradini, e immaginando di cercare qualcosa di prezioso fra gli scatoloni accatastati e le buste di cibo. Poi un odore molto forte – di chiuso, pensai – mi investì. Ad ogni gradino il tanfo si faceva sempre più insopportabile, peggiore di quello degli escrementi che mi era capitato di sentire a volte in negozio. Alzai la torcia in direzione di uno degli scatoloni. Rallentai la discesa, mi fermai sull’ultimo scalino. C’era qualcosa di scuro all’interno, che non riuscivo a distinguere. Provai forte l’istinto di andarmene ma qualcosa mi trattenne. Scesi, mi avvicinai. Infilai il fascio di luce dentro la scatola di cartone. Vidi una massa di pelo da cui spuntavano code e zampe. Corpi, buttati l’uno sull’altro. Cani con la testa spaccata. Fra di loro ce n’era uno con una grossa macchia bianca che copriva l’orecchio destro. Era l’unico ad avere gli occhi chiusi e la sua lingua non pendeva da un lato, come quella di tutti gli altri cani. Sembrava solo addormentato. Abbassai la torcia e il fascio di luce schizzò in tutte le direzioni, e nella penombra i miei occhi intercettarono delle sagome dentro le gabbie di conigli e canarini. Alcuni tremavano ancora. La luce proiettava sui muri ombre orribili. Ti giuro, erano orribili.

Quando mamma urlò: «L’ho trovato» il mio cuore perse un battito. Risalii i gradini di corsa. Avevo i piedi così bagnati che scivolai e battei un ginocchio. Ce l’ho ancora quella cicatrice.

Durante il tragitto nessuno disse una parola ma vidi con la coda dell’occhio che mamma mi osservava. Quella sera non ne parlammo, e nemmeno il giorno dopo.

*

Aspiro una boccata di fumo, sento il sangue pulsare forte nelle vene. La tua terza sigaretta si sta consumando fino al filtro. Mi guardi già da un po’, hai smesso di fumare ma continui a tenere quella sigaretta fra le dita. Non dici nulla, ma mi inchiodi con gli occhi. Provo a sorridere.

«Sai che non l’ho mai raccontato a nessuno? E dire che del terremoto ne ho parlato spesso. Lo usavo come scusa, per evitare le interrogazioni. Oppure per mollare le ragazze che non volevo più. Dicevo che ero traumatizzato, perdonami ma non ce la faccio, o roba così. Ma questa storia mai, nemmeno a mia moglie.»

La cenere della sigaretta si sparge sul tavolo, ma tu non ci fai caso. Continui a guardarmi. «Perché cazzo me lo hai raccontato?»

«Ho sentito dire una frase al lavoro, qualche mese fa. C’era una ragazza somala, ricoverata all’ospedale con crampi forti all’addome. Voleva parlare con un interprete, e nessun altro. Aveva il petto che continuava ad alzarsi e abbassarsi – un seno bellissimo, non riuscivi a non guardarlo. Ripeteva una frase – behind closed doors – ma io non capivo. Non parlava bene inglese, non era la sua lingua. Quella frase doveva averla letta in un qualche libro di idiomi. Dagli esami del sangue risultò che aspettava un bambino. Quella è una frase a cui ho pensato spesso ultimamente. Dietro porte chiuse.Capisci cosa voglio dire?»

Scuoti appena la testa, espiri forte, solo dal naso. Ti vedo asciugare del bagnato dalla guancia.

Mi dici: «Addio, Luca.»

Mi alzo ma tu sei più veloce. Entri nel bar, la porta si chiude alle tue spalle. Lo facevi anche da piccolo, quando entravi nello scantinato, prima di scendere le scale. Mi volevi chiudere fuori, lo so. Allora io la riaprivo, correvo giù veloce e ti guardavo seduto vicino papà. Lui si alzava e ti faceva vedere quegli strani uccelli a forma di sette. Li metteva sul trespolo e quelli tremavano tutti e respiravano forte. Papà ci aveva spiegato che la testa e il collo lungo dovevano formare un angolo di quarantacinque gradi rispetto al busto, e che questo provocava loro problemi di respirazione. Diceva che era l’uomo che li aveva voluti così – una nuova razza, selezionata da noi. Tu alzavi la testa e chiedevi perché.

Lui rispondeva solo: «Lo possiamo fare.»

Erano prede. Tremavano – persi – senza alcuna strategia o arma che li potesse aiutare.

Contro di noi non potevano nulla. Perché noi abbiamo le parole, possiamo fare tutto con quelle. Loro non hanno nulla.

Tu lo abbracciavi forte, sorridevi e chiudevi gli occhi.

Solo ora capisco che dietro quelle porte chiuse, tu c’eri già stato.

*

Immagine di copertina
General Research Division, The New York Public Library. “White-headed Sea Eagle, or Bald Eagle” The New York Public Library Digital Collections. 1840. https://digitalcollections.nypl.org/items/510d47d9-722c-a3d9-e040-e00a18064a99

Inchiesta sul mancare. Alla maniera di Neruda

2

di Ghazal Mosadeq

traduzione di Andrea Raos

*

¿Dormi bene la notte?

¿Rivivi sempre le stesse situazioni?

¿Chi stai cercando?

¿Di dove sei? Voglio dire, di dov’è il tuo bell’accento?

¿Tuo padre, il padre di tuo padre, di dove sono?

¿Dov’è qui?

¿Credi che i nostri ricordi dolorosi possano svanire? Presto?

¿Hai mai pensato che se il fuoco si spegne lo possiamo riaccendere?

¿Ricordi le conversazioni con tua madre sulla bellezza e sul terrore, sulle ombre senza sostanza, sull’ostilità della vita?

Il giorno della memoria delle foibe

1

di Antonio Sparzani
Sulla odierna ricorrenza del giorno che vuol ricordare il dramma delle foibe nel territorio triestino/sloveno, non scrivo nulla ma rimando con piacere a quanto scritto più volte dal grande triestino Claudio Magris, per esempio qui. Buona lettura, grazie.

Colonna (sonora) 2021

0

di

Claudio Loi

Playlist 2020 (ai tempi del virus) ovvero 10 album per non dimenticare (o forse sì).

Le note vicende sanitarie del 2020 hanno condizionato in modo drammatico una realtà di solito più dinamica e vivace. I musicisti hanno perso la possibilità di esibirsi in pubblico, di rapportarsi con la realtà e hanno dovuto rinunciare all’unica fonte di reddito rimasta dopo la dissoluzione dell’industria discografica. Ma, da questo punto di vista non sono mancate le proposte interessanti anzi il lockdown è stato per molti artisti uno stimolo alla scrittura e alla composizione oppure a riprendere in mano progetti rimasti in sospeso e idee in divenire.

Favola della buonanotte

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di Giulia Felderer

“For bonny sweet Robin is all my joy”

Mi piaci fin dal Paradiso Terrestre senza dubbio ti ricordi di: ma anche di: quella volta in cui: siamo stati benissimo abbiamo corso a perdifiato sotto la Luna ne abbiamo le foto e tutti se ne ricordano tutti non possono averle dimenticate in quanto: le abbiamo postate su Instagram. Oppure si trattava di una pubblicità di biscotti fin dal Paradiso terrestre ma tutti e noi ce ne ricordiamo bene.

A volte ho l’impressione di avere un meccanismo di lame dentro al corpo fin dal Paradiso Terrestre e anche lì i dottori che erano gli angeli non sapevano bene come comportarsi. Di conseguenza si comportarono male. Sollevarono la cassa toracica e al posto degli organi erano ruote dentate e dissero: “uhm uhm”. Le ruote dentate sorrisero smaglianti alla vista dei bisturi e i bisturi ricambiarono il sorriso luccicando. Aprirono il cranio e vi trovarono soltanto una piccola lama che cantilenava avanti e indietro come un pendolo sopra il condannato disteso su di un panno rosso. Il condannato piangeva e cercava di modulare la propria voce sulla voce della lama pregandola di non avvicinarsi. La lama faceva finta di non capire ma si divertiva un mondo a scendere scendere scendere per fare il solletico sulla pancia del condannato. Gli angeli guardarono per un po’ e dissero ancora: “uhm uhm uhm”.

Infine diedero un’occhiatina all’utero, ma lo fecero, devo dire, con molta delicatezza e pudicizia; all’inizio fecero fatica ad afferrarlo perché l’utero saltava e rimbalzava a destra e a manca: era davvero un dispettoso ma anche bello e vanitoso perché era tutto trasparente.

Come un teatro illimitato. ØNAR e Lilith

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di Leonardo Recanatini Satriano

 

 

Se è lontano il tempo delle stimmati e dei metronomi, se ogni tempio è rovinato in mare, se nessun terreno può più permettersi il lusso di una radice, allora tramontano tutte le favole dell’interezza, e la frammentarietà si rivela lo spartito più adatto a far cantare le cose del mondo. Il frammento è fessura, politeismo latente: dove c’è frammento c’è sabotaggio di una monolatria. Il frammento è la cifra totemica di ciò che appare e scompare in un lampo; ma esiste qualcosa che non rassomigli alla pulsazione notturna di una lucciola sopra uno stagno? E soprattutto, il frammento non ha bordi né contorni: esso sfuma sempre verso altro, declina in altro, come la montagna declina in valle e la valle in gola o in pianura. Ciò che soltanto conta è lo spazio bianco tra i frammenti: lì respira il Simurgh, il dio che siamo chiamati a proseguire, e lì è necessario penetrare e seppellirsi, come dei semi.

Non sorprende, dunque, che il romanzo Lilith. Un mosaico di Davide Nota (Luca Sossella Editore, 2019) si presti particolarmente a innesti e gemmazioni. La scrittura frammentaria che lo attraversa ne muta continuamente la forma e la materia, le parole e le frasi che lo compongono sono per loro natura modulazioni indefinite, e aprono alla possibilità di trasposizioni e rimaneggiamenti. In questo senso, PPSS_Mosaico_020 rappresenta l’ultima sperimentazione nata dall’incontro tra il Lilith di Nota e Collettivo ØNAR (con Alice Piergiacomi), preceduta da un elaborato sonoro, uno spettacolo-concerto e un film a episodi. Questa volta la collaborazione prende la forma di un evento teatrale telematico, una cerimonia digitale a più voci attorno ai temi del labirinto, della maschera, della distanza e della visione; ciascun membro del pubblico, isolato nella propria stanza, viene invitato a far parte di una platea impalpabile, di un invisibile popolo di viandanti in cammino nei sottoboschi dell’Attuale, per costruire assieme un momento di erranza collettiva alla luce cangiante dei monitor.

PPSS_Mosaico_020 ha una struttura bicefala. Nei mesi che precedono la performance, a partire da febbraio, gli iscritti riceveranno via e-mail sette Lettere in bottiglia, sette messaggi acronici che introdurranno in maniera cadenzata i nervi principali della drammaturgia, accompagnati da elaborazioni grafiche e boutades metafisiche. I sette messaggi saranno accompagnati dall’invito a compiere una piccola missione all’interno della propria quotidianità, come trovare e scegliere una pietra, o riesumare una vecchia fotografia. I risultati di questi giochi, tra iniziazione e situazionismo, riappariranno trasfigurati all’interno dello spettacolo vero e proprio, previsto per la primavera. L’evento consisterà in una videochiamata attraverso la quale gli spettatori assisteranno a una desktop performance lo-fi dal sapore lisergico, in cui il sacro e il profano, il mistico e il metropolitano cessano di contrapporsi per scoprirsi sovrapposti, nella cornice incendiata di un mélange adultère de tout. Recitazione dal vivo, finestre video, opere grafiche, dialoghi in chat, web surfing e stringhe di codice concorrono alla creazione di una «pornologia superiore»[1] sotto il segno della Sibilla.

Nella traslazione dal palcoscenico allo schermo, l’esperienza teatrale non può permettersi di replicare sé stessa in maniera abitudinale, trascinandosi dietro i soliti stilemi: essa deve necessariamente cambiare pelle, alienarsi nei cristalli liquidi, per esplorare le infinite combinazioni proprie del paesaggio virtuale. Perché «il processo è carico di conseguenze nascoste: anche se la mente è ancora rudimentale, congiungendosi con lo schermo a formare un nuovissimo Centauro essa si abitua a vedersi come un teatro illimitato. Tanto basta, all’inizio»[2].

 

Per partecipare e ricevere le Lettere in bottiglia: https://lilithmosaico.org/mosaico020.

PPSS_Mosaico_020 è un progetto realizzato nell’ambito di Marche Palcoscenico Aperto. I mestieri dello spettacolo non si fermano, promosso da Regione Marche / Assessorato alla Cultura e AMAT.

[1] Espressione con cui Gilles Deleuze definisce l’opera di Pierre Klossowski, in quanto unità particolare «della teologia e della pornografia» (G. Deleuze, Il fantasma e la letteratura, in Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 248).

[2] R. Calasso, La Letteratura e gli Dei, Adelphi, Milano 2001, p. 29.