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La memoria rimossa della “spagnola”

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[All’inizio dell’anno, per Luca Sossella editore, è uscito grazie al lavoro del Laboratorio “Soldado de Nàpoles” L’influenza della guerra. La memoria rimossa della “spagnola”, un volume collettivo che raccoglie quattordici interventi di altrettanti autori e autrici provenienti da campi disciplinari diversi. Questo studio, su di un fenomeno storico tutt’ora in gran parte rimosso, è introdotto da un saggio di Gabriele Frasca, di cui pubblichiamo un estratto.]

di Gabriele Frasca

Il canto dell’oblio

I had a little bird,

Its name was Enza.

I opened up the window

And in flew Enza.

Nursery Rhyme (1918)

Alla memoria di mio padre Vincenzo

e di sua madre Anna Di Tuor

Camp Grant, Illinois

(…)

Gli americani, contrariamente ai cugini europei, la guerra non l’avevano nel sangue. Non ancora. In compenso portavano nell’organismo il virus che avevano trascinato al fronte direttamente – a quanto sembra, ma la questione torna puntualmente a essere dibattuta – da Camp Funston, nel Kansas, dove si era manifestato contagiosissimo fra il tardo febbraio e i primi di marzo di quello stesso anno [1918], provocando nel giro di pochi giorni una quarantina di decessi per complicazioni polmonari. I medici militari, che forse avevano fatto solo in minima parte tesoro di ciò che aveva insegnato loro la guerra civile[1] – che cioè in un conflitto si muore più del propagarsi delle malattie, persino di quelle apparentemente banali, che del fuoco nemico[2] –, non erano riusciti in quell’occasione proprio a capacitarsi della repentinità dell’evento, e forse avevano sottovalutato quelle che sarebbero state le sue conseguenze, convinti com’erano di avere preso tutte le misure necessarie per insegnare ai soldati le più elementari norme d’igiene, e per essere pronti a contrastare, o quanto meno a tenere a bada, ogni eventuale agente patogeno. La medicina nell’arco dell’ultimo trentennio aveva fatto passi da gigante, e da quando la nazione era entrata in guerra, a ispezionare le condizioni sanitarie del contingente in formazione, era stato chiamato uno dei più grandi patologi, William Henry Welch, il preside della facoltà della Johns Hopkins University School of Medicine. Eppure, persino quel luminare non si era mostrato allarmato dall’inatteso incremento di morti per polmonite, al punto che nell’estate di quello stesso fatidico 1918 sarebbe quasi stato sul punto di tornare alla vita civile, ritenendo esaurito il suo cómpito[3]. Ed era stato così che a marzo da Camp Funston, grazie allo spostamento di truppe – che nessuno aveva pensato di arrestare, anche in virtù di un indice di mortalità che poteva ancora essere considerato sostanzialmente basso –, la malattia, la “grippe” (per usare un francesismo in voga) che in tanti avevano ritenuto nient’altro che una recrudescenza della cosiddetta influenza “russa” apparsa per la prima volta nel 1889 e durata diversi anni, si era propagata rapidamente negli altri campi di addestramento reclute del Paese, raggiungendo sul finire del mese anche la popolazione civile. E naturalmente sbarcando ai primi di aprile in Europa, esattamente nel porto di Brest, per l’appunto a braccetto col contingente americano, sempre più sollecitato dagli Alleati ad affrettarsi a compensare le perdite provocate dall’”operazione Michael”, con cui i tedeschi avevano ripetutamente tentato, senza però riuscirci completamente, d’incunearsi fra le unità britanniche e quelle francesi. Da lì, nel giro di poco, seguendo il flusso delle truppe, il morbo aveva dilagato in tutto il continente, raggiungendo inevitabilmente in un baleno la stessa prima linea. Le trincee, da una parte e dall’altra, si erano svuotate rapidamente, ma le vittime maggiori si erano contate in quell’occasione fra i soldati tedeschi, esausti e decisamente malnutriti a causa del prolungato blocco navale inglese[4]. Per il generale Erich Ludendorff, nel ricordare quegli eventi soltanto l’anno dopo, non ci sarebbero stati dubbi: le truppe germaniche erano state fiaccate in quell’occasione dal Blitzkatarrh, come fu inizialmente definita la malattia, più che dalle armi nemiche[5]. La Kaiserschlacht si era rivelata così per loro un disastro, e forse anche grazie all’apporto in verità sottovalutato dei soldati americani, inconsapevoli attori della prima guerra batteriologica mondiale[6]. Ma i virus non militano mai sotto una sola bandiera.

In patria nel frattempo le gerarchie militari erano sempre di più esasperate, e il generale “Black Jack” Pershing, dal teatro di guerra europeo, non faceva nulla per nascondere la sua irritazione: la guerra, giunta infine l’estate e coi tedeschi oramai alle corde prima di quanto non avesse supposto, stava finendo, e il contingente non era ancora pronto, cosa che rischiava infine di renderlo superfluo, e allontanare Wilson dal tavolo delle trattative. Era o non era questo che gli aveva chiesto il presidente? Tempo per costruire ulteriori campi, magari con l’intento di distanziare le reclute, come i medici militari avevano cominciato timidamente a suggerire, non c’era più. Così, la necessità di raggiungere rapidamente il numero giusto di soldati per sferrare la prima offensiva in proprio – come sarebbe infine accaduto solo a due mesi dall’armistizio –, costrinse allora le gerarchie militari americane a una scelta radicale: quella di sovraffollare i campi. Era questo che era successo fra l’estate e l’autunno a Camp Grant, nell’Illinois. Quando il colonello Hagardon ne aveva assunto il comando ad agosto, il numero delle reclute ospitate era già salito da 30.000 – ben oltre la capienza della struttura –  a 40.000, al punto che era stato necessario fare ricorso alle tende. In quello stesso mese, per ironia della sorte, l’ufficiale medico del campo, Joe Capps, aveva pubblicato sul “Journal of the American Medical Association” alcuni suggerimenti per prevenire e controllare il diffondersi di quella strana malattia, consigliando fra le altre cose una quarantena di tre settimane per i nuovi arrivati e un severo distanziamento fra le brande, che avrebbero dovuto essere separate le une dalle altre da tramezzi di stoffa[8]. Il colonnello Hagardon non era insensibile a tali misure d’igiene, ma il rigido autunno dell’Illinois, che cominciò a mordere le carni dei suoi soldati già con l’arrivo di settembre, lo mise di fronte alla necessità di dover operare una scelta, fra il rischio di assideramento degli occupanti delle tende e quello di una caserma stracolma di brande e senza alcuno spazio dove poter isolare nessuno. Sciaguratamente optò per la seconda soluzione… non che se avesse scelto la prima le cose sarebbero andate chissà quanto meglio. A quel punto l’ordigno era stato innescato. E dire che i futuristi italiani, con una lungimiranza – o una cecità – perfettamente in linea con quella di tanti intellettuali borghesi europei alla vigilia del conflitto, avevano definito la guerra «sola igiene del mondo»[9]!

Ma per tornare al colonnello Hagardon, fu l’arrivo di un gruppo di reclute da Camp Devens a far precipitare rapidamente la situazione. In quel campo del Massachussets, operativo solo dal 5 settembre 1917 come acquartieramento temporaneo, era difatti praticamente successo di tutto, da quando si erano avuti i primi nuovi casi di quell’influenza – dichiarata finalmente tale solo il 12 settembre – che altro non era che la seconda ondata della cosiddetta “spagnola”, la più letale, che tornava come un boomerang dall’Europa. Al molo Commonwealth, nel porto di Boston, si era sovrapposta inavvertita alla prima ondata grazie ai marinai di ritorno dal vecchio continente alla fine di agosto[10], per diffondersi rapidamente fra la popolazione e raggiungere nel giro di una settimana per l’appunto Camp Devens, che distava dalla città solo trenta miglia. Nel giro di pochi giorni l’ospedale del campo aveva visto assieparsi seimila ammalati, e la mortalità – a causa del sopraggiungere sempre più frequente di una forma devastante, e forse persino mai vista, di polmonite, che finiva ben presto col tingere di un viola cianotico il volto dei moribondi[11] – aveva finito col toccare picchi in precedenza impensabili[12]. Il tutto accadeva in un inspiegabile vuoto di potere ai vertici del Dipartimento medico militare, da cui il Segretario alla guerra Newton Diehl Baker aveva da poco allontanato per limiti di età il generale medico William Crawford Gorgas – l’eroe della lotta alla febbre gialla e alla malaria nella guerra ispano-americana e durante la costruzione del canale di Panama – prim’ancora che il successore Merritte Ireland s’insediasse al suo posto. Era toccato così al generale medico di brigata Charles Richard, in qualità di facente funzione, inviare per un’ispezione a Camp Devens i migliori ufficiali medici esperti di malattie respiratorie in quel momento a disposizione, fra cui, oltre allo stesso William Welch, il veterano Victor Clarence Vaughan, che sebbene nella sua lunga carriera aveva combattuto tante malattie infettive, era rimasto, a sua detta, psichicamente sconvolto, quando si era reso conto di quanto la medicina non fosse assolutamente in grado di tenere fronte alla situazione[13]. L’agente patogeno restava d’altra parte misterioso, e non c’era bacillo di Pfeiffer o batterio da filtrare che si lasciasse riconoscere, se non come l’agente di una sovrainfezione. Alla fine di settembre i casi nel campo sarebbero diventati 14.000, cioè il 28% dell’intero numero dei soldati lì alloggiati, con 757 decessi[14]. L’allora colonnello Vaughan, dinanzi a un quadro epidemiologico così allarmante aveva suggerito diverse misure di profilassi, non ultima la sospensione di tutti i trasferimenti; e da parte sua il generale Richard, per nulla intimidito dal suo ruolo di facente funzione, non aveva esitato a raccomandare al Capo di stato maggiore March di evitare spostamenti di truppe da quei campi dove la malattia oramai imperversava. E sebbene il generale Peyton March avesse dato a vedere di approvare tale raccomandazione, la macchina bellica era oramai praticamente inarrestabile, così che il contagio, dal nord-est del Paese dove si era inizialmente manifestato, aveva seguito la sua marcia inarrestabile verso sud e verso ovest, seguendo le carovane militari, e arrivando così il 18 settembre a Camp Dix, nel New Jersey, il 20 di nuovo a Camp Funston[15]… e via di séguito verso la California, come nel grande mito fondativo americano[16]. Nel frattempo, dalla costa orientale, continuavano a partire le navi destinate a trasbordare i rinforzi che il generale Pershing non smetteva di reclamare. Il Leviathan, per fare un solo esempio – una massiccia nave tedesca che era stata varata come Vaterland ad Amburgo solo tre anni prima, e si era ritrovata per caso in America all’ingresso della nazione in guerra, finendo così con l’essere requisita – avrebbe levato l’àncora da Hoboken, nel New Jersey, il 29 settembre[17]

Quanto a Camp Grant, la mattina del 21 settembre si erano manifestati già i primi casi, che divennero 108 prima della mezzanotte. In due giorni l’influenza conquistò l’intero campo, e a partire dai primi di ottobre il numero dei decessi si assestò su non meno di 100 al giorno, con i farmaci che cominciavano a scarseggiare e i medici e le infermiere che a loro volta si ammalavano[18]. Quello spreco di vite di giovani in salute, continuo, inarrestabile, il colonnello, che aveva insegnato 14 anni a West Point, non riusciva proprio a tollerarlo. Sempre che non gli risultasse insostenibile la vergogna di non poter eseguire l’ordine d’inviare le reclute verso il loro porto d’imbarco. E quel giorno, l’8 ottobre, dopo aver letto la lista dei nuovi decessi, chiese all’attendente di allontanarsi dall’ufficio, e si sparò un colpo alla tempia. Il colonnello Charles Baldwin Hagardon, a quello che è dato sapere, è l’unico rappresentante delle gerarchie militari, fra tutte le nazioni belligeranti, ad aver volontariamente pagato per le proprie responsabilità nella diffusione di quella che al momento è ancora la peggiore pandemia della storia.

(…)

La conta delle vittime, il cui numero apparve comunque da sùbito spropositato, non potrà mai raggiungere una cifra che possa essere ritenuta ufficiale; e non soltanto perché i dati che giungono per esempio dall’Africa o dall’Asia risultano inficiati dall’inadeguatezza dei sistemi di rilevazione e archiviazione che furono coevi agli eventi, ma anche perché persino in “società ordinate con servizi medici e statistici ben consolidati”, come l’Europa e l’America settentrionale, tutto dipendeva dalle diagnosi mediche individuali, che potevano come si è visto ascrivere i decessi a cause diverse. I morti di polmonite del periodo, innanzitutto, ma anche quelli di tubercolosi, risultano ovviamente indiziati di nascondere da qualche parte il volto violetto del virus. Senza dimenticare che l’influenza all’epoca non rientrava fra le malattie sottoposte all’obbligo di denuncia, e quindi il più delle volte spariva dalle schede necrologiche. Sta di fatto che però proprio in Italia i numeri cominciarono a circolare assai per tempo, forse persino prima che in altre nazioni, grazie all’economista e statistico mantovano, ma di formazione universitaria napoletana, Giorgio Mortara, che pubblicò già nel 1925 per la crociana Laterza il saggio La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra. Le cifre lì ci sono tutte, persino più alte di quelle che successivamente sarebbero state fornite su scala internazionale; anche se in qualche modo si districano a fatica, non tanto dal numero dei caduti nel conflitto, ma soprattutto in àmbito civile da una mortalità complessiva che l’ovvio propagarsi della cosiddetta “triplice endemia” (tubercolosi, sifilide e malaria), e soprattutto gli stenti dovuti a una politica alimentare da parte del Regno d’Italia a dir poco avventata, aveva incrementato non poco. Comunque per Mortara, che a lume di statistica si basava sulla stima dell’eccedenza di decessi tra i civili negli anni in questione, le vittime di “spagnola” nella nostra penisola fra l’ottobre del ’18 e la primavera del ’19 sarebbero state addirittura 530.000, che diventavano facilmente 600.000 aggiungendovi i morti nei comuni invasi dagli austriaci dopo Caporetto (da cui non si avevano conteggi affidabili) e naturalmente i prigionieri di guerra come quelli che aveva visto spegnersi Gadda. Erano cifre spaventose – e lo sono anche quelle più contenute proposte attualmente –; ma erano se non altro qui da noi alla luce del sole, sia pure nella penombra di un volume per molti versi innovativo. E se la guerra, nelle parole di Benedetto XV, era già stata definita il 1° agosto del 1917 un’”inutile strage”, quale espressione, con quelle cifre, avrebbe dovuto rendere conto della ”spagnola” a conflitto ultimato? Massacro? Genocidio? Olocausto? E soprattutto, se nelle parole del papa non si può che leggere un rimprovero a tutte le classi dirigenti delle nazioni coinvolte, chi avrebbe dovuto mai essere ritenuto responsabile di quella vera e propria sconsiderata ecatombe che faceva impallidire la stessa ”inutile strage”? Il fato? L’ignoranza? Dio? I numeri, si diceva, altrove ci hanno messo del tempo per divenire pubblici, rimanendo per lo più a disposizione della consorteria (in ascesa durante tutto il Novecento) degli epidemiologi. In America il primo, e per molto tempo l’unico, a provare a fornirne, fu il batteriologo Edwin  Oakes Jordan, che nel suo volume del 1927 Epidemic Influenza, apparso per l’American Medical Association, avrebbe proposto un numero complessivo mondiale di 21 milioni e seicentomila morti – anzi, per l’esattezza, per ripetere i suoi calcoli chissà in base a quali informazioni così puntuali: 21.642.283 – , una cifra alla luce dei fatti decisamente al ribasso, che sarebbe stata però ritenuta attendibile per circa sessantacinque anni. Il che voleva dire che pur non essendoci in America, come altrove, famiglia che non aveva i propri lutti, nessuno chissà perché era in grado di fare due più due. Va anche detto che persino nel 1991 gli epidemiologi americani Patterson e Pyle si limitarono in verità solo a ritoccare la cifra totale, portandola a 30 milioni, e continuando a sottostimare il numero delle possibili vittime nelle varie parti del mondo. È stato dunque solo a ottant’anni esatti dall’evento che la vera portata della pandemia si è manifestata per quello che era, in virtù dei nuovi conteggi a opera di Niall Johnson e Jürgen Müller, che portarono il numero delle vittime a 50 milioni, sebbene il geografo australiano e lo storico tedesco si sentissero immediatamente in dovere di avvertire che anche quel dato poteva risultare sottostimato, addirittura del cento per cento. E finanche di più, a tenere dietro alla caute proposte dei loro interventi successivi. Il che faceva intravedere un numero di morti inimmaginabile. Solo in America erano decedute almeno 675.000 persone, col rischio che tante altre fossero sfuggite alle registrazioni. Eppure, persino riferendosi alla cifra più bassa, la “spagnola” negli Stai Uniti avrebbe fatto in tal modo più vittime dei soldati stessi americani caduti nelle due guerre mondiali, in Corea e in Vietnam. E se per davvero ci si limita a raddoppiare la cifra minima proposta da Johnson e Müller, un simile raffronto lo si può facilmente portare a livello globale. Com’era stato possibile allora che tutto questo fosse per tanti anni finito nelle pieghe della storia, e sotto il tappeto della storiografia?

(…)

*

Note

[1] Ci avrebbe pensato, nel febbraio dell’anno dopo, e dunque durante la terza ondata di quella stessa malattia, la dottoressa Loy McAfee – una delle 55 donne che furono arruolate, pur senza gradi, dall’esercito americano per incrementare il numero dei medici militari –, pubblicando sul “Journal of the American Medical Association” il breve saggio Epidemic Influenza in the Medical and Surgical History of the Civil War. Si veda Reznick, Jeffrey S., The Past, Present and Future of Memory. Medical Histories of the 1918-1919 Influenza Epidemic in the United States, in Beiner, Guy (a cura di), Pandemic Re-Awakenings. The Forgotten & Unforgotten “Spanish Flu” of 1918-1919, Oxford University Press, Oxford 2022, pp. 234-243.

[2] E questo malgrado un personaggio di spicco come Victor Vaughan, a sua volta veterano della guerra ispano-americana, e sopravvissuto in quel frangente alla febbre gialla, avesse richiamato l’attenzione, dalle pagine del “Journal of Laboratory and Clinical Medicine”, e proprio nel marzo di quell’anno, sul fatto che l’addestramento delle truppe, e il necessario concentramento di tanti giovani provenienti da ogni angolo del Paese nelle caserme, avrebbe inevitabilmente incrementato la possibilità di diffusione di malattie infettive e la stessa mortalità. Si veda Byerly, Carol R., Fever of War, cit., p. 39.

[3] Crosby, Alfred W., America’s Forgotten Pandemic, cit., pp. 3-4.

[4] Barry, John M., The Great Influenza. The Story of the Deadliest Pandemic in History, Penguin, London 2004, p. 171. Andrà ricordato, per passare in rassegna anche il fronte alpino, che mentre la prima ondata in Italia, con i primi casi registrati nell’aprile del 1918 nell’esercito regio, fu relativamente mite – rispetto alle altre malattie che imperversavano in trincea e nei campi di addestramento, dalla dissenteria batterica al tifo addominale, senza dimenticare la scabbia, la tigna e il vaiolo portato dai prigionieri rumeni che giungevano dal fronte russo –, per le forze austro-ungariche, il congiungersi della prima con la seconda ondata dell’epidemia influenzale, fra l’estate e l’autunno di quell’anno, fu addirittura devastante, portando l’esercito schierato sul fronte, in cui tanti si ammalarono e non pochi disertarono, dai 650.000 uomini di luglio ai 400.000 di ottobre (Cornwall, Mark, The Undermining of Austria-Hungary. The Battle for Hearts and Minds, MacMillan Press, London 2000, p. 411). Per quanto riguarda i dati relative all’esercito italiano, si veda Cutolo, Francesco, L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale, I.S.R.Pt Editore, Pistoia 2020, pp. 101-106.

[5] Luderndorff, Erich, Ludendorff’s Own Story. August 1914 – November 1918, Harper and Brothers, New York 1919, vol. 2, p. 277 (si tratta della tempestiva traduzione inglese delle memorie del generale, apparse nel 1919 a Berlino col titolo Meine Kriegserinnerungen 1914-1918).

[6] E dire che una delle prime reazioni in America al propagarsi della malattia era stata l’ipotesi che il morbo fosse stato diffuso sulle coste dai tedeschi tramite gli U-boat… se non, più subdolamente, fra la popolazione civile con la stessa Aspirina. Si veda Opdycke, Sandra, The Flu Epidemic of 1918, cit., p. 8. Su quanto questa teoria della propagazione del contagio da parte del nemico, presente in ogni angolo del fronte, si sia diffusa anche nella letteratura popolare, si veda qui Conforti, Maria, Ricordi nascosti: l’influenza ‘spagnola’ delle donne, pp.

[7] All’alba del 12 settembre del 1918, dopo quattro ore di fuoco di sbarramento, l’American First Army, e alcune divisioni francesi, sotto la guida del generale Pershing, avrebbero attaccato il saliente di Saint-Mihiel, senza riuscire dopo una settimana a prendere Metz. Poi, fra il 26 settembre e l’11 novembre ci sarebbe stata la definitiva offensiva della Mosa-Argonne, che avrebbe coinciso col picco dell’epidemia, in cui il comportamento tentennante di Pershing (che nel frattempo aveva contratto la malattia) costernò a tal punto gli Alleati, che Georges Clemenceau chiese espressamente al presidente Wilson di sostituirlo al più presto (si veda Smythe, Donald, Pershing: General of the Armies, University of Indiana Press, Bloomington 1986, pp. 200-207). Si contarono in quell’occasione ben 100.000 “stragglers”, cioè il 10% dell’intero contingente americano (Byerly, Carol R., Fever of War, cit., p. 110).

[8] Capps, Joe, Measures for the Prevention and Control of Respiratory Disease, in “Journal of the American Medical Association”, 71 (6), August 1918, pp. 448-449. Citato in Barry, John M., The Great Influenza, cit., pp. 210-219.

[9] Il riferimento è ovviamente al citatissimo nono punto con cui iniziava il Manifesto del Futurismo pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti – prima su alcuni quotidiani e settimanali italiani agl’inizi del mese, e poi – sul numero del 20 febbraio del 1909 de “Le Figaro”. Col titolo per l’appunto di Guerra sola igiene del mondo, Marinetti avrebbe poi pubblicato nel 1915 per le Edizioni Futuriste di “Poesia” un’antologia di testi militanti, versione ampliata di quella francese apparsa per l’editore parigino E. Sansot, e intitolata semplicemente Le Futurisme. I futuristi italiani sono comunque chiamati in causa in questa occasione solo come chiassosa e colorata avanguardia delle élites borghesi cólte che mostrarono agl’inizi del Novecento in tutta Europa “una sempre più radicata disponibilità nei confronti della guerra”, ritenuta in buona sostanza “un evento terapeutico benefico per la società e d’impulso al progresso sociale”. Appare comunque evidente che l’opinione pubblica, rappresentata per lo più dalla stampa borghese, fosse in quella fase sorgiva del Novecento più propensa a risolvere le controversie internazionali, in specie quelle che riguardavano lo sfruttamento delle risorse del mondo, con un conflitto armato di quanto non lo fossero i vari governi. Si veda a tale proposito, opera da cui sono stati tratte le precedenti citazioni,  Clark, Christopher, The Sleepwalkers. How Europe Went in War in 1914 (trad. di David Scaffei, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Bari-Roma 2013), pp. 256-257.

[10] Per molto tempo gli storici hanno ribadito come la seconda ondata si sia in realtà manifestata, per usare un titolo di un capitolo del libro di Alfred Crosby, con “tre esplosioni”, e dunque contemporaneamente in Africa, a Freetown, nella Sierra Leone – “grazie” alla nave della marina britannica Mantua –, a Brest, porto francese dove sbarcò la maggior parte delle truppe americane, e per l’appunto a Boston, scalo principale statunitense per gli approvvigionamenti (Crosby, Alfred W., America’s Forgotten Pandemic, cit., pp. 37-41). L’affluire progressivo di nuove informazioni ha inevitabilmente allargato di non poco il numero delle località in cui “esplose” quasi in contemporanea la seconda ondata, a partire dalla costa orientale della Spagna – Echeverri, Beatriz, Spanish influenza seen from Spain, in Phillips, Howard, Killingray, David (a cura di), The Spanish Influenza Pandemic of 1918-1919. New Perspectives, Routledge, London and New York 2003, p. 178 – per finire con la stessa Italia, in cui sono attestati casi fra il 18 e il 20 agosto in provincia di Padova, e focolai non ancora sufficientemente studiati in Italia meridionale (Cutolo, Francesco, L’influenza spagnola del 1918-1919, cit., pp. 106-107, 147-149). Il che vorrebbe dire che il virus si sarebbe per così dire ricombinato in vari luoghi autonomamente.

[11] Fu questo tratto semeiotico a imporre nel mondo anglosassone una delle denominazioni per forza di cose più sinistre della malattia, “purple death” appunto, che non poteva non ricordare l’espressione, “black death”, usata per la peste del 1346-1353. Si veda – esempio di quanto in ambiente medico non ci fu in verità nessun vero e proprio oblio dell’epidemia – Mc Cord, Carey P., The Purple Death: Some Things Remembered About the Influenza Epidemic of 1918 at One Army Camp, in “Journal of Occupational and Environmental Medicine”, 11 (1966), p. 594. L’illustratore medico inglese W. Thornton Shiells ci ha lasciato non poche immagini del volto congestionato dei militari ammalati.

[12] Sebbene, come hanno mostrato alcuni studi, ci sono stati luoghi della terra in cui la percentuale dei morti fra chi aveva contratto la malattia fu spaventosamente elevata, in realtà la mortalità della “spagnola”, persino nella sua seconda ondata, non fu particolarmente dissimile da quelle di altre epidemie influenzali, oscillando fra il 2 e il 3 per cento dei contagiati. A rendere pertanto spaventose le cifre della pandemia fu l’estrema morbosità – nell’accezione della statistica sanitaria, e dunque morbilità – della malattia, con indici di contagio a dir poco vertiginosi. Si veda Johnson, Niall Philip Alan Sean, The Overshadowed Killer. Influenza in Britain 1918-1919, in Phillips, Howard, Killingray, David (a cura di), The Spanish Influenza Pandemic of 1918-1919, cit., p. 132.

[13] “Il momento più triste della mia vita”, avrebbe dichiarato l’illustre virologo al medico George M. Price, “è stato quando ho assistito alle centinaia di morti di soldati nei campi di addestramento dell’esercito senza sapere che cosa fare. È stato in quel momento che ho deciso di non strombazzare mai più i grandi risultati della scienza medica e di ammettere umilmente la nostra crassa ignoranza nel caso specifico” (Price, George M., Influenza – Destroyer and Teacher, in “The Survey”, 41 (1918), p. 367). Vaughan avrebbe ricordato quei giorni con parole non molto dissimili anche nelle sue memorie, giungendo da ultimo alla conclusione che quella “mortale influenza” aveva dimostrato “l’inferiorità delle invenzioni dell’uomo nella distruzione della vita umana” (Vaughan, Victor C., A Doctor’s Memories, Bobbs-Merrill Co, New York 1926, p. 384).

[14] È per un puro caso che siamo in possesso della descrizione più impressionante dei terribili eventi di Camp Devens. Nel 1959, difatti, fu ritrovata in un baule, che conteneva carte mediche del Dipartimento di epidemiologia dell’Università del Michigan, una lettera firmata semplicemente “Roy”, in cui un medico del campo descriveva a un collega altrettanto ignoto quanto stava avvenendo. Ottenuta una copia di questa lettera, Norman Grist, docente di Malattie infettive all’Università di Glasgow, la fece apparire, con una sua breve premessa, sul “British Medical Journal” nel dicembre del 1979. Scriveva Roy il 29 settembre del 1918: “L’epidemia è partita circa quattro settimane fa e si è sviluppata così rapidamente che il campo è demoralizzato e tutto il lavoro ordinario è rimandato a quando sarà passata. Fra gli uomini tutto comincia con quello che sembra un attacco ordinario di “grippe” o influenza, ma quando vengono portati all’osp[edale] sviluppano molto rapidamente il tipo più viscoso di polmonite che si sia mai vista. Due ore dopo essere stati ammessi hanno già macchie color mogano sugli zigomi, e poche ore dopo si può vedere la cianosi partire dalle orecchie per diffondersi su tutto il viso, fino al punto che non è più facile distinguere un bianco da un uomo di colore. È questione di poche ore e sopraggiunge la morte, ed è semplicemente una fame d’aria finché non muoiono. È orribile. Te ne puoi stare lì a vedere uno, due, venti uomini morire, ma vedere questi poveri diavoli cadere come mosche non può che darti ai nervi. Abbiamo una media di circa 100 morti al giorno, e tende a salire. Dentro di me non ho dubbi che si tratta di una nuova infezione mista, ma quale non lo so. Tutto il mio tempo lo trascorro ad auscultare rantoli, rantoli secchi e rantoli umidi, sibilanti o crepitanti e tutto il resto della centinaia di cose che si possono trovare in un torace, e che significano una cosa sola – polmonite – che vuol dire in quasi tutti i casi morte”. Si veda Grist, Norman R., Pandemic Influenza 1918, in “British Medical Journal”, December 22-29, 2 (1979), pp. 632-633.

[15] Il campo del Kansas in questa seconda occasione si comportò particolarmente bene, allestendo un grande ospedale modello, perfettamente ventilato, con i letti ben separati, alternando pazienti posizionati a capo a quelli posizionati a piedi. Il personale medico era ammesso nei reparti solo dopo aver indossato la mascherina. Alcune delle fotografie divenute successivamente iconiche degli ospedali militari americani durante la pandemia provengono per l’appunto da Camp Funston.

[16] Byerly, Carol R., Fever of War, cit. pp. 74-75 e 83-84.

[17] Già nel precedente viaggio all’incontrario il Leviathan era stato devastato dalla “spagnola”, al punto che il giovane Sottosegretario alla difesa Franklin Delano Roosevelt, che era fra i passeggeri ed era stato contagiato, aveva dovuto attendere l’ambulanza per sbarcare il 9 settembre a New York. E ci sono stati anche studiosi americani che nel 2003 hanno ventilato l’ipotesi che la cosiddetta forma grave di poliomielite che avrebbe colpito il futuro presidente nel 1921, non fosse altro che la sindrome di Guillain-Barré, come reazione per l’appunto alla violenta forma influenzale (Goldman, Armond, Schmalstieg, Elisabeth, et alii, Did FDR Have Guillain-Barré?, in “Science”, 302, 5647 (2003), p. 981). Ma quel successivo viaggio verso l’Europa, con i soldati letteralmente stipati l’uno contro l’altro sulle amache che servivano da letti, si trasformò in un vero incubo e in una spaventosa ecatombe, che non finì nemmeno quando la nave giunse a Brest il 7 ottobre. Il tutto è descritto con dovizia di particolari in Crosby, Alfred W., America’s Forgotten Pandemic, cit., pp 125-135.

[18] Opdycke, Sandra, The Flu Epidemic of 1918, cit., p. 50.

Fine di Kaliyuga

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Immagine generata da AI
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di Danilo Chillemi

Schopenhauer credeva derivare dal sanscrito Brahmā il nostro italiano bramare – capitale osservazione, da meditare mi dico, mentre vago sperduto nella notte senza una trama. Piove deliziosamente. Gironzolo per Corso Magenta deserto per l’avanzata ora notturna. Sotto l’ombrello mi accompagnano pensieri e note di flauto malinconiche – chissà da dove: le aule del Conservatorio sono anch’esse buie e deserte. Fisso la mente invasa dal sonno nella facciata coi due telamoni dell’austero palazzo di drammatico Seicento dell’augusto liceo Arnaldo. Mi dà una malinconica felicità essere in questo parco piovoso e, finalmente, a quest’ora tarda, silenzioso. Penso a Omero che fonda una relazione tra le nebbie e la nostalgia, mentre le sirene degli autoimmondizie si mandano segnali nella notte nebbiosa.

Cercando un’uscita gnostica nella Luce (artificiale) riprendo la via del Corso. Le vetrine illuminate dei negozi sembrano reperti di luce pompeiani, scoperti da scavatori. Attraverso la strada. Titolo di giornale sul Grande Diluvio di Valencia ridotta a giungla meccanica, all’edicola – una catastrofe che non mi tocca: non stanotte, stanotte mi sono messo in sciopero contro il Cosmo. Mi aggiro fra semafori e fanali di auto, come un astronauta viandante all’ascolto del cosmico segnale in Morse che il grande Disco rotto dell’Universo rimanda ininterrottamente nell’Espace Infini. Sono le due di un venerdì. Piazza Duomo è una grigia nebulosa chimerica urbana da cui emergono incongrue cupole. Prendo la galleria centrale che s’inserpenta verso i portici, dove il corridoio si spalanca su una fuga di pareti a specchio. Sul citofono un nome che pare dettato ex alto per me: “Freud” (forse lontana discendente?). Urino contro l’uscio, amichevolmente, e quella strana piscia, ha, su di me, un effetto di calma. Dopo vent’anni di “analisi interminabile” faccio rapido ritorno su via Trieste, finalmente sgravato dal blocco vescicale del mio Traum…

Più in là riconosco la fermata della metropolitana di Vittoria. Scendo: giro i locali a più piani, da un senso all’altro dei binari. Non so che fare salvo chiudermi nel cesso. Eccellente lettura della Bhagavad-Gītā facendo bidet caldissimo nel silenzio della stazione. Quindi risalgo. La piazza è gioiosamente vuota, la sospensione della vita notturna l’ha magicamente bloccata nell’ambra. In una nicchia all’angolo della farmacia un video pannello indica agli uomini la loro via mortis: “il tumore della prostata”. Evocazione involontaria di Paolo (professore di filosofia che rimane prezioso amico nella teca del cuore) che mi dice della soluzione in lui maturata dopo repentina, interminabile, tachicardia: il suicidio preventivo. Gli telefono subito – a vuoto. Suo sms mi avvisa che stanotte non potrà raggiungermi, ma mi manderà intorno alle quattro dell’Energia a distanza per sostenermi durante il cammino.

Continuo la mia fuga di Majorana con sigaretta nell’Invisibile. Sognando di teleguidare sulla Terra addormentata un meteorite che la trafigga, avanzo sotto centralissima villa di via Tosio grondante gelsomino. Pioggia diluviale redentrice, a scrosci. Momentaneo riparo alla fermata del bus dove mi perdo in nere cogitationes sullo spleen – cafard acedia tristitia o come dicit vulgus Schifo – coinvolgente me stesso e tutto l’infinito Niente detto impropriamente Universo. Per terra un pacchetto di Marlboro vuoto e un pezzo di carta gialla.

Sotto uraganico temporale me ne torno rasentando muri a piazza Vittoria. Quasi mi butterei giù dalla metafisica Torre dell’I.N.A., ma farei un brutto vedere là sotto, in fradicio cappotto cammello gualcito. Dopo mancato tuffo ad angelo nel vuoto, costeggio la grande scalinata con architrave in marmo del Palazzo delle Poste, sotto file di finestre strette e oblunghe. Giro, giro, giro, come un pipistrello nella sera al suono dei miei passi. Con divina emozione mi fermo a guardare da sotto deliziosa Loggetta del Monte di Pietà – la visione di Piazza Loggia avvolta in grigia luce quasi lagunare, con la sua cupola di Titanic stellare naufragato a rovescio dentro Buco Nero. Rintocco di campana che pare un colpo profondo di gong: alle 3:00 antimeridiane dell’Orologio sono ancora qui, meditante sotto l’ombrello aperto. Medito sulla mia straordinaria somiglianza ideale con Gregor Samsa, alter ego nottivago in questa Notte randagia senza giorno: lui scarafaggio boemo, io minuscolo scarabeo egizio col supplizio tantalico di spingere il Sole sulla via del ritorno.

Dunque mi dico, vado. Infilo l’angolo della piazza, passo in via San Faustino, esploro. Dopo lungo e lento peregrinare giungo in Carmine – davanti a incantevole chiesa di Santa Maria la luce intermittente d’un lampioncino segnalante gli S.O.S di Dio. Sui muri graffiti “Eco non Ego” e altre scemenze: io proseguo nel mio Friday for Past. All’angolo di via Santa Caterina mi imbatto in bellissima ragazza accennante, che subito scambio per un segnale insensato della Luce, ma è invece uno dei tanti Miracoli della Réclame su cartellone. Improvviso a mia sola memoria un epicedio alle sue Tette.

Poi entro nella stazione metro. Siccome ho fame, mi ingozzo di cioccolata e biscotti a una macchinetta. Prendo la scala mobile che scende e poi risale dentro labirinto di pareti trasparenti più numerose di quelle di un tempio Indù. Masticando a bocca piena esco nella pura tenebra: ma sbaglio strada e imbocco caleidoscopica Galleria Tito Speri che non finisce mai. Deambulo a vuoto come in sogno fino alla fine del tunnel, un po’ drogato dal farmaco Serenase (5mg) che ho preso per frenare certe pirofobiche ossessioni. All’uscita della galleria enorme cartellone di Agenzia Viaggi con spiagge di arena bianca invita a spensierato volo low-cost nei Felici Tropici. Da una ringhiera su cielo plumbeo fantastico su mio risveglio in altri mondi dopo un volo in anestesia totale.

Nel frattempo, lungo il percorso – coppia di gatti che si insegue ai piedi del monumento di Mazzini, strillando perversamente, io che fuggo il Pólemos tra sessi opposti invocando Dioniso, protettore delle grida notturne. Ho sete e per fortuna i distributori automatici continuano a funzionare. Scelgo quello colorato di verde, che ha un buon assortimento di bevande zuccherate, roba buona per profughi analcolici come me. Sotto l’acqua scorrente dai gradini della Memoria riscendo a caracollo sulla diagonale che attraversa il centro storico. All’incrocio un vento da Highlands mi srotola la sciarpa fino a coprirmi gli occhi mentre passo col rosso. Mi ritrovo in via Musei: tutt’intorno alle alte finestre delle case aleggia la Lebbra-Nebbia, io ci sono sommerso come in una campana in fondo al mare.

Cammino, cammino e arrivo al Foro – mi affaccio sul fondale di carie da guerra atomica dove giacciono i rottami del Tempio, fumando e cogitando su una remota Pompei extrasolare che una tempesta magnetica ha sepolto sotto un vulcano morto. Il buio sbuca perfino dai tombini. Rileggo per la millesima volta la scritta «IMP.CAESAR.VESPASIANUS.AUGUSTUS…» del frontone, mentre fari squarciatenebre emanano nella bruma le loro deboli fosforescenze. Improvvisamente, una voce risuona nell’aria alle mie spalle: «Dovrebbero inciderlo sui frontoni dei cimiteri: “Toda la vida es sueño”». Mi volto: è Nicola, più che amico fratello che mi parla. Si toglie la giacca, se la drappeggia sulla spalla sinistra con le dita a uncino, e mi si fa incontro: «Vengo qua dal Vantiniano. Un cartello sul cancello dice che il cimitero rimarrà chiuso fino a tempo indeterminato. I becchini devono saperla lunga sull’Indeterminazione del Tempo…» Mi saluta, lasciandomi del Mana sulle mani e sparisce: «Ci vogliamo bene, però somos dos fantasmas».

L’allucinazione mi lascia, mi riconosco seduto su una panchina di Tebaldo Brusato, sprofondato nel verde con la testa rovesciata, a guardare nell’Erebo voraginoso degli spazi in cui agonizzano mute le Nane Bianche e gli Eoni dharmici si esauriscono come pile elettriche. Ho in tasca una lettera per Bianca che non imbucherò, come un ultimo messaggio lasciato inascoltato nelle segreterie telefoniche del Tempo. Un modo come un altro di occuparmi esclusivamente del Passato, nell’essenziale certezza di saperlo introvabile…

Nel frattempo, la fosforescente luce al neon di un parchimetro mi prende per incantamento. Che cosa indichi non so, forse, soltanto, che sono le cinque. Mi precipito nel vicolo semibuio, ma mentre corro sull’asfalto come un allucinato solitario in stracciato cappotto cammellato, per poco non mi rompo il braccio sinistro per scivolamento su una merda. Nemesi karmica o arcana corrispondenza di eventi cosmici? Domande che mi tengono dietro mentre tuffo, lasciandola a mollo, la scarpa sotto una fontana.

Corso Magenta, ore 5:30: dopo mezz’ora di corsa nel pallore di smog della Vanitas urbana mi ritrovo al punto di partenza. Sto rimirando vecchio grandissimo tavolo da biliardo che campeggia dal fondo oscuro della boutique di un antiquario. Biliardo come (buddisticamente) surrogato del Saṃsāra o forse vero Saṃsāra? Non siamo che palline d’avorio che un Giocatore scaraventa con colpo preciso nella buca preparata. Chi vince, chi perde. Chi reincarnato. Chi entrato in Nirvāṇa. E subito il gioco della Maya ricomincia: la pallina bianca rispunta dalla buca.

Qualcuno (chi? L’inglese John Lennon?) diceva della morte: è solo scendere da un’auto per salire su un’altra. La frase mi trova d’accordo. Salgo sul primo autobus che incontro nell’ora magica crepuscolare delle sei. La notte sta dileguando con estrema dolcezza agonica di nuvole che si sfilacciano in vortici distanti. Mi abbandono a un proverbio indiano sull’andirivieni del mondo. Sepolta nella tasca tengo la Bhagavad-Gītā che apro a caso. Le sue pagine sono un sonnifero insuperabile. Combatto col Sonno che vuole annebbiarmi la Conoscenza, ma ho gli occhi troppo stanchi, li chiudo: Om̐.

Dove si situa lo scrittore? Un dialogo con Filippo La Porta

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[L’11 aprile usciva su questo sito un mio pezzo dal titolo: Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo | NAZIONE INDIANA. In coda al post, sono intervenuti alcuni lettori e, tra gli altri, Filippo La Porta con un suo commento articolato. Questo commento fa parte, in realtà, di un dialogo che esiste da tempo, in forma prevalentemente privata. Ci è sembrata un’occasione per rendere pubblico quest’ultimo scambio, anche perché, per quanto mi riguarda, tocca un punto importante: il posizionamento dello scrittore di fronte alla realtà di cui parla. a. i.]

di Filippo La Porta e Andrea Inglese

Caro Andrea,

ho letto con grande interesse il tuo intervento. Analisi largamente condivisibili, citazioni perfette, ma tu lì dentro dove stai? Ti trovo a fatica. Somiglia a una delle relazioni che nei ’70 preparavano i congressi del Manifesto (cui appartenevo), e che dovevano dare a noi militanti il “quadro” della situazione e motivarci alla lotta. Bene, ma tu sei uno scrittore, non un leader politico né il direttore di Limes – e poi un padre, e poi un cittadino italiano emigrato in Francia, etc. – , da te mi aspetto qualcos’altro. Il mondo da quale prospettiva lo vedi, e lo subisci? Qual è la tua percezione personale della situazione politica attuale? Te ne senti oppresso? Condizionato? Disturbato? Le spettacolari bullshit di Trump per caso ti tolgono il sonno? I bambini di Gaza scuotono la tua coscienza e ti rovinano la giornata (Elsa Morante una volta mi disse che se non sei un po’ qualunquista non puoi neanche prenderti in pace il cappuccino la mattina)? E poi: dato che niente avviene senza il nostro consenso passivo, a quali pratiche sociali e consumi e logiche di potere dai ogni giorno il tuo consenso? Quali compromessi stabilisci per vivere in quello che specie i letterati amano definire l”inabitabile”( e che pure abitiamo, con alcuni privilegi)? Io me lo chiedo continuamente, a proposito di “stili di pensiero e di azione”. E trovo interessante che ce lo diciamo.
Proprio la nostra tradizione, eretica e libertaria, dei Chiaromonte e Castoriadis, mette al primo posto l’individuo, responsabile e inappartenente. Ecco, io vorrei che nei nostri scritti politici e civili ci fosse sempre l’individuo, e cioè una voce personale e unica, insomma noi che parliamo e agiamo nel mondo.

Mi soffermo solo su un tema. La fine del sogno americano, che secondo te già era internamente corroso, già conteneva il buco nero che lo avrebbe inghiottito. Può darsi, lo aveva presentito Scott Fitzgerald nei suoi racconti. Quel sogno di libertà è da subito intrecciato con il mito del successo e con l’imperativo di make money. Ora, non voglio entrare nel merito del New Deal, che comunque fu un grandioso esperimento di patto tra capitale e lavoro (anche se escludeva dei soggetti sociali), e ha indicato un orizzonte in cui muoversi (quello keynesiano della redistribuzione del reddito, dato che il capitalismo non si può eliminare), ma nel ‘900 tu vedi esperimenti sociali emancipativi a cui richiamarsi o da cui farsi ispirare?
Parto da una mia esperienza. Nel 1971 attraversammo l’America in auto, io e tre amici. Venivamo ovunque ospitati (spesso in vere e proprie comunii, tutti quelli che incontravamo per strada – specie in moto – ci facevano il segno “V”, con loro parlavamo del mondo nuovo che stava concretamente affiorando, a volte si faceva sesso (purtroppo non io, allora sovrappeso, ma i due dei quattro diciamo più “carini”!). Ricordi Camus: creare cellule di un’altra società dentro questa società? Come Pasolini qualche anno prima, mi innamorai della New Left: integri e tolleranti, radicali e antidogmatici, fraterni e non ideologici. Altro che i terribili tribuni della plebe delle nostre facoltà occupate. Che “morale” trarne? La cosa più vicina alle nostre utopie politiche, ai nostri ideali comunitari l’ho trovata in alcune isole protette dentro il capitalismo più avanzato (permesse anche dalla ricchezza materiale di quel sistema, o se vuoi dalle sue briciole), e non – ad esempio – nel mostruoso, distopico regime cubano ( ci sono stato 4 volte: dominio dispotico di un ceto politico-burocratico che ha corrotto una delle popolazioni più vitali dell’AL, incoraggiando la delazione del vicino di casa).

Pazzesco! Il sogno di una cosa ritrovato dentro il sogno americano (o almeno dentro una delle declinazioni del sogno americano)! Lo spirito più bello e utopico del ’68, quello del Mondo salvato dai ragazzini, era nelle canzoni di Dylan e dei Jefferson Airplane, nei concerti di Jimi Hendrix (ne vidi uno, pomeridiano, al Brancaccio di Roma nel ’68, avevo 15 anni), nel film di Arthur Penn “Alice’s restaurant”, nella esplosiva controcultura americana dei ’60 e ’70, nel Manifesto di Port Huron (1962), in Paul Goodman e nel discorso di Mario Savio a Berkeley del 1964, nel Grande Lebowski dei Coen, non nel libretto rosso di Mao, nelle istruzioni di Giap sulla guerriglia o negli anatemi antimperialisti di Castro o – dispiace dirlo – negli orrori dei vietcong dopo la loro giusta lotta di liberazione (un milione in fuga sulle barche un milione nei gulag)!

(i nostri Chiaromonte e Castoriadis lo sapevano bene: ovunque il comunismo ha preso il potere ha prodotto miseria materiale e morale, quando non lo ha preso ha prodotto menzogna, ambiguità, tatticismo. Possiamo anche citare Benjamin, che sempre ci dà qualche gratificante brivido teologico, ma la dura smentita della Storia è ineludibile….dato che la parola “comunismo” resta una bellissima parola, per consolarci, con Giuseppe Samonà – su sua proposta – ci definiamo “comunardi”…ma sarebbe un lungo discorso)

Ecco, può darsi che oggi l’America sia solo dominio senza egemonia, però quando vado negli States ritrovo sempre qualche preziosa traccia dell’altra America, di un pensiero dissidente e meravigliosamente libertario, che alimenta la mia immaginazione politica. Anzi, idealmente sento di stabilire un ponte tra la vecchia Europa, con la sua saggezza ironica e tragica, capace di autocritica (unico continente senza la pena di morte), e l’altra America (tutti “parassiti” per Trump!). Inoltre: se pensiamo alla cultura pop, le serie TV e di cartoni animati più importanti per capire oggi chi siamo, per interpretare il nostro presente (Breaking bed, Homeland, Succession, Billions, Mad Men…., l’umorismo nero del genialissimo “South Park”, etc.) sono americane. Qui sembrerebbe che la “egemonia” continui…. E influenza stili di pensiero e d’azione.
Un abbraccio
Filippo

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Caro Filippo,

cercherò di non lasciarmi obnubilare dall’invidia per il concerto di Jimi Hendrix che hai visto a Roma quando eri quindicenne. E premetto anche, che non tenterò di rispondere alla domanda che poni nella seconda parte del tuo commento: “nel ‘900 tu vedi esperimenti sociali emancipativi a cui richiamarsi o da cui farsi ispirare?” La lascio, però, macerare per bene, tanto è cruciale, in vista di un’altra occasione. Così pure farò per quella sui rapporti con la cultura statunitense. (Una parziale risposta, in questo caso, la avresti ripercorrendo alcune pagine del mio romanzo La vita adulta, che hai letto e di cui hai anche parlato.) Vengo, quindi, alle questioni che tocchi nella prima parte.

“Ma tu lì dentro dove stai?”

È una domanda importante, a cui io cerco di rispondere costantemente, elaborando un certo tipo d’interventi, di presa di parola, che non riguardano la mia specifica identità di “scrittore” o di “poeta”. La considero, questa domanda, uno degli insegnamenti più preziosi del femminismo. “Da dove parli?” Ma rispondere a questa domanda, integrare in un proprio intervento una descrizione del contesto più personale e biografico, all’interno del quale emerge un determinato tema, una specifica urgenza del discorso, non riguarda per forza “l’inappartenenza dello scrittore”. In un saggio sull’antirazzismo europeo, ad esempio, scritto un po’ di tempo fa, ho ritenuto importante spiegare perché la discriminazione nei confronti dei “neri” riguardi anche me, “bianco”, e la mia particolare storia familiare, il contesto sociale in cui vivo, ecc. (l’articolo dapprima uscito su “Testo a fronte”, si trova in formato ridotto anche qui). Così ho fatto, ad un certo punto, in uno degli articoli che ho dedicato su NI alla distruzione di Gaza. Ho spiegato perché la sorte dello Stato di Israele e della popolazione palestinese non equivale, per me, a un evento di politica estera come un altro. Ma questo non c’entra nulla con la mia singolarità di scrittore. Qui intervengono semmai le mie appartenenze d’italiano ed europeo, erede di una storia che include i crimini del nazifascismo e le conseguenze che questi hanno avuto su popolazioni, come quella palestinese, del tutto estranee all’obiettivo della soluzione finale, voluta dal III Reich sul territorio europeo. In molti, casi, insomma, l’esplicitare il proprio posizionamento, il situarsi di fronte a un paesaggio, significa riconoscere delle proprie appartenenze, di classe o di genere, culturali o nazionali. E questo ha senso proprio per ricordare che non siamo menti disincarnate, monadi pensanti o poetanti, al di sopra dei condizionamenti e delle pressioni della storia.

Il riconoscimento delle proprie “appartenenze”, intese come dati di fatto che precedono le nostre scelte di individui autonomi, non significa però aderire acriticamente a esse. E qui il discorso sulla non appartenenza dello scrittore è importante, e per certi versi, con me, sfondi una porta aperta. Ma questo concetto funziona in modo paradossale: faccio di fatto parte delle vostre istituzioni, ma non mi riconosco completamente in esse, e la scrittura è un territorio specifico in cui posso reclamare la mia appartenenza a un’ulteriore società, un ulteriore sistema di valori, che coincide utopicamente e immaginariamente, con i lettori per cui scrivo. Mi sottraggo così, nella zona protetta dell’arte o della letteratura, al peso della maggioranza, all’irrevocabilità del reale. Questo gesto, di per sé, non elimina certo i compromessi che lo scrittore, in quanto cittadino, stabilisce con il mondo sociale che lo circonda, ma gli permette di salvaguardare una certa dose di preziosa insubordinazione rispetto alle attitudini intellettuali della classe dominante. Il trucco di tanti scrittori, intellettuali, accademici, giornalisti culturali, che non vogliono rinunciare a nessuna delle opportunità che offre l’attuale mondo culturale, senza per questo farsi cantori delle posizioni più conservatrici e reazionarie, è quello di sostenere che o si dice di no a tutto, o si abbraccia un opportunismo radicale. Chi osa criticare il capitalismo, dovrebbe per forza vivere come un francescano. Chi denuncia la pochezza delle politiche sul clima, dovrebbe parlarne da una capanna fatta di frasche. Chi mette in guardia dalle minacce insite nella diffusione di certe tecnologie, dovrebbe scrivere sulle tavolette d’argilla. Il rifiuto pubblico di sottoscrivere certe idee e certe parole d’ordine dell’epoca è invece un’azione importante, di portata certo limitata, ma che non è scevra per altro di conseguenze negative. Il non accordarsi al coro, il non-concertare, lo si paga prima o poi, soprattutto nel mondo intellettuale. Ed è questa la prova migliore che l’insubordinazione dello scrittore, assieme ad altre forme di critica, infedeltà e antagonismo, non sono considerate innocue da coloro che difendono le “verità ufficiali”.

Mi chiedi quale sia “la mia percezione della situazione politica attuale”? Ho parlato di questo in un recente articolo su Gaza. Ho scritto che dormivo male. Che facevo incubi politici. Nello stesso tempo, mi dimentico ogni giorno dei bambini sotto le macerie, delle famiglie intere sterminate. (Elsa Morante ha senz’altro ragione. Ma come potrebbe essere altrimenti?) Posso aggiungere che di fronte a un mondo che abbraccia nuovamente forme di pensiero e azione fasciste, perde senso anche lo scrivere. Per chi scrivo? Per piacere a un lettore reazionario, fascista? Scrivo per un mondo che disprezza tutto ciò che non è traducibile in una realtà quantitativa: i soldi delle vendite, i like, i followers? Ma dicendoti questo non sono ancora andato fino a in fondo, fino al nocciolo. E il nocciolo è questo. Lo so benissimo, non posso fare nulla, a livello individuale, perché laggiù qualche innocente sia risparmiato dalle bombe o dai cecchini israeliani. O dalla malnutrizione. Ma questa impotenza trova un suo limite, nel momento in cui, leggo o sento qui, in Europa, in Francia dove vivo o in Italia da cui provengo, certe falsità, certe operazioni di censura o autocensura. Va bene, non posso fare nulla, non posso impedire che il governo Meloni venda armi o faccia affari con Israele, non posso convincere il governo francese a stabilire delle sanzioni, e così via, ma non mi avrete nel vostro coro e nel vostro compatto silenzio. C’entra il fatto di essere scrittore? Non lo so. Ma provo a rispondere alla menzogna, cercando di portare un po’ più di verità, nell’arco mio di comunicazione, anche se è minimo. Un migliaio di lettori soltanto? Ma lo devo fare. E lo faccio senza poter misurarne in alcun modo l’efficacia. E comunque 1) sono convinto che anche una comunicazione “piccola”, di corto raggio, abbia importanza (può fungere da modello per altre comunicazioni di quel tipo); 2) va fatta e basta. Il Winston Smith, di 1984, al colmo della sua impotenza politica, affermava: “La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa liberta, ne seguono tutte le altre”. Le verità storiche non hanno certo il carattere cristallino delle verità matematiche. Ma Orwell vuole dire che non c’è verità, per autoevidente e universale che sia, a salvaguardarsi indenne dalla propaganda politica e dall’autocensura. Bisogna volerlo dire, e volerselo ricordare, che due più due fanno quattro, quando intorno a voi la gente non smette di affermare che due più due fanno cinque.

“Bene, ma tu sei uno scrittore, non un leader politico né il direttore di Limes (…)”

È un’osservazione di assoluto buon senso, Filippo. Perché mai dovrei interessarmi a un complesso studio per specialisti dei cicli egemonici e dell’economia-mondo, io che non sono nella redazione di riviste accademiche o specializzate in geopolitica? Io che non ho titoli per prendere la parola a riguardo? E come mi rimproverava un amico filosofo: Che ti metti a scrivere tu, non specialista, di cose, che qualcun altro scriverà meglio e in modo più approfondito di te? Scrivi poesia, allora fai il poeta! Intervieni sulla poesia contemporanea. Inculca nei pochi lettori dello scomparto “letteratura in versi”, l’idea che tu ne produci e anche ne hai da dire. In effetti, tante volte vorrei rinunciare a inoltrarmi in certe letture e ricerche, perché so che mi costano tempo, fatica, e inoltre non mi garantiranno nessun vantaggio simbolico (il gagliardetto dello specialista, la medaglia del poeta, la piuma sul cappello del militante di riferimento). Lo faccio un po’ mio malgrado, come spinto da un’ossessione che assomiglia a quella della scrittura di finzione, ma è “inclinata” in una diversa maniera. Voglio mettere ordine. Voglio penetrare più in profondità e in ampiezza, oltre la nube dell’attualità. Voglio percepire le strutture storiche, istituzionali e ideologiche che ci hanno dato forma. So leggere e scrivere: e questa concatenazione di pratiche, che ho appreso negli anni di formazione scolastica e universitaria, e nella mia esperienza di poeta e narratore, la voglio utilizzare per condividere con altri questioni comuni, questioni della polis, che ci riguardano tutti. E lo voglio fare al di fuori dei “ruoli” professionali, sanciti dal mondo della cultura e della politica ufficiale. Parlo come uno senza arte né parte, facendo leva esclusivamente sulla pertinenza dell’argomento scelto, della prospettiva abbracciata e della chiarezza dell’argomentazione. Metto in comune qualcosa fuori dalle tempistiche istituzionali. E mi dedico così a un duplice movimento: esploro l’utilità e l’efficacia di un certo strumento intellettuale (Arrighi, Silver, e la loro teoria) e, nello stesso tempo, lo restituisco. E lo faccio per giungere poi a dei nodi, che mi serviranno e che spero serviranno ad altri. Nodi concettuali e fattuali, come quello che sta al cuore di quell’intervento. Si tratta di una citazione che riprendo tal quale:

Abbandonando la promessa egemonica dell’universalizzazione del sogno americano, l’élite statunitense dominante non ha fatto che ammettere che la promessa era ingannevole. Come dice [ImmanuelWallerstein, il capitalismo mondiale, così come è attualmente organizzato, non può soddisfare simultaneamente ‘le richieste combinate del terzo mondo (relativamente poco a persona, ma per molte persone) e della classe lavoratrice occidentale (relativamente poche persone, ma molto a persona)’.[4]

La civiltà che fino a poco fa è stata modello più o meno virtuoso, più o meno contraddittorio rispetto ad altre civiltà, si è rivelata una trappola. Inutile nasconderselo. Nessuno ha certo delle soluzioni immediate e globali da proporre. Ma non si dovrebbe parlare che di questo: della trappola, dell’abbaglio, della contraddizione insanabile, dell’idiozia basata sul diniego. Il fascismo montante ha a che fare con quel diniego. Prende slancio da quell’ignoranza voluta. Ognuno cerchi allora di dirlo, di orientare come può discussioni e mentalità, portando strumenti e in un’ottica di rottura con il sistema di vita esistente. Lo facciano i leader politici, lo facciano i direttori di Limes, lo facciano anche quelli senza arte né parte.

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Immagine: Peter Fischli e David Weiss.

L’eredità del corpo memoria nei libri di Goliarda Sapienza

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Ovvero il suo futuro siamo noi lettrici e lettori

Immagine di Watercolor

di Anna Toscano

Scavalcato il centenario della nascita di Goliarda Sapienza, ricordata in convegni, incontri, libri, letture e molto altro ancora, prende avvio la strada del secondo centenario. In questo maggio Goliarda avrebbe compiuto 101 anni, e la si ricorda ancora. Ma come la si ricorda? O come si vorrebbe ricordarla?  Di certo dando per assodato che L’arte della gioia è un capolavoro della letteratura, non solo italiana, va da sé, e che la sua autrice è una delle grandi scrittrici del Novecento.

Ci molto altri libri scritti da Sapienza che sono da annoverare tra le grandi opere della letteratura, e a oggi tutti i testi lasciati compiuti nel famoso baule al momento della sua morte sono stati pubblicati: alla “S” di Sapienza gli scaffali di librerie e case dovrebbero avere almeno un 84 cm di volumi sistemati uno dopo l’altro.

Questo centenario in entrata, il secondo, è pieno di libri scritti da Goliarda Sapienza, romanzi, lettere, diari, poesie, eccetera. Libri in cui si è travasata, come ha fatto nel grande romanzo, passando alla carta la sua memoria, divenendo da corpo umano a corpo memoria di carta.

Nella prima metà della sua vita corpo e memoria sono strettamente intrecciati alla pellicola, al cinema, al teatro. Si può riassumere la vicenda – il passaggio dal teatro e dal cinema alla scrittura – come un passaggio dal corpo come memoria filmica alla ricostruzione di sé attraverso la scrittura: la gioia del narrare come salvezza di una identità frantumata.

La gioia del narrare in Sapienza è la gioia del trasmettere, del mettere in condivisione, attraverso il cinema o attraverso la scrittura, è un mettere a disposizione il proprio corpo memoria alla narrazione, alla conoscenza. Tutto passa attraverso il corpo di Goliarda, un’autrice che si fa attraversare dalle storie. La sua storia è anche piena di corpi, grandi corpi e piccoli corpi, spesso corpi ingombranti, se pensiamo ai genitori, pure corpi che sono grandi assenti.

Partendo dal corpo di Goliarda, quello che in una recente immagine appare per la prima volta mentre si tuffa da uno scoglio: un corpo in movimento il suo che seppur fermato in un fotogramma racconta molto della storia di lei.

Di Sapienza, del suo corpo, si può parlare a lungo partendo dal corpo di una neonata, nel 1924, nata da una madre ultraquarantenne e da un padre anche non più giovane, una madre il cui corpo era già stato “spossato da parti tremendi / schiantato da lunghi congiungimenti”: due adulti che portano nel loro corpo parte della storia d’Italia e che già avevano avuto molti figli. Sapienza neonata corpo voluto fortemente dopo la morte del fratello, neonata amata e cresciuta libera in una Catania di inizio secolo; troviamo il corpo dell’adolescente Sapienza, già antifascista e impegnata nelle lotte dei genitori e dei fratelli e delle sorelle, ma anche grande amante del cinema e della sua vita libera; il corpo di Sapienza non ancora maggiorenne che prende un treno con la madre, Maria Giudice, alla volta di Roma dove ha vinto una borsa di studio per studiare all’Accademia di Arte Drammatica; il corpo che studia e che cambia per divenire attoriale, che piega sé stesso alle leggi del palco; un corpo sotto falso nome come staffetta partigiana in una Roma devastata dalla guerra; un corpo riconosciuto e riconoscibile negli anni ’50 come attrice affermata; un corpo che si inceppa, si spezza: è il corpo della depressione, non più un corpo memoria ma un corpo custode del passato, non più un contenitore dei ricordi,  ma con delle crepe da cui fuoriescono parti di memoria. Che cosa può spezzare, crepare, un corpo così allenato a custodire memorie?

Qui entra in campo un altro corpo, quello di Maria Giudice, la madre di Sapienza, un corpo che viene sepolto, nel ’52, dopo che per quasi tutta vita è stato a contatto con quello di Goliarda. Negli ultimi mesi di vita di Maria è Goliarda ad accudirne il corpo, possente un tempo e ora tornato bambina. Maria muore in casa. Goliarda e Maria sono sole in casa. L’indomani un funerale modesto, seppur in presenza di vecchi compagni, come Pertini e Saragat. Dopo il funerale Goliarda torna sola. Nella casa non c’è più il corpo memoria di Maria, il talismano di presente e futuro. Prima erano due corpi, due memorie spesso comuni. Ora al rientro il corpo è uno. E Goliarda lo scrive. Scrive il corpo mancante. Come dice un verso di Attilio Bertolucci “Assenza più acuta presenza”. Lo scrive. Lo scrive in versi. È la sua prima poesia, dal titolo “A mia madre”.

La morte di Maria apre una crepa, allarga una crepa, dentro la quale si inseriscono molte cose. E Goliarda scrive. Le prime cose che si inseriscono nelle crepe sono circa duecento poesie che scrive una dopo l’altra dopo “A mia madre”: le scrive, compone una raccolta, la intitola, siamo nel ’53, cerca di pubblicarla. Nessuno la pubblica. Ancestrale è il titolo, è il suo corpo parola, la sua memoria poetica. Finisce in un baule. Con tutti gli scritti che nessuno ha voluto pubblicare.

Il corpo di Goliarda è ora un corpo al buio. Dov’è: lo ritroviamo in ospedale dopo un tentativo di suicidio – ma lei dirà solo che voleva dormire-; lo troviamo squassato dagli elettroshock, scosso dalla terapia psicanalitica e da un altro tentativo di suicidio. La memoria è frantumata, scomposta, scardinata. La depressione occupa tutti gli spazi. Il corpo da amuleto e tempio diviene un qualcosa di lasciato sul divano al buio, un contenitore vuoto.

“Discernere nel cadere”. È un suo verso. È nella raccolta Ancestrale, che in questo momento giace in un baule. E mentre il suo corpo si sfalda così come la sua memoria, mentre cade, lei discerne. E mentre cade vede, comprende, che l’unica cosa che può ridarle la memoria, il suo corpo amuleto, la gioia di narrare e dunque vivere, è la scrittura. Inizia, in tal modo, un lavoro di ricostruzione di sé attraverso la scrittura, la ricostruzione della memoria attraverso il corpo e l’atto dello scrivere.

La sua vita diviene scrittura e con la scrittura ecco altri corpi. Qui giunge un altro corpo, dopo quello di Maria e quello di Goliarda, quello di Modesta. Un corpo che dapprincipio è solo immagine, presenza, vicinanza, e determina la svolta.

Goliarda capisce che l’unica strada per ricostruire la sua memoria e il suo passato, la sua storia, è scrivere, scrivere Modesta, di Modesta, con Modesta. Abbandona la sua vita di prima per vivere di scrittura, per scrivere di Modesta.

Il corpo di Goliarda diviene in tal modo custode di memorie vecchie e nuove. Diviene corpo di nuotatrice e tuffatrice a Gaeta, di donna che scrive. Che scrive di Modesta.

E Modesta prende corpo, prende forma, addirittura cresce e inizia ad avere lei stessa delle memorie, senza peraltro che il suo corpo venga mai descritto. Modesta diviene addirittura, ai giorni d’oggi, corpo filmico.

Sapienza nella sua scelta di vivere di scrittura scrive per sette anni L’arte della gioia, due anni di revisione, e altri anni in cerca di un editore che non troverà. Modesta, la sua figlia corpo di carta, finisce nel baule con tutte le altre parole scritte. Modesta non vede la luce.

Il corpo di Goliarda diviene, negli ultimi anni, anche un corpo recluso, incarcerato, dietro le sbarre, da punire. Ma il corpo di Goliarda ne esce forte nelle sue suture e nella sua accoglienza, accoglie in sé tutti i corpi reclusi che incontra divenendone custode e memoria.

Dopo molti anni – la vicenda è nota – dopo la morte di Goliarda e il suo corpo memoria sepolto, Modesta vede la luce: viene pubblicata, tradotta in molte lingue, letta in molto paesi. Il corpo di carta ha visto la luce e questo corpo di carta contiene molti altri corpi a loro volta contenitori di corpi: Modesta contiene il corpo di Goliarda, che in lei si è travasata, e contiene il corpo di Maria.

Modesta è il corpo memoria testimone, Modesta vive nel suo corpo di carta e viaggia in treni, aerei, macchine, vive in case, librerie e biblioteche in tutto il mondo sotto gli occhi di lettrici e lettori appassionati che a ogni voltar di pagina le danno ossigeno.
Il secondo centenario di Goliarda Sapienza sono Maria, Goliarda e Modesta che ora fanno parte della nostra memoria di lettrici e di lettori, del nostro corpo, del futuro.

Questo testo nasce dall’illuminante richiesta e dal gentile invito di Archivio Aperto e di Giulia Simi di inserire Goliarda Sapienza nell’edizione 2024 del Festival dal titolo The art of Memory.
https://www.archivioaperto.it/

Quando finirà la notte?

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Nota al cuore
di
Francesco Forlani

“Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce.”
Così Matteo racconta della metamorfosi del Cristo (trasfigurazione) che si raccomanda con i tre apostoli di non dire nulla di quanto appena successo e a cui loro avevano assistito.
Nei passati giorni di passioni, processioni, ceneri, costati aperti e crocifissioni, e convivi, incontri del passato, del non più presente, turbamenti dell’inimicizia, di passeggiare come andare a zonzo per le strade della tua città, delle tue strade, dove insieme ai ricordi appare il male di vivere dalla parola imbronciata di sottobosco, sottopopolo, facciate inermi di palazzi abbandonati- questa è Caserta, e altro che consiglio comunale sciolto per camorra, qui tutta la città dovrebbe sciogliersi, fondersi, sparire e trasfigurata riapparire- ho ripensato al Raffaello Sanzio e al suo dipinto.
Nietzsche ne era appassionato al punto di scriverne:
“La metà inferiore, con il ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: l’illusione è qui un riflesso dell’eterno contrasto, del padre delle cose. Da quest’illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo mondo illusorio, simile a una visione in cui quelli dominati dalla prima illusione non vedono niente. Un luminoso fluttuare in purissima delizia e in un’intuizione priva di dolore, raggiante da occhi lontani. Qui abbiamo davanti ai nostri occhi, per un altissimo simbolismo artistico, quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza del Sileno e comprendiamo per intuizione la loro reciproca necessità. Con gesti sublimi [Apollo] ci mostra come tutto il mondo dell’affanno, [la metà inferiore del dipinto con l’ossesso], sia necessario, perché da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice e poi, sprofondando nella contemplazione di essa, possa sedersi tranquillo nella sua barca oscillante, in mezzo al mare”.
Poi nel mio pellegrinare in solitaria ho incrociato sulla strada del rientro da mia sorella, la persona più mite del mondo che è anche il nostro cardiologo di famiglia. Ha nel nome, Cardillo, la parola cuore, però anche volo d’uccello, estasi ortesiana.
Sorpreso dall’inatteso incontro nell’ora d’aria e di crepuscolo mi diceva del bene che fa camminare da soli. Io della visita medica annuale appena fatta a Saragozza con il responso che pareva un avviso di garanzia per gli alti valori alcolici.  E ho condiviso con lui questa storia che stava facendosi racconto nella mente, questa nota che tu lettore hai appena sfogliato, della trasfigurazione, del pensiero a voce alta che mi aveva fatto compagnia lungo il lungo tratto dello stradone che costeggia tutto il parco della Reggia e la sua natura, viva, forestale oltre le sbarre delle inferriate.
E ho concluso dicendogli semplicemente che da non credente preferivo di gran lunga la trasfigurazione alla resurrezione, perché parlava di un risorgere da vivi e non da morti. Un’ esperienza che conosce bene chi sia stato, anche per un solo istante, veramente felice.

 

I sogni non parlano se li svegli – Alba Metaponte

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Tre poesie di Alba Metaponte dal libro

“I sogni non parlano se li svegli” (Edizioni Progetto Cultura, 2025)

 

Princìpi, precetti e regole

Io e mio padre arrivammo dal dottore. La sala d’aspetto era stracolma di gente. Non ci
sedemmo, ci sembrò superfluo. Se avessimo occupato altre due sedie, la nostra attesa si sarebbe prolungata. L’ergonomia ha fatto passi da gigante e il comfort delle sedute ci avrebbe procurato uno stato di relax eccessivo. Decidemmo entrambi di rimanere
protesi verso l’alto con il corpo eretto e gli occhi puntati al soffitto squamoso, un mostro di lana di vetro che raccontava con garbo, quasi in silenzio, tutti i discorsi assorbiti dalle pareti. Mio padre camminava avanti e indietro calpestando sempre le stesse mattonelle con un rituale antipatico. Io per conto mio tenevo la nuca al sole. Le entrate e i corridoi con molto traffico pedonale avevano semafori immaginari per evitare che le persone cozzassero in un calpestio senza sosta. La gente con problemi oculistici, vedeva solo il verde. Mi misi a contare i passi delle scarpe che uscivano, entravano e viceversa. La vita è piena di meraviglie come questa, la matematica dei passi. Le scarpe non lasciavano impronte, ma da una suola guizzarono esseri ricurvi a forma di cilindro o rotondi.
Alcuni disposti a cubo con colorazione di invertebrati marini. Correvano velocissimi in
tutte le direzioni lasciando una scia appiccicosa e multiforme. Una coppia formò una
pappetta grigia nel giunto aperto di un pavimento, si dibatteva e sembrava soffocare.
Non c’era ossigeno, solo frecce direzionali. Una si staccò, strisciò faticosamente
e finalmente si infilò nel taschino della giacca dell’infettivologo, salì pian piano per il
pomo d’adamo come scalando una montagna, ansimando plasticamente. Si fece
coraggio e con la leggerezza di un atleta si lanciò tra le fessure rosate dell’ugola. Il
medico ci chiamò per entrare.

 

Il mago

Il mago viveva in profonda solitudine, usciva solo per comperare cibo e rientrava
correndo per una strada decorata con docili alberi azzurri. A volte dimenticava qualcosa, ma non tornava mai indietro. Si vergognava molto della sua faccia da formichiere, per questo usciva con un mantello nero per nascondere il suo volto. Nessuno vide mai la sua faccia. Solo gli servivano gli occhi per non perdere la rotta. Le sue pupille si allargavano o si riducevano secondo le stagioni. La sua vita era una sequenza di colpi di scena, una liturgia senza regole che mutava in ogni istante adornata di candelabri, scritture sacre e varie decorazioni.
Il mago solo voleva essere mago e niente di più, però non confezionava figure di fumo
per chiunque, né faceva incantesimi per domare dragoni, e nemmeno innamorava
le api che gli pungevano il volto. Girava e rigirava fino a puntare la direzione opposta.
Il cappello gli rubava il giorno come un ladro, e lì solo appariva la sua notte, la sua
compagna con denti stellati, il suo nido affamato di buio. E mentre la luna ululava
ai lupi, lui faceva copie di se stesso.

 

Morte di un tasso

Giacevi dietro un sipario di asfalto, il tuo corpo era così pesante come imbottito di paura per qualcosa che non conoscevi. Macabra la primavera ti portava un feretro per il suo debutto. La morte è incantevole dicevano i corvi. “É laggiù, lo hanno lasciato sulla
strada”. Il silenzio non rispondeva e io neppure. Le voci non si fermarono: “É
circondato di formiche che accarezzano la sua immobilità, guardano le sue mani distese come croci, lo hanno lasciato solo come se non fosse mai nato”. La terra era imbevuta della stessa aura funesta che ricopriva la porta e le pareti della luna. La norte quel giorno cercava una forma per disegnare la sua immagine e la trovò nel tuo
mimetismo, nella tua intelligenza di architetto delle tenebre, nelle cavità del terreno, nel pianto dei tuoi fratelli. Sei diventato così piccolo come una goccia di sangue e le
mosche ballano davanti la tua bara di viaggiatore notturno. La notte come un sicario ti
fermò di colpo mentre con i tuoi piccoli passi di orso uscivi tra le ombre del mais a
cercare la tua libertà. Ascolta come si mescolano nel campo i venti, come piangono gli
uccelli verso il nulla creatore. La tua morte spaventò gli angeli che dormivano nella terra, sotto i tuoi corridoi di cieco, dove adesso le farfalle seminano vermi in un luogo
disabitato. Sotto il tuo corpo emerse la mia mano, ti ho guardato per un istante che
furono mille e le mie lacrime ardenti hanno bagnato il tuo corpo freddo, non ti
abbandonerò con questa cenere di ortica nel petto, con questo inganno dell’oblio.
Lascerò che i tuoi passi si propaghino nel ventre della terra, che spargano le tue radici, e aspetterò la prossima primavera per incontrarti nel fulgore di un fiore bianco di ciliegio, lo stesso fiore che ti ho lasciato un giorno di aprile imbevuta di pioggia e di lacrime.

 

 

 

 ———

Alba Metaponte è nata in Calabria e ha vissuto a Bologna, Roma, Santiago del Cile.  Ha tradotto importanti poeti latinoamericani tra i quali risaltano i cileni Vicente Huidobro, Pablo Neruda, Nicanor Parra, Oscar Hahn e Jaime Huenún; le argentine Alejandra Pizarnik e Olga Orozco; la uruguaiana Marosa Di Giorgio; la peruviana Blanca Varela, la messicana Rosario Castellanos, e molti altri.

Il rituale servile

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di Paolo Morelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tempo fa dovevo recensire un libro dedicato a un sopravvissuto alla deportazione dal ghetto romano e alla Shoah. Lo presentavano al centro culturale annesso al Tempio Maggiore, lucente quel giorno più che mai, affacciato sul lungotevere. Un passo dopo i dispositivi di sicurezza sono stato accolto da sguardi interessati, intensi, anche cattivi, prima di tutto erano a casa loro, dicevano, e potevano seguirmi per tutto il percorso, anzi, almeno due di quegli sguardi, giovani, scuri, pressanti, si sono presi cura di me per tutto il tempo che sono stato lì a prendere appunti, quasi sentivo alla nuca il disappunto per non sapere le parole scritte. Solo dopo, alla fermata dell’autobus per tornare a casa, ho capito cosa volevano o sentivano quegli occhi: non li odiavo, neanche un po’, nemmeno nei fondi recessi, e questo veniva preso con estremo sospetto. Purtroppo da sempre sono uno che ha le cose scritte in faccia, ho pensato, si vede che hanno letto che odio la sopraffazione in maniera nevrotica, dei potenti sempre e prima di tutto, e l’impunità di chiunque, perfino la mia, fino allo schifo e alla pena la odio, e ci sto male poi da una vita per l’infamia di chi si crede vivo se straripa nell’ignoranza di sé e del mondo nel quale esiste o bene o male, quando si lascia abbindolare dalle formule e i rituali della vendetta infliggendo sofferenza, disgrazie e morte agli inermi, perpetrate senza scrupoli, quando abiura alla propria dignità e al suo ruolo intenso di vivente senza provare almeno uno scatto isterico di resistenza. Perché, dunque, non li odiavo?, questo dicevano quegli occhi, due avevo fatto a tempo a fissarli per un momento prima di uscire, un attimo solo perché non si insospettissero di più. Ma bastava, quell’attimo. Perché non li odiavo per niente quegli occhi, sebbene antipatici, se erano di chi si crede appartenente a coloro che stanno dando al mondo un esempio micidiale, forse esiziale? Di chi fa differenza tra le ossa dei morti per fame? Come tutti, quando crediamo di diventare più cattivi perché così bisogna fare, perché è giusto e necessario così ci dicono, e invece diventiamo solo più servi ancora; come uno che è caduto in una trappola e invita gli altri a venire avanti sperando che cadano anche loro, quegli occhi cercavano l’odio che non ci sarà mai e anzi lo pretendevano con arroganza. Io resto banale e non ci credo che uno Stato, qualsiasi esso sia, rappresenti una razza, un’etnia, peggio che mai un Dio o una religione, anzi nemmeno credo sia nel mio nome lo Stato, e finché vivo è sicuro almeno che nessuno riuscirà a farmici credere, nemmeno con la tortura di vedere occhi giovani accecati da un odio per procura, per delusione, per subdolo avvilimento dell’umanità. E che dopo, forse persino stavolta, diranno che non ne sapevano niente.

(NdR: la fotografia è di Hosny Salah, pixabay)

 

Ciò che resta o del verificare

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di Samir Galal Mohamed

KHALIL RABAH, Palestine (1961)

La comunicazione digitale è semplicemente ripugnante, inutile, narcisistica.

Comporta una vergognosa o scarsa dose di autostima. Risiedono qui le cause delle polarizzazioni: nelle sproporzioni. Come scrittore, visualizzo l’asimmetria tra le parole disponibili (reperibili, repertabili) e quelle impossibili da registrare senza risultare offensivo e ridicolo. Ma è tutto nelle cose, si dice – le giustificazioni –, anche questo:

«Io sono R., ventuno anni, del nord di Gaza. Vivo con la mia famiglia. Mio padre è un martire. Salvate la mia famiglia e me».

La biografia di un profilo virtuale, una vita tra le oltre 2 milioni di altre su una superficie di 365 km². Meno di 150 caratteri. È verificabile. Anche quello che dice lo è, o lo è già stato. Verificato. Che si sia verificato davvero, non ha giustificazioni.

Pesche e mandarini

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Foto di zullusim da Pixabay

di Isabella Ballarini

Là in fondo, sotto quella tettoia, c’era un chiosco che vendeva pesche e mandarini.

Non insieme, ovvio: pesche d’estate, mandarini d’inverno.

Se ne stava là da così tanto tempo, dannato cumulo d’immondizia, che nessuno ricordava più quando fosse apparso per la prima volta: un secolo fa? Di più?

Difficile dirlo: il chiosco non parlava. Chiunque gli passasse davanti percepiva il peso del suo silenzio e basta. Non aveva rabbia: accettava anche la più brutta delle cose senza fiatare, stupido banchetto di legno e segatura, con la bilancia piena di ruggine, la frutta posata sul piano. Lo si poteva ignorare, maledire. Non reagiva, non fiatava e il tempo gli passava accanto senza colpirlo.

Da bambino lo fissavo con curiosità. Mi voltavo verso il banco e piegavo le labbra: il piano era scrostato, le assi parevano marce. La frutta dava l’idea di essere andata a male.

A me non interessavano le pesche. E neanche i mandarini.

Non potevano competere con gelati, merendine e gomme da masticare. Pesche. Piramidi di pesche: troppo mature, troppo acerbe, piccole come una noce. Ricoperte di peli, schiacciate sul banco. Sulla buccia, i colpi della grandine. E mandarini: bitorzoluti, pieni di succo e ossa da sputare. L’odore intenso penetrava ogni pietra. Molti ricordano soprattutto quello. L’odore. Si incollava ai cappotti e non se ne andava più. Lo si portava via coi vestiti, con le scarpe, fin dentro le case.

Anch’io ho memoria di quel profumo. Era così forte che nemmeno i gas di scarico lo coprivano: io sgommavo con lo scooter e l’odore era là, nell’aria, nelle narici. Impennavo, per far vedere al chiosco quant’era bello avere sedici anni. E il chiosco nulla, immobile, ogni giorno più vizzo.

Sembrava guardarmi, però. Il giorno in cui iniziai a fumare, lo feci davanti al chiosco. Soffiai il fumo sulla frutta piena di vermi e scoppiai a ridere. Credi di farmi paura? dissi.

Sorgevano case belle, là intorno. Grattacieli, ville. Il chiosco se ne stava immobile nello stesso posto di sempre, ingoiato dal cemento. Io ero di fretta, gli occhi fissi sull’orologio.

Il chiosco camminava al mio fianco. Era là, il giorno del mio matrimonio. Avvolto nel silenzio, incastrato nel solito angolo. Attraversava il tempo senza che mi accorgessi della sua presenza.

Quando nacque mio figlio, era con me. Fermo, traslucido. Si nascondeva nelle piccole cose: nelle spaccature del muro, nelle venature del legno. Sembrava appartenere a un tempo che non era il mio.

Eppure era costante nella mia vita. Quando fondai la ditta, era là. Vide le mie speranze e le mie illusioni. Era accanto a me nei momenti felici, durante il buio. Quando litigai per strada con mia moglie, c’era. Muto e slavato, zitto. Con i palazzi che lo ingoiavano, che non gli lasciavano nemmeno una falce di luce. Mi vide passeggiare con l’altra. Fermo, con la sua frutta terribile sul piano. Cosa pensava, in quel momento sospeso? Non l’avrei saputo. Il chiosco non parlava. Restava immobile, a osservare in silenzio la mia vita. E il tempo passava e lui non si muoveva. Quando firmai le carte di divorzio, c’era. Lacrime e paura e dubbi: lui era con me. Vide il mio successo, la mia crescita infinita. Mi guardò licenziare brava gente, col cuore pieno di fango. Non c’era biasimo, nelle sue vecchie assi. Solo silenzio e frutta ammassata sul banco. Era accanto a me, quando mi innamorai di Lei. Giovane, bella. Ti lascerà, sembrava dire. Io lo guardavo marcire come tutte le cose vecchie. Lo ignoravo, sperando che un giorno il suo sguardo si posasse da un’altra parte. Ma il chiosco non se ne andava: legno scheggiato; pesche e mandarini a cataste, pieni di mistero. Quando sposai Lei, era con me. Piccolo. Vecchio. Sembrava restringersi, tanto era minuscolo. Il giorno in cui mi sentii male, c’era. Ulcera, si disse. Stress che mi perforava lo stomaco. Sputavo sangue e il chiosco era al mio fianco. Cosa vedeva, nel cuore reso duro dagli anni? Soddisfazione? Rimpianto? Impossibile saperlo. Il chiosco non giudicava. Lasciava che ogni cosa attraversasse la mia anima senza fare nulla. Mio figlio smise di cercarmi e lui c’era. Lei se ne andò e lui era là. Brutale. Eterno. Era nato per morire e non moriva. La sua lurida bontà usciva dalle assi. Sanguinava miele. E la ditta perdeva clienti e io non respiravo più. E il chiosco mi guardava. Pura indifferenza fatta di legno e spirito. Non mi dava nemmeno la soddisfazione dell’odio. Se almeno mi avesse detestato, avrei avuto un nemico da combattere. Invece il chiosco mi lasciava da solo davanti all’abisso.

Muori, dissi un giorno, sottovoce. Il chiosco non rispose.

E arrivò il tempo della fine. C’era il sole, quello strano pomeriggio. Lo ricordo a malapena, come se nella testa avessi la memoria di qualcun altro. Camminavo male, appoggiavo di continuo una mano contro il muro. Si sente bene? chiese qualcuno. Feci cenno di non preoccuparsi per me.

Andai verso il bar: i tavolini all’aperto erano pieni di gente. Io mi feci largo tra cappuccini e caffè, muovendomi come il vecchio che mi rifiutavo di essere. Tutti mi guardavano con curiosità: tremavo parecchio, le mani facevano fatica a stare ferme. Raggiunsi un tavolo, afferrai una sedia.

C’era un ronzio potente, nella mia testa, come se il cranio fosse pieno di mosche.

Mi avvicinai al chiosco barcollando sui piedi stanchi. Nessuno provò a fermarmi: tutti mi osservavano da lontano, immobili come pezzi di pietra. Io alzai la sedia fin sopra la testa.

Eppure sarebbe bastata una parola, una sola parola. Avevo bisogno che il chiosco mi parlasse.

Lui non fece nulla. Non aveva paura di morire, maledetto. Aveva vissuto abbastanza, aveva visto abbastanza. E ora sembrava ridere, tanto era pieno di silenzio e frutta.

Colpii il banco con la sedia. Le pesche volarono in aria. I mandarini rotolarono giù. Che stagione era? Pesche e mandarini insieme non si erano mai visti. Colpii. Frutta per terra, sul marciapiede, fin dentro il canale di scolo. Spaccai le vecchie assi: cedettero come ossa stanche. La tenda si strappò in più punti: i brandelli volarono nel vento caldo. Si fermi, gridarono in molti. Io colpivo. Ancora. E ancora. Legno, schegge, frutta. Tutto per aria, tutto in frantumi. Basta, sentii gridare.

Delle mani bloccarono il mio braccio: in molti intervennero per fermarmi. Mi tolsero la sedia dalle mani. Mi costrinsero ad allontanarmi. È malato, sentii dire, è matto. Mi lasciai guidare verso uno sgabello, docile come non ero mai stato. Si sieda, dissero.

Qualcuno mi portò un bicchiere d’acqua. Qualcun altro chiamò le forze dell’ordine.

Io rimasi lì, con le le labbra aperte. E con uno squarcio giù, fin nel fondo dell’anima.

Da “Una storia di sparizione”

1

[Capovolte è una piccola casa editrice indipendente, nata nel 2019 con l’obiettivo di offrire una prospettiva di genere intersezionale, su tematiche di attualità e un focus sui femminismi neri. Pubblica prevalentemente saggistica, ma nel 2022 ha aperto una piccola collana di narrativa e poesia (LA PO’ RA – anagramma di “parola” – LAtitudini, la POesia non è un lusso, RAccontarsi), in cui pubblica opere di autrici in diaspora, in italiano o in traduzione. Tra le autrici pubblicate in quest’ultima collana, le brasiliane Djamila Ribeiro, Conceição Evaristo, la poeta italo-somala Rahma Nur, l’autrice luso-angolana Yara Nakahanda Monteiro, la poeta congolese Sarah Lubala e l’autrice italo-marocchina Amal Oursana.]

di Sarah Lubala

Traduzione di Gaia Resta

 

La litania di Maria

Stanno dipingendo le pareti della Collégiale Notre-Dame-des-Anges;
all’interno, 122 angeli dorati accompagnano la Vergine Maria al cielo.
Mentre il crepuscolo sanguina lentamente,
rimango sotto il suo tetto malandato,
sempre più vicina,
sempre più vicina.

Madre,
concedimi una lingua segreta che sia tutta nostra.
Dirò nevicata nella Old Québec e tu saprai cosa intendo:
l’uomo che mi ha trovata nell’oscurità,
il tramonto che si tramutava in tremolio,
i mesi che mi hanno frantumato le ossa.

Nostra Signora delle Sale d’Attesa,
ho vissuto trent’anni nel terrore della forca,
toccata da Dio o dall’amore o dalla pazzia, dipende.
Sono un’orfana della domenica,
figlia del Regno Fantasma,
imploro miele dalla roccia.

Disfattrice di Nodi,
sciogli le pillole segrete nei miei denti,
la buona medicina del significato,
dammi le parole che sono Dio
quando non posso vedere Dio.

*

Una storia di sparizione

Ci sono giorni
ai quali non possiamo tornare –
l’estate in cui il fiume si prosciugò,
una fila di jacarande bianche,
la bocca di marzo
graffiata dalla nostalgia.

Che sciocchi siamo stati
a rifiutare la nostra eredità;
la lunga corda degli uomini nel nostro sangue,
la debolezza dei nostri padri.

Come rubano i giorni tutto ciò che possono;
lo spazio tra i miei denti,
l’umorismo di mia madre,
volumi interi di poesie.

Tu
che chiedi troppo,
che mangi l’aria –
richiama i tuoi cani,
lasciami dormire

*

Canzone per la partenza

in memoria della mia bisnonna

Le mucche stanno morendo nei campi, kokolo;
niente carne quest’estate,
lei viene venduta a un vecchio capo, kokolo;
dalle sue gambe un canto di acqua e sangue.

Lei seppellisce due bambini, kokolo;
due fagotti avvolti nella mussola bianca,
il sudario si impiglia nel cespuglio di rovi, kokolo;
nessuno, solo Dio può ricucire lo strappo.

Lei ripensa a sua madre, kokolo;
ricorda le sue mani ossa d’uccello,
che scavavano sconvolte dalla fame, kokolo;
la terra non ha mai reso.

Queste sono fila di manghi selvatici, kokolo;
le attraversa toccandole con mani e ginocchia,
la notte diventa un canto, kokolo;
nulla può più spaventarla.

*

Febbre

In una stanza d’albergo a Bali
disperdo elettricità,
il farmaco, per un effetto strano, si tende e si incendia,
si infiamma contro di me.

Anche la lingua è un fuoco;
attraverso i denti lenti dell’anno
tutti i giorni della mia vita parlano contro di me.
Guarda il fuoco che mangia il fuoco.
Guarda mentre dà fuoco all’intero corso di una vita,
ed esso stesso viene incendiato dall’inferno.

Dico Walungu, Okapi,
Le Grand Boulevard
Ripercorro il vecchio quartiere:
cerco le donne agli angoli delle strade,
le barche a Maluku,
mi libero dell’erba alta –
lepre luminosa nel fumo della boscaglia.

Sul pavimento piastrellato del bagno,
chiamo un caro amico:
«Sogno fiumi», dico.
«E il fischio acuto delle quaglie blu».

Continuo a vedere mia madre;
è più giovane ora,
il suo corpo arenato su quello di mio fratello.
Lui ha soltanto quattro anni, la febbre lo sconquassa.
Lei supplica la memoria di sua madre.

Come muoiono gli incendi?
Arriviamo alla fine
e invochiamo l’inizio, urlando.

*

Domande che potresti sentire durante un colloquio per la richiesta di asilo

Da dove sei arrivata?

Pensa a un Paese,
smaltato di verde lussureggiante e incontaminato.
Ora immagina che tu abbia la forma di quel Paese,
la lunghezza del tuo corpo
il sogno di un uomo affamato.

Chi ti ha fatto del male o ti ha fatto temere di riceverne?

Là fuori,
il terrore cammina nella pelle degli uomini.
Sciacalli alla porta,
notti lunghe e un bisogno tenace,
il tanfo dei vicoli in ogni letto.

Perché ti hanno fatto del male?

Nessuna donna appartiene a se stessa,
sei una cosa presa in prestito –
oro per il corredo,
stralcio di canzone del fiume,
lo scialle consunto e sottile,
a digiuno sotto i loro sguardi.

Hai paura di tornare nel tuo Paese di origine?

La libertà è il tuo cuore nel vuoto della notte.
Prego di svegliarmi come un uccello;
un canto di tendini e piume,
con ali luminose e senza confini,
liberata da Dio.

 

* * *

The Litany of Mary

They’re painting the walls of the Collégiale Notre-Dame-des-Anges;

inside, 122 gold angels usher the Virgin Mary forward.

In the slow bleed of dusk

I stand below its battered awning,

ever closer,

ever closer.

 

Mother,

grant me a secret language that is all our own.

I’ll say snowfall in Old Quebec, and you’ll know that I mean:

the man who found me in the dark,

twilight turned to trembling,

the months that ground my bones.

 

Our Lady of the Waiting Rooms,

I have lived thirty years gallows-scared,

touched by God or love or madness, depending.

I am a Sunday orphan,

child of the Ghost Kingdom,

begging honey from the rock.

 

Undoer of Knots,

loosen the secret pills inside my teeth,

the good medicine of meaning,

give me the words that are God

when I cannot see God.

*

A History of Disappearance

There are days

we can’t go back to –

the summer the river ran dry,

a row of white jacaranda,

the mouth of March

bruised with longing.

 

How foolish we were

to refuse our inheritance;

the long rope of men in our blood,

our fathers’ weaknesses.

 

How the days steal all they can;

the gap in my teeth,

my mother’s humour,

whole volumes of poetry.

 

You

who asks too much,

who eats the air —

call off your dogs,

let me sleep

*

A Leaving Song

in memory of my great grandmother

The cows are dying in the fields, kokolo;

there is no meat this summer,

she is sold to an old chief, kokolo;

her legs sing blood and water.

 

She buries two babies, kokolo;

two bundles in white muslin,

the shroud is caught in the thorn bush, kokolo;

none but God can mend the tear.

 

She remembers her own mother, kokolo;

she recalls her bird-bone hands,

they dug in wild hunger, kokolo;

the earth never did yield.

 

There are rows of wild mangos, kokolo;

she moves hands and knees between them,

the night becomes the singing, kokolo;

nothing scares her anymore.

*

Fever

In a Bali hotel room

I shed electricity,

some quirk of the medication tends and stokes,

kindles against me.

 

The tongue is also a fire;

through the year’s slow teeth

all the days of my life speak against me.

See fire eat fire.

See it set the whole course of a life on fire,

and itself set on fire by hell.

 

I’ll say Walungu, Okapi,

Le Grand Boulevard . . .

Trace the old neighbourhood:

reach for the women on street corners,

the boats at Maluku,

slip the high grasses –

bright hare in the brush smoke.

 

On the bathroom’s tiled floor,

I reach a dear friend:

«I’m dreaming of rivers,» I say.

«And the high whistle of blue quails.»

*

Questions you are Likely to Hear in an Asylum Interview

Where have you come from?

 

Think of a country,

lush-glazed and untouched.

Now imagine yours is the shape of that country,

the length of your body

a hungry man’s dream.

 

Who harmed you or put you in fear of harm?

 

Out there,

terrors walk in men’s skins.

Jackals at the door,

long nights and dogged need,

the stench of back roads in every bed.

 

Why did they harm you?

 

No woman belongs to herself,

you are a borrowed thing –

gold for the dowry,

snatch of river-song,

the shawl worn thin,

fasting within their sights.

 

Mortacci mia

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© Doris Salcedo © Foto: Sergio Clavijo

di Piero Salabè

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo di Piero Salabè, “Mortacci mia”, La Nave di Teseo 2025

Colui che da giovane si era infervorato per il sacro fuoco della ricerca, non credeva più a nulla. Quella vita avvampata negli anni della passione, amore o scienza che fossero, ormai non gli apparteneva più. Aveva visto gli uomini come sono, non c’erano sorprese da attendersi. Era diventato difficile farlo uscire di casa, rinunciava alle proposte culturali, adducendo emicranie. Meglio, invece, le proposte culinarie. Adorava le ciliegie, ce n’era sempre una scodella in cucina, ed era particolarmente goloso del gelato al cocomero che andavamo a prendere a Corso Trieste nelle serate di giugno. Si sbrodolava come un bambino e mia madre lo rimproverava. Il gusto di quel mondo era inequivocabile, la fresca fragranza della frutta che si scioglieva in bocca senza essere interrogata. Di tutto il resto, i cosiddetti ideali, invece meglio tacere. Gli sembravano inafferrabili, falsi, fraudolenti. Non voleva parlarne con i figli per non influenzarli con il suo pessimismo. A volte lo spaventava scoprire nei loro sguardi una vena di risentimento: “Siamo così perché tu sei così.” Quel senso di colpa era alleviato dalla negligenza e dall’egoismo dei figli che in certi momenti riconosceva lucidamente. Sì, anche loro erano come gli altri, volubili ed egoisti. Anch’io, il letterato, che mi ripresentavo dopo mesi di assenze e telefonate poco affettuose, con iniziative riparatrici che di solito declinava: andare a un museo, al cinema. Ero orgoglioso di mostrargli certi interessi presi da lui, ma il mio entusiasmo si arenava contro l’abulia di chi aveva smesso di interessarsi delle cose. Lo volevo coinvolgere nelle questioni che mi agitavano, confidando in un focolaio ancora vivo del suo spirito. Provai a discutere con lui di Buñuel, del coltello a forma di croce in Viridiana, del rapporto fra eros e agape, ma lui faceva finta di non capire, “Sono troppo stupido per queste cose”. Una sera gli proposi di andare a vedere un film di Kiarostami. Pensavo che vedendo le insegne nell’alfabeto arabo, sentendo una lingua sconosciuta sarebbe scattata una molla in lui. Poco dopo l’inizio, mentre sullo schermo scorreva l’infinito viaggio in macchina dell’aspirante suicida per le polverose strade di Teheran, mio padre si era addormentato. Non c’era modo di risvegliarlo, e restai da solo a misurarmi con l’angoscia del personaggio che aveva già scavato la propria fossa. Dopo quella serata per me fu chiaro che con lui non ci sarebbero più state discussioni sul senso della vita, su “essere o non essere”: il sapore delle ciliegie, che nel film aveva convinto il protagonista a non togliersi più la vita accettandone la bellezza, non poteva più trasformare i giorni di mio padre, ma solo incatenarli a nuovi giorni. A me, invece, rimase una scodella colma di domande, tutte per me.

Anche Ostia, la nostra brutta e squallida Ostia, con le sue spiagge di sabbia nera, offre le dune a chi ha voglia di spostarsi verso i cancelli. Tutti al mare, a mostrà le chiappe chiare. Adesso però Ostia s’è rifatta, più squallida ancora, nessun grattacheccaro, ma solo ciofeche e discoteche. È lì che torneremo, Aič, sul litorale disprezzato e deprezzato, a noi basteranno quei pochi metri di sabbia, non potranno toglierci l’accesso al mare. Saliremo sul bus alla fermata Cristoforo Colombo, quello che non parte mai, e non importa se siamo senza biglietto, perché i controllori oggi portano le pinne, non uno che in trent’anni di carriera sia riuscito a fare una multa. Roma zozzona che tutto perdona. E poi cammineremo lungo il litorale, là dove ci sono i grandi di arbusti di pitosforo: se affondiamo il viso in quei cespugli potremo trovare tutte le cose perse, il campanello di ottone, il singhiozzo prima di dormire, il polso dell’orologio, Ali Agca e il coniglio mannaro, i petardi mai scoppiati, il grido di mamma, il fumo dietro cui lui traspare, le pesche della nonna che marciscono sul campo di bocce, le api dell’invisibile, l’alito di menta di zio Antonino, il borotalco della nonna, il tuffo di papà nel mare senza mai voltarsi, il primo pisello illuminato da una torcia, la sorca e le sise, il criceto suicida, il palo fatto con i maglioni, li porteremo in spiaggia Aič, faremo un gran mucchio accanto alla buca, ma prima ci tireremo l’un l’altro le bacche, perché sarà l’estate che non finisce, sarà come tutte le estati, il tempo incantato del corpo e della pelle, del sapore e del fiore, il tempo non esiste Aič, siamo noi così strampalati a fare susseguire le cose, noi eterni, eternamente incapaci di eternità, ma lasciaci provare, eccoci, ci siamo, scava qui Aič, la sabbia è un po’ meno acquosa, adesso gli facciamo una cella enorme, cosa mi dici Aič, che non sono aquiloni quelli lì in cielo, che la tela ocra che sventola è il Policlinico, un’astronave in miniatura che adesso vola via perché si è strappato il filo, quell’altro aquilone invece che resiste è la nostra casa, il labirinto di quindici stanze, tieni bene i fili altrimenti tutto cade, il tavolo apparecchiato, il servizio della nonna, la porta di servizio, l’opera completa del ricercatore, il basco mai usato e le vene varicose, la chiamata senza risposta, l’arrivo a Termini. Scava in fondo, non avere paura dei vermi rossi, mettiamo sul fagotto un’immagine ciascuno, come facevano gli egizi, mi dici, Aič, di portare tutti questi cimeli via da qui, perché l’acqua fa crollare la buca, ma noi dobbiamo scavare oltre, più in fondo, raggiungere il punto più asciutto e incandescente, rifare la casa lì, stanza per stanza, dove nessun verme può più mordere, senza il tempo di congedarsi, per recuperare la parola incomprensibile sepolta in fondo al mare, la perla in cui ancora e sempre ci possiamo trasformare.

Il labirinto che ci hai donato.

La montagna lui non l’amava, chissà come ha fatto a far finta su quella foto. A lungo ho creduto che fosse la più bella immagine della loro unione, lui già malato, nel bosco dietro a un ruscello che gli sopravviverà. Così piccoli, fragili, indifesi nella vecchiaia, eppure insieme, malgrado tutto, ridenti, contenti di aversi. Finché poi mia sorella Maddalena mi ha detto che è stata la peggiore delle loro vacanze, che sono rientrati in anticipo. L’ultima, perché nostra madre dopo non ha più voluto andare con lui in montagna. Adesso capisco, lui l’abbraccia sorridente per essere riuscito a imporre il ritorno a Roma, non ha concesso neppure quello alla consorte, di godersi le montagne da lei così amate. Non sono due che finalmente si trovano, dice Maddalena, ma due intenti ad abbellire il ricordo, costruire un’energia rispetto a tutto ciò li separa. Sforzo che molti fanno coincidere con l’amore. Forse è stato così anche per loro. Li vedo spersi, ma mi piace vederli così piccoli e indifesi. Le fotografie non sono la vita, se si sommano tutti gli scatti, non ammontano a più di dieci minuti, quei sorrisi genuini o impostati, sono tutto e nulla. Resta il compito infinito di trovare le vere immagini, più in fondo.

Non ho mai letto le sue lettere d’amore a mia madre. Erano in francese, lingua usata per necessità di comunicazione, ma anche per essere diverso – la vita, una lunga fuga. Nessuno ha voluto conservarle, c’è un’intimità che persino i figli non dovrebbero toccare. Penso che il loro inchiostro sia sbiadito presto, stipate in qualche astuccio, sotto al sotto più sotto della cantina, si saranno squagliate assieme agli angeli di cera del presepe tedesco nell’estate più calda della storia, prima di finire nel container dove tutto finisce. Per questo le devo inventare. Non so se conoscessero quella canzone di Modugno, per me nelle sue parole si trova la corta, immensa lettera che si sono scritti, Dio come ti amo. Corta perché la fiamma, l’invisibile che vede l’amore non può durare – non ci è dato di essere solo fiamma in vita. Poi c’è quell’altra lettera d’amore più grande e più vera, quella che non viene mai scritta ma solo vissuta, fatta anche di zozzeria, mute grida, risentimento, inenarrabili fantasie – se fosse, cosa sarei potuto diventare… Non esiste vita migliore, anche se ogni vita avrebbe potuto essere migliore. “Potere”, verbo maledetto che ci perseguita vita natural durante. Chi può cambiare l’amore? “Nel cielo passano le nuvole che vanno verso il mare.” Come potessero essersi trovate persone così diverse – ma non è ogni diversità sempre la massima, il dove che ci dovrebbe fare innalzare e volare, “sembrano fazzoletti bianchi che salutano il nostro amore”? Tutto il mondo come nessuno al mondo, Dio come ti amo. Non c’è una lettera che si sia conservata, solo alcune dediche nei libri in francese, Noces. Mio padre che regalava Camus a mia madre “non è possibile” – quel suo male di vivere un tempo era fatto di “sole, i baci e profumi selvaggi”. Luce su ruderi romani di una fondazione fenicia in cima al mare, mai visti, solo immaginati. Un fuoco di luce bianca, amore senza misura per tutti e per tutto, eterno ritorno all’origine. “C’è un tempo per vivere e un tempo per testimoniare la vita”, scrive Camus. Quanto più difficile è rendere conto della forza che ci ha infiammati, quando precipitati dalle altezze turbinose, restiamo muti a osservare sempre la stessa cosa – per quanti anni ancora? – che la vita null’altro è che la mancanza della propria vita. “Né se l’uomo cerchi rifugio presso la persona che egli ama…” scrisse chi si suicidò presto e piuttosto che fare il professore sarebbe voluto andare al mare, a Grado o Pirano. Invece lui cercò rifugio nella persona amata, nelle persone amate, e lo trovò, nonostante la solitudine, la zozzeria che non si raschia via, “un bene così caro, un bene così vero”, “avere fra le braccia tanta felicità”. Sì, caro padre tu ci hai toccato nel corpo e nell’anima, fa lo stesso, e io, qui adesso confesso, nella nostra più segreta stanza, non ti ho saputo toccare in quegli anni finali, come invece la madre, le sorelle, io che tanta paura ho dell’amore, quell’immensa paura… “Mi vien da piangere” canta Domenico, ha lo stesso baffetto di Rudy rubacuori. Mia madre non poteva resistere a quel fascino e a quelle lettere che io non ho mai letto, ma che ci hanno catapultato nella vita. Eccoci, tocca a noi. Chi può cambiare l’amore? Chi può fermare il fiume che corre verso il mare?

Il dolore secondo Matteo

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Gianni Biondillo intervista Veronica Raimo

Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo, Minimum fax, 2022

È un universo surreale, fatto di freak, quello che racconti nel tuo romanzo, o forse è il mondo che è così, pieno di personaggi estremi, quindi sei un’autrice realista?

No, non definirei proprio realista “Il dolore secondo Matteo”, forse potrei parlare di un realismo grottesco, se non è una contraddizione in termini.

A cosa devi la scelta di un protagonista come Matteo, anaffettivo, urticante, antipatico: si è presentato a te, epifanico, o l’hai costruito con dovizia?

Temo che i miei personaggi siano molto spesso non simpatici, o meglio non “empatici”. Non ho mai cercato l’empatia nella scrittura, ma in effetti Matteo è un po’ estremo in questo. L’ispirazione è venuta osservando un ragazzo che lavorava per l’agenzia di pompe funebri il giorno del funerale di mio nonno. Era un bel ragazzo, quindi lo guardavo. Ero devastata dal dolore per la morte di mio nonno a cui ero molto legata, eppure in quel momento commemorativo mi ero fissata su di lui. Quindi ho provato a immaginare la vita di un uomo che si ritrova ad assorbire giornalmente il dolore degli altri, diventando il centro di connessioni emotive non desiderate e finendo per restarne del tutto immune.

Il sesso nel tuo romanzo è costantemente presente e allo stesso tempo scostante. Non una liberazione, ma una prigionia. Sbaglio?

Sì, il sesso ha qualcosa di molto claustrofobico e codificato nel libro, persino il desiderio in sé finisce in questa trappola, così come la definizione di un codice amoroso, i rituali del corteggiamento. Questo è un tratto che mi porto dietro, decostruire l’enfasi di certe retoriche, o l’illusione della spontaneità.

Sono passati 15 anni (ormai 18, l’intervista è del 2022) dalla prima pubblicazione di Il dolore secondo Matteo. Com’è rileggerti? Quanto ti senti ancora vicina a questo libro?

È un libro che oggi non riscriverei probabilmente, ma ogni libro appartiene al momento in cui è stato scritto. Non lo rinnego, tutt’altro, ma ci vedo dentro anche una forma di rabbia che ha in sé qualcosa della giovinezza. Non so se è stato un bene o un male perderla, comunque non c’è più, almeno non in quella forma. Anche stilisticamente vedo delle distanze dalla mia scrittura di oggi, una certa ricerca per l’effetto che può tradire delle ingenuità. Ma ci sento dentro anche la spudoratezza e la l’immediatezza di un esordio, probabilmente mi facevo meno domande di oggi. Ad esempio, non mi sono posta nessun problema rispetto alla scorrettezza politica del linguaggio usato dalla voce narrante.

Una curiosità: il numero di cellulare esiste? Io ho avuto la tentazione di chiamarlo.

Non lo so, io non ho mai provato a chiamarlo!

(pubbicato su Cooperazione nel 2022, appunto, ma non ricordo il numero e il mese)

Il vergognoso silenzio dell’Occidente su Gaza – editoriale del Financial Times

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Foto: Ansa

 

Ricevo e pubblico la traduzione dell’articolo “The west’s shameful silence on Gaza”, editoriale apparso il 6 maggio sul Financial Times.

Dopo 19 mesi di un conflitto che ha ucciso decine di migliaia di palestinesi e ha indotto ad accusare Israele di crimini di guerra, Benjamin Netanyahu si sta preparando ancora una volta a intensificare l’offensiva di Israele a Gaza. L’ultimo piano prefigura la piena occupazione del territorio palestinese con l’intento di spingere i gazawi verso sacche sempre più ristrette della striscia distrutta. Porterebbe a bombardamenti più intensivi e le forze israeliane sgombererebbero e prenderebbero possesso del territorio, distruggendo le poche strutture rimaste a Gaza. Ciò sarebbe un disastro per 2,2 milioni di gazawi che hanno già sopportato sofferenze insostenibili. Ogni nuova offensiva rende più difficile non sospettare che l’obiettivo finale della coalizione di estrema destra di Netanyahu sia quello di rendere Gaza inabitabile e di cacciare i palestinesi dalla loro terra. Per due mesi Israele ha bloccato la consegna di tutti gli aiuti nella Striscia. I tassi di malnutrizione infantile sono in aumento, i pochi ospedali funzionanti stanno esaurendo le medicine e gli allarmi su fame e malattie si fanno sempre più drammatici.

Eppure, gli Stati Uniti e i Paesi europei, che propagandano Israele come un alleato che condivide i loro valori, non hanno pronunciato alcuna parola di condanna. Dovrebbero vergognarsi del loro silenzio e smettere di permettere a Netanyahu di agire impunemente. Domenica, in un breve discorso, Donald Trump ha riconosciuto che i gazawi stanno “morendo di fame” e ha suggerito che Washington aiuterà a portare cibo nella striscia. Ma finora il Presidente degli Stati Uniti ha solo rafforzato Netanyahu. Trump è tornato alla Casa Bianca promettendo di porre fine alla guerra a Gaza dopo che la sua squadra ha contribuito a mediare il cessate il fuoco di gennaio tra Israele e Hamas. In base all’accordo, Hamas ha accettato di liberare gli ostaggi in fasi successive, mentre Israele si sarebbe ritirato da Gaza e i nemici avrebbero dovuto raggiungere un cessate il fuoco permanente. Ma a poche settimane dall’entrata in vigore della tregua, Trump ha annunciato un piano bizzarro che prevedeva lo svuotamento di Gaza dai palestinesi e la sua acquisizione da parte degli Stati Uniti. A marzo, Israele ha fatto fallire il cessate il fuoco cercando di modificare i termini dell’accordo, con il sostegno di Washington. Da allora, alti funzionari israeliani hanno dichiarato che stanno attuando il piano di Trump di trasferire i palestinesi da Gaza. Lunedì, il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha dichiarato: “Finalmente occuperemo la Striscia di Gaza”. Netanyahu insiste che un’offensiva allargata è necessaria per distruggere Hamas e liberare i 59 ostaggi rimasti. La realtà è che il primo ministro non ha mai articolato un piano chiaro da quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha ucciso 1.200 persone e scatenato la guerra. Invece, ripete il suo mantra massimalista di “vittoria totale”, cercando di placare i suoi alleati estremisti per garantire la sopravvivenza della sua coalizione di governo.

Ma anche Israele sta pagando un prezzo per le sue azioni. L’offensiva allargata metterebbe a repentaglio la vita degli ostaggi, minerebbe ulteriormente la reputazione di Israele e approfondirebbe le divisioni interne. Israele ha comunicato che l’operazione estesa non inizierà prima della visita di Trump nel Golfo la prossima settimana, affermando che c’è una “finestra” in cui Hamas può rilasciare gli ostaggi in cambio di una tregua temporanea. I leader arabi sono infuriati per l’incessante ricerca del conflitto a Gaza da parte di Netanyahu, eppure festeggeranno Trump in cerimonie sontuose con promesse di investimenti multimiliardari e accordi sulle armi. Trump darà la colpa ad Hamas quando parlerà con i suoi ospiti del Golfo. È l’attacco omicida del 7 ottobre che ha scatenato l’offensiva israeliana. Gli Stati del Golfo concordano sul fatto che la sua persistente stretta su Gaza è un fattore che prolunga la guerra. Ma devono opporsi a Trump e convincerlo a fare pressione su Netanyahu per porre fine alle uccisioni, togliere l’assedio e tornare ai colloqui. Il tumulto globale scatenato da Trump ha già distolto l’attenzione dalla catastrofe di Gaza. Tuttavia, più a lungo si protrae, più coloro che rimangono in silenzio o che sono costretti a non parlare si renderanno complici. (traduzione di fd)

Morire di strati

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di Giovanna Conti

Pellicola 

Morire di strati

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Riferimenti

Pellicola

In Note per una pellicola, cito il nome Costanza avendo a mente la regista italiana
Costanza Quatriglio ed il suo recente film, Il cassetto segreto (2024), dedicato alla
memoria paterna. L’ingiunzione “decidere cosa tenere o cosa lasciare” viene dal
film, io l’ho modificata in versi.

I collage di questa sezione intrecciano una foto di un giovane Roland Barthes tratta
dal suo Roland Barthes (Vintage, London, 2020) e una fotografia di mio padre
bambino. Ancora sorrido alla somiglianza tra i volti.

una pellicola su (Jon) Giovanni dialoga col testo Notes Towards a Film About My
Father (Jon) della poeta americana Eleni Sikelianos, contenuto in The Book of Jon
(City Lights, San Francisco, 2004). I versi inglesi sono citazioni sparse di questo
componimento.

Morire di strati

Cirro comincia con una mia traduzione scartata/sbagliata di un passo di Mourning
Diary (Hill and Wang, New York, 2009) di Roland Barthes. Di seguito, per intero
con punteggiatura originale: “November 1 / What affects me most powerfully:
mourning in layers—a kind of sclerosis. [Which means: no depth. Layers of
surface—or rather, each layer: a totality. Units]” (p. 28). Stratificazione e spellatura
si intrecciano, come due facce allo specchio.

[…] L’immagine che ritrae mio padre e una ragazza sconosciuta seduti di fronte a un
quadro è stata scattata da me al Moma di New York nel gennaio 2023. Non ricordo
l’autore né il titolo del quadro. Si potrebbe trattare di un untitled di Cy Twombly
(secondo l’identificazione fatta da ChatGPT) a me, però, resta il dubbio.
Comunque, ho ritagliato la scena all’infinito e perso ogni piccolo appiglio…

*

Una nota dell’autrice

I testi poetici e le immagini che ho raccolto interrogano la figura di mio padre a partire dalla sua faccia difficile. Se il tentativo dell’io poetico è quello di una “spellatura” e sperata conoscenza della figura paterna, quest’ultima sembra, però, sottrarsi ad ogni contatto. La sua faccia ha aria di nuvola, tra le mani di figlia non resta, forma inconsistente si libera. Di fronte all’inconoscibilità reciproca, si muovono le mani dell’uno e dell’altra: padre e figlia si afferrano, tagliano, riprendono senza sosta. Apoesie più tradizionali ne ho affiancate diverse fatte di cancellature, sovrapposizioni, numeri che pungono. I collage sono ottenuti da mie foto di famiglia, documenti legali di divorzio, immagini di recenti alluvioni. La speranza è che i continui passaggi di stato—dall’Italia all’America e poi indietro, dagli sbuffi di mio padre alla sua rabbia dura—ci allontanino, modifichino, riuniscano in verso più pacifico. Controparte essenziale del taglio è forse il lavoro di cucito? Io sono il filo, il figlio, la figlia, ho la forza di un pollice incallito.

*

Giovanna Conti vive e lavora tra gli Stati Uniti e l’Italia. Sta facendo un dottorato di ricerca in cinema e letteratura contemporanea a Brown University, dove insegna nei dipartimenti di Italian Studies, Comparative Literature e Modern Culture and Media. Ha esposto alcuni suoi lavori di blackout poetry alla mostra “Unprecedented” presso la Brown Rockfeller Library (Providence, RI). Ha vinto il terzo premio di Italian Poetry Today dell’università di Oxford (UK) per poesie inedite. Questi estratti fanno parte di un’opera verbo-visiva inedita ancora in lavorazione.

“Raccontare il lavoro”, un’iniziativa verso il referendum

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Immagine tratta dal sito dei comitati promotori della campagna per i referendum: www.referendum2025.it

di Davide Orecchio

Manca un mese esatto al referendum. 5 SÌ per il lavoro e per la cittadinanza. E, su Collettiva, grazie a un’idea di Carola Susani, abbiamo messo in piedi un’iniziativa di militanza narrativa. Collettiva ospiterà storie di lavoro offerte da un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere. Come spieghiamo con Carola Susani in un pezzo di introduzione, “i racconti che saranno pubblicati da Collettiva da qui alle prossime settimane sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto”.

Nel primo pezzo che abbiamo pubblicato (Però non sono mestieri da fare da soli) Veronica Galletta dialoga con Sandro Vitale, operaio di una cooperativa storica di Palermo, esperto nella manutenzione di gru e carroponti per Fincantieri. “Quando guardo di sotto penso che siamo fortunati”.

Scriviamo con Susani:

Se – solo per citare i primi tre racconti in ordine di pubblicazione – Veronica Galletta […] scopre che è un noi, una voce collettiva, quella che è necessario raccontare, invece Daniele Petruccioli, ascoltando un portuale di Palermo, trova al cuore della questione proprio la sensatezza del lavoro, la necessità del riconoscimento e della messa a frutto della sapienza e dell’esperienza. Mariasole Ariot, raccontando l’emersione di Emanuela da una esperienza di precarietà e l’incontro con la Fiom, ci permette di capire di cosa abbiamo bisogno perché il lavoro faccia la sua parte nella sensatezza della vita.

Cosa chiedono i 5 quesiti referendari?

In estrema sintesi: il primo quesito chiede di cancellare le norme sui licenziamenti del Jobs Act, che consentono alle imprese di non reintegrare un lavoratore licenziato in modo illegittimo nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015; il secondo di proteggere dai licenziamenti i lavoratori di imprese con meno di 15 dipendenti; il terzo di interrompere l’abuso dei contratti a termine precari; il quarto di rendere responsabili della sicurezza e degli infortuni sul lavoro le grandi aziende committenti di appalti e subappalti. Il quinto quesito propone di dimezzare da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992.

www.referendum2025.it

Tornando ai racconti…

Ragioniamo ancora su Collettiva:

C’è, in questo momento storico, la sensazione di uno scadimento condiviso e pervasivo nel mondo del lavoro. Come fa un lavoro così ridotto a essere il tessuto della vita collettiva? Eppure sono poche le circostanze in cui una persona incontra il mondo, vario e complesso, si mette alla prova in azione di fronte agli altri, si rivela a sé stessa, incontra ceti sociali diversi dal proprio, altri stili di vita, altre prospettive culturali, dove le viene richiesto di affrontare le questioni, le difficoltà come essere umano in relazione ad altri essere umani. È il lavoro la circostanza principale in cui questo è avvenuto. Senza lavoro, il tessuto sociale si scolla, la vita, solitaria, appare insensata. A partire da queste riflessioni, per quanto qui accennate e incompiute, ci piacerebbe fare della campagna referendaria l’occasione per riflettere in controluce sul lavoro che vale la pena. Esiste? C’è ancora la possibilità di lavorare creando il tessuto della vita comune? Quali sono le condizioni perché questo avvenga?

Vi invitiamo a seguire questa iniziativa. E, soprattutto, vi invitiamo a votare SÌ il prossimo 8-9 giugno.

Cortile

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di Fabio Poggi

la manovra non precisissima vediamo a che ora veniamo via dalla discarica arriveremo sempre verso le undici in totale meno di due successi su quattro tentativi dipende perché se arrivassimo dove riverbera una forza è il più grande il più noto e di attesa venti minuti mezzora il problema è non so se ce la facciamo perché devi sempre tornare indietro poi veniamo qui triangolo verde lo vedi è qui un po’ poco per cantare vittoria era stato chiaro fin da subito chi ha fame si porta un panino dietro ci sono tre ore da girare luoghi che meglio di chiunque un po’ poco per la manovra poi ci sono tutti questi uccelli statue a questo punto partiamo alle cinque cinque e mezza sì le avevo parlato non deve temere l’arrivo di altri analisti sono rappresentati lo vedi che hanno preso piede tutte le esperienze pesano la vendita generalizzata e in maniera slegata magari lo sanno semmai la metto un po’ di lato ma non hanno capito non è libero magari lo sanno perché ti spiego una bellezza pensate se la vagonata alla base di interni domestici saturi quelli in cui potrebbe diventare libero è praticamente quasi di sotto aspetta quando torniamo indietro quando poi siamo qui ci infiliamo lo vedi sono strette e andiamo alla casa trattoria lo vedi triangolo verde a fronte di un simile andamento nello scorso anno dice sempre la piattaforma centralizzata che l’offerta focalizzata sì sì è bello si va da uno di questi giganti invece ribattono che la questione non può risolversi non buongiorno ciao franci

*

la sabbia era vera e vulcanica e occorre aspettare una nuova finestra di allineamento consiglio la lettura del libro perché da un lato una dose troppo alta non perdona ma quando sei tornato esattamente in camera dici dall’altra bisogna riempire i serbatoi a braccio era più semplice come lei si allontana la chiama un’avventura lunga quella volta con la michi per limitare i rischi occorrerebbe accorciare il percorso espositivo che combina installazioni ma mica devono andare in profondità soprattutto per la salute segnalateceli basta lo screenshot per finire nei guai mica devono andare in un albergo che camera dici due ragioni che hanno reso probabilmente difficile la passeggiata che poi appunto non fa freddo in realtà la sabbia era vera e vulcanica la chiave dell’albergo che non funziona non era possibile arrivare e mi sono trovato di culo in centrale sto parlando del principio di opportunità per non parlare di altre caratteristiche fare propria una piattaforma entro una decina di anni dopo tutto in appena otto anni da quella volta con la michi un sacco di storie questo te l’avrà detto in camera dici o forse pensavano che reagire consiste nel allora che cosa possiamo fare sappiamo che perforano le rocce sappiamo benissimo come chiedere finanziamenti per l’esplorazione come lei si allontana la chiama e raccolgono campioni tutti i viaggi sono stati di sola andata la teoria non tiene sicuro che fosse possibile arrivare ma quando sei tornato esattamente la chiave dell’albergo questo te l’avrà detto ti ricordi è la prima cosa ti ricordi ma non succederà più forse non aveva ben chiari i problemi della michi

*

l’assenza  verrà

il caso va visto

d’ora in poi in qualunque

scendere

i gradi

scompaiano moltiplicando

compaiano sottraendo

non prima di

una misura l’osservabile

può nel preciso stato

deve una rappresentazione

superiore a

sottinteso è di

zero

*

che cosa è stato sbagliato

andiamo nello spazio

possibile arrivare

entro una decina d’anni

un fisico corpulento

il suo spazio

fu in primo luogo la discoteca

è a dir poco sorprendente

come si materializzano

intervenite

chiudiamo e apriamo

gli ordini dei palchi

intervenite numerosi

alle diciotto

*

della scarica trovare l’oggetto

il disinvestimento dell’oggetto

strapperanno

dove si combatte

farli accompagnare

offra nuove fonti di

è sufficientemente simile

oggetto

o resto le significative

qualità disturbante del

camuffarsi non sai se con

lungo due

i prevedibili

*

alla mano di tutti

lei su cosa

capillare

sei stata proprio tu

accompagnata da ampio apparato

secondo te cosa segna

il servizio da liquore

in cui il famoso cimitero

intimo e diaristico

piuttosto la sua occupazione

la coppa scanalata

diffusione

da algos dolore

come mai non mi sono accorta

L’unico palestinese buono è un palestinese morto

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[Anche Nazione Indiana aderisce all’iniziativa: L’ULTIMO GIORNO DI GAZA 9 maggio – L’Europa contro il genocidio*. Si legge nel comunicato stampa: Una giornata solo per Gaza, la prima di un percorso per “rompere il silenzio colpevole” su quello che da un anno e mezzo, senza sosta, sta succedendo sulla Striscia e anche sulla Cisgiordania. “Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora”. La data scelta dai promotori di una lettera pubblica per un’azione diffusa, dal basso e online, ha un preciso significato. È il 9 maggio, la giornata in cui tradizionalmente si celebra l’Europa e il suo processo di unificazione. Non è certo casuale. “Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani.” Ci sembra importante aderire, tanto più che questo sito ha ospitato molto presto sia testimonianze provenienti da Gaza sia riflessioni intorno a quello che stava accadendo anche tra noi (occidente) e quella parte del mondo che, pur lontana, è intimamente e tragicamente legata alla nostra storia. a. i.]

di Andrea Inglese

1. L’inverno dell’anno 2024-2025 sarà ricordato da alcuni di noi, come l’inverno in cui abbiamo percepito la storia presente come un incubo da cui è impossibile risvegliarsi. Ci siamo cioè ritrovati in una condizione che conoscemmo alcuni anni fa, e precisamente durante la pandemia mondiale di Covid: una condizione d’inadeguatezza radicale nei confronti di ciò che accadeva nel mondo circostante. Questa inadeguatezza ha qualcosa di più destabilizzante dell’impotenza politica, ossia della percezione che la società a cui apparteniamo, nel suo insieme, stia imboccando una via pericolosa e distruttiva, e che forze ben più grandi delle nostre la spingono in tale direzione. L’inadeguatezza radicale non ci dice semplicemente che non abbiamo le forze necessarie per opporci a un’ingiustizia, a un avversario sleale ma più forte di noi; ci rende anche consapevoli di una nostra debolezza costitutiva, del fatto che comunque sia non siamo abbastanza forti come vorremmo. In una tale situazione, di sconfitta personale e collettiva, possiamo salvaguardare almeno qualcosa d’importante: ossia la responsabilità di dire che quel che vediamo, viviamo, ascoltiamo, è un incubo, e non una concatenazione normale di eventi. E inoltre dobbiamo anche riuscire a dire che questo incubo non è frutto di un fenomeno naturale, e al di sopra della nostra volontà, come la legge della gravitazione terrestre, ma un insieme di decisioni umane accompagnate da un insieme di discorsi, di frasi scritte o dette.

2. Questo inverno sarà memorabile per una regressione generale delle politiche sul clima, perché è il terzo anno di una guerra alle porte dell’Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina; perché ci siamo resi conto che, nel giubilo generale, i sistemi d’Intelligenza artificiale hanno iniziato a funzionare nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche, senza che i lavoratori o i cittadini abbiano avuto l’occasione di esprimersi su queste scelte; perché, con la nuova presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno radicalizzato la loro posizione di dominio mondiale senza egemonia, alimentando il caos a livello geopolitico. Infine questo è l’inverno in cui, anche i più recalcitranti di noi, i più scrupolosi nell’uso del linguaggio, si sono resi conto che il massacro della popolazione palestinese di Gaza esigeva di essere descritto attraverso l’uso del termine “genocidio”. E da due mesi questo genocidio si è fatto ancora più evidente, perché alla guerra delle bombe si è aggiunta la guerra della fame. Israele ha infatti imposto alla Striscia di Gaza un assedio totale (di terra, aria e mare), ossia il blocco di ogni possibile aiuto medico e umanitario destinato a sollevare la situazione di una popolazione di sfollati, stremata dalla fame e dalla sete, e sottoposta a massicci bombardamenti. Una popolazione che, secondo le stime più recenti, dall’8 ottobre 2023 conta 52.418 morti e 118.091 feriti.

La decisione del blocco completo è conseguenza della rottura unilaterale, voluta dal governo Netanyahu, degli accordi firmati tra Israele e Hamas il 15 gennaio, accordi che prevedevano l’uscita dal conflitto in tre fasi (Cosa prevede l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas a Gaza: quando scatta la tregua). Dopo l’insediamento di Trump, tali accordi non erano più considerati vincolanti, dal momento che lo stesso presidente americano, ricevendo Netanyahu alla Casa Bianca in febbraio, annunciava un nuovo piano incentrato sullo “spostamento” in Egitto o in Giordania della popolazione palestinese e l’occupazione statunitense di Gaza per scopi turistici e commerciali.

3. Nel 1868, durante le Guerre Indiane che conduceva spietatamente, il generale Philip Henry Sheridan, di fronte a un gruppo di capi delle tribù native, pronunciò una frase che divenne famosa: “Gli unici indiani buoni che abbia mai visto erano morti”. Oggi, l’azione del governo Netanyahu, dopo un anno e sette mesi di guerra praticamente ininterrotta contro Hamas, può essere letta attraverso un calco della macabra frase di Sheridan: “Ogni palestinese buono di Gaza è un palestinese morto”. Questa frase costituisce il nucleo ideologico e genocidario che sottende l’impresa di distruzione della Striscia (edifici e infrastrutture) e di uccisione, ferimento, denutrizione della sua popolazione. La guerra globale contro Gaza si è poi accompagnata all’annessione di sempre nuovi territori in Cisgiordania.

Dopo la strage del 7 ottobre, ogni volta che si parlava della sicurezza di Israele, si ometteva quasi sempre di dire che la sicurezza in questione non era quella di un paese con delle frontiere definite internazionalmente, ma quella di un paese occupante, minacciato di conseguenza da un popolo in lotta per l’autodeterminazione. Un circolo vizioso ha così giustificato per più di mezzo secolo il principio secondo il quale Israele, per poter esistere incolume, deve occupare dei territori palestinesi, anche se poi è innanzitutto questa occupazione che minaccia la sicurezza dei suoi cittadini. Dopo 57 anni di ciclica insicurezza, però, l’estrema destra e i sionisti religiosi al governo hanno deciso di affidarsi a un piano di pulizia etnica, che li metta per sempre al riparo da qualsiasi azione militare o terroristica perpetrata in nome della libertà del popolo palestinese. E l’equazione macabra che hanno stabilito non è un iperbole diffamante o antisemita, ma una formula che si situa nel cuore della propaganda governativa: 1) Hamas è un nemico assoluto da annichilire, in quanto ridotto esclusivamente alla sua componente terroristica e armata; 2) il popolo palestinese non annichilendo esso stesso Hamas, ne è complice; 3) il popolo complice di un gruppo terrorista è esso stesso terrorista. Durante i primi mesi di bombardamenti, quando ancora si poteva parlare in modo plausibile di obbiettivi militari, la propaganda israeliana presentava il popolo palestinese (i civili), come ostaggi e vittime di Hamas. E anche le istituzioni internazionali, entro certi limiti, concordavano con questa narrazione. Oggi, però, di fronte a montagne di detriti e montagne di cadaveri, appare chiaro che, per l’esercito israeliano, con il consenso di una maggioranza delle popolazione israeliana, ogni palestinese sulla Striscia di Gaza – che sia vecchio, donna o bambino – è considerato come puramente e semplicemente “annientabile” in quanto terrorista attivo o potenziale.

4. Forse noi, qui, nella zona di pace occidentale, siamo riusciti tutto sommato a dormire. I bombardamenti, gli incendi, i parenti sepolti sotto le macerie, erano cosa lontana, più intravista che vista. Ma non abbiamo dormito bene. Io non ho dormito bene. Gli stessi incubi notturni assumevano le fattezze di quello che il telegiornale non mi diceva del tutto, ma che la parte inconscia di me, inconscia e forse “sociale”, assorbiva con grande precisione. Passeggiate a Milano, in mezzo a palazzi che iniziano a crollare come castelli di carte e senza apparente motivo. Prigionieri che sbucano fuori da scale ripide e buie che portano in seminterrati; prigionieri con ancora le tracce addosso delle sevizie e dei giorni di fame.

La nostra inadeguatezza non ha smesso di seguirci come un’ombra cupa, e ha inevitabilmente avuto un tremendo effetto demistificante: ma a che servono, di fronte a tutto questo, i rituali di pace, i giorni della memoria, le nostre credenze su una giustizia possibile, su delle istituzioni almeno in parte affidabili, il rispetto per gli innocenti, l’amore per le opere d’arte o le opere letterarie? Ha qualche senso il vivere insieme? L’umanità è qualcosa d’altro che cecità, sonnolenza e furore?

Di fronte all’orrore della distruzione del popolo palestinese non ho potuto che toccare con mano la mia estrema impotenza. Ma chi può qualcosa di fronte a un esercito che non fa entrare a Gaza né i giornalisti né gli aiuti umanitari e che minaccia la vita delle ONG neutrali e disarmate o degli stessi impiegati delle Nazioni Unite?

Ma all’impotenza politica, in quanto cittadino isolato e insignificante, si è poi affiancata la vergogna di non poter dire, e quindi di non poter pensare quello che stava accadendo. Quello che Ilan Pappé, in un articolo del 24 aprile, definisce “L’Occidente ufficiale” ha cominciato a bloccare il discorso, a creare un sentimento d’incertezza diffusa e ingiustificabile, capace di minare anche le constatazioni, le reazioni emotive, i ragionamenti più evidenti. Pappé parla molto bene di questa cosa, introducendo il concetto di “panico morale”. Scrive Pappé:

“Questo fenomeno è noto nella ricerca recente come Panico Morale, molto caratteristico delle fasce più coscienziose delle società occidentali: intellettuali, giornalisti e artisti.

Il Panico Morale è una situazione in cui una persona ha paura di aderire alle proprie convinzioni morali perché ciò richiederebbe un certo coraggio che potrebbe avere conseguenze.”

Comunque sia, io ho sentito che almeno su questo piano qualcosa andava fatto. Sul piano del linguaggio, del discorso. Bisognava trovare un modo di entrare nel campo che l’Occidente ufficiale aveva “minato”, camminarci dentro, anche senza avere né arte né parte. È quello che hanno fatto anche gli studenti un po’ dappertutto nel mondo. Coloro che “mancano di sapere” e frequentano le istituzioni educative (scuole, università) per acquisirlo dai “detentori ufficiali” del sapere. Di fronte all’urgenza della situazione si sono detti che in quel campo minato avrebbero dovuto camminarci, a rischio di fare errori, di sbagliare parole, di concatenare male qualche argomento, di dimenticare qualche fatto importante.

Così, con la scrittura, ho cercato di fare anch’io, come un certo numero di altri individui che come me subivano l’impotenza politica, ma non volevano vergognarsi di non riuscire a pensare per eccesso di prudenza. Ognuno ha trovato un modo per fare esistere la popolazione palestinese e le sue sofferenze al di fuori del quadro troppo ristretto, troppo deformato, che l’Occidente ufficiale aveva reso disponibile.

Oggi anche Nazione Indiana partecipa a questo invito per fare esistere la sofferenza del popolo palestinese e per denunciare il genocidio in atto a Gaza.

Linko quindi di seguito interventi diversi già pubblicati. Abbiamo anche delle testimonianze dirette, come quella di Yousef Elqedra, poeta palestinese che ha vissuto a Gaza dall’inizio della guerra fino a poche settimane fa. I suoi testi sono stati tradotti da Sana Darghmouni e proposti da Renata Morresi.

La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #1 | NAZIONE INDIANA

La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #2 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #3 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #4 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #5 | NAZIONE INDIANA

La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca | NAZIONE INDIANA

Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler | NAZIONE INDIANA

L’altro volto della resistenza | NAZIONE INDIANA

L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza | NAZIONE INDIANA

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Dal comunicato stampa di L’ULTIMO GIORNO DI GAZA 9 maggio – L’Europa contro il genocidio.

A promuovere la vera e propria ‘chiamata a raccolta’ sono, in ordine alfabetico, Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo. E a sostenere la lettera pubblica sono oltre centocinquanta persone che appartengono a diversi mondi professionali e culturali. Tutte accomunate dall’urgenza, dal tempo che sta finendo.
Chi vorrà partecipare a #UltimogiornodiGaza può inviare comunicazioni sulle iniziative a una e-mail
dedicata: 9maggioxgaza@gmail.com

Di seguito, la lettera pubblica.

L’ULTIMO GIORNO DI GAZA
9 maggio – L’Europa contro il genocidio
#ultimogiornodigaza #gazalastday
Il 9 maggio è la Giornata dell’Europa: ma è anche l’ultimo giorno di Gaza. Perché il tempo sta
finendo, per questa terra nostra. Questa terra del Mediterraneo, il mare che ci unisce.
Per questo, in quella giornata in cui ci chiediamo chi siamo, vi chiediamo di parlare di Gaza,
di farlo ovunque vorrete. E di farlo, tutte e tutti, sulla rete: su siti, canali video, social. E
sempre con l’hashtag #GazaLastDay, #UltimogiornodiGaza.
Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi,
italiani, europei, umani.
Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui
possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza. Perché possano partecipare tutte e
tutti, anche solo per pochi minuti. Anche chi è prigioniero della sua casa, e della sua
condizione: come i palestinesi, i palestinesi di Gaza lo sono. Perché almeno stavolta nessuna
autorità e nessun commentatore allineato possa inventarsi violenze che occultino la violenza:
quella fatta a Gaza.
Sulla rete, e non solo. Per chi vuole mettere in rete ciò che succede nelle piazze e nelle
comunità che si interrogano, assieme, su come fermare la strage.
Con la consapevolezza che noi siamo loro. E che a noi – italiani ed europei – verrà chiesto
conto della loro morte. Perché a compiere la strage è un nostro alleato, Israele. Per ripudiare
l’Europa delle guerre antiche e contemporanee, per proteggere l’Europa di pace nata da un
conflitto mondiale, esiste un solo modo: proteggere le regole, il diritto, e la giustizia
internazionale. E soprattutto guardarci negli occhi, e guardarci come la sola cosa che siamo.
Umani.
Aggiungiamo tutte le parole che vorremo usare all’hashtag #ultimogiornodigaza
#gazalastday.
Senza scomunicarne nessuna, senza renderne obbligatoria nessuna. Per chiamare le cose con il
loro nome.
Ora è il momento di costruire una rete di senza-potere determinati a prendere la parola. E il
9 maggio è la prima tappa di una strada assieme.
Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora.
Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari,
Francesco Pallante, Evelina Santangelo

 

Il “Faldone”: un estratto

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[Questi testi fanno parte di una sezione di Faldone non ancora pubblicata in precedenza. Faldone, da poco uscito per il Saggiatore, raccoglie il lavoro di scrittura in versi di Vincenzo Ostuni dal 1992 al 2024, in un’edizione che si vuole “intera”, ma come l’autore stesso sottolinea “non completa”, perché il progetto stesso è costitutivamente interminabile. Il volume di quasi 800 pagine include, assieme a una nota dell’autore, anche un saggio di Luigi Severi, dal titolo “un monumento, un documento”. Il viaggio del Faldone verso la “comune presenza”.]

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Cûr

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Immagine generata da AI
Immagine generata da AI

di Giulia Zoratti

Oggi faccio guidare te. Passo le ore di autostrada a contare quanti chilometri mancano al nostro arrivo. Non voglio scendere. Gli interni di questa macchina sono un frammento di stabilità. Il nostro continuo cambiare case ha spezzato i confini dell’intimità domestica. Ci distendiamo in letti dove fino a poco fa dormiva qualcun altro, abbiamo finestre affacciate sempre su città diverse. L’unico posto dove possiamo sempre tornare, è in viaggio.

Senti il bisogno di riempire il mio silenzio di rassicurazioni.

«Se la pioggia è troppo forte ci possiamo sempre fermare».

La tua previsione è giusta. La notte si sporca di un nero più intenso, e siamo in un buio che i fari della macchina tagliano come lame.

Le strade che ci portano a casa scivolano nella campagna delle colline ma la pioggia sempre più forte rende il percorso incerto. I rilievi morbidi diventano ostili e noi siamo silenziosi. L’asfalto è indistinguibile dalla terra dei campi. Spegni la radio. I canali di scolo invadono la carreggiata dandoci l’impressione di navigare in un mare basso.

Cerco di anticipare un nostro incidente. Io e te insieme, sarebbe stato bello. I movimenti dei nostri corpi, sbalzati fuori, avrebbero ricordato un volo.

Non ho mai immaginato la morte come qualcosa di spaventoso, è solo un’attesa.

Accostiamo appena vediamo una tettoia.

«Finché non smette», mi dici mentre ti accendi una sigaretta. Con il motore spento l’unica luce che vedo è quel punto rosso che brucia.

Continuo a abbassare lo sguardo sul cellulare. Una chiamata persa.

Quando arriviamo nella mia stradina, Nives, la vecchia vicina, si accorge di noi. Esce di casa nonostante sia sera. Ti viene incontro appena scendi dalla macchina.

«Di cui sês tu?», di chi sei?, ti chiede, pensando a qualche cugino arrivato per il funerale. Una domanda che può esistere solo in quei posti dove tutti si conoscono.

Resti interdetto per quella lingua che non ti è familiare. Appena vede me, Nives capisce.

«Ah, le so frute…» dice toccandosi il viso, mortificata.

Frut è una parola che ti ha sempre incuriosito, non essendo cresciuto ascoltando questa lingua. Significa bambino, ma significa anche frutto.

Frute, dulà ise tô mari?, dov’è tua madre? mi chiedevano spesso, e io mi sentivo una pesca gonfia di succo. Una delle tante more di un gelso, che appena la tocchi ti sporchi le dita.

Nives mi dà un abbraccio.

«Farò tante preghiere», dice, come se mi dovesse rassicurare.

Mentre mi parla mi fermo sul suo viso.

Le facce del mio paese sembrano quelle di animali selvatici.

Entriamo in casa.

Mia madre ha fatto dei cambiamenti. Un nuovo colore per una parete, una cassettiera in più, l’ennesimo mobile invaso dai libri. Anche il tavolo della cucina è pieno di carte, appunti. Ogni angolo è un tentativo di fuga. Raccolgo tutto ma non trovo dove appoggiarlo.

Improvviso una pasta mentre tu accendi il camino.

Dopo cena rimaniamo seduti a tavola, una cosa che di solito non facciamo mai. In questo ambiente improvvisamente estraneo i nostri tempi si dilatano. Ci rilassiamo. Inizio a raccontarti la storia dell’incidente di mia madre. La chiamo storia, perché non sappiamo davvero come sia andata. Ogni volta cerco di aggiungere nuovi dettagli, immaginandoli e poi chiedendoti qualche conferma.

I suoi amici non ricordavano bene quando era partita, era una giornata festiva, nessuno badava all’orologio. Lei aveva portato il pane fatto in casa e le verdure del suo orto. Era una lunga tavolata di gente della sua età. Ognuno aveva raccontato dei propri figli andati lontano. Ho cercato di capire se fosse stata una serata allegra, con calici di vino scuro sempre pieni. L’ho chiesto alle sue amiche, ma loro, chiuse in un silenzio abbottonato, mi restituivano solo poche parole in lingua. Una lingua maledetta, dove il lessico non permette di divagare. O jerin ben, stavamo bene.

«Volevo solo capire perché mi avesse chiamata. Magari alla cena le era venuto in mente di dirmi qualcosa».

Mi guardi con aria stanca. Non hai mai compreso il rapporto che avevo con mia madre. Sei stato accolto con calore. Con te vicino tutto diventava più semplice. Si imbastivano discorsi, si apparecchiava la tavola, si passava la serata insieme accanto al fuoco. Tu facevi in modo che non si spegnesse, curando quella fiamma tormentata dal vento nella canna fumaria. E io di contorno vi ascoltavo, stupita dell’intreccio delle vostre voci. Quando ero sola in quella casa, invece, mia madre si muoveva come se io non ci fossi. Mangiavamo separate, non per volontà di allontanarci ma per abitudine. La sua indipendenza da tutti, il bisogno di prendersi i suoi spazi, di mangiare appena sentiva la fame, di dormire solo quando si era stufata di leggere. Un ritmo costruito per essere sola.

Una chiamata persa. Non cancello la notifica, così ho sempre la sensazione che mi stia cercando.

Era quasi arrivata a casa.

Una volpe era passata per strada.

Penso di aver trascorso talmente tanto tempo a osservarla, a indovinare i suoi movimenti, a interpretare i suoi sospiri, da poter prevedere ogni sua reazione di quella sera.

Lei aveva provato a sterzare, era stato inutile. Sono venuta a sapere che la sua auto era finita contro un albero, mentre il corpo dell’animale era stato trovato poco più in là. Mia madre era riuscita a liberarsi dalla macchina in fiamme, aveva mosso qualche passo, si era accasciata vicina alla volpe. Mi chiedo se le abbia fatto piacere non morire da sola ma vicino a quel corpo. Se ne abbia potuto ammirare la bellezza. Mi immagino il sangue di mia madre che si mescola a quello di un animale selvatico.

Quando ero bambina non era raro che la volpe venisse nei nostri campi. Spesso riusciva a intrufolarsi nel pollaio di Nives. Mamma mi svegliava all’alba per mostrarmi quella volpe nel nostro prato. Mi portava in braccio davanti alla finestra, e io con gli occhi fragili per la luce la guardavo, seguita dai cuccioli.

«È una mamma», mi diceva sussurrando piano come se l’animale ci potesse sentire, «è per sfamare i suoi cuccioli che rischia tanto avvicinandosi alle case».

Aveva ragione. Qualche tempo dopo quella vicinanza si era rivelata fatale. La volpe giaceva nell’erba. La si poteva vedere anche dalla finestra della mia camera, un punto rosso che si stagliava nel verde. Non c’era modo di nascondersi in quei campi. Mia mamma mi ci ha accompagnato, tenendomi per mano. Era raro poter vedere così da vicino un animale tanto bello, non voleva perdere quell’occasione.

La volpe aveva gli occhi spalancati. Le iridi verdi erano ancora lucide, ma già coperte di polvere e sterpaglie. Il suo sguardo sporcato mi sembrava una bestemmia scritta sul muro di una chiesa. Il pelo rosso, folto, mi dava la sensazione di volerlo accarezzare. Riparare con le carezze la pancia rotta, la pelliccia intrisa dal sangue, le viscere brillanti che i corvi avevano iniziato a rubare poco prima che arrivassimo noi.

Mamma si era stupita quando aveva visto che io, invece di rimanere affascinata, piangevo fino a farmi mancare il respiro. Pensavo ai cuccioli.

Togliamo le lenzuola dal letto di mamma. Letto rifatto da lei, con i bordi sempre piegati accuratamente e adagiati sotto al materasso.

Mi allontano mentre tu leggi qualche pagina di un libro trovato sul comodino.

Faccio una doccia. Indosso la maglietta di un vecchio concerto. Noto il profumo di mamma accanto allo specchio e me lo metto sulla t-shirt.

Torno da te. Invece di aprire la porta della camera da letto mi chino e provo a guardare dal buco della serratura. Lo facevo spesso quando arrivavo a malapena alla maniglia. Non osservo te ma questa casa.

«Ti piace il mio profumo?», ti chiedo appena entro.

È di una marca che era di moda molti anni fa ma che ora si trova nei piccoli supermercati. Lei lo ha sempre usato. Ricordo come mi appoggiavo sui suoi cappotti per sentirlo. Era mancanza. A volte lei viaggiava per lavoro. Altre volte diceva che andava da amici e io e papà restavamo a casa ad aspettarla. Non diceva bene quando sarebbe tornata. Certe volte passava un mese. Le telefonavamo.

Mi avvicino per farti sentire il suo profumo sulla mia pelle.

«Mi piace molto», rispondi.

Mia madre aveva un’eleganza misurata, intellettuale. Sempre essenziale, mai semplice. Difficile da dimenticare. Aveva sempre qualcosa da ridire su come mi vestivo. Chi te lo fa fare di andare in giro con quei tacchi? Tanto lei non capiva, era bella anche con le scarpe basse.

Non ce lo diciamo ad alta voce ma sappiamo entrambi perché sei il suo preferito. Quando mi hai sposata hai sfumato la mia presenza. Mi hai allontanata da questa casa. Lei te ne era grata.

Prima di addormentarci apro la finestra. La tenda trema. Entra l’aria fresca del temporale appena passato.

Non era un segreto che mia madre non mi avesse voluta. Anche quando era incinta non mi desiderava. Non provava a immaginare insieme a mio padre che aspetto avrei potuto avere. L’attesa stava solo nel potersi liberare del mio peso. Forse è stato per quello che si era trovata impreparata quando aveva scoperto che ero identica a lei.

Mentre mi sto addormentando sento che il mio corpo dimentica le sensazioni del giorno. Si rilassa con il tocco della tua pelle. Ti rigiri su di me e mi stringi. Era lì di fronte a noi, il telefono che squillava e tu che mi hai detto di non rispondere: “non roviniamo una bella serata”. E io che ti ho ascoltato.

Ti devo ringraziare.

Ci svegliamo che è il mattino del funerale. Ora che è estate la messa si celebrerà nella chiesa in cima alla collina. Più antica, più fredda, inghiottita da alberi sottili. E tra quegli alberi vedrò spuntare i musi allungati dei miei parenti, mutati nel dolore di chi ha perso una sorella, di chi una figlia.

Appena apro gli scuri noto che il bucato steso da mia madre è stato portato via dal temporale di ieri. Corro fuori. Pezzi di lei sono su tutto il giardino. Sembrano quelle chiazze di neve che faticano a sciogliersi nelle zone d’ombra. I suoi vestiti sono gelidi di quella pioggia fredda e rovinati dalla terra che li inabissa.

Tu mi raggiungi.

«Non ti trovavo», mi dici, affannato, «pensavo che fossi sparita».

Mi accorgo che nella fretta di arrivare non ho messo nemmeno un abito nero in valigia.

Trovo un vestito dall’armadio di mamma.

Mi guardo allo specchio. Sputade, ci diceva Nives quando ci vedeva insieme.

Sputate, una somiglianza violenta.

Giudici (Letteratura e diritto #3)

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di Pasquale Vitagliano

È davvero un giudice. Ritengo sia il complimento migliore che si possa fare a un giudice. Terzo per vocazione rispetto alle parti, voce della legge. Nell’immaginario dovrebbe concentrare le migliori qualità umane dell’equilibrio, della sobrietà e di una magnanimità non lassista. Ci sarà un giudice a Berlino? È l’ultima speranza per un mugnaio di sottrarsi alle angherie dell’imperatore di Prussia. La frase erroneamente viene attribuita a Bertold Brecht di Vita di Galileo. In realtà, si è trattato di una attribuzione giocosa del drammaturgo tedesco Peter Hacks nella sua opera Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese. Resta la contraddizione di un tale affidamento con una concezione marxista della storia, secondo cui la magistratura è una sovrastruttura funzionale al sistema di potere. Più coerente con questa realtà è il giudice di Pinocchio per Carlo Collodi, cioè uno scimmione della razza dei gorilla. Anche Fabrizio De André diffida dei giudici la cui altezza – allusivamente – non supera un metro e mezzo. Anche George Simenon non aveva una grande stima dei giudici. Infatti, l’alter-ego dell’ispettore Maigret è il giudice istruttore Ernest Coméliau, che si distingue per la sua ristrettezza di visione. Eppure, in uno dei libri più intimi e crudeli, Lettera al mio giudice, il protagonista, condannato a morte per l’uccisione dell’amante, si rivolge ad un giudice che porta quello stesso cognome. “Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Mi sono domandato se questa lettera sia stata un effetto, in qualche modo, della sindrome di Stoccolma.
All’angustia dei giudici di Maigret si aggiunge il loro carattere minaccioso in due autori molto sensibili al tema, Dostoevskij e Kafka. La figura del giudice assume un’immagine tetra e per niente rassicurante. La terzietà scompare. Il giudice svetta con la sua forza accusatrice rispetto all’imputato che si sente già colpevole e condannato. Il giudice diventa un persecutore. Con uno scritto del 1981, I burocrati del Male, Leonardo Sciascia, commentando la manzoniana Storia della colonna infame, mette in guardia dal pericolo anti-illuminista e totalitario di utilizzare la funzione giudiziaria come strumento etico. Punto di riferimento di una pura visione garantista, è stato, però, brandito, postumo, essendo lui morto nel 1989 prima della stagione delle stragi mafiose e dello scontro su Tangentopoli, come un’arma culturale contro la magistratura politicizzata. Eppure, con Porte aperte, proprio lo scrittore siciliano disegna una delle più lusinghiere figure di giudice. Il ‘piccolo giudice’, compromettendo la sua carriera, in un ambiente in cui tutti, popolo e regime, si aspettano che l’assassino sia giustiziato, si assume la responsabilità di non comminare la pena di morte, sorretto dalla sua cultura giuridica e letteraria.
Per orientarsi nella polemica attuale che ha portato il governo allo scontro con i giudici a causa della separazione delle carriere tra giudicanti e inquirenti, suggerisco la lettura di un’opera teatrale, Corruzione a Palazzo di Giustizia di Ugo Betti, che tutto sintetizza su questo tema. Il potere di sentenziare ha come vizio inerente la corruzione: la verità giudiziaria “corrompe” sempre la verità storica; quasi mai coincidono, della seconda la prima dà sempre una versione fattuale ma microscopica, parziale ma socialmente accettabile. Solo la virtù può legittimare l’autorità. Alla fine del dramma, solo il grande corruttore, il giudice Cust, lo comprende per il peso che si porta sulla coscienza. Dunque, qualsiasi riforma deve essere una auto-riforma per essere efficace. Una conclusione (etica) che non vale solo per i giudici e la giustizia.

Le lettere scarlatte (Letteratura e diritto #1)
Un genere anglosassone (Letteratura e diritto #2)

Pasqua

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di Maria Noemi Grandi

Nel recinto gli animali di zio non sono divisi per specie, ognuno trova il suo posto un po’ dove gli pare. Le galline e le oche beccano senza paura in mezzo ai cani, sanno dove ritirarsi a covare le uova e a nessuno degli altri verrebbe mai in mente di disturbarle. I conigli corrono per i fatti loro tra una fossa e l’altra del terreno. Le due pecore, Pasqua e Pasquetta, dormono nella grande cuccia di pietra del cane senza nome che quando serve chiamiamo Cane, che tiene tutto a bada e caccia le volpi quando provano ad attaccare. Mi avvicino all’angolo in ombra dove sta la cuccia. Zio ancora non si vede ma mi ha raccomandato alle cinque in punto e io alle cinque in punto sono pronta, che a scuola la maestra ci dice in orario è già in ritardo e io non lo dimentico. Mi accovaccio, batto sulla rete del recinto, i musi delle pecore e del cane sbucano fuori per il buongiorno. Infilo qualche dita tra le maglie di ferro e li accarezzo come posso.

– Sicura? – mi fa zio alle mie spalle, annuisco e mi rialzo – Vedi che t’impressioni.

– Non mi impressiono – aprile sembra già estate eppure in pantaloncini e canotta ho freddo. Non mi sono mai alzata prima a quest’ora, non la conoscevo la temperatura dell’alba, mi rannicchio per poco tra le mie braccia. Zio mi allunga una pila di ciotole e un mazzo di coltelli.

Che le nostre due pecore si dovessero chiamare Pasqua e Pasquetta io e i miei cugini lo abbiamo deciso il giorno stesso in cui sono arrivate in campagna, durante le vacanze di Natale.

– Queste tra qualche mese sono perfette – ci aveva detto zio – Quando tornate a Pasqua sono grandi il giusto e le ammazziamo – e allora era stata facile quella trovata. Un nome: un destino.

Zio apre il recinto e chiama Pasqua a sé – Andiamo, bella. Andiamo – quella si avvicina placida, pensa le abbia portato da mangiare i soliti resti. Pure Pasquetta si accoda ma zio la spinge indietro e chiude il cancello. Insieme ci allontaniamo di qualche passo sul prato. Pasqua si agita e zio allora la afferra per il collo, le serra il muso, cerca di trovare la posizione migliore per bloccarla e procedere ma Pasqua è forte, scalcia. Zio le sale in groppa, la stringe tra le cosce. I polpacci da vecchio pugile si tendono e tremano. Ora la tiene per le orecchie avvinghiate in un solo pugno. Chino sul suo corpo incredulo, zio mi tende una mano e con le dita veloci mi chiede il coltello stretto e corto. Pasqua si dimena, prova a disarcionarsi di dosso il suo padrone. Zio tira il muso verso di sé, le dispone comoda la gola. Pasqua cerca i suoi occhi, bela stridula in quella posizione innaturale, sembra interrogarlo e poi capire, cercare la sorella che intanto piange chiusa nel recinto – il muso appiccicato alla rete nell’angolo da cui può osservarci fino alla fine. Qualunque sia la lingua o il verso, un pianto lo riconosci. E oggi io so come piange una pecora: come mio fratello piccolo appena arrivato a casa dall’ospedale. Quelle urla acute, scattose, lunghe fino a svuotargli i polmoni e stridergli in gola, come se fuori dalle braccia di mamma ci fosse solo la paura dei boschi neri, la certezza di essere soli e morti.

Zio impugna sicuro il suo coltello – Buona – le dice – Buona! – da sinistra a destra, la sgozza. È stanco ma sorride. Resta curvo sul corpo di Pasqua, la scrolla leggermente per aiutarla a morire. Il sangue sgorga dalla gola spezzata sugli ultimi rantoli. La vita se ne scappa per le zampe che scalciano ancora qualche volta prima di cedere.

– Avanti, è finita, buona. È finita – la consola – Andiamo – mi dice con la voce rotta dallo sforzo mentre se la carica su una spalla e fa strada davanti a me. Lo seguo in silenzio con in braccio gli attrezzi che mi ha affidato. Giriamo l’angolo, ci fermiamo all’ulivo più anziano, bitorzoluto e spoglio ma resistente, appena dietro il recinto da cui ancora la sorella riesce a osservarci. Da uno dei rami più alti, pende già pronta una corda con un arpione. Zio prende Pasqua per una zampa, infilza l’arpione nel tendine del tallone che nonostante il peso non si strappa. Sparisce nella casetta degli attrezzi e io resto sola a fissare Pasqua dondolare nel vuoto a testa in giù. Quando torna zio ha con sé un compressore. Incide la pelle della schiena e appena sotto, nel piccolo taglio, ci infila la bocchetta del tubo. Lo accende, l’aria scuote violenta il silenzio dell’alba e il corpo di Pasqua. La sua pelle si gonfia come una zampogna, si scolla senza fatica dalla carcassa. E Pasqua, come una zampogna, suona. Suona e io mi spavento.

Zio ride – I fantasmi! – rido anche io ma non rispondo – Che fai, ti spaventi? È solo l’aria che passa nel taglio della gola – rido meglio.

– Tipo flauto – faccio. La risata comune ci assolve. Pasqua, tutta gonfia, ridicola, continua a dondolare mentre noi ridiamo.

Spento il compressore viene scuoiata in fretta – Togliamo il vestitino – le dice zio divertito di se stesso. Gli passo quello che chiama coltellaccio e lui si fa deciso, primitivo, le apre la pancia per il lungo. Mi fa cenno e mi avvicino pronta con le ciotole. Fingo, mi tolgo dalla faccia la tensione dello schifo. L’odore vivo del sangue mi punge le narici e la gola.

Zio mi sa e mi richiama – Sbrighiamoci. Arrivano le api – e allora torno vigile e veloce nel disporre ciotole, stracci e coltelli. Per prima cosa estraiamo l’intestino. Zio lo lascia scivolare, viscido e caldo, nella ciotola che tengo sugli avambracci per raddoppiare la mia forza. Scaccio le api attorno a me agitando la testa come una mucca. Passiamo alla sacca dello stomaco, poi ai reni, al fegato. Al secondo giro ho capito come coordinare il respiro. Trattengo quando mi avvicino al corpo, respiro veloce quando mi giro a cambiare la ciotola. Tocca al cuore. Zio si fa più lento, lo estrae con cura a due mani – Trifolato è magnifico. Oppure semplice: arrostito, olio e sale – annuisco, mi perdo da qualche parte e il peso del cuore buttato nella ciotola mi sorprende. In ultimo, i polmoni.

Mentre mi avvio verso casa con le prime ciotole piene di organi, budella e coltelli, lui rifinisce il lavoro. Mozza la testa di Pasqua, la aggiunge in una delle mie ciotole, fa cadere in un secchio i rimasugli che non servono. Poi sgancia Pasqua dall’ulivo, mi cerca lì attorno per mostrarmi fiero tra le sue braccia spalancate in aria sopra la testa, la carcassa nuda e vuota, tenuta per i piedi e per il collo. In casa intanto solo zia è scesa per la sua parte del lavoro. Il tavolo vuoto al centro della cucina è pronto, coperto di traverse e taglieri. Seguo zio al lavandino, lui si sciacqua velocemente le mani, io proseguo su per le braccia, sfrego bene tutte le macchie di sangue, salgo fino alle spalle che mi prudono, mi sciacquo anche le narici.

La carcassa scomposta di Pasqua è sul tavolo. Dai buchi della mandibola sguscia fuori la lingua e si abbandona. I fasci di muscoli e tendini che avvolgono il cranio, gli occhi lucidi e ora esposti, appena pinzati alle orbite, resistono a comporre il suo volto. Mi sembra sorridere, sto sotto la pelle e il pelo e ancora la riconosco. Zio pizzica la lingua tra indice e pollice – Questa al sugo è la morte sua – sorrido. Buona, penso.

Zia intanto prende i sacchetti Cuki e me li porge. Passo a zio l’accetta per separare le zampe dal busto, gli stinchi dalle cosce. Lui conosce le fibre della carne, la loro direzione e resistenza, tra le coste ci entra con la punta del coltello grande e lungo ben affilato. Pare il rumore della seta accarezzata di nascosto nell’armadio di mamma quando giochiamo a le signore del mercato. O no, il rumore dei fogli di pelle che ci stacchiamo a vicenda dalla schiena dopo esserci bruciati al mare. I colpi secchi e decisi dell’accetta tranciano le ossa con pulizia e cura. Nessuna scheggia finisce nella polpa. L’indecisione fa mangiare carne scarsa.

– A Pasqua quanti siamo? – ci contiamo e poi contiamo i pezzi di carne. Immaginiamo quanta fame potremo avere da lì a tre giorni. Zia mi passa i sacchetti e io li arrotolo come so, per aiutare l’imbustamento e far sì che i bordi non si sporchino di sangue. Mi appollaio nell’angolo di tavolo sgombro, gambe ripiegate sotto il sedere per arrivare meglio con i sacchetti alle sue mani piene. L’odore del sangue di Pasqua non lo sento più. Posso stare vicina senza trattenere il respiro. Appoggiata sui gomiti continuo ad arrotolare sacchetti. Sono stanca e gobba. Ma era giusto scendere presto, aiutare zio. Vedere tutto, cosa c’era nel corpo di Pasqua, infilare gli occhi tra gli organi e guardare finalmente da vicino come quelli se ne stanno lì accrocchiati, scoprire come sono fatti, quanto pesano un cuore, un paio di polmoni, lo stomaco lungo lungo di una pecora. Mi drizzo, ho in testa la voce di mamma che mi dice Stai dritta. La pancia fa le pieghe. Pure le cosce premono sull’orlo dei pantaloncini. Mamma li chiama i suoi prosciuttini. Saltare in camera per tutto il mese, tutti i pomeriggi, non è bastato. Quando in oratorio mi siedo devo fare attenzione alla maglia che se ne resta infilata nelle pieghe. Con questa pancia la canotta blu e rosa non la potrò mettere. La canotta blu e rosa però sarebbe stata importante. Il primo giorno di campo è importante. In oratorio tornano quelli di terza media, che ormai è un anno che non si vedono più, e fanno le squadre. Le vacanze di Pasqua non durano niente, ho poco tempo per farmi piacere da Luca. A quelli di prima oggi facciamo i gavettoni di acqua e pipì. Mi tiro i pantaloncini sulle cosce come a slabbrarli e illudermi di avere meno carne attaccata, meno grasso. Un filo di sangue mi è colato su tutto il polpaccio destro. Deve essermi sfuggito. Lecco due dita e lo sfrego ma quello è già secco. Corro su per le scale, busso e ribusso alla porta del bagno ma Chiara, mia cugina, è chiusa dentro e non apre – Mi devo lavare.

– Usa il lavandino di giù – ma nel lavandino di giù c’è l’intestino di Pasqua. Zia già lo sta lavando per bene con il sale, andrà avvolto attorno a tritato, uova, prezzemolo. Buono. Allora cerco di portarmi avanti, lecco le dita e sfrego ancora. Busso.

– Devo usare il bagno. Arriviamo tardi. Non so che mettermi – il sangue di Pasqua è duro a levarsi.

Fuori sua sorella Pasquetta piange. Piangerà senza pace per giorni e notti a cui ci abitueremo e che smetteremo di contare.