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La stagione delle piogge

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di Edoardo Mazzilli


Foto di Pexels da Pixabay

La coppia seduta accanto a loro si alzò e il cameriere uscì a ritirare i bicchieri. Passando di fianco al loro tavolo li informò che nel giro di venti minuti avrebbero chiuso. «Siete rimasti solo voi» disse.

Lei chiese se fosse possibile avere un ultimo Long Island.

«Un altro?» chiese il cameriere, sorridendo.

«Sì, per favore.»

«Porto anche un altro Gin Tonic?» chiese, rivolgendosi a lui.

Lui scosse la testa e alzò il bicchiere, ancora mezzo pieno.

Il cameriere rientrò e per un attimo si guardarono senza dire niente, poi la musica smise di andare.

«No…» disse lei, rivolgendo un’espressione imbronciata verso l’interno del locale.

Lui sorrise e le chiese se le piacesse quel genere. Lei rispose che non era male e lui allora domandò che musica ascoltasse di solito.

«Un po’ di tutto» disse, allungando la mano sul tavolo verso la busta di tabacco. «Mi piacciono molto i Tame Impala. In realtà non sono un gruppo, è una persona sola, ma tutti li chiamano sempre al plurale. Mi piace ascoltarli quando fumo erba, anche se mi ricorda Bali.»

Mentre lei parlava lui fissò le sue dita bianche e ossute arrotolare il tabacco, e la punta della sua lingua scorrere delicatamente lungo la striscia di colla della cartina.

«Tu ci sei mai stato?» chiese dando un’altra piccola leccata. «A Bali, dico.»

Fece no con la testa.

«Vai, se ti capita.»

Lui non rispose e lei accese la sigaretta.

«Jacopo era innamorato di Bali, soprattutto per il surf. Per lui il surf era tutto. Aveva iniziato a quindici anni. In primavera e in autunno prendeva il treno tutti i weekend e andava in Liguria solo per prendere un paio di onde. Ma lì non era molto bello, diceva.

«Ai tempi dell’università invece aveva iniziato ad andare in Portogallo con Dave, un suo amico. Caricavano le tavole sul suo Defender e partivano. È lì che l’ho conosciuto.»

La prima cosa che aveva notato in una delle foto del suo profilo Tinder erano i piercing ai capezzoli. Era rimasto a fissarli per qualche istante, poi si era slacciato la cintura e aveva lasciato scivolare la mano sotto i boxer. In una delle foto successive si vedeva lei in spiaggia, di spalle, con un costume nero a due pezzi. Aveva pensato che quel sedere dovesse essere frutto di anni di danza o ginnastica artistica, e mentre pensava, l’uccello gli si era indurito in mano. Da quella foto aveva notato anche il tatuaggio thailandese che aveva sulla spalla, quella stronzata che si erano fatti anche i suoi amici quando erano stati a Phuket. Un Sak Yant. Solo nell’ultima foto si vedeva nitidamente il volto. Il colore della pelle era chiaro e i capelli sfumavano attraverso diverse gradazioni di castano. Aveva gli occhi verdi e le sopracciglia scure. Attaccato alla narice aveva un anellino d’argento.

A quel punto lui aveva iniziato a masturbarsi, continuando a scorrere a destra e sinistra tra le foto, anche se aveva deciso che sarebbe venuto guardando quella in cui si vedevano i piercing ai capezzoli, nascosti da una canottiera bianca portata senza reggiseno.

«Ero in Erasmus, studiavo architettura al Politecnico di Setúbal,» disse buttando fuori del fumo e stortando le labbra per indirizzarlo di lato. «Dividevo l’appartamento con una ragazza francese, si chiamava Juliette. Era simpaticissima. Nel weekend andavamo sempre a fare giri a Lisbona o da qualche altra parte. Poi una volta una sua compagna di corso ci ha proposto di andare con lei a vedere l’oceano e siamo finite a Cascais, in una spiaggia bellissima. C’eravamo arrivate in autobus, si chiamava Praia do Guincho, mi sembra. Avevamo portato delle birre e ci eravamo sedute lì a guardare quelli che facevano surf.

«Quando ormai stavamo per andarcene dei ragazzi sono usciti dall’acqua con le tavole sottobraccio. Avevano i capelli lunghi e le mute abbassate fino alla vita. Dei fisici pazzeschi. Si sono seduti di fianco a noi e uno ha chiesto all’altro, in italiano, di chiederci una sigaretta.»

Dopo essere venuto aveva scorso definitivamente a destra con il pollice, mettendole like, ma prima si era deciso a cercarla su Instagram. Le uniche informazioni che vedeva su Tinder erano la distanza che c’era tra loro, il suo nome di battesimo, l’età e l’università che aveva frequentato, così era andato sul profilo Instagram del Politecnico di Milano e aveva cercato tra i followers il suo nome. Erano uscite almeno una quarantina di ragazze che si chiamavano come lei. Aveva sfogliato con calma i profili e alla fine l’aveva trovata. L’immagine di profilo era la stessa che aveva in anteprima su Tinder e tra le foto pubblicate c’era anche quella in cui si vedevano i piercing. Altre invece risalivano a un paio di anni prima e ritraevano soprattutto palme e paesaggi tropicali. Poi ce n’era un’altra di lei in spiaggia di spalle, questa volta in topless. Aveva la vita stretta e i fianchi magri. Scorrendo ne aveva notata anche una in cui si vedeva un tizio capellone che faceva surf, ma non l’aveva nemmeno aperta. La sua bio invece recitava: «Wanna play you all my songs».

Il cameriere lasciò il Long Island sul tavolo, lei lo prese e bevve un sorso, poi rimise in bocca la sigaretta e aspirò a lungo.

«Era di Milano anche lui, studiava Economia in Bicocca. Abbiamo iniziato a seguirci su Instagram e quando sono tornata da Setúbal mi ha chiesto di uscire.

«Quasi subito abbiamo deciso che se le cose fossero andate bene, una volta laureati saremmo andati a vivere a Bali per sei mesi. Entrambi lavoravamo e avevamo dei soldi da parte. Volevamo solo godercela, vivere un’esperienza e stare insieme. Abbiamo scelto Bali perché piaceva a entrambi. Io volevo andare a Ubud e fare yoga con i maestri indonesiani, lui invece voleva fare surf, fare quello e basta, dalla mattina alla sera.

«All’inizio siamo stati a Ubud per un paio di settimane, ma lui soffriva perché a Ubud non c’è il mare, è nell’entroterra. C’eravamo comunque divertiti lì, abbiamo scalato un vulcano di notte e visto un sacco di cose, ma poi ci siamo trasferiti perché lui fremeva per surfare. Ci siamo spostati a Canggu, una località a Sud dell’isola, sulla costa Ovest, perché Jacopo aveva degli amici che ci erano stati e gliel’avevano raccomandata.

«Quando siamo arrivati lì è stata la fine di tutto.»

L’aveva cercata anche su Facebook, dove il profilo però non veniva aggiornato da parecchi anni. Non avevano amici in comune e l’unica cosa che aveva scoperto con quella ricerca è che doveva aver studiato anche all’estero per qualche tempo, probabilmente in Spagna, ed era laureata in architettura. Mentre passava in rassegna le immagini del profilo, constatando che negli anni il suo aspetto era migliorato, gli era arrivata una notifica di Tinder: «Hai un nuovo match!»

Si interruppe per bere, poi tirò ancora a lungo dal filtro della sigaretta e poi bevve ancora. Lui sentì una folata d’aria fredda colpirgli le spalle e lei si strinse nel cappotto, rimettendo in tasca la mano con cui non reggeva la sigaretta.

«Canggu è un paradiso» disse. «Quando siamo arrivati ci hanno spiegato che è la località più nuova di Bali, ma anche la più occidentalizzata. Case, bar, ristoranti e negozi erano tutti appena stati costruiti, ma ancora in pochi lo sapevano. Sembrava un piccolo villaggio riservato solo ai giovani. In giro si vedevano solo ragazzi e ragazze, tutti in costume e Vans, ognuno con il proprio scooter con la tavola agganciata di lato.

«Abbiamo preso un appartamento in affitto lì e abbiamo passato i mesi più belli della nostra vita. Al mattino Jacopo andava a surfare e io facevo yoga in balcone, guardando le risaie e le piantagioni di banani. Poi lo raggiungevo all’Old’s Man, che era un locale fichissimo sulla spiaggia, dove abbiamo conosciuto la maggior parte dei nostri amici, tutti ragazzi australiani e californiani. Nel pomeriggio invece prendevamo lo scooter e andavamo a farci i nostri giri, a visitare cose, a perderci tra i villaggi, le palme, le risaie. Abbiamo fatto anche delle immersioni a Nusa Penida qualche volta, abbiamo visto le mante. Stavamo davvero bene, sia mentalmente che fisicamente. Eravamo magri, abbronzati e mangiavamo in modo salutare. Anche Jacopo stando lì era diventato vegetariano.

«Alla sera andavamo alle feste in spiaggia vicino all’Old’s Man e ormai tutti ci conoscevano. Era come essere in una grande famiglia. “Italians”, gridavano quando arrivavamo. Uscivamo tutte le sere. Se non c’erano feste in spiaggia andavamo a cena da amici a Seminyak e da lì poi finivamo sempre al Mexicola o al Favela a ubriacarci, dei posti che non ti puoi immaginare.»

Lui notò che lei aveva iniziato a parlare velocemente e non lo stava più guardando. Era concentrata sul bicchiere che aveva davanti a sé e le parole che pronunciava cominciavano a essere sbavate.

«Poi una sera ci hanno portato al Pretty Poison» continuò lei. «E Dio… quanto mai.»

Aveva deciso di aspettare almeno un giorno per scriverle, ma alla fine era stata lei a farlo, poco dopo. Aveva esordito dicendo che non pensava che anche gli studenti di medicina usassero Tinder. Lui pensò che si trattasse di un modo originale per cominciare una conversazione e le rispose che pensava anche lui lo stesso delle ingegnere. «Infatti, io sono architetta» aveva risposto lei. A quel punto lui le aveva chiesto se fosse l’erede di Renzo Piano e lei gli aveva chiesto in cosa si sarebbe specializzato. Poi le aveva chiesto se lavorasse, cosa facesse nel tempo libero, in che zona abitasse e come mai fosse su Tinder. Lei aveva risposto a tutte le domande, meno che all’ultima. Lui non aveva voluto insistere e allora aveva cambiato argomento chiedendole di uscire. Lei aveva accettato e lui le aveva chiesto se preferisse stare in zona Garibaldi o Navigli. Lei aveva risposto Navigli. Lui, aveva pensato, avrebbe preferito andare in zona Garibaldi.

Spense il mozzicone nel posacenere, finì il drink e allungò di nuovo la mano verso il tabacco. Iniziò a girare un’altra sigaretta.

«Il Pretty era un altro locale strafico, in pratica un capannone di cemento in mezzo alle risaie di Canggu. Era gestito solo da balinesi. Dentro c’era un palco su cui ogni sera si alternavano band locali che suonavano cover dei Led Zeppelin e dei Nirvana. Erano bravi, cazzo. Una volta hanno persino fatto dei pezzi degli Arctic Monkeys. Sul retro invece c’era l’area esterna, una sorta di cortile, sempre in cemento. Al centro c’era una pool dove i ragazzini balinesi giravano con lo skateboard. La gente si sedeva attorno e stava a guardarli ascoltando la musica e bevendosi una Bintang dietro l’altra. Io un posto così non l’avevo mai visto.

«Al Pretty c’era un’usanza, tutti i ragazzi con i capelli lunghi si salutavano tra loro, anche senza conoscersi. Si battevano il cinque e si dicevano: “long hair, long life”. È così che abbiamo conosciuto un tizio sudafricano di nome Roy. Era la copia di Taylor Hawkins. Lui e Jacopo si sono salutati e hanno iniziato a parlare di surf. Questo Roy era stato in tutto il mondo, ma arrivato a Bali si è fidanzato con una di Denpasar e ha deciso di rimanerci.»

Prima di andare all’appuntamento si era masturbato. Gli piaceva chiamarla «la preventiva». Voleva sentirsi tranquillo, rilassato, e non rischiare di sparare colpi troppo presto nel caso in cui lei avesse accettato di andare a casa sua dopo l’appuntamento. Poi si era messo il maglione nuovo, il profumo e la giacca in pelle, ed era uscito. Era arrivato prima lui al locale, ma non era entrato subito, l’aveva aspettata fuori. Lei era arrivata con dodici minuti di ritardo. L’aveva riconosciuta quando era ancora sull’altro lato della strada e stava arrotolando il filo delle cuffie nella borsetta. Lei invece l’aveva riconosciuto solo quando era arrivata davanti all’ingresso del locale. L’aveva indicato sorridendo e gli aveva chiesto se fosse lui. Era più bassa di quanto si aspettasse e portava un cappotto grigio, un dolcevita bianco e una gonna nera in pelle con degli stivali dello stesso colore. Si erano salutati con un bacio sulla guancia e avvicinandosi non aveva potuto fare a meno di notare che avesse un buon profumo, e che sotto i suoi occhi si estendevano delle occhiaie gonfie e marroni.

«È stato Roy a parlare a Jacopo di Uluwatu» disse, fermatosi ad accendere la sigaretta. «Una delle località più a Sud. In pratica, una scogliera unica.»

Lei tirò su col naso e lui osservò i suoi occhi. Le occhiaie sembravano essersi gonfiate e i capillari sulla sclera si erano fatti più rossi e densi.

«Lì ci vanno solo i locals e i surfisti più esperti, ma Roy un giorno ci ha portato Jacopo. Gli ha fatto vedere gli accessi nascosti per arrivare in acqua passando per dei cunicoli. Ci sono tornati un altro paio volte e io e Putri, la fidanzata di Roy, li abbiamo accompagnati. Ci sedevamo con le gambe a penzoloni giù dalla scogliera e stavamo a guardarli.»

Lei aveva chiesto se potessero sedersi fuori, perché fumava. Appena si erano accomodati aveva ordinato un Long Island e quando arrivò lo finì in pochi secondi, senza nemmeno toccare una patatina o un’oliva. Lui invece aveva ordinato un Gin Tonic, precisando che fosse con gin Hendrick’s, e nel tempo in cui lo finì lei aveva già ordinato un secondo Long Island e aveva scolato anche quello. Nel frattempo avevano parlato ancora di università e lavoro, delle ambizioni per il futuro e della vita a Milano, poi lui aveva spostato la conversazione sulla vita quotidiana e lei gli aveva raccontato di nuovo che faceva yoga, ma da piccola aveva fatto atletica, era quattrocentometrista, oltre a questo le piaceva andare alle mostre di arte moderna e nient’altro.

Le aveva chiesto di nuovo come mai fosse su Tinder e lei aveva risposto che aveva bisogno di uscire, conoscere gente e perché no, magari trovare un ragazzo. Ammise che quello era il primo appuntamento con uno conosciuto su Tinder, e il primo dopo molto tempo. Lui le aveva chiesto a quando risalisse la sua ultima storia, ma lei aveva esitato, inspirando a lungo dalla sigaretta, per poi dire che non voleva parlarne, non subito quanto meno, perché era finita male. Gli avrebbe parlato di Jacopo più tardi, disse. In quel momento lui pensò al capellone della foto che aveva visto su Instagram e si chiese se fosse lui Jacopo.

Si fermò di nuovo, ma questa volta non fece niente, fissò semplicemente per terra, come se la porzione di asfalto su cui poggiava una delle gambe della sua sedia fosse importante. Poi si portò una mano sulla fronte e iniziò a singhiozzare.

«Una sera di dicembre si erano dati appuntamento per andare a Uluwatu la mattina dopo, ma quando ci siamo svegliati Jacopo aveva trovato un messaggio di Roy che diceva che era stato male, probabilmente si era preso un virus intestinale con il ghiaccio dei drink del Pretty, e sostanzialmente aveva passato la notte in bagno. Aveva scritto a Jacopo che sarebbero andati un’altra volta a Uluwatu, ma lui ormai era in piedi e voleva andarci lo stesso. Io l’ho pregato di lasciar perdere, ma lui ha insistito, allora mi sono alzata e sono andata con lui.»

Una lacrima scese lungo la sua guancia. Lei picchiettò delicatamente la sigaretta con l’indice, lasciando cadere una piccola quantità di cenere nel posacenere. Poi si asciugò la lacrima con il dorso della mano.

«Eravamo nella stagione delle piogge e quella mattina l’oceano faceva paura. Il cielo era grigio e in acqua c’erano solo due balinesi. Mi ricordo che gli avevo chiesto ancora se fosse sicuro di volerlo fare. “Non preoccuparti” mi ha detto, allora mi sono seduta sulla scogliera. C’era talmente tanto vento che avevo paura di volare giù. Ero convinta che nel giro di poco avrebbe iniziato a piovere. Jacopo è sceso dall’anfratto ed è comparso sotto di me. Mi ha guardato e mi ha sorriso come un bambino, poi si è sdraiato sulla tavola e ha iniziato a pagaiare con le braccia verso il mare aperto.»

Lui finì il Gin Tonic e continuò a non dire niente. Rimase adagiato nella sedia con le mani nella giacca e la guardò piangere.

«Io vedevo che appena si metteva in piedi sulla tavola le onde lo riportavano verso la scogliera in un attimo. Dovevo capire. Sarei dovuta scendere e dirgli di andare a casa, ma non l’ho fatto.

«A poco a poco la corrente ha iniziato a spingerlo sempre più verso destra. Mi sono sporta e ho visto delle rocce che emergevano da quel lato. Quando le onde ci passavano sopra le rocce scomparivano. Solo in quel momento ho iniziato a gridare più forte che potevo. Sono scesa nel cunicolo e sono arrivata in acqua. Gli urlavo di venir via, ma lui non mi sentiva. Anche i balinesi si sono accorti e hanno alzato le braccia facendogli dei gesti, ma lui era in piedi sulla tavola e non li guardava.»

Mentre lei raccontava lui aveva pensato che se avesse continuato a bere così probabilmente entro fine serata sarebbe stata ubriaca, e forse a quel punto avrebbe accettato di andare a casa sua senza esitazioni, o magari sarebbe stata addirittura lei a invitarlo.

«Quando l’ho visto cadere non sono più riuscita a sentire niente. Ho iniziato a nuotare verso di lui. Le onde mi riportavano indietro e io nuotavo. I ragazzi sono arrivati prima di me. Li ho visti raccogliere un pezzo della sua tavola. Poi hanno trovato lui.»

Le sue parole erano increspate dal pianto e dai singhiozzi. Il suo viso era diventato rosso e il mascara era colato lungo gli zigomi.

«Li ho visti riportarlo in superficie. Aveva la testa e i capelli pieni di sangue… i suoi bei capelli biondi. Le onde lo lavavano via, ma il sangue riprendeva a uscire, e lui era lì con la testa china, i ragazzi parlavano tra di loro e io non capivo niente. Poi l’hanno sdraiato su una delle loro tavole e l’hanno spinto a riva. Quando l’ho visto mi sono buttata su di lui. Sarei voluta morire anche io quel momento. È stata tutta colpa mia, mi dicevo.»

Lui deglutì un cumulo di saliva amara e le disse che non immaginava.

«Non ti preoccupare,» disse lei. «Non potevi sapere. È colpa mia, è sempre colpa mia. Sono passati due anni, ma ancora non ce la faccio.»

Non dissero più niente. Lei continuò a fissare il bicchiere vuoto e lui continuò a fissare lei, finché il cameriere non uscì a dire che ora stavano proprio per chiudere.

Lui si alzò ed entrò a pagare.

Un gatto silvestro

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di Giulio Spagnol

Finalmente ho chiesto a J**** di uscire: ha accettato subito! Va detto che non è stata una mia idea: me l’ha imposto un Gatto Silvestro. Ma tant’è. Mi alzo tardi, pioggerella estiva, temperatura uterina; sbuffo, prendo la metro e sbuco a Porta Genova. Non mi va di bagnarmi. Entro da Alice Pizza; le cameriere si stiracchiano dietro il bancone, hanno tutte un’aria da gattini assonnati e occhi grandi come piattini da the. Ordino un cafè con leche, mi comunicano che da Alice Pizza servono solo tranci di pizza. Insisto, ci accordiamo per una margherita e un caffè americano. In strada le persone camminano veloci, come se corressero incontro al proprio patibolo: ogni giorno nella cerchia urbana almeno un tizio si schianta in motorino perché si è girato a guardare una modella di Gucci. Immagino un patibolo eretto in piazza affari: è costruito con stuzzicadenti e cannucce da cocktail; appesi al cappio sbatacchiano i cadaveri di dodici agenti immobiliari in completo gessato; vengono portati via da una carrozza trainata da cinque TMAX opachi neri, la piazza è deserta, nessuno li piange, nessuno qui ha tempo per il mio spleen in salsa guacamole. Conclusioni: 1) questa città non mi merita; 2) sopravvivere qui è come strappare qualcosa dalle grinfie del nulla; 3) in realtà sono proprio uno stronzo. Pago, saluto, carta nella carta, umido nell’umido, esco. Gironzolo per la fiera di Sinigaglia sull’Alzaia del Naviglio Grande. Ha smesso di piovere. Noto una bancarella mandata avanti senza zelo né passione da un trittico padre-madre-bambina. Mi avvicino alla bancarella. Il padre e la madre litigano dietro a una vecchia Fiat Doblò con la vernice bianca scrostata qua e là. I loro dreadlocks, accrocchiati a piramide, sbucano oltre la capotta della macchina; hanno sfumature variopinte: giallo Marte, terra di Siena. Da dietro la macchina piovono espressioni come “la tua parte”, “la bambina”, “questa merda di vita”. La bambina sta alla cassa (una sedia di plastica sormontata da un registratore Anker 1948). Indossa un costumino da bagno giallo ocra, ha gli occhi duri da serpente e i capelli nero-Sofocle, nelle mani regge un Game Boy Color; da bambino, in spiaggia, devo essermi innamorato di una così. Ispeziono la mercanzia: pipe di vetro, orecchini, anellini da mani, anellini da piedi, spillette della Jamaica, una maglietta nera con su scritto “Un uomo senza pancia è come un cielo senza stelle”. In una cesta di dadi trovo un solido convesso, di densità uniforme: sembra il guscio di una tartaruga. Lo appoggio sul banchetto; il guscio comincia a vibrare e dondolare come un Ercolino sempre in piedi.

«E questo che diavolo è?».

La bambina mi risponde senza staccare gli occhi dal Game Boy.

«Oh quello? È un Gatto Silvestro, signore; mi sa che ne è rimasto solo uno».

«Fandonie!».

«Glielo giuro su quello che vuole».

«E a che cosa serve?».

La bambina sembra molto presa dal suo gioco.

«E quanto costa?»

«Costa come gli altri dadi nella cesta».

«Va bene, ma siamo sicuri che…»

«Ehi signore! Non mi starà mica dando della bugiarda?!».

«Ma no. È che mi sembra un po’ strano che…»

«Senta, se vuole chiamo mio padre, ma glielo sconsiglio, che mi sembra molto impegnato a litigare e non vorrei che poi le rompe il muso».

Mi avvicino alla bambina e le sussurro nell’orecchio – la gente mi guarda male.

«Certo, piccola cara, ma non è che magari si chiama Tlön o Uqbar o Orbis Tertius? O, chessò, qualcosa di più appropriato alla circostanza, di più nobile… vedi…, qualcosa che non rovini tutto l’insieme, ecco».

La bambina esegue una scrollatina di spalle.

«Cosa vuole che le dica? Una sera ci giocavo e mi sono addormentata, ho sognato Gatto Silvestro alla guida di un pullman di turisti tedeschi, il pullman passava sopra un covo di vipere, i piccoli di vipera, le mamme vipera e i padri di vipera si fondevano in un’unica vipera dalle mille teste e mi inseguivano, ma io mi salvavo chiedendo asilo politico al re dell’Ohio. Le basta come spiegazione?»

«Hai un sacchettino?»

«No».

 

 

*        *        *

 

 

Ho conosciuto J**** nella biblioteca di filosofia. Lavora al banco mentre prepara gli esami di filologia romanza. Ha sempre un libro in grembo e, quando è seduta, tiene le gambe abbastanza aperte; può concedersi il lusso di portare gonne corte abbinate a magliette da ragazzino delle medie; ha i capelli neri lisci e al vertice delle labbra che sembrano intagliat… insomma, le solite cose. È anche molto consapevole di sé stessa, perlomeno nello spazio: tutti i suoi movimenti sembrano stati messi a punto da un orologiaio, o dal tizio che si occupava dei giochi d’acqua a Versailles. Da come sorride ai ragazzi che restituiscono timore e tremore, mi sembra che disponga di un intero arsenale: ghigni, smorfie, paresi facciali, sghignazzi, moine, svenevolezze. Ingegnose tattiche di guerriglia sentimentali per stupire e scoraggiare. A casa controllo su internet cosa diavolo significhi J***. Be’ insomma, per farla semplice: in un lineare episodio nel libro dei Giudici si narra di Sisera (giovane generale del re Iabin, sovrano dei Cananei, figlio del re Ioacaz e di una ninfa di buona famiglia) che disponeva di un temibile esercito di novecento carri da guerra e, controllando il territorio del Carmelo fino al lago di Galilea, opprimeva gli Israeliti. Il guappo Sisara venne sgominato dal re Barac (figlio di Abinoam, il cui nome significa lampo), come profetizzato da Debora (il cui nome significa ape, sposata infelicemente con un certo Lappidot, che esercitava la professione di profetessa e giudice biblico sotto una palma nella periferia di Rāma o di Betel), nel seguente modo. Dopo un’atroce battaglia e spargimento di interiora ai piedi del monte Tabor (oppure, in alternativa, il monte Hermon) presso il torrente Ghincor, Sisara fugge, e da autentico vigliacco si dirige verso la tenda di un tale Eber (un Kenita come se ne trovano a migliaia, che non abitava lontano da Kades e che Sisera, poveretto, riteneva fedele al suo re), lì fu accolto dalla moglie di lui, J**** (il cui nome significa stambecco della Nubia), che gli dice qualcosa del tipo: “Eber è andato un attimo giù a Kades, a procurarsi foglie di canapa e latte di asinella; entra pure nella sua tenda e riposati”. L’allocco ci casca e, esausto, si mette a ronfare su un mucchio di molli cuscini. «Allora J**** tolse un picchetto dalla tenda, prese in mano un martello e si avvicinò a Sisara senza far rumore. Gli conficcò nelle tempia il picchetto, ma così forte che rimase piantato anche in terra. Sisara passò dal sonno alla morte». Dopo averlo inchiodato al suolo da vivo, J**** va incontro al re Barac, e, tutta orgogliosa come un bambino, mostra un disegno alla mamma, le indica il lavoretto ben fatto; invece di inorridire davanti a tanta carognaggine, piovono grandi pacche sulle spalle e si stappano gli otri; qualcuno canticchia «Sia benedetta fra le donne J**** […] così periscano tutti i tuoi nemici, Signore». Fine.

Deglutisco. Chiudo il computer. Metto su le variazioni di Goldberg e mi faccio un the verde. Ho bisogno di calma. Con le dita che tremano tiro fuori il mio Gatto Silvestro dalla tasca. Mi sono informato: ogni Gatto Silvestro possiede specifiche qualità geometriche e topologiche che, pare, mutano in base a una costante che si ottiene dividendo il numero di bottoni sinaptici del possessore per il numero di rimorsi o ripensamenti che ha accumulato fino a quel giorno. In altre parole, ogni Gatto Silvestro, più che posseduto, viene “cucito addosso” al possessore, come i feed di YouTube o i menu dei voli in primissima classe. Ogni Gatto Silvestro che si rispetti percepisce, computa, immagazzina, predice, agisce di conseguenza, registra la risposta, paragona la risposta alla previsione, si premia o si punisce, fornisce una risposta al suo proprietario, si adatta e ricomincia da capo. Solo una caratteristica, la più importante, non cambia: ogni Gatto Silvestro, prima o poi, cade da un lato o da un altro; c’è poco da fare.

Bene, ci siamo. Sono fuori, nel chiostro della biblioteca di filosofia, appoggiato a una colonna in finto porfido di plastica espansa – quelle originali le hanno portate via per la mostra su Atlantide a Gardaland. J**** ha il turno in biblioteca, dalle quattro alle quattro e un quarto: devo sbrigarmi. Mi accovaccio, sgombero il lastricato di cicche e sigarette, estraggo il Gatto Silvestro. Entro in biblioteca. J**** è lì che non mi aspetta. Mi sorride. Ed eccoci qui, seduti al tavolino del Friedrich der Grosse, appena uscito da uno scrupoloso rebranding; nella nuova carta ci sono solo birre ispirate a famosi campi di concentramento. Sia che io che J**** concordiamo nel trovarlo di cattivo gusto, o perlomeno opinabile. Ordiniamo una Ravensbruck.

«Dovresti smetterla di pensarmi: mi fai venire l’acufene».

«Come fai a sapere che sono io?»

«Ogni volta che entri in biblioteca, cominciano a sanguinarmi le orecchie».

«La massa, per avere forza, deve essere pura: non può accettare scorie dialettiche».

«Questo però mi permette di introdurre un argomento seminale e cioè la top tre dei gelati dell’estate italiana».

«…»

«…»

«Senti – le dico –, perché non la smettiamo con tutti questi fuochi d’artificio? Perché non arriviamo al cuore della faccenda?».

«Insomma, vuoi sapere il motivo di tutti quei sorrisoni in biblioteca?».

«Sarebbe un ottimo inizio, sì».

«Be’, è molto semplice: è un modo per tenervi lontani, per confondervi. Allontano chiunque voglia conoscermi, per rassicurarmi di essere intatta e intoccabile, pura e inespugnabile».

«Ah sì?», la mia Ravensbruck ha un retrogusto smaltato.

«Già già! Il problema è che, sotto sotto, non lo sono; o meglio, lo sono nella misura in cui esiste una purezza che coincide con l’aridità e la sterilità. Ambisco, invece, a una purezza ottenuta attraverso il crogiolo e il fuoco, luoghi di incontro e di fusione, per definizione».

«Gulp».

«Eh sì».

«Aspetta, non sarai mica…?»

«Evangelica, per la precisione. Il fatto è che…, sì, che tu mi piaci costituisce un notevole problema».

Le mostro il mio Gatto Silvestro.

«Me l’ha venduto una bambina. Se non diventerà una hippie, credo avrà un futuro negli Esports».

Mi dice che è molto bello e utile.

Breve scambio e-pistolare.

J: «Ci ho riflettuto, e tra noi non può assolutamente funzionare. Il fatto che tu non creda costituisce un problema insormontabile – capisci? Non te la prendere: nulla di personale».

Io «Con un malato condannato non bisogna voler essere medici. Non ti preoccupare. Mi prendo la mia cottarella e me la infilo in tasca».

J: «Che ne dici di un gin & tonic?».

Io «Guarda, mi piacerebbe molto. Il problema è che il mio Gatto Silvestro mi ha imposto un viaggetto a New York; quindi, non credo proprio di farcela per le sei di oggi pomeriggio. Mi chiedi com’è New York? Sfruttando le proprietà del mio Gatto Silvestro, ho esplorato un po’ la città lanciandolo a ogni biforcazione. Considerata la sua pianta-a-scacchiera, le probabilità di impantanarsi in un loop saranno altine, obietterai tu. In verità, se si considera l’albero dei lanci e un quartiere fatto a rettangolo, le probabilità di tornare sui propri passi e scontrarsi due volte contro lo stesso rabbino sono di ½ x ½ x ½ x ½. Pochine, tantine: dispende dai punti di vista».

 

 

J: «A quarant’anni inoltrati, il conte Lev Tolstoj (Tolstoj in russo significa “grasso”) tentò più volte di ammazzarsi, sparandosi in testa con un fucile da caccia, o impiccandosi nel granaio della sua tenuta di Jàsnaja Poljàna. Motivo? Totale mancanza di significato. Trovare Dio o il “bene” gli ha letteralmente salvato la vita. Ho sempre pensato che l’amore andasse meritato. Quando ne ho trovato uno gratuito, che giustifica e redime, non è che ci sono stata tanto a pensare: certe cose si vedono; è inevitabile, assolutamente inevitabile, come quando sbadigli, o cadi in un fosso. È inutile, quindi, che stiamo tanto a discuterne. Allora? Vuoi venire in campeggio con me?

Io: «È che non sono in città, sono ad Amsterdam. Temo che presto il mio Gatto Silvestro mi spedirà dritto dritto in Finlandia. Vallo a capire. In ogni caso, c’è da stare attenti qui: se entri in un canale le possibilità di tornare sui tuoi passi aumentano vertiginosamente; direi nella misura di ½ x ½. Saluti & baci».

 

J: «Mi sembri uno di quei cavalli da alpeggio, quelli a cui mettono un sacco in testa e, ciechi, continuano ostinati a brucare l’erba».

Io: «1) Il conte Lev Tolstoj un giorno visita l’asilo per i poveri e i senzatetto di Ljapin, a Mosca. 2) Il conte Lev Tolstoj rimane a bocca aperta davanti agli abitanti dell’asilo di Ljapin: affamati, storpi, malnutriti, tremanti dal freddo, dementi, con gli arti incancreniti, umiliati. 3) Il conte Lev Tolstoj, davanti a un Samovar incandescente e a un circolo di principesse, pronuncia la frase «è impossibili vivere così, impossibile. 4) Il conte Lev Tolstoj abbandona i poveri di Mosca, perché non è possibile aiutarli tutti, e torna in campagna, a Jàsnaja Poljàna, a giocare a fare il contadino, a cucinare con la padella, ad affondarsi nella terra come un aratro. 5) Il conte Lev Tolstoj ricava dal lavoro fisico una pace perfetta dello spirito: trova Dio, trova il ‘ bene’, comincia a predicare con frasi patetiche come “tu sentirai la gioia di vivere liberamente con la possibilità del bene”. Chi non lo segue, chi non la pensa come lui, è un’anima perduta che merita l’inferno. 6) Una notte, davanti al camino, ripensa ai poveri di Ljapin. Che felice trovata! Il loro pensiero adesso lo rincuora: grazie a loro sono diventato migliore. Quella notte, al ricovero di Ljapin, un neonato muore di freddo tra le braccia della madre. Il mio Gatto Silvestro mi suggerisce di non diventare un mostro, se lotti contro un mostro.

J: «Carino, ho prenotato una tenda per due».

 

 

*        *        *

 

Si vocifera che il campeggio ‘Sola Gratia ­– Galletto Valparaìso®’ di Introbio (LC) sia stato edificato sulla planimetria originale di un campamento de verano, trovata nella biblioteca personale dell’Inquisitore generale Tomás de Torquemada. Io dormo in tenda con J****. Abbiamo ottenuto un permesso speciale e l’arcidiacono in persona è venuto a inchiodarlo alla nostra zanzariera. In cambio del permesso, ha preteso che dormissimo in una tenda di vetro. Zanzare e rifrangenza a parte, non si sta poi tanto male. Alle cinque e mezza, i megafoni ci svegliano con gli esercizi spirituali di Meister Eckhart, io mi tolgo il caschetto (non si sa mai) e, con il dito indice, perforo un buchino nel paravento e la spio mentre si veste. Usciamo tutti dalle tende e ci disponiamo in semicerchio. Le tende sono posizionate ad anfiteatro romano, in mezzo alla radura. Impilati uno sull’altro, arrugginiscono vecchi strumenti di tortura: Frusta, Gogna, Ruota, Argano della strega, Culla di Giuda, Collare, Gabbia sospesa, Forca, Mordacchia, Maschera di ferro, Pera rettale, Vergine di Norimberga; dovrebbe esserci tutto. Ci scrolliamo la rugiada di dosso e intoniamo i salmi. Colazione veloce. Ci dividiamo in gruppi e iniziamo le attività: digiuno, catechismo, evangelizzazione dei nativi (l’autogrill più vicino è appena a venti chilometri in pulmino), volantinaggio, mortificazione del corpo al ruscello, preghiera nei boschi; oggi si giocano gli ottavi del torneo di pallavolo (Utenti Pornhub VS. Antisti). La notte, quando tutti dormono, copro la tenda con una tovaglia rubata in mensa e mi sdraio di fianco a J****, che fa finta di dormire, girata di spalle.

«Alla fine, si riduce tutto a questo?», mi bisbiglia.

«E ti sembra poco?»

«Cosa ti suggerisce il tuo Gatto Silvestro?»

«Non saprei. È nella tasca dello zaino, ma credo mi direbbe di scappare a gambe levate».

«Quanto ti piace andare in giro a fare l’impunito con il tuo spleen al guacamole, con le tue cottarelle e i tuoi sentimenti? Straccetti lividi, al centesimo lavaggio a freddo in lavatrice: la verità è che sei come tutti».

«Mediocre?».

«Impaziente».

Le passo un dito sulle guance e me lo metto in bocca: sa di salatino al formaggio.

Il giorno dopo, tutti in gita! L’apparizione del Cristo in vetta è data per le 12.45: dobbiamo accelerare il passo. J**** mi cammina davanti, indossa dei pantaloncini da trekking e una magliettina che le lascia le scapole scoperte: che le vorrei spolpare. La lunga fila di devoti si snoda su per la montagna in una preghiera silenziosa. Ci accampiamo a pochi metri dalla cima e aspettiamo il nostro turno. Chi scende dalla cima ha gli occhi gonfi e un sorrisone postcoitale. Tocca a noi. J**** mi trascina su e si inginocchia. Io guardo verso valle: gli uomini e le donne del paese si sono radunati su una collinetta e si divertono a fare rotolare giù una forma di formaggio e a inseguirla. Il Gatto Silvestro comincia a vibrarmi in tasca. Devo essermi perso qualcosa perché J**** si è rialzata e sta piangendo.

«Hai visto?».

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Radio days: Mariana Branca

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Il regno del soundscape senza bordo e confine – Mariana Branca

di Mirco Salvadori

Improvvido mi immergo senza ritegno nel vagare elettronirico di Mariana Branca impossessandomi di una delle più immaginifiche frasi contenute nel suo libro: “Non nella Enne non nella A ma nella Esse” edito per i tipi della Wojtek. La uso come titolo per una conversazione che ha come intento raccontare, raccontarci quanto può avvenire in quel regno senza bordo e confine in bilico tra reale e immaginario. In quella inconsueta ir-realtà possono convivere veri sound artist, musicisti e produttori assunti alla notorietà mondiale come Nicolás Jaar e il suo intimo e indivisibile amico Andrés, creatura partorita dall’alchimia creata dalla mente di una scrittrice abituata a dondolare perennemente in bilico tra i due mondi: quello di Nicolás e l’altro, di Andrés.

Ma lo stupore non si ferma certo all’esplosiva idea che ha generato questa perla di romanzo scritto da una esordiente, si dirà. Calma, valutiamo: se una esordiente riesce a trascinarti così ferocemente in un vortice psichedeliconirico a 80 bpm non uno di più, chissà quanti scritti respirano nell’oscurità dei cassetti nei quali ha racchiuso i suoi pensieri in continuo divenire, proprio lei, la stessa esordiente che lo scorso anno si è guadagnata la finale del Premio Italo Calvino.

Accennavo allo stupore creato anche dall’argomento nel quale l’estraniante miscela creata dalla Branca viene immerso: il suono elettronico. Tutti abbiamo letto libri che avevano una struttura sostenuta dalla musica, ma quale: rock, classica, jazz, rithm’n blues, soul, pop e chi più ne ha, difficilmente però  collegabile a un universo musicale e culturale tenuto a distanza, misconosciuto o non capito perché di non facile fruizione, secondo i canoni dell’imperante mainstream. “Non nella Enne non nella A ma nella Esse” rappresenta, per chi nell’universo musicale elettronico vive e di esso si nutre, una sorta di liberazione, il sentirsi parte di una variegata comunità minore, nascosta, poco valutata ma terribilmente vitale. Mariana Branca, con maestria da docente di sound-scrittura innovativa ad alto tasso elettronico, descrive gli intimi meccanismi della passione che si scatena quando la macchina madre: il synth, inizia la sua danza algo-ritmica. Lei riesce a rendere tangibile fisico, il piacere che si prova quando il beat penetra e la materia sprigionata si espande nell’ascolto, trasformatosi in prova sensoriale descritta con una modalità difficilmente riscontrabile altrove.

Questo libro è una testimonianza di profonda passione per l’amicizia, per il ricordo costante del proprio vissuto, per il suono elettronico ascoltato e prodotto, per la vita notturna con i suoi capisaldi: i club. Un’indagine svolta indossando bombole di profondità perché a volte, il tono della nota e della parola, possono togliere il respiro.

Da dove iniziare? Dalla lettura del tuo libro se ne esce sospesi, con le mani che cercano un appiglio da afferrare e stringere per rimettersi in posizione eretta, i piedi appoggiati al suolo dopo un volo di centotrentatre pagine lette d’un fiato. Prima di partire, ancora in lento avvicinamento alla solidità di una conversazione, mi chiedo chi sia Mariana Branca e quale sia il suo percorso letterario e artistico. Al pari dei personaggi del tuo libro, hai parvenze ir-reali, non sei rintracciabile nei social, non esiste un tuo blog o sito, bisogna cercarti come si fa quando ci si trova nelle città sconosciute alla ricerca dei locali notturni che forniscono ottimo suono e buon bere.

Ciao Mirco, grazie per avermi accolto su Nazione Indiana, che bello, ne sono felice, onorata. Come suonano le tue parole, suonano, suonano proprio. Le trovo così familiari che potrei raccontarti tutto di me facendo un riassunto super stringato ma sperare che tu mi chieda qualche dettaglio, che sono quelli i più belli. Rispondo alla tua domanda: non ho un percorso letterario e artistico. Ho studiato prima al liceo scientifico del mio paese, un village a tutti gli effetti, per la dimensione, la mentalità, la chiusura intellettuale e geografica. Un posto che mi ha tormentato per anni, tanti. Adesso lo amo. Poi me ne sono andata a Napoli, e l’energia del vulcano io me la sentivo sotto i piedi, salirmi nelle ginocchia e farmi avere voglia di muovermi, muovermi continuamente, muovermi, scoprire, conoscere. A Napoli ho passato degli anni a cambiare facoltà, terrorizzata dall’idea di studiare una cosa soltanto e poi trovarmi a fare quel lavoro per sempre, quel lavoro e basta. Alla fine ho scelto architettura e mi sono laureata. Oggi faccio comunque un altro lavoro, l’architetto lo faccio pochissimo, se e solo se ci sono le caratteristiche perché sia un’esperienza creativa e non una mera gara a chi firma più documenti all’ufficio tecnico. Mi avvilisce la burocrazia, non ci vado d’accordo. E nemmeno coi social, coi blog, con le cose che hanno una portata troppo aperta: in questo sono davvero irpina, amo la riservatezza, condividere le cose con una persona alla volta, far entrare solo dopo un’analisi attenta, uno scambio, anche breve, di empatia. Preferisco le lettere, anche cartacee, a internet.

Mariana Branca, come mai la scelta di Nicolás Jaar, un nome decisamente famoso ma soprattutto per chi segue con più passione la scena musicale elettronica. Avevi un range di scelte indubbiamente più ampio, che ne so: Richard David James (Aphex Twin) o un più pop William Orbit che ai tempi era assunto alle alte sfere per il suo lavoro con Madonna, giusto per fare due esempi diversi a caso. Sembra quasi la tua scelta sia dettata da un irrinunciabile legame con l’indipendenza artistica, a parte l’amore per il suono del musicista di origine cilena.

Avrei parlato di Glen Porter, se ci fosse stato materiale bastante su di lui, in rete, nel 2016, quando ho iniziato a scrivere questa storia. Glen Porter che io amo, brutalmente amo. Glen come chiunque altro stessi ascoltando in quel periodo, musicisti di cui potevo parlare con poca gente, quei quattro amici che avevo, per esempio, a cui mandavo la tune del giorno. Nicolás l’ho scelto senza sceglierlo, lui era là, come un meteorite caduto accanto a me. Mi metteva addosso la pace di una galassia aliena. Lui era là, a vent’anni già con la sua etichetta, il suo mondo di arti e artisti, quella dimensione piccolissima e ricercata, segreta, della Clown&Sunset. Lo ascoltavo giorno e notte, guardavo le sue interviste e gli vedevo negli occhi un sottile imbarazzo, una timidità (come citi dopo), una voglia di essere invisibile che mi facevano il cuore in pezzi, in senso buono. Vado matta per i timidi, per chi non ostenta mai, come fa la musica indipendente, per quel poco che ne conosco. Questi musicisti fanno quello che sentono e, se sei fortunato e curioso, un giorno ti ci imbatti e ti cambiano la vita, le ore, le orecchie, il ritmo, il battito in petto. E lo fanno senza clamore, zitti zitti, in segreto. Gli rendo lode.

Come ti è apparsa (uso un termine legato alla magia perché di magia si tratta) l’idea che ha dato il via a questo lungo racconto di musica, fratellanza, introspezione e mille altre sfumature che vanno a comporre il tuo romanzo e come sei riuscita a far convivere la realtà e la finzione, le due componenti invisibili che sorreggono l’intricata struttura del racconto.

Ero alla scrivania di questa casa a Lyon dove mi sono ritirata dopo Londra, maciullata dal grind della vita di Londra. Iniziai a scrivere di una vicina di casa di mia nonna, ‘Ngiulina si chiamava, una tipa buffissima. E mi venne voglia di parlare di cose che conoscevo, che mi dessero un senso di vicinanza, di amore anche, perché era un momento che mi sentivo spaiata, esiliata. Avevo bisogno di un amico, uno immaginario anche, che stesse con me in quella casa col gatto e una pianta tropicale. Nicolás era il più vicino e immaginario che avessi intorno, e perciò ho raccontato di lui, di me che ero Andrés e lui, a fare tutte le cose che non farò mai ma che, scrivendone, ho vissuto, con tutta l’intensità di cui sono capace. A quel punto dovevo parlare del Nicolás reale, perché era reale il suono che mi sparava nelle orecchie, lui e un bel po’ degli Other People amici suoi. Perciò mi sono messa a cercare, ricostruire, creare cronologie, elencare, accumulare informazioni sui posti dove era andato, sulle cose che aveva suonato, fatto, detto, visto, scritto. Ho passato dei mesi senza sapere cosa avessi fatto io dal 2009 in poi, ma lui sì, lui sì. Ho inventato tutto, ma come un ricordo, come se avessi vissuto tutte quelle cose in una vita altra e le avessi dimenticate. Poi è arrivato lui e il Suono e lo Spazio, e io me ne sono ricordata, vividamente, e ne ho scritto.

La tua è una storia di musica, sulla quale andremo a indagare ma è anche intensa descrizione di un rapporto di amicizia oserei dire estrema, di adorazione dell’uno nei confronti dell’altro tra due ragazzi che si ritrovano a vivere l’esplosione musicale in campo elettronico degli anni zero. Semplificando mi verrebbe da citare il nome del duo che Jaar aveva formato con Sasha Spielberg: i Just Friend.

I duetti di Nicolás mi sembravano pura magia, soprattutto quello con Dave Harrington. Una cosa che mi chiedevo: ma come fanno. Perché io questa cosa l’ho desiderata fin da piccola, di avere uno scambio intimo/intimistico con qualcuno, profondissimo e epiteliale, al contempo. Quel legame che se ci si sfiora un braccio senti la portata della vibrazione che attraversa l’altro. Uno scambio viscerale, che non si ferma alle cose che uno fa insieme, ma che crea come un altro essere, un’entità terza che è la fusione dei due. Uno scambio che è la condivisione di quelle cose che non si possono dire, ma cantare forse sì, suonare, inventare, dargli una forma. La musica permette, meglio della parola scritta, questa condivisione a più teste, io però non ho mai suonato uno strumento, non ho mai duettato con nessuno, a parte, forse, nelle relazioni epistolari che ho avuto per anni. Nelle lettere mi svelavo i silenzi di dosso, questo so. Ero timida, di quella categoria che quasi definirei patologica: arrossivo (non ho smesso), non sapevo dire, dichiarare. E forse anche con la recitazione, forse in qualche occasione, duettando con un qualche attore assolutamente-non-professionista, ho sentito questa “cosa” provenire dalle mie budella, dagli organi interni, dai fluidi del corpo. Ascoltavo Nicolás suonare con altri e percepivo questo legame, animistico quasi, che mi commuoveva, mi faceva ridere della gioia di una bambina di otto anni, prevedere mondi futuri, psichedelici di sogni la notte a venire.

Inoltrandomi nella lettura una domanda mi si presentava in random: Mariana Branca si sarà posta il dubbio della poca dimestichezza di gran parte del pubblico con questi suoni e quindi con la sua scrittura, zeppa di riferimenti ben precisi facilmente capibili per gli appassionati ma alieni al grande pubblico? A rincuorarmi il sapere che sei giunta finalista al prestigioso Premio Italo Calvino lo scorso anno.

Mi sono posta un milione di dubbi! Mi dicevo: ma chi ti capisce! con tutti sti paroloni, sti termini tecnici, sti riferimenti a cose eventi date personaggi numeri e tutto il resto. Sapevo che era difficile da leggersi, questa storia, illegibile, mi avrebbero forse anche detto. Ma non avevo alternative. Il mio amico Alfredo Speranza, anche lui finalista al Calvino con me con un libro troppo bello che parla di una grossa ratta e del suo mondo (Rattata), mi ha detto, dopo aver letto il libro: tu sto libro non l’hai scritto, l’hai suonato, Maria’. E io sono rimasta a guardarlo, poi l’ho abbracciato, perché forse è stato proprio così. Perché mentre scrivevo io avevo solo suoni, il Suono, in testa, le parole dovevano perdere consistenza e farsi suono e basta, questo volevo. E allora mi sono detta che, forse, qualcuno, magari anche uno solo, un giorno lo avrebbe letto ascoltandolo, il libro, e mi sarebbe bastato, avrebbe voluto dire che la prepotenza di quei suoni che ricercavo aveva ragione lei, che non potevo scrivere diversamente. Credo molto nella inevitabilità degli eventi, nella necessità che si svolgano proprio così e non in un altro modo. Senza fatalismo, solo l’urgenza che le cose vadano come vogliono andare.

 

Non nella Nenne non nella A ma nella Esse, titolo affascinante il cui significato non vorrei svelare. Farlo leggendolo alla fine del tuo mirabilante racconto è decisamente commuovente. Perché una storia di profonda amicizia, una sorta di on the road sulle strade di mezzo mondo e su quelle al tempo stesso più impervie e accoglienti dell’introspezione personale con una matrice psichedelica ad alto potenziale e una multidisciplinarità oserei dire impressionante: chimica, fisica, filosofia, esoterismo, architettura (so che in questa materia ti sei laureata), religione, etimologia e qui mi fermo ma potrei continuare?

Non so molto di filosofia, ma molte volte ho letto che tutto è espressione del divino. Io non mi esprimo, in merito a dio e dei e religione, ma sento come una fragancia oscura che la si può annusare in tutte le cose, volendo. Credo nei campi magnetici, nelle energie che ti muovono i piedi, negli incontri casuali perché il caso non esiste. Mentre scrivevo ero allibita dalla potenza e dalla quantità di “coincidenze” che trovavo nel mondo reale rispetto a quello che stava sviluppandosi nella mia testa, sulla pagina. Forse è davvero come dicono, che notiamo le cose solo quando ne abbiamo un pensiero precedente: pensiamo a qualcosa e poi ci appare continuamente. È stato così, con questa storia. Tutto era paurosamente connesso. C’è un film di Jarmusch che adoro, The Limits of Control, del 2009, che per me è un po’ l’esplicitazione di questa idea che tutto, le cose le arti la scienza gli eventi, tutto è la manifestazione di una sola enorme energia. Il messicano del film a un certo punto dice: “The old men in my village used to say, “Everything changes by the colour of the glass you see it through.” Nothing is true. Everything is imagined. For me sometimes the reflection is far more present than the thing being reflected.” (I vecchi del mio villaggio dicevano: “Tutto cambia con il colore del vetro attraverso il quale lo vedi”. Niente è reale. Tutto è immaginato. Per me a volte il riflesso è molto più presente della cosa riflessa.)

Direttamente legata alle tue argomentazioni espresse con incredibili voli dentro e fuori il tempo reale, sospesi come lo si è subito dopo la lettura del libro, c’è la presenza di una forma di scrittura che assolutamente incanta e ha la capacità di far pensare quanto sia importante la continua ricerca, l’innovazione, il non fermarsi al già detto e sentito. La stessa cosa che succede in musica. Come ti giungono le ondate di pensieri che tramuti poi in parole sulle quali noi surfiamo investiti dalle folate di vento con il quale le accompagni. Quale il meccanismo della notevole trasmutazione che avvolge il lettore con la potenza dell’onda che si frange e travolge nel tuono del suo contorcersi su se stessa per rinascere e ancora abbattersi sulla pagina.

 Ci vuole un doppio occhio, un guardare doppio, un guardare e poi un vedere, vedere; e ci vuole un doppio orecchio, per ascoltare e poi sentire quello che evocano le cose, le persone, la musica, soprattutto quella. Per esempio, se vado a fare una passeggiata nei boschi, in mezzo ai castagneti che circondano il village dove sono nata, io in quella verdescenza (!) mi sento perdermi, sminuzzarsi il perimetro di quella che sono e farmi inconsistente, vaga. Non è un fatto di entrare in sintonia, non propriamente, perché nei boschi, a volte ci si sente estranei, a volte ti sono ostili, a volte fai troppo rumore e ti senti goffo, inappropriato. È più un assorbire, un partecipare a quello spazio, a quei suoni, a quella trascendenza verde, appunto. E allora si creano immagini nella mia mente, immagini che collegano la sensazione di quel posto a qualcosa che ho vissuto, provato, o che non ho provato mai ma che invento, io invento sempre. Così succede che lo scrocchiare delle scarpe sulle foglie secche e i ricci, nella penombra del bosco di castagni di cento anni almeno, mi faccia pensare a quando ho visto un amico partire, alle patatine che avevamo mangiato tutta la notte, facendocele cadere di bocca, a terra, e il pavimento scrocchiargli sotto le scarpe, prima di andarsene. O viceversa: l’ho visto partire, e le sue scarpe facevano il suono crepitato del bosco, roboante, potente, devastato di ricci secchi.

Esiste una particolarità nella scelta delle parole che mi ha da subito incuriosito. L’uso di termini che potrebbero essere descritti con vocaboli attuali ma vengono riportati con loro simili appartenenti al mondo della pura intima descrizione. Sono infiltrazioni stilistiche volute, portatrici di vicinanza e comunione come per esempio: “timidità” che suona incredibilmente più efficace di “timidezza”.

 Io ci perdo proprio la testa, sui dizionari dei sinonimi e contrari, su quello etimologico, ci passo il tempo, le ore, mi lascio conquistare, ammaliare. Solo quando completamente sedotta, smetto di cercare. Non sempre, s’intende, ma con questa storia era proprio inevitabile, per questa cosa che il suono doveva averla vinta lui e anche perché io mentre scrivevo ero in una bolla, attutita, gommosa o gommata, come sott’acqua, e questa sensazione io la volevo restituire. Nel libro, per esempio, non uso mai la “ed”, come congiunzione, o “ad” prima di una vocale. Io questa cosa l’ho voluta, decisa fin dall’inizio, difesa in fase di editing (spalla a spalla con il mio editor, Eduardo Savarese, la piuma e lo scalpello), perché volevo che ci si fermasse sul suono di ogni parola, stare (..) a (..) ascoltare non è la stessa cosa di stare-ad-ascoltare, no? Io volevo perderci il tempo, sulle parole, ché perdere il tempo sulle cose piccole o insignificanti è una cosa che so fare bene, che mi fa stare bene. Volevo creare un distacco dalle parole consuete, quelle che mastichiamo tutti i giorni e non ci facciamo caso più, volevo farci caso, starle a pensare anche dopo averle scritte, lette e rilette. Volevo che mi rimanessero in testa, e da lì, che mi portassero da qualche parte. Se leggi la parola pappalecco, non ti viene automaticamente voglia di pappaleccare qualcosa? E come si pappaleccano le cose? Insomma, ci resti a pensare, no?

Intitolo questa domanda: Della descrizione del suono. Visto il mio ruolo di “scrittore prevalentemente musicale”, sono rimasto impressionato – chapeau! – dalla tua capacità di descrivere ciò che ascolti con parole che non sono legate agli standard desueti della critica musicale. Leggendoti ho come ritrovato la voglia – che appartiene anche al mio andare per ascolti – di superare la semplice descrizione del ciò che avviene nei solchi di un disco o sul palco di un concerto o dietro una consolle. Ho sentito come una sorta di vicinanza nel cercare di creare un racconto che vada oltre la semplice descrizione di quanto si ascolta.

Tu, Mirco, sei decisamente, definitivamente quel “qualcuno” a cui pensavo mentre scrivevo, come ho detto sopra: magari anche uno solo, un giorno lo avrebbe letto ascoltandolo, il libro, e mi sarebbe bastato. Non ci capisco molto di critica, in generale non mi interessa, e come Nicolás penso che le definizioni siano una cosa mortale, comoda ma riduttiva. Ok, sì, ci danno un’indicazione, ma poi? Non è sempre la nostra percezione delle cose che ci permette di definirne il senso? Avevo un’amica a Parigi, era incredibile. Non aveva nessunissimo interesse musicale, apriva una compilation passatale da qualche amico e la metteva in loop. Si addormentava felice solo con un po’ di sano metalcore (ci sono cascata: definizione), tipo gli August Burns Red, dormiva proprio felice, e se io le proponevo Burial, le vedevo proprio la faccia storcersi in una smorfia di insofferenza, diceva che le faceva venire l’ansia, l’irrequietezza, la smania. Burial.

“E’ un fatto essenziale indossare la musica giusta”: alé. Si entra in area Suono con una tua citazione che spero possa essere compresa da molti ma che in realtà riguarda pochi, tanta è la confusione e disinformazione musicale sotto questo cielo. Nicolas e Andrés, indossano più generi musicali, spaziano in modo estremo dal contemporaneo, al classico passando per la trance, la techno, l’house, l’antico rock, il pop e chi più ne ha. Il risultato è che non sono classificabili come ascoltatori, come in effetti è difficilmente classificabile la musica di Jaar, se non con un ambiguo termine: elettronica. Una scelta questa che ti rispecchia o dovuta al tuo inseguire nel lato reale del racconto, il percorso di un vero musicista e sound artist.

 Chi si somiglia si piglia, credo. Io mi sono pigliata Nicolás perché lui esplicitava tutte queste cose insieme, delle quali non so fare a meno, nemmeno di una di loro. Ho bisogno della techno, dell’antico rock e di quello contemporaneo, del metal, del blues e tutto il resto. Nicolás prendeva questi generi, non tutti s’intende, e li squagliava, li fondeva. E io a sbavare su questa colatura sonica. Lo sentivo mosso da una bramosia, da un non fregarsene niente di rientrare in uno schema, lo sentivo curioso, maniacale, accanito investigatore di onde sonore, comunque esse si propaghino e in qualunque tipologia di spazio. Questo suo interesse per lo spazio, poi, per il contenitore di propagazione del suono, mi fece proprio cadere ai suoi piedi: avendo studiato architettura, mi accorgo che non so prescindere dallo spazio, dai luoghi, dal contesto costruito o naturale che mi sta intorno. C’è una differenza, però: la musica giusta da indossare la puoi scegliere, un posto no. Se vivi in un posto che ti sta stretto, che ti opprime, che non succede mai niente, ti svilisce o che è caotico, hectic e pazzo, se non ci stai bene, quello è un fatto grosso. Nicolás disse in una intervista: fare che il suono si adatti allo spazio. E io ho cominciato a pensare a quante volte ho visto i ragazzi in qualche piazzetta lurida, senza manco una panchina, un baretto, un albero niente, solo un micro vuoto urbano, una rimanenza in mezzo ai palazzi, i ragazzi stare in quella piazzetta come se stessero a Central Park (riferimento letterario, direi, non ci sono mai stata, non so, come si sta a Central Park?) o al Parc de la Villette, adattare quella piazzetta alle loro risate, alle acrobazie sugli skate, al limonare appartati dietro un cassonetto. Ascoltare io lo penso come un verbo gigantesco, ascoltare i palazzi, le strade, la gente dentro. Con un disco che si chiamava Space Is Only Noise, capirai Mirco, che io per poco non ci rimanevo secca.

Mariana Branca si rende conto che è riuscita, nello spazio indefinito che occupa il confine tra realtà e finzione, in quel “regno di soundscape senza bordo e confine” a raccontare la storia di un fenomeno che ha letteralmente stravolto il panorama musicale mondiale? E’ conscia di esserci riuscita descrivendo solo il mondo che girava attorno ad un preciso sound artist, tra l’altro cresciuto lontano dai circuiti classici?

Questa è la domanda più difficile, Mirco! Perché io ho una terribile capacità di autocritica, mi pare sempre che ho fatto un po’, solo un po’, di quello che avrei voluto. Non lo so se ci sono riuscita, ma le tue parole, quelle di altre persone (un poco magiche della magia di cui parli tu, che per essere magia, ci deve essere chi la fa, e chi la sa ricevere), per me sono proprio cosmogoniche: descrivono, si avvicinano, parlano della nascita di questo piccolo universo che ho in testa, che spero, voglio guardare da vicino nella sua evoluzione, starlo ad ascoltare mentre si trasforma in qualcos’altro, questo piccolo universo che ho in testa dove il riflesso, a volte, è più presente della cosa riflessa.

A chi dedichi queste pagine, quale lettore pensi possa abbracciarle sentendosi parte di esse?

Ai timidi curiosi, ai curiosi timidi. Ai timidiosi, ai cùridi.

Ai musicisti, in chiusura conversazione, solitamente si chiede dei programmi in corso o futuri. Lo si fa anche con le scrittrici?

Non lo so, Mirco, se si fa, ma accoglierei qualsiasi domanda provenga dalla tua testa di ascoltatore seriale, compulsivo forse. Voglio scrivere, questo so. Magari potessi solo quello. C’è sempre musica, della musica, nelle cose che scrivo, me ne accorgo quando rileggo. Non una pagina senza almeno un intramezzo. In “Non Nella Enne Non Nella A Ma Nella Esse” parlo anche un po’ di posti, immaginati per lo più, ma ci sono, essi determinano, aprono, chiudono, circoscrivono, esondano. Adesso voglio scrivere esplicitamente di posti, farlo attraverso dei personaggi diversi, somiglianti o opposti agli spazi che abitano, che attraversano. E poi voglio scrivere di persone/personaggi che sono paesaggi, luoghi, edifici, autostrade, corridoi, praterie. Personaggi che sono di questa Irpinia selvatica da cui vengo, farla descrivere a loro. Che lo Spazio è solo Rumore, sì, ma il rumore, da dove viene il rumore, e dove arriva, dove finisce, il rumore.

 

 

 

 

Meglio Papi che Regine: auguri Anna Maria!

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foto di Giorgio Cipriani
foto di Giorgio Cipriani

di

Francesco Forlani

Qualche giorno fa mi ha scritto Dominique Papi a proposito di un progetto che abbiamo in mente per trasmettere in forma di qualcosa, l’incredibile archivio, composto da opere, disegni, fotografie, articoli e testi geniali di Anna Maria che il lettore di Nazione Indiana ha avuto qualche anno fa l’occasione di leggere e amare come li abbiamo amati noi. Questo lunedì avrebbe compiuto 94 anni, e questo reportage miseria della nobiltà dai reali appartamenti dell’aristocrazia inglese mi sembra il modo migliore per ricordarla.

LONDRA: NATALE IN CASA GETTY

di

Anna Maria Papi

Diario di Saragozza: Ex vuoto 11 settembre

2

di

Francesco Forlani

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un
cavo al di sopra di un abisso.

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

 

Queste riflessioni sono parte di un corso di filosofia preparato per i miei ragazzi al Lycée Français Molière di Saragozza sulla nozione di Arte e particolarmente sul ruolo che quest’ultima può avere nella creazione di un territorio nell’immaginario collettivo, qualcosa di simile a un’utopia che, seppure per pochi attimi, da idea astratta diventa qualcosa di concreto, reale. Un attentato al terrorismo.

Per cominciare abbiamo letto le pagine secondo me più belle dello Zarathustra, precisamente quelle in cui Friedrich Nietzsche racconta il “tramonto”di Zarathustra, la sua discesa tra gli uomini che incontrerà poco dopo in una pubblica piazza dove sta per esibirsi un funambolo.

Il nostro arringa la folla, in un’appassionante invettiva contro Dio e contro gli uomini annuncia il suo piano di battaglia e se sulle prime i presenti gli prestano ascolto, subito dopo ce ne viene raccontata l’insofferenza:«Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!». E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all’opera.

Un passaggio per certi versi comico questo che mi ha fatto tornare in mente la straordinaria gag di Hollywood Party, quando Peter Sellers si immette nell’esecuzione dell’ordine da parte del regista e fa saltare in aria, letteralmente, la scena preparata con cura ed esplosivi.

Ma ecco che:

A questo punto però avvenne qualcosa che fece ammutolire tutte le bocche e strabuzzare gli occhi di tutti. Nel frattempo, infatti, il funambolo si era messo all’opera: era uscito da una porticina e camminava sul cavo teso tra le due torri, per modo che ora si librava sopra il mercato e la folla. Ma era giusto a metà del suo cammino, quando la porticina si aprì di nuovo e ne saltò fuori una specie di pagliaccio dai panni multicolori, che a rapidi balzi si avvicinò all’altro. «Muoviti, piè zoppo, gridava con voce agghiacciante, muoviti poltrone, impostore, faccia di tisico! Che io non ti solletichi col mio calcagno! Che stai a fare qui fra le due torri? Dentro la torre dovresti essere, lì bisognerebbe rinchiuderti, tu sei di impaccio a chi è meglio di te!».  – E a ogni parola che diceva, si avvicinava sempre di più: ma quando fu a un passo dall’altro, ecco che accadde la cosa atroce che fece ammutolire tutte le bocche strabuzzare gli occhi di tutti: – cacciò un urlo diabolico e con un salto superò colui che gli ostacolava il cammino.

Questi, però, vedendosi battuto dal rivale, perse la testa e l’equilibrio e, – più rapido ancora del bilanciere che aveva lasciato cadere, – precipitò in basso, in un mulinello di braccia e di gambe. Il mercato e la folla sembravano il mare quando è investito dalla tempesta: tutti fuggivano per conto proprio, ma si calpestavano a vicenda e la maggior parte correva là dove il corpo si sarebbe schiantato. Zarathustra rimase immobile, e proprio accanto a lui cadde il corpo malconcio e frantumato, ma non ancora morto. Dopo un po’ lo sfracellato riprese coscienza e vide Zarathustra inginocchiarsi accanto a lui: «Che fai qui? disse infine, sapevo da un pezzo che il diavolo mi avrebbe fatto lo sgambetto. Ora mi porta all’inferno, vuoi impedirglielo?».

«Sul mio onore, amico, rispose Zarathustra, le cose di cui parli non esistono: non c’è il diavolo e nemmeno l’inferno. La tua anima sarà morta ancor prima del corpo: ormai non hai più nulla da temere!». L’uomo lo guardò diffidente. «Se dici la verità, disse poi, non perdo nulla, perdendo la vita. Non sono molto più di una bestia, che ha imparato a danzare a forza di botte e di magri bocconi».
«Non parlare così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in ciò non è nulla di spregevole. Ecco che il tuo mestiere ti costa la vita: per questo voglio seppellirti con le mie mani».
Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, il morente non rispose; ma agitò la mano, quasi cercando la mano di Zarathustra per ringraziarlo.

da Così parlò Zarathustra
Un libro per tutti e per nessuno
di Friedrich Nietzsche  ( Versione e appendici di M. Montinari. Nota introduttiva di G. Colli, ed Adelphi)

Non credo esista un testo più bello di questo in grado di raccontarci come si cade, perché e dirci che in fondo, al di là delle intenzioni e delle prove, l’essenziale sia proprio questo: cadere. Risuona la celebre frase di Samuel Beckett, All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better. Frase tradotta generalmente con «Ho provato, ho fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio». Fall, Fail cadere e insieme fallire.

*

Al primo passaggio, e sempre nel tema, sarebbe seguita una seconda visione da proporre ai ragazzi e che pure aveva segnato l’immaginario collettivo negli anni settanta, ripresa in un recente racconto autobiografico del funambolo francese Philippe Petit, Traité du funambulisme, ( Actes Sud, 2015)  libro recensito doviziosamente da Giorgio Vasta all’ uscita della sua traduzione in italiano.

Intanto i fatti ( fonte: wikipedia )

“Il mattino del 7 agosto 1974, Philippe compie la sua impresa più famosa e spettacolare: la traversata delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York. Sono le 07:15 quando raggiunge il tetto della Torre Nord, aiutato dai suoi complici nell’installazione dell’attrezzatura, e si prepara a salire su un cavo di acciaio spesso poco meno di 3 centimetri, sospeso a 417,5 metri dal suolo. La traversata dura 45 minuti, tempo in cui Philippe ripercorre il cavo (42,5 metri) otto volte avanti e indietro, con il solo aiuto di un’asta per l’equilibrio e del tutto privo di sistemi di sicurezza. Durante la performance non manca un saluto alle torri e anche al pubblico, che si è formato nel mentre. Al termine dell’esibizione Petit viene arrestato dalla polizia di New York. Tuttavia, valutata la copertura mediatica dell’impresa, il procuratore distrettuale fa cadere le accuse formali e tramuta la condanna nell’obbligo di esibirsi per i bambini a Central Park. Dopo l’accaduto, l’Autorità portuale di New York e New Jersey gli concede un pass a vita per il punto panoramico delle Torri Gemelle.”

Sul sito di Ponte alle Grazie viene riportata la nota di Werner Herzog al Trattato di funambolismo di Philippe Petit:

«Ecco un libro di consigli per quelli che, un giorno, oseranno l’impossibile: camminare dritti incontro al cielo e raggiungere le stelle. Esso mostra l’arte di colmare e illuminare il Vuoto, un vuoto tra due torri, due orli di precipizio, due pianeti, o lo spazio fra il cuore e lo spirito. Un filo collega ciò che sarebbe rimasto separato per sempre nella solitudine. […] Ecco un libro sulla paura e la solitudine, un libro sul sogno e la poesia, sulle altezze crudeli e le nobili audacie, sull’equilibrio maestoso e l’immobilità d’un altro mondo, sulla caduta e la morte. Esso evoca un’estasi che sonnecchia nel profondo di ciascuno, uno stato interiore magnifico, come una luce nascosta. Ti rendo omaggio, Philippe, Uomo Fragile del Filo, Imperatore dell’Aria. Come Fitzcarraldo, sei tanto raro e prodigioso che più non si potrebbe: un Conquistador dell’Inutile. E m’inchino con rispetto profondo».

*

Tornando al punto da cui eravamo partiti, ovvero alla capacità o meglio vocazione dell’arte a creare un paesaggio poco importa quanto riempito dall’esperienza e dall’immaginario che ne traccia la realtà di fatto accaduto, o dal vuoto su cui si sospende un filo, un ponte per rendere possibile l’attraversamento ecco che il “beau geste”, completamente inutile, gratuito, superfluo, compiuto da Philippe Petit ci offre una soluzione. Potrebbero trarre in inganno le facce rivolte all’insù del pubblico, nell’uno come nell’altro caso, l’incredulità di chi è sulla scena ed assiste al gesto audace del funambolo o alla tragedia dell’attentato.  Nessuno comunque avrebbe immaginato che la profezia di Beckett si sarebbe avverata l’11 settembre di ventuno anni fa. Nella stessa opera Worstward Ho, (Peggio tutta, traduzione di Gabriele Frasca, Einaudi 2006) da cui è tratta forse la citazione più famosa dello scrittore irlandese da noi evocata, leggiamo infatti poco oltre:

First, the body. No: first the place. No: first both of them – now one, now the other. When I’m sick of one I’ll try the other. I’ll go on like that (somehow go on) till I’m sick of both of them – till I throw up and go away to where neither of them are. Till I’m sick of that too. Then I’ll throw up and come back: to the body again (where there isn’t one), and to the place again (where there isn’t one). I’ll try again and I’ll fail again – fail better again. Or (better) I’ll fail worse again, fail still worse again. Till I’m sick of it for good, throw up for good, go away for good to where neither of them are, for good: for good and all.

Ci sarebbe da interrogarsi su cosa significhi in Beckett “the place”. La metafisica? cui il corpo cederebbe il posto prima di lanciarsi nel vuoto? Oppure semplicemente il luogo da cui necessariamente si deve partire per poter cadere. Forse il posto è le due torri, e il vuoto,  un vuoto tra due torri, due orli di precipizio, riprendendo quanto suggerito da Herzog a proposito di quell’arte del funambolo, la sola forse in misura di colmare e illuminare il vuoto? A cadere, fall, a crollare furono le torri. Delle stesse, della loro stessa esistenza oggi rimane un vuoto, smisurato, colmato soltanto da un gesto inutile e grandioso, iscritto  nella memoria di chi avrebbe assistito alla magnifica impresa, la traversata compiuta da Philippe Petit nell’estate del ’74.

 

 

Il paese delle persone integre

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di Mariasole Ariot

È con un bianco e nero di un passato non ancora risolto, e che a più riprese riappare nella storia del paese, che il regista de Il paese delle persone integre (presentato il 4 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia) apre il film documentario che schiude una porta ad una storia sottratta alla narrazione dei media occidentali: la storia del Burkina Faso.

Un bianco e nero che non è solo scelta stilistica, ma scelta necessaria: dire il non detto, l’oscurato.


Christian Carmosino Mereu si reca nel paese l’ottobre 2014 per realizzare un documentario in collaborazione con l’Università Roma Tre, il 27 ottobre scoppiano le proteste di piazza di un popolo reduce da 27 anni di dittatura: Blaise Campaoré, l’uomo che nel 1987 ha portato alla morte del rivoluzionario Sankara in un colpo di stato sostenuto da Francia e Stati Uniti, ha indetto un referendum per una modifica costituzionale che gli permetterebbe di prolungare ulteriormente il mandato.

Carmosino decide di restare e partecipare all’insurrezione popolare. La telecamera si muove veloce nei sussulti, si inclina, un movimento accelerato e piegato come fosse un corpo in rivolta, e attraverso la fuga dagli spari, il regista e la camera sempre accesa entrano nei territori fisici e metaforici della lotta. Quattro giorni che non prevedono pausa e ritorno alla base, la notte sulle panchine, gli incontri.

Le grida dei giorni portano il ricordo della volontà di cambiamento di un passato mai dimenticato, un passato remoto ancora vivo nei ricordi di chi l’ha attraversato e di chi l’ha conosciuto per memoria collettiva. Gli anni di Sankara – lo stesso che ha ribattezzato la nazione dell’Alto Volta in Le pays des hommes intègres, Burkina Faso – tornano nei canti, nella ritmicità delle voci di protesta, motore che muove la spinta all’abolizione di un potere malato in ricordo di un’epoca, quella di Sankara, guidata da un governo di impronta socialista che spingeva per la rinascita del paese.

Il paese delle persone integre: un’integrità che vorrebbe essere lacerata dall’alto, ma che, nonostante la ferita, continua nella direzione contraria alla resa.


Se il bianco e nero traccia e demarca il tragico e l’ombra dell’offesa e della violenza nei confronti dei manifestanti, il viraggio al colore accade quando Campaoré abbandona il paese e fugge in esilio.


Una parentesi di rinascita al grido di liberazione, la musica che apre ad una dimensione di sguardo che si volge al futuro.

I corpi, come la telecamera, sono adesso rivolti all’alto, si raddrizzano con fierezza, l’obiettivo partecipa alla danza. Dagli sguardi tesi delle prime scene, allo stato di gioia e speranza di un ottobre che segna una dichiarazione di resistenza e mutamento.  

Restano le macerie nei luoghi del potere: là dove nelle strade assediate il frastuono delle cose viene ripulito dai manifestanti ne giorni seguenti, a segno di memoria i resti e i detriti (reali e simbolici) vengono lasciati a testimonianza nella sede del Parlamento.

Il regista riparte, torna in Italia.

Nel 2015, alla notizia di nuovi attacchi alla popolazione (un nuovo colpo di stato militare depone il potere dell’allora presidente in carica provvisoria) Carmosino riparte nell’immediato per un reportage televisivo. Ma è là, nuovamente in una terra che negli anni è diventa una seconda casa, che decide di rimanere, seguendo le tracce di quattro persone:

il musicista raggae Sam’sk LeJah, simbolo della contestazione nei confronti della dittatura e premiato da Amnesty International come Ambasciatore di coscienza, Assanata Ouedraogo, una giovane donna, madre, che il regista ha conosciuto nei giorni delle proteste del 2014 e di cui seguiremo i passi tra gli scorci del suo quotidiano, Ghost, operaio in miniera, Yiyé Consant Bazié, candidato alle elezioni e protagonista di campagne di informazione.

È così che il passaggio dalla visione esterna a quella più intimista che fa parlare l’altro si amplifica, un dialogo tra la parola che narra del regista – la voce fuori campo che accompagna il girato – e gli incontri in forma di visione o di voce dei tre uomini e della donna che ha scelto di seguire.

L’occhio del regista che osserva dal fuori si sposta in direzione dello sguardo altro, del dire attraverso la parola dei protagonisti.

Come ha dichiarato Carmosino: “Cambiare sguardo è un atto politico”.

Se nella prima parte de Il paese delle persone integre è ricorrente l’uso del fermo immagine sul volto delle persone, intervallato da un nero di silenzio, nella seconda la macchina da presa procede nel suo fluire – pur mantenendo l’interpunzione con brevi pause di silenzio e schermo nero, quando una sospensione accade nel reale.

I primi fermi immagine catturano, quasi a presentazione e ad accenno delle tracce che verranno poi seguite, le persone che nell’evolversi dell’opera cinematografica prenderanno uno spazio esistenziale maggiorato di grado.


Nella seconda parte del film, alcuni scorci e rappresentazioni dell’attuale del paese riportano il regista (e lo spettatore) ad un passato personale – ma universalizzato – di fermento della parola politica e sociale: locande in cui giovani e anziani si accendono nella discussione di temi, questioni sociali, ideali che oggi, qui, vediamo crollare, disperdersi, sotterrati da un brusio superficiale.

E lo stesso fermento anima le riunioni politiche, nei ricordi della vita e delle conquiste e dei tentativi di apertura sociale, economica e politica di Sankara.

Uno popolo connotato dalla volontà della possibilità, del rovesciamento di un passato ancora presente. Nonostante la situazione tragica del paese, la povertà, le difficoltà del quotidiano e l’allerta costante, Carmosino ci mostra come il popolo dei burkinabé resti nell’acceso, non si chini passivamente all’offesa, in un noi collettivo che nel pronome plurale trova la sua forza.

Una dimensione radicalmente diversa da quella che oggi, nel paese da cui osserviamo, stiamo perdendo a favore di un individualismo spento, nell’accettazione passiva e impotente rispetto al cambiamento, o nella una forma di un crescendo rancoroso desertificante. 


Se dal 2015 a oggi il Burkina Faso è diventato territorio di conquista da parte di Is e Al Qaeda e contingenti militari occidentali sono schierati nella regione, se un nuovo colpo di stato del 2022 ha portato nuovamente il regime militare al potere, Il paese delle persone integre ci parla allora non solo della condizione di quel territorio taciuto, ma parla anche  a (di) un occidente che si sfalda nella storia, che dimentica e offusca con una patina di grigio  ciò che sta accadendo nell’altrove, e in un qui in cui lo spirito di resistenza cede in direzione di cecità: quel non voler vedere che il film cerca di ribaltare.

Note:

Il Paese delle persone integre è stato patrocinato da Amnesty International.

Christian Carmosino Mereu è un regista, produttore, docente e operator culturale attivo in Europa e in Africa da più di venticinque anni. È stato direttor artistico di festival e rassegne dedicate al cinema documentario, come [CINEMA.DOC], Doc/it Professional Award e Il Mese del Documentario, e dal 2022 è direttore artistico del Rome International Documentary Festival. Dal 2006 è responsabile tecnico del Centro di Produzione Audiovisivi dell’Università degli Studi Roma Tre, coordinatore del Master in Cinema Documentario.

Per la filmografia completa www.carmosino.com

Antonio Castronuovo. Tra bibliofilia e patafisica

1

di Matteo Bianchi

 

Una miriade di vizi, più o meno capitali, connota il rito della lettura, o quanto meno i supporti che l’avverano: passioni, erotismo, malanni, amputazioni, sepolture, morti e fantasmi aleggiano tra gli scaffali di biblioteche pubbliche e librerie private. Il dizionario del bibliomane, edito da Sellerio, si rivela una fenomenologia dei luoghi dei libri nonché un sommario di psicopatologia di chi li ama e li accumula con affanno, dall’antichità ai giorni nostri. Gli inferni del bibliomane comprendono anche i comportamenti atipici, le stramberie, così la ricerca dell’esemplare unico e dell’abbigliamento adatto per stanarlo sotto polverose pile, o dell’odore specifico di un tipo di colla, e ancora la lotta furiosa contro i tarli, il rapporto con il bancarellista, la ricerca di geometrie sulle mensole di casa, fino ai feticisti della bandella.

Quale bibliofilo, poi, non possiede almeno un Babbomorto nella sua collezione? Castronuovo continua a pubblicare esili plaquette di poche facciate: testi ironici, divertiti, memoriali, aneddotici. Non demorde, vuole la leggerezza, la spensieratezza. Fondando questa piccola etichetta editoriale è riuscito a creare un circolo Pickwick di persone che, sebbene affogate nella tristezza del mondo, sanno stare insieme attorno al focolare di un sorriso. All’opera dal 2017, Babbomorto Editore vanta un catalogo di 250 titoli, tutti fermamente “fuori commercio”: circolano in poche mani ed entrano subito nel piccolo antiquariato, dando alle stampe degli oggetti di carta e inchiostro che sono già delle rarità.

Immagino che lei sia stato contagiato dal morbo sacro dell’accumulare libri. Di quale altra patologia – presente nel suo dizionario – è affetto quando si rapporta con gli oggetti in questione?

«Tutte le patologie presenti nel mio libro mi affliggono: le ho tutte. Mi piace acquisire libri, accumularli, annusarli, palparli, dormirci assieme. A volte li bacio anche, così come mi arrabbio con quelli che comincio a leggere e devo subito abbandonare perché mi respingono. Sto anche già pensando quale libro portarmi nella tomba, ma nessun autore scorbutico: dovendo morire, voglio ridere».

Rimane incancellabile il veleno cosparso a bordo pagina che uccideva dopo dolori atroci i benedettini de Il nome della rosa. La figura di Eco ritorna più volte nel libro. Che cosa ha rappresentato per lei e per la cerchia dei bibliofili Umberto da Bologna?

«È stato un grande bibliomane italiano (aveva cinquantamila libri…); ha scritto cose importanti sulla bibliofilia (pensi ai saggi de La memoria vegetale); è stato tra i fondatori del più antico sodalizio bibliofilo italiano, l’Aldus Club di Milano, nel cui direttivo adesso siedo io pure (sebbene immeritatamente): impossibile non guardare ad Eco come a una stella polare».

Per quale libro commetterebbe un delitto esemplare?

«Premetto che il mio delitto esemplare non sarebbe mai un reato da Corte d’Assise, ma per un grande libro sarei disposto a organizzare un geniale colpo. Quale libro? sono indeciso tra una Bibbia stampata a Magonza da Gutenberg nel 1455 o un ottimo esemplare della Hypneotomachia Poliphili, stampata a Venezia da Manuzio nel 1499».

Un aneddoto gustoso?

«A me piace molto la vicenda di quel tale che invece di far rilegare i libri li faceva rinchiudere da un maestro vetraio dentro delle bottiglie, che poi allineava sugli scaffali. Nel biglietto da visita aveva fatto stampare il termine enigmatico “bibliopixidista”: un titolo molto sonoro, ma resta inteso che far collocare i propri libri in bottiglie o damigiane è una forma davvero pazzoide di collezionarli».

Il locus amoenus del bibliofilo è la biblioteca: secondo quale criterio lei dispone i suoi libri?

«Il paradiso del bibliofilo è la sua collezione privata, in cui egli ama trascorrere giornate intere. Il vero bibliofilo è uno che dovrebbe restare scapolo: in fondo, i buoni libri non tradiscono mai, le persone sì. Anche io adoro passare ore con i miei libri, disposti secondo un ordine mentale molto personale. Credo che non esista un disposizione valida per tutti e per ogni collezione: ognuno allinea i propri libri come vuole. In fondo è lui a doverli gestire e ritrovare: non dobbiamo ordinare i libri pensando agli altri. Noi bibliofili non siamo biblioteche pubbliche, anzi dobbiamo evitare di prestare i libri, ed è anche bene non invitare nessuno nelle nostre biblioteche: a parte noi stessi, chiunque altro è stonato e non gradito».

So che da anni percorre i sentieri luminosi della patafisica. Cosa l’ha convinta della scienza delle soluzioni immaginarie?

«Il fatto che la Patafisica riflette la vita (costituita da progetti che non si avverano o che falliscono sempre), che è immagine degli uomini (seriosi, ma sempre ridicoli), che insegna a non dare troppa importanza a se stessi e, di conseguenza, a tutti gli altri. La Patafisica è un magnifico spazio fatto di nulla: specchio verace dell’universo».

Chi è il più grande maestro di aforismi della storia della letteratura e come si compone l’aforisma perfetto?

«Non esiste un solo maestro di aforismi, ma molti nomi che afferiscono ai diversi ambiti dell’aforistica. Perché dire “aforisma” equivale a dire “forma breve”, e la forme brevi in letteratura sono tante. Pochi esempi: maestro del genere della massima è il francese La Rochefoucauld; grande maestro dell’aforisma pessimista europeo è Cioran; maestro dell’aforisma impertinente italiano è Longanesi, e così via. Come si scrive un aforisma perfetto? Semplice: si prova, si corregge, si riprova, si sbozza, si cambiano parole, si butta via tutto e si ricomincia. Scrivere un aforisma è come scrivere la pagina di un romanzo…»

La creazione del mondo

3

di Tomaso Boniolo

“Ho letto così tanto sui popoli primitivi, che sono diventato io stesso un popolo primitivo”. (Elias Canetti, La Provincia dell’uomo)

 

1- La creazione degli uomini e delle donne.

I Boniolo sono una piccola tribù che vive tra le montagne, in un isolamento che è frutto della presunzione e del rancore.

Degni di nota sono i loro miti sulla creazione del mondo.

All’inizio -dicono i Boniolo- il mondo fu creato da una coppia di dei, la Madre e il Padre, che lavoravano in perfetto accordo.

Verso la fine dell’opera, però, i due si trovarono in disaccordo su qualcosa (il colore delle nuvole? I dinosauri? Non lo sappiamo).

Il mondo era quasi finito, mancavano solo gli uomini e le donne. Per non continuare a litigare all’infinito, Padre e Madre si divisero il lavoro: lui creò le donne, lei gli uomini.

Dato che i maschi -quando lavorano concentrati su qualcosa che li interessa molto- ottengono spesso ottimi risultati, il Padre creò le donne senza difetti. La Madre invece creò uomini imperfetti perché -come tutte le femmine- scambiò i suoi sogni per realtà.

Così furono creati i nostri antenati e le nostre antenate e così, secondo i Boniolo, sono rimasti fino ad oggi.

 

2- La creazione della luna.

All’inizio dei tempi (secondo i Boniolo) Padre e Madre crearono la luna profumata.

A ogni luna nuova il profumo cambiava: per esempio a maggio la luna profumava come di gelsomino, tenue all’inizio e poi sempre più intenso fino al plenilunio.

Sfortunatamente la luna -a quel tempo- stava molto vicina alla terra e il profumo era troppo forte. Una notte serena di luna piena alla lavanda (in febbraio) poteva far impazzire una mandria di tori. Quindi i primi Boniolo pregarono gli dei di allontanarla un pochino, e furono esauditi.

Però Padre e Madre spostarono la luna troppo in là e oggi il suo profumo non si sente affatto. Per questo ci assale la tristezza quando la guardiamo, e per questo gli sciacalli, nostri fratelli, ululano alla luna piena: si lamentano e cercano di richiamarla indietro.

[Questo racconto Boniolo è stato inserito da Roth e Dal Bon nell’Atlante mondiale della Nostalgia (Heimweh-Weltatlas 2a ed., Heidelberg: Springer, 1959)]

 

4- La memoria

Un tempo -raccontano i Boniolo- noi non avevamo memoria.

Gli effetti erano a volte comici (dato che non ricordavamo di esserci già incontrati, passavamo tutto il nostro tempo a salutarci) altre volte tragici (la tigre dai denti a sciabola è pericolosa, se lo scordi sei fritto). C’erano anche dei lati positivi dell’essere smemorati, però li dimenticavamo sempre.

Così gli anziani mandarono un giovane guerriero a chiedere agli dei la memoria. Gli tolsero il cuore (che del corpo è la parte più pesante), e lui poté salire oltre la montagna. Arrivò al villaggio della Madre e del Padre. Quando fu davanti a loro, chiese quel dono per la sua gente. “E tu, cosa ci darai in cambio?” gli chiesero gli dei. “Faremo dei sacrifici in vostro onore” rispose il giovane Boniolo, ma gli dei dissero che non bastava. “Sacrifici umani, ragazze vergini, roba di valore” aumentò la posta il guerriero, ma non bastava ancora.

“Vi daremo la nostra coscienza di quel che è bene e quel che è male” disse lui alla fine. Dal momento che non aveva il cuore, gli sembrava un prezzo accettabile. Il Padre e la Madre accettarono subito. Ancora oggi si discute tra i Boniolo se il prezzo pagato per la memoria sia stato troppo alto. I nostri fratelli maggiori gli sciacalli, invece, non hanno nessun dubbio e ci chiamano: Quelli-che-non-chiedono-scusa.

 

7- Il futuro

Quando il Padre e la Madre li ebbero creati, i Boniolo -tutti sorridenti- restarono in attesa.

Dopo un lungo momento di imbarazzo, chiesero ai loro creatori: “E adesso che si fa?” Gli dei non rispondevano, così i Boniolo pensarono di insistere: “Come sarà il nostro futuro, o dei onnipotenti?” “Il vostro cosa?” chiesero gli dei

“Il nostro futuro… programmi, aspettative, impegni, cose di questo genere”. Gli dei restavano muti.

Le creature alzarono la voce: “Eclissi, mutui, vacanze, piani quinquennali! L’evoluzione della specie!”

“Ah, ok, quelle cose lì -dissero gli dei- … noi le decidiamo sul momento… di volta in volta”

“Ma questo è il presente, non il futuro! Imbroglio! Vergogna!” I Boniolo erano indignati, ma gli dei se ne andarono senza aggiungere una parola.

Dal momento che non avevano ricevuto alcun futuro dalla Madre e dal Padre, i Boniolo se ne fecero uno da soli, e anzi -appena fu pronto- vi si trasferirono tutti. Tra parentesi: quello fu il momento esatto nel quale si cacciarono in un vicolo cieco culturale.

Ne eravamo coscienti? si chiedono. No. Avevamo dei sospetti? Forse sì, ma a quel tempo eravamo bambini e quindi, e giustamente, irresponsabili. Ci assolviamo, amen.

 

11- Arte

Una settimana circa dopo l’inizio del mondo, la Madre e il Padre si complimentarono tra di loro: “l’abbiamo creato a regola d’arte”.

I Boniolo che stavano ascoltando distratti (come al solito), della parola “arte” capirono questo:

  1. a) ha a che fare con gli dei b) è una faccenda creativa e c) però ci sono regole, di qualche genere.

Per questa ragione i primi artisti Boniolo erano molto simili agli sciamani e l’opera d’arte sembrava la celebrazione di un sacramento estetico.

Erano i cosiddetti bei tempi andati: everybody is happy, everybody is fine.

Poi purtroppo arrivarono le famose Incomprensioni, delle quali abbiamo già parlato: in pratica, gli dei e i Boniolo litigarono furiosamente.

I preti -senza una loro responsabilità diretta- scivolarono giù per la scala sociale fino al rango dei parassiti, gli artisti si fermarono a quello dei perdigiorno.

 

Questa situazione difficile mise in luce le differenze tra i due gruppi di reietti. I sacerdoti si fecero minacciosi, scomunicarono e predissero sventure. Gli imprevedibili artisti, invece, si dissero contenti che fosse finita questa tregua tra loro e una società “meschina, conformista, materialista, fondata sull’ipocrisia”.

Fu un grande successo! I Boniolo, che detestano sentirsi chiamare meschini, conformisti, ecc. si fecero piccoli piccoli.

Si abituarono subito a guardare l’artista dal basso in alto: era ancora un perdigiorno, ma di gran livello: si occupava di questioni sublimi! Una parte della tribù (quella che non faceva l’elemosina agli sciamani) istituì borse di studio per artisti.

Loro profittarono della situazione per scrollarsi di dosso tutte quelle regole che li obbligavano a mantenere rapporti decenti con la società meschina, conformista ecc.

Un giorno dichiararono abolita la funzione morale dell’arte, la settimana dopo quella sociale. Poi toccò alla figurazione e alla composizione, alla fine fu abolita anche la creazione. L’objet trouvé, il video amatoriale, il rumore e la poesia automatica regnarono sovrani nelle sale da concerto e nelle gallerie.

Se i Boniolo non avessero inventato, per legittima difesa, i critici d’arte e i curatori delle mostre, a quest’ora gli artisti avrebbero il comando su quella piccola tribù che sarebbe condannata alla rovina, poco ma sicuro.

 

13 – Verità e scrittura

«I nostri Dei ci hanno creati sinceri -dicono i Boniolo- noi non diciamo bugie».

Lo dicono con orgoglio, ma un piccolo sospiro tradisce come sentano, dopotutto, il peso di questa grande virtù.

Mai si sentirà una madre chiedere ai figli se si siano comportati bene, né mai un fidanzato chiederà alla sua bella se lei lo ami davvero. La vita è già abbastanza complicata -dicono- soprattutto quando si ha un carattere difficile come il nostro. Per amore della verità (e della pace) i Boniolo sono obbligati alla prudenza. Non si sveglia il cane che dorme.

Così, anni dopo, la Madre e il Padre  -per premiare la sincerità di quelle creature- regalarono loro la scrittura. Come se non avessero aspettato altro, tutti si misero a scolpire iscrizioni sulle prime rocce a portata di mano. Ogni giorno un nuovo autore promettente terminava un’ode, o un saggio.

La questione della verità, però, dovette essere riconsiderata.

«La parola pronunciata ha la vita breve -argomentarono i Boniolo- mentre la scrittura dura nel tempo. Ma nel tempo le opinioni e i giudizi cambiano, spesso più e più volte. Quindi chi scrive è sollevato dall’obbligo della sincerità. Anzi, si può dire che scrivere cose vere sia un atto di presunzione imperdonabile, un ostacolo fatale al progresso delle idee».

Per questo le loro promesse scritte, le leggi, i romanzi, i trattati, ecc. erano (e sono anche oggi) una sequenza di menzogne allegra e prolissa.

 

14 – Antropologi

Il desiderio segreto dei Boniolo è quello di essere raccontati, dicono i nostri fratelli sciacalli. Purtroppo però il gran passatempo di questa tribù è confondere le opinioni che gli stranieri hanno su di loro. Forse (pensano) quel gran Alexander Stephen  ha capito qualcosa dei Severi-delle-Aquile, ma con noi non ha cavato un ragno dal buco. Eppure è strano: scappiamo dagli stessi fantasmi, inseguiamo gli stessi sogni.

Quando qualche antropologo arriva in uno dei loro villaggi per studiare gli usi e i costumi, si sentono subito le grida “è mio!”, “no! L’ho visto prima io!”, “qui, signore! Io parlo volentieri!”. Poi, la sera, si raccontano davanti al fuoco: “gli ho detto che di pomeriggio sento le voci, e che quando mia figlia vive con la madre di mia moglie diventa una specie di mia zia”. Sorrisi, denti che brillano nel buio.

Non mentono -non ne sono capaci- ma se la godono a ingarbugliare il più possibile le idee delle loro vittime. Se alla fine l’antropologo conclude con un sospiro che la loro raffigurazione del mondo è “assai ridotta, insolitamente primitiva, confusa nelle categorie”, i Boniolo sono sorpresi e si offendono: “non è vero! Noi non siamo ingenui! Siamo complicati! Siamo complicatissimi!”.

 

17 – Lepri

 

Su quel che accade quando si muore, i Boniolo e i loro vicini hanno idee differenti.

I Wariri-dei-leoni immaginano regole complicate sul destino delle anime: se sei stato un buon guerriero, o cattivo, oppure se il tuo clan, se invece gli antenati, e se la posizione delle stelle di qua, o di là, ecc., ecc. … allora ti ritroverai dopo morto in quel posto, o nell’altro, dove sarai contento, o soffrirai tantissimo, o magari -sorpresa!- né l’uno né l’altro. Per i Wariri l’aldilà è argomento di conversazioni  appassionate, che spesso finiscono a colpi di clava. I loro sciamani  hanno cataloghi (e tariffari) per le anime, proprio come quelli che si trovano nelle agenzie di viaggi.

I Severi-delle-aquile sono più riservati, si potrebbe quasi dire: enigmatici. Riportiamo qui di seguito quello che ci sembra di capire.

La posizione ufficiale della tribù sull’argomento è che “quando uno muore tira il fiato, non succede più niente di importante”.

Interrogati con discrezione alcuni di loro parlano però di “trasparenze improvvise”, echi di canti, cose che accadono “nella nebbia, quando si leva, dopo la pioggia”.

Altri Severi parlano di “seguire la pista del tasso” o anche di abitare “nell’ombra del corvo”. Stranamente, queste idee differenti non li disturbano. Ammettiamo tutte le varianti dicono, con solennità.

 

Noi Boniolo invece abbiamo una maniera molto più elegante di affrontare il problema. Incarichiamo chi sta per morire di stendere, una volta arrivato,  una breve relazione su quel posto: basta una mezza paginetta, per favore, solo i fatti.

Ci raccomandiamo, loro promettono: sì, sì, vi scriviamo (come fanno sempre quelli che partono). Poi preghiamo le lepri di portarci quei messaggi. Così sappiamo senza incertezze, senza paure, quel che accade davvero dopo la vita.

Purtroppo, tra tutte le bestiole portatrici di notizie la lepre è la meno affidabile.

Si ferma ad annusare, si inquieta per un fruscio di foglie. Lungo il cammino, in quel prato sono spuntati i denti di leone: c’è tempo per uno spuntino. Incontra altre lepri, o i porcospini: cortesia vuole che si faccia conversazione. Si è fatto tardi: meglio scendere nella tana e riposare. Sogna, i suoi lunghi baffi vibrano. La mattina dopo ha dimenticato tutto.

Alcune sono tornate, ma solo per scusarsi. La maggioranza non si fa vedere affatto. Siete proprio delle belle messaggere! ci lamentiamo noi. Non sappiamo proprio niente della morte, ma l’idea era buona. È tutta colpa delle lepri.

( questi paragrafi sono una selezione  di un’opera originariamente destinata al teatro, l’illustrazione che l’accompagna è dell’autore, g.m.)

Reincarnazioni

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di Andrea Betti

“Haroun al Rashid…vaga tutta la notte in vesti di mercante, si identifica nell’ultimo facchino, marinaio o brigante, rischia con lui la vita o il taglio della mano. Ma resta pur sempre il califfo: che al mattino siederà sul trono d’oro della giustizia e dovrà assumersi il destino, il significato, di tutte quelle esistenze.” 

Cristina Campo, Gli Imperdonabili

«…del resto, pensavo: le cose sono cominciate ad andare male da quando sono tornato onnivoro. C’è un parallelismo. Il bad karma della mattanza, ininfluente su chi non si è mai posto il problema etico del mangiare carne, virulento su chi era diventato veg ed è tornato sui suoi passi. È una cazzata da paranoico, lo so».

Spalancò la porta di metallo sbatacchiandola senza riguardo; la lucetta della sauna che aureolava Samstag sembrava accecante vista dal fondo del corridoio angusto e buio; lo chiamano effetto Brocken: così che appena emerso dalla nuvola di vapore, la sua sagoma controluce iniziò a proiettare ombre concentriche nella fuminea, via via più larghe e diafane; i suoi movimenti si tradussero in lame oscure e radianti, i suoi zoccoli di legno rimbombavano sul pavimento con echi di grotta, fra i sibili del vapore di quella vecchia palestra del seminterrato nel compound C-43 che lo facevano sentire un superstite vacuo, mentre s’incamminava nudo verso le docce. Pensava veramente di essere afflitto dalla maledizione della carne: lo aveva detto o pensato, stava ricordando o parlava da solo a voce alta? Era per scherzare o per confessare scherzando? Ma di certo, se valutava i suoi ultimi tre, quattro? Forse cinque (o erano già dieci anni?) da che aveva ricominciato a mangiar carne una sera di ottobre, in un ristorantino di Dieusaitquoi, o insomma da quelle parti, allora non poteva fare a meno di notare il trend negativo – anche se lui avrebbe preferito parlare di “spirale discendente” come il titolo di quel disco che gli piaceva tanto da ragazzetto e ora non ricordava – ricordava poco: che erano lì in vacanza, con la sua ex moglie e una coppia di amici; da qualche tempo vagheggiava l’idea di riprendere a mangiar carne, pur con certe accortezze e cautele, in occasioni precise, mantenendo basilarmente il regime vegetariano. Come quando riprese a fumare, promettendo a sé stesso e a chiunque incontrava, che ne avrebbe fumate solo due al giorno, come faceva sua madre.

«Ma la carne non è come le sigarette. Non è un vizio». Obiettava la consorte: certo, però, constatando gli sviluppi della sua vita da quel momento in cui una forchetta con un pezzo sugoso di ottimo hamburger tornò a interessare le sue papille gustative, non poté non notare un degrado progressivo, impercettibile quasi, ma costante della sua qualità di vita; degrado di fotocopie di fotocopie, lo sbiadire di ombre vaporose, l’affievolirsi del segnale portante in una nuova distanza che era in realtà il mesto ritorno alle sue origini, ai suoi rimpianti, al suo stato di natura, alla casa degli anziani genitori, il “Mausoleo” come lo chiamava la signora Samstag, con un’ironia nella quale aveva sempre avvertito una nota di disprezzo.

Nel rinnegare ciò che aveva scelto di diventare (vegetariano, seppur imperfetto, eretico, pescetariano occasionale) aveva perso un credito cosmico che si era creato in favore del destino che ci è dato; la scelta di alterare la programmazione originale non sempre è premiata ma sicuramente è sanzionata quando si torna indietro. Aveva creato un’intercapedine con una superficie abrasiva dove la sua integrità di persona andava a sgretolarsi, ogni giorno, un po’ di più, veniva, come dire? Grattugiato…

«Ma non c’entra nulla. Dai! Doveva succedere tutto quel che è successo».

«Ah, sì? E come la mettiamo con l’essere artefici del proprio destino? Tu prima mi dici che siamo artefici del nostro destino e ora mi dici…in pratica che è tutto scritto? – Doveva succedere…– ma che cazzo dici? È una contraddizione, capisci? È una TUA contraddizione o no? Allora è il destino artefice delle nostre vite? Oppure, – fammi capire un po’ chi sei tu, che mi stai accanto ormai da dieci anni…– pensi che quando fa comodo siamo artefici e quando va di merda, non lo siamo più? Così, à la carte, come torna meglio?».

La signora Samstag scosse la cenere sulla tovaglia, non intenzionalmente, ma doveva sempre guardare dritto negli occhi il signor Samstag quando iniziava a sclerare – dio! Come odiava quel verbo fasullo, che rendeva ogni impeto sciocco, ogni discussione un battibecco, ogni reazione uno scatto nervoso, senza un pensiero dietro, senza uno scopo – il loro psicoplasmatore aveva raccomandato di guardarsi sempre negli occhi, come quell’ossessione che hanno taluni brindando, che a Samstag era sempre suonata un po’ come una dimostrazione di sfiducia, un soprassalto di aggressività. Ma no, Samstag, ti sbagli, diceva lo psicoplasmo: guardarsi negli occhi per depotenziare, per rendersi conto che non si stava sbraitando contro un muro, ma contro qualcuno.

«Samstag, tu cerchi lo scontro. Io, lascio correre, come ha detto il dottor Zulawsky. Lascio cadere il discorso…».

«…ma…ma io, io non sto litigando! Ti sto ponendo una questione, come dire? Di principio? Questo è il mio modo, mi appassiono, mi accaloro…».

«Stai sclerando e basta, perché ti fa rabbia che io non sia d’accordo con te!».

«…ma d’accordo su COSA?».

«Vedi che la gente si volta a guardarti? È una cosa che non sopporto in privato, almeno qui, al ristorante, dove tutti ci vedono, ti chiedo, per cortesia di mantenere la calma, di abbassare i toni…non essere deplorable

Samstag era paonazzo, quella voce sembrava provenire da un prontuario di Riallineamento Sociale: non era la voce della Signora Samstag, di cui, per discrezione, non diremo il nome, ma chiameremo solo Signora Samstag. Esisteva ancora un flebile discrimine fra la passione e la violenza nella società, fra l’accalorarsi e il farsi minacciosi? Samstag per indole o paura se ne era sempre tenuto alcuni passi indietro, ma negli ultimi anni, pareva aver recuperato almeno agli occhi di sua moglie e degli avventori che si giravano indispettiti. Stava gridando? Stava gracchiando? Erano in un ristorante di montagna – ancora una volta la montagna – arredato con mobilio anni settanta che poteva ricordare un locale Ostalgie della ex Berlino Est: poltroncine in similpelle dal disegno squadrato, seggiole di tubolare con schienale e seduta in multistrato di faggio un po’ consunto, sbiancato dallo strusciare dei corpi inguainati nelle tute da sci, i lampadari a cilindri di opalina che scendevano dal soffitto ingialliti dalla gloriosa stagione delle sigarette, le pareti anch’esse giallognole per la medesima ragione, il perlinato di legno chiaro ad altezza spalla. Non mangiarono nulla, era una domenica pomeriggio di merda, la cucina era chiusa: troppo presto per cenare, troppo tardi per pranzare e Samstag odiava le domeniche pomeriggio a prescindere dal degrado della sua relazione coniugale, dal suo degrado di onnivoro di ritorno, di rinnegato, transfuga dalle proprie scelte, dal suo degrado di sclerato deplorevole e gracchiante. Ordinarono due cioccolate calde e dense, ben fatte nonostante il latte di soia che a dispetto del cacao lasciava sempre un retrogusto di brodo di fagioli; il barista in automatico decorò la bevanda con un bel ciuffo di panna spray che la signora Samstag scartò con un meticoloso rifrullo del cucchiaino, chiedendo poi con un gran sorriso un cucchiaino pulito al flemmatico barista. Consumarono la mesta merenda silenziosi, seduti davanti alla vetrata, vicino all’ingresso, dalla quale si vedeva il parcheggio semivuoto della località sciistica; lastre di ghiaccio, neve sporca accumulata ai margini e, sull’altro lato della strada, l’imponente complesso dell’Hotel Duke, abbandonato da tempo, con le imposte di legno delle finestre mezze aperte, imputridite in basso e schiarite in alto, alcune penzolanti da un solo cardine, piuttosto pericolose per i passanti; un leviatano di cemento armato agonizzante, interdetto tutto intorno da transenne e nastri giallo/neri sbrindellati che si agitavano al vento.

Prese un accappatoio pulito; l’odore di bucato si mischiava con la puzza di sudore della quale sono impregnati gli spogliatoi, quell’odore di cazzo, di piscio, di peli, di piante dei piedi, di ciabatte di plastica, di bagnoschiuma e deodoranti industriali.

“Sono insopportabile, ma non sono cattivo. Eppure li avevo messi sull’avviso, tutti. È come quei tizi che soffrono della sindrome di Tourette e vanno in giro con dei biglietti per avvertire le persone che non offendono intenzionalmente… ma …vuoi dirmi che è diverso? Che sono un po’ stronzo? Sono paranoico, non sono stronzo.”

Si pettinava davanti allo specchio i capelli ricresciuti, che erano già puliti, non sarebbe stato necessario lavarli di nuovo. Sarebbe abbastanza normale pensare che lui rivolgesse al proprio riflesso queste ruminazioni, ma in realtà parlava ad Altri che lo popolavano, e sorridevano delle sue considerazioni petulanti. Perché in Samstag erano in molti a vivere, e non era una metafora tanto per dire o un sintomo di personalità multipla.

Quando fece la prima comunione sua madre gli si raccomandò di non strizzare gli occhi: c’era tutta una serie di foto dell’estate precedente dove Samstag sembrava una talpa o un cretino che faceva i versacci.

Allora, Samstag ottemperò al comando materno  letteralmente, e ne scaturì una serie di foto nelle quali era l’unico bambino con gli occhi spiritati, spalancati, sempre; un’espressione da pazzo. In ogni foto, nelle foto dei genitori, del fotografo della cerimonia, in quelle dei parenti e dei genitori degli altri bambini e dei loro parenti a loro volta…

Due giorni prima, mentre era sul terrazzo a giocare, sentì un boato, profondo, come un tuono, ma il cielo era sgombro di nuvole e azzurro. Sua madre gridò: l’armadio le era crollato addosso; la scossa non fu così forte da demolire il vecchio palazzo in centro dove risiedevano, ma aprì una lunga crepa, un cretto dal muro fino al pavimento, dal quale ogni tanto in estate esalava un odore dolciastro e nauseabondo come di suppurazione. Sua madre ne uscì indenne; la nonna baciava il santino di Sant’Emidio, a cui era devota dai tempi del gran terremoto in Garfagnana cui lei e il nonno scamparono miracolosamente. Il giorno della comunione piovve, fu svegliato da un altro boato, ma era un temporale vero questa volta: venne giù un diluvio; nella cattedrale buia come al vespro d’inverno di quel mattino di giugno insolitamente cupo e freddo, Samstag e gli altri fanciulli stavano come bambolotti appoggiati alla balaustra di uno degli altari laterali; dietro di loro, nella fiammata del flash, la grande tela raffigurante l’Arcangelo Michele che abbatte Lucifero; le bimbe, vestite di bianco come spose nane, i maschietti con abiti eleganti ma meno impegnativi, chi con un foulard celeste al collo, alcuni con le giacchettine blu o il cardigan bianco in frescolana, le camicie a rigatino, le spillette votive d’argento con un giglio bianco. Tutti candidi, seri e composti, anche Samstag, ma con gli occhi sbarrati da pazzo furioso. Era importante non masticare l’ostia: Samstag era molto impressionato da questa prescrizione, pensava veramente che masticandola avrebbe morso Gesù. Doveva lasciarla sciogliere sul palato; il prete glielo aveva detto più volte. Il prete aveva l’alito cattivo: questo lo aveva incentivato a rammentare la prescrizione. Qualche giorno prima li aveva condotti in ritiro spirituale nella villa in campagna dell’episcopato; era in realtà una giornata di svaghi e merende dopo il lungo catechismo in quella cucinetta minuscola della parrocchia, dove ristagnavano l’odore di sughi raffreddati nei pentolini e dei piatti lasciati in ammollo, l’alito del sacerdote e le puzzette dei bimbi, nella quale di tanto in tanto la perpetua apriva una finestrella a bocca di lupo per cambiare aria; poi portava dei biscotti caldi e il profumo dolciastro di pastafrolla e burro fuso ancorché stucchevole, recava una nota fragrante e tiepida in quel chiusino di sagrestia, di fiati muffiti di vecchio prelato e scoregge infantili.

Giocarono, i più a pallone, nel prato che costeggiava l’uliveto; alcuni, quelli un po’ ritardati, amanti di robottoni giapponesi e castronerie da sfigati (non esisteva ancora la parola nerd), si divertivano a rotolarsi in terra giù da un declivio, come Samstag, che era un incapace nei giochi di squadra; il maestro di ginnastica glielo ripeteva spesso, senza che lui capisse il senso, ma ricordava bene la frase: “sei un analfabeta psicomotorio!”.

Le bambine invece giocavano a nascondino o aiutavano la perpetua a portare sul tavolone sotto il portico, i vassoi con le pizzette e le paste, le bottiglie di coca e il rosolio resinoso delle benedettine, che era usanza dare anche ai bambini in quell’epoca spensierata.

Il prete poi li chiamava dentro la villa, nello studio dai soffitti alti a cassettoni, così alti che si perdevano nell’oscurità, seduto dietro uno scrittoio di mogano con un gran crocefisso d’avorio alle sue spalle e il ritratto del Papa; loro accorrevano accaldati, con la perpetua che faceva segno con le mani di non correre, i passi che rallentavano smorzati dal tappeto. Uno ad uno venivano interrogati sulle nozioni apprese al catechismo: le sette virtù teologali, i sette peccati capitali, le parabole di nostro Signore, ma era un’interrogazione senza voti e senza paura d’esser sgridati, anzi, non di rado era il prete a suggerire le risposte
«…è l’invì… l’invì…l’invi-di…?».
«Invidia!».
«Bravo, Samstag! Tu sei il più intelligente di tutti, lo sai?».
«Davvero, Don Siliano?». Esclamò tutto contento sporgendosi da principio verso l’anziano sacerdote per poi ritrarsi, come un’antenna di lumaca, dalla fiatella, mentre quello, con una mano sulla spalla cercava di avvicinarselo.
«Certo. Sei un bimbo pieno di talento: sai disegnare, ti sai esprimere correttamente, sai scrivere bene. A catechismo eri sempre attento e preparato. Hai imparato la storia di nostro Signore nei Vangeli, le sue parabole. Ecco… a te vorrei chiedere. Cosa pensi della sacra eucarestia che stai per ricevere?».
«Mah… è la comunione? Il corpo di…Cristo che è morto per noi…per l’alleanza…giusto?».
«Bravo… e poi?».
«Si è sacrificato per noi…e per tutti! Però, ecco… Don Siliano, io non capisco una cosa: Gesù era ebreo? Allora gli ebrei sono cristiani?».
Don Siliano era abituato alle domande seccanti di Samstag, tolse la mano dalla spalla del bimbo e se la sfregò sulla fronte, come a massaggiare un muscolo preso da un crampo.
«No. Ecco…gli ebrei, sono ebrei. Non sono cristiani. Gesù invece, ecco…diciamo…di sì. Però lui era il figlio di Dio e gli ebrei non lo riconobbero come tale. Tutt’ora loro aspettano, invano, l’avvento del Messia».
«Ma…ma… la domenica delle palme loro lo accolsero come un re! Perché poi…allora?».
«Sì! Però poi lo tradirono! Lo tradì Giuda che era un ebreo! Anche lo stesso popolo che lo aveva acclamato come un re! E quando fu chiesto loro da Ponzio Pilato, se crocifiggere Gesù o Barabba, scelsero Gesù e risparmiarono Barabba. Vedi, Samstag, è per questo motivo che gli ebrei poi vennero dispersi ai quattro angoli del globo e che furono perseguitati. Non solo essi non riconobbero in Gesù il Redentore, il figlio di Dio, ma furono cagione della sua morte corporale! Sono colpe che si pagano: se avessero riconosciuto il Cristo forse non sarebbero stati dispersi e magari non sarebbero finiti nei campi di concentramento. Pensaci bene!».
«Me lo ha raccontato il nonno, anche lui c’è stato nei campi, ma non perché era ebreo, però mi raccontava e poi ho visto il documentario…ma insomma però Gesù era venuto apposta per sacrificarsi… che c’entravano gli ebrei? Se doveva morire comunque…»
«Samstag…» Don Siliano si alzò in piedi, un po’ stufo di questa discussione, si accese una sigaretta, cincischiò con un fermacarte di vetro di Murano, quelli che sembrano contenere ricami e filamenti colorati «…fu una brutta cosa quella. Certo…ma loro, rifletti un po’, fecero bene a salvare Barabba? Con la conseguenza di far crocifiggere Gesù, mandato dal Signore Padre nostro per salvarci e salvare anche loro. Anche se Gesù era venuto per sacrificarsi infine loro comunque rigettarono la sua benevolenza, il perdono, i miracoli, la nuova alleanza che egli portava all’umanità. Noi tutti, Samstag, siamo responsabili del nostro destino, ricordatelo…i nazisti erano dei mostri, ma gli ebrei non fecero nulla per salvare Gesù. Tienilo sempre a mente! E ora, vai: sempre con queste domande! Piccolo impertinente! Vai a far merenda, che ci sono le pizzette e le paste del Sartini. Vai…»

 
Samstag uscendo dal C-43 notò un gruppo di famiglie accalcarsi all’ingresso della Metro, cariche di valige e scatoloni; l’agente della vigilanza sociale, esaminava i loro documenti.
“A loro è andata bene. Forse sono Cascami.” Pensò Samstag. Si accese una sigaretta e si diresse verso quel capannello di sfollati.
«Buonasera…».
«Buonasera. È con questo gruppo anche lei?»
«Io? Ma vede che sono in zoccoli? Io non parto…sono cascami?».
«Eh? Ah! Sì…cascami in trasferimento al Nord. Per la Ricollocazione. Quindi lei è un Cluster? Documenti?».
Samstag si arrotolò una manica e mostrò il tatuaggio:
C-43-G-92-47
«Ci sarà una bella solitudine qui da domani, signor…?»
«Samstag».
«Lei è sposato?».
«Non più… da, cinque o sei anni… sette, forse dieci… non ricordo, non ultimammo le pratiche: lei fu ricollocata. I miei sono morti nella Terza Estate».
«Ah… mi dispiace… anche mio genero, morì nella Terza Estate. Niente da fare: dissolto nel nulla – e si soffiò fra le dita – Beh? Ci muoviamo? Il treno non aspetta voi! Questi cascami sono una vera rottura…».
«Del resto…come potremmo fare diversamente?».
«Mah… lei dice? Io, qualche idea ce l’avrei… Poi sono anche maleducati. Ehi?! Che cos’è quella roba? Non si può portare! Una valigia a testa. No, le dico di no! Non mi interessa di questo…questo…foglio – e lo prese con disgusto con delle lunghe pinze per esaminarlo – Sì! Il Sovrintendente vi ha autorizzato: non mi interessa! Dovevate farlo spedire per corriere, non potete portarvelo dietro. Ma Cristo! – rivolgendosi a Samstag – …sono maleducati e pure stupidi forte!».
Samstag vide la ragazzetta, magra, magra, con gli occhiali tondi che, aiutata dalla nonna ancora giovane, spingeva un ingombrante piano elettrico, ravvolto in un panno di velluto rosso.
«Aspetti, vigilante… io non ho molto da fare domani. Posso occuparmene io, se la signorina è d’accordo. Mi lasci l’indirizzo, glielo spedisco io. Me lo scriva, qui dietro al permesso…».
«Ma è sicuro…?». Chiese il vigilante un po’ incredulo.
«Certo… è per l’arte!». E strizzò l’occhio alla ragazzina che sorrise, esibendo il suo vecchio apparecchio ortodontico, recuperato forse in un ossario della Terza o della Seconda Estate. Poi Samstag salutò quelle persone, sapendo che non avrebbe più rivisto nessuno per il resto della sua vita. Ma non sarebbe rimasto solo.
Quando la sua memoria riaffiorava nel brusio imperterrito degli Altri, ai sensi ottusi di Samstag si riproponevano brevi e vivide sequenze, come fotogrammi subliminali inseriti in un filmato che non gli apparteneva e che tuttavia lo saturava, inesausta proiezione interiore di esistenze sconosciute; vedeva la carne – un hamburger – ne fiutava l’odore grigliato e appetitoso, nei suoi timpani risuonava lo sferragliare delle posate sul piatto, e alzando lo sguardo, mentre masticava fra senso di colpa e appagamento, il dettaglio di un calendario appeso alla parete del ristorantino, con la foto di un bosco rosso e giallo, una bava di nebbia bassa a lambire i fusti scuri delle latifoglie: ottobre. La carne era tornata un giorno di ottobre di alcuni anni prima delle Tre Estati consecutive, in un’epoca durante la quale erano stati previsti gli esiti infausti del cambiamento climatico, ma niente come le Tre Estati. Samstag era stato vegetariano – non vegano, nonostante la dieta della moglie fosse prevalentemente tale – per almeno sei anni, con convinzione, per motivi etici si diceva allora, perché a lui la carne era sempre piaciuta, ma a fasi alterne nella sua vita l’aveva rinnegata, oppresso dall’idea della sofferenza degli animali; aveva cercato forza e conferma nella comunità vegano-vegetariana, aveva conosciuto attivisti, gente dell’Animal Liberation Front, di Sea Shepard, aveva letto Tom Regan; nella vita aveva conosciuto amici nel giro punk hardcore che avevano praticato questa scelta come estremo rifiuto dello sfruttamento; aveva letto Horkheimer, Safran-Foer, Peter Singer, Ceronetti; aveva conosciuto i produttori di seitan delle Valli Alcova; aveva imparato a farlo lui stesso con sua moglie, togliendo l’amido della farina, con una serie di lavaggi che portavano ad avere questa palla dalla consistenza gommosa di purissimo glutine che poi bollivano in un brodo vegetale, una ricetta giapponese occidentalizzata, con alghe, alloro, odori, salsa di soia… quando veniva bene era sugoso e di aspetto invitante come un pezzo di bollito; amava un certo tipo di seitan artigianale che trovavano di rado, dalla forma irregolare, venduto in sacchetti trasparenti sottovuoto, intriso di sughetto marrone che gli ricordava il sontuoso roastbeef della nonna Amalia, quel sugo denso dove avrebbe inzuppato un chilo di pane. Il sapore era buono, riuscivano a farne arrosti e anche un ottimo ragù, ma quando lo masticava i suoi molari emettevano sempre un cigolio sospetto, come se stesse masticando plastica… quel rumore lo fece riflettere, sulla consistenza del seitan. Il tarlo dei sensi che nessuna etica inganna; non per tutti è così: a sua moglie, che era vegetariana da sempre, una vinciana pura, non faceva alcuna differenza; a lei la carne aveva sempre fatto schifo, ci aveva sempre sentito il cadavere e talvolta persino il seitan troppo “sugoso” la metteva in ambasce, mentre a lui, ex-carnivoro, pur senza volere, veniva da fare paragoni. L’odore delle grigliate in estate, lo ammaliava; un altro tarlo dei sensi cominciò a roderlo, dopo l’apripista voluttuario, un baco malinconico, l’idea che non avrebbe mai più assaggiato il formidabile ragù di sua madre, una pietanza che negli ultimi anni quando stava maturando la conversione al vegetarianismo, aveva preso a disprezzare, con motivazioni acide, del tipo, “fai sempre le solite cose”, “non ti viene più come una volta, ti viene acquoso” e altre staffilate gratuite di questo tipo che, per certo, erano utili a demolire in lui stesso un modello di comportamento acquisito fin dall’infanzia; di fatto, mortificavano soltanto la povera donna che, tuttavia, dopo un’iniziale momento di dispiacere, rispondeva a tono:
«Sì, sì! Sei stato già vegetariano: te lo ricordi? Da ragazzetto, quando frequentavi quegli altri sciamannati…Mi facevi comprare quelle bistecche di soia disidratate. Eh! Però poi mangiavi il mio cinghiale a Natale. E il pesce a Capodanno o quando andavi al mare! Eh… tanto come tutte le tue fisime, per fortuna durano poco. Vedrai anche stavolta…».
“No questa volta sul serio, dicono sempre così, io sono l’anarchia, ecco un altro anticristo.”
Pensò, e non rispose nulla. La mamma di Samstag non ebbe torto nel giudicare il figlio così volubile e poco fondato nelle sue scelte; ne conosceva la natura sensibile, ma mutevole, l’incapacità a dimagrire e contenersi nei vizi, la generosità un po’ vana di chi siede sugli scalini del proprio castello immaginario fantasticando d’esser cavaliere; non lo giudicava, ma lo capiva, e le sfuriate, le “sclerate” erano brevi burrasche, che non la intaccavano nel profondo, nonostante talvolta versasse qualche lacrima quando lui aveva questi sussulti d’orgoglio e si faceva sarcastico.
La carne tornò, anche questa volta, che si era sentito maturo, capace di scelte ponderate e definitive: il matrimonio, la decrescita, la vita in campagna, i cani, l’orto, l’autoproduzione di saponi e candele, i maglioni di acrilico fatti all’uncinetto. Per un po’ andò bene, poi vennero anni bui, sia per la piccola famiglia Samstag che per il mondo. Persero il loro vecchio cane, Crono: morì di vecchiaia fra le cure premurose dei Samstag, i bocconcini di carne lessata, l’unica carne che aveva toccato il loro pentolame in tanti anni, le punture di vitamina, le flebo…Crono era il cane della signora Samstag, lo aveva adottato, ai tempi dell’università a Napoli: con l’ALF liberarono un canile lager della camorra. Ci fu una tarantella non da poco, i guardiani esplosero anche diversi colpi di pistola e il canile fu messo sotto sequestro. Lei riuscì, con alcuni amici a dissequestrare alcuni cani, destinati alla soppressione, fra cui Crono, un indefinibile e dolce cerbero al confine fra molte razze che si voglion belluine, un po’ pitbull, un po’ ridgeback, un po’ corso; un molosso cazzuto, capace di fiducia illimitata in chi amava, come di un’aggressività fulminea che non lasciava scampo. Una creatura difficile quanto adorabile nella quale Samstag, per indole, s’identificò non poco. Poi venne la Prima Estate, quella del Malbianco, dei raccolti coperti dalla lanugine del fungo di provenienza sconosciuta, quella del luglio freddo e piovoso, durante la quale morì di polmonite il nonno della signora Samstag. L’estate senza sole, senza raccolti, senza vino, senza pomodori e prodotti ortofrutticoli.
Poi venne la Seconda Estate, quella delle Moschine. Moschine sconosciute anch’esse, piccole come pulci, che infettarono gli olivi e i castagni, che infestarono vitigni, meli e ciliegi, che portarono febbri letali alle mucche e pestilenza suina; quella del gran secco, della siccità, del caldo ammorbante nell’emisfero boreale, dell’ozono irrespirabile a bassa quota e assente nella stratosfera, l’estate che non si doveva uscir di casa dalle undici alle diciotto per via delle radiazioni ultraviolette, dei grevi ombrelli piombati e delle maschere di plexiglas fumé. L’estate che morirono i piccioni, i ratti, i gatti e i cani randagi, i cervi, i ricci, le api…
Poi venne la Terza Estate.
Quando Ada Sheldrake trovò l’access point, nell’inverno successivo alla Terza Estate, era già molto malata. Il suo torace era attraversato da un foro, da parte a parte, di quindici centimetri di diametro, un alloggiamento: una pratica dolorosa che si perse con il raffinarsi delle tecniche di riconversione tumorale. I primi esperimenti di trasferimento su simuloide singolo o in cascata (rizoma di simuloidi miceliari o mSR) furono effettuati nel suo appartamento, dove viveva reclusa da almeno tre anni, quando le fu diagnosticato un linfoma anaplastico a grandi cellule causato probabilmente dalla scarsa schermatura del tetto; ci furono dibattiti furibondi sull’effettivo mantenimento della coscienza. Che cosa s’intende per coscienza? Non era più una questione speculativa, ma di effettività: sarebbe stata solo una sorta di registrazione, il grammofono sulle tombe che si figurava Joyce? Una versione evoluta di un profilo memorial del Socializzatore? O un vero e proprio spillover dell’anima nelle paste gelatinose del simuloide, una metemtecnosi, come qualche divulgatore scientifico la definì. Il Rizoma pareva funzionare, ma alla lunga questa tipologia di dati, perdeva la sua organizzazione interna nel mezzo gelatinoso, pur mantenuto alla giusta temperatura, nel bagno chimico appropriato e con una stabile microtensione elettrica; il dato nel rizoma si dissolveva capricciosamente in particelle incoerenti, in frammenti di codice, come le avreste trovate su un vecchio hard-disk fritto con un defibrillatore: non erano certo sequenze binarie che un algoritmo poteva mantenere in una forma fruibile, ma erano interi complessi, non scindibili, uniformi, monadi dai margini incerti, che creavano rizomi con altre monadi “affini”, sacchi leggeri carichi di una spesa pesante, irta di spigoli e punte acuminate, che a volte si rompevano per la via…Il Rizoma poteva garantire il transito, l’allocazione momentanea, ma per dove? Quale sarebbe stato l’ultimo stallo della coscienza a meno di non accettarne la dispersione o esser credenti e confidare in una dimora ultraterrena? Inaccettabile.
Ada Sheldrake era un genio, una di quelle persone che non amavano troppo lavarsi, che aveva perso interesse nella vita, episodica protrusione incoerente di qualcosa che intuiva dietro; un oceano, diceva, un Oceano vivente ed eterno, l’archivio Akashico, la coscienza collettiva, il Brahman, ma in una forma che non aveva mai trovato prima espressione, perché per esistere doveva essere estratta o, in un certo senso, inventata.
Il mito doveva acquistare concretezza, essere oggetto di misurazioni, il pensiero farsi materia, il verbo farsi carne.
Sempre persa dietro a qualche ragionamento, a qualche fantasia portentosa, passava la maggior parte del tempo a letto, circondata dai suoi simuloidi in pasta gelatinosa o in memory foam, quei grossi cuscini, sui quali trascorreva le giornate a fare il pane come un gatto castrato. Metà della sua testa era glabra e ulcerata da almeno settantasette tentativi di accesso. Poi c’era, lui l’access point o come lo chiamava la Sheldrake “l’ano della Mente”. E la cosa la faceva ridere, senza che nessuno, nemmeno i suoi più stretti collaboratori, capisse. Aveva appreso questa tecnica da un’antica pratica di perforazione del cranio; a volte, restava in coma anche per quindici giorni, durante gli spillover e i reverse spillover. Spesso, si risvegliava con intere parti della sua vita cancellate, senza speranza di recupero, o cieca da una mano, sorda da un piede, zoppicante da una narice, con un occhio impastato, la lingua abbagliata o più generalmente paralizzata in parte o del tutto, coperta da eruzioni cutanee simili a scritture jiǎgǔwén in forma di eczema-grafema. Ma, nonostante tutte queste disavventure, questi patimenti, queste sconcertanti sinestesie e ridistribuzioni sensoriali selvagge (non di rado la sua voce poteva uscire flebile da una ascella o da un alluce) non si perse mai d’animo, e mirò con tenacia al suo obiettivo, avvalendosi di numerosi simuloidi di backup che teneva nel congelatore che aveva in garage, insieme alle pizze precotte, i gelati e i quarter pound di vitello. Pur non restituendole l’emozione vivida del ricordo, dissipata senza possibilità di recupero nell’oceano che era aldilà della vita, le permettevano di reintegrare il dato utile a ricostruire pazientemente il suo operato e fingere che non era successo nulla di irrimediabile.
Il Parco Phrygia si stendeva a perdita d’occhio dietro C-43: giovani pioppi tremuli americani, ancora bassi, esili e un po’ spelacchiati come fili d’erba appena affiorati dalla terra riarsa dopo un acquazzone. Samstag aveva terminato il giro delle Case, amava passeggiare fra quegli alberelli specialmente quando diventavano un bel mare giallo in autunno.
…ancora quattro anni, sette mesi, dodici giorni, circa otto ore”
Diceva a sé stesso, rincuorandosi.
Gli avevano installato un contatore alla rovescia meccanico sulla porta, perché a Samstag guardare il trascorrere di secondi, minuti, ore, giorni, mesi, lo tranquillizzava a differenza di altri Cluster che mal sopportavano l’attesa.
Quasi cinque anni ancora d’insonnia e di cefalea martellante, specialmente la notte, senza luce, senza televisione, senza distrazioni; aveva a disposizione una torcia a carica manuale che produceva un flebile chiarore a malapena sufficiente per leggere poche righe di vecchi libri già letti o che qualcuno degli Altri aveva già letto e sprofondare in una trance ipnagogica. La torcia era indispensabile anche per centrare la tazza del cesso, la diuresi notturna era diventata per Samstag un automatismo portatore di un fugace sollievo corporale allo stupore malinconico in cui perlopiù vegliava; infine si rassegnava a masticare le sue dosi di orfina e attendeva un sonno striminzito che calava ratto e scostante dal buio sopra, nero anch’esso, indistinguibile alla veglia e senza sogni. Cosa o chi del resto, avrebbe potuto sognare in Samstag?
Si ricordò, o qualcuno per lui lo fece, dei blackout in India. All’inizio ne era turbato, come per molti altri aspetti della quotidianità indiana, prosciugata d’ogni orpello che un europeo riterrebbe essenziale, i materassi senza lenzuola negli alberghi e nelle guest-house; la mancanza di carta igienica, lusso per turisti da acquistarsi nel minimarket figo di Laksman Jhula; e i blackout notturni, che gettavano nella tenebra tutta la città lungo il Gange, un buio traboccante di stelle scintillanti che addensava su di sé un umano silenzio al quale si affacciavano voci misteriose di animali notturni, il ruggito lontano di una tigre, le strida di uccelli esotici. Le prime due notti era inquieto; quel buio senza scampo, lo atterriva; le sbarre alle finestre per non far entrare le scimmie e le gazze ladre, i pianti lontanissimi di un poppante con le coliche – che forse lui sentiva nella sua testa – e l’odore, fortissimo di incenso da chiesa. Non incenso indiano, quello della puja allo Shiva Lingam, odore di cattolicissimo turibolo, un odore rivoltante più delle cataste di rifiuti lasciate a marcire sulle rive non in vista agli ashram di lusso. Samstag era diventato, seppur in una forma assai lieve, schizofrenico anni prima, poco dopo il divorzio (cos’era la Prima o la Seconda Estate? Non ricordava), avvelenato da un’occupazione monotona; le cure con gli stabilizzatori dell’umore lo avevano liberato dalle ansie, dalle crisi di persecuzione, dai pianti di bambino e dalle fantosmie, ma lo avevano reso anche assente, poco reattivo, infine depresso e delirante.
Probabilmente la maggior forma di disuguaglianza umana è tra chi è vivo e chi non lo è più: la morte è un problema che va risolto”.
Questo era quanto sosteneva Peter Thiel, forse qualcuno lo ricorda, decenni prima delle ricerche sulla metemsomatosi (metemtecnosi) di Ada Sheldrake.
Finanziò alcuni progetti di frontiera come Human Longevity e all’avvento della Seconda Estate si fece ibernare, in un vecchio bunker per ICBM autoalimentato, nel deserto del Mojave, garantito per assicurare un sonno criogenico di almeno cinquemila anni. Fasti faraonici: con il miliardario si fecero congelare il suo personal assistant, il suo levriero afgano, le sue concubine e otto delle sue guardie del corpo più fidate ed esperte; un sarcofago blindato nel sottosuolo, in una grotta di salgemma, protetto da lastre di acciaio e piombo, totalmente NBC Safe, incassate in strutture di cemento armato, a cui si accedeva tramite un solo portellone corazzato a pistoni idraulici in acciaio al manganese e ottone con sistemi di ribloccaggio automatico; portò con sé i suoi Picasso, Cattelan, Vedova, Hirst, Bacon, Schifano; il Livre de Portraiture di Villard de Honnecurt, e una quantità non trascurabile di lingotti d’oro e diamanti, nell’eventualità che i suoi asset digitali al risveglio si fossero volatilizzati. Un cortocircuito in un sottosistema del vecchio impianto che non era stato controllato a dovere, causò un’interruzione di corrente dal reattore atomico alla camera di ibernazione. I corpi furono ritrovati, mummificati, ben conservati, durante l’ispezione quinquennale pianificata.
La Thiel Corporation riscosse un cospicuo risarcimento, con il quale finanziò, ultime volontà del tycoon in caso di fallita immortalità, le ricerche di Ada Sheldrake che stava per mollare il colpo, dopo decine di travasi\rinvasi traumatici, senza più un soldo per pagarsi un assistente.
Era arrivato per la prima volta Oumuamua e dopo tre giorni era risalito in cielo.
La Terza Estate.
La stessa Sheldrake in quei giorni patì una grave e similare perdita; uno dei suoi congelatori a pozzetto aveva cessato di funzionare, per via di un blackout e di un guasto al gruppo di continuità a celle d’idrogeno, causato probabilmente dal forte impulso elettromagnetico emesso da Oumuamua, il suo saluto. Perse quattro dei suoi più grossi simuloidi, contenenti almeno tredici anni della sua vita d’affezione e di ricerca; perse le sue nozioni di matematica evolute, le sue nozioni di biochimica, astrofisica, negromanzia, neurofisiologia, cibernetica, ermeneutica transazionale e si ritrovò piena di soldi e più vuota di una zucca di Halloween. Fu quel giorno che conobbe Samstag, vagando con la sua Volvo Polar per il compound C-43. Non ricordava nulla, non ricordava il suo nome, né come fosse arrivata lì; la gente scappava in una direzione e lei andava nell’altra; non sapeva chi era e dove fosse diretta perciò rimase a secco, in un quartiere e un pianeta che aveva esaurito i combustibili fossili da almeno quindici anni; si sedette sul cordolo del marciapiede, piangendo alla disperata, come un uccellino preso al cappio in una trappola.
Samstag le si avvicinò, di ritorno da lavoro.
«Posso aiutarla?». Le chiese. Lei lo abbracciò; aveva un ridicolo vestito verde, corto e indossava delle calze autoreggenti, una delle quali scivolava continuamente dalla gamba sinistra. La guardò tirarsi su la calza, intravide uno scampolo di inguine e di pube come fluorescenti nel buio della sua insensibilità farmacologica. Lui era schizofrenico, peloso, morbido, ciccione e un po’ ritardato, ma era stato anche intelligente di tanto in tanto nella vita, come se delle perturbazioni di intelligenza, avessero attraversato il suo cielo, allentando il clamore abbacinante di un sole idiota.
Lei era un genio con la mente parzialmente cancellata, quasi anoressica, glabra e ricoperta da un eczema misterioso che si componeva di minuti pittogrammi in una lingua sconosciuta, mai esistita, mezza testa rasata piena di forellini rossi, cieca da un occhio e con un grande buco tondo nel petto.
«Portami a casa… Questa … cosa… si è rotta…». Disse, indicando la Volvo.
«La …cosa, lei dice…l’automobile…? Ok». Rispose a fatica, Samstag, afono; non parlava più da almeno dieci, o forse dodici anni. A meno che “parlare” non significhi ripetere a un microfono formule e indicazioni sempre uguali o scrivere le stesse comunicazioni utilizzando le stesse formule per l’archivista e il diramatore.
Ogni giorno alle sette e quarantacinque usciva dal C-43 e prendeva la Metro per Lago Corvo, dove lavorava come ordinatore allo stoccaggio dei cereali in replicazione accelerata; più o meno il suo lavoro consisteva nel dire a dei protei dove posizionare in un capannone già stracolmo, i bussolotti idroponici con le piantine clonate di grano. Poi, mandava le bolle per posta pneumatica al diramatore di contrada e all’archivista locale, controllava la temperatura, i cicli stroboscopici di luce e buio e, a sera, avevano il raccolto pronto, da inviare ai mulini e agli impianti di panificazione intensiva. Così ogni giorno, dalle 7.45 alle 19.45. Tutti i giorni, nessuna festività dalla Seconda Estate, solo brevissime ferie, calcolate dallo psicoplasmatore aziendale o le assenze giustificate per malattia. Il giorno dopo si licenziò e divenne l’assistente di Ada Sheldrake e, ogni tanto, il suo trastullo. Ma la macchina non ripartì, dal momento che come dicevamo, non esisteva più carburante.
L’anima ombra stava riemergendo.
«Sta per succedere di nuovo».
Ada Sheldrake infilò l’avambraccio nel foro circolare, l’alloggiamento, ora vuoto, che le attraversava il torace da parte a parte. Ogni volta che la vedeva arrivare avvertiva un insopportabile prurito alle pareti fibrose del buco nel suo petto. Il silenzio che aveva preceduto la sua comparsa era il silenzio che le stava colando addosso; come quando si ruppe il dispenser di sapone liquido nella valigia durante lo sfollamento della Seconda Estate; come quando sognava di stare sotto arnie sospese in cielo, gigantesche, che si schiudevano, rilasciando quintali di miele sintattico; i germani intorno al laghetto del parco scuotevano le penne remiganti della coda, come nella danza delle api esploratrici.
Venne abbagliata da un raggio di sole, scomposto in poligoni concatenati e iridescenti, che poi si sbriciolò, come vetro temprato in una miriade di brillantini sul pelo dell’acqua; i paperi, agitati, soffiavano ai polpacci dei camminatori col naso per aria, che si scontravano fra di loro, minacciando di schiacciarli, mentre una femmina spostava prudentemente il suo uovo con la punta del becco, lontano dal viavai.
Una cucchiaiata di gelato inghiottita di colpo, causò un istantaneo mal di testa a Samstag, in un punto dolente ed elettrico, imbullonato in mezzo alla fronte, il sensore del gelato inghiottito alla svelta, così lo chiamava; poche gocce marroncine e appiccicose caddero sulla sua camicia bianca da assistente; il silenzioso Samstag, il villoso Samstag, il sufficiente Samstag, che lei odiava, per quel modo di ignorarla deliberatamente e poi seguirla, sempre, come un papero condizionato a rincorrere stivali rossi o bimbette volanti con l’ultraleggero.
Ada, mentre assisteva alla discesa, non sapeva come fare a liberarsi della sua mente diventata ingombra e vuota a un tempo; rumore bianco tarmato di congetture lasciate senza naftalina, travasi e rinvasi non sempre andati a buon fine; parole sempre sulla punta della lingua, da cercarsi per approssimazioni su motori di ricerca prezzolati che alla fine ti volevano solo vendere qualcosa che compravi in preda alla compulsione, oppure, chiedendo a Samstag, schioccando le dita come all’ipnotizzato che non si rinviene, il servo muto, quei cosi di legno che i maschi umani del secolo scorso, inscenando prima di coricarsi la crocifissione delle proprie vesti da lavoro, adoperavano per poggiare pantaloni e camicie, bretelle e calzini, quasi a formare un loro feticcio antropomorfo, per poi indossare il pigiama, emettere un grugnito e addormentarsi o far finta di, abbottati di orfine.
L’ombra in principio coprì la valle Orba a sud est: da un banco di nubi filamentose fece capolino uno sperone nero, una lingua luciferina fra labbra emaciate, solo che non spuntava dal basso come la cima di un monte, ma dal cielo.
Era nera lucida, seppiata in penombra, la superficie irregolare rivestita di polimerizzazioni di tolina spalmate sopra il ferro-nichel siderale che non conosce lebbra d’ossigeno o l’insidia umida delle celesti ghiandole lacrimali e dei ghiacciai perenni; l’erosione delle polveri nell’imperversare dei venti; i travagli minerari a colpi di piccone che scintillano, poi la fusione, le vanità e l’ossequio del cromo, il mirror polishing a furia di spazzole e sabbiature nelle officine, l’umile ed essenziale ufficio dei minerali ferrosi di qua d’esser ridotti in lastra o in bobina, stampati in forma di suppellettili per la cucina o carrozzerie di veicoli.
Non era frutto di nessuna estrazione; non apparteneva né alla vita organica, né alla geologia terrestre, né alla sua forza di gravità.
Lei scendeva, libera e lenta, così densa che il tempo le si raggrumava intorno, rallentando fino a fermarsi: una lama nera, senza fine, che penetrava la pelle della stratosfera con la compostezza e l’arte di un fachiro, senza ledere organi vitali, senza scatenare tempeste, solo qualche screzio azzurrognolo di statico, puzzette d’ozono, come dall’ano contratto di un digiunatore.
Entrava, e la sua nuova ombra terrestre le si faceva incontro lieta, fiduciosa, leonardesca nella caligine dell’azzurro filtro atmosferico. Lei, ombra anima in sé conclusa, avvezza al binario nitore di luce e buio che si portava indosso nel suo vagabondaggio interstellare o alla tenebra assoluta dei remotissimi apogei oltre l’Eliopausa, fu felice e gradevolmente sorpresa di proiettarsi in questa morbida ombra terrestre, perfino ansiosa di ricongiungersi a lei, nel punto di contatto dove avrebbe sostato indefinitamente e senza affanno.
Samstag allora si scionnò e si risolse a parlare:
«È un pennant...». Disse, credendo di aver detto una cosa intelligente e a effetto; anche se in tutta onestà aveva davvero visto su quella massa nera e oblunga, logogrammi e pitture di guerra.
«Pareidolia…». Lo liquidò Ada: sfilò il braccio dall’alloggiamento toracico e gli chiese una sigaretta, dopo dodici anni che non ne toccava una, mentre ammirava la gigantessa che, in equilibrio, come una ballerina sulla punta del suo alluce, si poggiava aggraziata nella radura a fondo valle.
«…non so se è un pennant: è per certo Oumuamua».
Ada si distese accanto a Samstag.
«Ti faccio una domanda come un alveare…sono un po’ fissata con gli alveari, lo sai… cioè tu lo sai e io no, non me lo ricordo per davvero. Nell’ultimo rinvaso ho registrato numerose deplezioni dei modulatori chimici… va sempre peggio, perdo acetilcolina come un colabrodo…anzi, dovresti aumentare la somministrazione». Rise, mentre si affrettava a prendere un appunto sul retro di un volantino. Samstag la guardava inebetito. Lei allegra:
«Toh…Pennant! Ti ho scritto un appunto che fra tutti e due… Conservalo…cosa stavo dicendo? Ah…ecco! Samstag! Quanto di questo mondo in cui siamo stati inventati è solo boria del Creatore o una sua ironia cattiva? L’universo è solo un circolo del cucito tutto pettegolezzi e retorica? E chi vi agisce è mosso solo da invidia e mantenimento di una risibile rendita di posizione? Quanto tutto questo è una mia paranoia e quanto non lo è? Solo il romitaggio premia? Serve La bolla per distruggere la bolla interindividuale?».
Samstag non pensò che fosse una domanda del cazzo perché in sostanza non la capì. Confidò in un’arguzia degli Altri. Aveva vissuto per dieci anni da solo in un compound grande come una città, da prima popoloso, svuotato poi dal giorno alla notte. Per lui non era cambiato nulla: era come essere soli. La gente del Cluster era uguale all’universo; boriosi benché incorporei, pettegoli benché compressi in una scatola cranica. Non gli prestava troppa attenzione tranne quando lo tenevano sveglio nella loro immanenza senza giorno e senza notte.
In molti si fecero avanti, come nell’Ade, mormorando alle orecchie di Samstag mezze risposte piene di saggezza acidula o sagaci battutine da hipster:
“intervieni contro noi maschi bianchi oppressi”
“sembra la copertina di un porno-emo, la bolla come herpes”
“cambia film”
“bolla is the new balla”
“un’ode al subprolet”
“basta snitch; argomentazioni cheesy. Non reagire”
“da coprofagia: flawless victory”
“la rivincita dei zoomer? Ti sta flexando.”
ecc…
Lui si trastullò con queste voci provò a collegarle l’una a l’altra come il fanciullo che giocherella col suo trenino; prima pose sui binari un locomotore, che chiamò paranoia, la forza trainante dell’universo, poi il vagone con il carbone che la alimenta, un vagone di voci contrastanti, di invettive inutili, di frecciatine glitterate, di citazioni interstiziali, che sarebbero bruciate nel fuoco ostile della caldaia, gli sbuffi di vapore avrebbero poi mosso i pistoni, inondato i marciapiedi fetenti dove gli ufficiali della Gestapo impartiscono ordini trattenendo i loro pastori tedeschi, in segreta e totale ammirazione dei loro stivali ben lucidati; come gli agenti del ricollocamento, che non mandavano nessuno a morire ma che pensavano quella massa di sfollati, i “cascami” esattamente come la pensava un nazista.
Vide sorgere la stella boriosa a est, simile alla stella idiota nella sua testa, ma più grande; la vide attraverso il buco di Ada e vide molti goderne in lui, altri che si erano attardati nel lobo sbagliato, cercare il posto al sole dietro i suoi bulbi oculari, svicolando come i furetti fra le ombre dei capillari e fra le ombre-ombre di Samstag, scostandosene sdegnosi. Vide le persone che avevano ostentato calma, impazzire. Vide i folli diventare savi e via di nuovo tutto da capo, la coolness e poi gli schiamazzi di chi farneticava; ciò che era brillante diventò abbagliante e poi nero con una vampa verde sulla retina a occhi chiusi; lo colpì allora un suo pensiero, improvvisamente e solo suo soltanto: tutte quelle ombre saccenti che erano in lui sarebbero dovute tornare a breve ai loro corpi o altrimenti dove? Esse erano vite, in ogni caso. Iniziò a sudare dalla fronte e il respiro gli si fece accelerato.
«Dove sono i corpi, Ada?».
Lei non capì subito. Era come scema a volte.
«Quali corpi? Gli Sfollati? I Cascami? Di cosa parli? Vedi che non mi stai mai a sentire: non hai risposto alla mia domanda. Vabbé, tanto non mi ricordo più…».
«No, Ada. È una cosa seria: i corpi della gente qui dentro!». Disse, picchiandosi l’indice sulla fronte «…nel cluster».
«Ah… Beh… non ci sono più corpi».
Samstag avrebbe voluto ucciderla, ma non si può uccidere la più grande ermeneuta della Creazione, la travasatrice, la… i suoi molti titoli brillavano alla voce onorificenze del socializzatore. Sentì fermento nel Cluster, come aprire una bottiglia di birra sciabordata.
Una schiuma di voci gli intorpidì le tempie, perse il lume degli occhi, le sue pupille si fecero larghe in una istantanea midriasi. Poi si riprese:
«Ma, cazzo! … il mio contratto! Il mio contratto prevede un deposito quinquennale! Cosa cazzo dici? No-n-non è possibile…oltre! Che fai li rimetti nel rizoma di simuloidi? Non esiste nemmeno più quello. Lo hai fatto smantellare nel…perché degradano… ma che cazzo ti sto dicendo? Lo hai inventato tu!».
«Ahahaha!». E Ada rideva come una marionetta e iniziò a spogliarsi nuda, la pelle secca di eczemi, gli addominali scolpiti nella pancetta prominente da bimba… «Ma chi se lo ricorda? Io? Io non ricordo nulla! Ho avuto uno shock anche l’ultima volta. Poi ci hanno pensato gli ingegneri. Era tutto sui simuloidi e nei miei appunti…forse…hanno un piano alternativo…». Montò sopra di lui, la sua fica asciutta cominciò a secernere un umore grigio, madreperlaceo. Accanto al foro toracico, il suo unico seno piatto esibiva un capezzolo marrone che s’inturgidiva, ma dal buco rotondo, perfetto, Samstag era accecato da un raggio del sole borioso; si coprì il viso, disperato e abbagliato a un tempo, i suoi testicoli e il pene inerte venivano coperti dal liquido di Ada.
«Sei…sei…peloso e stupido! Sì! Pauroso! Scemo! E quel che è peggio impotente! E col cazzo piccolo!». Pensava così di stimolarlo lei, attraverso l’umiliazione, come altre volte era accaduto, ma c’era un fatto nuovo. Samstag parlava; non era narcotizzato dall’orfina o dalla terapia, e stava comunicando un problema non da poco, visto che entro due giorni avrebbe dovuto travasare tutto il Cluster nei corpi di provenienza che dovevano essere da qualche parte, e scopriva adesso che non c’erano più. Schizzò su dal letto, gettando di lato Ada, secca, odorosa di sudore vecchio e liquido vaginale; secca nella pelle, nell’occhio vedente arrossato, nelle pupille di diverse dimensioni, nella cecità parziale, nella secchezza d’occhi vedenti e ciechi, secchezza di piedi, di schiena, di torace; si tirò via di dosso quel cespuglio in fiamme con la congiuntivite, quella proterva dominatrice guasta e mezza demente.
Si accese una sigaretta e cominciò a singhiozzare.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo! Mi avete fregato… Ci avete fregato tutti!». Poi la sua voce diventò cento bisbigli sovrapposti, perché tutto il Cluster era in allarme: cento lamenti, cento bestemmie, cento urli. Le battutine stronze erano scomparse. Ada lo osservava, distesa sul fianco e scuoteva il capo, come a dire “non ci siamo per nulla”.  Prese un cilindro mSR e lo riempi con pasta simuloide fresca e se lo inserì nell’alloggiamento.
«Ascolta, Samstag… ascoltate tutti! Perdio! … volete…vuoi essere alleggerito? Sicuramente il degrado è già esponenziale. Credo che… – e rigirò la confezione di simuloide in pasta, data di scadenza, marca… capacità – ecco, si, io credo che almeno cinquanta o sessanta li posso tenere qui, per una settimana, forse due…».
«Cinquanta? Sessanta? Una settimana? Due? Ma cosa fai? Tiri a indovinare? Sono centinaia!»
«Merda! Non posso fare più di questo, Samstag! Vieni qui. Calmati. Te ne prego. Prepara l’iniezione di acetilcolina, adesso! Non sclerare!».
Era maggio, forse giugno: si avvicinavano gli esami di terza media. Samstang era un bambino inquieto e senza amici: aveva preso a parlare da solo, a raccontarsi storie che erano la prosecuzione di serie a cartoni animati finite, fantasie di viaggi in motorino (fra due anni avrebbe avuto il “cinquantino”) nelle quali si sacrificava eroicamente per la sua amata, l’Epilettica Senza Nome, gettandosi contro una nave aliena, mentre ascoltava la Cuban Ouverture di Gershwin. Lo zio di Milano gli aveva regalato uno dei primissimi walkman, non il totemico Sony, ma un Philips, più pregiato per fattura, robustezza e funzioni (permetteva anche di registrare). Conteneva una cassetta di prova con tre brani disco-funky, ma il primo ascolto fu la cassetta di Julio Iglesias, Vagabondo – la prima volta che Samstag ascoltava qualcosa in stereofonia, totalmente immerso nella musica, non come con il grammofono o il registratore a cassette mono – l’apertura del brano è caratterizzata da una sezione di fiati e synth potentissima disco-sinfonico-melodica. Un binge drinking acustico lo riempì fino traboccare in un’emozione fisica che cancellava le oscurità che in lui da tempo si accumulavano, la solitudine senza tregua, le peregrinazioni per i cimiteri a cambiar fiori sulle tombe dei nonni e dei vari congiunti. E poi finalmente la Cuban Ouverture che diventava un mare, dove la sua fantasia di dodicenne pescava chimere robotiche giapponesi, rimuginando le nudità macilente in mezzo allo squallore delle baracche dei prolet di 1984 figurandosi in esplorazioni sulla sua Aprilia ET immaginaria, blu e bianca, che guidava come un caccia top gun e che, non di rado, si trasformava come una mach patrol a due ruote in un velivolo da guerra fantascientifico; sognava di fare l’accademia aeronautica ma era miope, non lo avrebbero mai preso.
In questo turbinare di pensieri, con le cuffie, pedalando sulla cyclette, oppure in cameretta, ballando o meglio mimando i gesti del motociclista, dell’eroe, del samurai, si annidava un grumo, come quelli che si formano negli scarichi del lavandino, un grumo di capelli vecchi e sapone, melmoso, un’occlusione impermeabile all’acqua corrente, alla pressione, alla luce.
Uno di quei malefici artefatti, che le nonne dicevano di trovare nei guanciali: le corone di lana o piume annodate a formare aureole di malanno sul capo del dormiente, portatrici di emicranie invalidanti, di cancri in metastasi improvvisi e incurabili; pezzetti di legno scheggiati come quelli delle bare riesumate ogni dieci anni, di cui Samstag spesso raccoglieva ed esaminava i frammenti marci, consumati dai bachi da cui pendevano rimasugli di trina dell’imbottitura; potevi trovare filze, spilli, talvolta croci rovesciate incise con l’unghia sul passepartout in cartone delle foto di famiglia. Erano gli stessi familiari, quelli più invidiosi e segretamente avvelenati che regalavano questi oggetti saturi di malvagità, oppure che indirettamente ti facevano il malocchio: bastava poco, un ciuffo di capelli, una foto, talvolta il solo pensiero.
La nonna e la mamma di Samstag, vedendolo incupirsi, isolarsi, e parlare da solo sempre di più, decisero di condurlo da una certa signora benedicente, come ne esistevano una volta nelle piccole città e nelle campagne.
«Ti portiamo da Donna Martoni, che ti fa una benedizione…che ti serve anche per l’esame».
Perciò un pomeriggio, Samstag venne condotto da questa persona; viveva in una stanza grande a pian terreno in un bel palazzo del centro, le finestre strette, sempre socchiuse, che davano su una corte interna; la piccola cucina a gas con sopra un tubo al neon che contendeva il suo lucore verdastro con quello rosso dei lumini posti sopra il frigo; un tavolo di fòrmica rosa, la macchina per cucire con accanto il monte dei vestiti da sistemare, i pantaloni a cui fare l’orlo, i prendisole a cui ricucire la spallina, le vestaglie da allargare o restringere, in quelle insopportabili fantasie a fiorellini minuti e, sulla parete, le numerose stampe raffiguranti il Redentore, i santini, le Madonne, alcuni rosari appesi a piccoli chiodi e un crocefisso, una macchia di devozione cattolica concentrata, mentre il resto della stanza era spoglio come una cella monacale, con macchie d’umido e le ombre bianche, rettangolari di quadri rimossi.
Samstag ebbe paura di questa donna alta, vestita con un semplice abito celeste, con il grembiule da lavoro e le ciabatte con la fibbia rossa; la sua testa annuiva come una campanula scossa dalla brezza, i capelli corti e grigi; i suoi occhi sporgenti, grigi anch’essi, sembravano rovistargli l’anima, leggere le sue peccaminose fantasie con Edwige Fenech nuda in stivali neri da cavallerizza, smascherare le sue manipolazioni proibite pensando all’Epilettica senza Nome.
Non disse nulla, lo fece stare davanti a sé mentre la nonna e la mamma bisbigliavano, snocciolando un rosario: poi anche lei iniziò a bisbigliare e senza toccarlo, le passò le mani intorno al corpo, fra le gambe, davanti, dietro, sopra la testa, una perquisizione spirituale, accompagnata da una litania impercettibile. L’alto soffitto si allargava sulla testa di Samstag, mentre le braccia della donna parevano plasmare un secondo Samstag etereo, una custodia del Samstag in carne ed ossa, fatta di vapori, di ombre concentriche e diafane proiettate dalla luce Kirlian che da dietro lo illuminava; il calore iniziò a propagarsi nel corpo del giovane, avrebbe provato qualcosa di simile molti anni dopo, in circostanze completamente diverse, bevendo un’acqua amara. Il calore scioglieva il grumo di capelli, la melma grigia come pelle di piovra, l’odore fetido e di sapone allo stesso tempo; sentiva un buco nello sterno, era la bocca dell’aspirapolvere e aveva il sapore metallico del sangue: sull’onda montante del calore espiatorio, una schiuma di teschi, di quelli intravisti all’ossario nei pomeriggi cimiteriali, crani, tibie, e la cosa più impressionante, la palla di un femore che sporgeva fuori da un’urna sulla quale prosperava verdognola una patina di muschio; le muffe che si propagavano dal sibilo astioso di qualche zia incanaglita, da un suo bacio di Giuda su quelle gote cicciute segnate dalla montatura rovente degli occhiali da vista dorati, a goccia, come Venditti, le lenti massicce, il sudore, le pesche fresche e dure sul terrazzo la sera, prima di coricarsi e passare la notte insonne, terrorizzato, cercando al tatto nel cuscino la presenza di trecce malefiche; il misterioso cintolino di cuoio che trovarono al centro del tavolo del salotto a ritorno dalle vacanze, e che sua nonna bruciò senza esitazione, mormorando uno scongiuro, più disgustata che impaurita. Alle maledizioni campagnole Samstag e la sua famiglia, specialmente il ramo materno, erano abituati; Donna Martoni si pronunciò sfavorevolmente. Il “bambino” era pieno, disse, pieno, pieno… qualcuno di famiglia, disse, qualcuno di cui non sospettate. Sarebbe dovuto tornare la settimana successiva e poi, guardandolo senza rimprovero né compassione, con quegli occhi rotondi di magara cristiana, gli suggerì di mantenersi puro, nel pensiero e nel corpo, e di pregare. Samstag si attenne scrupolosamente alle prescrizioni spirituali e magiche della santona, evitò di toccarsi, scacciò dalle sue fantasie persino l’Epilettica Senza Nome. Ebbe solo pensieri romantici per lei, di viaggi in moto, e lunghi abbracci al tramonto in riva al mare. E pregò: pregò tanto, non per fede, ché non ne aveva un briciolo, ma per rabbia, una terapia d’urto per ogni volta che i pezzi di quel grosso grumo tornavano a gola; c’era qualcosa d’idraulico in questa benedizione, lui si sentiva un lavabo intasato nel quale, dopo avervi versato soda caustica, rutteggiando nell’aqua ferma, venivano a galla frammenti di sconosciute aderenze fra la vita e la morte, prosperità simbiotiche di microbi e chimica industriale, apporti sotto copertura, ectoplasmi in incognito travestiti da peli, come quelli ammazzettati che trovavi nei guanciali maledetti, talvolta peli pubici rossi come rame, o addirittura, denti di morto, rebbi di forchette, mozziconi di candela.
Donna Martoni quando lo rivide, gli sorrise per la prima ed unica volta: guardava intorno a lui, come se ne percepisse sempre quel contorno vaporoso e controluce.
«Va meglio…eh? Vero? Eh! Si vede, si vede: come hai dormito?».
«Bene…». Rispose, Samstag timido.
«…ma c’è ancora da fare. Ora tieni, vai un attimo fuori a giocare».
E gli dette un giocattolo antico, un pupazzo di plastica, vestito da turco, che fumava minuscole sigarette di carta. Mentre era fuori, origliò:
«Samstag… non lo so… sta meglio, certo! Andrà tutto bene, vedrete. L’esame andrà bene e la persona che gli ha fatto il malocchio ben presto starà male; capirete chi è perché è un vostro parente».
In effetti la cognata della nonna era stata ricoverata pochi giorni prima. La nonna si disse incredula e delusa, ma i tempi confermavano questa evidenza. La madre sminuiva, era dubbiosa, ma non si sentiva di darle torto.
«È così.»
Le interruppe Donna Martoni.
«…ma questo non è importante. Perché il malocchio si leva. Il problema è che Samstag è, come posso farvi capire? È lontano. È lontano da Dio. È nato così… Dio non gli farà mancare il sostegno, perché Gesù ama tutti, specialmente chi si allontana da lui… ma questa distanza lo esporrà al male, per tutta la vita. Dovrebbe dedicarsi a una vita spirituale per salvarsi, ma non credo che a Samstag interessi».
Tornò altre quattro volte dalla Santona, pregando sempre meno, riprendendo le sue solitarie manipolazioni e fantasie, sempre più scocciato da queste visite, infastidito da quelle mani che parevano modellarlo come argilla, da quegli occhi rotondi da gufo che lo indagavano in cerca di Dio. Donna Martoni, non insistette oltre: benedì una penna a sfera e gli disse di usarla per gli scritti all’esame.
«La resurrezione dei corpi non è l’Apocalisse, Samstag».
Adesso lui era non era più sclerato, era calmo; la parziale kenosis aveva allentato la pressione.
«Il problema ha una soluzione che non ricordo».
Samstag si arrotolò su sé stesso e cominciò a singhiozzare: avrebbe vissuto non una sola morte ma tutte le morti del suo Cluster prima di morire egli stesso; la morte lo avrebbe mangiato spiritualmente, la sua carne si sarebbe assottigliata, resa friabile dai molti trapassi e dalle reviviscenze in rapida successione. Avrebbe fatto un avanti e indietro imperterrito nel Bardo.
Perché era un fatto noto: non si dà spirito senza corpo.
Anche un solo corpo per più spiriti. Ma un corpo, date retta, serve sempre.
La giornata trascorse in sedazione. Ada e Samstag giacevano sul letto in silenzio, e il loro silenzio era il silenzio del quartiere, dei cartelloni sbiaditi con la pubblicità della Lotteria dei Falansteri, della città con i cavi che svolazzavano spettinati, delle strade diventate fiumi e dei fiumi diventati sentieri rocciosi.
Ada poi, si era incaponita ed aveva rigirato tutte le sue carte, e infine l’aveva trovato: una busta con la sigla Ph-Ba! L’entusiasmo iniziale fu grande perché quello era il protocollo di spillover che era stato studiato anni prima ed era l’unico che garantiva una certa stabilità, ma quando si recarono di corsa nel boschetto di pioppi tremuli dietro il compound, trovarono solo rami secchi e cenere; un incendio lo aveva distrutto: le ondate di gran secco? Una banda di Annichilatori? Cascami sabotatori sfuggiti al ricollocamento? Un errore di pianificazione urbana della Interind di contrada?
«Lo sapevano! Interind doveva tutelare Ph-Ba!».
Poi ricordò che le Interind erano offline quasi dappertutto e il loro mondo non interagiva più col mondo vero. Samstag scuoteva la testa, davanti allo scempio.
Il trasferimento delle “anime” nella collettività vegetale non era più possibile. Non era possibile farlo con altre piante, andare in montagna, e fare il trasferimento in una faggeta…non erano state sottoposte a demiurgia; la demiurgia era una di quelle scienze esaltanti nate nella disperazione delle Tre Estati; il pioppo tremulo per sua natura era una delle piante più adatte ad accogliere in sé le anime. Avrebbero atteso sul letto, le loro molte morti.
«Che ti dicevo? È il mio cattivo karma, Ada…».
Farfugliò Samstag, con la bocca disidratata. Ada guardava il soffitto senza ascoltarlo per davvero, poi si sedette sul letto e si accese una sigaretta; poteva vedere in lontananza, dalla finestra sfondata Oumuamua.
«La Quarta Estate, non penso ci sarà una quinta».
I Cascami avevano perso da tempo ogni forma di assistenza e le bande che ancora si aggiravano fra i Compound lentamente si esaurivano come giocattoli a pila: tutti questi teppisti depressi che ciondolavano ripetendo frasi aggressive, i loro colli secchi di denutriti che si piegavano sotto il peso dei gioielli d’oro massiccio. Molti avevano già contratto il morbo della Cenere e bastava spingerli con un dito perché si frantumassero, emettendo un fischio sfiatato. Era tutto impastato insieme, gente apparentemente sana che ancora andava a lavorare, magari in uffici vuoti e senza luce. oppure al parco a fare jogging, come se non fosse successo nulla. Logistiche che funzionavano per scaricare merce davanti a supermercati abbandonati.
«Sarebbe stato bello averla potuta studiare: la stronza ci è venuta a trovare come uno di quei parenti che vedi solo ai funerali». Disse Ada, guardando con disprezzo, Oumuamua.
«Ahahaha…» Samstag rise debolmente.
«Cosa ridi? idiota…».
«Ti dicevo… del mio bad karma: anche te non mi stai a sentire, però, eh… insomma, era un’idea che mi ossessionò per molto tempo, da quando ripresi a mangiare la carne».
Ada lo squadrò, misurando quel corpo nudo e sgraziato, accostando la testa di lato come fanno i cani quando non capiscono. Pensò che stesse delirando, era uno dei sintomi del decadimento del Cluster.
«No, Ada, non mi guardare come un cane bastonato… nessuno (del Cluster) parla in me; ho come la sensazione, anzi, che se ne stiano andando…».
«Questo non è possibile».
«È possibile eccome: se ne stanno andando…Ma lascia perdere cosa è possibile…quella roba la fuori è possibile? E sai cosa mi fa ridere? Vuoi saperlo?».
Ada non rispose, si alzò e fece cadere delle bottiglie di plastica vuote fra le altre che costellavano il pavimento, si diresse verso una montagna di panni sporchi e prese una felpa bruna con scritto OIA.
«Muoio (letteralmente) dalla voglia di saperlo…».
«Ahahah… questo tuo sense of humor è la cosa che mi è sempre piaciuta di te, sai? Anche se mi feriva. Anche se non ridevo. Anche se non ti rispondevo nulla o non capivo. Mi fa piacere che ne sia rimasto un po’ in quella povera testolina…».
«Ufff… insopportabile ciccione, non farla lunga… cosa ti fa ridere?».
«ecco… ho perso il filo; no, aspetta… dammi una sigaretta».
Erano le ultime due.
«Ah, sì: il bad karma, ti dicevo, e cioè (io perlomeno lo intendevo così) il ripresentarsi nella vita, sempre, dello stesso problema – a meno che, chiaramente non lo si risolva – ma è difficilissimo, perché la soluzione non richiede volontà. È un destino da sovvertire: e come puoi sovvertire un destino? Se è già scritto? Impossibile: Richiede un cambio di atteggiamento profondo, richiede fede».
«Interessante, Padre Samstag, ma cos’è che ti fa ridere?».
«… da giovane chiamavo la ricorsività di certe dinamiche il fecaloma; tu ingoi, ingoi, e poi resta lì e si calcifica nell’intestino e alla fine, muori, tappato dalla tua stessa merda…ahahhaha!».
«Tu stai tanto tanto male, Samstag…io ti faccio un’altra iniezione di crono-stamina; anzi… sai cosa? Ci facciamo una stagnola di oppio. Et voilà…».
«Ahahhaha… continui a non capire, testacchiona, scienziatona… OK per la stagnola…».
Aspirarono il fumo denso e dolce, mentre l’accendino rincorreva le goccioline nella concavità del foglio di alluminio, cristallizzandosi in strisce marroni, e poi nere.
«Oumuamua…ecco… la prova che “esistono”, che (in extremis) sono arrivati, e ci trovano moribondi come specie, come pianeta… ecco, noi sappiamo poco o nulla tranne che è senziente: ma … (ahahha) guardalo bene: non ti sembra un grosso stronzo fumante uscito dal culo del Sole? Non ti sembra un fecaloma?».
Ada scoppiò a ridere e risero molto, prima di morire.
E morirono molte volte. Morirono le loro vite passate e future, le vite passate e future delle anime nel Cluster, che si dispersero, le vite dimenticate e disperse nei backup di Ada. Tutti i Cluster morirono quel giorno d’estate del (omissis) e Oumuamua come era arrivata se ne andò, ritraendosi dall’atmosfera, lentamente, infischiandosene della forza di gravità. Scintillante, ricaricata dalla permanenza sulla Terra, riprese a vagare per il cosmo come una prefica, verso un altro pianeta agonizzante.
Samstag prima di morire per l’ultima volta, ormai svuotato della folla del Cluster evaporato, fece una carezza ad Ada che lo aveva lasciato poco prima di lui; e nel toccarla si sbriciolò in una polvere come cipria, una morte vampiresca.
Quell’odore era stranamente simile all’odore della griglia, quella piccola a treppiede, che suo padre allestiva in terrazza il giorno del suo compleanno.
La mamma preparava i cannelloni al ragù con la besciamella, friggeva le patate tagliate grandi, e il babbo fuori, sulla piccola griglia cucinava una bistecca e qualche salsiccia. Era questo il pasto preferito di Samstag da bambino, il pasto del compleanno. La carne, o come diceva da bambino “la ciccia”.
Questo pensiero lo pacificò e così, come il “Fecaloma” abbandonava la Terra, le sue ossessioni di vegano rinnegato, le sue irrequietezze di sclerato, si chetarono mentre anche la sua coscienza, così come il suo corpo s’incenerivano: una ventata sparpagliò quelle ceneri e venne sera.

Perché Erwin Schrödinger torna all’antica Grecia

2
Schrödinger ed Eraclito

Erwin Schrödinger ed Eraclito di Efeso

di Antonio Sparzani

Nel 1996 la Cambridge University Press pubblica per la prima volta, riuniti in un unico volume, due scritti di Erwin Schrödinger (Vienna 1887-1961), Nature and the Greeks, pubblicato la prima volta nel 1954 e l’altro, Science and Humanism, pubblicato già nel 1951. Io comprai questa edizione della CUP una ventina di anni fa, la trovai estremamente interessante e, di recente, mi sono chiesto se esiste in italiano. Dopo varie ricerche, che in un primo tempo sembravano dire che il secondo dei due scritti era stato già bellamente tradotto, ma il primo no – tanto che pensavo di proporne la traduzione a qualche editore – mi accorsi invece che c’era stato un (per me) oscuro editore triestino, Beit Edizioni, che l’aveva tradotto, mettendo però come titolo Scienza e Umanesimo e quasi come sottotitolo La natura e i Greci. Contattai l’editore, il dr. Piero Budinich, che era anche il traduttore e mi confermò che il libro è ormai introvabile, cosa che avevo già scoperto indagando qua e là, ma aggiunse anche che stava chiudendo la casa editrice. Però mi mandò molto cortesemente il pdf del volume (dal quale traggo le citazioni che seguono), nel quale la mia pignoleria voleva controllare la cura editoriale, note e via dicendo, e scoprii così che oltre all’introduzione originale del fisico Roger Penrose, ne aveva aggiunta una anche Carlo Rovelli, che ormai pubblica molto in Italia.

Tutto questo per dire che non mi propongo di recensire un libro ormai irreperibile, ma di spiegare le ragioni addotte da Schrödinger per tornare a indagare il pensiero della Grecia classica. A questa spiegazione è infatti dedicato il primo capitolo del libro, letteralmente “Le ragioni per tornare al pensiero antico”. Schrödinger scrive direttamente in inglese (che gli aveva insegnato da piccolo la sua britannica nonna materna) e si tratta del testo di alcune conferenze che tenne nel 1948, prima a Dublino e poi a Londra (Shearman lectures). L’autore prende in esame la storia del pensiero da allora ad oggi esaminando ed esemplificando variamente la (perniciosa ma storicamente determinata) divisione tra religione-filosofia da una parte e scienza sperimentale, o potremmo dire “materiale” dall’altra. Descrivendo l’evolversi di tale divisione, Schrödinger dice tra l’altro:

«la reciproca diffidenza tra religione e scienza era destinata ad aumentare. Essa non traeva origine da quei ben noti dettagli irrilevanti da cui manifestamente scaturiva, vale a dire la disputa se la Terra si muova oppure sia immobile, ovvero se l’essere umano sia o meno un tardivo discendente del regno animale; tali punti controversi possono essere superati e in gran parte lo sono stati. Il dubbio è radicato molto più profondamente. Grazie al fatto di essere riusciti a spiegare sempre di più riguardo alla struttura materiale del mondo e al modo in cui l’ambiente e i nostri corpi hanno raggiunto, per cause naturali, lo stato in cui li troviamo e che per giunta siamo disposti a trasmettere questo sapere a chiunque sia interessato ad assimilarlo, la visione del mondo scientifica, questo era il nostro timore, stava sfuggendo sempre di più dalle mani della divinità, assurgendo in tal modo a un mondo autocontenuto rispetto al quale Dio correva il pericolo di ridursi a un mero orpello.»

E poco più avanti:

«Molto spesso, quando si è all’onesta ricerca del sapere, bisogna adattarsi a dimorare per un tempo indefinito accanto all’ignoranza. La scienza autentica, piuttosto che tirare a indovinare per colmare una lacuna, preferisce rassegnarsi alla sua presenza e questo non tanto perché nutra scrupoli di coscienza riguardo al diffondere notizie false, quanto in considerazione del fatto che, per quanto scomoda possa essere quella lacuna, il fatto di colmarla con un’informazione posticcia ottunderà il bisogno di cercare una risposta difendibile. L’attenzione rischierebbe cosí di venire sviata in modo talmente efficiente che la risposta non verrebbe colta neppure quando, per pura fortuna, dovesse presentarsi spontaneamente a portata di mano.»

Schrödinger passa poi a elencare qualche punto debole della scienza che dà quindi spazio alla religione/filosofia per entrare nella scienza con l’ipotesi del finalismo:

«Né nella teoria dell’evoluzione né nel problema mente-materia la scienza è stata in grado di lumeggiare la concatenazione causale in un modo che potesse anche solo soddisfare i suoi più fervidi sostenitori. Di qui derivano le varie vis viva, l’élan vital, l’entelechia, l’olismo, le mutazioni ben guidate, la meccanica quantistica del libero arbitrio che sono entrate in campo nel corso degli anni.»

E continua:

«I conflitti che ne sono scaturiti nel passato sono fin troppo noti per richiedere ulteriori commenti da parte nostra. Inoltre non costituiscono più quello che ci interessa qui. Per quanto deplorevoli, essi manifestavano comunque un reciproco interesse. Gli scienziati, da un lato e i metafisici, sia quelli ufficiali sia quelli eruditi, dall’altro erano ancora consapevoli del fatto che i loro sforzi per riuscire a capire, dopo tutto, miravano al medesimo obiettivo – l’uomo e il suo mondo. Si avvertiva ancora la necessità di sgombrare il campo dalle opinioni più disparate. Tale bisogno non fu soddisfatto. La relativa tregua a cui assistiamo oggi, perlomeno tra le persone colte, è stata raggiunta non mettendo d’accordo l’uno con l’altro due tipi di punti di vista, quello rigorosamente scientifico e quello metafisico, bensí semmai in seguito alla loro decisione di ignorarsi a vicenda, manifestando poco meno di un reciproco disprezzo».

Ma Schrödinger non è contento della situazione:

«Ci si rammarica di vedere il genere umano teso a raggiungere la stessa meta lungo due diversi, ardui e tortuosi sentieri, invisibili l’uno dall’altro a causa dei paraocchi e delle muraglie di separazione interposti, salvo rari tentativi di congiungere tutte le forze e pervenire, se non a una piena comprensione della natura e della condizione umana, perlomeno al confortante riconoscimento dell’intrinseca unità della nostra ricerca».

Ed è qui che arriva il punto che interessa l’autore, quello che gli suggerisce una ragione per guardare al passato:

«C’è tuttavia la muraglia che separa i “due sentieri”, quello del cuore e quello della mera ragione. Guardiamo a ritroso lungo la muraglia: non potremmo abbatterla? È sempre stata lí? Mentre seguiamo con lo sguardo il suo tortuoso percorso su e giù per le colline e le vallate della storia, scorgiamo un paesaggio molto, molto remoto, lontano più di duemila anni, dove il muro si abbassa e scompare e il sentiero non si è ancora biforcato, bensí era ancora uno, uno soltanto. Cosí alcuni di noi ritengono che valga la pena di tornare indietro per andare a vedere che cosa si possa apprendere da quella seducente unità primigenia.»

Ecco dunque la ragione: a quei tempi il maledetto muro non c’era! I due sentieri erano uno che comprendeva tutta la visione del mondo. L’allievo poteva domandare al maestro insegnamenti sulla struttura della materia, sugli atomi, ma anche sulla metafisica, su Dio, sui fini dell’esistenza umana, sull’etica. Aristotele scrisse una Fisica e una Metafisica e così i “filosofi” dell’epoca erano allo stesso tempo e con le stesse logiche “scienziati”, distinzione allora inesistente, e tutto questo è stato ed è assai seducente per molti pensatori, non solo per Schrödinger, che, ricordiamolo, è stato uno dei grandissimi del Novecento, noto in quanto fisico soprattutto, naturalmente, ma attivo in molti contesti ad esempio nella biologia (la sua opera Che cos’è la vita fu per alcuni fondativa) e in generale nella riflessione filosofica, per esempio nel secondo degli scritti del volume della CUP che citavo all’inizio.
Egli peraltro si premura di citare pareri tra loro contrastanti su questa sua necessità di indagare il pensiero antico. Cita anzitutto il parere assai favorevole di Theodor Gomperz, illustre filosofo tedesco di fine Ottocento e autore di una massiccia storia della filosofia greca:

«È di importanza ancora maggiore rammentare un genere indiretto di applicazione o utilizzo che può essere considerato di grande importanza. Quasi tutta la nostra formazione intellettuale trae origine dai greci. Una conoscenza approfondita di queste origini è il prerequisito indispensabile per liberarci dalla loro soverchiante influenza. Ignorare il passato qui non è solo indesiderabile ma semplicemente impossibile. Non avrete bisogno di conoscere le dottrine e gli scritti dei grandi maestri dell’antichità, di Platone e di Aristotele, non avrete bisogno di aver mai sentito i loro nomi, ciò nondimeno subite il fascino della loro autorità. Non solo la loro influenza ci è stata trasmessa da coloro che li hanno recepiti in tempi antichi e moderni; tutto il nostro pensiero, le categorie logiche entro le quali esso si muove, i moduli linguistici che esso impiega (venendone quindi dominato) – tutto questo è in misura non esigua e anzi sostanziale un prodotto dei pensatori dell’antichità. Dobbiamo in effetti indagare su questo processo di divenire, in tutta la sua integrità, per evitare l’errore di scambiare per primitivo ciò che è il risultato della crescita e dello sviluppo e di ritenere naturale ciò che è di fatto artificiale.»

ma cita anche il parere un po’ sprezzante di Ernst Mach, tra i più importanti fisici, sempre di fine Ottocento:

«La nostra cultura ha gradualmente acquistato una totale indipendenza, innalzandosi ben al di sopra di quella dell’antichità. Sta seguendo una tendenza interamente nuova. Essa si impernia sulla delucidazione matematica e scientifica. Le tracce delle idee antiche, che ancora permangono nella filosofia, nella giurisprudenza, nell’arte e nella scienza, costituiscono impedimenti anziché valori e giungeranno a essere insostenibili a lungo andare, a fronte degli sviluppi delle nostre vedute.»

Nei successivi capitoli Schrödinger passa in rassegna, con notevole acutezza e anche competenza storica, una serie di pensatori della grecità, dai Pitagorici a quello che lui chiama l’Illuminismo Ionico, da Eraclito a Senofane e via dicendo. Certo non tutti questi erano dello stesso parere, tutt’altro, opinioni molto diverse li caratterizzavano, ma tutti potevano parlare di tutto il sapere sul mondo e sulla sua costituzione. Questo è quello che affascinava Schrödinger e che lo spingeva a studiare pensatori così remoti nel tempo.
Qui io mi fermo perché questo era il punto di vista (che ovviamente interamente condivido) che mi interessava illustrare. Chi volesse leggere i capitoli successivi al primo deve cercare il libro in qualche biblioteca o procurarsi l’edizione originale inglese o la traduzione francese che pure è disponibile.

Mots-clés__Lacrime

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Lacrime
di Nadia Liberati

Mylène Farmer, Des larmes -> play

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Fotogramma da “Carol” di Todd Haynes, 2015

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Da Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, trad. Alberto Spaini, a cura di Giuliano Baioni, Einaudi, 2014

LIBRO PRIMO

21 agosto

Inutilmente stendo le braccia verso di lei la mattina quando mi desto dai miei sogni angosciosi, inutilmente la notte la cerco nel mio letto, quando un sogno felice mi ha illuso che mi sieda accanto su un prato, io tenga la sua mano e la copra di baci. Quando poi mi desto cercandola con la mano ancora nell’incertezza del sonno – un torrente di lacrime mi sgorga dal cuore oppresso e piango sconsolato sul mio oscuro avvenire.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Diario di Saragozza: la torre de los italianos

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di Cisco Escalona

A Saragozza v’è il più grande sacrario militare italiano in terra straniera dopo quello di El-Alamein : 2.889 soldati italiani. Fra questi, in maggioranza facenti parte del contingente di migliaia di uomini, tra soldati e camicie nere, inviato da Mussolini per appoggiare i ribelli falangisti guidati dal Generale Franco, vi sono i resti di ventidue garibaldiens delle Brigate internazionali. Sono i  caduti italiani sepolti nella Torre de los italianos.

Dal mio arrivo a Saragozza giovedì scorso avevo tentato di visitarlo una prima volta domenica pomeriggio ignorando che le visite fossero possibili solo al mattino dalle undici a mezzogiorno. Un’ora che è uno squarcio nel tempo e nello spazio, dov’è questione di storia d’Europa, dittatori e rivoluzionari. O più semplicemente di fratelli l’un contro l’altro armati.

Una torre ha il vantaggio di essere visibile oltre i tetti e può indicarti la direzione mantenendo lo sguardo alto e non chino sullo smartphone con i suoi itinerari. Essere sospesi in una città è quando la lista delle cose da fare si concede il lusso di variabili a volte indipendenti dal cittadino provvisorio ed allora può accadere che un appuntamento all’agenzia immobiliare che sta per affittarti casa debba essere ritardato e in quel tempo liberato d’un tratto si decida di andare alla Torre, fuori orario senza nemmeno la scusante dell’ignoranza.

Si passa per la Piazza di Spagna, per corso Indipendencia e poi altri viali che ti portano a scorgere l’edificio non troppo distante. Era stato Mussolini in persona,  a volerne la costruzione per omaggiare i caduti italiani (dalla parte giusta delle camicie nere) e il progetto inizialmente prevedeva l’altezza di 85 metri  ridotta alla metà, otto piani per quarantadue metri. Dell’architetto spagnolo Victor Eusa Rasquen il progetto a cui lavorò tra il 1937 e il 1940.Dal momento in cui varchi la cancellata e l’iscrizione “L’Italia a tutti i suoi caduti in Spagna” sei in territorio italiano.

Nel week-end mi ero dedicato alla ricerca di informazioni su quella strana torre, in verità poco frequentata dai cittadini di Saragozza per quanto sia citata tra le venti cose incredibili da scoprire in città. Per cominciare alcune note e dati fondamentali:

La partecipazione degli italiani alla guerra civile spagnola

Dopo lo scoppio della guerra civile in Spagna, 18 luglio 1936, l’Italia di allora decise di correre in soccorso dei nazionalisti spagnoli guidati da Francisco Franco: 74.285 soldati con 1.930 cannoni, 10.135 mitragliatrici, 240.747 fucili e 7.663 automezzi; 5.699 aviatori con 763 aeroplani; 91 unità navali. Sul fronte opposto dei repubblicani ci furono altri italiani, i volontari delle Brigate Internazionali, inquadrati in una forza internazionale cui partecipavano 40.000 volontari di 52 paesi dei cinque continenti. I volontari italiani, inquadrati nella Brigata Garibaldi, furono circa 3.350.

Sono 236 le località spagnole dove ci furono caduti italiani: 3414 morti, 150 deceduti in Italia, 232 ritenuti scamparsi, 547 italiani morti dalla parte dei repubblicani, di cui solo 22 sono sepolti nella Torre.

In un’intervista rilasciata a una testata d’informazione , Inform, dedicata agli italiani in Spagna, lo studioso Dimas Vaquero Peláez, autore di “CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE, fascistas italianos en la guerra civil española, afferma: “Tutti devono essere ricordati e a tutti si deve rendere omaggio, tutti diedero la propria vita per una causa, molto rispettabile e così lo dimostra il Sacrario militare italiano di Saragozza… Vissero anche loro la piccola guerra civile in terra spagnola, con scontri fra patrioti, lontani dalla propria terra e reso ancora più drammatico con casi di fratelli italiani in lotta fra loro, triste riflesso di quello che è una guerra civile”. Un libro imprescindibile, aggiungiamo noi.

Nei giorni precedenti alla visita tante erano le domande che accompagnavano la mia ricerca e un desiderio, rendere omaggio in qualche modo ai ventidue brigadistas che la storia avrebbe relegato dalla parte “sbagliata” dei vinti. Era infatti come se la canzone di De Gregori il cuoco di Salò, arrangiata da Battiato, e contestata dalla sua pubblicazione dai puristi radical Kitsch, potesse adattarsi ai nostri “rossi” soprattutto nella magnifica strofa:

Che qui si fa l’Italia e si muore
Dalla parte sbagliata
In una grande giornata si muore
In una bella giornata di sole
Dalla parte sbagliata si muore

La prima domanda riguardava quell’interruzione per mancanza di fondi e caduta di Mussolini, va detto sopraggiunta poco dopo, e la seconda ben più complessa su come il generalissimo avesse potuto permettere già dalla fine degli anni quaranta che venisse onorata la memoria dei nostri garibaldini. A venirmi in soccorso è stato allora un romanzo di Ignacio Martínez de Pisón, Dientes de leche, pubblicato in Italia da Guanda con il titolo il fascista , magnificamente tradotto da Bruno Arpaia, dove una parte importante è proprio dedicata alla Torre de los italianos.

Molte sono le informazioni storiche che ritroviamo nel romanzo e alcune di esse rendono chiari certi passaggi a cominciare dalla riduzione dell’altezza della torre che un po’ mi ha ricordato il racconto di Buzzati, La tour Eiffel dov’è proprio questione di altezze da rispettare o sfidare. Se per Buzzati si trattava di sfidare Dio, nel romanzo citato scopriamo nelle parole di Don Pietro, deus ex machina, il senso di quella strana fabbricazione nel cuore di Saragozza: «Sarà come La Mecca per i musulmani! Da tutti gli angoli del mondo verranno fascisti a vederlo!» urlava, ed era tanta la sua veemenza che né il sindaco né il governatore civile osavano replicargli. Senza rivelare “la fabula” di questo libro estremamente sincero  che presenta molti intrighi e colpi di scena, sicuramente “repubblicano” quando denuncia le nefandezze compiute dai fascisti sulla popolazione civile, davvero poco comparabili con quanto avveniva tra i “rossi”, quello che mi ha colpito di più è stata la capacità del suo autore Ignacio Martínez de Pisón nel mettere in prospettiva i fatti della storia rivelandone gli aspetti più umani, il nucleo centrale di quella guerra civile, ma non solo quella, e che sono le famiglie, la lotta fratricida che ne ha sancito l’impossibilità, per popoli interi, di elaborare il lutto. Dal romanzo il lettore scopre per esempio che “i volontari fascisti”, così volontari non lo erano stati, e fascisti non sempre: “Raffaele non era fascista in Italia. Nemmeno antifascista, è chiaro. Raffaele era soltanto povero, e solo per far uscire dalla povertà sua moglie e sua figlia aveva accettato di andare in guerra in un paese straniero. Sulla nave, lo Stelvio Domine, ne conobbe abbastanza che erano come lui, e tutti si mostravano con orgoglio le foto della prole che avevano lasciato al paese. Tra quei soldati, erano pochi (e sempre i più giovani) a essersi arruolati per servire il Duce e diffondere gli ideali del Fascio. C’era anche chi veniva ingannato: gli avevano assicurato che sarebbe partito per l’Abissinia, una destinazione tranquilla, e adesso scopriva che li portavano in una guerra. L’ultima parte della traversata la fecero di notte e a luci spente, e gli uomini si affollavano sul ponte e scrutavano ansiosi l’oscurità. Viaggiavano in abiti civili. Quando si preparavano a sbarcare, raccomandarono loro di non mettersi ancora l’uniforme. Quella era Cadice. Quella era Cadice, ma poteva essere qualunque posto, e comunque cosa importava? Poi il tenente cominciò a urlare, e gli uomini si misero in spalla la loro sacca e cercarono a tentoni il cammino verso la passerella. Un soldato inciampò e ne trascinò un altro nella caduta. Si sentirono risate e bestemmie, e il tenente li sollecitò di nuovo con le sue urla. Perché quella fretta? Raffaele pensò che in guerra non importavano i perché: in guerra le cose si facevano e basta.

Ma è soprattutto in un passaggio cruciale della storia della Torre, ovvero quando vengono individuate in altri cimiteri le salme degli italiani in modo da poterle riunire agli altri già tumulati nel Sacrario, che accediamo a un orizzonte di senso nuovo, almeno per me. Don Pietro, accompagnato da uno dei protagonisti e un francescano sul posto procedono in quella terribile operazione di recupero dei corpi o di quanto rimaneva di essi:

“Una mattina andarono a Villanueva de Gallego, dove il battaglione di Raffaele aveva combattuto mentre lui si rimetteva dalle ferite nel Nucleo Chirurgico Chiurco. Viaggiavano su uno dei veicoli forniti da Serrano, un furgone nero con il giogo e le frecce delle Falange dipinte in rosso, e con loro c’era un giovane cappuccino spagnolo, il fratello Iluminado.«Il cimitero» disse padre Pietro, indicando da una parte.

«Di là.»

«Di qua» lo contraddisse Raffaele, che guidava.

«Di là.»

«Lei lo dice a me? Ho fatto la guerra qui!»

«Anch’io ho fatto la guerra qui! In questi paesi avrò battezzato centinaia di bambini! È di là. Sicuro.»

«Truppa» disse fra’ Iluminado guardando il cappellano.

 

Voleva dire che la bottiglia con i suoi dati identificativi era legata a una gamba. Quando il morto era un ufficiale, aveva la bottiglia legata a un braccio. Raffaele lo accompagnava soltanto nei cimiteri della provincia. Dei morti sepolti in cimiteri più lontani si occupavano padre Pietro e gli altri cappuccini, e lui non si prendeva nemmeno la briga di chiedere. Un giorno arrivarono con tre nuovi cadaveri, tutti e tre avvolti in dei sudari. Raffaele osservava fra’ Iluminado andare e venire con la carriola.

«E questi perché non hanno la bottiglia?» chiese.”

Ed è così che si rendono conto di avere preso in cura anche le salme dei nemici, dei “rossi”. Sulle prime li vediamo reagire quasi stizziti di fronte a quella incongruenza ideologica, fascisti che si occupavano dei corpi di antifascisti, ma dura un attimo perché a vincere sarà una pietas mista a un sentimento patrio autentico, quello che ti fa considerare dei tuoi compatrioti come fratelli a prescindere dalle idee o dai partiti.

Arrivo trafelato alla Chiesa di Sant’Antonio che fa parte del complesso della torre sono davvero fuori tempo massimo. Il parroco mi accoglie e quando gli chiedo di poter almeno vedere dall’interno, dal piano terra latorre mi acccorda cinque minuti ed entriamo.

Gli faccio delle domande a cui risponde con estrema dolcezza e comunicandomi che la vera missione della torre era quella di trasmettere, attraverso la memoria e il dialogo, un desiderio di riconciliazione all’interno di un continente, un popolo, di una stessa famiglia lacerata dalla guerra civile. Mi chiede se sono di passaggio, turista e gli rispondo che sono a Saragozza per lavorare, al Liceo francese di Saragozza come professore di filosofia. Quando aggiungo che avrei cominciato l’indomani mattina, mi ha fatto cenno di salire, che non avrei avuto tanto tempo ma abbastanza per raccogliermi di fronte a quei nomi e cognomi sprovvisti di luoghi di nascita e età.

Impossibile trovare i miei ventidue, ovvero identificarli tra i 2.889. Di tanto in tanto parenti venuti dall’italia ne avevano apposto accanto alla lapide una fotografia e poche note a testimonianza che prima di essere morti avevano ben vissuto da qualche parte, e con altre persone, una moglie, una madre, dei figli, dei fratelli. In nessun caso un segno di riconoscimento, Falange o Brigate internazionali.

Allora ho capito che non ha proprio senso in questi casi una memoria selettiva. Che non si poteva non provare della pena per ognuno di essi a prescindere dal campo giusto o sbagliato, di chi avesse vinto o perso, in questo paradosso spagnolo per cui chi era stato fascista durante la guerra lo sarebbe rimasto negli anni a seguire fino alla morte di Franco e  anche dopo con il tentativo di colpo di stato degli anni 80. Al piano terra è possibile vedere la maquette del progetto della Torre nelle sue dimensioni originali. Due volte l’altezza di oggi, impressionante. Ed è un bene che si siano fermati prima, quel poco che basta perché sia visibile per chi vaga da quelle parti alla ricerca di un senso alla storia che  forse un senso non ha. E chiudere con i magnifici versi di Jacques Prévert, “Quelle connerie la guerre”.

Napoli scontrosa

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di Davide Vargas

 

 

San Giovanni a Mare_ 5 settembre 2017

 

Un amico del nord mi dice che sì, riesce a passare per Napoli ma solo per andare a vedere San Giovanni a Mare. Non so niente di questa chiesa ma non lo dico. Invece mi informo e vado a cercarla. Via Marina è il solito interminabile cantiere ma dopo il caldo furioso e assiduo dei mesi scorsi oggi l’aria è più fresca e la domanda: ma quando finiranno questi lavori? è meno pressante. Il campanile del Carmine è chiuso dai ponteggi e io parcheggio nella sproporzionata ombra che palazzo Ottieri stampa sul selciato, di fianco a un furgoncino verde come le olive. L’immancabile parcheggiatore abusivo con un segno della mano benedice il via alla mia passeggiata. Imbocco la strada laterale tra biciclette e passeggini in esposizione sul marciapiede. Costeggio il retro del palazzo che è un trionfo di balconi con fogliame di plastica, panni stesi e tende variopinte, condizionatori e caldaie, ripostigli o verande in alluminio, tubi zincati o verniciati e qualche vaso con il basilico la menta e spenti gerani.  Avrò visto un milione di progetti su palazzo Ottieri: dalla demolizione totale alla rimozione di pezzi, sempre alla ricerca del mare perduto. Fino alla frustrazione di inutili abbellimenti. Non so, mi sembra che questo mastodonte sia come la carcassa di un gigantesco animale preistorico che il mare, da qualche parte oltre ma anche oltre i depositi i silos i carriponte, la parte di mare offeso e incattivito da questa città abbia lasciato incagliato ineluttabilmente nelle sue trame. La piazza del Mercato me la ritrovo sulla destra. Anche qui, l’ombra del palazzo ricopre la strada, le macchine ferme, il marciapiede, i dissuasori di piperno e si spinge fin dentro l’invaso. Poi comincia la luce. La sua rivincita. Si estende per tutto l’emiciclo, fino agli intonaci bianchi e le tende aperte sugli ingressi alle botteghe. Fino alla chiesa al centro dell’esedra dove le statue nelle nicchie assorbono fameliche la luminosità che le allontana dal buio dietro le spalle. Ma è il punto, la linea netta, dove l’ombra incontra la luce che smuove suggestioni, Masaniello le impalcature con i morti, le esecuzioni la rivoluzione, il punto nevralgico del di qua o di là sapendo che quello che non è stato lo puoi sempre vedere da lontano come un poteva essere e illuderti che in fondo sia un po’ vero. Vado avanti, verso l’arco come mi ha detto il posteggiatore. Preferisco chiedere piuttosto che seguire il navigatore. Fino alle costole di tufo giallo di Sant’Eligio Maggiore. È una bella sensazione camminare in questo tratto, un punto di benessere premere le suole delle scarpe sul lastricato e conversare. Ma sono da solo, conversare con me stesso, è ovvio. Ed è in questi frangenti che la narrazione si scrive, parola dopo parola, come i passi del viandante, in una zona della mente dove nulla svanisce. L’ingresso laterale alla chiesa è un portale strombato ricco di figure naturali e animali incastrate nelle gole delle nervature gotiche. Supero l’arco con l’orologio quattrocentesco. Un uomo in calzoncini corre davanti a una macchina per farla parcheggiare. Mi indica con un gesto della testa come fanno certi cagnolini di pelouche che San Giovanni a Mare è dietro l’angolo. Come ogni cosa, dietro l’angolo. Strano ingresso, non diresti mai che è una chiesa. Una specie di portone su una facciata anonima sotto finestre da casa protette da inferriate. È un ingresso laterale, l’unico. Si accede in un cortiletto, vi è esposta la copia di Donna Marianna ‘a capa ‘e Napule rediviva Partenope. Passo davanti a uno stanzino dove un portiere mi saluta con gentilezza. L’interno è buio. Nella penombra rintraccio le linee dell’impianto normanno, raro esempio nel panorama della città. È questa l’unicità che cercava l’amico del nord. Ma l’oscurità è una porta verso altre mete. Come sempre mi accade sono in un posto e contemporaneamente attraverso i nessi con i luoghi della memoria, la mia terra [Aversa] di fondazione normanna e le infinite tracce del primitivo disegno. Questa è la forza, un grafo di onde come quando getti un sasso nell’acqua, oltre la mera dimensione fisica. Non succede sempre. Ma se sì, allora mi sento in un luogo parlante. Mi incammino per ritornare e penso al nome della chiesa. Quell’a mare. Un taglio nella cortina apre su un vicolo. C’è tutto qui. Un suv parcheggiato all’imbocco. I panni stesi da un balcone all’altro. Motorini e una puzza di cipolle. In fondo le strutture del porto. La cosa che non c’è più è il mare.

 

“Il sorriso di SANIN” A proposito di certi umori dell’intelligencija russa inizio ‘900

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Locandina del film muto “Lyda Ssannin” [1923] di Frederic Zelnik tratto da SANIN di M. Arcybašev, che, però, sulla rivista Za svobodu! scrisse “è un rozzo e volgarissimo rifacimento che non ha nessuna somiglianza, neanche la più esteriore, col mio romanzo“.

di ⇨ Anna Tellini

E accadde un episodio, nella storia della società russa, significativo al massimo grado, di enorme importanza, da nessuno notato: il superuomo agì come un lacchè verso Smerdjakov. […] Siederà Smerdjakov a bere il tè, e il fonografo gli suonerà:
voglio essere insolente, voglio essere audace! Andrà a teatro, e applaudirà Wedekind. Prenderà il giornale, leggerà la “borsa”, e sottolineerà in un corsivo una citazione di Bakunin.
[…] Smerdjakov si è adattato perfettamente a Zaratustra e lo ha adattato a sè.

     Nel primo fascicolo del 1907, il “Sovremennyj mir” (mensile letterario, scientifico e politico molto popolare nei circoli democratici russi) ospitava, tra l’altro, i capitoli iniziali di Sanin .

Michail Petrovič Arcybašev [fra il 1910 e il 1917]

      Che il romanzo uscisse non in un qualunque retrobottega letterario, ma in una rivista diffusa e rispettabile, era il segno di un’operazione più che abile, tutta finalizzata a blandire le attese del pubblico in una doppia direzione, il lettore abituale della rivista, ossia la gioventù democratica, interessata alle sorti di un ex rivoluzionario, tenendo d’occhio, però, al contempo, l’allargamento del mercato. Il che la dice lunga sull’indefinitezza di una fase particolarmente complessa della vita e della cultura russe in cui, mentre cresce l’influenza di Marx, si fa strada al contempo una sorta di rivolta contro l’arido razionalismo che sbocca in una serie di “utopie” pronte a coniugare innaturalmente la politica con la mistica e l’estetica, mentre nei salotti non è raro parlare di occultismo e di teosofia. E intanto, sull’onda rifluente della rivoluzione fallita, si assiste all’esplosione di una pletora di scrittori minori o minimi, tempestivi e prolifici, che influiscono sul modo di pensare e di parlare, sul codice sentimentale, sulle abitudini sociali del tempo. Il principio di casta inizia a scomparire; l’instabilità delle forme letterarie è esorbitante; nessuno strato di pubblico è, in linea di principio, precluso…. E così, mentre si continua a scrivere che è tempo di cessare di scrivere, si espandono la letteratura “pornografica” con i suoi propri organi e il poliziesco, e si tentano audaci sintesi di Marx e Platone, del modernismo à la Wilde e dell’anarchismo à la Bakunin, e intanto la quantità di discorsi sulle opere supera probabilmente le opere prodotte, in un subisso di storie della letteratura, di volumi di critica del testo, di edizioni commentate di Opere complete, di russi ma ancor più di stranieri, come Hamsun, Maeterlinck, Przybyszewski, Wilde, Wedekind e Mirbeau, Baudelaire e Verhaeren, come a colmare il tradizionale abisso tra l’Europa e la Russia. Sanin aspira a porsi come luogo letterario, anche se poi la fitta trama di citazioni di cui ci soccorre spesso ne fa più che altro un compendio del “modernismo”, smanioso di attualità. Trascorrono il testo i nomi di Bebel, Nietzsche, Tolstoj; di Bradlaugh, di cui Sanin si fa portavoce in una sorta di incondizionato “inno all’aborto”; di Darwin, Čechov, Ibsen, Hamsun, Marx.

da “Сатирикон” [Satyricon] 1908, №14

     Di questo tempo confuso e strano Arcybašev può a buon diritto vantare il titolo di scrittore sintomatico: cantore dell’intelligent declassato, stupendo talento di assimilazione, caposcuola di una fiorente estetica del riciclaggio, fortunato rimasticatore, abile echeggiatore di motivi ricorrenti nell’aria, poeta della liberazione russa, quando è permessa la tempesta della liberazione, poeta della sadica ferocia e della “sfrenatezza sessuale”, quando nella borsa letteraria si alzano le azioni dei “problemi sessuali”, cantore della morte, quando nella società la vita diminuisce di prezzo, fu autore di quel Sanin – per alcuni anni la Bibbia di ogni studente russo -, la cui straordinaria forza di proselitismo ne fa un grimaldello per subire il fascino di un’epoca liminare e ricca.

     Potrà, così, affiorare un Arcybašev capofila e antesignano di una “democratizzazione” delle lettere sui generis, capace di dar vita a una letteratura che si fa leggere: sono, questi, gli anni di un significativo ampliamento dell’uditorio, anni in cui la nuova letteratura riesce a penetrare tra strati sociali in cui prima non aveva accesso, quali certi settori del mondo contadino, la piccola borghesia urbana, il ceto impiegatizio e mercantile… A questi, la cui autodefinizione borghese è ancora molto primitiva, Sanin offre quella semplificazione del modernismo e quell’aria di ardimentosità che, per l’appunto, erano loro necessari… In questo periodo, figlio dell’abbassamento dell’ondata rivoluzionaria, il pubblico russo continua tenacemente a cercare in Sanin proprio ciò che non vuole e non può dare, sarebbe a dire un’idea generale, una dottrina sul cammino della vita, percependo il protagonista, a lui contemporaneo, come teorico, filosofo, catechizzatore della “nuova morale”, di contro all’antagonista Jurijj – abdicatario, incapace di consistere -, che si era nutrito di libri sull’anarchismo e il marxismo e l’individualismo e il superuomo e il cristianesimo della trasfigurazione e l’anarchismo mistico, sì, ma di questi modelli letterari era solo un’infelice, cattiva incarnazione.

Il drammaturgo Michail Arcybašev legge la sua commedia “La legge del selvaggio” all’attrice L. B. Yavorskaya. [1915] foto di Karl Bulla

     Sta di fatto che si diffondono ovunque – a Minsk come a Kazan’ o a Kiev… – delle “Leghe del libero amore” e simili, e non sono rare, durante le innumerevoli conferenze sul romanzo, le irruzioni di suoi discepoli al grido di “Siamo Saninisti!”, mentre, solo pochi anni dopo, l’uscita di U poslednej čerty (Al limite estremo) – il cui protagonista, Naumov, è un fanatico predicatore della morte -, provocherà una strana processione di giovani desiderosi di sapere da Arcybašev se farla finita, o aspettare ancora, e un’allarmante crescita dei suicidi, la cui origine letteraria, secondo numerosi osservatori dell’epoca, era di assoluta evidenza. 

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    La passata integrità dell’intelligent russo, la cultura dell’ascetismo e dell’espiazione del debito, che non avevano dato i frutti sperati, al contrario schiacciando tante esistenze, di fronte al fallimento della rivoluzione del 1905 si disgregano per inattese, bizzarre crepe: in aiuto venne Nietzsche, la cui filosofia fu spezzata in schegge di paradossi, allignando più che tra l’intelligencija, tra la società “colta” russa, tra i “selvaggi della cultura superiore”, tramutandosi nel “più tipico filisteismo che ha raggiunto i limiti dell’ultraindividualismo” (R. V. Ivanov-Razumnik), cosicchè, dopo che per il suo possesso avevano dibattuto esteti, e idealisti, mistici e teurghi, evoluzionisti e anarchisti e socialisti, si arrivò a un nietzscheanismo popolare in cui il rovesciamento di tutti i valori si trasformò in una bonaria insolenza piccolo borghese. Non sorprenderà che, preso in mano Zaratustra, Sanin ne sia subito annoiato: sbadiglia, sputa, e si addormenta di botto…

Il drammaturgo Michail Arcybašev legge la sua commedia “La legge del selvaggio” all’attrice L. B. Yavorskaya. [1915] foto di Karl Bulla

     E in aiuto vennero anche il successo sensazionale, in Russia, di Geschlecht und Charakter di Otto Weininger, opera che cercava di stabilire, sulla scorta di considerazioni metafisiche e psicologiche, una filosofia dei sessi applicata anche alla vita sociale, all’antropologia, alla psicologia delle religioni, e la traduzione di Die sexuelle Frage di Auguste Forel e la vasta diffusione della Psichopathia sexualis di Krafft- Ebing, lugubre bestiario, catalogo di “nefandezze”, petulante archivio di “perversioni” stilato con scrupolosità da copista in un linguaggio da posto di polizia e con la morbosa ricerca del sensazionale con sfondo moraleggiante…

     E, se grande fu in Russia la voga dei libri di divulgazione scientifica, che trattavano dal lato puramente fisiologico il problema sessuale, clamoroso fu il successo di Sanin presso il pubblico tedesco, preparato da una serie di precedenti notizie sensazionali dalla Russia che, comparse sulla stampa tedesca, ricorda G. A. Grossmann, “hanno ispirato al virtuoso filisteo un terrore panico e un piacevole vellicamento dei sensi. In esse si raccontava che in Russia si era scatenata una rivoluzione erotica, che aveva afferrato con forza straordinaria tutta la gioventù intellettuale, ginnasiali e scolari compresi” in omaggio al cliché esotistico sui russi come quintessenza dell’eccesso di cui Merežkovskij avvertiva la triste inevitabilità (con gli occidentali “possiamo entrare in amicizia, simpatizzare l’uno per l’altro, ma presto o tardi arriverà tuttavia il momento in cui cesseranno di comprenderci e ci considereranno come abitanti di un altro pianeta”)    

In primo luogo, la Russia in genere è il paese dei prodigi, e non c’è una cosa sopra la logica, in cui non potrebbero credere, una volta che si stia parlando della Russia. In secondo luogo, i tedeschi sono da tempo informati che l’immoralità sessuale è una delle peculiarità della gioventù russa […] In terzo luogo, “Sanin” ha avuto un successo clamoroso in patria .

     L’opera che sembrava destinata principalmente ad incoraggiare un’attività sessuale irregolare o eccessiva ha al centro un eroe – apostata della rispettabilità e dell’inserimento sociale – che vive in una sorta di eretismo cerebrale che gli impedisce di fatto, eccettuato un episodio, di esprimersi se non come un mero apparato verbale: col suo eterno discorrere del corpo Sanin è incorporeo, una sorta di macchina parlante… l’assertore della libertà dai vincoli, dalla morale è tutto nella teoria, nella piattaforma del suo nuovo credo: come sottolinea, con qualche acredine, Trockij, si trattava di un

moralismo, anche se a rovescio. L’anarchismo della carne, l’arcybaševismo non sono che una predica continua e fastidiosa: “non abbiate paura, non abbiate dubbi, non vergognatevi, non fatevi scrupolo, prendete dove potete” […] il saninismo è la più criminale spogliazione della personalità […] una disperata utopia .

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La donna è femmina, e questo prima di tutto! […]
Scimmie nude, rosee, grasse, senza coda, ecco  tutto!   

     Sanin torna a casa, dopo molti anni di assenza, come ne fosse uscito da poco: ha capelli biondi e spalle larghe e voce tranquilla e ferma e un sorriso attento, mentre lo sguardo è immerso in se stesso; non amava e non odiava nessuno; era, la sua, una vita priva di un’idea generale. In giardino abbraccia la sorella Lida e le esprime la propria ammirazione per la sua bellezza con una voce strana, “non si sa se carezzevole o sinistra”, e il contatto tra il suo braccio muscoloso, di ferro e il flessuoso e tenero corpo di Lida suggerisce a quest’ultima l’approssimarsi di un’”invisibile fiera”.

     E così, mentre si evoca il motivo dell’incesto (come accadrà più tardi in altre scene), pruriginoso quanto basta a incoraggiare attese che non si avrà il coraggio di soddisfare, ma che rimarrà a lungo pendente sulla storia come una possibilità, si sottolinea la condizione di “preda” della donna, la cui descrizione Arcybašev limita sempre a tre qualità: alta, slanciata e bella; in questo gioco di gesti formulaici potremo non sapere di quale colore siano gli occhi della sua eroina, ma saremo sempre messi al corrente di come sia il suo seno. Egli descrive non donne, ma corpi, organi, frammenti, ricorrendo a termini strettamente fisici, di dimensione e foggia degli organi, per colmare la vacanza di una realtà mentale ed emotiva; di qui, spesso, il vicolo cieco dell’astrattezza e della spersonalizzazione. Così, mentre un piccolo miracolo di rigidi stereotipi moribondi converge a sottolineare che “la cosa più importante in una donna è il seno”, dopo vengono le gambe, il ventre, i fianchi, e ciò soprattutto in momenti di eccitazione sessuale… Solo una cosa non c’è: la carne leggera (A. Blok). I colori con cui Arcybašev disegna la “vita” sono troppo chiari, troppo vistosi, “gridano”: per lui la “vita” è il corpo, i muscoli, il sangue, è tutto ciò che dimostra che la morte è lontana, che non c’è posto per l’inevitabile fine.

     Un pathos di concretizzazione, un feticismo dei dettagli che paiono, piuttosto, difendere dall’orrore del non-essere: la gioia di vivere di Sanin è nient’altro che il più al posto del meno, un festino in tempo di peste:

Da noi non c’è la peste, ma c’è la controrivoluzione […] Ci sono dati più che sufficienti perchè la morte sieda in un angolo rosso anche ai nostri festini, come al tempo della peste fiorentina o del terrore a Parigi […] Ai sensi ottusi occorre un eccitamento acuto .

     Senza aver fatto in tempo ad entusiasmare il lettore dinanzi alla gioia della vita, Arcybašev si sforza invano di spaventarlo: ecco in Sanin il gemito di Semënov, la cui agonia imbarazza e irrita gli astanti, gemito prolungato e interrotto dal respiro difficile, Semënov che poi Jurij immaginerà “nella tomba, col volto in putrefazione, col corpo pieno di vermi, che lenti e ripugnanti brulicavano nella poltiglia in decomposizione, sotto l’uniforme umida e grassa, e ormai verdastra”, in una sorta di “flirt con la morte” (L. Fiedler) collerico e angosciato.

     Ed ecco – in una scena tutta giocata sotto il segno di Dostoevskij – la prova generale del suicidio di Jurij: ha accostato alla tempia un revolver, ha premuto il grilletto, ma tutto si è concluso con un suono metallico, nient’altro. Quindi, avvicinatosi allo specchio, interrogandosi sulla propria vigliaccheria, vi ha visto viceversa un volto severo e trionfante e, sforzandosi di non attribuire alcun significato a quest’atto di autocontrollo,  si è fatto la linguaccia, per poi allontanarsi. Poco dopo, nel sonno,

gli parve che qualcuno, pesante e ingombrante, gli sedesse sopra, accendendosi di una sinistra luce rossa. – E’ il diavolo!, con terrore risuonò nella sua anima.
Jurij fece sforzi convulsi per liberarsi. Ma il Rosso non se ne andava, non parlava, non rideva, si limitava a schioccare la lingua. Era impossibile discernere se lo facesse in modo beffardo o seducente, e ciò era tormentoso…

     Vengono alla mente le parole di Lunačarskij –  futuro commissario del popolo per l’istruzione -,    sul “pessimismo estetico” dei decadenti, sul loro trovare uno scopo nell’”immersione nel nulla, nel graduale arrestarsi”, nello sforzo di spaventare l’umanità con la vita e di attirarla con la “bellezza” della morte, del non essere, facendo della negazione della vita il senso della vita stessa. Una letteratura per Lunačarskij pensata per il filisteo, “grigio, medio”, che

il suo pessimismo […] desidera innalzare a filosofia mondiale della tragicità della vita, i suoi attacchi di nervi – a impronta di una particolare elevatezza culturale, la propria malinconia a tristezza enigmatica e affascinante .

   La vera svolta dunque è in questa improvvisa “espansività”, così lontana dalle tradizioni consolidate  e che richiama come unico, ancorchè autorevole, precedente, le Memorie del sottosuolo (il cui eroe, secondo Gor’kij, include in sé Nietzsche e Des Esseintes e O. Wilde, Le disciple di Bourget e Boris Savinkov), questa “crudele, sgradevole e autolesiva indagine della sofferenza” che non aveva esitato a mettere in primo piano l’”intimità dell’anima brutalmente e prepotentemente violata” . La vera “immoralità” consisterebbe dunque nel mettere svergognatamente a nudo i sentimenti e le cose più intime, costringendo il lettore più che a leggere, ad origliare; nella sincerità sfrenata con cui ci si affretta a rivelare se stessi, la propria essenza; nel rifiuto di nascondersi come contraltare all’impotenza di fronte ai compiti posti dall’epoca e in particolare al “problema cardinale della letteratura russa”, quello del senso della vita, cui Sanin offre una replica non possibilista:

E’ vero, nessuno insegnerà a vivere: l’arte di vivere è anch’essa un talento. E chi non lo possiede, o andrà lui stesso in rovina, o distruggerà la sua vita, trasformandola in un misero vegetare senza luce e senza gioia.

     E questa è la situazione di Jurij. E’ come se aspettasse di essere legittimato a vivere, mentre spia costantemente se stesso, in attesa di qualcosa che possa essere all’altezza: “Vivere e immolarsi! Ecco la vera vita! Sì… Ma a chi immolarsi? Come?… In qualunque cammino mi gettassi e qualunque scopo mi ponessi, dov’è quell’ideale puro e indubitabile per il quale non sarebbe un peccato morire?”.

     Inevitabilmente, questo morire come improbabile riscatto smentirà se stesso, viceversa confermando in Jurij l’eroe dell’elusione e dell’indecisione: pencolante dunque sarà la sua morte, e priva del segno beante della soluzione purchessia:

Furtivamente sgattaiolò dietro una quercia, perchè non lo vedessero dalla veranda, e dando un’occhiata alla cameriera – Non noterà? – in qualche modo, molto velocemente e inaspettatamente, si sparò al petto. – Cilecca!, gli balenò in testa, insieme al repentino, tormentoso desiderio di vivere e al terrore di morire […] Le foglie, sulla sua fronte, si fecero velocemente pesanti, opprimendo la testa. Jurij allungò il collo, per vedere da dietro di esse ancora qualcosa almeno, ma le foglie si infittirono ancor più velocemente da ogni lato, fino a coprire tutto.

     Egli muore controvoglia, intrappolato nel gioco senza sbocco della deriva e dell’inappartenenza, della propria inopportunità biografica. Incapace di autodefinizione, dilaziona la ricerca di sé in incontri/scontri con l’Altro, gli altri, di cui forse, dostoevskijanamente , vorrebbe provocare la lode, o almeno un’ipotetica giustificazione, nel mentre si spezza in decine di parti, tra le calosce e il superomismo. Autentico “uomo del sottosuolo”, Jurij si espande nel soliloquio, almanaccando su ciò che di lui pensano e possono pensare gli altri, sforzandosi di precorrere ogni coscienza altrui. In un romanzo così premeditato, che mette intenzionalmente le cose (e anche gli uomini) al loro posto, il partito preso (divinizzare Sanin) libera Arcybašev dalla tentazione di mummificare anche Jurij, quest’essere risentito che ha bisogno di farsi male contro la vita per sfuggire ai suoi sillogismi ingarbugliati.

    Sanin, come si sa, partirà “incontro al sole”: dietro la sua maschera traspare, finalmente denudata, quella dei “vagabondi” gor’kijani, il cui romanticismo non a caso era stato a suo tempo accostato al nietzschianismo.

    Sanin parte per nessun luogo, “senza valigia” e senza scopo e il romanzo diventa, così, romanzo dello spreco.

    Resta, a rimandarci un’epoca, un’ultima scorata riflessione: 

Non è la prima volta che la letteratura russa celebra i filistei e grida loro: “osanna!”. Cos’è, se non un filisteo, il gogoliano Kostanžoglo? O il gončaroviano Aduev senior? O Štol’c? O Solomin? Ma il villanzone, il villanzone non l’ha mai glorificato, il villanzone con siffatti discorsi noiosi, appiccicosi, con siffatti gesti posati à la Smerdjakov. Che cosa è dovuto accadere nella vita russa, quale ribaltamento di idee, di ideali, di valori, perchè uno scrittore giovane (e di talento) recasse e ponesse su un piedistallo, e ornasse di fiori il figlio di Lizaveta Smerdjaščaja?


La tirannide dell’io: la scrittura della storia nell’epoca del neoliberismo

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di Giorgio Mascitelli

Con La tirannide dell’io ( trad. di Luca Falaschi, Bari-Roma, Laterza, 2022, euro19) Enzo Traverso affronta un tema, quello dell’emergere di un tipo di scrittura storiografica sempre più marcatamente soggettiva, che solo distrattamente può essere considerato specialistico, mentre in realtà tocca uno degli aspetti più tipici della cultura del nostro tempo. Questo processo sembra diffondersi a partire dagli anni ottanta, anche per l’influenza di opere e modelli di scrittura esterni agli strumenti di lavoro tradizionali degli storici: non a caso l’autore si sofferma sull’analisi della ricezione del film Shoah ( 1985) di Claude Lanzmann e di alcune opere narrative negli ambiti della ricerca storica. La scrittura del passato in prima persona, per citare il sottotitolo del libro, comporta infatti un marcato ricorso a procedimenti  tipicamente letterari, appunto dall’uso della prima persona alla messa in scena del lavoro di ricerca come indagine passando per l’espressione dei sentimenti che lo storico prova verso i protagonisti della sua ricerca e altri ancora. Questo fenomeno non tocca per così dire solo l’organizzazione formale dei libri di storia, ma le stesse motivazioni che hanno portato l’autore a scegliere un certo tema, spesso dovute a una sua identificazione emotiva o politica con il soggetto della ricerca o addirittura a legami familiari, che rischiano di pregiudicare quel distacco intellettuale con la propria materia che è necessario per rispondere alla domanda su come sono andate effettivamente le cose. I rischi di questa impostazione sono quelli, in taluni casi, di mescolanza di elementi di finzione con quelli di realtà, ma più in generale di una sorta di ipertrofia narcisistica dell’io dello storico, che spesso finisce con l’attribuire le proprie priorità emotive, politiche e culturali ai soggetti di cui si occupa con l’esito di riversare la sensibilità contemporanea su personaggi del passato. Forse però il rischio maggiore per questi storici è di sviluppare una sorta di movimento dalla ‘storia generale alla cronaca individuale’ ( p.145), quando uno dei principali obiettivi epistemologici della storiografia, compresa la migliore microstoria, è esattamente l’opposto.
Secondo Traverso questa tendenza è dovuta al presentismo. Con questo termine, che l’autore riprende da François Hartog, si indica il peculiare rapporto con il tempo schiacciato sul presente tipico dell’individualismo neoliberista, che non percepisce più la profondità storica né verso il futuro né verso il passato. Non che gli autori in questione siano ideologicamente affini al neoliberismo, anzi talvolta ne sono dei critici, ma il presentismo è la forma della coscienza culturale contemporanea, dominata dal neoliberismo, che si esprime attraverso questo soggettivismo dello storico in un contesto che in definitiva è ancora quello postmoderno.
Forse il più significativo dei molti pregi di questo libro, tra i quali vale pena di citare anche la scrittura piacevole che introduce in maniera chiara il lettore non specialistico in un dibattito anche metodologico sulla storia,  è che Traverso non trasforma quella che è un’analisi storica e culturale in un rigido giudizio ideologico o metodologico, non solo perché l’autore ha presente esattamente le ambiguità e i limiti dell’impostazione moderna della scrittura storica tradizionale caratterizzata dall’impersonalità scientifica o, forse sarebbe meglio dire, dal suo mito, ma anche perché non esita a indicare  esempi di opere riuscite anche all’interno di questa tendenza come il libro Perdi la madre di Saidiya Hartman che, pur presentando tutti i caratteri della scrittura storica soggettivista, evita brillantemente i rischi di ripiegamento e arricchisce la conoscenza storica; per Traverso non si tratta di condannare una metodologia o una tendenza culturale in toto in nome di un diverso modello storiografico, ma di analizzare criticamente il presente senza però nasconderne gli aspetti positivi.
In questo libro, come si può immaginare da quanto esposto sopra, si parla molto di letteratura e vengono discussi gli esempi di romanzi storici di molti scrittori, anche se ovviamente la questione del soggettivismo nella narrativa è meno significativa perché un romanzo  non è un saggio storico ed è del tutto legittimo che mescoli elementi di finzione in quanto non ha come obbligo costitutivo quello di rispondere alla domanda ‘ come sono andate le cose, per quanto è possibile sapere’, che è invece vincolante per lo storico. Pure Traverso nota come anche la narrativa partecipi a questa tendenza soggettivante e le pagine che dedica alla discussione di Soldati di Salamina di Cercas, e ai rischi degli abusi della memoria, sono a mio avviso molto utili per ogni lettore di romanzo storico.
A me sembra infatti che questo libro ponga oggettivamente una questione interessante per la letteratura di questi anni ed è quella del presentismo. Se il presentismo è una forma della nostra coscienza contemporanea, allora anche la scrittura letteraria ne è influenzata o forse in alcuni casi addirittura determinata con tutti i rischi che ciò comporta. Naturalmente non è questo un problema risolubile per via teorica: saranno delle opere concrete di autori concreti che troveranno la via giusta per coniugare l’appartenenza al presente con quella necessaria dose di inattualità che le opere importanti hanno sempre.
Può valere la pena, però, ogni tanto tornare ai massimi sistemi per sottolineare nuclei decisivi: se Auerbach in quella fondamentale storia del realismo occidentale che è Mimesis indica come una delle maggiori differenze tra il realismo antico e quello moderno, il fatto che il primo guarda alla società in una prospettiva astorica, mentre il secondo è tutto calato nella storicità, allora sarà lecito chiedersi che tipo di realismo, che qui intendo nella sua accezione più ampia, sarà possibile nella letteratura di un’epoca dominata dal presentismo. Per esempio, visto che viviamo in un’epoca che considera il metaverso come un livello di realtà oggettiva e non come il prodotto di un’attività umana, questo sintomo, che a sua volta ha molto a che vedere con il presentismo, si rifletterà indirettamente nella produzione letteraria. Probabilmente il recupero, anche in termini epistemologici, di credibilità del romanzesco più scontato a cui si assiste oggi, come se il Novecento non fosse mai esistito e tutto sommato anche buona parte dell’Ottocento, è ugualmente un sintomo di questa situazione; altrettanto probabilmente ogni mutamento storico in una cultura presentista si può presentare facilmente nella forma dello choc e una via di fuga può essere il ritorno a un tempo fiabesco, magari opportunamente aggiornato con l’ultimo grido tecnologico; o ancora  quel racconto di ‘vite chiuse in sé stesse’ ( p.145), incapace cioè di rappresentare dietro il singolo caso una condizione generale o quanto meno diffusa, che Traverso riscontra in molte opere storiche, è tipico di molte opere narrative e non solo di genere storico .
Insomma mi sembra che Traverso parlando della scrittura della storia vada a cogliere un tratto più generale della cultura del nostro tempo, a tal punto che mi spingerei ad affermare che quel movimento dalla storia globale alla cronaca individuale, a cui mi riferivo sopra, sia la forma narrativa della coscienza ( infelice) della nostra epoca.

Diario di Saragozza: Ecce Homo

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di Cisco Escalona

Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
 

L’uomo solo, Cesare Pavese

 

I destini li dettano i numeri, e i nomi che si intrecciano ogni volta a comporre un mosaico che non ti aspettavi, però è proprio lì, a indicarti non una strada ma il fatto davvero poco opinabile che sei proprio dove dovresti essere. Di questo, non rispettando la cronologia del viaggio da Parigi a Saragozza, dirò poi perché oggi si tratta di un viaggio nel viaggio che comincia al mattino servito su un tavolo insieme al caffè e che recita testualmente: autobus stazione Delicias, Saragozza-Borja partenza ore 12,45 e ritorno 18h40.

Il sabato sera s’era trascorso un po’ in spirito spleen, da solitudine dei numeri sesti, però tutto sommato restava nell’aria la mitica impresa del venerdì. Un buon ristorante di carne, sangue e vino accanto all’albergo avrebbe rimesso sul peso della bilancia una nuova equazione del bene.

La carne era buona, il vino altrettanto ma forse ha ragione Pavese quando dice che quando si è soli bisogna evitare di entrare.

Ho chiesto sul fare del giorno alla signora della reception se potesse indicarmi il cammino, la mia Compostela, per ammirare quella che a detta di tutti era l’opera meno riuscita del mondo e il cui titolo dell’originale rifatto, era Ecce Homo. Avevo le indicazioni e l’avviso che quello non era una semplice gita, ma un’odissea da farsi da solo, col caldo e un completo azzurrino con cravatta e cappello contro ogni buon senso.

Come per prendere la rincorsa e pensare ovviamente alla cosa, aprire quel tipo di libro contabile dell’esistenza che cerca una quadra nei conti sull’energia dello sforzo e la meta, ho fatto un giretto. In genere quando ciò accade si rimane sul bordo e poi appare del tutto evidente che proprio non bisognava.

A quel punto del vagolare per il quartiere della Maddalena, dove vorrei abitare, m’imbattevo nello strano negozio. Cosa voleva dire se non chiudere tutto e accettare di fare a ritroso il percorso e imbarcarsi nell’epica di quella promessa, di andare a vedere se è davvero possibile quasi ammirare un’opera brutta, anzi mostruosa perduta in timide alture senza null’altro.

 

Ho preso il biglietto e poi per scherzare ho invitato gli amici a indovinare ove mai andassi, questa domenica, in tiro e sprezzante della deserta campagna, del caldo e di nuovi elementi di sbalzo. Ma nessuno ha provato nemmeno per scherzo a tirare quel dado.

Sono allora arrivato sul posto che era mezzo deserto e lontano sei miglia dal noto Santuario de Misericordia, e timidamente ad una ragazza munita di trolley e deposta a quella fermata ho chiesto se almeno sapesse se v’era maniera di arrampicarsi su in cima di quella collina, più comodamente che a piedi, in un taxi e ha risposto al mio strampalato spagnolo con italiano perfetto che avrebbe trovato in un batter di ciglia quel numero e perfino chiamato per indicare la posizione de losco figuro. Helena che aveva studiato a Torino e Sarzana mi aveva salvato dal moto di wallera cosmico quello per cui financo il sistema solare pare un vento che ci soffia contro.

Quando sono arrivato sul posto mancava un minuto alla chiusura e quasi inciampando nei lacci e nel tempo mi sono gettato oltre il ligneo portone che invece di chiudersi subito dopo restava com’era per dare a chi avesse un po’ di ritardo la chance insperata di potere prostrarsi dinanzi alla insolita opera. Una signora spiegava e faceva le foto a chiunque glielo chiedesse e con estrema naturalezza a chi lo volesse faceva la foto testimonianza, quella che avrebbe composto uno strano mosaico di facce che guardano la disinvolta creatura, un tempo Gesù.

La visita stava finendo ed ancora restava inevasa la vera questione che aveva lo scriba venendo. Perché a dieci anni dalla creazione più sconcia del secolo in numero di ventimila all’anno giungevano da ogni paese per poter dire di esserci stati? Era forse la stessa incompresa curiosità di automobilisti sorpresi da un incidente sull’altra corsia e che senza rifletterci affatto rallentano per osservare, intravedere qualcosa che proprio una rosa non è? O forse esperire in quella eccezione dell’arte una ecceità della storia mortale ed eterna, alla maniera della bellezza che cambia di segno col tempo e la sua vanità ci rattrista come in un quadro di Goya? Migliaia, e forse milioni di uomini e donne intanto tracciavano con bandierine il solco di quell’avventura.

Una cosa inspiegabile è un miracolo. E quello che aveva un’oscura vecchietta compiuto per questo villaggio sperduto, facendo con una passione senza talento un restauro inventato. E il Cisco? Il Cisco pensava che appena mancava al ritorno una breccia nel tempo, quattro ore ed un chiamo al tassista che l’aveva condotto fin lì, per potere poi rincasare, riotellarse, prima di sera profonda. E nella piazza abitata da pochi rimasti dei pellegrini e di massima età attrezzati simpaticamente scambiando il rituale e sorpreso conoscersi dall’idioma parlato, con una giovane coppia solare, medici e residenti a Torino, Elena e Giacomo, si fece sosta con leggero ristoro ed in carrozza con loro ritornammo a riveder le stelle della Cattedrale del Pilar.

Corollario Super Santos

E del rosso-arancione pallone restaurato da giovani in gamba da calciatori el Cisco dirà forse un giorno.

Fortini-Enzensberger, il carteggio

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[Questo articolo è apparso sul numero 7/8 (luglio-agosto 2022) de “L’Indice”]

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di Andrea Inglese

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Esistono, esisteranno ancora, carteggi nel XXI secolo, carteggi elettronici a cui ci si rivolgerà curiosi ed esigenti, convinti che qualcosa di un autore importante sia scivolato fuori dai margini dell’opera edita, e che possa perciò aiutarci ad ampliare la visione che abbiamo del suo lavoro letterario e intellettuale? È quanto in ogni caso continuiamo a fare per il Novecento, dove anche scambi occasionali, circoscritti nel tempo, ci promettono se non scoperte, almeno conferme e comunque chiavi di lettura ulteriori. In quest’ottica possiamo ora leggere Così anche noi in un’eco, ossia il carteggio tra i due poeti e intellettuali Franco Fortini e Hans Magnus Enzensberger, svoltosi tra il 1961 e il 1968. Il libro esce per Quodlibet, nella collana dedicata all’Archivio Franco Fortini, a cura della giovane e brillante studiosa Matilde Manara. Il materiale non è corposo; si tratta di quattordici lettere di Enzensberger e cinque sole di Fortini, ma l’apparato documentario nel suo insieme è rigoroso e ricco. Oltre allo scambio epistolare occasionato da un lavoro di reciproca traduzione, il volume comprende anche due testi apparsi in rivista, in cui ognuno dei due poeti commenta la poesia dell’altro, un articolo di uno studioso tedesco di Brecht, che critica un precedente articolo di Fortini apparso in Germania, la replica epistolare di quest’ultimo, e infine alcune poesie di Enzensberger nella versione di Fortini. Fondamentale è poi il saggio introduttivo di Matilde Manara, che si concentra sul ruolo della traduzione nell’opera di Fortini e in una più generale strategia di politica culturale condivisa, all’epoca, con Enzensberger e altri scrittori europei. Quando i due poeti iniziano il lavoro di traduzione, sostenuto da un duplice progetto editoriale – Suhrkamp per la Germania e Feltrinelli per l’Italia –, sono entrambi coinvolti nella creazione di “Gulliver”, una rivista con una vera redazione europea, in grado di esplorare la letteratura contemporanea al di là dei confini nazionali, dando anche spazio a interventi di Kulturkritik. Alla fine, nonostante l’impegno di Maurice Blanchot (primo ideatore), di Vittorini, Calvino e Leonetti, degli esponenti del tedesco Gruppo 47, “Gulliver” non vedrà mai la luce, ma l’esigenza di abbracciare una visuale internazionale continuerà ad accompagnare Fortini e Enzensberger sia sul terreno della poesia che della saggistica. Si trovano tutt’e due di fronte a un crinale – per utilizzare un’immagine cara al critico Luca Lenzini – situato tra il 1956 (l’esito dell’insurrezione ungherese) e l’inizio degli anni Sessanta, con l’insorgenza dell’industria culturale di massa. Nonostante la differenza di età (Fortini è più vecchio di dodici anni) e di scelte poetiche (Enzensberger è più vicino alle avanguardie europee), li accomuna la pratica del saggio non specialistico, con intenti di decifrazione critica della contemporaneità. Nel 1962, esce in Germania la raccolta di saggi di Enzensberger, poi tradotti per Feltrinelli nel 1965 col titolo Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza (ripubblicati nel 1998 da e/o); nel 1965, Fortini pubblica per il Saggiatore Verifica dei poteri. In questo contesto di riconsiderazione radicale del ruolo dell’intellettuale e del poeta, si svolge il carteggio, in gran parte incentrato sulle difficoltà specifiche o più generali della traduzione. Il nodo maggiore è Fortini a individuarlo con la sua solita perspicacia: nei testi che comporranno il volume Poesie per chi non legge poesia, scorge in Enzensberger un gioco sui “contrasti fra i diversi piani linguistici (linguaggio colloquiale, tecnico, giornalistico)”, gioco che sfrutta l’eterogeneità sincronica della lingua. Delle proprie poesie, per l’edizione tedesca di Poesia e errore, egli sottolinea invece il carattere diacronico, “la mia poesia (…) passeggia, insomma, su e giù per i secoli della lingua italiana”. Queste peculiarità si riflettono poi sulle scelte metriche dei rispettivi autori (in Enzensberger il verso libero e in Fortini la centralità dell’endecasillabo). Come si vede, nel carteggio si misura un’ampiezza di questioni, che scendono nel dettaglio della pratica traduttiva, avendo sempre alle spalle, però, un discorso ben più ampio; un discorso non solo sulla poesia, ma anche sulla capacità di quest’ultima di funzionare come voce critica insieme ad altre, in un contesto di nuovi conflitti che l’emergente cultura di massa e la sua correlativa gestione capitalistica stavano rivelando.

Torna il MarosiFestival di Stromboli

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DEREN The very Eye of the Night

Dal 29 agosto al 4 settembre si terrà la IV edizione del MarosiFestival di arte performativa multidisciplinare, dal titolo “Back to the Roofs”. Tutti gli spettacoli sono gratuiti. Qui il programma completo [ot].

MAYA DEREN “The very Eye of the Night”

Chez Proust: un podcast tra le intermittenze del cuore

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René-Xavier Prinet, “La digue de Cabourg”, 1926

 

di Daniele Ruini

 

Un libro come si deve rimanda sempre altrove e fuori
(Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa)

 

Tra le numerose uscite editoriali che in questo 2022 stanno celebrando il centenario della morte di Marcel Proust, il posto d’onore spetta, in Italia, alla pubblicazione per La Nave di Teseo della traduzione dei 75 fogli, ovvero il nucleo originario della Recherche a lungo ritenuto scomparso e tornato alla luce nel 2018. Non è tuttavia di questo che qui si vuole parlare, bensì di un podcast prodotto da Emons Record e dall’Institut Français d’Italia e curato dalla scrittrice e filosofa Ilaria Gaspari.

Chez Proust, strutturato in 10 puntate, è stato pensato per accompagnare la versione in audiolibro della Recherche prodotta dalla stessa Emons, che ha affidato la lettura del capolavoro proustiano –nella ormai classica traduzione di Giovanni Raboni– alle voci di importanti attori.

Tuttavia, se poco interessante è –per chi scrive– ascoltare l’impostata lettura delle pagine proustiane, davvero coinvolgente è invece farsi accompagnare da Ilaria Gaspari nel suo attraversamento del romanzo fiume: bisogna infatti riconoscerle la capacità di trasmettere lo stupore e lo struggimento provocati dall’esperienza della Recherche, a cui si aggiunge il desiderio di coinvolgere altri lettori di Proust, che siano studiosi, scrittori o persone comuni.

Ecco allora che a puntate monografiche dedicate a singoli temi (come l’infanzia, il tempo o lo snobismo), se ne alternano altre di tipo dialogico in cui, in maniera del tutto libera, la Recherche diventa oggetto di conversazione. A questo riguardo uno degli episodi più interessanti è sicuramente il n°2 (Dalla parte dei passanti), in cui Ilaria Gaspari, ispirata dal documentario del 1960 Chronique d’un été (di Jean Rouch e Edgard Morin), si diverte a fare una domanda a bruciapelo ai passanti di Bruxelles, Parigi e Roma: «Avete mai letto Proust?». Ottenendone risposte sempre curiose e talvolta sorprendenti, che danno l’impressione di quanto la concatenazione tra vita e letteratura su cui è costruita l’esperienza proustiana si rifletta anche sui suoi lettori o su chiunque lo abbia incontrato, anche solo sui banchi di scuola.

Tra le altre testimonianze, molto bella quella della professoressa Mariolina Bertini (puntata n°4), che spiega quanto fosse inattuale leggere la Recherche nell’Italia del ’68 e si sofferma sul Proust esploratore dell’inconscio. Così come quella della scrittrice Amélie Nothomb (puntata n°7), che dopo la scomparsa del padre ha sperimentato la sensazione di divenire sempre più simile a lui, un po’ come succede alla mamma del narratore della Recherche dopo la morte della nonna. E quella della poetessa (e compagna di Giovanni Raboni) Patrizia Valduga (puntata n°6), che racconta del suo innamoramento per il barone di Charlus, «il personaggio più strabiliante della letteratura di tutti i tempi».

Con gli strumenti che le derivano dalla sua formazione filosofica, Ilaria Gaspari descrive con grande chiarezza argomentativa il Proust filosofo del Tempo (puntata n°3), che si interroga continuamente sulla promessa di felicità e che nutre una vera e propria ossessione per l’infanzia (quell’età dell’esistenza in cui –proprio per un rapporto peculiare col Tempo di cui siamo destinati a dimenticarci da adulti– si provano le emozioni più forti). E valorizza il suo talento di grande osservatore della natura umana, sulla scia dei grandi moralisti francesi dell’età moderna come Montaigne o La Rochefoucauld: da ciò proviene l’abilità di Proust nel pennellare personaggi indimenticabili, spesso ispirati a persone reali (puntata n°5). O ancora esalta la grande conoscenza proustiana delle leggi del desiderio, delle maschere e delle metamorfosi a cui esso ci costringe (puntata n°9).

Si è rivelata dunque certamente azzeccata l’idea di affidare il timone di questo viaggio non a qualche specialista della Recherche bensì a un’innamorata di Proust, dotata di fine competenza e conoscitrice della lingua e della cultura francese. Quello che se ne ricava è la testimonianza di come l’immersione nelle pagine proustiane lasci in eredità un coinvolgimento destinato a durare per sempre. E, allo stesso tempo, il podcast non teme di confrontarsi in maniera ironica e intelligente con l’effetto respingente suscitato in molti dal romanzo più lungo del mondo, così come affronta in modo originale la ricezione di Proust oggi.

In conclusione, quindi, un esperimento riuscito: dopo aver ascoltato la voce di Ilaria Gaspari, e le conversazioni con i suoi ospiti, è difficile resistere alla tentazione di riprendere in mano la Recherche e –come dichiarato da una delle passanti intervistate– «assaporare ogni frase, cercare di cogliere tutte le sottigliezze, tutte le sfumature».

A cent’anni dalla morte di Proust, la sua impresa letteraria continua ad affascinarci e a lasciarci senza fiato; e ci spinge a seguire ancora una volta il Narratore, ritornare con lui a Combray, incontrare Swann e Odette dalla parte di Méséglise, giocare con Gilberte sugli Champs-Elysées, ammirare l’atelier di Elstir, ascoltare il Settimino di Vinteuil, desiderare ardentemente di recarsi a Venezia, andare a teatro a vedere la Berma ed essere salutati dalla duchessa di Guermantes, spiare gli amplessi del barone di Charlus, passare l’estate a Balbec, morire di gelosia per Albertine, scoprire il valore eternante della memoria involontaria e di quel miracolo chiamato letteratura.

 

 

Resoconto tardivo di letture invernali

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di Daria Catulini

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A molte cose arrivo tardi. Tra queste cose c’è anche l’opera di Jonathan Franzen.

Ho letto Le correzioni, per la prima volta, lo scorso inverno. Dopo averne letto l’incipit, ho pensato: che incipit. Un incipit folgorante, ho pensato.  In quel momento ho deciso che avrei letto tutte le sue opere. Dopo Le correzioni sono passata al recente Crossroads, poi a Purity, che mi riservo di finire entro l’estate. Continuo a chiedermi cosa mi piaccia, esattamente, della prosa di Franzen. La prosa di Franzen la mangerei, mi dico.

La prosa di Franzen, mi dico, la farei a pezzetti, la afferrerei con i denti gustandone ogni sapore, velatura, aroma. Ma, forse sto semplicemente parafrasando un arrogante desiderio di impossessarmene. In ogni caso, non costituendo reato, continuo ad immaginare il mio debole per Franzen sotto vesti fagiche.

“Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine”.

Questo l’incipit delle Correzioni . Dovevo fermarmi, rileggerlo, distogliere lo sguardo dalla pagina e verificare che Franzen non fosse davvero lì, fuori dalla finestra, a suggerire somiglianze tra il mio inverno e quello di St. Jude.

L’incipit delle Correzioni, ricordo, fu un pugno nello stomaco e una boccata d’ossigeno.

“L’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine”. Ripenso spesso a quella mattina invernale passata in compagnia di questo incipit. Per sempre, mi dico, l’inverno avrà il sapore di queste righe. La cosa diventa poetica quando diventa “tutti”, quando l’inverno di Saint Jude diventa “tutti gli inverni” ?

“In tutta la casa risuonava un campanello d’allarme che nessuno poteva udire eccetto Alfred e Enid. Era il campanello d’allarme dell’ansia”. Lo stesso che si era imposto alla mia attenzione, avvertendomi di certi miei automatismi di cui non avevo avuto mai contezza. Chip, figlio dei decadenti Alfred e Enid, più o meno della mia stessa età, “incolpava i suoi genitori per l’uomo che era diventato”. “Essere così vigoroso e pieno di salute, eppure una tale nullità”, dice Chip, che ha esordito nel mondo accademico e ora è impegnato a scrivere sceneggiature. “Sarebbe stato meglio, pensava, ammalarsi gravemente e morire adesso che era un fallito”.

È stato un inverno disastroso, durante il quale ho masochisticamente inventariato tutti i miei fallimenti.

Mi sono poi consolata, tramite letture coadiuvanti e complementari, appurando che “l’insuccesso è ovunque e in ogni luogo, ma non sempre viene riconosciuto come tale”.

Mi sono ritrovata, nella pila di libri che avevo deciso di leggere durante l’inverno, quel saggio – Fallimenti – che si sposava benissimo con il “piacere Franzen”. Ero io a pilotare la ricerca, per trarne un giovamento o un perdono, o erano quei due libri che casualmente si erano incrociati in una stessa traiettoria? Ho continuato a tenere i due libri vicini, illudendomi di una miracolosa congiuntura che mi avrebbe redento da colpe imprecisate.

“Ti piace leggere?” Mi ha chiesto un tizio che una sera ho invitato a casa. Per giorni ho riflettuto su questa domanda, chiedendomi se il suo sarcasmo nascondesse uno stupore per la natura (e i titoli) di quei libri. Poi, ripensando a quella domanda, mi sono avvicinata al comodino e ho appurato che lì campeggiava un rosso, fresco di ristampa Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli. Quel tizio non si è fatto più vedere.

“Per una sorta di paradosso, la ricerca di sistemi più pratici – una delle promesse infrante che la Silicon Valley e Wall Street dilazionano all’infinito – ha portato al dilagare dell’ansia, del debito e della crisi, sia su scala individuale sia al livello della comunità”.

“Davvero la soluzione è fallire meglio, come ripetono tanto Samuel Beckett che Mark Zuckerberg?”

Chip, licenziatosi dalla carriera accademica, ancor prima di aver pubblicato la sceneggiatura intitolata Porpora accademica, prende un aereo e fugge in Lituania. La maniera di accostare tragico e comico, in Franzen, è sublime. Più volte, ad esempio, spetta al salmone il compito di stemperare il bollore riflessivo di alcune delle creature pagliaccesche di Franzen.

“C’è una cosa che ti voglio chiedere, – disse Doug. – Hai un secondo? Metti che qualcuno ti offra una nuova personalità: accetteresti? Metti che qualcuno ti dica, Riprogrammerò per sempre il tuo hardware mentale in qualunque modo vorrai. Pagheresti per farlo? Il pacchetto del salmone si era appiccicato alla pelle sudata di Chip e si stava lacerando sul fondo”.

Esiste un modello per gettare luce sull’estetica e sulla logica del fallimento? Si chiedono Arjun Appadurai e Neta Alexander nel libro Fallimenti, dove propongono la metafora del buffering per indicare la nostra crescente dipendenza dalla connettività telematica. La nostra psiche non solo sarebbe governata da queste sete di connettività ma regolata da una sorta di economia affettiva (generata dai sistemi tecnologici) che fa leva su ansia, impotenza e negazione della natura inconoscibile della tecnologia. Da buffer: cuscinetto, smorzatore, intercapedine. Il buffer è quella parte che “ritarda la trasmissione in attesa che i dati a disposizione siano sempre sufficienti per dare luogo ad un flusso ininterrotto”. Generatore di ansia e frustrazione.

Il libro di Appadurai, Fallimenti, è del 2020Non ricordo se sia finito sul comodino (lo stesso scrutato con diffidenza dal tizio che non si è fatto più vedere) prima o dopo aver finito Le correzioni. Ho deciso che quel libro è un commento in forma di saggio, una dilatazione concettuale, direi, di quel secondo capitolo, Fallimento, delle Correzioni. I due libri si attraggono e vivono l’uno dell’altro.

“La gioia è un dono, non bisogna meritarla”. Così Marion dice a Russ, cercando di attenuare il senso di colpa di suo marito. Era il 25 aprile quando le parole di Marion (da Crossroads, il nuovo libro di Franzen) hanno accarezzato lo stormo di luce di quella bella giornata. Eppure, lontano, la luce sembrava accogliere una pioggia di ombra. Non sapevo se sposare le parole di Marion o di Russ. Mi pareva, durante quel pomeriggio, che la filigrana del giorno fosse totalmente reversibile. “Una giornata di primavera dovrebbe poter essere una giornata di primavera” pensavo. Nessuno spessore dovrebbe poter ribaltare la certezza della luce. Marion e Russ , dopo aver fatto sesso in una camera d’albergo in Arizona, si rappacificano confessandosi i tradimenti: Russ con una parrocchiana di Crossroads, Marion con un ex mai dimenticato.

Dopo aver terminato Crossroads e prima di tuffarmi in Purity, ho ricevuto una telefonata da mia madre, la quale mi diceva che finalmente si era decisa. Voleva iniziare un percorso di psicoterapia. Dopo un’ attenta ricerca che l’ha portata a scovare uno dei migliori psicologi su territorio teramano, si è fatta coraggio e ha telefonato – mi dice – per prenotare un primo colloquio.  “Lo psicologo che ha chiamato”, le ha riferito una voce femminile, “è morto”. “Mio figlio non ha ancora eliminato il suo sito web” ha detto a mia madre come per scusarsi. Dicevo del romanzo Purity. Purity si apre con una telefonata tra Pip, diminutivo di Purity, e sua madre.

“Oh micetta, come sono contenta di sentire la tua voce, – disse la madre della ragazza al telefono. – Il corpo mi tradisce di nuovo. A volte penso che la mia vita sia solo una lunga serie di tradimenti corporali.

Non hai idea di quanto invidi il tuo box

Non idealizziamo il box, – disse Pip

È questa la cosa terribile dei corpi. Sono visibili, troppo visibili.

La madre di Pip, benché cronicamente depressa, non era pazza. Era riuscita a conservare il posto di cassiera al New Leaf Community Market di Felton”.

Dalle prime pagine è evidente che la madre di Pip sia un personaggio-matrioska. Esso racchiude dentro di sé il fallito Chip di Le correzioni, Glenn il figlio di Alfred ed Enid, Judson il figlio di Russ e Marion e così via. Ogni inizio estate guardo con attenzione ai cartelloni dei costumi da bagno di Calzedonia. Perché i cartelloni di Calzedonia sono così grandi? Ogni anno, soprattutto ad inizio estate, rifletto sui corpi, sul corpo, sui costumi da bagno, sui miei costumi da bagno, sul mio corpo, forse biasimando, come la madre di Pip, questa eccessiva visibilità dei corpi. Mia madre, una volta, mi ha detto di essersi rappacificata con il proprio corpo a sessant’anni. Il punto è che, quando ha pronunciato questa frase, sessant’anni non ce li aveva ancora: abitudine (ereditata dal padre) di arrotondare l’età per eccesso. Quest’anno, mi è capitato di pensare che il corpo è forse l’unica oasi materiale che non può essere smaterializzata. Sembra che la visibilità del corpo porti con sé una presenza eccessiva che non è mai eccessiva. Sembra che i bisogni del corpo tengano a bada i miti dell’immaterialità e della connettività ininterrotta. Scrutando i cartelloni pubblicitari di Calzedonia, mi sono ricordata di una lettura in cui Binswanger, riportando il caso di una paziente, racconta che S. non si vergognava del proprio corpo, a causa del corpo, ma a causa dell’esistenza come organismo corporeo. Il loro desiderio d’essere magre era la risposta all’ideale nascosto di essere incorporee, pure presenze spirituali che lo sguardo dell’altro non avrebbe mai potuto penetrare. È questa una tentazione d’onnipotenza, l’onnipotenza dello spirito non condizionato dai limiti della materia; una tentazione che la nostra cultura ha coltivato, proiettato e ipostatizzato nel concetto di Dio, spirito purissimo senza corpo, Essere in sé e per sé, l’esatta definizione dell’autismo.»

“Desiderava che fosse più felice” pensa Pip di sua madre. ” Quello era l’enorme blocco di granito al centro della sua vita, la fonte della rabbia e del sarcasmo che rivolgeva non solo contro sua madre, ma anche, in maniera sempre più controproducente, contro oggetti meno appropriati. Quando Pip si arrabbiava, non ce l’aveva davvero con sua madre, ma con il blocco di granito”.

Durante una giornata di primavera-la primavera seguente l’inverno di letture- sfogliando l’indice di Giornalismo culturale di Alfonso Berardinelli, cerco per curiosità la voce “Franzen”. La trovo, vado alle pagine indicate e leggo: “Franzen mi sembra un romanziere piuttosto intelligente, molto consapevole e ambizioso, a cui manca tuttavia, come a molti contemporanei, il dono di catturare l’attenzione del lettore già con il ritmo il tono delle prime frasi, con la scelta immediata e naturale delle cose da dire o non dire”.

La mia opinione aveva messo radici agli antipodi.

Les nouveaux réalistes: Fabrizio Pelli

2

Una diceria

di

Fabrizio Pelli

Si veste così per protesta, dice, a prescindere dal caldo e dal freddo: ha sempre quel cappello a falda larga, quello che ha in testa adesso, la retina a ingabbiarle il viso e il vestitino color carta da zucchero a coprirle il corpo fino alle ginocchia, come una dama inglese. A ognuno che la ferma chiede: «È questa una brava persona?», indicando se stessa dalla testa ai piedi con le movenze di una marionetta. Ormai non è più una maestra, ma insegnava alle elementari, quelle in centro, di fianco al duomo, con il cortile enorme e la siepe di bosso tutt’intorno. Insegnava lì e ha perso il lavoro colpa del marito. Meglio dire ex marito, perché marito non lo è più.

La prima volta si era spacciato per il padre di un ragazzino e aveva detto di essere tornato da un lungo viaggio. Così il bidello lo aveva fatto passare senza troppe magagne. Lui, il marito, quatto come un ladro, era salito ed era entrato in classe durante una lezione della poveretta. S’era messo a sbraitare, che da uno così mica ti aspetti altro, e i bambini, spaventati, si erano messi a fare una gran fiera.

Dopo qualche urlo di troppo, il marito s’era seduto a un banco vuoto e pretendeva che la Perbenini riprendesse la lezione.

«Fai la brava maestrina, come a letto», aveva detto. Dopo quasi un’ora erano arrivati i poliziotti. I bambini avevano fatto loro una gran festa, come ai cavalieri di ritorno dalla battaglia, perché solo loro, i poliziotti, avevano convinto il marito ad andarsene per evitare altri casini.

Ovviamente la Palinculi, la preside, dopo l’episodio aveva pensato bene di chiamarla nel suo ufficio. Donna d’altri tempi, la Palinculi, di quelle che si vestono col corpetto per sembrare una bambolotta. Poi s’incipria le gote e porta pure il rossetto abbinato agli orecchini.

«Se è arrivato a fare quello che ha fatto, a uno sfogo del genere, signora, mi dispiace, ma dovrebbe farsi delle domande: significa che l’ha proprio esasperato, poveretto», sembra avesse detto.

No, non ha sporto denuncia verso entrambi: solo verso il marito. Avrà avuto paura che denunciando anche la Palinculi, questa la licenziasse per ripicca.

Per gentile concessione, la Perbenini aveva continuato a lavorare alla scuola, anche se non poche erano state le polemiche dei genitori. C’era addirittura un padre, frequentatore assiduo della parrocchia, che si era fatto bardo della qualità della scuola e aveva organizzato una piccola petizione. Aveva raccolto qualche firma qua e là, gridando alla mancanza di professionalità dell’insegnante, che in realtà non aveva chissà quali colpe. Fatto sta che, Paladini, quello della petizione, aveva iniziato a pescare le firme proprio nel gruppo che i genitori della classe, creato, in realtà, per le comunicazioni importanti. Ma, come accade in ogni gruppo più o meno ampio di persone, prendine dieci e la penseranno tutti in modo diverso. Infatti, di genitori ce n’erano di ogni tipo, e alcuni di questi erano vicini all’organizzazione femminista della città. Vedendo la compagna maestra sfregiata dalle voci, come sassate, dei tradizionalisti – così si facevano chiamare i genitori guidati da Paladini – avevano preso le sue parti. Un parlamento: ecco cos’era diventato quel gruppo quel pomeriggio. Un parlamento impegolato che aveva fatto canticchiare come uccellini i cellulari di trenta persone per un pomeriggio intero.

Vuoi per una voce arrivata al giornalista giusto, vuoi per la quantità di persone che si sono viste coinvolte in questa storiaccia, nei giorni a seguire, la gazzetta ha cominciato a parlare solo della Perbenini, di suo marito, della Palinculi e della guerra civile vera e propria che stava ammorbando la scuola elementare. La preside si deve essere sentita tirata in causa perché, con la formalità tesissima che la contraddistingueva, aveva convocato tutti i genitori e la maestra per un’assemblea.

«Un ritrovo riparatore», l’aveva definito, «per porre finalmente un punto a questa storia».

Fatto sta che, si sono trovati tutti in cerchio, in quel tribunale improvvisato che sembrava più una seduta di terapia di gruppo, che un ritrovo riparatore, appunto. Il gruppo di Paladini era arrivato con una nuova arma: il marito della Perbenini, infatti, vedendo che la moglie aveva raggiunto una certa attenzione mediatica anche a livello nazionale, aveva pensato bene di rilasciare un set fotografico che ritraeva la donna. Era nuda, in queste foto. Alcune erano addirittura in posa.

«Scandalose», più volte aveva detto Paladini, senza distogliere lo sguardo dal cellulare, mentre chiacchierava con gli altri genitori fuori dalla scuola, «scandalose e oscene. Non posso, anzi, non possiamo tollerare che la docente dei nostri figli abbia questa reputazione».

I giornali dicevano che era per vendetta: porno di vendetta, lo hanno chiamato.

Comunque, le foto sono state eliminate subito dai siti su cui erano state diffuse – tutti porno, tra l’altro. E già il fatto che quelli di Paladini le avessero, all’epoca mi aveva divertito alquanto, che chissà dove le avevano trovate, quelle foto che tanto li scandalizzavano. Dal canto loro, i genitori filo-femministi, avendo visto le foto, avevano portato i loro figli ad assistere al dibattito, così che nessuno potesse nominare le foto e usarle come argomentazione contro l’insegnante. Non direttamente, almeno.

Il risultato di tutto questo scompiglio è stato quello che, purtroppo, tutti si aspettavano: la maestra ha perso il lavoro. La preside ha motivato la sua decisione con parole ben scelte.

«Ho pensato che avesse bisogno di essere aiutata, e che dovesse prendersi un periodo di pausa da tutto questo trambusto», ha detto, «lei ha insistito per rimanere a lavorare, a insegnare a quei bambini che tanto le volevano bene, ma era tempo che se ne andasse».

A scuola, poi, i bambini le hanno dedicato una filastrocca per salutarla. Il progetto era stato proposto dalla preside stessa, in segno di solidarietà all’insegnante. Anche i genitori, unendosi all’idea per qualche strana formalità, hanno dato una mano nella sua stesura finale.

 

Maestra che insegni tutte le cose,

proprio tutte vanno imparate?

Come fare addizioni, come scrivere prose,

come risolvere problemi senza manate?

 

Abbiamo imparato tutto questo

e anche come mostrare le cosce.

Non disperare: ce la vedremo noi col resto.

Tu ora riposa e pensa alle tue angosce.

 

Poi, col tempo, la gente non ne ha più parlato: è rimasta una diceria in un mondo di notizie. Forse solo quando viene avvistata in giro, con quegli abiti da dama inglese che porta per protesta, qualcuno ancora scambia due parole a riguardo, come stiamo facendo noi. I bambini sono diventati grandi e non la riconoscono nemmeno, e anzi! spesso sono i genitori a ricordare loro, quando la incontrano, che prima era una maestra. E la indicano col dito, «Perché tanto ci ha fatto l’abitudine, a essere guardata e indicata», dicono, «alla fine se l’è cercata».