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Quattro romanzi: Sorrentino, Teobaldi, Lobo Antunes, Camenisch

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(quattro letture di fine estate, mentre il sole scompare dietro le nuvole settembrine. G.B.)

di Gianni Biondillo

Piero Sorrentino, Un cuore tuo malgrado, Mondadori, 147 pagine, 2019

Bianca, la protagonista di Un cuore tuo malgrado, è un’autista di autobus. Un lavoro come un altro; era il mestiere di suo padre, ora è il suo. Poi una mattina, complici una canzone ascoltata alla radio, qualche gabbiano che attraversa un cielo terso, un signore che fuma, insomma, complice una stupida distrazione alla guida e la sua vita cambia per sempre. Non solo la sua. Al risveglio in ospedale scoprirà come in pochi secondi abbia distrutto l’esistenza di una intera famiglia. Come puoi convivere con una tale colpa?

Fortunatamente Bianca non è sola. Sua sorella Margherita l’accompagna nella lunga riabilitazione, sia fisica che psicologica. L’autore decide di raccontarci come una donna qualsiasi possa attraversare il suo inferno privato. Lo fa scavando nella sua infanzia, nei ricordi estivi, nei giochi con la sorella al mare, fino al giorno della perdita improvvisa del padre. Ma non basta. Bianca non vuole lasciarsi alle spalle la tragedia che ha provocato. È alla ricerca spasmodica di un perdono. Decide, contro l’opinione della sorella, di scrivere all’unico sopravvissuto all’incidente.

La lingua di Piero Sorrentino è così lieve e precisa che riesce a farci entrare in risonanza con una protagonista che, guardata alla giusta distanza, tutto fa tranne che agire con ragionevolezza. Nelle mani di un altro autore sarebbe stata insopportabile. A ben vedere ogni sua mossa nel corso del romanzo è istintiva, irrazionale, egoista. Spesso crudele anche con chi le vuole bene. La scelta dell’autore di non identificare mai la città, i luoghi dove la storia di dipana mira a rendere universali i tormenti della protagonista. Potrebbe accadere ovunque. Bianca siamo noi. E come lei vogliamo che la nostra anima si salvi a prescindere dal male che siamo capaci di dare.

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Paolo Teobaldi, Arenaria, 148 pagine, edizioni e/o, 2019

 

Un nonno, che racconta alla nipotina, così giovane che neppure può capire il racconto, la vita di un luogo, i suoi abitanti, il passato che non deve essere dimenticato. Un dono, un testamento orale. Nulla di più. Non c’è altro da aggiungere alla trama di Arenaria. Trama che, appunto, non esiste. Eppure non si riesce a smettere di leggere le continue digressioni del racconto del narratore che saltabeccano, vagando con la mente e la memoria, da una definizione di una parola desueta al soprannome di una famiglia di contadini; dal racconto di una casa scomparsa nel mare a una montagna (che poi neppure montagna è) che perde pezzi in modo capriccioso. Come si diceva una volta: raccontando vita, morte e miracoli.

Sono due gli elementi di forza di questo romanzo, che, a ben vedere non è neppure un romanzo: è un monologo che potrebbe essere messo in scena già da subito. Il primo elemento che struttura il testo è la lingua. All’apparenza colloquiale, bassa, popolare. Ma nei fatti coltissima, capace di riflettere su se stessa, farsi malinconica, comica, tragica, nobile, mai nostalgica. Paolo Teobaldi è uno scrittore di parole. Sembra che assista, ogni volta che le scrive, ad un miracolo. Come se semplicemente dicendole abbiano la potenza di evocare mondi lontanissimi.

L’altro punto di forza è la scelta di non avere protagonisti. Non ostante la pletora infinita di personaggi, spesso solo accennati ma con tale precisione che sembrano vivi, nessuno di questi ruba la scena al vero protagonista dell’opera: il paesaggio. Arenaria è una (rara) narrazione del paesaggio.  Racconta di una collina, pochi chilometri quadrati, fra mare e pianura. Un micromondo dove gioia e rabbia, fatica e speranza convivono. All’apparenza storie minime, dimenticabili, ma che viste con lo sguardo prodigioso dell’autore diventano un universo. D’arenaria.

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António Lobo Antunes, Lo splendore del Portogallo, 407 pagine, Feltrinelli, 2019, traduzione di Rita Desti

 

Non è affatto un libro semplice Lo splendore del Portogallo. È, a ben vedere, una sucessione di quattro voci monologanti, neppure ordinata, nel tempo e nello spazio. Quattro confessioni, flussi di coscienza, lavacri dell’anima. Antònio Lobo Antunes scombina la consecutio, il filo narrativo, la stessa punteggiatura. Per raccontarci cosa? L’intima sconfitta esistenziale di una vecchia madre e dei suoi tre figli, due maschi e una femmina. Ciò che resta di una famiglia di ricchi possidenti portoghesi in Angola e della loro vita oggi meschina, negletta, piena di false nostalgie per un’Africa dove erano trattati come esseri superiori, capaci di decidere la vita o la morte di un “negro” anche per un solo capriccio.

Questo romanzo, da leggere ad alta voce, per ammirarne la musicalità, già pronto a una trasposizione teatrale, è a conti fatti la dichiarazione di sconfitta, l’accusa cocente della coscienza critica di un intellettuale nei confronti dell’imperialismo colonialista occidentale e nello specifico portoghese. La vita sopra le righe dei possidenti europei, all’apparenza così profondamente timorati di Dio, poteva esistere grazie al sopruso, alla violenza, al profondo e radicato razzismo che giustificava ogni efferatezza. I quattro protagonisti, sconfitti dalla Storia e dalla vita, rammemorano il passato in un flusso continuo e indistinto di frammenti spesso incoerenti che durante l’appassionante, per quanto difficoltosa, lettura sembrano organizzarsi nel caos in un disegno unitario: la madre Isilde, moglie frustrata di un ingegnere dedito all’alcol, la figlia Clarissa, considerata dalla comunità dei benpensanti una sgualdrina, Carlos, il figlio illegittimo e meticcio, Rui, affetto da epilessia fin da bambino. Figure tragiche, simulacri perfetti di un’epoca tragica.

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Arno Camenisch, Ultima neve, 104 pagine, Keller editore, 2019, traduzione di Roberta Gado

 

Se il vecchio skilift non s’è ancora bloccato, uno dei più vecchi dei Grigioni, è grazie alla solerzia di Paul e Georg, che lo curano, lo mantengono, lo mettono in moto ad ogni stagione sciistica. Se poi qualcuno da lassù, molto in alto, volesse dare una mano ai due amici sarebbe meglio. Sono troppi inverni ormai che la neve si fa sempre più rara. Ma almeno la seggiovia funziona, così la gente di pianura saprà che la pista non è chiusa, che la volontà non manca, che insomma i due amici non demordono.

Solo che, dato ordine alla postazione, fatta manutenzione al tetto, catalogato i biglietti per età e sconti, cos’altro devono fare Georg e Paul tutto il giorno, mentra attendono senza posa l’arrivo di un qualsivoglia cliente? Così, fra giornate troppo assolate, rare spruzzate di neve, qualche banco di nebbia e qualche bicchiere di grappa, non resta che ricordare: ciò che era il ghiacciaio soltanto una generazione fa, oppure le leggende di chi ha avuto due funerali, o di chi scomparve per sempre. Vite di uomini, donne, di un paese, di una valle e di una lingua, il romancio, che viene parlato sempre meno.

Arno Camenisch in questo suo agile romanzo, Ultima neve, racconta cos’è la montagna, luogo dell’anima per eccellenza della letteratura svizzera, nel momento epocale del cambiamento climatico. Lo fa poeticamente, in un flusso ininterrotto di coscienza dei due interlocutori, con un testo all’apparenza discorsivo, mai enfatico, ma in realtà denso, colto, teatrale. Paul e Georg ingannano il tempo e il tempo (cronologico e atmosferico) inganna loro. In attesa dell’ultima neve, pazienti e rassegnati, non rimane loro che diventare, alternativamente, l’uno la Sharahzad dell’altro. E insieme, giorno dopo giorno, i due novelli Vladimiro ed Estragone contemporanei.

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(recensioni pubblicate su vari numeri della rivista Cooperazione durante il 2019)

 

 

 

L’Anno del Fuoco Segreto: Il Periodo Balsamico della Bardana

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Giovanni Ceccanti

Arno, a cosa pensi prima di dormire?
Arno si girò dando le spalle a Mordirosso e al fuoco bofonchiando qualcosa di incomprensibile.
Non pensi proprio a nulla?
Arno non parlava. Arno per lo più bofonchiava.
Se dovessi scommettere qualcosa direi la fica.
Il fuoco scoppiettò.
Sì, tagliò corto. Prima di dormire penso alla fica.
Mordirosso si tastò con cura le gambe da cima a fondo e ricominciò.
È tanto tempo che non ne vedo una che non la riconoscerei neppure se me la sbattessero in faccia.
Mordirosso pensava che Arno dovesse essere stato un professore o qualcosa del genere perché ogni tanto parlava delle stelle o diceva cose tipo comburente o alienazione.
Non era gonfia come una sughera matura?
Non so perché ma penso a degli strati. Mi vengono in mente un sacco di strati.
La verità è che ci penso così tanto che non ci penso mai sul serio. Nel dormiveglia però si trasforma e si espande, invade gli spazi. Mi oscilla sopra la testa in sogni che non le appartengono. O forse sono io che invado i suoi.
Qualche volta è un’enorme pianta grassa nel deserto.
Arno teneva gli occhi chiusi cercando di vedere.
Per me è dappertutto. È nei serbatoi delle macchine. È quello che ordiniamo ai ristoranti. Sono le notizie di guerra.
Sì, le spine me lo ricordo ce le aveva. Gli strati no, gli strati non me li ricordo.
Pensa a una rosa o una lasagna.
Ti prego, non parlarmi di cibo.
Se me la sbattessero davanti adesso non saprei dove infilarlo. Con tutti quegli strati, come facevamo? Mi ci perderei dentro come un bambino.
Mordirosso si tastò le ginocchia.
Forse, nella vita prima, Arno era stato un professore o un cameriere in un ristorante. Uno prestigioso, però.
Ti ricordi che odore aveva?
L’odore no ma giurerei sulla consistenza.
Ne hai mai mangiata una?
Di giorno di solito Arno andava in città e Mordirosso lo aspettava guardando la silhouette degli ultimi palazzi spengersi contro il tramonto. Arno chiamava quella parte di mondo la frangia urbanorurale. Quando Mordirosso gli chiedeva perché non dormivano in città lui gli diceva che preferiva la frangia urbanorurale.
La frangia urbanorurale non era più città e non era ancora campagna. In città ci sono gli uomini, in campagna ci sono gli animali, spiegava.
E qua ci siamo noi, deduceva Mordirosso.
A volte, sempre alla stessa ora, soffiava un vento basso, che s’infilava ovunque, entrava nelle pieghe e faceva di pietra le coperte. Allora Mordirosso rabbrividiva e Arno metteva un altro legno sul fuoco e in maniera poco plateale soffiava nel punto giusto.
Attraverso le palpebre il fuoco era una macchia di luce dai bordi sfumati e Arno ci soffiava sopra senza farsi notare, quasi di nascosto.
Arno tirò un lungo sospiro.
La fica, ripeté.
Poi guardarono il nero del cielo mentre Mordirosso tentava inutilmente di afferrarsi i piedi.

All’alba furono svegliati da alcuni camion che facevano manovra oltre il crinale, dietro il bosco.
Rieccoli, disse Mordirosso.
Non sono quelli dell’altra volta. Questi hanno rimorchi più grandi, disse Arno alzandosi e coprendo la stufa con un paio di assi.
La stufa era una struttura di sua invenzione che permetteva al fuoco di bruciare più piano o più forte a seconda del bisogno.
Vado a controllare, disse.
Mordirosso annuì e lo guardò allontanarsi.
Iniziò a cadere una pioggia leggera, così leggera che sulle foglie non faceva rumore.
Quando la pioggia aumentò Mordirosso si trascinò sotto l’olmo. In quel punto, anche quando pioveva forte, l’acqua non poteva raggiungerlo. I rigagnoli formavano una O in mezzo alla quale la terra si era fatta lucida e compatta per l’abitudine.
I camion scendevano allineati nella cava. Venivano giù dalla strada battuta dalle ruspe nell’argilla rossa.
Una volta uscito dal bosco Arno aveva raggiunto il crinale e si era disteso a pancia in giù sull’erba, sporgendosi.
Man mano che arrivavano sul fondo della cava i camion si disponevano uno accanto all’altro e restavano accesi. Il rumore di tutti quei motori vicini rimbombava nella cava e usciva come un bolero per venire riassorbito dal muro di pioggia battente che cadeva dal cielo bianco.
Uno dei camionisti saltò giù chiudendosi la portiera alle spalle, il rumore arrivò ad Arno solo qualche istante dopo.
Indossava un’incerata verde militare lunga fino ai piedi. Il cappuccio aveva una tesa che gli copriva il volto. Il camionista si agitò davanti alle teste dei camion scandendo una serie di ordini, l’ultimo dei quali Arno dedusse essere perentorio, visto che tutti i motori si spensero.
Rimase il rumore della pioggia come il fruscio di una radio senza segnale.
Allora anche gli altri camionisti scesero e con la stessa incerata del primo si radunarono poco alla volta nel punto prescelto.
Arno non poteva sentire quello che dicevano. L’acqua gli colava giù dai capelli, nel collo e nella schiena.
Uno degli autocarri aveva una cisterna al posto del normale vano da carico e il simbolo dietro diceva merce pericolosa, il che poteva significare infiammabile, corrosiva, tossica o radioattiva.
La pioggia batteva sulle cabine e sui vani da carico.
Una rana con la pelle traslucida saltò sulla mano di Arno. Aveva ancora la coda da girino.
Arno non si era mai concentrato sulla forma della cava. Aveva però subìto la meraviglia delle sue dimensioni fin dalla prima volta che l’aveva vista. Quel vuoto era così vasto da esasperarlo.
Osservò i camionisti disperdersi di nuovo e raggiungere ognuno il proprio mezzo. Mentre sganciavano i teloni dei vani da carico, alcuni pickup scesero giù dalla stessa strada ricavata sul fianco della cava.
Gli operai si misero quindi a scaricare sacchi di materiale, quasi che la pioggia non avrebbe mai più fornito ritagli di tempo utile.
La rana saltò giù e scomparve nell’erba.
Prima di rialzarsi per tornare indietro, Arno si accorse che gli aveva lasciato la coda sul dorso della mano.

Mordirosso aveva smesso di camminare un poco alla volta. Le giunture gli si erano come saldate, i muscoli irrigiditi.
Una malattia ereditaria, magari. Non sapeva. Il passato gli era sconosciuto quanto il futuro. Non aveva scelto di nascere, non avrebbe scelto di morire.
Aveva trascorso gran parte della sua vita in strada sotto i ponti di diverse città. Poi era iniziata la fatica e era salito al livello stradale.
Alla fine l’unica possibilità fu dormire nei pressi di bar e ristoranti, azzerando lo spazio percorribile a piedi.
Eludere la prossemica cittadina. Abbandonare il pudore per sopravvivere. Defecarsi addosso per mantenere il riserbo.
Arno lo vide una mattina mentre brigava nel suo regno di stracci. Erano entrambi solitari. Nessun compagno di bevute, nessun circolo dello scaracchio.
Così cominciò a portargli lui le cose da mangiare, a lavargli i vestiti e a rifornirlo di coperte e giornali quando arrivava il freddo.
Quando le cose si misero male, una notte lo caricò su una carriola e lo portò fuori città.
Attraversarono in silenzio tutta la città finché le luci non scemarono e iniziarono i rumori degli insetti.
Si stabilirono vicino a una zona di stoccaggio rifiuti. Negli anni guadagnarono metri. Poi smisero di portare i rifiuti e il puzzo finì.
Smisero anche di passare le macchine sull’autostrada, riconoscerne il modello era stato un gioco come un altro.
Smisero di passare i treni e per Arno era un fatto che non passassero più neppure gli aerei.

Arno preparava impacchi di bardana da applicare sulle gambe di Mordirosso. Mantengono la circolazione attiva e ridanno elasticità ai muscoli, diceva.
Speranza e disperazione di un atto.
Mordirosso lo lasciava fare.
Una volta l’anno Arno faceva scorta.
È ora, disse una mattina. È il periodo balsamico della bardana. Vado a raccoglierne un po’.
Mordirosso annuì e lo guardò allontanarsi.
Il sole filtrava con le sue spade attraverso le fronde degli alberi.
Dopo un pò di perlustrazione Arno decise di superare la cava. Al di là della cava, pensò, troverò la bardana.
Così passò accanto al cantiere e vide che i macchinari erano aumentati. Autobetoniere, rulli compattatori, gru. Di operai non c’era l’ombra.
Le fondamenta della costruzione ricoprivano il fondo della cava per intero. File interminabili di barre d’acciaio spuntavano dai casseri.
Arno percorse tutto il bordo. Arrivato quasi in fondo vide una donna con una tuta blu che usciva dalla radura e gli veniva incontro.
Aveva in mano uno strumento.
Lei vive qua?, chiese la donna.
Arno non rispose. Guardò il cielo e si scostò i capelli dal volto rigato dal sole.
Sto cercando qualcuno che conosca la zona. Una parte sta franando e abbiamo dovuto fermare il cantiere. È a conoscenza di fenomeni carsici?
Una nuvola passò velocemente da una forma familiare a una mostruosa.
I due scesero giù passando dalla strada battuta dalle ruspe.
Guardi, gli diceva. Noti. Veda.
Arno guardava, notava, vedeva.
Più tardi accompagnò la capocantiere alla macchina parcheggiata nella radura. Era un modello che non aveva mai visto.
Se è interessato ho dell’altra documentazione a casa, disse la capocantiere. Visure, conteggi analitici dei volumi, planimetrie, titoli edilizi.
Arno pensò alle notizie di guerra.
In lontananza le rane iniziarono a gracidare.

Quando scendeva la sera Mordirosso teneva alcuni sassi vicino, da usare in caso che un animale si facesse avanti.
Il crepuscolo era l’ora di passo. Prima gli insetti e i serpenti, quindi l’istrice e la donnola, infine il lupo, il capriolo e il fiero barbagianni.
Quando il sole calava una miriade di bestie si avvicendava intorno al regno di stracci in cerca di prede o di compagni.
Accendere il fuoco era soprattutto segnare una distanza.
Mordirosso si tastò con cura le gambe da cima a fondo mentre la silhouette degli ultimi palazzi si spengeva contro il tramonto.
Le lucciole iniziarono le loro intermittenze amorose e i grilli accordarono le elitre.
Quando si vive in strada la prima cosa è rispettare la notte. Imparare a viverla come un inevitabile cambio di quinte.
È soltanto un ricordo, nella radura, il ritmo circadiano. Poi sfuma anche quello e rimane il tempo registrato dai capelli e dalle unghie.

La prima cosa che Arno notò fu la sofisticazione degli odori. Bandite le note forti, l’acido e l’amaro dei fiori rancidi e degli ormoni, nella casa trionfava uno statico vaniglia.
La capocantiere gli offrì una sedia. Poi si mise dietro di lui, dentro alla sfera del suo afrore così netto in opposizione al vaniglia.
Il suo afrore ritagliava uno spicchio di radura nel salotto.
Gli infilò le mani nel cespuglio di capelli e non senza fatica raggiunse la testa. Quindi prese a massaggiare con trasporto il derma crostoso e ruvido.
Vogliamo andare in bagno?, chiese.
Mentre lo lavava nella vasca Arno ripeté alcune nozioni di meccanica dei fluidi e mentre gli tagliava i capelli espose l’articolata arringa di Keplero in difesa di sua madre accusata di stregoneria.
Verso ora di cena lo vestì con un abito di lino bianco che gli calzava a pennello e lo portò al ristorante.
Tornarono a casa a notte fonda ma Arno non si addormentò che un paio d’ore dopo, quando finalmente si decise a abbandonare il letto per sistemarsi sul tappeto, vicino alla finestra.

Al mattino la capocantiere si rimise la tuta e uscì per andare a lavorare.
Ci vediamo stasera, disse prima di uscire.
Aveva lasciato un mazzo di chiavi e una ventiquattrore sulla porta.
Arno si toccò la pelle liscia del volto sbarbato e non la finiva di passarsi le mani sul suo nuovo taglio di capelli.
Poi uscì in strada con l’abito di lino e la ventiquattrore e attraversò la grande rotonda con la fontana. Arrivò in ufficio appena in tempo per il briefing.
Si occupava di bollettazione. Aveva la possibilità di emettere bolle di accompagnamento per fatturazioni differite o per trasferimento di materiale da un magazzino all’altro.
Fatture accompagnatorie, fatture immediate, ricevute fiscali.
Alla pausa pranzo andò al bar in fondo alla strada con alcuni colleghi che si lamentavano delle rispettive mogli e delle loro manie di controllo.
Non avete idea, disse Arno. I colleghi scoppiarono a ridere. Quando finiva uno iniziava l’altro e sembrava che la cosa potesse durare all’infinito. In generale i colleghi pendevano dalle labbra di Arno ogni volta che bofonchiava una battuta.
Alla fine, dopo i caffè e gli ammazzacaffè, ci fu una mezza baruffa per stabilire a chi toccasse offrire il pranzo.

Mordirosso si svegliò prima che sorgesse il sole quando il barbagianni si avventò su un topolino che razzolava alla base della stufa.
Il rumore possente dello sbattere d’ali fu seguito da un fastidioso polverone.
Il fuoco si era spento e Mordirosso stava congelando. Inoltre i morsi della fame iniziavano a farsi sentire.
Il barbagianni si appollaiò in cima all’olmo e iniziò a maciullare il topolino con il suo forte becco.
Tremando, Mordirosso afferrò un sasso e cercò di lanciarlo verso l’uccello ma riuscì a colpire soltanto il tronco dell’albero.
Riprovò altre volte senza successo. Le braccia, come le gambe, gli si stavano paralizzando.
Allora pensò di trascinarsi lontano da quella fiera bestia e dal suo sgranocchiare appassionato, ma per la paura non riuscì a contrarre un solo muscolo.
Il cielo oltre il bosco aveva tinte color titanio.
Finito di mangiare, il barbagianni rigurgitò sulle gambe di Mordirosso un piccolo bolo contenente le ossa del topolino e volò via.
In quel momento un cardellino iniziò a cantare seguito da uno scricciolo. Quindi la sezione delle capinere e quella dei passeri si aggiunsero al concerto dell’alba per evocare il sole da est.
Mordirosso immaginò che fosse giunto il suo momento e lo accettò di buon grado. Vide la sua anima separarsi dal corpo. Allora si ricordò di quando da piccolo dava fuoco alla lana d’acciaio che sua madre usava per pulire lo sporco dai fondi delle pentole. Quel baluginio di minuscole scintille era la sua anima. La sua anima saliva restando impigliata alle fronde.
Un fringuello eseguì il suo assolo spensierato mentre il tordo lo contrappuntava con un tema più solenne.

Finito il turno di lavoro Arno si sgranchì le gambe facendo un giro in centro.
In piazza c’era un mercatino di cose antiche e di libri. Un unico ragazzo stava sbaraccando il suo banco di verdure e prodotti biologici e Arno si ricordò di dover fare la spesa.
Che cosa offre la stagione?, gli chiese.
Il ragazzo gli mostrò i pomodori, le zucchine e un tipo particolare di insalata riccia. Poi tirò fuori da sotto il banco una cesta piena di erbe medicamentose.
È il periodo balsamico della bardana, gli disse. È tardi ormai, e nessuno l’ha comprata. Se vuole gliela regalo.
Arno acconsentì, poi usò i soldi che aveva nella ventiquattrore per comprare anche tutto il resto e salutò il ragazzo.
Nonostante la folla di gente riuscì a salire sull’ultimo treno. Rimase un po’ in piedi finché non gli offrirono di sedersi. C’erano molte facce stanche appese a corpi che scendevano via via alle loro fermate.
Al capolinea Arno era rimasto da solo e scese portandosi dietro i sacchi pieni di verdure e di erbe.
Attraversò in silenzio quel che restava della città finché le luci non scemarono e iniziarono i rumori degli insetti.
Quando arrivò al regno di stracci, Mordirosso, che era rimasto tutto il giorno disteso ai piedi dell’olmo, sollevò prima una palpebra e poi a malapena un braccio per farsi vedere. Non gli ci volle molto per riconoscere il vecchio Arno anche vestito così, sbarbato e con quel nuovo taglio di capelli.
Arno riaccese la stufa e preparò gli impacchi con la bardana.
Mentre glieli applicava alle gambe e alle braccia, Mordirosso pensò che Arno dovesse essere stato un fuochista alla caldaia di un treno a vapore o di qualche industria. Una prestigiosa, però.
I due mangiarono in silenzio, quindi si distesero a guardare il nero del cielo.
Arno, a cosa pensi prima di dormire?

All’alba furono svegliati da alcuni camion che facevano manovra oltre il crinale, dietro il bosco.
Arno si alzò e coprì la stufa con un paio di assi.
Vado a controllare, disse.
Mordirosso annuì e lo guardò allontanarsi.
Al posto della cava sorgeva adesso una gigantesca torre a base quadrata che si rastremava, aggiungendo lati, man mano che saliva.
Le pareti di calcestruzzo erano lisce e gli operai nei ponteggi più alti sembravano tante formiche capaci di comunicare per labili contatti, gli idrocarburi secreti sulla cima delle antenne.
Gli operai si lamentavano delle rispettive mogli nell’aria rarefatta.
Una rana con la pelle traslucida saltò sulla mano di Arno. Aveva ancora la coda da girino.
Poi saltò giù e scomparve nell’erba.
Prima di rialzarsi per tornare indietro, Arno si accorse che gli aveva lasciato la coda sul dorso della mano.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Giovanni Ceccanti è nato a Firenze nel 1987. Laureato in Scienze Naturali, ha vissuto a Roma dove ha iniziato a scrivere. Ha pubblicato su varie riviste tra cui Colla e L’Indiscreto. Un suo racconto è apparso nell’antologia “Odi”, edizioni effequ. Ha cofondato il sito di cinema e narrazioni In fuga dalla bocciofila. Lavora presso la libreria TodoModo di Firenze.

Il mago come terapeuta della realtà

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La magia si oppone risolutamente al processo dissolvitore. 

Ernesto de Martino, Il mondo magico

 

Non si potrebbe salire in cielo 

e chiedere a Dio se è permesso

che le cose siano così?

Canto yiddish

 

Ospito qui un estratto da Magia e Tecnica. La ricostruzione della realtà del filosofo Federico Campagna, uscito per le Edizioni Tlon.

Concepito come  una cosmogonia alternativa, o come sforamento rispetto all’immobilismo della cornice della Tecnica, il libro di Campagna è un portentoso scuotimento, la dimostrazione che il processo di ricostruzione deve necessariamente passare per lo scavo, l’eccedenza, il repurposing o riattraversamento di quelle tradizioni che più sembrano distanti dalla nostra epoca.

Così il mago, l’alchimista, lo sciamano diventano destabilizzatori del tempo, forze terapeutiche, scovatori dei «prodigi nascosti nei penetrali del mondo» (Pico della Mirandola), l’iniziazione torna a essere intesa come accensione immaginale: l’innescarsi di una diversa rivoluzione percettiva: «sciamani e maghi impiegano i loro poteri magici per superare questo stato di crisi. Mentre risalgono dai sintomi del malessere fino alla loro causa scatenante, essi cercano di offrire un’alternativa, immediatamente percorribile, al sistema di realtà che li ha prodotti in primo luogo».

L’estratto che ospito è tratto dal terzo capitolo del libro, intitolato “Cosmogonia della magia”. Ringrazio gli editori per la gentile concessione.

 

Cosmogonia della Magia

Scegliere il termine “Magia” per definire la propria proposta filosofica può suonare come una cattiva idea. Di questi tempi, qualsiasi cosa che venga definita come “magica” porta alla mente alcunché di scadente. L’uso più frequente (e improprio) di questo termine si ritrova nelle serie televisive e nelle pubblicità di profumi, o nella confusa nozione di witchcraft intrattenuta da alcune sottoculture adolescenziali. E tuttavia, il termine Magia possiede alcuni importanti elementi che forse nessun’altra parola riesce a trasmettere in forma così evocativa. Prima di iniziare la nostra esplorazione del sistema di realtà che desidero presentare come alternativa possibile a quello della Tecnica, dovremmo iniziare dando uno sguardo più da vicino al termine che lo definisce. Cosa significa “magia” nel contesto di questo volume? E in che modo il suo significato, per come lo useremo, è differente dalla sua accezione generale?

Nel corso della storia occidentale, la magia ha agito come l’ombra silenziosa di gran parte delle forme culturali egemoniche, dalla filosofia alla teologia, fino alla scienza moderna. Eppure, ogni tentativo di fornire una storia completa e dettagliata della magia è destinato a fallire. Il motivo ha a che fare, in parte, con il fatto che la magia non riconosce la “storia” come propria categoria temporale[1] e, in parte, con il mistero e la segretezza di cui si è sempre velata, sia per via della particolarità del suo orizzonte, sia per cautela, a causa del suo posto marginale all’interno della società. Non sorprende quindi che la concezione della magia prevalente in Occidente attraverso i secoli sia stata flagellata da grossolane inesattezze, che ne hanno completamente distorto non solo la storia, ma anche il significato e lo spirito della sua opera. Per com’è presentata al giorno d’oggi nei film e nella letteratura, la magia è poco più che un insieme di spettacolari abilità tecniche, riducibili a un catalogo di progressi tecnologici non ancora raggiunti. La magia è considerata semplicemente un’altra maniera, forse più esotica, di sfruttare il mondo come un accumulo di riserve disponibili, che il mago o la maga sono in grado di mobilitare grazie ai propri poteri. Come vedremo nel prossimo e ultimo capitolo di questo libro, questa concezione della magia è esattamente l’opposto di quella che caratterizzava la pratica tardoantica della teurgia e, più in generale, della tradizione della “vera magia” che va dalla tarda antichità fino alla fine dell’età rinascimentale.[2] L’attuale concezione della magia è l’ombra del nostro tempo. Allo stesso modo in cui la “magia nera” medievale era presentata come l’equivalente demoniaco della teologia cristiana ortodossa, così la magia è oggi vista come l’equivalente fantasmagorico delle forme tecno-scientifiche attualmente prevalenti. In effetti, sin dalla sua prima definizione, la magia è stata destinata a essere intesa come l’ombra di tutto ciò che la società conosce e chiama come suo proprio.

L’origine stessa della parola magia rinvia a una “alterità” definita attraverso una relazione negativa con ciò che è già noto e familiare. Il primo esempio nel quale la parola appare nel suo attuale significato è nel greco magike techne, che si riferisce all’arte (techne) dei Magi persiani. Nelle sue Storie,[3] Erodoto spiega come il termine “Magi”, originariamente il nome di una delle sei tribù dei Medi, finì per indicare i membri della casta sacerdotale della religione zoroastriana durante l’Impero persiano. Forse pochi altri casi di ostilità sono famosi quanto quello fra i Greci prima di Alessandro e la Persia zoroastriana al tempo dei Magi. Ancor più dei barbari per Roma, i Persiani erano veramente percepiti dai Greci classici quali la propria ombra inquietante. Se consideriamo come nelle società premoderne la religione sintetizzasse in forme ritualistiche le modalità attraverso cui i diversi gruppi sociali si rapportavano con il mondo – agendo quindi come il vessillo delle varie identità culturali – comprendiamo perché i Greci considerassero i Magi come l’incarnazione delle peculiari caratteristiche del loro popolo. Per i Greci, i Magi rappresentavano quella “oscura alterità” che era la quintessenza dei Persiani e del loro potere. Tale alterità era concepita in termini relativi, rispetto all’identità degli stessi Greci: magike techne era letteralmente l’arte dell’ombra dei Greci, ovvero l’arte delle ombre. Per coloro che si vedono esterni a essa, la magia appare, sin dal primo uso del termine, come l’incarnazione di ciò che può essere definito unicamente in relazione all’identità del “nostro” potere e del nostro modo “normale” di avere a che fare con le cose e con il mondo.

La nozione di magia proposta in questo volume va contro questa concezione, che si estende dai tempi di Erodoto fino ai giorni nostri. In questo libro, quando parliamo di magia, non intendiamo niente che abbia a che fare con un oscuro, esotico equivalente dello stesso regime tecnico che regna sulla nostra epoca. Di fatto, con questo termine noi intendiamo un sistema di realtà che è fondamentalmente alternativo a quello della Tecnica: una cosmologia alternativa originata da una forza cosmogonica alternativa. Una realtà diversa, basata su una diversa metafisica fondamentale, pur seguendo le regole della metafisica e della cosmogonia. L’opposto speculare della Tecnica, piuttosto che la sua ombra. Non di meno, un aspetto della nozione comune di magia è presente in questo libro. La magia è sempre stata un elemento inquietante per le comunità egemoniche di una certa epoca. Persino nel caso del nostro esperimento cosmogonico, proporre un sistema di realtà basato sulla magia significa sostenere una proposta che può sembrare problematica (se non ridicola) a quanti hanno a cuore i principi derivanti dalla cosmologia della Tecnica. In questo senso, l’“alterità” problematica che ha da sempre caratterizzato la consueta interpretazione della “magia” rimane rilevante anche per il nostro uso di questo termine per definire un progetto cosmogonico.

La relazione fra Magia e Tecnica non è solo di fondamentale alterità. Da una certa prospettiva, la Magia può anche essere considerata come una forma di terapia rispetto al brutale regime imposto dalla Tecnica sul mondo, che essa ha costruito a propria immagine. Quando abbiamo cominciato a considerare la Tecnica, le prime osservazioni riguardavano l’attuale paralisi dell’abilità di agire e di immaginare, e la crisi dello stesso senso di realtà. Per spiegare questa condizione, abbiamo preso in prestito le parole di Ernesto de Martino, che definiva tale stato di crisi come una situazione in cui tutto si trasforma in tutto e il nulla emerge. Tuttavia, quando abbiamo citato de Martino non abbiamo accennato al contesto originario dal quale proveniva la sua originale definizione di crisi di realtà. Per de Martino, questa disintegrazione della realtà e, in particolare, della presenza dell’individuo e del suo mondo, è uno stato ricorrente di “crisi” – cioè, etimologicamente, un momento che richiede un giudizio (krisis, dal greco krinein, giudicare) e un intervento immediati. L’essenza della magia, conclude de Martino, consiste esattamente in questa forma di intervento, volto a ripristinare le condizioni nelle quali sia il mondo che l’individuo possano riguadagnare la loro presenza, e possano dunque continuare nella loro comune relazione attiva e immaginativa.

In date circostanze, la perdita di orizzonte della presenza si spinge sino al punto che si diventa una eco del mondo, ovvero un posseduto, in preda a impulsi incontrollati. Vi è un oltre rischioso della presenza, un angoscioso travaglio del suo orizzonte condendo: e, correlativamente, anche il mondo entra continuamente in crisi di orizzonte, e trapassa continuamente nell’oltre angosciante. Al limite, ogni rapporto della presenza col mondo diventa un rischio, una caduta di orizzonte […] qualcosa di simile alla situazione che costringe lo schizofrenico alla immobilità statuaria dello stupore catatonico […]. La magia risale questa china e si oppone risolutamente al processo dissolvitore. Essa mette a capo una serie di istituti attraverso i quali il rischio è segnalato e combattuto […] sorgono a rendere possibile, in forme più o meno mediate, il riscatto della presenza. In virtù di questa plasmazione culturale, di questa creazione di istituti, il dramma esistenziale di ciascuno non resta isolato, irrelativo, ma si inserisce nella tradizione e si avvale delle esperienze che la tradizione conserva e tramanda.[4]

Sciamani e maghi impiegano i loro poteri magici per superare questo stato di crisi. Mentre risalgono dai sintomi del malessere fino alla loro causa scatenante, essi cercano di offrire un’alternativa, immediatamente percorribile, al sistema di realtà che li ha prodotti in primo luogo. In altre parole, un mago può essere concepito come un terapeuta della realtà,[5] che agisce non solamente sui sintomi della malattia di un individuo, ma anche sulle condizioni di realtà che hanno permesso alla malattia di emergere. In modo simile all’interpretazione di de Martino, questa sezione del libro desidera proporre la Magia non solo come alternativa alla Tecnica, ma nello specifico come quel sistema cosmogonico che è in grado di occuparsi terapeuticamente dello stato di annichilimento a cui la Tecnica ha ridotto l’individuo contemporaneo, il suo mondo e la sua rivendicazione di una realtà vivibile. Come vedremo nelle prossime pagine, il primo principio della Magia può esser fatto risalire a quel dolore che abbiamo trovato in fondo alla catena delle emanazioni della Tecnica, e che a sua volta la Magia assume come sintomo del proprio inizio cosmogonico.

[1] Per una valutazione critica delle comuni nozioni di storia e temporalità, da una prospettiva che è largamente vicina a quella adottata in questo volume, cfr. A. Coomaraswamy, Tempo ed eternità, Edizioni Mediterranee, Roma 2013.

[2] Per un’introduzione interessante al concetto di Magia nell’era rinascimentale, e un quadro d’insieme degli studi (anglofoni) sull’argomento, cfr. J.S. Mebane, Renaissance Magic and the Return of the Golden Age, University of Nebraska Press, Lincoln 1992.

[3] Cfr. Erodoto, Storie, i, 132, utet, Milano 2014.

[4] E. de Martino, Il mondo magico, op. cit., p. 165.

[5] In particolare, riguardo agli sciamani della foresta amazzonica, è interessante seguire l’analisi di E.V. de Castro sulla loro funzione di “terapisti della realtà”, anche riguardo alla relazione fra umani e non umani. Cfr. E.V. de Castro, Cannibal Metaphysics, Univocal, Minneapolis 2014, p. 151; ed. it. Metafisiche cannibali, Ombrecorte, Milano 2017.

La Madonna sull’altoforno

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di Giuseppe Rizzi

Quando Stasiu mi ha detto la prima volta che c’era la Madonna sull’altoforno, io gli ho creduto. Come potevo non credergli? Ha detto che aveva la pelle nera e un abito scuro fin sopra la testa. L’ho capito subito che era la nostra Vergine di Częstochowa. È così che si presenta. Ho un quadro sul letto, era di mia madre. È benedetto. Viene proprio da Częstochowa. La guardo sempre e mi segno, tutte le sere. Quindi so com’è fatta. Tutti lo sanno. Lei ci protegge. E ho pensato che averla con noi alle acciaierie era un buona cosa. Soprattutto dopo che Cyprian e Jakuba sono finiti nella caldaia di colata e non sono stati più ritrovati.

Grażyna prega sempre la nostra Signora perché non capiti anche a me. È molto preoccupata, poverina. Ma ora la nostra Signora si fa vedere sull’altoforno! Io non l’ho vista, ma mi sono fidato di Stasiu. Mi sono commosso, ho pregato. Ho detto a Grażyna che la Madonna aveva ascoltato le sue preghiere ed era venuta alle acciaierie per proteggerci. Quindi ero contento. Non potevo immaginare quello che sarebbe successo.

Io e Stasiu siamo arrivati insieme a Nowa Huta. Era il 1956 e avevo da poco diciott’anni. Molti palazzi che ci sono adesso non c’erano ancora. Tutto era nuovo e in costruzione. Io e Grażyna ci eravamo appena sposati nella chiesa di san Floriano. Poi mio cugino Jan mi aveva detto che agli operai delle acciaierie davano una casa tutta per loro. Andai a piedi da Krakòw a Nowa Huta perché non avevo i soldi per il tram. Mi fecero giusto due domande, piuttosto volevano vedere se il mio fisico era robusto e se ero sano di mente. In sei mesi avevamo la nostra casa! E pensare che la gente aspetta tanti anni per averne una. E tutta per noi! Non dovevamo condividerla con altre persone. Ogni famiglia la sua. Perché noi eravamo l’orgoglio della Polonia. Mosca era fiera di noi.

Stasiu venne ad abitare nel nostro stesso palazzo, al blocco sei. Era uno dei palazzi più desiderati perché aveva un rifugio antiatomico proprio al di sotto. Al suono della sirena non dovevamo correre per strada a cercarne uno. Mi sembrava di vivere come uno zar. Stasiu arrivò proprio il giorno dopo che eravamo arrivati noi. Anche lui come me era assegnato al settore quattro. Sono passati nove anni da allora.

Quando mi ha raccontato, quel giorno a mensa, che aveva visto la Madonna sull’altoforno, era agitato. Me lo ha detto sottovoce, in confidenza. Mi ha chiesto dieci, venti volte di non raccontarlo a nessuno. È una cosa bella, gli ho detto. Ma lui aveva ragione a dirmi che se lo sanno loro sono guai. A Nowa Huta abbiamo tutto: un centro culturale dove fare musica, un teatro, una palestra per la pallacanestro, la pallamano, il pugilato. E tante altre cose che in altre città operaie se le sognano. Ma non ci sono chiese. Loro non vogliono che abbiamo altre fedi oltre a quella nel Partito e nelle sue cause. Stasiu avrebbe potuto fare una brutta fine, trattato come un pazzo o un sobillatore, e chi lo sa cos’è peggio per loro. No, nessuno doveva saperlo. Lasciamo fare a Lei, gli ho detto io per tranquillizzarlo, e lui ha annuito.

Qualche giorno dopo, Stasiu è caduto a terra, all’improvviso, mentre eravamo all’altoforno. Subito abbiamo pensato al peggio, come al solito. Anche io ho pensato al peggio, pur sapendo che c’era la Vergine. L’hanno portato in infermeria. Si è risvegliato poco dopo. Il medico ha poi detto ch’era stato solo un calo di pressione. Gli ha raccomandato di mangiare più patate e barbabietole – come se a mensa ci dessero altro – e bere meno alcol – come se avessimo altro per scacciare il malumore.

Finito il turno sono andato a trovarlo a casa. La radio raccontava con entusiasmo di Leonov che camminava nello spazio. Stasiu ha alzato il volume perché sua moglie non ci sentisse. Davanti a un bicchiere di wodka mi ha detto cos’era successo. Ovvero che era apparsa di nuovo la Madonna sull’altoforno. Questa volta gli aveva parlato. Non con la voce, mi ha detto, era muta. Gli aveva parlato come da mente a mente. Come se lei era addirittura entrata nella sua testa, e allora aveva perso i sensi.

Ero molto turbato, stavolta. Lui era più turbato di me. Mi ha detto di aver visto un uomo di spalle, che sapeva essere un polacco, vestito di bianco, con tanta gente intorno a lui. Tantissima. In un posto sicuramente straniero. Un colpo di pistola e poi sangue e grida. Qualcuno aveva sparato a quell’uomo. E mentre vedeva queste immagini, sentiva una voce di donna, una voce bellissima, celestiale. Ma una voce tristissima, come se piangeva. La voce ripeteva un numero: diciassette. E quella voce lo aveva così commosso che a parlarne gli uscivano le lacrime.

Che significa? Ma lui non ha saputo rispondermi. L’impressione che aveva avuto era di aver visto qualcosa che ancora doveva succedere.

Ho raccontato anche questo a Grażyna. So che Stasiu non vuole, ma di Grażyna posso fidarmi. Lei non lo dice a nessuno. Gliel’ho detto così smette di essere in pena per me. C’è la Madonna a proteggerci, Grażyna, in cima all’altoforno. Stai tranquilla.

Lei mi ha detto che sicuramente è un miracolo. Che la Madonna sta cercando di dire qualcosa, come è successo a Lourdes e a Fatima. Ha toccato il quadro della Vergine di Częstochowa in cima al letto, si è segnata e ha pregato a lungo per ringraziarla.

Io invece mi chiedevo perché la Madonna avesse scelto proprio lui e non me.

Una settimana dopo, il Comitato delle Acciaierie aveva organizzato una gita sui monti Tatra per gli operai e le loro famiglie. La giornata era molto bella per essere di marzo. Tutt’intorno c’era ancora la neve. Con Stasiu avevo parlato poco negli ultimi giorni. A mensa era silenzioso, non aveva più fatto accenno alla Madonna. Lo vedevo però che non era quello di sempre. Sospettavo che avesse ripreso a bere più del dovuto.

Ci avevano mandato nel bosco a raccogliere legna per fare un fuoco. Le donne preparavano una zuppa e il cavolo da stufare in grossi calderoni. I bambini facevano dei giochi di squadra e cantavano canzoni come quelle che piacciono a Mosca. Quando gli altri uomini erano lontani da noi, Stasiu mi ha detto che la Madonna gli aveva parlato ancora. Gli aveva mostrato un uomo con un’isola rossa sulla fronte, poi ancora quell’uomo di bianco che adesso stava bene, degli operai in mezzo a navi in costruzione e una grossa ancora che sembrava formare due lettere, la P e la W, come quella che si vedeva segnata sui muri durante la guerra. Non capivo che diavolo voleva dire. Lui invece aveva capito.

La Madonna, non una qualsiasi, proprio quella di Częstochowa, ci libererà. E avremo da mangiare in abbondanza, mi ha detto. Non dovremo più fare file di giorni per prendere, ammesso di trovarne ancora al nostro turno, il sapone, le patate o il pane. E potremo avere una chiesa tutta per noi. Lei ci libererà.

Da chi? ho domandato. Lui mi ha guardato come si guarda uno scemo. Il comunismo finirà, mi ha detto. Tutto crollerà. A Roma faranno Papa un polacco, mi ha detto la Madonna. Sarà lei a farlo succedere. Quell’uomo di bianco parlerà al mondo di noi e con la Madonna ci salverà. Darà la forza al nostro popolo di ribellarsi, come sempre è stato. Partirà tutto da lei, da noi operai, da questa zona della Polonia, poi da un cantiere navale a nord. S’è zittito, mi ha guardato e s’è allontanato.

È stato allora che ho iniziato a dubitare di lui. Questo era troppo. Un papa polacco? La Madonna di Częstochowa che fa cadere il comunismo? La Polonia che torna libera?

Ho provato tanta tristezza che quasi piangevo. Non c’era nessuna Madonna sull’altoforno, mi son detto. Il povero Stasiu ha solo ripreso a bere. È stato un lungo inverno, e la gente beve più del dovuto: per il freddo, per il buio, perché non abbiamo altro per scacciare il malumore. La wodka gli ha fatto vedere cose che non esistono, la wodka l’ha fatto star male quel giorno all’altoforno. Il comunismo che crolla… un papa polacco… gli operai che protestano… impossibile. Non basterebbe un miracolo.

Questo non l’ho detto a Grażyna. Sapere che c’è la Madonna la fa stare tranquilla. Non voglio che ci rimanga male.

Due giorni dopo, alla mensa, mi sono deciso a parlare a Stasiu. Gli ho chiesto se per caso avesse ripreso a bere troppo. Si è arrabbiato. Aveva capito cosa volevo dire. Ha detto che bestemmiavo, che dovevo vergognarmi. E che avrebbe detto a tutti della Madonna. Gli ho implorato di star zitto, che gli altri intorno a noi potevano sentire. E se lo sentivano, lo dicevano a loro. E loro lo avrebbero trattato come si tratta un pazzo o un sobillatore. Vedere la Madonna, a Nowa Huta, nelle Acciaierie Lenin: per scomparire bastava molto meno. Pensavo a Grażyna, ai bambini… Tutti sapevano che Stasiu e io siamo buoni amici. Potrei anch’io scomparire con lui, ho pensato.

E da quel giorno l’ho evitato. Mi sono seduto con altri a mensa, non sono più passato da lui al secondo piano.

Per una settimana non ci siamo parlati. Poi una sera ho trovato un biglietto sotto la mia porta. L’aveva scritto lui. Diceva così: Lei mi ha detto cosa devo fare e domani lo faccio.

Sono andato subito da lui, attento che nessuno nel palazzo mi vedesse. Sono entrato in casa e gli ho detto molto arrabbiato, ma bisbigliando: Cosa vuoi fare? Ci pensi a tua moglie? Ci pensi a quello che succederà?

Lui era rimasto tranquillo, sembrava beato. Non aver paura, mi ha detto.

Non dire niente a nessuno, per favore, l’ho supplicato. Ci vado di mezzo anch’io. Ci vanno di mezzo le nostre famiglie. Ti prendono per pazzo o per eversivo.

Lui mi ha abbracciato. La Madonna è con noi. Lei ci protegge, ha detto soltanto. Lei sa cos’è meglio. Lei sa cosa devo fare.

È stata l’ultima volta che gli ho parlato.

Il giorno dopo, al mattino, tutto è andato come al solito. Lui s’è comportato normalmente. Io di continuo ho dato un’occhiata in cima all’altoforno. Volevo che la Madonna fosse lì, a dimostrarmi con la sua presenza che Stasiu aveva ragione, che tutto andava bene. Che lei ci proteggeva.

All’ora di pranzo, a mensa, mi sono seduto ancora con altri. Lui era solo, in un tavolino in disparte. Intento a mangiare, l’ho perso di vista per alcuni istanti. Quando ho guardato di nuovo al suo tavolo, non c’era più. Ho avuto paura. Il pranzo era ancora lì nel vassoio e lui non si vedeva.

Abbiamo sentito allora delle urla, poi alcuni spari. Ci siamo nascosti tutti sotto i tavoli. Poi abbiamo visto altri uscire e ci siamo precipitati anche noi a vedere. C’era Stasiu per terra. Era morto. Il sangue tutt’intorno e un fucile stretto ancora tra le mani. Lo aveva rubato a un soldato in una garitta, abbiamo poi saputo. Non so cosa diavolo volesse fare. Un altro soldato lo ha freddato prima che lui potesse far qualcosa.

Povero Stasiu, ho pensato. Povero Stasiu. Come poter credere ancora alla Madonna sull’altoforno? Era questo che gli avrebbe detto di fare, allora? Rubare un fucile? Per puntarlo su chi, poi? Per fare cosa? Che oscenità.

Il Papa polacco, l’uomo con un’isola in fronte, gli operai in mezzo alle navi. Ecco cos’era Stasiu, proprio come temevo. Un pazzo. Un’altra povera vita rovinata dall’alcol. Non un eversivo o un sobillatore. Così mi son detto, preso dalla tristezza e dall’angoscia. Ho pensato a sua moglie, ai bambini. Ho pregato per lui.

L’ho raccomandato alla nostra Vergine nera, che lo abbia comunque in gloria.

Raccontare in forma di passage. Appunti sul Manifesto incerto di Frédéric Pajak: “una sorta di letteratura”

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di Lucia Cariati

Il secondo volume di Manifesto incerto di Frédéric Pajak è stato da poco pubblicato da L’Orma editore. Vincitore del Premio di Saggistica “Città delle Rose” 2021 (e ancor prima di riconoscimenti quali il Gran Premio svizzero di letteratura 2021, il Prix Goncourt 2019 per la biografia e il Prix Médicis 2014 per la saggistica). Il libro riprende e porta avanti la vicenda umana, storica e intellettuale di Walter Benjamin già avviata con il primo volume, attraversando poliedricamente diversi generi letterari, dalla (auto)biografia, al saggio grafico alla poesia ma senza coincidere con nessuno di essi in particolare, aprendo il lettore a uno sguardo inedito su autori e luoghi noti e, soprattutto, alla possibilità di una narrazione rinata.

 

Theodor Adorno nel suo profilo di Walter Benjamin, e a proposito di quello che a suo avviso sarebbe stato il suo nucleo filosofico nascosto (che il pensatore francofortese rintracciava nel mito e nella cabala), scrisse che l’amico ‹‹non giocava quasi mai a carte scoperte›› (T. W. Adorno, 1972). La stessa considerazione potrebbe valere per Frédéric Pajak. Infatti è sin dalla primissima soglia del testo che Manifesto incerto ‘nasconde’, destabilizzando il lettore. Il titolo è, a ben vedere, un’espressione ossimorica: ciò che è (o dovrebbe essere) ‘manifesto’ è qui preliminarmente connotato come ‘incerto’. Perché?

L’opera di Pajak, pubblicata per la prima volta in Francia nel 2014 – e ora finalmente tradotta in italiano da Nicolò Petruzzella per L’Orma editore – è un’architettura narrativa complessa che intreccia l’autobiografia (dell’autore) con la biografia (di Walter Benjamin, ricostruita attraverso materiale epistolario, frammenti, opere edite e ritrovamenti postumi) e il saggio critico, l’esposizione alla poesia, sul doppio binario della scrittura testuale e grafica. Siamo di fronte a un (anti)romanzo nel tempo dell’ipermodernità che si dipana al modo del taccuino dove confluiscono diverse suggestioni: le immagini osservate, esattamente come durante un viaggio, ispirano pensieri che trapassano dal ricordo privato alla ripresa di concetti teorici, dalla storia letteraria a quella sociale. I disegni a china, inoltre, non si limitano a illustrare semplicemente il testo ma seguono un percorso spesso autonomo sebbene riferito a quello scritto. Per queste ragioni ha già visto accreditarsi una ricezione spuria, tra memoir e saggio critico, tra graphic essay e scrittura lirica. Tentato da un continuo travestimento di genere, si ‘nasconde’ in un  pastiche narrativo. Ma c’è anche altro.

Il libro sognato da Pajak a soli dieci anni (‹‹fatto di parole e immagini››, come forse inevitabilmente si concepisce la narrazione nell’infanzia), abbozzato e poi distrutto nuovamente a sedici – per divenire, da increato, progetto di una vita – questo libro ‹‹muore ogni giorno››, ci confida l’autore  nella Premessa al primo volume dell’opera pubblicato in Italia nel 2020 (Manifesto incerto. Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio, L’Orma, 2020, pp. 192).

Il Manifesto è incerto dunque per via della sua nascita singhiozzante, fatta di abbozzi e cancellazioni repentine. Sarà nel corso di uno degli svariati mestieri intrapresi dall’autore ventenne, cuccettista sui vagoni letto di un treno, che il libro tornerà a farsi strada, dopo una notte della prima metà degli anni Settanta trascorsa a parlare con un passeggero in preda all’insonnia. ‘Manifesto incerto’, in questo caso, sarebbe un sostantivo con aggettivo a indicare l’opera stessa, alludendo alla sua nascita per singulti, ma potrebbe anche essere una forma verbale dichiarativa in prima persona, con l’aggettivo in forma avverbiale (‘Io manifesto incerto’). L’incertezza dunque connota da subito l’oggetto con cui entra in relazione il lettore, ma forse anche la disposizione del suo autore. Allo stesso tempo è una condizione introduttiva ovvero una postura liminare necessaria quasi propedeutica al lettore per ‘sprofondare’, a sua volta, nel ‘paesaggio’ fisico e interiore attraversato dal protagonista. Ma è anche la cifra di una proposta narrativa in evidente collisione con i proclami ideologici acclarati e certissimi degli anni tetragoni in cui è stato concepito, prima che andassero a spegnersi nei rivoli privati e sfilacciati del cosiddetto riflusso.

La parola ‘manifesto’ alberga però in una zona storica più remota, tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, secolo letteralmente scritto sui manifesti: da quelli propagandistici a quelli programmatici, dalle chiamate alle armi o al ripopolamento delle nazioni agli inviti all’organizzazione politica delle classi sociali oppresse, in uno scorrere di testi dalle diverse asserzioni e destinazioni, passando da manifesti della razza a (anti)manifesti dada, surrealisti o futuristi. E Walter Benjamin, protagonista dei primi due dei nove volumi che costituiscono il progetto grafico e narrativo di Pajak, è di questa storia (la storia della modernità, delle masse e di nuove forme di comunicazione ad esse destinate) una delle voci che più la rappresenta pur nella sua erratica divergenza.

Proprio alcuni manifesti scandiscono uno snodo temporale decisivo nel primo volume (p.141). Siamo nel 1933, a Berlino. Nel mese di aprile Benjamin, ‹‹in fuga dalla crescente ostilità del regime nazista››, torna per la seconda volta sull’isola di Ibiza (dove era già stato nel 1925) mentre, di lì a un mese, sullo scenario di Opernplatz (oggi Bebelplatz) sarà allestito un rogo con libri trafugati da biblioteche pubbliche, tra i quali anche quelli di Benjamin: libri in lingua tedesca scritti da un ebreo. La sequenza narrativa è sigillata dalla rievocazione delle parole riportate sui manifesti in quella nefasta occasione, così apprendiamo che ‹‹Sui manifesti stampati in caratteri gotici rossi si legge: “L’ebreo può pensare solo in quanto ebreo. Se scrive in tedesco, mente”››. L’illustrazione a china che precede il testo raffigura dei militari delle SA e due civili con addosso dei cartelloni denigratori (specie di manifesti, a loro volta).

Pajak non ci racconta la loro storia, ma si limita a ritrarre quella scena all’epoca immortalata in una foto – è anche così che Manifesto incerto allarga il suo scenario di figurae minori che lo attraversano, oltre i tanti personaggi coprotagonisti presenti. Da lettori si è perciò spinti a ricercare, a mettersi sulle tracce variamente disseminate nel libro, così possiamo scoprire che la foto originaria utilizzata come modello del disegno proviene dall’archivio Halton di Cuxhaven e risale al 27 luglio 1933. Oggetto di quello scatto sono un uomo d’affari ebreo, Oskar Danker, e la sua supposta amante ‘ariana’, Adele, messi al bando e condotti così per strada come modelli da non imitare. In questo caso, come nella gran parte delle pagine di Manifesto incerto, l’illustrazione non è didascalica rispetto al testo e innestandosi nella trama, sebbene su un nastro narrativo parallelo, genera un terzo luogo di senso. Le parole che furono appese a Oskar Danken recitavano: ‹‹Sono un giovane ebreo e porto sempre e solo ragazze tedesche nella mia camera da letto!››; quelle riferite ad Adele, invece, dicevano: ‹‹Sono degna del più grande porco e me la faccio solo con ebrei!››.

Pajak dunque, mentre ci racconta del rogo dei libri a Berlino non lo illustra, facendoci osservare invece il disegno delle vittime di una gogna pubblica tratto da una foto scattata altrove, mentre accade altro. È il montaggio dei due elementi a generare il terzo orizzonte di significato, per capirlo dobbiamo scorrere nuovamente le citazioni riportate sulla pagina. Il testo scritto riferisce di manifesti che affermano che l’ebreo, ‹‹se scrive in tedesco, mente››; il disegno a china ritrae degli autodafé imposti dal potere politico, ma sabotati dalla stessa premessa ideologica perché le frasi ingiuriose affisse su Danker e Adele sono scritte in tedesco dunque sono necessariamente false.

Si tratta di manifesti perentori che incrinano a vicenda il proprio statuto epistemologico ovvero  che con la loro tronfia certezza perdono la possibilità di accedere alla verità. L’osservazione critica che invece permette di intuire il vero si dà tutta nel cortocircuito scaturito da questo montaggio, esito di una esposizione testuale asciutta, quasi elencatoria, sulla quale si innesta la trasposizione grafica di una fonte storica fotografica. Alla pari delle citazioni testuali contenute nel libro ma non sempre esplicitamente dichiarate (provenienti da materiale saggistico o autobiografico), questa illustrazione costituisce a sua volta una citazione grafica in incognito – nella Premessa, Pajak prepara il lettore alla sua poetica citando Benjamin: ‹‹Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante››. Il lettore del Manifesto potrebbe felicemente restare un ‹‹ozioso viandante›› che, però, il cortocircuito tra linguaggio scritto e linguaggio grafico mira sottilmente a smuovere. Il libro infatti nasconde svariate citazioni infrattate e illuminate, allo stesso tempo, dalla predazione dell’autore. In generale, i riferimenti metatestuali, impliciti o espliciti, sono svariati e il lettore può scegliere di mettersi sulle tracce di questi riscoprendoli, iniziando così un proprio ulteriore viaggio antilineare.

La direzione narrativa di Pajak – direzione ad espansione continuamente rizomatica ed ellittica – si riconnette alla forma antisistematica con cui Benjamin aveva pensato il Passagen-Werk (ma si pensi anche alla struttura aforistica di Strada a senso unico, per esempio): ‹‹Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio››, ci dice l’autore.  Una necessità narrativa, dunque, in cui fosse necessario ‹‹adottare nella storia il principio del montaggio. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento singolo, il cristallo dell’accadere totale››.

Manifesto incerto, sulle tracce di Benjamin, finisce col raccogliere una molteplicità di storie, note o anonime. La deriva narrativa verso elementi minori è affidata anche all’uso delle immagini, siano esse rievocate dal ricorso a una parola visiva o direttamente disegnate. Pajak, in sintesi, sceglie di raccontarci Benjamin attraverso il suo stesso dispositivo narrativo, il Denkbild ovvero l’immagine-pensiero, luogo di fusione dialettica tra eidos e logos, cellula di più ampie costruzioni discorsive o narrative (come accade in Infanzia Berlinese, per esempio) espansa attraverso la tecnica del montaggio di matrice surrealista (che già E. Bloch, nel 1928, aveva definito come ‹‹l’associazione del lontano con il vicino più prossimo, di miti in incubazione con la quotidianità più esatta››).

Il libro sembra, in questo senso, un’altra delle ramificazioni dei Passages, di quel ‹‹torso incompiuto›› di storia culturale di metà Ottocento (Eiland-Jennings, 2015) e in generale della variegata produzione di Benjamin, continuamente oscillante tra le forme del saggio culturale, della narrativa e dell’autobiografia. Rinuncia cioè a uno statuto di genere codificato, finendo per raccoglierle tutte in una sintesi che intreccia il rapporto di viaggio – a partire dalle rotte attraversate da Benjamin sulla nave Catania nel 1925 e nel 1932 – al racconto memoriale privato e che, a voler giocare con le definizioni, potremmo chiamare memoirtage (memoire e reportage) scritto e disegnato (Pajak rifiuta categoricamente l’etichetta di graphic novel o di libro illustrato) di un artista viandante a proposito di un pensatore errante.

Allo stesso modo, Pajak ci racconta di aver realizzato sui taccuini preparatori al Manifesto dei palinsesti fatti di appunti, immagini, glosse, dettagli ricopiati da foto, fantasie o paesaggi reali. Un archivio di immagini – come ci riferisce nella Premessa – abitate da un sentimento confuso. Animate da una frenesia intermittente e frammentata sono anche le parole buttate giù inizialmente in forma di appunti trascritti disordinatamente, che ‹‹si attaccano a nuovi disegni e insieme generano frammenti nati chissà dove, fatti di parole prese a prestito e mai restituite››.

I testi, le parole, i ritratti sono come territori abitati a tempo, sui quali approdare e dai quali prontamente salpare, esattamente alla maniera di un esule che abbia perso di vista una concreta possibilità del ritorno, o meglio che abbia sostituito quella necessità con il viaggio stesso. Ed è con gli occhi di un esule che Pajak guarda e racconta o anche soltanto allude ad altri esuli: oltre Benjamin, incontriamo Beckett, Van Gogh, Mondrian, Joyce, ma anche un quasi sconosciuto Raoul Alexandre Villain, rifugiatosi sull’isola di Ibiza dopo aver ucciso, alla vigilia della Grande Guerra, il leader socialista Jean Jaurès e detto ‹‹il pazzo del porto›› per via di alcune sue visioni mistiche (nel secondo volume compariranno André Breton, con il suo amore per Nadja, Hanna Arendt, Bertold Brecht e molti altri).

Tutte le vicende narrate sembrano dettate da traiettorie di fuga: si fugge dal cuore di una Europa sempre più nera alla vigilia della seconda guerra mondiale, ma in alcuni casi si fugge anche dallo stesso rifugio ibizenco. È quello che faranno, per esempio, la pittrice olandese Toet Blaupot ten Cate, amatissima da Benjamin (la quale abbandonerà l’isola dopo la loro storia d’amore appassionata ma fugace) e lo scrittore amico Jean Selz.

Benjamin e Selz si erano conosciuti nel 1932, a Ibiza. Il rapporto tra i due si interromperà bruscamente, sfumando in un ultimo incontro a Parigi nel 1934, dopo aver esplorato assieme territori reali e oppiacei. Delle ragioni di questa rottura Benjamin non parlerà mai esplicitamente, alludendo solo a vaghi ‹‹motivi pittoreschi›› probabilmente intervenuti nel corso di una notte smisuratamente ubriaca. Anche in questo caso, mentre il testo narra l’oscura vicenda dell’allontanamento tra i due, la parte grafica introduce un terzo personaggio ricorrendo sempre alla tecnica del montaggio di un’immagine non didascalica (p. 166). Il disegno a china è un inserto grafico extradiegetico, trattandosi della sagoma di un personaggio ignoto, e non è immediatamente chiara al lettore la ragione di questo richiamo. L’intera narrazione grafica del libro è ricca di presenze non identificate, periferiche, che concorrono a realizzare una dimensione corale e allo stesso tempo evocativa, quasi mitologica. Un’umanità molteplice e spesso anonima abita il dominio visivo, esattamente a riprodurre l’oggetto dello sguardo di un viandante al quale accada di osservare e posare l’attenzione su particolari apparentemente insignificanti o su volti sconosciuti. Ma volendo cercare di comprendere una possibile genealogia della rappresentazione, il lettore-ricercatore potrebbe risalire ad una foto del 1933 nella quale compaiono Jean Selz, Walter Benjamin, Paul Gauguin (nipote del celebre pittore) in barca accompagnati da un pescatore: Tomàs Varò, l’uomo con il cappello e il volto oscurato finito nel disegno a china e mai nominato. È lui, comprendiamo solo dopo questa ricerca, che si chiede a un certo punto che cosa sia successo tra i due amici la notte in cui, al bar Migjorn, Benjamin collassa ubriaco dopo aver accettato una sfida alcolica con una donna polacca.

(J.Selz, P. Gauguin, W. Benjamin e il marinaio Tomàs Varò – Baia di S. Antonio, Ibiza, 1933)

Esiste un legame possibile tra l’esistenza e le forme di scrittura? É forse la scrittura il tracciato di un approccio alla vita, ai luoghi stessi in cui abitarla o disabitarla? Pajak sembra dirci di sì.

Il primo volume del Manifesto incerto è fondamentalmente un libro sul viaggio ed è scritto con lo sguardo di un viandante più vicino alla frenesia dell’esule che all’ozio del flâneur. Man mano che il testo procede, si chiarisce la ragione interna: parlare di Benjamin à la Benjamin ovvero privilegiare, rispetto allo sguardo del romanziere, quello del narratore, di chi cioè racconta a partire dalla parola viva trasformando l’esperienza soggettiva in luogo archetipico, in un certo senso, eppure sempre diverso (il viaggio che qui prende forma non è che questo, da sempre). Narrare è come viaggiare perché la conclusione, se c’è, non è l’elemento focale. Il viaggio, quella grande sovrastorica metafora della vita, è il presupposto stesso del racconto: è nello spazio di una traversata, immaginiamo pure quella della nave Catania dove Benjamin si imbarcherà più di una volta, che le persone si narrano. Lo spazio di non appartenenza che si costituisce in mare – quel non essere più nel luogo di partenza, ma nemmeno ancora in quello di destinazione – è quello in cui riscoprire il tempo del racconto. Il viaggio lungo (non il mero spostamento dove l’identità non si scompone), come il viaggio per mare, ha direttamente a che fare con la memoria (la Gedächtnis benjaminiana). È il movimento che si fa luogo e dà luogo ai ricordi in quanto esperienza (Erfahrung che – sorprendente coincidenza – deriva dal tedesco antico irfaran, che significa ‘viaggiare’, ‘uscire’, ‘traversare’ e anche ‘vagare’), la vita accumulata inconsapevolmente poi richiamata dalla mémoire involontaire proustiana.

Se il primo volume di Manifesto incerto si compone prevalentemente intorno ai viaggi in mare di Benjamin, da Berlino a Ibiza, il secondo (Manifesto incerto. Sotto il cielo di Parigi con Nadja, Andrè Breton, Walter Benjamin, L’Orma, 2021, pp. 224) è centrato sulla sua fuga a Parigi (e all’inesausto  percorrerla) introdotta  dall’ente meccanico che più ha rappresentato la modernità del capitalismo urbano: il treno con la ferrovia: ‹‹Parigi inizia sempre da una stazione›› (e in Parigi capitale del XX secolo Benjamin osserva come l’integrazione del ferro nell’architettura urbana sia stato impiegato essenzialmente nella realizzazione a scopo di transito). Nel vortice dell’ibridazione di generi che compone il libro, questa volta entrano anche la storia urbanistica, la storiografia e la composizione in versi, propria o citata: Manifesto incerto diviene così sempre più un organismo letterario multiforme che fa dello sconfinamento la sua cifra poetica.

Nel titolo del secondo volume la parola ‘paesaggio’ è assente, ma il cuore delle vicende narrate è il paesaggio urbano, luogo esposto alle trasformazioni incessanti operate dall’uomo, oltre che alle erosioni del tempo, frutto di una precisa storia sociale dipanata nel corso dell’ottonovecento. Parigi, qui, è ben più che un semplice scenario: divenuta personaggio, ne seguiamo quasi le reazioni alla vicenda del protagonista, le sue risposte ai tentativi di lui di abitarla resistendo alla tentazione di fuggirla continuamente, provato dagli stenti o dalle non appartenenze ai gruppi intellettuali di riferimento. Non tutti gli amori sono generosi di reciprocità e così Benjamin si lega a Parigi senza esserne ricambiato. La città sembra a tratti respingente, quando non indifferente, alla sua vicenda umana e intellettuale tanto che la sua richiesta di cittadinanza avanzata nel 1938 non otterrà mai una risposta.

Se la narrazione grafica nel primo volume presenta soprattutto scorci di un tempo passato, privato o collettivo, secondo il montaggio détour che abbiamo osservato, la rappresentazione a china del secondo traduce invece la ripresa in soggettiva di un viandante, questa volta personaggio più flâneur che profugo. Le immagini, di volta in volta, fissano volti e fisionomie perse per le strade, sempre colte nel gesto di un attraversamento, spesso incuriosite dallo sguardo ricevuto al quale scelgono di rispondere con un’occhiata distratta o diffidente, quando non con un sorriso (‹‹A Parigi, come in tutte le grandi città, gli esseri umani sono costretti a guardarsi. Non ad ascoltarsi, ma a guardarsi, osservarsi, fissarsi››). Sono gli sguardi per le strade di una Parigi contemporanea, dove Pajak ricerca quella novecentesca esattamente come Benjamin vi aveva cercato la sua traccia ottocentesca. Parigi è come un organismo che cambia pelle, trasformandosi continuamente (‹‹La distruzione di Parigi non è uno scopo, è un’attività. Parigi, non è stata distrutta una volta per tutte perché la sua distruzione è ancora in corso. E tutto ciò che viene distrutto è subito ricostruito, e tutto ciò che viene ricostruito sarà distrutto prima o poi››), ma non è impossibile nelle strade contemporanee ritrovare resti della architettura moderna che ‹‹muore proliferando››. Questo libro di poesia e indagine ci porta anche nel cuore metamorfico della esuviazione dei luoghi, prima ancora che delle vicende umane.

Affratellati a Benjamin nell’erranza, André Breton e Nadja, personaggi tra gli altri, figurano nel sottotitolo di questo nuovo volume. Quando, nel pomeriggio del 4 ottobre 1926, Breton conosce Nadja le chiederà chi sia e la ragazza gli risponderà: ‹‹Sono l’anima errante››. A Nadja, di cui si innamorò, dedicò un libro fatto di parole e ritratti, disegni e immagini di Parigi città surrealista, città-inconscio per le cui strade lanciarsi a esperire il meraviglioso del quotidiano. Breton è stato  l’artista delle visite dadaiste prima e delle deambulazioni surrealiste poi alla luce delle quali, per esempio, place Dauphine si era rivelata essere ‹‹il sesso di Parigi›› per la sua conformazione triangolare e alberata. Più che l’immagine ipnotica, Benjamin cerca nella città, trovandolo, il paesaggio esattamente alla maniera del flâneur (‹‹Paesaggio, questo diventa la città per il flâneur›› – scrive nel Passagen-Werk), mentre per Pajak essa è luogo linguistico, luogo che è parola, da cui far ripartire il racconto memoriale attivato da un senso di mancanza. Viaggiare, camminare, esplorare – e raccontare – sono un andare per luoghi alla ricerca di ciò che manca: che manca allo sguardo meccanico e frenetico della quotidianità o allo sguardo dominante. Come Torino ne L’immensa solitudine (pubblicato in Francia nel 1999 e in Italia nel 2004) aveva raccolto e restituito le storie di Cesare Pavese e Friedrich Nietzsche in una chiave di ‹‹lunga fantasticheria›› (al di fuori, cioè, di una restituzione strettamente biografica o teorica), così Parigi qui racconta di Benjamin e André e Nadja e Brecht, ma anche dei tanti altri anonimi che, se non nominati, sono intravisti nei vari passages che serpeggiano sopra e sotto la città come a costituire un sistema venoso urbano.

Opera formalmente ibrida e plurima, dunque, questa del Manifesto incerto, ma anche narrazione di molteplici esistenze. I primi due volumi incrociano quelle dell’autore e del filosofo tedesco secondo criteri di simmetrie o inversioni. Così, se nel primo volume è l’infanzia di Pajak che preliminarmente ci sottrae all’urgenza del presente, riconducendoci in quella soglia temporale indefinita dove i contorni del racconto sfumano eppure allo stesso tempo prorompono, nel secondo sarà il Benjamin bambino ‘storto’ e maldestro a suggerirci come, infondo, successivamente egli ‹‹non guarirà mai dalla propria infanzia›› (e testimonianza ne sono le riflessioni ad essa dedicate in più luoghi, da Angelus Novus agli scritti raccolti in Ombre corte e Figure dell’infanzia, solo per citarne alcune).

Allo stesso tempo, se nel primo volume si alterna il racconto delle rispettive vicende personali immerse nel flusso carsico della storia sociale, nel secondo si intrecciano soprattutto i luoghi: siamo continuamente sbalzati dalla Parigi del Novecento alla Parigi contemporanea, dalla Berlino degli anni Trenta alla Berlino del 2013. La Venezia del presente, da dove parte il viaggio per Parigi di Pajak e con le immagini della quale si apre il libro, è luogo malinconico per eccellenza che predispone l’autore al racconto della Parigi del Novecento (ma anche della stessa sua Parigi) che era a sua volta osservata da Benjamin per indagare quella dell’Ottocento permettendo, nel confronto, di portare a galla un interrogativo attuale e necessario ovvero in che cosa consista la differenza tra l’essere viaggiatori e visitatori, differenza evidentemente segnata dalla modernità del capitalismo. ‹‹Viaggiatori non lo saremo più››, sentenzia amaramente Pajak. Ciò che non dice – sotteso come una consapevolezza troppo dolorosa e impronunciabile – è che la turistificazione di massa ha sottratto i luoghi agli sguardi possibili, avendoli ricondotti a esibizioni cosmetiche.

Manifesto incerto è letteratura che prova a rigenerare lo sguardo prima ancora della parola, facendo del viaggio la sua struttura poetica (libro in viaggio più che di viaggio): laddove la cosmetica dei luoghi conferma aspettative, qui si cerca di disattenderle attraverso l’immagine détourné e la discontinuità della narrazione frammentata. Per questo, ad esempio, quando si raccontano gli anni della militanza civile e del Fronte Popolare, non troviamo alcuna immagine che li rappresentino bensì illustrazioni di boscaglia e sentieri tra piante selvatiche. Quali suggestioni mira ad evocare Pajak? Anche in questo caso, non si tratta di semplici suggestioni liriche, bensì di un innesto che genera un terzo possibile significato come se, a un tratto, le immagini a china procedano autonomamente alla maniera di una macchina da presa in soggettiva. Quella radura potrebbe essere il paesaggio sotto gli occhi di chi si stia allontanando da un luogo urbano (un’altra possibile fuga dunque), infatti accompagnano il testo che riporta le riflessioni polemiche di Benjamin su Leon Blum e all’altezza di un’altra sua citazione (il Manifesto è libro di citazioni, ci ha allertati Pajak nella Premessa) tratta dalle tesi Sul concetto di storia in cui il filosofo tedesco si identifica con i monaci in quanto a sprezzo delle faccende terrene, accusando i politici antifascisti di aver tradito la causa. Ma le sequenze grafiche sulla radura incontaminata ci permettono anche, da lettori, di affrancarci dalle riproduzioni visive consolidate, da una certa saturazione dell’immaginario storico, per accendere una nuova immaginazione di quegli eventi; ci offrono cioè l’occasione di dare spazio – e ascolto – alla loro nuova narrazione, a un modo più laterale di pensarli.

È dalla rigenerazione dello sguardo che può emergere una parola nuova attraverso cui fare strada alla narrazione oggi, nel pieno di una sovrabbondanza di informazione e di visualizzazione. La rizomatica andatura del libro di Pajak sottende due coppie antinomiche in una contrapposizione dialettica novecentesca: informazione versus narrazione e attualità versus storia. La parola che narra, cioè, è anche parola capace di fare storia, di rendere giustizia ad essa: ‹‹Il linguaggio che si oppone alla barbarie deve discostarsi dal linguaggio della barbarie, e cioè quella della propaganda. La salvezza del mondo passa per la salvezza del linguaggio›› infatti ‹‹Benjamin resiste alle sirene dell’attualità e resta fedele al proprio mandato di sentinella della Storia sommersa››.

Rigenerare la parola oggi significa, secondo Pajak che guarda e ci narra Benjamin, riattivare il circuito del narrare. Il racconto frammentato ed ellittico è il pentagramma desultorio della narrazione, di quella azione – per dirla con il Benjamin del Narratore – che ‹‹passa di bocca in bocca››. Solo chi sia ancora capace di viaggio è portatore di narrazione, ovvero di quel racconto che si genera dall’esperienza.

Se la tendenza letteraria dominante consiste in un movimento che riconduce all’unità di autobiografia e immaginazione, autore e io narrante, Pajak con quelli che ha definito i suoi ‹‹racconti scritti e disegnati›› intraprende una direzione contraria. Con i continui decentramenti di personaggi e di genere (che non un’autocompiaciuta voce narrante racconta, bensì una quasi ossificata presenza che riferisce in prima e terza persona di sé e degli altri) ci sembra che voglia proporci, più che un’esperienza di assimilazione identitaria con quanto leggiamo, una occasione di fuoriuscita, di dispersione, facendo di ogni racconto un passage tra noi e il mondo che sotto gli occhi si squaderna con un andamento frequentemente spirale ed ellittico.

Ellissi, intermittenze, deviazioni e corrispondenze cercate o mancate. Tra un libro e l’altro è possibile ritrovare dei richiami. Così, per esempio, quando verso la conclusione del secondo volume apprendiamo della preoccupazione di Benjamin alla notizia dello scoppio della guerra civile spagnola che raggiunge l’isola di Ibiza, l’immagine (p. 200) che ritorna e illumina a ritroso è scelta ancora una volta senza una diretta corrispondenza didascalica essendo esattamente quella realizzata sulla base della foto databile almeno tre anni prima, che ritraeva Benjamin, Selz e il nipote di Gauguin con il marinaio oscurato in volto, solo rievocata nel primo volume (attraverso il ritratto del solo marinaio) con il quale quest’ultimo si riconnette come in una spirale memoriale. C’è però una variazione significativa in questa riproduzione di Pajak che diviene un’immagine-ricordo rielaborata alla luce del presente diegetico, à rebours: Benjamin, qui, è ridotto completamente a un’ombra, quasi che l’oscurità si sia estesa – come una nube in transito – dal marinaio a lui, contagiandolo. Oscurità del sentimento, nefasto presagio.

Nel secondo volume di Manifesto incerto i contorni del viaggiatore, del flâneur e del vagabondo spesso si dissolvono confondendosi. Benjamin fugge da Berlino e approda a Parigi da esule, qui vive quasi come fosse un viaggiatore, ma si trova spesso a fuggire dai suoi creditori finendo col ‹‹vagabondare›› per la città alla ricerca di letti di fortuna così come, non potendosi permettere di acquistare libri, finisce col ‹‹rovistare›› nella sala lettura della Biblioteca Nazionale. Egli è, da un punto di vista prassico e semantico, anche un vagabondo. E, mentre leggiamo, ci scorrono sotto gli occhi le immagini di clochard assiepati negli angoli di una Parigi contemporanea e di cani randagi i quali, forse, più che al suo nomadismo rimandano a quello dei parigini, categoria sociale sempre più meticciata (‹‹Escluso non solo dal mondo della letteratura, ma anche dalla vita cittadina in senso lato, Benjamin finisce per fraintendere, perlomeno nei suoi scritti, il carattere autentico dei parigini. Ma chi sono davvero?››).

 

In generale, al proletario eroico delle grandi narrazioni coeve, Benjamin contrappone il lumpen (sottoproletario), come anche il, flâneur, la puttana, il clochard; egli stesso si comporta come ‹‹il cenciaolo che alle prime luci dell’alba solleva col suo bastone gli stracci linguistici per gettarli nel suo carretto brontolando››. Infatti l’autore, ritornando allo stilema del saggio critico, sostiene che le citazioni per Benjamin sono la forma conferita agli ‹‹scarti di pensiero›› che, così, diventano il vero e nuovo centro propulsivo della riflessione che rinuncia all’architettura sistematica, si fa frammento per essere. Serve raccogliere stracci e rifiuti, sostiene Benjamin infatti, ma ‹‹non per farne un inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli››.

Pajak, allo stesso modo, raccoglie gli stracci – le esistenze ignote mancate allo sguardo di sempre come anche le parti di esistenze note ma taciute dalla storia ufficiale – facendone creature, destinandole a un’inedita creazione poetica. Ci restituisce un’opera letteraria con affluenti diversificati, come abbiamo visto, ‹‹una sorta di letteratura›› che è anche lavoro critico, fatta di stracci e poesia. Che ricusa i toni assertivi e perentori tornati a fare da battito percussivo della comunicazione al tempo dei social, tempo dominato dall’informazione che consuma e si consuma rapidamente a differenza della narrazione che, invece, richiede tempo per decantare passando di bocca in bocca, di parola in parola, di sguardo in sguardo. L’autore si fa viandante e parla, da viandante, di un esule ma per raccontarci anche molto altro. E così, navigando l’incertezza, unica zona esistenziale ed ermeneutica restata forse ancora sondabile, ci rammemora che siamo tutti un po’ apolidi. È dalla voragine dello spaesamento che è possibile osservare davvero il paesaggio e chi lo abita. Solo da questo territorio deterritorializzato possiamo farci a nostra volta esuli apprendendo una verità antica, la stessa che tanti secoli addietro aveva  indotto al pianto un esule del mito, Ulisse alla corte dei Feaci, ovvero che – sempre con le parole di Pajak – ‹‹è con lo sguardo degli altri che riusciamo a vederci meglio››.

Mots-clés__Visione

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Hajime Sorayama, Dior's Pre-Fall 2019 menswear show in Tokyo

Visione
di Francesco Di Gennaro

Charli XCX – visions -> play

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Hajime Sorayama, Dior’s Pre-Fall 2019 Menswear Show in Tokyo

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Da: Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, capp. XLVII 25-31, XLIX 43-51.

Riguardandomi a’ piedi così andando
Mi trovai alla fonte, non avendo
Vedute quelle donne festeggiando:
E ’l viso alzai me stesso riprendendo
Del perduto diletto, e ver me vidi
Quella Doma venir, cui io caendo
Fra quel giardino andava: ove ti fidi?
Ver me dicendo […]

[…] ma ’l sonno offese
Là dov’io dolce allor facea dimora,
Perchè si ruppe, e più non si difese.
Tutto stordito mi riscossi allora,
E strinsi a me le braccia, e mi credea
Infra esse madonna avervi ancora.
Oimè, quanto angosciosa e quanto rea
Tal partita mi fu, e quanto caro
Mi fu il dormir mentre in braccio l’avea!

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

DANIELE DEL GIUDICE “levare a ogni frase la terra sotto i piedi

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Le storie, i sentimenti, i personaggi, la descrizione: riuscire a renderli totale provvisorietà; levare a ogni frase la terra sotto i piedi, levarle il fondamento, col gesto stesso con cui ci sforziamo di affidarla a una stabilità. Ogni racconto ci appare oggi simultaneamente del tutto fondato e e al tempo stesso del tutto infondato. Questo secolo ci ha educato alla memoria di entrambe tali condizioni. Questo continuo e duplice carattere di fondatezza e infondatezza della narrazione è una dimensione di probabilità, di pura probabilità. È ciò che risuona oggi nel limite estremo della scrittura: un movimento sotterraneo ed essenziale di probabilità e improbabilità continue. Ha a che fare, forse, proprio con l’ombra, con la quantità di ombra che il linguaggio porta con sé, che ogni parola porta con sé nel suo medesimo far luce, dunque dell’ombra che ciascuno di noi riesce a trattenere, a conservare e a far «parlare» all’interno della continua e probabile, puramente probabile luce delle parole.

[da Daniele Del Giudice (1949-2021) IN QUESTA LUCE Einaudi 2013]

La conversazione: Rossana Valle ( fu Anna Giuba )

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a cura di

effeffe

 

 

 

 

Farsi un nome. Anna Giuba e Rossana Valle. Sorelle, amiche, separate dalla nascita, due nomi distinti di natura indistinta? Chi sono?

 Uno pseudonimo è una semplice maschera bianca e teatrale che s’indossa per essere liberi. Si può essere chiunque, qualunque personaggio. Anna per Anna Magnani e Giuba perché erano le sigarette di Montale. L’ho deciso nel 2009, all’uscita del primo romanzo, “Lettera scritta dagli occhi”. Ero libera e molto innamorata. Anna Giuba era consapevole del suo talento letterario, spavalda, sicura di sé come donna e come autrice, mentre io, Rossana, ero umilissima e sotterranea. Non si tratta di dissociazione, è un semplice travestimento che però, per undici anni ha funzionato. Ora Anna Giuba è qui, molte volte, grazie a te che hai sempre creduto anche in Rossana, Ora Anna Giuba è nell’armadio insieme ad altri scheletri.

Mai state sorelle, se mai antagoniste. Rossana come donna era uno zero, Anna camminava a testa alta, consapevole di ciò che produceva.

Mi racconti dell’atelier diretto dal tuo agente e che ti ha fatto tornare sui tuoi passi per riprenderti il nome?

Giovanni Lamanna (Gilam Agency), è un maieuta. Arrivavo da tre anni di cammino sulla strada della consapevolezza, lui e il suo corso mi hanno fatta rendere conto di quello che sono diventata. Ho voluto mettermi in un gioco totale che riguardava non solo lo stile o la tecnica, ma anche i contenuti., mettermi a confronto con lui e con gli altri, e Giovanni, con la sua cultura, l’umanità profonda e ironica, e la professionalità assoluta, una sera mi ha fatto avere un’illuminazione. Basta, mi sono detta, basta. Non ho più nulla di cui vergognarmi, neanche nelle capacità. Così Rossana ha messo via la maschera ingombrante, si è ritrovata sola e felice, serena nella solitudine letteraria, La vera scrittura è sempre sinonimo di solitudine, lo sai meglio di me. Giovanni mi ha donato uno sguardo nuovo. Anche nei confronti del mio “immenso archivio”, come hai detto tu nella recensione a “Ritratto di famiglia”, libro bruciato dal Covid.

Mi racconti del tuo doppio percorso formativo? Accademia delle belle arti, lettere?

MI fa male parlare di pittura, ferisce. Sì, per molti anni hanno convissuto, lei e la letteratura, ma per me la parola era sacra, intoccabile, e ho sofferto per 40 anni di bulimia bibliofila, dipingevo e leggevo, senza osare scrivere. Leggevo due libri a settimana, alcuni anche in una notte, soprattutto classici. Nel 1997 ho scritto una raccolta poetica. La pittura era la materia, l’immagine, la visione astratta, la letteratura e la Poesia sono della materia dei sogni, più impalpabili ma anche feroci nella loro verità. Era ciò che ho sempre cercato, la verità nelle cose, ed è quello che facciamo tutti. Forse anche quando dipingevo c’era la verità, ma non così profonda, almeno per me.

Mi parli dei ritratti di tua madre e tuo padre? C’è una grazia che supera la notevole tecnica con cui li hai eseguiti. Come è stato il passaggio da un’arte figurativa a un’altra molto più concettuale? Chi sono stati i tuoi maestri, accademici e assoluti? C’è un’opera classsica, contemporanea che riassume per te il senso dell’arte?

Ai miei sono legata da un cordone ombelicale assoluto, d’amore e di speranza, che neppure la morte ha potuto recidere. Quando si è figli, ma non si sono avuti figli, credo sia giusto che non ci si stacchi mai. La grazia che vedi nei quadri è amore, l’amore dell’isola di innocenza che ho mantenuto per tutti  questi 58 anni. Quello che mi ha fatto scrivere “Ritratto di famiglia”. Il passaggio dal figurativo all’astratto, dalla materia alle parole, è un cammino lungo ma naturale. Viene da sé, è una ricerca continua, come avere due miniere differenti da cui attingere argento vivo, ma poi una miniera si esaurisce, la ricerca svanisce e ti trovi solo, con le parole e basta. E lì ti scateni, vieni posseduto dalla Poesia, lei è la creazione, lei non perdona. Sei solo uno strumento ben accordato, per una voce, un pneuma, che vengono da un territorio indefinito. Tu lo sai bene.

I maestri? Nessuno di quelli dell’Accademia ha lasciato traccia, tranne Giacomo Soffiantino. I Maestri? Tanti, per finire con Rothko, Pollock e Burri. Dopo di loro, il baratro. Ci sono due opere che salverei dal pianeta in fiamme: Guernica e la Deposizione di Caravaggio. Per la letteratura sono talmente tanti che non posso enumerarli, ma il solo, unico amore immenso e sempre rinascente da sé, è Dostoevskij.

In un momento in cui il tuo lavoro d’artista veniva riconosciuto sei scomparsa. Niente più gallerie, mostre internazionali. Via da tutto e da tutti. Ti andrebbe di raccontare cosa è successo?

E’ una caratteristica, quella di deragliare quando raggiungo un obiettivo. Non so perché, succede e basta. Ricordo la mostra a Parigi  vicino agli Invalides, nell’arrondissement dei Ministeri, in Rue de Bourgogne. Stavo male alla vernice, ma lì mi aspettavano gli amici, e soprattutto, Bertrand, che amava i miei quadri e, dopo trent’anni, mi ha cercata e mi ha trovata. Voleva ringraziarmi perché nei trent’anni è diventato regista, e mi ha detto che è stato anche grazie a me, che gli avevo trasmesso il fuoco sacro per la pittura e i libri, e l’immagine. Non stavamo insieme, ma eravamo in simbiosi, Bertrand, parigino puro con un gran cespo di capelli ricci e neri e che sembrava un rom. E’ stato lui ad insegnarmi il francese e l’argot.

Di Parigi del resto ricordo poco, i due grandi amori norvegesi, che erano belli e selvaggi e naturali, anche nel fare l’amore. Poi, una sera di un novembre qualsiasi, fui caricata su un’auto di un neuropsichiatra parigino, perché ero in piena crisi euforica:
Arild, il norvegese numero due, era partito per Berlino per il dottorato in filosofia e mi aveva lasciata sola,e avevo rotto i ponti con la realtà, per la prima volta, a ventotto anni. Fui internata, ma il disturbo non mi lasciò più, è solo per questo che sono costretta a vivere a Torino. Arild, in seguito, divenne uno dei miei collezionisti più accaniti, ora mi ha anche proposto di tradurre in norvegese “Ritratto di famiglia”.

Poi c’è stato il matrimonio sbagliato, Arild era arrivato da Bergen per farmi da testimone al matrimonio. Sedici anni di miseria vera, quella che ti fa sbattere la testa contro il muro, quella che ti fa stare sveglio la notte perché i conti non tornano, e non è davvero possibile farli tornare. Ho fatto anche la badante, per sopravvivere, ho lavorato in otto call center. Ho fatto l’errore cieco di innamorarmi di un ultimo, non uno dei tuoi “Penultimi”, proprio un ultimo. E di rinunciare a tutto. Però avevo “la lingua salvata”, quella era mia, potevo plasmare le parole a mio assoluto piacimento, e l’ho fatto, da quando il processo di evoluzione, e non di involuzione, è cominciato. Così ho scoperto che riversando tutta la cultura nelle parole, con la fantasia e il talento che mi hai sempre riconosciuti, sono diventata quella che sono oggi.

Come hanno reagito i tuoi amici artisti, familiari a questa cosa?

Claudio Lolli cantava “vecchia piccola borghesia, la tua condanna peggiore è avere una figlia artista”. Attenzione, non un figlio, una figlia. L’hanno presa come l’ultima bizzarria di una povera scema piena di illusioni. Gli amici artisti, invece. Quando stavo smettendo di dipingere ho frequentato per due anni un gruppo di artisti concettuali molto importanti, gente da Biennale. Ero il fanalino di coda, con i quadri. Mi hanno incoraggiato con la scrittura, perché sapevano bene che avrei perso il treno, con la pittura. Ho fatto un’ultima installazione al Progetto Aut Aut, e insieme una lettura di racconti, questo è stato l’inizio dell'”immenso archivio” letterario. Nel 2009.

L’esordio in letteratura attraverso la poesia. Perché?

La poesia. Si fa presto a dire questa parola, troppo. Tutto, la perfezione della creazione, l’ego si rarefa e si smembra per diventare universale, quasi non esiste. E la senti, la senti e senti quella degli altri, quando è verità e bellezza, e il sangue in cui s’intinge il pennino. Ora è il culto dell’immagine, lo splatter totale, e l’immagine non basta, ci vuole ciò che scava contemporaneamente nell’anima e nella società, e nella storia. Credo sia veramente arrivato il crepuscolo dell’intimismo, e meno male. Lasciamolo a facebook.

Come vivi il rapporto tra arte e letteratura? Come ti senti artisticamente a Torino?

Da anni ormai faccio una sola cosa, scrivere. E’ giusto così, bisogna fare una cosa sola, e metterci il fuoco sacro, quello non manca. Torino è un cimitero culturale, ma per ragioni personali non posso trasferirmi altrove. Ho vissuto tre anni a Londra e tre a Parigi, oggi forse non avrei più l’energia necessaria per gettarmi in un’altra cultura. Ormai c’è una tale omologazione che una città vale un’altra. E poi avrei tanto bisogno di natura, non di metropoli.

Cosa desideri in cuor tuo?

Sono sola. E felice di esserlo. Lontana dalle ipocrisie, dalla competizione, dalla sopraffazione travestita da marketing dello spirito. Grazie, Francesco, per aver sempre avuto una fiducia così grande in me e nel mio talento.

Trieste senza bora

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di Corrado Premuda

1.

Nonna diceva che si saluta con gli occhi, non con le parole.
Un amico d’infanzia ti saluta con la nostalgia di rivederti in quel bambino che non c’è più. A un amante basta un piccolo cenno per far tornare l’ultimo istante di intimità. Poi c’è il falso saluto dei nemici, ma chi ce li ha?
Scesa dal treno, il ragazzo mi sorride e dice ciao. Chiedimi qualcosa, la voce forse ti toglierebbe un dubbio. Seguimi. Io sono già all’inizio del binario, scivolo tra i passeggeri all’interno della stazione.

2.

Quanto sarà che manco da questa città? Domanda impossibile.
Trieste come Venezia, con i suoi vecchi grandi e belli, tutti per strada a discutere, a meno che non ci sia la bora che ti porta via. Ma oggi, senza un filo di vento, sembra di arrivare a Venezia, quando appare il mare dal finestrino e ti riempi di aspettative, pagato il pegno di Mestre.
In treno sono stata felice. Forse perché lì c’è una sospensione del tempo. Ci sono altre regole in vigore sui binari. È proprio vero che è un attimo, che è una bugia la felicità. Giusto un momento dopo, non appena questa muta pace ti spinge a formulare un desiderio, un sogno, un’aspettativa, ecco che la felicità l’hai già persa. Così, di colpo! Il treno si ferma e scendi. Forse perché in fondo la bugia dev’essere implicita, e non devi chiedere altro.
E io invece, magari, stavolta per me ho in serbo un sogno. Peccato.
3.
Dal letto, un po’ ipnotizzata, guardi il cielo: «Sembra quasi che la bora sia andata via da lì per venire qua… Forse mi segue. Anche lei? Non sarebbe la prima a volermi stanare.»
Poi il tuo sguardo si fa dolce e batti la mano sul letto per invitarmi a sedere vicino a te, col gesto che si usa con gli animali.
«Dove vivevo da bambina, costruiscono delle speciali finestre coi doppi vetri per tentare di arginare la violenza del vento. Tra un vetro e l’altro c’è un bello spazio, si possono mettere vasi di fiori. O sporgersi di sotto per guardare le teste dei passanti. Una specie di piccolo bovindo. Per me era come un palcoscenico, una gabbia di vetro, in cui esibirmi e fare spettacoli per chi, dall’altra parte della strada, si fosse affacciato a guardare. Ma il vento lì è fortissimo, davvero impressionante.» Ti sei interrotta e con aria sorpresa hai terminato la frase: «Fortissimo come questo, in effetti. Forse dovrei correggermi e dire che una volta la bora era fortissima e che non lo è più, stando al discorso di ieri di mia madre. È inevitabile che tutto cambi… anche la natura? Ricordo bene quando la sera mia madre rientrava tardi da teatro e veniva a letto a darmi un bacio: io non aspettavo altro.»
***

Storia di un piano inclinato

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Foto di prettysleepy1 da Pixabay
Foto di prettysleepy1 da Pixabay

di Giorgio Castriota Skanderbegh

Il lato della faccia ti pulsa, mentre il finestrino prisma il sole fino a cuocerti lievemente la carne, la tua mano a fare da spessore con le dita incastrate tra tempia e vetro. Guardi il paesaggio tirarsi via in direzione opposta e, come tutti alla tua età, immagini (vedi, in effetti) l’ometto che corre equiveloce alla macchina, e che salta e schiva cartelli e cespugli; la differenza nel fatto che tu in quell’ometto ci vedi una versione in scala di Obi-Wan Kenobi [McGregor | Guinnes invece per l’acrobatico non va bene (e in più McGregor è la versione che conosci meglio, anche se non sai che tuo padre non è d’accordo con te)], che quindi ha anche la spada laser per fare a fette 1 ostacolo su 3 in una gioia di scintille. Non è una parte della città che ricordi, e in effetti le case sono sempre più lontane tra loro; normalmente non ci fai caso, ma le tue richieste di conoscere l’itinerario sono state testardamente e sospettosamente rimbalzate al mittente, con quel tipo di elettrica complicità che è quasi insopportabile quando ne sei al di fuori. L’esasperante cospirare non è finito a casa, e tuo padre – che guida con la mano destra mentre la sinistra gli circonda il mento, gomito sul davanzale del finestrino – lancia intermittenti occhiate impazienti a tua madre, e quando anche lei lo intercetta entrambi sorridono.

Tua madre è sul sedile del passeggero; da dove sei seduto, se solo giri la testa scollandola dal finestrino, puoi vederla mentre si batte le ginocchia a seguire la musica, e che indossa quel coso che è un paio di jeans che continua fino alle spalle e poi va dietro e ridiventa jeans. Nei capelli ha la maggior parte di un cerchio che sembra di plastica ma che è di tessuto in realtà. Quando non porta il tempo le sue mani si riposano a coppa, una dentro l’altra, e anche lei guarda fuori. Ti chiedi se vede anche lei l’ometto saltante, e da che film proviene il suo. Ride spesso: è di umore limpido.

Sei distratto mentre tuo padre fa quella cosa di girare il volante con il palmo di una sola mano che tu proprio non capisci, ma avverti comunque la forza centripeta che ti solletica verso il centro del sedilone di dietro, tutto il tuo corpo tirato via dalla portiera. Le ruote della macchina fanno ora quel rumore che fanno in tutti i ristoranti fuori città, e che tu associ a matrimoni e a parenti che non vedi molto spesso ma che quando li vedi hanno attenzioni particolari per le tue guance e proprio non vogliono lasciarti stare i capelli. Quando tuo padre viene ad aprirti la portiera e scendi dalla macchina provi la stessa sensazione sotto la gomma delle tue scarpe, quel cricchio cresimale, e vedi che però non sei a un ristorante; c’è un palazzo piatto e basso, e intorno ci sono cosi dove si coltivano (ti sembra) i pomodori. Sei ancora quasi attaccato alla macchina mentre tua madre ti porge la mano – tuo padre è andato avanti. La macchina fa uno scatto e lampeggia. Chiedi di nuovo spiegazioni, e di nuovo inutilmente. Tua madre assicura che ormai siete arrivati, e che non c’è da aspettare molto.

Papà si fa raggiungere e fuori dal palazzo piatto vi viene incontro un signore, che ha quei baffi grigi e quegli stivali alti verdi, e un pantalone-spalla-pantalone simile a quello della mamma, ma meno elegante e leggero. Ha anche un sorriso familiare, e chiaramente vi stava aspettando. Ora, subito prima di entrare, fa più caldo, e sei grato di varcare la soglia.

Decisamente non è un ristorante, pensi adesso; per prima cosa l’aria non è cambiata molto da fuori a dentro, in quanto a temperatura, e poi tutto ha quell’odore che non è esattamente sporco, ma che non è neanche di ossessivamente lavato. Il rumore poi; il rumore ti assale come un matto, e fisicamente preme contro le tue orecchie e pure contro la tua pancia; sulle prime non capisci che razza di frastuono ti sta arrivando con tanta ferocia, e perché non sentivi niente prima di entrare, poi il tuo cervello comincia a fare dei collegamenti; non vedi (perché stai guardando avidamente avanti) che tua madre e tuo padre non si perdono un momento del tuo processo di realizzazione, guardandoti e trattenendo le risate da in alto alla tua sinistra, e anche il Signore Baffuto assiste entusiasta. I tuoi occhi vedono – e il resto di te mano mano elabora – grandi piastrone di luci che piovono direttamente su quelle che ora capisci che sono gabbie. Adesso senti, e riconosci che il casino indistinto che non afferravi è quello che si può produrre solo dove c’è una grande concentrazione di cani. L’ultima parola la dici davvero, e talmente ad alta voce che tuo padre ti poggia una mano ovattante sulla cima della testa, ovattante ma non rimproverante; ora tiri alla mano di mamma come (guarda un po’) un cane tira il guinzaglio, e i tuoi piedi moonwalkano sul posto fintantoché un peso con cui non puoi competere ti trattiene. Ti vengono dietro, e finalmente vi avviate in una delle corsie in cui è diviso l’ambiente. Non sei mai stato in un canile, ma ne hai visti in quasi tutti i film che danno su certi canali, nel bene e nel male. Sono gabbie, sì, ma non rugginose e terribili, non buie e strette – non sono le gabbie dell’antagonista, queste, ecco –; i cani ti sentono e vedono da molto lontano, e prima ancora che tu sia realmente entrato nel corridoio tutti – tutti, fino a quelli che riesci a vedere più giù – gli occupanti delle gabbie si sono fatti avanti più che potevano, schiacciati contro le maglie tanto che una rete di rombi a negativo di pelo sporge fuori. Vuoi andare più in fretta, ma saggiamente i tuoi genitori mantengono il passo. Ti sembra di camminare in un unico grande abbaio costante.

Contro la prima gabbia in ordine di vicinanza si dimena un cane che il Signore dei Baffi chiama Colli o una cosa del genere; per la maggior parte del tempo sta su con le zampe incastrate nei punti di non-rete della rete di ferro, ma ogni tanto atterra di nuovo e fa una specie di piroetta, in qualche modo senza staccare gli occhi di dosso a te e a i tuoi genitori. Hai un bruciore che ti tira nella sua direzione – i tuoi arti non riescono né a stare né a direzionarti nel giusto modo, quindi la tua posizione è ferma dinamica, come il ritratto di qualcuno che scende le scale, né da una parte né dall’altra. Vedi Colli nella macchina, a dividere con te la forza centrifuga del sedile posteriore, steso in una coperta guardandosi intorno come se tutto fosse nuovo (ed effettivamente lo è), e vedi il suo angolo in casa tua, che pretenderai posto nella tua camera, dove metterai la suddetta coperta e almeno tre cuscini; e ti vedi passare i pomeriggi lì, a fare finta di leggere per la scuola ma in realtà a fare più attenzione a come fare più attenzione al cane mentre guardi il libro. Lo hai chiamato Batman.

Ora la tua mano ti ha superato, e con lei il braccio di tua madre che ci è attaccato, e lei e i due uomini ti guardano incoraggianti per proseguire. Sei ancora a metà del passo. La gabbia alla tua destra contiene un cane che è meno fluffo di quell’altro, ma che fa partire i tuoi occhi con i cavetti rosso e nero. Baffi lo chiama con un nome da uomo, anzi da signore: Rass, ma tu sai che non è giusto: è Milo, il cane di Jim Carrey in The Mask, e tiene le zampe al suo posto alla larga dal ferro, ma la sua coda è alta, e il suo sguardo, come quelli di tutte le creature in questo stanzone, è fisso laser su di te. Il suo atteggiamento cambia quando siete in macchina, e allora sì che alza le zampe sul coso poggia-gomiti e guarda fuori, occasionalmente saltellando sulle tue cosce per poi ritornare a non perdersi niente del panorama scorrevole. Gli piace stare sul divano e guardare i cartoni con te, e gli mostri dov’è che l’hai visto per la prima volta, e lui guarda attentamente la sua precedente carriera, e chi è quel signore con la faccia verde che va così veloce e non sta zitto un attimo. È Natale e gli hai ormai insegnato a non saltare sull’albero, anche se è pieno di giochi chiaramente per cani. Lo vuoi chiamare Batman, ma per ovvie ragioni (e per ulteriore ignoranza di copyright) lo chiami Milo.

C’è ora un dondolio interrogativo nella tua mano, inferto da tua madre che ti sta guardando come prima, solo stavolta con il sorriso non esattamente in pieno spolvero, come scalini sbeccati dalla pioggia, e tuo padre toglie una mano dalla tasca; ma tu non percepisci niente di tutto questo, perché nei hai visto un altro (che chiami Batman) e per il quale hai fatto comprare appositamente una di quelle piscine rotonde gommose che non riempi d’acqua perché non hai il giardino, ma che va bene lo stesso come letto/arena di gioco, e questo decisamente lo hai chiamato Batman, e gli piace quando stai appena per chiudere gli occhi saltare sul tuo letto e ingirellarsi di fianco, vicino alla tua pancia; ma vedi che c’è un altro Batman che ti guarda dalla gabbia successiva, che porti con te la sera a passeggiare quando hai quasi finito la scuola superiore; e ma nella gabbia accanto ci sono altri due Batman insieme – che a questo punto uno è Robin – che hanno le code a metronomi sfalsati e ogni tanto fanno un piccolo abbaio, e siete insieme al mare a prima aspettare il- e poi scappare dal- piatto piano di onda che arriva fino alla fine della spiaggia più scura, e poi correte di nuovo dove la sabbia bagnata si strizza con le vostre orme cambiando tonalità. Ma ti sei distratto dalla singola gabbia ora, e vedi che il numero è uno che non sai contare, che ce ne sono, che c’è una dietro l’altra, e puoi vedere contemporaneamente il Batman di quella più vicina e della prossima, e anche di quella dopo; infinite gabbie, infiniti cani, infiniti viaggi in macchina di ritorno, quello che non vedi più è la fine della stanza, la parete opposta a quella da cui siete entrati – al suo posto c’è ora un cielo stellato che non sta fermo e sfrigola, le stelle che navigano a destra e sinistra e ritorno, lasciando la scia: devono essere stelle comete; e il frastuono canaio non c’è più, ti rendi conto, e nelle tue orecchie c’è solo e soltanto il Tempo che urla per essere ascoltato, ma urla mooolto lentamente, e la sua voce è diventata mooolto grave; Aspetta, gli senti dire da una grande distanza, e ora la spalla ti fa male, ora le stelle sono più forti e grasse, e pulsano di calore che senti tutto sulle guance, e la spalla ti fa male e non sai perché; poi le ginocchia, che comunque non riesci a guardare, sbattono forte, e le stelle recedono per un momento per poi tornare più forti di prima, e la spalla ti fa male; il Tempo urla sempre più vicino a velocità normale, ora, e sta urlando il tuo nome, e tu lo senti pressare contro le orecchie; la spalla non ti fa male più e la tua mano viene finalmente lasciata, che è un sollievo perché sei veramente stanco, e le ginocchia hanno battuto troppo forte; allora apri la bocca per dire che sei molto stanco, ma ora i tuoi occhi si chiudono senza l’aiuto delle palpebre, e quando si riaprono le stelle sono ora davanti a te, e sotto la tua testa c’è il duro, e un anello di teste di Mamma Papà e Baffo non riesce comunque a oscurare le stelle che brillano talmente forte che devi chiudere gli occhi per davvero, ora. L’unica e ultima cosa che riesci a pensare è a quanti Batman e occasionale Milo ci sono intorno a te, tutte le permutazioni di possibilità, le stringhe di tempo che convergono tutte nella fotografia di un te più adulto in piedi di fianco a un buco nel terreno.

È la guancia che ti fa aprire gli occhi questa volta. La luce nella stanza è di nuovo troppa, ma questa volta è statica, e non arrivano urla alla porta dei tuoi timpani che pretendono di entrare subito; anche i gorgheggi canari sono spariti. Capisci dove ti trovi – l’hai visto in televisione – e lo sguardo ti saetta alle braccia, e con sollievo constati che non ci sono tubicini che escono dai tuoi polsi, e neanche (deduci) quel coso che fa bip e disegna la linea spezzata. Tua mamma si avvicina al letto in meno di un movimento, come saltando un frame: un attimo è alla porta, un attimo è attaccata al tuo letto e ti struscia la mano sulla faccia, delicatamente, e ti tocca tutte le parti della testa come cercando difetti strutturali. Allora avverti il bubbone che hai alla base del cranio sotto i capelli, e trasalisci al solo tatto. Una signora con un camice bianco che finora non avevi visto ammonisce di non esagerare e tua madre rilutta ma ti adagia di nuovo sul cuscino, con la testa reclinata da un lato. Ah, sei a letto. Papà appare sull’uscio con due bottigliette sudate tra le mani e quando vede la scena si affretta anche lui, parlando qualche parola vestita per suonare più sicura di quello che è davvero; eccoli lì: Baffo è sparito, e ora ci sono Mamma Papà e Signora che ti stanno intorno. L’odore è marcatamente più pulito. Il soffitto è normale.

Non capisci quello che è successo, non davvero; vedi soltanto quello che puoi percepire esternamente. Vedi Mamma e Papà che parlano con la Signora che ti indica con mano ottimista, e vedi che ogni tanto lanciano uno sguardo nella tua direzione; non capisci perché ogni volta che provi a pensare ai tanti cani, alle tante possibilità di prima, ti minaccia un mal di testa che aspetta giusto fuori dal campo visivo; e soprattutto non vedi che nel corpo dei tuoi genitori c’è quell’ombra lunga e stanca di chi crede di aver visto il tuo futuro.

Pensare di provare a pensare: su Situ, di Steven Seidenberg

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di Renata Morresi

Un lui senza nome emerge da un discorso che continua, che lo coglie impegnato a cogliersi, in una inesausta esplorazione del proprio pensare e proprio lì, in quel tempo e luogo dov’è la ‘sua’ panchina, in situ, dove si presume tutto si sia formato. Intricato labirinto filosofico o parodico sabotaggio dello stesso? Riflessione sul senso del riflettere o sul nonsenso dello scriverne? Ogni sezione del testo affabula chi legge con la sua forza centrifuga e lo ammonisce: non potrai divagare da questa eterna divagazione, lettore! Qualcosa rimane da imparare: “si cerca solo di dire a se stessi ciò che si considera sospetto” (34). Ad ogni capoverso il nostro candido pensatore capovolto, commutatore del fuori col dentro e a rovescio, compone un’altra virtuosistica curva. Penso alle sette camicie sudate dal traduttore, Pietro Traversa, teso a comporre “il decomporsi di quel pensiero che trova il proprio compimento proprio in quella sorta di abbandono volontario da parte di chi lo ha concepito” (11), un tour de force di invenzioni e rilanci, il suo, che insegna qualcosa su quanto ogni testo da tradurre sia anche un manuale di metodo.

È proprio vero che l’arte, lo suggerisce Badiou, è l’unica cosa finita in natura. Seidenberg sembra raccogliere il paradosso per rilanciarla nella sublime parodia del suo infinire. Si può ridere, meditare, elucubrare, fantasticare, leggere a caso, o all’indietro, proprio come fosse un dizionario delle posizioni, che abbandona la pretesa di dire e si abbandona ad esso. O, per la sua incantata meta-polifonia, come lo definisce Micah Zevin in una recensione al libro, “un romanzo”.

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(dalla prefazione di Lidia Riviello)

Questo testo contiene altri testi, dinamici perché allusivi, in quiete perché intuitivi, è parte di una forma, la forma della fine, è il pezzo di scena più che conclusivo, sconclusionato, nel senso che non può trarre le conclusioni né dal testo stesso né dal lettore che fa attrito con una materia sfinita eppure tesa, che contiene lo sfinimento per una ricerca dell’ultimatum, della proposta perentoria alla ‘domanda’ che è sempre sul punto di farsi mondo e dunque: ‘Se un mondo resiste come tale non può essere un istante’. La fase conclusiva in Situ è provvisoria, finale che è posizione, ubicazione momentaneamente trovata, escogitata, allestita in forma di architettura, di ossatura dell’ipotesi, in un’opera che è tutta una escogitazione continua, una grande ‘mossa’. E infatti il testo è mosso, scosso da un continuo e pervasivo ritmo circadiano. In Situ, mentre ‘non si dovrebbero fissare le proprie speranze troppo in alto’, dal fondo si fanno emergere, si sottraggono alle speculazioni, fondi e residui, addensamenti sfibranti, rese, conoscenze arrese, codici: ‘il vuoto sacro’. Un riferimento, una proposta di argomentazione eppure per dirla con John Donne: ‘prendimi a te, imprigionami, perché io tranne che tu mi soggioghi, non sarò mai libero, né sarò mai casto, tranne che tu mi usi violenza’. Dunque non è possibile liberare le nostre posizioni in questo divenire se non in una condizione di ostaggio che nella ostensione dei testi conduca a una esaustiva calma, quasi imperturbabilità. Situ si legge a ritroso in senso anche doppio di ritroso ‘per selvatichezza non arrendevole, cedevole’: ci si può avvicinare ‘per distanza’, e se, ancora, ‘ritrosi sono coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, sì come il vocabolario medesimo dimostra; chè tanto è a dire a ritroso quanto a rovescio’ , allora anche in questo senso nel senso del contrario degli altri si può leggere situ al rovescio, cioè ribaltando lo schema della lettura di una grande opera di pensiero. È questo, ma è anche opera del ripensare ogni paradigma assimilato, destituito, recuperato da possibili esperienze di lettura e di scrittura. […]

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(da una nota di Michael Palmer)

Impegnarsi nella lettura di Situ, di Steven Seidenberg, è come attraversare lo specchio della coscienza verso un mondo tragicomico di “spasmi mnemonici” e del “nulla del luogo”. Quindi mi trovo a pensare, dove sono? E cosa sono? E quando? Avvertiamo il mondo fenomenico scorrere via, mentre ci meravigliamo del campo del linguaggio e del pensiero così portato alla luce.

°

(da Situ)

Gli piace pensare che tutti fossero già esistenti prima di essere…prima di essere come l’io il cui essere è ciò che sono diventati. Gli piace pensare che almeno in questa maniera lui non sia mai singolare, che in qualche modo possa pensare al noi e intendere più che qualche uno. E non solo intendere, ma in qualche modo offrire, come referente nel mondo per quel muto bene comune, tra i suoi pensieri quello di un’attualità assicurata. Quando pensa al noi, pensa – e non lo fa così spesso – pensa che non sta pensando ad altri che potrebbero essere come lui è, come regola, piuttosto a quelli immaginati come coevi, come suoi colleghi, una compagnia congetturata come parallela…

Φ

Non sa se tali persone siano reali – o siano, cioè, concorrenti col suo pensare che lo siano; non ha alcun indizio che si siano allineati ai suoi indizi, e in ogni caso non è incline a supporlo. Quello che veramente sa – ciò che gli permette di scuotere questo sotterfugio di base, di un tesoro comune – è che sia più che capace di pensare a una tale pluralità di scopi, o un tale scopo singolare – una tale esistenza singolare – sostenuta al plurale, come un massetto modale, e non solo ne è capace, lo fa, non può non farlo; è esattamente ciò che fa e farà…

Φ

Abbiamo tutti avuto delle vite, si ripete, prima di averle vissute – prima che si pensi di essere imbevuti di una tale estensione. Potremmo vantarci di ricordare quei primitivi risvegli ma non li possiamo ricordare, non sono raccolti sulla soglia del proprio esser come, ma come contorsioni della propria natura in ricerca. E quindi si domanda – come si può distinguere quell’addebito passato a un passato assente come sostanza…come la sostanza dell’ego che non può altrimenti identificare un referente nel mezzo di quell’astrazione, di quel pignoramento? Come concepire il rilevamento di un mondo prima della presenza di una seità per viverlo, per riceverlo, una seità che è condizione necessaria per una totalmente intuitiva…totalmente istintiva convergenza nel nome di un tale ricevere? E se non è un concetto, se è più che una concezione…

Φ

Se una volta era un grumo di viscida putrefazione – e sembra una semplice inferenza da altre dello stesso genere – era un tempo della sua vita – nell’ontogenesi del suo corpus – servito come precondizione per il venire all’essere dell’ego che lui oggi vive. Che ciascuna iterazione di una solvibilità degradata sia allo stesso modo singolare – incapace di esser intercambiabile – potrebbe non provare l’inaspettato, ma questo non vuol dire che lui abbia trovato un modo…ma lui ancora non ha trovato un modo…pensa che nessuno abbia mai trovato un modo per far significare quel significato qualcosa…significare qualsiasi cosa particolare rispetto a questa particolarità, questa simultaneità vissuta di vuoti disperati…

Φ

Se si è venuti ad essere – alla stasi, nel flusso – grazie alla ricezione…del mondo intercettato, deve esserci allora una fase nel consumo di quel duro lavoro che equivalga al riceverlo prima che si possa interpretare la posa come aspetto, o tendenza – prima che ci sia un io per adocchiare quell’estensione inestimabile. Perché no, pensa, è giusto; ci sono tante cose…tante sottigliezze della propria giovanescenza che sa di non avere modo di ricordare. Non ha preoccupazioni, cioè, non è mai arrivato a tanto e non cambierà la sua inclinazione, non senza qualche beneficio del cambiamento reso apparente…reso dimostrabile, come un effetto noto. Del volgersi all’indietro o in avanti, volgersi internamente o esternamente…

Φ

Non gli interessa di non poter riportare alla mente così tanto di quello che ha reso la sua mente capace di portare qualsiasi cosa alla mente, se non per il fatto che una tale storia rivelata è comunque un passaggio nella resa diligente dell’io che è arrivato a pensare come la sua seità, la propria – il suo arrendersi all’arrendersi, all’arrendersi ancora; che l’insieme di tutto quello che manca dal conteggio delle sue distinzioni è maggiore dell’aggregato di quello che è stato dimenticato, quello che precedentemente è stato in schiavitù ma è ora liberato, allontanato dalla vista…

[…]

Φ

Tornare al punto. Deve tornare al punto. Sempre indietro. Deve sempre tornare fino al punto. Il punto in cui ha iniziato, quando ha iniziato a tornare al punto, lì sulla panca lungo il confine della panca…

Φ

È partito da quel punto ricordandosi il suo penultimo tentativo di tornare al punto – l’ultimo che a questo punto riesce a ricordare, se non altro. E quello, ricorda, era solamente il punto di ricordare il ritorno che per ultimo ha incontrato; non può confermare, cioè, che quello che ha nominato come ultimo sia in realtà il suo tentativo finale di trovare la propria strada attraverso la forgiatura di derive montane e boschetti intricati, e questo sembra un’imprudente mancanza nello spazio della sua consapevolezza, un indizio di quello che torpidamente tormenta la sua crudele ignoranza, la sua stretta flaccida. Dice tra sé e sé che è inconcepibile tentare di dire tra sé e sé e di trovare il suo sacrificio inconcludente, che non si può mai identificare propriamente una differenza – tracciare un metodo per distinguere – tra tali tentativi falliti e quegli stessi atti di raccontare, di ripetere come di raccontare…

Φ

Cerca di convincersi – uno cerca di convincersi, pensa – e questo tipo di sforzo è sicuramente destinato ad essere sventato, se sei fatto…se sei costituito, come lui, che equivale a dire che testi le affermazioni delle proposizioni offerte confermando al mondo la verità delle proposizioni stesse che hai testato…

Φ

È per la considerevole impertinenza di tutte queste vuote mimesi che il provare ha un senso solo se distinto dal fare, se è concepibile che si debba provare e fallire. Dire che si stia provando a persistere nell’assenza di certe minacce verso quel timido assenso – o qualche minaccia immaginaria, se non proprio così feconda, così reale – è un’assurdità come qualsiasi vana tautologia proposta come una premessa, o una prova…

Φ

È ridicolo, pensa, pensare di provare a pensare, ma provare a pensare a qualcosa…a qualcos’altro quando ciò che si pensa ora richiede un’attitudine adatta, e il pensare al pensare altrimenti – il provare a pensare altrimenti – include nel suo eidolon il pensare lo stesso, beh, pensa sia inutile dire – che sia incontrovertibilmente il caso, cioè, che si faccia realmente…che si pensi sia necessario farlo o meno – che certi tentativi di concentrazione spesso falliscono…

Φ

E così ha raggiunto la sua prima conclusione – o se non è la prima, è sicuramente la più recente – che ogni tentativo di dirsi di tentare di garantire per ciò che si dice per mezzo di ciò che si sa esser spurio, certe volte facendo appello a un’inclinazione erratica, e altre alla ripetizione compulsiva dello stesso…

Φ

Così dice a se stesso; si cerca solo di dire a se stessi ciò che si considera sospetto…ci si rappresenta nel tentativo di parlarsi solo dopo aver realizzato che tale tentativo è fallito. In effetti è abbastanza raro, cerca di dirsi al momento, pensare che si stia cercando di raccontarsi al momento, volendo dire quello che ci si dice ora e che si sa esser sbagliato…

Φ

Steven Seidenberg, Situ, Arcipelago Itaca 2021. Con una nota introduttiva di Lidia Riviello. Traduzione di Pietro Traversa.

Amore e scienza della fine dell’amore

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di Andrea Inglese

Frammento

Quando mi sono reso conto con sufficiente sicurezza, in virtù di varie prove ogni giorno ripetute e di ogni genere, che io e Hélène ci amavamo, che sì davvero io amavo Hélène, ed Hélène amava me, proprio allora ho cominciato a prepararmi alla fine, alla fine dell’amore, alla totale distruzione dell’amore, al grande falò, all’abbandono, al ritrovarmi solitario cane su di una banchina desolata e battuta dal vento, senza barche in vista sul mare né persone sulla terraferma.

Tutte le prove dell’amore mio e di Hélène, amore impetuoso e ricambiato, tutte queste prove, che ogni giorno vengono offerte e raccolte, anche involontariamente, non sono discutibili, non vi è ragione che possa respingerle o confutarle, e basterebbe l’intuizione semplice, senza applicazione argomentativa e analitica, per capire quanto io ed Hèlène ci amiamo, e che proprio ora, anche se non si sa bene fino a quando, noi siamo nel pieno del nostro amore, portati sulla cresta dell’onda dell’amore, senza davvero nessuno sforzo, poiché l’amore è una spinta, un motore, qualcosa che eccede le singole motivazioni e i singoli significati, e trasporta ogni cosa, ogni gesto e ogni ora, senza chiedere e rendere conto, tutto l’amore è dentro questo movimento senza fatica, continuo, eccessivo, e mai stancante.

Io so che amo Hélène, e sono per approssimazione certo che Hélène mi ama, anzi sono almeno altrettanto certo del fatto che Hélène mi ami quanto del fatto che io la amo. E proprio in virtù di questo, per stringente conseguenza, Hèlène ama gli uomini, Hélène ama gli uomini almeno quanto io amo le donne. Hélène, pur amandomi, ama gli uomini, gli altri uomini, anche perché Hélène ama me, in quanto io sono un uomo, io sono uno degli uomini, quello degli uomini che lei ama, che ha deciso di amare in modo particolare ed esclusivo – certo, fino a prova contraria. D’altra parte, è pur vero che io amo Hélène in quanto amo le donne, che io amo Hèlène in quanto è donna, in quanto è la donna che io ho deciso, o che non ho potuto fare a meno di amare, tra tutte le altre donne, di un amore particolare – almeno fino a prova contraria, certo.

Come posso io immaginare un amore forte come quello di Hélène nei miei confronti, se Hélène non mi amasse in quanto sono uomo, in quanto gli uomini sono amabili, in quanto – nella sua vita – conta così tanto l’amore per gli uomini? Posso forse io immaginarmi di amare così tanto Hélène, se io non amassi in lei la donna, quella donna che – tra le donne che amo – ho deciso di amare in modo privilegiato, esasperato, raccogliendo tutte le mie forze amorose, per efficacemente amare almeno lei sola tra tutte le altre?

Ora, è anche vero che Hélène, pur amando me tra tutti gli uomini, e amandomi in quanto sono uomo, non ha cessato per questo di avere fantasie sugli uomini, ossia lei fantastica quando incontra degli uomini, poiché lei mi ama, poiché l’amore è per lei così importante, poiché il nostro amore la riempie così tanto, per questo motivo lei non cessa di fantasticare amori, e incontrando uomini s’immagina grandi amori, grandi almeno quanto il nostro. Poiché Hélène sente così intenso, raro e speciale il nostro amore, ciò fornisce a lei un modello narrativo particolarmente efficacie di amore riuscito, di amore d’eccezione, e per ciò stesso lei può fantasticare, ora, a maggior veduta, sugli uomini che incontra. A tal punto lei è innamorata, coinvolta senza riserve nel nostro amore, pervasa d’entusiasmo e di allegria, così a me dedita e fedele, che il nostro amore è l’archetipo principale su cui si modellano le sue fantasie d’amore, archetipo e motore, da cui le sue fantasie traggono sempre nuova energia, a ogni nuovo incontro di uomini.

Non c’è uomo davvero interessante e bello che Hélène incontri, rispetto al quale non agisca, con tempestività, la carica energetica dell’amore che lei prova per me, catturando il nuovo venuto dentro lo scenario solidissimo del nostro amore, utilizzandolo come marionetta, cascatore, comparsa, per variazioni ulteriori, mascherate, carnevali dell’esperienza amorosa che così potentemente ci trasporta, e invade. Tale è l’amore di Hélène per me, che il suo amore per gli uomini ne risulta moltiplicato, e crescendo esso d’intensità crescono anche le fantasie d’amore che ogni altro uomo può suscitare, ricordando ad Hélène quanto l’amore che lei sperimenta sia forte, quanto possa essere forte l’amore, e quindi primeggiare sempre, e manifestarsi nel mondo, prendendo spazio all’improvviso tra due persone.

L’amore di Hélène per me, così certo, indiscutibile, evidente, minaccia costantemente di distruggermi, di portarmi al punto dell’inevitabile rottura, dell’abbandono che nessuna supplica potrà più differire. Quale garanzia ho che la carica energetica, che costantemente trascina nello scenario del nostro rapporto amoroso ogni uomo nuovo e attraente incontrato da Hélène, spogliandolo della sua particolarità ai fini di un’azione dimostrativa di marionetta, permanga superiore a quella che quell’altro uomo potrebbe scatenare? Chi mi dice che, una volta inserito nel nostro scenario al fine di confermarlo una volta di più, con qualche accento inedito, con una sfumatura fisica o morale differente, egli non rimbalzi come proiettile contro l’archetipo, bruciando la sua struttura, consumando i dettagli splendidi che lo rendevano ipnotico e vincente, devastando per sempre l’equilibrio fortuito e misterioso dell’amore reciproco? Chi mi dice che Hélène non si comporti, nelle sue fantasie amorose rivolte agli altri uomini, come un apprendista stregone, secondo una nota e triste parabola, finendo col divenire succube dei fantasmi che lei stessa ha evocato per rafforzare ancora una volta di più il suo amore per me? E chi mi dice che quel figlio di puttana, selezionato per l’audizione a causa di un portamento fisico particolarmente efficace o per la guida sbrigliata di un’automobile potente, non si riveli un usurpatore di copioni, capace di manipolare a proprio favore le battute, stravolgendo interamente l’intreccio e gettando una luce impietosa sulla mia persona, fondamento dell’intero edificio narrativo?

Pur essendo certo dell’amore di Hélène nei miei confronti, come lo sono del mio nei suoi, io non vivo più tranquillo, e fisso negli occhi la catastrofe con una stoica fissità. Da quando il nostro amore funziona oltre ogni ragionevole dubbio, ed è entrato in una fase di entusiasmo senza precedenti, io mi preparo giornalmente alla sua fine, ne studio con anticipo le circostanze e i tratti più fatali, spietati, ineludibili. Da quando io ed Hélène ci amiamo di questa così grande passione, e con questa così inattaccabile fiducia, io scorgo con nitidezza nella vita di Hélène la vastità degli incontri a cui è destinata, innumerevoli per tipologia e riuscita, costantemente imprevedibili, paurosamente decisivi. Sono incontri con uomini, ma senza che ciò escluda incontri con donne. Sono incontri con uomini capaci di suscitare in lei l’amore, ma non si escludono donne in grado di farlo. Sono incontri con uomini che, per uno slancio autentico o per un calcolo cinico, vogliono suscitare in lei l’amore, e vogliono dunque distruggere l’amore già presente, o meglio sfigurarlo, o piuttosto smascherarlo per quello che è: uno solo tra i possibili, uno solo costruito su un fondamento incerto di circostanze fortuite, uno solo e quindi inevitabilmente parziale, incompleto, fallace. Mentre amo Hélène, mentre Hélène mi ama, un mare sterminato di incontri con altri uomini le si avvicina, ogni incontro essendo occasionale supporto di fantasia amorosa, e quindi azione ostile più o meno efficace nei confronti del nostro amore.

Nello stesso modo in cui Hélène ama gli uomini e realizza, incontrandoli, delle fantasie amorose, nutrite dalla forza del nostro amore, io che amo le donne, tendo a mettere in atto un comportamento analogo: sulle donne che vedo, sulle donne che incontro, lascio divagare una fantasia amorosa. Ma ora non lo posso più fare innocentemente. Ora sono preso in una complessa dinamica, di cui è probabilmente impossibile venire a capo, e che non avevo previsto in alcun modo. È opportuno illustrare questa dinamica, questo movimento mentale confuso ed intricato, affinché il progresso della psicologia possa un giorno portare lenimento ai tanti inutili dolori che sono disseminati nell’animo umano, e in quello di colui che ama in particolare.

Quando io vedo una donna, oggi, che non sia Hélène, e la vedo venirmi incontro in modo fortuito, quando sale su di un mezzo pubblico e si siede di fronte a me, o quando occupa un posto dietro lo sportello al quale approdo, o quando mi rivolge la parola per strada alla ricerca di una via o di un panettiere aperto, o quando ancora la osservo soltanto camminare, in mezzo a un carosello disordinato di passanti, ebbene io non fantastico innocentemente su quella donna, che ha suscitato il mio interesse senza dubbio per qualche ragione precisa. Io non posso abbandonarmi alla mia fantasia amorosa o erotica, conducendola qua e là sovrappensiero. Io devo lasciare che si dispieghi spontaneamente, per poi sorvegliarla con severità ad ogni passaggio, variazione di figura, modulazione emotiva. Io devo, infatti, capire cosa mi accade quando fantastico su di una donna incontrata, su di un’altra donna, così come Hélène fantastica sugli uomini che incontra, sugli altri uomini. Avendo detto questo, è già possibile comprendere a qual punto sia faticosa e complessa la dinamica: a) io devo spontaneamente fantasticare, b) devo sorvegliare severamente questa fantasia, c) devo trasporla in un gioco delle parti rovesciato, dove non sono io uomo a fantasticare su una donna, ma è Hélène donna a fantasticare su di un uomo (per non introdurre, almeno in questa prima fase, la variabile omosessuale).

Perché io inauguro con tale convinzione una stagione di così tormentati esperimenti? Perché mi presto a questo complesso andirivieni del pensiero in mezzo a un fluido succedersi di emozioni? Perché mi procuro problemi ed enigmi del tutto nuovi, che dovrò mantenere in luce costantemente con sforzo e tormento, fino al momento in cui, per lo meno, non li avrò risolti – seppure con dolore e dispetto? La risposta è semplice e disarmante: io devo avere scienza della fine del mio amore. Ora che io finalmente amo, ora che ho la straordinaria fortuna di essere riamato almeno con la stessa intensità da Hélène, ho bisogno di avere in mente ogni momento la legge, la ragione, la sequenza completa di ciò che distruggerà questo amore, spogliandomi di esso, e di tutta la forza che sprigionava. Non si tratta solo di anticipare, per completa e definitiva idiozia, una fine, laddove si vive tutta la magica esuberanza dell’inizio; si tratta piuttosto di esercitarsi quotidianamente, come un atleta in vista di una gara olimpionica, che non tralascia un attimo della sua giornata di sollecitare un muscolo, ripetere un gesto, provare l’elasticità di un’articolazione. Conoscendo la fine, mi preparo ad essa, mi alleno per la sfida che essa mi imporrà, investendo l’intera mia configurazione psico-fisica come un avversario ostile in una gara di pugilato. Mi alleno alla distruzione del nostro amore, e lo faccio proprio ora, che ho piena coscienza di quanto esso sia forte e radicato, resistente e massiccio, in modo tale da prefigurarmi la forza mostruosa dell’avversario, di colui che con colpi sicuri e continui libererà Hélène dal suo amore per me, tirandola via, altrove, presso di lui, in un amore divergente, diretto altrove, che io osserverò da un luogo remoto, sconcertato e impotente.

 

La cartoleria

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di Andrea Tinterri

Sfioro i quaranta, sono dei  gemelli e non ho mai letto un oroscopo in tutta la mia vita, non credo nelle cospirazioni stellari.

Alle otto di mattina, dal lunedì al sabato, alzo la saracinesca della mia cartoleria in via Mazzini, 27.

I flussi cambiano come le economie, la clientela si sposta e il quartiere si trasforma in zona residenziale, un luogo scomodo in cui fermarsi e comprare. Non è un buon segno vedere tutti i giorni le stesse facce, non c’è riciclo, o lavori con loro o chiudi. Un’attività di famiglia, mio padre ha acquistato l’immobile cinquant’anni fa. Non ho mai ceduto al commercio online e tengo aperto per i pochi clienti del seminato, per i due  uffici di commercialisti che ancora si riforniscono da me, per gli studenti dell’Università popolare che bazzicano da queste parti. Quando si vendeva parecchio avevamo una vetrinetta con stilografiche da collezione, noi le chiamavamo così, anche se i prezzi erano piuttosto contenuti: lauree, compleanni, anniversari: un regalo elegante e terribilmente banale. Adesso sono disponibili solo su ordinazione, ho un catalogo cartaceo che posso mostrare, quattro giorni per la consegna. I miei genitori sono andati in pensione, fortunatamente hanno visto solo parte del declino, ma sospettano la catastrofe e non vengono mai a trovarmi in negozio, credo sia una forma di rispetto nei miei e nei loro confronti. Dovrei chiudere, è quello che mi ha suggerito il commercialista, le mura sono mie, potrei provare ad affittare il locale e cercarmi qualcos’altro. Per ora rimango qua, ho qualche risparmio che mi tutela per almeno cinque o sei anni e soprattutto non ho voglia di mettermi in gioco, buttarmi sulla piazza e spedire curriculum in attesa di una risposta. Sono tranquillo, sono sempre stato un attendista, anche quando facevo sport, osservavo le mosse dell’avversario e mi muovevo di conseguenza. E non significa evitare di decidere, ma aspettare un segnale dalle condizioni esterne, da tutto ciò che ti circonda. Il negozio mi consente di lamentarmi, di votare continuamente contro, di giustificare la mia poca vita sociale e di mangiare, ogni mercoledì a pranzo, nel ristorante cinese qua di fronte. Ha inaugurato due anni fa. L’ho riconosciuta dal primo giorno, una delle tre cameriere, quasi sicuramente la figlia dei proprietari. Dovrebbe avere ventiquattro o venticinque anni, ha un viso allungato e i denti un po’ sporgenti, occhi scuri ed estremamente magra, credo al limite della patologia. Durante i due anni di permanenza ha migliorato il suo italiano, ma di poco, non credo apprenda molto facilmente e non credo nemmeno abbia amici con cui esercitare la lingua. Quando arriva al tavolo sorride, chiede l’ordinazione e accenna un inchino prima di congedarsi. Un rituale sempre uguale, ormai mi conosce e il sorriso, nel tempo, sembra aver acquistato una maggiore partecipazione. Mi attira la sua riservatezza, la sua sottomissione, la sua prevedibilità. Contraccambio il sorriso, aspetto qualche istante prima di ordinare, pochi secondi in cui i nostri occhi si trovano. Trattengo l’imbarazzo e lei fa lo stesso: un meccanismo che continua da più di un anno. Pochi secondi in cui le posso dire tutto, restando muto. Non sempre sono pensieri gentili, gli innamorati dovrebbero parlare sinceramente senza preoccuparsi delle conseguenze. Lo scorso mercoledì mi ha sorriso, io pure, l’ho fissata per quattro secondi prima di ordinare degli involtini primavera, serviti con una colla gelatinosa tendente all’arancione. Quattro secondi di silenzio, il tempo della nostra conversazione, come se lei potesse ascoltare il mio pensiero, come se in quel lasso di tempo fosse me. Le ho confessato che mi eccitava, che avevo sognato di scoparla nel mio negozio, che la leccavo ovunque e che lei urlava senza preoccuparsi della gente che passava davanti alla vetrina. Non so perché avessi deciso il mercoledì, ma sono abbastanza abitudinario e ho mantenuto la scadenza settimanale, come se ci fosse un motivo utile o almeno accettabile. È un’anomala forma d’appuntamento, casto e taciturno. Il ristorante cinese aveva sostituito una ferramenta: Ferrari e figli. Non so se avessero immaginato di proliferare con più costanza, ma si erano fermati al primogenito che, a differenza mia,  dopo la pensione dei genitori aveva venduto tutto al miglior offerente. I nuovi proprietari avevano sventrato lo spazio, l’insegna era stata sostituita con un led rosso e blu: aperti tutti i giorni. In tre mesi una ferramenta era diventata un ristorante a basso costo, rifornito di pesce e carne surgelata ogni lunedì della settimana. Con Carlo, si chiamava così il figlio dei proprietari della ferramenta, da bambini giocavamo insieme, fino ai dodici o tredici anni. Poco dopo le nostre frequentazione andarono diradandosi, intorno ai sedici lui iniziò a fumare e farsi le prime canne, aveva un po’ di ragazze che gli giravano intorno. Ci salutavamo davanti al negozio, ma ormai eravamo due mondi separati, io nel frattempo avevo iniziato a nuotare, lo facevo seriamente, in maniera agonistica, prima della rottura del ginocchio e la sospensione definitiva. Carlo credo abbia avuto una bambina e si sia sposato, ma non ho informazioni precise e non mi interessa averle. Comunque preferisco il ristorante cinese e non solo per lei e il suo corpo magrissimo, ma perché mi libera dalla mia infanzia, dalla mia adolescenza, dal rituale del ricordo a cui non voglio sottostare. Non mi importa nulla della ferramenta che ha chiuso, della crisi dei piccoli commercianti e dell’ondata di ristoranti giapponesi, cinesi, dei bar che perdono la loro identità e cazzate varie. Io sono un piccolo commerciante che lentamente sta affondando, probabilmente fra pochi anni avrò terminato i risparmi e sarò costretto a vendere le mura del negozio. Ma perseguito nel mio attendismo e assisto al crollo simulando un malessere esistenziale e un po’ di rancore disseminato qua e là. Come fosse un contratto sociale a cui non credo, ma che rispetto. Nel frattempo spero che la cameriera, il suo nome non lo conosco ancora, non invecchi di un solo giorno, vorrei rimanesse giovane, di quella bellezza disallineata: credo piaccia solo a me, spero non sia fidanzata, spero sia ancora vergine. Vorrei vederla nuda e sottomessa. Non so dove avessero trovato i soldi per comprare e ristrutturare il locale, si erano fatti un viaggio di migliaia di chilometri per abitare un luogo che non conoscevano e nel quale non si sarebbero mai integrati. Visto dal negozio di fronte è pura follia. All’ingresso ti accoglie un manifesto incorniciato, un paesaggio con ideogrammi di cui ignoro il significato. All’interno della cornice un prato con al centro un fiume di piccole dimensioni, qualche albero e nient’altro. Un bancone con una tettoia che lo sovrasta, una sorta di pagoda/bar con in bella vista sakè, grappe e amari. Un acquario con qualche pesce che sguazza. Il ristorante non è molto ampio, piuttosto spoglio, il manifesto e l’acquario sono gli unici due poli d’attrazione. Sembra tutto finto, perché tutto è finto. Lei fa parte della stanza, non l’ho mai vista fuori da quel contesto, gambe magrissime, polsi sottili e bianchi, si vedono le vene scorrere, leggermente violacee. Porta sempre una gonna. I miei soldi, se la situazione rimarrà stabile, finiranno fra sei anni e due mesi. A quel punto sarò costretto a vendere, cercare un nuovo lavoro o aspettare che anche i risparmi intascati si esauriscano.

Prima di quella data non ho molti programmi, credo attenderò, sperando che non succeda niente.

 

 

 

 

 

 

Gilles Deleuze. Un sapere della vita

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La casa editrice Giometti e Antonello ha recentemente pubblicato il volume Lettere e altri testi del filosofo Gilles Deleuze. Ospito qui un estratto dal fondamentale saggio Mathesis, scienza e filosofia, introduzione a Études sur la mathèse ou anarchie et hiérarchie de la science di Jean Malfatti di Montereggio (Éditions du Griffon d’or, Paris 1946).

Ho deciso di accompagnare l’estratto con un brevissimo frammento -in mia traduzione- tratto dal libro The Hermetic Deleuze: Philosophy and Spiritual Ordeal di Joshua Ramey (Duke University Press), che in queste righe si occupa proprio dell’influenza di Malfatti sull’opera Deleuze.

Ringrazio gli editori per la consueta disponibilità.

 

The Hermetic Deleuze

 

Per il giovane Deleuze, la mathesis non sarebbe un deposito di conoscenze segrete, ma piuttosto il senso più concreto della vita. Così concepita, essa sarebbe un’attivazione delle forze di individuazione. Dopo aver osservato che gli approcci della filosofia e della scienza producono un falso dualismo tra mente e materia, pensiero e sensazione, Deleuze ci invita a considerare la mathesis come un tentativo di sviluppare una forma di conoscenza impossibile tanto per il metodo scientifico quanto per quello filosofico, ma che -in ogni caso- potrebbe rivelarsi fondamentale per entrambi.

***

[…] Ciò che è in discussione per Malfatti (e per le speculazioni sulla natura del Deleuze della maturità) è l’escavazione delle relazioni (solitamente) impercettibili che possono essere attivate e trasformate sotto delle condizioni intense e ritual-terapeutiche, capaci di originare guarigione e creatività, e di generare forme di vita innovative.

Joshua Ramey

 

Mathesis, scienza e filosofia

 

Può essere interessante definire la mathesis a partire dai suoi rapporti con la scienza e la filosofia. Naturalmente una definizione di questo tipo non può che rimanere esterna alla mathesis stessa: essa è semplice, provvisoria, e tesa solamente a mostrare come la mathesis abbia sempre rappresentato, a prescindere dal momento storico, uno dei grandi – e sempre attuali – atteggiamenti dello spirito. Questo significa che l’argomento del libro è incentrato sulla critica a quegli argomenti che sapienti e filosofi sono sempre tentati di invocare contro la mathesis, e soprattutto una messa a punto, fondamentale, del significato che va attribuito al termine «iniziato». Certo non va dimenticato il contesto entro cui fiorì la mathesis, quella civiltà indiana che ne costituisce l’essenza. Ma se risulta impossibile, a qualsiasi livello, astrarla da questa civiltà, possiamo tuttavia reperire all’interno della nostra mentalità occidentale alcune esigenze fondamentali che la mathesis, come una sorta d’introduzione, di prefazione a sé stessa, è di per sé già sufficiente a soddisfare. Da questo punto di vista, il libro del Dott. Malfatti risulta di capitale importanza. Altri lavori infatti hanno approfondito in seguito la coscienza indiana: ben pochi però sono riusciti a introdurre altrettanto bene la nozione di mathesis in sé, nei suoi rapporti con la scienza e la filosofia.

Non è facile cogliere il senso esatto delle discussioni che periodicamente oppongono filosofi e sapienti: non parlano infatti lo stesso linguaggio. La scienza si situa nell’oggetto, ricostruisce o scopre la realtà persino al livello dell’oggetto del pensiero, senza mai porsi il problema delle condizioni di possibilità. Il filosofo al contrario individua l’oggetto come rappresentazione in relazione al soggetto conoscente. Come sottolinea Alquié, al filosofo non interessa sapere che cos’è, in ultima istanza, la materia, se si tratta di atomi o meno, perché questi come ogni altra rappresentazione hanno uno statuto filosofico soltanto in relazione allo spirito che se li rappresenta. Né vediamo quali cambiamenti possano in fondo apportare le ultime scoperte della fisica moderna, per esempio, alle concezioni di Berkeley, datate XVIII secolo. S’insinua così internamente al sapere un dualismo fondamentale, tra scienza e filosofia, che è principio di un’anarchia. Analogo in fondo all’opposizione cartesiana tra res extensa e res cogitans.

Un esempio questo di tanto più importante se consideriamo che Cartesio non ha mai rinunciato all’unità del sapere, alla mathesis universalis. È singolare il modo in cui quest’ultima viene situata sul piano teorico: lo spirito conoscente, così distinto in sé dall’estensione che sembra non avere rigorosamente nulla in comune con essa, nondimeno dipana l’ordine delle cose, pensando l’ordine delle sue rappresentazioni. Nel momento stesso in cui viene affermata, l’unità si rompe e si distrugge.

Disgregandosi però, notava ancora Cartesio, essa si riproduce su un altro piano, dove acquisirà il suo vero significato. Non appena si afferma la scissione teorica tra pensiero ed estensione, si afferma anche, di fatto, la loro unione pratica, in quanto definizione della vita. L’unità non viene individuata al livello di un Dio astratto che trascende l’umanità, ma nel nome stesso della vita concreta: l’albero della Conoscenza non è dunque una semplice immagine. L’unità, gerarchia in cui viene superata ogni dualità anarchica, è quella stessa della vita, la quale forma un terzo ordine irriducibile agli altri due. La vita è l’unità dell’anima in quanto idea del corpo, e del corpo in quanto estensione dell’anima. E di più: al livello dell’uomo vivente, gli altri due ordini, scienza e filosofia, fisiologia e psicologia, tendono a ritrovare la loro unità perduta. Lungi dall’essere una psicologia disincarnata nel pensiero o una fisiologia mineralizzata nella materia, la mathesis troverà il proprio compimento solamente nella vera medicina, laddove la vita viene definita come un sapere della vita, e il sapere come una vita del sapere. Da cui viene il motto «Scientia vitae in vita scientiae», e una triplice conseguenza.

Prima di tutto sarebbe un grandissimo errore pensare che la mathesis sia soltanto un sapere mistico, inaccessibile, sovrumano. Questo è il primo malinteso da evitare rispetto al termine «iniziato». La mathesis si svolge al livello della vita, dell’uomo vivente: essa è anzitutto pensiero dell’incarnazione, dell’individualità. Essenzialmente vuole essere una descrizione esatta della natura umana.

Ma la mathesis non va forse al di là di una tale natura umana vivente? Essa viene in effetti definita come un sapere collettivo e supremo, sintesi universale, «unità vivente», impropriamente chiamata «umana». Qui bisogna intendersi, occorre vedere che una simile definizione non può essere immediata, ma si pone in ultimo luogo, connotata da un senso preciso. Prefigurando i rapporti tra l’uomo e l’infinito, la relazione naturale unisce il vivente alla vita. A prima vista la vita sembra esistere solamente attraverso e nel vivente, nell’organismo individuale che la mette in atto. Non esiste se non attraverso tali manifestazioni frammentarie e chiuse in cui ciascuno la realizza per conto proprio, nella solitudine, e questo è tutto. Vale a dire che l’universalità, la comunità della vita si nega da sé, dandosi a ciascuno come un semplice fuori, un’esteriorità che gli permane estranea, un Altro: c’è una pluralità d’uomini. Ma giustamente è ciascuno, comunemente, che deve assumere la propria vita, senza comune misura con gli altri, per conto proprio: l’universale è immediatamente recuperato. In questo senso la vita verrà definita come complicità, in opposizione alla squadra. La squadra in effetti è la realizzazione di un mondo comune, in cui l’universalità non può essere compromessa o frammentata, e tale che, nel corso stesso di questa realizzazione, la sostituzione dei suoi membri gli uni con gli altri sia, a prescindere, una cosa possibile, indifferente. Tale è la scienza, dal lato dell’oggetto del pensiero. O la filosofia dal lato del soggetto pensante. In entrambi i casi però, si tratta ancora di una squadra morta, teorica e non pratica, speculativa. La sola Squadra vivente è quella di Dio. E questo perché non c’è che un Dio, il cui simbolo è il cerchio, figura perfetta e indifferente in cui tutti i punti si trovano alla stessa distanza dal centro. Nella complicità invece, c’è sì un mondo comune, ma ciò che ne fa una comunità è ancora una volta il fatto che ciascuno debba realizzarlo, senza comune misura rispetto agli altri, per conto proprio, e senza sostituzioni possibili. È chiaro che la nascita, l’amore, il linguaggio o la morte, tutte le principali realtà umane presentano questa fisionomia: sotto il segno della morte, ciascuno esiste in quanto unico e insostituibile. È esattamente questa l’universalità della morte: allo stesso modo, è vita quella realtà dove l’universale e la sua stessa negazione formano una cosa sola.

Il proprio della complicità è precisamente il fatto che essa possa essere ignorata, negata, tradita: il termine «ciascuno» nega così a tal punto l’universale nel momento in cui lo afferma, che potremmo essere sensibili solo a questo aspetto negativo. Il problema dell’uomo consiste quindi nel passare da uno stadio di complicità latente, ignorante, a una complicità conscia di sé affermativamente. Il punto non è certo amare come fanno tutti, ma amare come nessuno fa. Era proprio ostinandosi nella propria individualità, che il vivente si affermava come universale. Chiudendosi in se stesso e ponendo l’universalità della vita come un’esteriorità, egli non si rendeva conto che l’universale, di fatto, lo interiorizzava: egli lo realizzava per proprio conto, definendosi come microcosmo. Il primo scopo della mathesis è quello di assicurare questa presa di coscienza del vivente nei suoi rapporti con la vita, e fondare così la possibilità di un sapere relativo al destino individuale.

A partire da una complicità puramente naturale e incosciente, in cui ciascun individuo si pone unicamente come opposto agli altri e più generalmente all’universale, si tratta di passare a una complicità conscia di sé, in cui ciascuno si comprende come «pars totalis», in un universo già in via di costituzione. In altre parole, la federazione. È ciò che il traduttore di quest’opera, Ostrowski, ha notato in maniera assai singolare: «Nel momento in cui la vecchia Germania cerca di ricostruire la propria unità federativa (1849), perduta da secoli e che finirà probabilmente per ritrovare nella nostra, è interessante analizzare gli sforzi compiuti da questo popolo di arditi pensatori, per riportare la scienza all’unità come ad un proprio punto di partenza originario, un proprio centro comune». Si trattava di una federazione come definizione della vita, e non di un’unità fondata sul culto della forza.

Come vediamo dunque l’unità viene realizzata al livello dell’uomo concreto: lungi dal trascendere la condizione umana, essa ne è la descrizione esatta. Semplicemente, bisogna rimarcare che tale descrizione deve porre l’uomo nei suoi rapporti con l’infinito, con l’universale. L’individuo esiste solo quando nega l’universale: ma nella misura in cui la sua esistenza si riferisce alla pluralità, questa negazione viene operata universalmente, nella forma esaustiva propria a ciascuno, risultando così solamente la modalità che ha l’uomo di affermare ciò che essa nega. Questa modalità l’abbiamo definita come una complicità cosciente. È questa l’iniziazione. Non c’è nulla di mistico: essa è il pensiero della vita, e l’unico modo possibile di pensarla. Il suo mistero sta nel fatto che ognuno deve trovare per proprio conto il sapere che essa rappresenta. L’iniziato è l’uomo vivente nei suoi rapporti con l’infinito. E la nozione-chiave della mathesis, niente affatto mistica, è che l’individualità non si separa mai dall’universale, e che tra il vivente e la vita c’è lo stesso rapporto che intercorre tra la vita come specie e la divinità. Così, la molteplicità degli esseri viventi, che si conosce come tale, si riferisce all’unità, la quale viene delineata in cavo, semplice disegno del cerchio attraverso l’ellisse. Dobbiamo prendere Malfatti alla lettera quando ci rammenta che il cerchio e la ruota rappresentano Dio: «La mathesis sarà per l’uomo che si relaziona all’infinito ciò che la locomozione è per lo spazio».

La mathesis non è dunque né una scienza né una filosofia, è altro: un sapere della vita. Né studio dell’essere né analisi del pensiero. Anzi l’opposizione tra pensiero ed essere, tra filosofia e scienza appare in essa illusoria, priva di senso, una falsa alternativa. La mathesis si situa su un piano in cui vita del sapere e sapere della vita coincidono.

MUSICA PER GIORNI PARI #01 Gregorio Allegri “Miserere”

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sono giorni “pari” quelli di rara e precaria armonia e luminosità – fra la bufera dei “dispari” – densi di nubi e ombre e altrettanto necessarie disarmonie – e l’uno e l’altro per esser percepiti in un modo o nell’altro – hanno da scorrersi accanto – sempre giustapposti e ciascuno ha la sua musica per turbare o rasserenare

GREGORIO ALLEGRI “Miserere” [1638 ca.]
eseguito dal ⇨
Taverner Consort and Players

di Orsola Puecher

E’ Mercoledì 11 Aprile 1770: Johann Georg Leopold Mozart e suo figlio, il quattordicenne Wolfgang Amadeus, esibito fin da bambino nelle le corti d’Europa in sfiancanti tournée musicali, arrivano a Roma.

L’ 11 aprile 1770, a mezzogiorno, Leopold Mozart e suo figlio Wolfgang arrivano a Roma sotto lo scroscio di un temporale, fradici di pioggia e a stomaco vuoto. Passata Firenze hanno trovato soltanto locande «le più ripugnanti» e niente da mangiare, se non uova e broccoli, a causa del digiuno della settimana santa. Si tratta del quarto grande viaggio di un ragazzo di quattordici anni che ha passato otto anni della sua vita in questo modo.

Johann Georg Leopold Mozart
Wolfgang Amadeus Mozart nel 1770

E’ il Mercoledì delle Ceneri.

È mercoledì santo, uno dei due giorni dell’anno, insieme al venerdì successivo, in cui i cantori della Cappella Sistina eseguono il celebre Miserere di Allegri. Padre e figlio svoltano per la basilica di San Pietro e riescono quindi a introdursi sotto le volte affrescate da Michelangelo.

La messa del Mercoledi Santo, parte dell’Ufficio delle Tenebre, si svolge completamente al buio, un solo cero posto in alto a simbolizzare il Santissimo. La musica inzia piano dall’oscurità, i cantori disposti in vari punti circondano i fedeli da ogni parte con un effetto stereofonico, che li avvolge di note.

E’ è il celebre Miserere di Gregorio Allegri, un brano che veniva eseguito solo due volte l’anno, il Mercoledì e il Venerdì Santo, considerato talmente prezioso e mistico che ai musicisti era vietato, pena la scomunica,  per cui fu emessa una apposita bolla papale, di far uscire dalle “sacre mura” vaticane ogni sua nota, ogni sua minima parte, di copiarlo o trasmetterlo a chiunque.

Nel lontano 1629 Papa Urbano VIII aveva chiamato nella Cappella Musicale Pontificia Sistina tal Gregorio Allegri [Roma, 1582 circa – Roma, 17 febbraio 1652], che si narra non avesse una gran voce, ma era un notevole compositore, tanto che nel 1650 Innocenzo X lo nominò Maestro pro-tempore della Cappella Sistina.

Gregorio Allegri

Il Miserere è un canto liturgico molto noto e diffuso, tratto dal Salmo 51.

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.
Purificami con issopo e sarò mondato;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi.
Nel tuo amore fa’ grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

Il Miserere di Gregorio Allegri composto a cappella, senza accompagnamento musicale alcuno, nella mesta e penitenziale tonalità di Sol Minore, è scritto per due cori, fisicamente distanti fra loro, uno classico a 5 voci e uno a 4 voci, formato da quattro solisti. Le voci femminili allora erano eseguite da voci bianche o da castrati: nel Coro della Sistina non potevano e ancora non possono cantare donne. Si alternano omofonia, con il versetto cantato su una sola nota che echeggia il Canto Gregoriano, e polifonia, con i vari abbellimenti fino a raggiungere note molto alte che sembrano voci angeliche e dissonanze perturbanti. Le linee del canto si incrociano e si sovrappongono in complesse tessiture.

Possiamo immaginare nella penombra dell’horror vacui degli affreschi l’emozione e la curiosità compositiva del giovane Mozart nell’ascoltare il Miserere, un brano tanto famoso e misterioso. Al punto che la sera, tornato nella locanda, non si sa se ripugnante o meno, sente il bisogno di “rubarlo“, di trascriverlo interamente a memoria e di tornare poi ad ascoltarlo il Venerdì successivo per controllare di non aver commesso sbagli o imprecisioni.

Leopold Mozart in una lettera alla moglie Anna Maria Pertl del 14 aprile 1770:

A Roma si sente spesso parlare del famoso Miserere, tenuto in tanta considerazione che ai musicisti della cappella è stato proibito, sotto minaccia di scomunica, di portarne fuori anche una sola parte, copiarlo o darlo a chicchessia. Noi però l’abbiamo già, Wolfgang l’ha trascritto a memoria, e, se non fosse necessaria la nostra presenza al momento dell’esecuzione, noi l’avremmo già inviato a Salisburgo. Infatti la maniera di eseguirla conta più della composizione stessa, e quindi provvederemo noi stessi a portarla a casa.

Poi in una lettera del 19 maggio successivo:

Non c’è la minima ragione di essere in ansia […] Tutta Roma e persino il Papa stesso sa che l’ha trascritto. Non c’è assolutamente niente da temere, al contrario, l’impresa gli ha fruttato un grande credito.

Mozart con l’Ordine dello Speron d’Oro


Così Wolfgang viene premiato dal Papa, meravigliato e compiaciuto dalla sua bravura, con l’Ordine della Milizia Aurata, meglio conosciuto con il nome di Ordine dello Speron d’Oro, attribuito in passato a Raffaello, Tiziano, Scarlatti, Gluck e poi a Paganini. La scomunica viene sospesa e il manoscritto del virtuoso “furto“, poi sparito e forse ancora nascosto sotto pile di fogli polverosi in qualche archivio, fu materia di successive trascrizioni di altri musicisti che portarono il Miserere di Allegri fino a noi, in una sovrapposizione di versioni, magari diverse da quella originale, ma proprio per questo dense di storia musicale ed emotiva, che ancora oggi fanno di questo brano una perfetta armonia “per giorni pari“, che riconcilia e scava nel profondo credenti e non credenti. Ascoltandolo a occhi chiusi, perdendosi fra le note.

Come fosse possibile un’impresa del genere e davvero incomprensibile, vista la lunghezza e la difficoltà del brano.

È difficilmente spiegabile nei termini della neuropsicologia classica. In quell’episodio si sono succedute tre operazioni mentali: una codificazione “fuori norma” di informazioni musicali, che oltrepassa di molto la semplice percezione; l’immagazzinamento di tali informazioni sotto forma di rappresentazione per alcune ore; infine, la loro restituzione, si potrebbe dire, ad integrum, fase preliminare per l’esecuzione.

Ma forse non occorre stupirsi troppo: Mozart, di certo ispirato da Allegri, scrisse a sua volta un Misere, il K85 in La minore, sempre nel 1770, solo dopo qualche mese, ospite a Bologna di Giovanni Battista Martini, francescano, compositore, che gli diede alcune lezioni di teoria musicale.

Quattro romanzi: He, Van Reet, Dazieri, Wurger

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(proseguono le letture estive. Altri quattro romanzi sotto l’ombrellone. G.B.)

Chen He, A modo nostro, 2018, Sellerio editore, 345 pagine,
traduzione di Paolo Magagnin

La scomparsa per incidente stradale di una moglie che non vedeva da anni catapulta un semplice autista di camion dall’altra parte del mondo. Cioè da noi, in Europa. Xie Quing, nello svolgersi di A modo nostro, in una sorta di indagine privata, cercherà di dirimere i suoi dubbi sulla morte sospetta di Yang Hong, ma sopratutto scoprirà quanto distante, esotico, illogico possa essere l’Occidente per un cinese.

Per noi lettori di questa parte del mondo il romanzo di Chen He è uno straordinario documento che ci permette di guardarci “da estranei”. Francia, Spagna, Italia, Albania. A modo nostro è un viaggio che racconta l’immigrazione clandestina dal Wenhzhou (da dove viene la maggior parte dei cinesi che vive in Europa), le sue reali consuetudini, ben distanti dai luoghi comuni che abbiamo su quella comunità, e gli inevitabili pregiudizi, ovviamente, nei nostri confronti: il cibo immangiabile, il formaggio puzzolente, la sporcizia delle metropoli, i monumenti decrepiti.

Ma questo di Chen He non è uno studio di antropologia ad uso degli occidentali, è un romanzo. L’autore conosce a perfezione le regole del gioco e sa metterle in pratica. Di capitolo in capitolo ci vengono raccontate le peripezie di Xie Quing alla ricerca del mistero sulla morte di Yang Hong alternate a quelle del passato cinese del protagonista: l’infanzia, gli eventi della rivoluzione culturale, l’incontro con la futura moglie, il racconto della sua potente famiglia caduta in disgrazia. Così, nell’intreccio fra passato cinese e presente europeo, comprendiamo come le cose, all’apparenza lontanissime, siano tutte legate a un filo sottile ma resistente. E come ogni viaggio, in letteratura, che sia verso Oriente o verso Occidente, sia sempre un viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi. Rivelandoci diversi da come si è partiti.

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Brian Van Reet, A ferro e fuoco, Guanda editore, 294 pagine,
traduzione di Maya Guidieri Berner

C’è Cassandra, una giovane militare che fa fatica a sopportare la sonnolenta provincia americana e parte per la Guerra del Golfo, nel 2003. C’è Abu Al-Hool, inquieto figlio della borghesia egiziana che abbraccia gli ideali jihadisti e dopo anni di guerra in Afganistan, in Cecenia, si ritrova colmo di dubbi su quello che sta facendo mentre guida un gruppo di mujaheddin in Iraq. C’è Sleed, un giovane carrista insofferente alla guerra che segue i suoi commilitoni alla ricerca di reperti archeologici da trafugare. E poi tutto precipita. Cassandra e la sua squadra cadono in una imboscata, vengono rapiti dai terroristi guidati da Abu Al-Hool, che vorrebbe in realtà liberarsi di questo fardello e, proprio per questi sui dubbi (o debolezze), verrà sostituito al comando da Walid, medico cresciuto in Inghilterra, mente razionale e feroce.

A ferro e fuoco è un libro che parla di prigionia, abusi, terrore, rovine, atrocità. Brian Van Reet ha un passato da volontario che è partito per il fronte dopo l’11 settembre. Ma il suo non è il memoir di un reduce fanatico e inflessibile sui valori occidentali che andava esportando in medioriente. Un libro così sarebbe insopportabile. Quello che invece ha scritto è il romanzo potente di un autentico scrittore, capace di organizzare con maestria i tempi narrativi, i punti di vista, le psicologie.

Nessuno si salva per davvero, nessuno è davvero colpevole. Tutti cercano di sopravvivere, di uscire fuori dagli incubi della realtà e della propria coscienza infetta. Come ogni vero romanzo dedicato ai fronti di battaglia non è di eroi o di eroismi che parla. Ma solo dell’assurdità, dell’inutilità della guerra. Del caos infernale, dell’abominio, che l’umanità è capace di perpetrare di continuo, non imparando mai nulla dai propri errori.

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Sandrone Dazieri, Il Re di denari, 2018, Mondadori, 500 pagine

Anche se so benissimo che i soloni delle patrie lettere gridano alla lesa maestà solo a sentire nominare “quella” parola resto dell’idea che la letteratura debba (anche) essere “intrattenimento”. Ecco, l’ho detto. Poi, chiaro, ognuno decide con cosa intrattenersi. Chi con Dante o Proust, chi col più dozzinale e stereotipato dei romanzi. Ma avere paura di ammettere che un libro possa avere un disegno complesso, una trama colma di colpi di scena, di cambi improvvisi di punti di vista, quasi fosse una colpa e non un talento, mi sembra un’inutile evirazione alle opportunità che la letteratura ci offre.

Nel buen retiro marchigiano di Colomba Castelli, sotto una coltre di neve, piomba all’improvviso un ragazzo autistico in fuga. Scalzo, disorientato, con gli abiti insanguinati. Si chiama Tommy, non sappiamo nulla di lui. Conosciamo invece la protagonista, ex vicequestore, attrice di altri due romanzi di Sandrone Dazieri, parti di una trilogia della quale questo Il Re di denari è il capitolo finale. Come da thriller che si rispetti non c’è evidentemente pace per Colomba. La scoperta della efferata strage della famiglia di Tommy accenderà nuovamente l’istinto del cacciatore della protagonista. Da qui, mistero dopo mistero, agnizione dopo agnizione, dopo inseguimenti, violenze, ritrovamenti, vecchi e nuovi personaggi, antagonisti creduti scomparsi che rimergono spaventosi, trame sempre più complesse e inestricabili, scorrono senza tregua ben cinquecento pagine, senza mai un momento di stanca. Pura adrenalina.

Certo, i sottointesi, per chi non ha letto i capitoli precedenti della trilogia, possono confondere, ma basta darli per assodati, quasi altrettanti misteri irrisolvibili. È tutto verosimile, credibile, possibile quello che racconta Dazieri? Ha importanza? O, in casi come questo, è la macchina narrativa, capace di non perdere mai un colpo, la cosa che più affascina?

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Tarkis Würger, Stella, Feltrinelli, 2019, 182 pagine
traduzione di Nicoletta Giacon

Le polemiche scatenate in patria attorno a Stella di Tarkis Würger dimostrano come il nazismo resti un argomento indicibile in Germania, difeso da un salutare cordone sanitario democratico. È in sé una buona notizia, ma reputo sterili tali alzate di scudi. Il romanzo racconta di Friedrich, giovane (e ricco) svizzero che passa un anno a Berlino nel cuore della seconda guerra mondiale. Farà amicizia con Tristan, dandy amante del jazz e della bella vita e diverrà fidanzato di Kristin, cantante di cabaret che gli nasconde la sua vera identità e la sua origine. Scopriremo nel corso della lettura che l’amico in realtà è un ufficiale delle SS e che Stella è una ebrea che vive clandestinamente nella capitale dell’odio antisemita.

Würger scrive il romanzo ricalcando la storia vera di Stella Goldschlag, condannata dopo la guerra da un tribunale sovietico per delazione. Per salvare i suoi genitori aveva denunciato alla Gestapo e fatto mandare a morte sicura migliaia di suoi simili. I genitori di Stella non si salvarono, i suoi tradimenti non servirono a nulla.

Gli scrittori hanno il diritto di raccontare quello che vogliono. Non hanno il dovere di essere testimoni, parziali o imparziali, non devono insegnare alcunché, non devono lanciare messaggi. L’unico obbligo è avere il coraggio di gestire storie di tale enormità senza barricarsi dietro il “mestiere”. È su questo che varrebbe la pena polemizzare. Würger scrive un buon libro, di maniera e di sicuro successo. Un compito ben fatto, nulla di più. Aveva in mano una storia che poteva farci immergere nell’inferno, ne è uscito un racconto di un amore vagamente decadente, con personaggi mai centrati, dialoghi fra sordi, estetizzante al limite del kitsch, fatto per immagini, già pronto per la trasposizione televisiva. Peccato.

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(recensioni pubblicate nel corso del 2018-2019 su Cooperazione)

 

La commedia all’italiana rinasce tra i Sassi

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di Antonella Falco

Ne è passato di tempo da quando Palmiro Togliatti, nel 1948, definì la città di Matera «vergogna nazionale», e, per fortuna, le cose, da allora, sono radicalmente cambiate: Matera nel 1993 è stata proclamata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco, nel 2019 è stata Capitale Europea della Cultura e i suoi celeberrimi Sassi, da scenario contadino sinonimo di miseria e di degrado, sono divenuti location di grandi produzioni cinematografiche sia nazionali che internazionali. I film girati nel capoluogo lucano sono oltre quaranta e hanno visto avvicendarsi registi quali Pier Paolo Pasolini, che nel 1964 vi ambientò il suo Il Vangelo secondo Matteo, Francesco Rosi, con Cristo si è fermato a Eboli (1979) e Lina Wertmüller che vi girò nel 1963 I basilischi.

Ma già nel 1949 Carlo Lizzani vi realizza il documentario Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato dedicato al mondo contadino descritto da Carlo Levi. Nel ’53 i Sassi diventano un misero paesino siciliano per La Lupa di Alberto Lattuada. Dagli anni Sessanta molti saranno i film ambientati negli antichi rioni, ormai disabitati per effetto della prima Legge Speciale per lo Sfollamento dei Sassi firmata da De Gasperi nel ’54. Così il cinema utilizza quelle povere dimore scavate nel tufo per dimostrare l’arretratezza del Meridione. Si susseguono pellicole quali Gli anni Ruggenti (1962) di Luigi Zampa, Il demonio (1963) di Brunello Rondi, Qui comincia l’avventura (1975) di Carlo Di Palma, fino a film più vicini ai giorni nostri quali  Del perduto amore (1998) di Michele Placido e Terra bruciata (1999) di Fabio Segatori. Ma anche i fratelli Paolo e Vittorio Taviani scelsero Matera come set per il loro Il sole anche di notte(1990) e Giuseppe Tornatore, nel 1995, per L’uomo delle stelle, mentre Fernando Arrabal vi gira L’albero di Guernica (1975).

Per quanto riguarda i kolossal internazionali, tutti ricordano che Mel Gibson vi ha ambientato il suo iperrealistico e sconvolgente The Passion of the Christ (2004), ma la città dei Sassi è stata anche il set della Wonder Woman (2017) di Patty Jenkins con Gal Gadot nei panni dell’eroina dei fumetti DC Comics, e di No Time to Die (2017) di Cary Fukunaga, venticinquesimo capitolo della saga di James Bond, che ha visto le vie del centro storico fare da scenario agli spettacolari inseguimenti in Aston Martin. I Sassi ricrearono i luoghi dell’antica Gerusalemme in King David (1985) di Bruce Beresford, con Richard Gere, e l’elenco potrebbe continuare a lungo, dal momento che Matera per la suggestiva bellezza dei suoi paesaggi naturali e le straordinarie architetture rupestri – che l’hanno più volte resa adatta a pellicole di tema prevalentemente biblico – è stata in realtà scelta col passare degli anni come ambientazione per svariati generi cinematografici.

Matera, oltre a ospitare set di registi provenienti da altre città italiane ed estere, ha anche prodotto negli ultimi decenni un’interessante generazione di attori e registi locali che portano avanti una significativa produzione di cinema indipendente, pellicole di alto livello che non mancano di visibilità in ambito nazionale, facendosi notare nei vari festival e ottenendo meritati riconoscimenti. Fra questi autori “made in Matera” spicca senz’altro il nome di Antonio Andrisani, attore regista e sceneggiatore,  in realtà dotato di un talento poliedrico che lo porta a spaziare dal visual design alla musica, con qualche incursione anche in ambito letterario (nel 2015 pubblica Tutto finisce in un libro, raccolta di articoli da lui scritti su vari argomenti che spaziano dal cinema alla letteratura). Il grande pubblico lo ricorderà per una parte nel film Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, ma è doveroso ricordare che nel 2016 scrive, dirige e interpreta il lungometraggio Il Vangelo secondo Mattei con Flavio Bucci, Andrea Osvart, Mimmo Calopresti, Federica Modugno; mentre nel 2012 con il cortometraggio Stand by Me, da lui scritto e interpretato, si aggiudica il Nastro d’argento. Un altro corto da lui scritto e diretto, Stardust (2020), interpretato da Corrado Guzzanti e Teodosio Barresi, continua a riscuotere premi, cinque dei quali hanno finora reso merito alla straordinaria interpretazione di Barresi, scomparso poco dopo la realizzazione del film.

Andrisani è stato direttore artistico dell’anteprima del Matiff, Matera Art International Film Festival (l’edizione 2021, il Matiff Zero One, in programma dall’11 al 19 settembre, ha come direttore artistico generale Massimiliano Selvaggi), e cura la rassegna di libri musicali Paper Pop (con tre appuntamenti, il 6 e 27 agosto e il 10 settembre 2021, rispettivamente dedicati a Serge Gainbourg, Franco Battiato e David Bowie attraverso la presentazione dei volumi  Gainsbourg. Scandal! di Jennifer Radulovic, Segnali di vita. La biografia della voce del padrone di Fabio Zuffanti e David Bowie. Tutti gli album di Francesco Donadio).

Delle tante contraddizioni di Matera, città millenaria – secondo uno studio condotto dal portale di viaggi Travel 365, la perla della Basilicata è infatti la terza città più antica al mondo: i suoi primi insediamenti umani risalgono a diecimila anni fa, come testimoniano diversi reperti provenienti dalle necropoli locali e conservati nel Museo Nazionale Domenico Ridola -, del suo essere sospesa tra passato e presente, tra identità e globalizzazione, tra Arte e industria, tra sviluppo reale e illusori miraggi, tratta Sassiwood, l’ultima fatica in ordine di tempo di Antonio Andrisani, che ne è regista (assieme a Vito Cea, che ha curato anche il montaggio) e interprete, oltre che autore del soggetto e della sceneggiatura. La pellicola, dopo essere stata presentata al Ferrara Film Festival (dal 29 maggio al 6 giugno), dove ha ricevuto una calorosa accoglienza da parte di critica e pubblico, è stata premiata come Miglior Film alla terza edizione dell’AmiCorti International Film Festival di Peveragno, in provincia di Cuneo, svoltosi dal 14 al 19 giugno 2021.

A presiedere la Giuria Internazionale, composta da personalità del cinema e della cultura, fra cui spiccava la presenza dello scrittore statunitense Roger Rueff – autore di numerosi testi teatrali e sceneggiature cinematografiche, la più nota delle quali, quella del film The Big Kahuna (1999), diretto da John Swambeck e interpretato da Kevin Spacey e Danny De Vito, è stata tratta dalla sua pièce teatrale Hospitality Suite, portata in scena  con successo in moltissimi Paesi – è stato Paul Haggis, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico e televisivo, premio Oscar nel 2006 per la sceneggiatura di Crash – Contatto fisico, che gli è valsa anche la statuetta come Miglior Film e la nomination per la regia. Haggis è noto al grande pubblico per aver scritto la sceneggiatura (nomination agli Oscar 2005) di Million Dollar Baby di Clint Eastwood, con il quale ha collaborato per il soggetto di Lettere da Iwo Jima e per la sceneggiatura di Flags of Our Fathers. Ha firmato inoltre la sceneggiatura di due pellicole della saga di 007, Casino Royale (2006) e Quantum of Solace (2008), tornando poi alla regia con Nella Valle di Elah (2007), di cui cura anche soggetto e sceneggiatura, interpretato da Charlize Theron e Tommy Lee Jones. Proprio il grande cineasta canadese – Haggis è infatti nato nella London ontariana – ha avuto parole di apprezzamento per il film di Andrisani e Cea, a conferma della maestria dei due registi materani (non nuovi a lavorare insieme, la loro prima regia in tandem risale infatti agli anni Novanta) e alla solidità della sceneggiatura firmata da Andrisani, il quale, com’è nello specifico di ogni bravo artista, riesce a elevare il particolare a universale, conferendo al film un messaggio che travalica i confini della piccola città di provincia italiana.

Sassiwood è una commedia dolceamara, che partendo dalla parodia della Matera/Palestina, ossia della città conosciuta in tutto il mondo come set di film biblici, vuole riflettere sul cinema e sulla realtà di un territorio che di fatto vive tutt’oggi i problemi della disoccupazione e dello spopolamento ed è pertanto anni luce lontano dal mondo scintillante di lustrini e glamour che tutti noi immaginiamo quando pensiamo alla Hollywood californiana. Il titolo Sassiwood è in tal senso estremamente evocativo e rappresenta la prima e più evidente intuizione geniale del film, che vuole essere anche un monito sull’incompetenza e l’ignoranza della classe dirigente, monito tanto più potente e efficace in quanto veicolato dalla sottile e amara ironia che pervade tutta la pellicola.

L’universalità del messaggio del film era del resto già stata ampiamente riconosciuta nel 2014 dalla stampa estera che aveva premiato con il Globo d’Oro (appunto il premio che i giornalisti stranieri accreditati in Italia assegnano dal 1959 al nostro cinema, e che, assieme al David di Donatello e al Nastro d’Argento, è considerato uno dei più prestigiosi premi cinematografici italiani) l’omonimo cortometraggio da cui è tratto il film che tanti e autorevoli consensi sta riscuotendo nei vari festival nazionali dedicati alla settima arte. Il cammino di Sassiwood, che si appresta a uscire nelle sale in autunno, è infatti proseguito passando per altri festival: il Social World Film Festival di Vico Equense (svoltosi dall’11 al 18 luglio 2021) e il Castellabate International Film Festival 2021 (dal 19 al 24 luglio), dove ha ottenuto il Premio per la Miglior Regia nella sezione lungometraggi, con la seguente motivazione: «Per la surreale rappresentazione parodica della città di Matera, meta ambita per la realizzazione cinematografica di film dal carattere biblico, per la brillante intuizione cinematografica di creare un intreccio stilistico di generi intercorrenti tra il surrealismo di felliniana memoria e il neorealismo di stampo pasoliniano».

Ha inoltre vinto come Miglior Film alla quinta edizione del San Benedetto Film Fest (svoltosi a San Benedetto del Tronto dal 13 al 16 luglio 2021) ed è stato inserito tra gli eventi speciali del Giffoni Film Festival, quest’anno denominato Giffoni 50 Plus, il noto  festival cinematografico per bambini e ragazzi che si svolge ogni anno, nel mese di luglio, nella città di Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno, e che, nato nel 1971 da un’idea dell’allora diciottenne Claudio Gubitosi, che ancora oggi ne è il direttore artistico, ha ormai girato la boa delle cinquanta primavere, passando da manifestazione di livello poco più che regionale a evento di respiro internazionale, tanto che il regista francese François Truffaut in una lettera del 1982 affermò: «Di tutti i festival del cinema, quello di Giffoni è il più necessario».

A partecipare al Festival sono stati gli attori più giovani del cast, gli esordienti Loretta Graziani e Pasquale Montemurro, che nei loro interventi hanno sottolineato come il film affronti con il sorriso tematiche serie che riguardano in generale tutto il Meridione. D’altra parte proprio in questa capacità di far ridere e riflettere al tempo stesso risiede uno dei punti di forza del film (film sorretto, come già si è visto, da una solida sceneggiatura, tale da far sì che una vicenda ambientata nella piccola provincia italiana, e pertanto fortemente connotata e contestualizzata dal punto di vista territoriale, possa venire apprezzata anche da chi è molto lontano da quella realtà geografica), che si presenta come un derivato della commedia all’italiana, la quale ha reso celebre il nostro cinema nel mondo. Se, come sosteneva il grande Mario Monicelli, la commedia all’italiana consiste nel «trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici»  e se «è questo che distingue la commedia all’italiana da tutte le altre commedie…», allora Antonio Andrisani si dimostra un degno erede di quella tradizione, facendosi portavoce di una comicità non ridanciana, non triviale, non sguaiata, ma al contrario fine, ironica, sottile, intelligente, quella che appunto era possibile trovare nella migliore commedia all’italiana, nella quale la satira di costume e una sostanziale amarezza di fondo andavano a stemperare i contenuti più prettamente comici.

Del resto la commedia all’italiana prendeva le mosse dalla grande lezione del neorealismo, basandosi su sceneggiature fortemente aderenti alla realtà, motivo per cui le situazioni comiche erano sempre affiancate da uno sguardo ironico, da una pungente e amara satira che andando a stigmatizzare abitudini e costumi diventava strumento di riflessione sui mutamenti della società italiana. Su tali  fondamenta che intrecciano neorealismo, commedia all’italiana e specifici elementi pasoliniani, Andrisani costruisce una storia innervata di surrealismo felliniano, come giustamente sottolinea la motivazione di uno dei premi ricevuti, tratto, quest’ultimo, particolarmente evidente nel personaggio di Tafuni, interpretato magistralmente da Giovanni Esposito, che unisce al carattere divertente una profonda malinconia, elemento che lo rende molto poetico. Questo aspetto, a ben vedere, vale per tutti i personaggi del film, anche per quelli il cui ruolo ci rende più invisi e all’apparenza antipatici: tutti finiscono per rivelare un loro lato profondamente umano, fatto di luci e ombre, che finisce per farceli sentire vicini. Il cast, assai nutrito, annovera, oltre agli attori già menzionati, Fabrizia Sacchi, Paolo Sassanelli, Tiziana Schiavarelli, Paolo De Vita, Uccio De Santis, Pinuccio Sinisi e una ricca rappresentanza di interpreti materani.

Sassiwood è inoltre un omaggio ad Albino Pierro, il poeta di Tursi cui dedicarono importanti studi critici esegeti quali Gianfranco Contini e Gianfranco Folena e le cui opere sono tradotte non solo nelle principali lingue europee ma anche in arabo e persiano. Noto per la svolta linguistica che a partire dal 1959 gli fece scegliere l’idioma della sua città natia per dar voce ai propri versi, Pierro andò per ben due volte vicinissimo alla conquista del Premio Nobel per la Letteratura, nel 1986 e nel 1988, arrivando in entrambi i casi secondo, alle spalle rispettivamente del nigeriano Wole Soyinka e dell’egiziano Nagib Mahfuz. Il cammino festivaliero di Sassiwood è ancora solo all’inizio e, viste le premesse, lascia presagire ulteriori brillanti risultati, in attesa che anche il pubblico, in autunno, possa apprezzarlo nelle sale.

I sassi di Giulio Marzaioli

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di Renata Morresi

Gli scienziati che contestano l’esistenza dell’emergenza climatica sono per la maggior parte geologi e geofisici. Sono quelli più legati, per vocazione e professione, all’industria mineraria e dei combustibili fossili. Che siano loro a parlare del surriscaldamento terrestre come della “grande bugia” non desta grande meraviglia, insomma. Né meraviglia lo statuto ominoso dei minerali nel vasto regno del simbolico: dal “cor di sasso” del conte Giacomo ai “conglomerati” di Zanzotto, c’è poco di rassicurante nel mondo dei solidi inorganici nati da processi geologici. Nel folclore nazional-popolare, poi, “tu sei buono e ti tirano le pietre / sei cattivo e ti tirano le pietre”. A riscattare la cattiva reputazione dei sassi arriva l’omonimo libro di Giulio Marzaioli, che irrompe nel congegno immaginativo usurato e rinnova la relazione con l’inanimato. Detto così sembra semplice, addirittura innocuo. Invece Marzaioli, con elegante freschezza, propone di risalire al rapporto tra coscienza delle cose e mondo sensibile liberandosi di molte sovrastrutture, dedicandosi all’ordinario come a un problema da valutare fuori dalle vertigini astratte, dalle proiezioni simboliche, dai surrealismi che inventano molto ma scoprono poco. L’invito sotteso è quello di re-inscriverci nella materia a cui in fondo (ma anche in superficie) apparteniamo: un campo evasivo, a ben vedere, di certo ampio e mutevole. Non abbiamo dunque ancora esplorato fino in fondo le percezioni contemporanee, e la ricchezza degli affetti e delle affezioni col circostante, dimostra Marzaioli, è ancora in larga parte da indagare. Ne I sassi non fuga nell’irrazionale, quindi, tantomeno nella trasfigurazione tutta soggettiva, ma la scoperta di una sapienza immaginifica calda, che spinge a guardare le cose ‘come sono’ – che ovviamente ‘non sono così’. In questo spazio, nell’indagine sull’aspetto e sulle correlazioni, con estetica marziana e un lieve registro divulgativo-scientifico, su questa crosta da alcuni detta ‘paesaggio’, nell’evidenza di ciò che si offre al tocco e allo sguardo del mistificatore più innocente che c’è (il bambino), Marzaioli descrive le molte vite dei sassi e ciò che ci riguarda attraverso di loro: il silenzio e il linguaggio, l’identità, l’integrità e il mutamento, il sempre nuovo passare del tempo e la violenza incombente. “Doveva essere un libro di fiabe”, ci diceva già Marzaioli del suo Arco rovescio (Benway 2014), e anche I sassi potrebbe esserlo, per la sua giocosità conoscitiva, per il suo snodarsi in parabole, e per quella evocazione di varie pratiche fanciullesche: i sassi collezionati, dipinti a colori, lanciati a pelo d’acqua, gettati come oggetti d’offesa, sono dettagli di una educazione alla vita all’aperto che finiscono per disegnare una nuova forma del maschile. Si tratta di una proposta di maschilità morbida: l’anaffettivo maschio moderno, insondabile e petroso, si trasforma in qualcosa di più accogliente e delicato, dove l’antagonismo e la sfida per la superiorità sugli enti fanno posto a un’altra intensità e intimità nella relazione col mondo. “Le mondo muete est notre seule patrie”, affermava Ponge, ripensando la terra dei padri come mondo non-logocentrico. Molto cova in questo silenzio, e il non-umano sembra incubare un’occasione persino per noi.

Giulio Marzaioli, I sassi, Tic 2021.

 

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Quando raccogliamo un sasso da terra solitamente è per lanciarlo o per conservarlo in una tasca.

 

 

Se conserviamo il sasso in una tasca capita che, una volta tornati a casa, ci si produca nella decorazione dello stesso con disegni di faccine, fiori ecc.

Se lanciamo il sasso è per farlo cadere in un ruscello, una pozzanghera o un lago; comunque in uno strato acqueo che, al momento dell’impatto, produce il suono caratteristico che tutti conosciamo.

In ogni caso nessuno si domanda cosa ne pensi il sasso e come, nonostante la sua durezza, possa risentirsi per la prepotenza subita.

 

 

Un sasso prende vita nel magma che ribolle e, a seguito di un’eruzione, pian piano si solidifica e leviga la propria superficie grazie all’azione del vento, del ghiaccio e delle precipitazioni. Oppure si genera per sedimentazione di elementi organici e inorganici, sali minerali e altri componenti che in migliaia e migliaia di anni si aggregano e disgregano fino a manifestarsi al nostro sguardo.

La sua calma non è mai accondiscendenza. Se si muove è perché viene trasportato, se sprofonda è perché viene pressato da una suola e dal peso di un corpo che non avrebbe mai scelto di incontrare.

 

 

La reazione principale del sasso agli interventi del mondo esterno è la resistenza. Con tenacia e pazienza, il sasso affronta ogni giorno l’incognita di un intervento contrario alla sua fissità e rimane integro, non usando violenza e non agendo d’impeto, ma concentrando tutta la propria energia nel non modificare la propria forma. Ciò è dimostrato dalla tendenza dei sassi a ritrovare sempre una condizione di stabilità, anche se un ruscello o la risacca marina ne spostano la posizione.

 

 

Anche i sassi hanno i loro momenti di quiete. È nell’indole del sasso riflettere i raggi del sole estivo, guardare dal basso la caduta delle foglie, tacere sotto la neve e farsi lambire dai fili d’erba al risveglio di primavera.

Un sasso non è insensibile alle meraviglie della natura, anche quando essa si manifesta nei toni più tenui. È sua segreta ambizione svelarci quale nucleo celi la sua durezza.

 

 

I sassi possono affezionarsi all’uomo. A molti sarà capitato di stringere un sasso nella mano. Non si ha l’impressione che quel sasso lentamente si adatti alla sua forma? E che dire di tutti i sassi sistemati in qualche teca, magari puliti, lucidati e accuditi? Non è certo quella la loro collocazione naturale, eppure non fuggono via, rimanendo fedeli a un rapporto con chi ne ha deciso lo spostamento.

[…]

Alle volte i sassi vengono messi uno sopra l’altro dall’uomo, sino a configurare piramidi e opere di varia grandezza. Tali realizzazioni vengono tecnicamente chiamate cairn, termine di origine gaelica, e possono avere diverse finalità: dal segnalare un sentiero a commemorare un evento, sino ad assumere significati rituali.

Chi erige tali costruzioni, tuttavia, ignora il pericolo insito nell’artificiosa prossimità che si viene a creare. Così vicini i sassi stringono alleanze. Nella loro apparente indifferenza tramano cospirazioni. E, se indispettiti, i sassi impercettibilmente si muoveranno approfittando dell’imprecisione del loro impilaggio e provocheranno la rovina del manufatto.

 

 

Altre volte dalla riva di un lago o del mare quando è calmo, padre e figlio si sfidano a lanciare un sasso piatto sulla superficie dell’acqua. Vince il sasso che rimbalza più volte e va più lontano. Padre e figlio vivono una sfida generazionale, ma assai più dura è la sfida tra i sassi, destinati a scendere lentamente sul fondo. Al contrario di quanto accade per gli esseri umani, vince il sasso che rimbalza meno volte e va a fondo più vicino alla riva. Avrà più possibilità di tornare alla luce grazie al moto ondoso.

 

 

L’utilizzo che l’uomo fa dei sassi denota sempre una presunta superiorità, del tutto ingiustificata. I sassi erano prima della comparsa e saranno dopo la scomparsa dell’uomo sulla terra. Anche soltanto tale circostanza dovrebbe far riflettere.

 

 

Dante: una rima petrosa

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Bronzino - ritratto di Dante

di Antonio Sparzani

Bronzino – ritratto di Dante

Come si diceva qui Dante, grande ammiratore di Arnaut Daniel, il trobadour provenzale del trobar clus, l’oscuro, che incontrerà poi nel Purgatorio, lo vuol imitare a suo modo, e lo fa aggiungendo alla fine della sua raccolta di Rime quella che inizia “al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra”, ebbene, eccola qui, sempre senza tanti commenti, ma perché possiate apprezzare di quali preziosità di struttura, di rime e di significati volesse anch’egli esser capace:

Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso!, ed al bianchir de’ colli,
quando si perde lo color ne l’erba:
e ‘l mio disio però non cangia il verde,

sì è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.
Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve a l’ombra:
ché non la move, se non come petra,

il dolce tempo che riscalda i colli
e che li fa tornar di bianco in verde
perché li copre di fioretti e d’erba.
Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
trae de la mente nostra ogn’altra donna:

perché si mischia il crespo giallo e ‘l verde
si bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina petra.
La sua bellezza ha più vertù che petra,

e ‘l colpo suo non può sanar per erba.
ch’io son fuggito per piani e per colli,
per potere scampar da cotal donna;
e dal suo lume non mi può far ombra
poggio né muro mai né fronda verde.

Io l’ho veduta già vestita a verde,
sì fatta ch’ella avrebbe messo in petra
l’amor ch’io porto pur a la sua ombra:
ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba
innamorata com’anco fu donna,

e chiuso intorno d’altissimi colli.
Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli,
prima che questo legno molle e verde
s’infiammi, come suol far bella donna,
di me; che mi torrei dormire in petra

tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,
sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.
Quantunque i colli fanno più nera ombra,
sotto un bel verde la giovane donna
la fa sparer, com’uom petra sott’erba.

Dopo il contagio

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di Alberto Brodesco

Entrare in un cinema, salire in cabina di proiezione, far partire Woodstock, sedersi in poltrona e guardare il film da unico spettatore in sala. Non sembrerebbe una brutta esperienza, se non fosse che sei rimasto (o almeno così ti sembra) l’ultimo uomo della Terra; se non fosse che di notte girano per le strade vampiri o zombie che vogliono la tua morte. Succede in 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, 1975), il film di Boris Sagal ispirato a Io sono leggenda, libro di Richard Matheson da cui sono stati tratti altri due film: L’ultimo uomo della terra (Ubaldo Ragona, 1964) e Io sono leggenda (Francis Lawrence, 2007). La popolarità cinematografica del romanzo è un primo segno di quanto il cinema ami descrivere ciò che viene dopo – dopo il contagio, dopo la pandemia, dopo l’apocalisse.
Il “dopo” apre due scenari: uno è la normalizzazione, l’altro la sopravvivenza. La sopravvivenza è più facile da raccontare, più avventurosa, più vitale: è una celebrazione della resistenza, della fortuna di essere sopravvissuti, come nel titolo italiano di Soylent Green (Richard Fleischer, 1973): 2022: i sopravvissuti. La sopravvivenza non è un dato acquisito, ma uno status che va difeso da chi, banalmente, non ti vuole sopravvissuto ma morto, o almeno morto vivente (The Walking Dead, Frank Darabont, 2010-). Nel genere post-apocalittico c’è posto per l’horror, ma anche la commedia (The Last Man on Earth, Will Forte, 2015-2018) o l’animazione per ragazzi (The Last Kids on Earth, Netflix, 2019-). La tenacia con cui ci aggrappiamo alla vita (o alle vite) ha fatto inoltre la fortuna del “survival horror” nell’ambito dei videogiochi, da Resident Evil (Capcom, 1996) a The Last of Us (Naughty Dog, 2014).
Dall’altro lato, il ritorno alla normalità può essere tragico quanto l’emergenza. Il finale de La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, George Romero, 1968) dimostra che si può forse superare una pandemia, ma non un endemico razzismo. Nel dramedy Downsizing (Alexander Payne, 2017), la potenziale apocalisse ha a che fare con lo sfruttamento delle risorse della Terra. Il film si colloca all’interno di quel sotto-filone abbastanza recente che potremmo definire “catastrofismo ecologista”, rappresentato da film che vanno da The day after tomorrow (Roland Emmerich, 2004) a The Midnight Sky (George Clooney, 2020). Downsizing mostra come la costruzione di una società alternativa, ridimensionata, sconta la mancanza di una vero “programma utopico” (Jameson, 2007), dato che il nuovo mondo finisce per copiare in piccolo il peggio del turbo-capitalismo. Anche il revivalismo hippy, che sembrerebbe proporsi, nel film, come un’alternativa per la progettazione di una vita “post-” conferma l’assenza di idee nuove. Il “dopo” è un foglio bianco e l’umanità ha il blocco dello scrittore.
“Il disastro rovina tutto lasciando tutto immutato”, afferma Maurice Blanchot (1980, p. 11). A carico del disastro c’è anche l’accusa di lasciare tutto come prima. Non è nemmeno capace di essere un agente di cambiamento. Nel caso dell’epidemia da Covid-19, come hanno notato in molti, l’emergenza ha dimostrato di produrre non una vera svolta socio-culturale, ma solo una precipitosa accelerazione (smart working, streaming, consegne a domicilio…).
Stephen King ha dichiarato la sua difficoltà a chiudere il capolavoro post-apocalittico L’ombra dello scorpione (ristampato come The Stand, 1990): tutta l’inerzia della storia sembrava riportare il vissuto delle persone alle dinamiche sociali precedenti la diffusione del virus. Davvero, si chiedeva King, l’unica soluzione è tornare all’America di prima, con la polizia, i tribunali e le elezioni? Non c’è altro modo di organizzare la società? La pandemia è solo un macabro gioco dell’oca che riporta pedine rovinate al punto di partenza?
Il genere post-apocalittico richiama un altro topos narrativo, quello della rifondazione della vita su un’isola deserta. Anche il naufragio fa tabula rasa, semplifica le relazioni umane, cancella lo status quo, fa emergere chi ha vere capacità di leadership, come ne Il signore delle mosche (dal libro di William Golding ha tratto un film Peter Brook, nel 1963) o LOST (Jeffrey Lieber, J. J. Abrams e Damon Lindelof, 2006-2010). Di nuovo, sono isole ben lontane da quella di Utopia. Il disastro, il contagio, il naufragio sembrano rivelare che c’è qualcosa che non torna all’interno del nocciolo segreto della nostra convivenza e della nostra società.
Un passaggio di The Stand riassume questo enigma affidandolo alle parole di un sociologo, un personaggio di nome Glen Bateman: “È questo il destino della razza umana. Socievolezza. Vuoi che ti dica che cosa ci insegna la sociologia a proposito della razza umana? Te lo dico in poche parole. Mostrami un uomo o una donna soli e io ti mostrerò un santo o una santa. Dammene due e quelli si innamoreranno. Dammene tre e quelli inventeranno quella cosa affascinante che chiamiamo ‘società’. Quattro ed edificheranno una piramide. Cinque e uno lo metteranno fuori legge. Dammene sei e reinventeranno il pregiudizio. Dammene sette e in sette anni reinventeranno la guerra. L’uomo può essere stato fatto a immagine di Dio, ma la società umana è stata fatta a immagine del Suo opposto” (King, 2020, pos. 7888).
Dio e il suo opposto. Il cinema post-apocalittico subisce la tentazione dello scontro secco tra bene e male, spesso banalmente giocato nella forma del tao, con un po’ di male a macchiare il bene e viceversa. La pandemia funge da morality test atto a saggiare le qualità umane. Nel Faust (Friedrich W. Murnau, 1926), il personaggio eponimo – come Abramo, o il protagonista di Una poltrona per due (Trading Places, John Landis, 1983) – diventa vittima di una scommessa di Dio, che invia la peste a infestare una città. C’è sicuramente una componente sadica nell’azione di dèi o potenti che si divertono a usare gli uomini come cavie per le loro sperimentazioni. Per molti secoli la pandemia è stata un male in sé e anche il segno del male che Dio vuole agli uomini. La pandemia da Covid-19 è invece piuttosto laica. La contrapposizione tra Angelo e Diavolo si sfilaccia in una serie di tensioni molto mondane – fra classi di lavoratori, scientisti e anti-scientisti, fra scienziati stessi, fra sostenitori di un provvedimento o del contrario. La luce da semplificazione pandemica che illumina il cinema non penetra il cono d’ombra in cui è avvolta la nostra realtà.

[ Postilla: questo testo è stato precedentemente pubblicato nella rivista Il Tropico del Cancro il 3/06/2021 ]

Maurice Blanchot, L’écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980 (tr. it. La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990).
Fredric Jameson, Archaeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, London-New York, Verso, 2007.
Stephen King, The Stand, New York, Doubleday, 1990 (trad. it. L’ombra dello scorpione. The Stand, Milano, Bompiani, 2020 [Kindle Edition]).

Fotografia: Hiroshi Sugimoto

cinéDIMANCHE #24 KEN RUSSELL Amelia and the Angel [1957]

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Mercedes Quadros

[ dall’archivio ]


 
di Orsola Puecher

 
ken-bambino KEN RUSSELL nasce in Gran Bretagna il 3 luglio 1927 nella città marittima di Southampton, dal cui porto il 10 aprile 1912 era salpato il Titanic per il suo primo e ultimo viaggio. Il padre, un uomo severo e distante, ha un negozio di scarpe. Fin da piccolo Ken mostra il suo talento artistico, inizialmente molto incoraggiato in famiglia, soprattutto dalla madre, sensibile e afflitta da disturbi mentali. A soli quattro anni ottiene di accompagnarla ai té danzanti e al cinema. La sua passione per la musica e per le immagini in movimento è già evidente. All’età di 10 anni gli viene regalato un proiettore giocattolo, con cui organizza spettacolini cinematografici in garage con i film di Charlie Chaplin. I genitori vi assistono al caldo, chiusi nell’auto di famiglia. Non è molto bravo a scuola e scappa spesso di casa per rifugiarsi nei cinema della cittadina, dove, fra gli altri, vede due film che saranno ispirazione cruciale della sua futura carriera di regista e del suo stile visionario, la serie Die Nibelungen [1924] di Fritz Lang.

Die-Nibelungen-SiegfriedScaloni monumentali, cattedrali in cemento, prati brumosi disseminati di margheritine artificiali, foreste dagli enormi tronchi di cartapesta, castelli e fortezze in miniatura, grotte anch’esse di cartapesta, draghi meccanici, tutte quelle enormi costruzioni per metà merovingie e per metà cubiste, presero vita grazie a Otto Hunte, Eric Kettelhut, Carl Vollbrecht, scenografi abituali di Lang.
[Georges Sadoul Storia del cinema mondiale dalle origini ai nostri giorni, pp. 202-203, Feltrinelli, 1964]

 

Questo periodo sereno si interrompe, quando a 15 anni viene mandato in collegio al Pangbourne Nautical College nel Berkshire, una scuola pubblica che prepara i giovani all’ingresso nella Marina Mercantile, con una disciplina durissima e insegnanti tirannici, che il giovane Ken sopporta solo con il miraggio di futuri esotici imbarchi nei Mari del Sud, come nei film d’avventura della sua attrice preferita, Dorothy Lamour. Due anni dopo la dura realtà di membro più giovane dell’equipaggio di una nave cargo nel Sud Pacifico, con un capitano folle convinto di essere continuamente attaccato da sommergibili giapponesi e che lo costringeva a estenuanti turni di vedetta sotto il sole tropicale, lo condurrà in breve a un forte esaurimento nervoso. Tornerà a casa sconvolto: “Stavo seduto sul divano del salotto con lo sguardo nel vuoto, mentre la domestica mi passava l’aspirapolvere intorno.“, racconta. A farlo uscire dal suo stato catatonico riuscì solo la musica del famoso Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in SI Bemolle minore Op. 23 di Pëtr Il’ič Čajkovskij; e sarà proprio il Primo Movimento di questo concerto che userà nella colonna sonora del suo film sul compositore russo, L’altra faccia dell’amore [1970]. Si arruola in seguito nella Raf. E’ poi attore, ballerino e fotografo professionista. In virtù di un certo numero di film amatoriali, in particolare l’affascinante Amelia and the Angel del 1957, viene assunto dalla BBC. Si afferma con una serie di documentari artistici nel programma MONITOR, prodotto da Hue Wheldon, per cui lavora durante tutti gli anni 60. Notevoli i suoi studi sui compositori classici, come il capolavoro ⇨ Elgar [1962] e ⇨ Song of summer [1968] su Frederick Delius. Questi cortometraggi mescolano abilmente informazioni reali, dette dalla voce fuori campo di Wheldom, con immagini liriche ed evocative riprese da Russell. Sentendosi limitato dalla lunghezza imposta in MONITOR, in seguito nel programma OMNIBUS potrà esprimersi in veri e propri film quali ⇨ Debussy e il controverso e censurato ⇨ Dance of the seven veils su Richard Strauss. La passione per la musica e questo insieme di realismo e visionarietà, cifra saliente di tutto il cinema di Russell, saranno poi ripresi e portati al culmine nella sua trilogia musicale, L’altra faccia dell’amore [1970], su Pëtr Il’ič Čajkovskij, La perdizione [1974] su Gustav Mahler, Lisztomania [1976] su Franz Liszt e in alcune, spesso discusse, regie d’opera, The Rake’s Progress, Madame Butterfly, Faust e La Bohème in vari teatri europei.

K.R. Avevo 30 anni all’epoca, volevo entrare nel mondo del cinema e mi è venuta in mente quest’idea. Le riprese sono durate due settimane e sono stato molto fortunato in quanto ho avuto una brillante giovane attrice nel ruolo di Amelia, la protagonista. Il suo nome era Mercedes Quadros ed era figlia di un diplomatico argentino, mi era stata raccomandata da un amico. L’ho incontrata, sono rimasto incantato da lei e suo padre le ha dato il permesso di recitare la parte.

In Amelia and the the Angel cinque bambine, Amelia, Margaret, Mary, Rosemary e Jane, provano una danza per la recita scolastica. Sono vestite da angeli, con soavi e traballanti ali piumate. Miss May, l’insegnante, dice loro che non le devono assolutamente danneggiare. Dopo la prova, le bambine si cambiano, tolgono le ali e tornano a casa. Ma Amelia non può resistere alla tentazione di portarsi via le sue.

 

K.R. Era deliziosa e non si faceva alcun problema. Durante i vorticosi e terrificanti tragitti con la mia vecchia Morris 8 scassata, si comportò benissimo. Ricordo che a un certo punto cadde sui gradini dell’ Albert Memorial e si ruppe la mano, poverina. Per la maggior parte del film tenne la mano destra nascosta alla macchina da presa. L’ho incontrata di nuovo da grande. Vive in Argentina, con i suoi figli. Ricorda tutto con molto affetto.

Di soppiatto torna nello spogliatoio e le ruba. Nonostante vari tentativi di afferrale e rovinarle di cani, gatti, traffico, folla e ragazzini dispettosi, riesce a portarsele a casa sane e salve. Ma il giorno dopo suo fratello le prende di nascosto e dopo violente scorribande in un parco giochi, con la musica di Rossini velocizzata all’organetto, fra scivoli e altalene, le rompe e le straccia irrimediabilmente. Amelia piange, inconsolabile, e prega nella sua cameretta, rivolgendosi alle immagini di un Angelo e di un Santo pittore. Prende i suoi risparmi e va in giro per la città in cerca di ali simili alle sue, ma non riesce a trovarne di adatte.

 

K.R. Finanziare il film non fu difficile, costa pochissimo. Non avevo molti soldi, allora, circa 100 sterline, ma bastarono per girarlo. Quando ebbi finito, lo mostrai a Huw Wheldon alla BBC, che mi procurò un lavoro nel programma sull’arte Monitor. Un sacco di persone che stavano cercando di ottenere un lavoro in Monitor allora facevano film su cose come il venditore ambulante di Elephant and Castle. Il mio era così diverso da cose del genere e Huw ne fu colpito, perché era così insolito; non si aspettava un film di tale qualità. Mi prese alla BBC e mi lanciò in carriera, per così dire.

Vede un cagnolino con delle alucce attaccate alla schiena, lo segue e scopre che fa parte di un numero di un artista girovago; gli chiede se gli può dare le ali, ma poi si rende conto che sono troppo piccole. Le sue speranze rinascono, quando vede una bambina che disegna un angelo con il gesso sul marciapiede. Dopo aver ricevuto indicazioni su dove possa trovarlo, corre nel parco, ma scopre che l’angelo è solo una statua. Ormai scoraggiata di trovare altre ali in tempo per la recita, si siede sotto un grande albero ed ecco che all’improvviso vede una donna che corre per il parco con delle splendide ali piumate. La insegue fra balie, statue e fontane, ma la perde.

 

K.R. Ero in America un po’ di tempo fa, un paio di settimane fa, per un tour, e questo era il film che tutti volevano vedere, è stato un grande successo, ci sono stati quasi dei tumulti. Qual è il segreto del suo fascino così duraturo? Solo una bella storia, ecco tutto.

Fortunatamente all'”angelo” è caduta una piuma, fuori della casa in cui è scomparso. Amelia vi entra, sale diverse rampe di scale, spaventata da un vestito volante, che in realtà è trasportato su un manichino da uno strano personaggio. Arrivata in cima apre una porta e si scopre che l’angelo è la modella di un pittore, che per fortuna ha un certo numero di ali di scorta ed è contento di regalarne un paio ad Amelia. Così lei corre via felice, il viso raggiante trasfigurato dalla gioia, con le sue magnifiche nuove ali, la sagomina che rimpicciolisce in controluce, illuminata dal sole al tramonto, in dissolvenza.

 

Mercedes Quadros
Mercedes Quadros

 
Ken Russell  "Teddy Girls" [1955]
Ken Russell “Teddy Girls” [1955]
Mercedes Quadros con la frangia tagliata corta e il suo visetto elfico, sempre in bilico fra vivacità, ingenuità e turbamento, senza mai far sentire la sua voce, dona al personaggio di Amelia il sapore dolceamaro di una moderna Alice che attraversa lo specchio correndo a rotta di collo. Nel piccolo spazio di Amelia and the Angel ci sono già in nuce i temi ricorrenti e lo stile di Russell. Traspare innanzitutto la dimensione spirituale, Russell e sua moglie Shirley, che era la costumista, si erano appena convertiti al cattolicesimo, ma sempre intriso di una religiosità profonda e affatto bigotta. La storia è una specie di dichiarazione e di percorso di fede. Amelia è caduta in tentazione, ha peccato, rubando le ali, è stata punita, ma alla fine le sue preghiere vengono esaudite e riesce a trovarne un’altro paio. Nonostante il budget minimo, il film ha numerosi tocchi da maestro nelle immagini di raro nitore ed efficacia di un mondo, di una città vista dalla parte dei bambini, di certo frutto della sua esperienza di fotografo per la Universal Pictorial Press Agency negli anni ’50. Russell cameo Il taglio inconsueto delle inquadrature, il loro contrapporsi rapido, crea un movimento continuo, non lineare e fantastico. Russell in un piccolo cameo si raffigura come un passante con le mani in tasca, che urtandola interrompe solo per un istante la corsa vorticosa di Amelia. Le riprese di una città altra e minimalista, ancora con le rovine della guerra, abitata da strani personaggi dropout, come la buffa venditrice di abiti usati e l’artista di strada con il cagnolino e la scala nella stazione in disarmo, ricordano le atmosfere di Mary Poppins [1934], il romanzo, di Pamela Lyndon Travers dove dietro una porta c’è sempre un’altra porta e dietro le cose consuete ci sono sempre nascoste e mimetizzate quelle inconsute. La coreografia ingenua del balletto iniziale degli angeli,
Ken Russell "Man on bike playing guitar" [1956]
Ken Russell “Man on bike playing guitar” [1956]
i piedini nudi e quelli calzati della maestra, l’organetto a manovella che gira il suo disco di metallo traforato insieme al cerchio delle bambine, danzanti figurine di un carillon, ci fa subito capire che stiamo entrando in una dimensione delicata e parallela. Ken Russell racconta questa sua favola insolita con leggere e sottili pennellate: l’ironica tapezzeria di farfalle alate della cameretta di Amelia, mentre piange disperata per la perdita di altre ali, la camera a mano che imita un bambino che corre a zig zag, l’espressionismo della scena in cui Amelia sale le scale, la sacralità della musica di Bach in sottofondo, con la surreale apparizione del vestito volante, la salita in Cielo del pittore, raffigurato come il Cristo di un’icona, su una lunga scala a pioli, attraverso uno sfondo di nuvole dipinte, prima di scendere con le nuove preziose ali. Avere ali adatte è una cosa essenziale, nelle favole, in certi sogni di volo, nelle vite.
 
 
cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.