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Il vergognoso silenzio dell’Occidente su Gaza – editoriale del Financial Times

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Foto: Ansa

 

Ricevo e pubblico la traduzione dell’articolo “The west’s shameful silence on Gaza”, editoriale apparso il 6 maggio sul Financial Times.

Dopo 19 mesi di un conflitto che ha ucciso decine di migliaia di palestinesi e ha indotto ad accusare Israele di crimini di guerra, Benjamin Netanyahu si sta preparando ancora una volta a intensificare l’offensiva di Israele a Gaza. L’ultimo piano prefigura la piena occupazione del territorio palestinese con l’intento di spingere i gazawi verso sacche sempre più ristrette della striscia distrutta. Porterebbe a bombardamenti più intensivi e le forze israeliane sgombererebbero e prenderebbero possesso del territorio, distruggendo le poche strutture rimaste a Gaza. Ciò sarebbe un disastro per 2,2 milioni di gazawi che hanno già sopportato sofferenze insostenibili. Ogni nuova offensiva rende più difficile non sospettare che l’obiettivo finale della coalizione di estrema destra di Netanyahu sia quello di rendere Gaza inabitabile e di cacciare i palestinesi dalla loro terra. Per due mesi Israele ha bloccato la consegna di tutti gli aiuti nella Striscia. I tassi di malnutrizione infantile sono in aumento, i pochi ospedali funzionanti stanno esaurendo le medicine e gli allarmi su fame e malattie si fanno sempre più drammatici.

Eppure, gli Stati Uniti e i Paesi europei, che propagandano Israele come un alleato che condivide i loro valori, non hanno pronunciato alcuna parola di condanna. Dovrebbero vergognarsi del loro silenzio e smettere di permettere a Netanyahu di agire impunemente. Domenica, in un breve discorso, Donald Trump ha riconosciuto che i gazawi stanno “morendo di fame” e ha suggerito che Washington aiuterà a portare cibo nella striscia. Ma finora il Presidente degli Stati Uniti ha solo rafforzato Netanyahu. Trump è tornato alla Casa Bianca promettendo di porre fine alla guerra a Gaza dopo che la sua squadra ha contribuito a mediare il cessate il fuoco di gennaio tra Israele e Hamas. In base all’accordo, Hamas ha accettato di liberare gli ostaggi in fasi successive, mentre Israele si sarebbe ritirato da Gaza e i nemici avrebbero dovuto raggiungere un cessate il fuoco permanente. Ma a poche settimane dall’entrata in vigore della tregua, Trump ha annunciato un piano bizzarro che prevedeva lo svuotamento di Gaza dai palestinesi e la sua acquisizione da parte degli Stati Uniti. A marzo, Israele ha fatto fallire il cessate il fuoco cercando di modificare i termini dell’accordo, con il sostegno di Washington. Da allora, alti funzionari israeliani hanno dichiarato che stanno attuando il piano di Trump di trasferire i palestinesi da Gaza. Lunedì, il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha dichiarato: “Finalmente occuperemo la Striscia di Gaza”. Netanyahu insiste che un’offensiva allargata è necessaria per distruggere Hamas e liberare i 59 ostaggi rimasti. La realtà è che il primo ministro non ha mai articolato un piano chiaro da quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha ucciso 1.200 persone e scatenato la guerra. Invece, ripete il suo mantra massimalista di “vittoria totale”, cercando di placare i suoi alleati estremisti per garantire la sopravvivenza della sua coalizione di governo.

Ma anche Israele sta pagando un prezzo per le sue azioni. L’offensiva allargata metterebbe a repentaglio la vita degli ostaggi, minerebbe ulteriormente la reputazione di Israele e approfondirebbe le divisioni interne. Israele ha comunicato che l’operazione estesa non inizierà prima della visita di Trump nel Golfo la prossima settimana, affermando che c’è una “finestra” in cui Hamas può rilasciare gli ostaggi in cambio di una tregua temporanea. I leader arabi sono infuriati per l’incessante ricerca del conflitto a Gaza da parte di Netanyahu, eppure festeggeranno Trump in cerimonie sontuose con promesse di investimenti multimiliardari e accordi sulle armi. Trump darà la colpa ad Hamas quando parlerà con i suoi ospiti del Golfo. È l’attacco omicida del 7 ottobre che ha scatenato l’offensiva israeliana. Gli Stati del Golfo concordano sul fatto che la sua persistente stretta su Gaza è un fattore che prolunga la guerra. Ma devono opporsi a Trump e convincerlo a fare pressione su Netanyahu per porre fine alle uccisioni, togliere l’assedio e tornare ai colloqui. Il tumulto globale scatenato da Trump ha già distolto l’attenzione dalla catastrofe di Gaza. Tuttavia, più a lungo si protrae, più coloro che rimangono in silenzio o che sono costretti a non parlare si renderanno complici. (traduzione di fd)

Morire di strati

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di Giovanna Conti

Pellicola 

Morire di strati

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Riferimenti

Pellicola

In Note per una pellicola, cito il nome Costanza avendo a mente la regista italiana
Costanza Quatriglio ed il suo recente film, Il cassetto segreto (2024), dedicato alla
memoria paterna. L’ingiunzione “decidere cosa tenere o cosa lasciare” viene dal
film, io l’ho modificata in versi.

I collage di questa sezione intrecciano una foto di un giovane Roland Barthes tratta
dal suo Roland Barthes (Vintage, London, 2020) e una fotografia di mio padre
bambino. Ancora sorrido alla somiglianza tra i volti.

una pellicola su (Jon) Giovanni dialoga col testo Notes Towards a Film About My
Father (Jon) della poeta americana Eleni Sikelianos, contenuto in The Book of Jon
(City Lights, San Francisco, 2004). I versi inglesi sono citazioni sparse di questo
componimento.

Morire di strati

Cirro comincia con una mia traduzione scartata/sbagliata di un passo di Mourning
Diary (Hill and Wang, New York, 2009) di Roland Barthes. Di seguito, per intero
con punteggiatura originale: “November 1 / What affects me most powerfully:
mourning in layers—a kind of sclerosis. [Which means: no depth. Layers of
surface—or rather, each layer: a totality. Units]” (p. 28). Stratificazione e spellatura
si intrecciano, come due facce allo specchio.

[…] L’immagine che ritrae mio padre e una ragazza sconosciuta seduti di fronte a un
quadro è stata scattata da me al Moma di New York nel gennaio 2023. Non ricordo
l’autore né il titolo del quadro. Si potrebbe trattare di un untitled di Cy Twombly
(secondo l’identificazione fatta da ChatGPT) a me, però, resta il dubbio.
Comunque, ho ritagliato la scena all’infinito e perso ogni piccolo appiglio…

*

Una nota dell’autrice

I testi poetici e le immagini che ho raccolto interrogano la figura di mio padre a partire dalla sua faccia difficile. Se il tentativo dell’io poetico è quello di una “spellatura” e sperata conoscenza della figura paterna, quest’ultima sembra, però, sottrarsi ad ogni contatto. La sua faccia ha aria di nuvola, tra le mani di figlia non resta, forma inconsistente si libera. Di fronte all’inconoscibilità reciproca, si muovono le mani dell’uno e dell’altra: padre e figlia si afferrano, tagliano, riprendono senza sosta. Apoesie più tradizionali ne ho affiancate diverse fatte di cancellature, sovrapposizioni, numeri che pungono. I collage sono ottenuti da mie foto di famiglia, documenti legali di divorzio, immagini di recenti alluvioni. La speranza è che i continui passaggi di stato—dall’Italia all’America e poi indietro, dagli sbuffi di mio padre alla sua rabbia dura—ci allontanino, modifichino, riuniscano in verso più pacifico. Controparte essenziale del taglio è forse il lavoro di cucito? Io sono il filo, il figlio, la figlia, ho la forza di un pollice incallito.

*

Giovanna Conti vive e lavora tra gli Stati Uniti e l’Italia. Sta facendo un dottorato di ricerca in cinema e letteratura contemporanea a Brown University, dove insegna nei dipartimenti di Italian Studies, Comparative Literature e Modern Culture and Media. Ha esposto alcuni suoi lavori di blackout poetry alla mostra “Unprecedented” presso la Brown Rockfeller Library (Providence, RI). Ha vinto il terzo premio di Italian Poetry Today dell’università di Oxford (UK) per poesie inedite. Questi estratti fanno parte di un’opera verbo-visiva inedita ancora in lavorazione.

“Raccontare il lavoro”, un’iniziativa verso il referendum

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Immagine tratta dal sito dei comitati promotori della campagna per i referendum: www.referendum2025.it

di Davide Orecchio

Manca un mese esatto al referendum. 5 SÌ per il lavoro e per la cittadinanza. E, su Collettiva, grazie a un’idea di Carola Susani, abbiamo messo in piedi un’iniziativa di militanza narrativa. Collettiva ospiterà storie di lavoro offerte da un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere. Come spieghiamo con Carola Susani in un pezzo di introduzione, “i racconti che saranno pubblicati da Collettiva da qui alle prossime settimane sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto”.

Nel primo pezzo che abbiamo pubblicato (Però non sono mestieri da fare da soli) Veronica Galletta dialoga con Sandro Vitale, operaio di una cooperativa storica di Palermo, esperto nella manutenzione di gru e carroponti per Fincantieri. “Quando guardo di sotto penso che siamo fortunati”.

Scriviamo con Susani:

Se – solo per citare i primi tre racconti in ordine di pubblicazione – Veronica Galletta […] scopre che è un noi, una voce collettiva, quella che è necessario raccontare, invece Daniele Petruccioli, ascoltando un portuale di Palermo, trova al cuore della questione proprio la sensatezza del lavoro, la necessità del riconoscimento e della messa a frutto della sapienza e dell’esperienza. Mariasole Ariot, raccontando l’emersione di Emanuela da una esperienza di precarietà e l’incontro con la Fiom, ci permette di capire di cosa abbiamo bisogno perché il lavoro faccia la sua parte nella sensatezza della vita.

Cosa chiedono i 5 quesiti referendari?

In estrema sintesi: il primo quesito chiede di cancellare le norme sui licenziamenti del Jobs Act, che consentono alle imprese di non reintegrare un lavoratore licenziato in modo illegittimo nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015; il secondo di proteggere dai licenziamenti i lavoratori di imprese con meno di 15 dipendenti; il terzo di interrompere l’abuso dei contratti a termine precari; il quarto di rendere responsabili della sicurezza e degli infortuni sul lavoro le grandi aziende committenti di appalti e subappalti. Il quinto quesito propone di dimezzare da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992.

www.referendum2025.it

Tornando ai racconti…

Ragioniamo ancora su Collettiva:

C’è, in questo momento storico, la sensazione di uno scadimento condiviso e pervasivo nel mondo del lavoro. Come fa un lavoro così ridotto a essere il tessuto della vita collettiva? Eppure sono poche le circostanze in cui una persona incontra il mondo, vario e complesso, si mette alla prova in azione di fronte agli altri, si rivela a sé stessa, incontra ceti sociali diversi dal proprio, altri stili di vita, altre prospettive culturali, dove le viene richiesto di affrontare le questioni, le difficoltà come essere umano in relazione ad altri essere umani. È il lavoro la circostanza principale in cui questo è avvenuto. Senza lavoro, il tessuto sociale si scolla, la vita, solitaria, appare insensata. A partire da queste riflessioni, per quanto qui accennate e incompiute, ci piacerebbe fare della campagna referendaria l’occasione per riflettere in controluce sul lavoro che vale la pena. Esiste? C’è ancora la possibilità di lavorare creando il tessuto della vita comune? Quali sono le condizioni perché questo avvenga?

Vi invitiamo a seguire questa iniziativa. E, soprattutto, vi invitiamo a votare SÌ il prossimo 8-9 giugno.

Cortile

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di Fabio Poggi

la manovra non precisissima vediamo a che ora veniamo via dalla discarica arriveremo sempre verso le undici in totale meno di due successi su quattro tentativi dipende perché se arrivassimo dove riverbera una forza è il più grande il più noto e di attesa venti minuti mezzora il problema è non so se ce la facciamo perché devi sempre tornare indietro poi veniamo qui triangolo verde lo vedi è qui un po’ poco per cantare vittoria era stato chiaro fin da subito chi ha fame si porta un panino dietro ci sono tre ore da girare luoghi che meglio di chiunque un po’ poco per la manovra poi ci sono tutti questi uccelli statue a questo punto partiamo alle cinque cinque e mezza sì le avevo parlato non deve temere l’arrivo di altri analisti sono rappresentati lo vedi che hanno preso piede tutte le esperienze pesano la vendita generalizzata e in maniera slegata magari lo sanno semmai la metto un po’ di lato ma non hanno capito non è libero magari lo sanno perché ti spiego una bellezza pensate se la vagonata alla base di interni domestici saturi quelli in cui potrebbe diventare libero è praticamente quasi di sotto aspetta quando torniamo indietro quando poi siamo qui ci infiliamo lo vedi sono strette e andiamo alla casa trattoria lo vedi triangolo verde a fronte di un simile andamento nello scorso anno dice sempre la piattaforma centralizzata che l’offerta focalizzata sì sì è bello si va da uno di questi giganti invece ribattono che la questione non può risolversi non buongiorno ciao franci

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la sabbia era vera e vulcanica e occorre aspettare una nuova finestra di allineamento consiglio la lettura del libro perché da un lato una dose troppo alta non perdona ma quando sei tornato esattamente in camera dici dall’altra bisogna riempire i serbatoi a braccio era più semplice come lei si allontana la chiama un’avventura lunga quella volta con la michi per limitare i rischi occorrerebbe accorciare il percorso espositivo che combina installazioni ma mica devono andare in profondità soprattutto per la salute segnalateceli basta lo screenshot per finire nei guai mica devono andare in un albergo che camera dici due ragioni che hanno reso probabilmente difficile la passeggiata che poi appunto non fa freddo in realtà la sabbia era vera e vulcanica la chiave dell’albergo che non funziona non era possibile arrivare e mi sono trovato di culo in centrale sto parlando del principio di opportunità per non parlare di altre caratteristiche fare propria una piattaforma entro una decina di anni dopo tutto in appena otto anni da quella volta con la michi un sacco di storie questo te l’avrà detto in camera dici o forse pensavano che reagire consiste nel allora che cosa possiamo fare sappiamo che perforano le rocce sappiamo benissimo come chiedere finanziamenti per l’esplorazione come lei si allontana la chiama e raccolgono campioni tutti i viaggi sono stati di sola andata la teoria non tiene sicuro che fosse possibile arrivare ma quando sei tornato esattamente la chiave dell’albergo questo te l’avrà detto ti ricordi è la prima cosa ti ricordi ma non succederà più forse non aveva ben chiari i problemi della michi

*

l’assenza  verrà

il caso va visto

d’ora in poi in qualunque

scendere

i gradi

scompaiano moltiplicando

compaiano sottraendo

non prima di

una misura l’osservabile

può nel preciso stato

deve una rappresentazione

superiore a

sottinteso è di

zero

*

che cosa è stato sbagliato

andiamo nello spazio

possibile arrivare

entro una decina d’anni

un fisico corpulento

il suo spazio

fu in primo luogo la discoteca

è a dir poco sorprendente

come si materializzano

intervenite

chiudiamo e apriamo

gli ordini dei palchi

intervenite numerosi

alle diciotto

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della scarica trovare l’oggetto

il disinvestimento dell’oggetto

strapperanno

dove si combatte

farli accompagnare

offra nuove fonti di

è sufficientemente simile

oggetto

o resto le significative

qualità disturbante del

camuffarsi non sai se con

lungo due

i prevedibili

*

alla mano di tutti

lei su cosa

capillare

sei stata proprio tu

accompagnata da ampio apparato

secondo te cosa segna

il servizio da liquore

in cui il famoso cimitero

intimo e diaristico

piuttosto la sua occupazione

la coppa scanalata

diffusione

da algos dolore

come mai non mi sono accorta

L’unico palestinese buono è un palestinese morto

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[Anche Nazione Indiana aderisce all’iniziativa: L’ULTIMO GIORNO DI GAZA 9 maggio – L’Europa contro il genocidio*. Si legge nel comunicato stampa: Una giornata solo per Gaza, la prima di un percorso per “rompere il silenzio colpevole” su quello che da un anno e mezzo, senza sosta, sta succedendo sulla Striscia e anche sulla Cisgiordania. “Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora”. La data scelta dai promotori di una lettera pubblica per un’azione diffusa, dal basso e online, ha un preciso significato. È il 9 maggio, la giornata in cui tradizionalmente si celebra l’Europa e il suo processo di unificazione. Non è certo casuale. “Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani.” Ci sembra importante aderire, tanto più che questo sito ha ospitato molto presto sia testimonianze provenienti da Gaza sia riflessioni intorno a quello che stava accadendo anche tra noi (occidente) e quella parte del mondo che, pur lontana, è intimamente e tragicamente legata alla nostra storia. a. i.]

di Andrea Inglese

1. L’inverno dell’anno 2024-2025 sarà ricordato da alcuni di noi, come l’inverno in cui abbiamo percepito la storia presente come un incubo da cui è impossibile risvegliarsi. Ci siamo cioè ritrovati in una condizione che conoscemmo alcuni anni fa, e precisamente durante la pandemia mondiale di Covid: una condizione d’inadeguatezza radicale nei confronti di ciò che accadeva nel mondo circostante. Questa inadeguatezza ha qualcosa di più destabilizzante dell’impotenza politica, ossia della percezione che la società a cui apparteniamo, nel suo insieme, stia imboccando una via pericolosa e distruttiva, e che forze ben più grandi delle nostre la spingono in tale direzione. L’inadeguatezza radicale non ci dice semplicemente che non abbiamo le forze necessarie per opporci a un’ingiustizia, a un avversario sleale ma più forte di noi; ci rende anche consapevoli di una nostra debolezza costitutiva, del fatto che comunque sia non siamo abbastanza forti come vorremmo. In una tale situazione, di sconfitta personale e collettiva, possiamo salvaguardare almeno qualcosa d’importante: ossia la responsabilità di dire che quel che vediamo, viviamo, ascoltiamo, è un incubo, e non una concatenazione normale di eventi. E inoltre dobbiamo anche riuscire a dire che questo incubo non è frutto di un fenomeno naturale, e al di sopra della nostra volontà, come la legge della gravitazione terrestre, ma un insieme di decisioni umane accompagnate da un insieme di discorsi, di frasi scritte o dette.

2. Questo inverno sarà memorabile per una regressione generale delle politiche sul clima, perché è il terzo anno di una guerra alle porte dell’Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina; perché ci siamo resi conto che, nel giubilo generale, i sistemi d’Intelligenza artificiale hanno iniziato a funzionare nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche, senza che i lavoratori o i cittadini abbiano avuto l’occasione di esprimersi su queste scelte; perché, con la nuova presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno radicalizzato la loro posizione di dominio mondiale senza egemonia, alimentando il caos a livello geopolitico. Infine questo è l’inverno in cui, anche i più recalcitranti di noi, i più scrupolosi nell’uso del linguaggio, si sono resi conto che il massacro della popolazione palestinese di Gaza esigeva di essere descritto attraverso l’uso del termine “genocidio”. E da due mesi questo genocidio si è fatto ancora più evidente, perché alla guerra delle bombe si è aggiunta la guerra della fame. Israele ha infatti imposto alla Striscia di Gaza un assedio totale (di terra, aria e mare), ossia il blocco di ogni possibile aiuto medico e umanitario destinato a sollevare la situazione di una popolazione di sfollati, stremata dalla fame e dalla sete, e sottoposta a massicci bombardamenti. Una popolazione che, secondo le stime più recenti, dall’8 ottobre 2023 conta 52.418 morti e 118.091 feriti.

La decisione del blocco completo è conseguenza della rottura unilaterale, voluta dal governo Netanyahu, degli accordi firmati tra Israele e Hamas il 15 gennaio, accordi che prevedevano l’uscita dal conflitto in tre fasi (Cosa prevede l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas a Gaza: quando scatta la tregua). Dopo l’insediamento di Trump, tali accordi non erano più considerati vincolanti, dal momento che lo stesso presidente americano, ricevendo Netanyahu alla Casa Bianca in febbraio, annunciava un nuovo piano incentrato sullo “spostamento” in Egitto o in Giordania della popolazione palestinese e l’occupazione statunitense di Gaza per scopi turistici e commerciali.

3. Nel 1868, durante le Guerre Indiane che conduceva spietatamente, il generale Philip Henry Sheridan, di fronte a un gruppo di capi delle tribù native, pronunciò una frase che divenne famosa: “Gli unici indiani buoni che abbia mai visto erano morti”. Oggi, l’azione del governo Netanyahu, dopo un anno e sette mesi di guerra praticamente ininterrotta contro Hamas, può essere letta attraverso un calco della macabra frase di Sheridan: “Ogni palestinese buono di Gaza è un palestinese morto”. Questa frase costituisce il nucleo ideologico e genocidario che sottende l’impresa di distruzione della Striscia (edifici e infrastrutture) e di uccisione, ferimento, denutrizione della sua popolazione. La guerra globale contro Gaza si è poi accompagnata all’annessione di sempre nuovi territori in Cisgiordania.

Dopo la strage del 7 ottobre, ogni volta che si parlava della sicurezza di Israele, si ometteva quasi sempre di dire che la sicurezza in questione non era quella di un paese con delle frontiere definite internazionalmente, ma quella di un paese occupante, minacciato di conseguenza da un popolo in lotta per l’autodeterminazione. Un circolo vizioso ha così giustificato per più di mezzo secolo il principio secondo il quale Israele, per poter esistere incolume, deve occupare dei territori palestinesi, anche se poi è innanzitutto questa occupazione che minaccia la sicurezza dei suoi cittadini. Dopo 57 anni di ciclica insicurezza, però, l’estrema destra e i sionisti religiosi al governo hanno deciso di affidarsi a un piano di pulizia etnica, che li metta per sempre al riparo da qualsiasi azione militare o terroristica perpetrata in nome della libertà del popolo palestinese. E l’equazione macabra che hanno stabilito non è un iperbole diffamante o antisemita, ma una formula che si situa nel cuore della propaganda governativa: 1) Hamas è un nemico assoluto da annichilire, in quanto ridotto esclusivamente alla sua componente terroristica e armata; 2) il popolo palestinese non annichilendo esso stesso Hamas, ne è complice; 3) il popolo complice di un gruppo terrorista è esso stesso terrorista. Durante i primi mesi di bombardamenti, quando ancora si poteva parlare in modo plausibile di obbiettivi militari, la propaganda israeliana presentava il popolo palestinese (i civili), come ostaggi e vittime di Hamas. E anche le istituzioni internazionali, entro certi limiti, concordavano con questa narrazione. Oggi, però, di fronte a montagne di detriti e montagne di cadaveri, appare chiaro che, per l’esercito israeliano, con il consenso di una maggioranza delle popolazione israeliana, ogni palestinese sulla Striscia di Gaza – che sia vecchio, donna o bambino – è considerato come puramente e semplicemente “annientabile” in quanto terrorista attivo o potenziale.

4. Forse noi, qui, nella zona di pace occidentale, siamo riusciti tutto sommato a dormire. I bombardamenti, gli incendi, i parenti sepolti sotto le macerie, erano cosa lontana, più intravista che vista. Ma non abbiamo dormito bene. Io non ho dormito bene. Gli stessi incubi notturni assumevano le fattezze di quello che il telegiornale non mi diceva del tutto, ma che la parte inconscia di me, inconscia e forse “sociale”, assorbiva con grande precisione. Passeggiate a Milano, in mezzo a palazzi che iniziano a crollare come castelli di carte e senza apparente motivo. Prigionieri che sbucano fuori da scale ripide e buie che portano in seminterrati; prigionieri con ancora le tracce addosso delle sevizie e dei giorni di fame.

La nostra inadeguatezza non ha smesso di seguirci come un’ombra cupa, e ha inevitabilmente avuto un tremendo effetto demistificante: ma a che servono, di fronte a tutto questo, i rituali di pace, i giorni della memoria, le nostre credenze su una giustizia possibile, su delle istituzioni almeno in parte affidabili, il rispetto per gli innocenti, l’amore per le opere d’arte o le opere letterarie? Ha qualche senso il vivere insieme? L’umanità è qualcosa d’altro che cecità, sonnolenza e furore?

Di fronte all’orrore della distruzione del popolo palestinese non ho potuto che toccare con mano la mia estrema impotenza. Ma chi può qualcosa di fronte a un esercito che non fa entrare a Gaza né i giornalisti né gli aiuti umanitari e che minaccia la vita delle ONG neutrali e disarmate o degli stessi impiegati delle Nazioni Unite?

Ma all’impotenza politica, in quanto cittadino isolato e insignificante, si è poi affiancata la vergogna di non poter dire, e quindi di non poter pensare quello che stava accadendo. Quello che Ilan Pappé, in un articolo del 24 aprile, definisce “L’Occidente ufficiale” ha cominciato a bloccare il discorso, a creare un sentimento d’incertezza diffusa e ingiustificabile, capace di minare anche le constatazioni, le reazioni emotive, i ragionamenti più evidenti. Pappé parla molto bene di questa cosa, introducendo il concetto di “panico morale”. Scrive Pappé:

“Questo fenomeno è noto nella ricerca recente come Panico Morale, molto caratteristico delle fasce più coscienziose delle società occidentali: intellettuali, giornalisti e artisti.

Il Panico Morale è una situazione in cui una persona ha paura di aderire alle proprie convinzioni morali perché ciò richiederebbe un certo coraggio che potrebbe avere conseguenze.”

Comunque sia, io ho sentito che almeno su questo piano qualcosa andava fatto. Sul piano del linguaggio, del discorso. Bisognava trovare un modo di entrare nel campo che l’Occidente ufficiale aveva “minato”, camminarci dentro, anche senza avere né arte né parte. È quello che hanno fatto anche gli studenti un po’ dappertutto nel mondo. Coloro che “mancano di sapere” e frequentano le istituzioni educative (scuole, università) per acquisirlo dai “detentori ufficiali” del sapere. Di fronte all’urgenza della situazione si sono detti che in quel campo minato avrebbero dovuto camminarci, a rischio di fare errori, di sbagliare parole, di concatenare male qualche argomento, di dimenticare qualche fatto importante.

Così, con la scrittura, ho cercato di fare anch’io, come un certo numero di altri individui che come me subivano l’impotenza politica, ma non volevano vergognarsi di non riuscire a pensare per eccesso di prudenza. Ognuno ha trovato un modo per fare esistere la popolazione palestinese e le sue sofferenze al di fuori del quadro troppo ristretto, troppo deformato, che l’Occidente ufficiale aveva reso disponibile.

Oggi anche Nazione Indiana partecipa a questo invito per fare esistere la sofferenza del popolo palestinese e per denunciare il genocidio in atto a Gaza.

Linko quindi di seguito interventi diversi già pubblicati. Abbiamo anche delle testimonianze dirette, come quella di Yousef Elqedra, poeta palestinese che ha vissuto a Gaza dall’inizio della guerra fino a poche settimane fa. I suoi testi sono stati tradotti da Sana Darghmouni e proposti da Renata Morresi.

La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #1 | NAZIONE INDIANA

La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #2 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #3 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #4 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #5 | NAZIONE INDIANA

La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca | NAZIONE INDIANA

Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler | NAZIONE INDIANA

L’altro volto della resistenza | NAZIONE INDIANA

L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza | NAZIONE INDIANA

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Dal comunicato stampa di L’ULTIMO GIORNO DI GAZA 9 maggio – L’Europa contro il genocidio.

A promuovere la vera e propria ‘chiamata a raccolta’ sono, in ordine alfabetico, Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo. E a sostenere la lettera pubblica sono oltre centocinquanta persone che appartengono a diversi mondi professionali e culturali. Tutte accomunate dall’urgenza, dal tempo che sta finendo.
Chi vorrà partecipare a #UltimogiornodiGaza può inviare comunicazioni sulle iniziative a una e-mail
dedicata: 9maggioxgaza@gmail.com

Di seguito, la lettera pubblica.

L’ULTIMO GIORNO DI GAZA
9 maggio – L’Europa contro il genocidio
#ultimogiornodigaza #gazalastday
Il 9 maggio è la Giornata dell’Europa: ma è anche l’ultimo giorno di Gaza. Perché il tempo sta
finendo, per questa terra nostra. Questa terra del Mediterraneo, il mare che ci unisce.
Per questo, in quella giornata in cui ci chiediamo chi siamo, vi chiediamo di parlare di Gaza,
di farlo ovunque vorrete. E di farlo, tutte e tutti, sulla rete: su siti, canali video, social. E
sempre con l’hashtag #GazaLastDay, #UltimogiornodiGaza.
Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi,
italiani, europei, umani.
Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui
possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza. Perché possano partecipare tutte e
tutti, anche solo per pochi minuti. Anche chi è prigioniero della sua casa, e della sua
condizione: come i palestinesi, i palestinesi di Gaza lo sono. Perché almeno stavolta nessuna
autorità e nessun commentatore allineato possa inventarsi violenze che occultino la violenza:
quella fatta a Gaza.
Sulla rete, e non solo. Per chi vuole mettere in rete ciò che succede nelle piazze e nelle
comunità che si interrogano, assieme, su come fermare la strage.
Con la consapevolezza che noi siamo loro. E che a noi – italiani ed europei – verrà chiesto
conto della loro morte. Perché a compiere la strage è un nostro alleato, Israele. Per ripudiare
l’Europa delle guerre antiche e contemporanee, per proteggere l’Europa di pace nata da un
conflitto mondiale, esiste un solo modo: proteggere le regole, il diritto, e la giustizia
internazionale. E soprattutto guardarci negli occhi, e guardarci come la sola cosa che siamo.
Umani.
Aggiungiamo tutte le parole che vorremo usare all’hashtag #ultimogiornodigaza
#gazalastday.
Senza scomunicarne nessuna, senza renderne obbligatoria nessuna. Per chiamare le cose con il
loro nome.
Ora è il momento di costruire una rete di senza-potere determinati a prendere la parola. E il
9 maggio è la prima tappa di una strada assieme.
Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora.
Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari,
Francesco Pallante, Evelina Santangelo

 

Il “Faldone”: un estratto

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[Questi testi fanno parte di una sezione di Faldone non ancora pubblicata in precedenza. Faldone, da poco uscito per il Saggiatore, raccoglie il lavoro di scrittura in versi di Vincenzo Ostuni dal 1992 al 2024, in un’edizione che si vuole “intera”, ma come l’autore stesso sottolinea “non completa”, perché il progetto stesso è costitutivamente interminabile. Il volume di quasi 800 pagine include, assieme a una nota dell’autore, anche un saggio di Luigi Severi, dal titolo “un monumento, un documento”. Il viaggio del Faldone verso la “comune presenza”.]

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Cûr

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Immagine generata da AI
Immagine generata da AI

di Giulia Zoratti

Oggi faccio guidare te. Passo le ore di autostrada a contare quanti chilometri mancano al nostro arrivo. Non voglio scendere. Gli interni di questa macchina sono un frammento di stabilità. Il nostro continuo cambiare case ha spezzato i confini dell’intimità domestica. Ci distendiamo in letti dove fino a poco fa dormiva qualcun altro, abbiamo finestre affacciate sempre su città diverse. L’unico posto dove possiamo sempre tornare, è in viaggio.

Senti il bisogno di riempire il mio silenzio di rassicurazioni.

«Se la pioggia è troppo forte ci possiamo sempre fermare».

La tua previsione è giusta. La notte si sporca di un nero più intenso, e siamo in un buio che i fari della macchina tagliano come lame.

Le strade che ci portano a casa scivolano nella campagna delle colline ma la pioggia sempre più forte rende il percorso incerto. I rilievi morbidi diventano ostili e noi siamo silenziosi. L’asfalto è indistinguibile dalla terra dei campi. Spegni la radio. I canali di scolo invadono la carreggiata dandoci l’impressione di navigare in un mare basso.

Cerco di anticipare un nostro incidente. Io e te insieme, sarebbe stato bello. I movimenti dei nostri corpi, sbalzati fuori, avrebbero ricordato un volo.

Non ho mai immaginato la morte come qualcosa di spaventoso, è solo un’attesa.

Accostiamo appena vediamo una tettoia.

«Finché non smette», mi dici mentre ti accendi una sigaretta. Con il motore spento l’unica luce che vedo è quel punto rosso che brucia.

Continuo a abbassare lo sguardo sul cellulare. Una chiamata persa.

Quando arriviamo nella mia stradina, Nives, la vecchia vicina, si accorge di noi. Esce di casa nonostante sia sera. Ti viene incontro appena scendi dalla macchina.

«Di cui sês tu?», di chi sei?, ti chiede, pensando a qualche cugino arrivato per il funerale. Una domanda che può esistere solo in quei posti dove tutti si conoscono.

Resti interdetto per quella lingua che non ti è familiare. Appena vede me, Nives capisce.

«Ah, le so frute…» dice toccandosi il viso, mortificata.

Frut è una parola che ti ha sempre incuriosito, non essendo cresciuto ascoltando questa lingua. Significa bambino, ma significa anche frutto.

Frute, dulà ise tô mari?, dov’è tua madre? mi chiedevano spesso, e io mi sentivo una pesca gonfia di succo. Una delle tante more di un gelso, che appena la tocchi ti sporchi le dita.

Nives mi dà un abbraccio.

«Farò tante preghiere», dice, come se mi dovesse rassicurare.

Mentre mi parla mi fermo sul suo viso.

Le facce del mio paese sembrano quelle di animali selvatici.

Entriamo in casa.

Mia madre ha fatto dei cambiamenti. Un nuovo colore per una parete, una cassettiera in più, l’ennesimo mobile invaso dai libri. Anche il tavolo della cucina è pieno di carte, appunti. Ogni angolo è un tentativo di fuga. Raccolgo tutto ma non trovo dove appoggiarlo.

Improvviso una pasta mentre tu accendi il camino.

Dopo cena rimaniamo seduti a tavola, una cosa che di solito non facciamo mai. In questo ambiente improvvisamente estraneo i nostri tempi si dilatano. Ci rilassiamo. Inizio a raccontarti la storia dell’incidente di mia madre. La chiamo storia, perché non sappiamo davvero come sia andata. Ogni volta cerco di aggiungere nuovi dettagli, immaginandoli e poi chiedendoti qualche conferma.

I suoi amici non ricordavano bene quando era partita, era una giornata festiva, nessuno badava all’orologio. Lei aveva portato il pane fatto in casa e le verdure del suo orto. Era una lunga tavolata di gente della sua età. Ognuno aveva raccontato dei propri figli andati lontano. Ho cercato di capire se fosse stata una serata allegra, con calici di vino scuro sempre pieni. L’ho chiesto alle sue amiche, ma loro, chiuse in un silenzio abbottonato, mi restituivano solo poche parole in lingua. Una lingua maledetta, dove il lessico non permette di divagare. O jerin ben, stavamo bene.

«Volevo solo capire perché mi avesse chiamata. Magari alla cena le era venuto in mente di dirmi qualcosa».

Mi guardi con aria stanca. Non hai mai compreso il rapporto che avevo con mia madre. Sei stato accolto con calore. Con te vicino tutto diventava più semplice. Si imbastivano discorsi, si apparecchiava la tavola, si passava la serata insieme accanto al fuoco. Tu facevi in modo che non si spegnesse, curando quella fiamma tormentata dal vento nella canna fumaria. E io di contorno vi ascoltavo, stupita dell’intreccio delle vostre voci. Quando ero sola in quella casa, invece, mia madre si muoveva come se io non ci fossi. Mangiavamo separate, non per volontà di allontanarci ma per abitudine. La sua indipendenza da tutti, il bisogno di prendersi i suoi spazi, di mangiare appena sentiva la fame, di dormire solo quando si era stufata di leggere. Un ritmo costruito per essere sola.

Una chiamata persa. Non cancello la notifica, così ho sempre la sensazione che mi stia cercando.

Era quasi arrivata a casa.

Una volpe era passata per strada.

Penso di aver trascorso talmente tanto tempo a osservarla, a indovinare i suoi movimenti, a interpretare i suoi sospiri, da poter prevedere ogni sua reazione di quella sera.

Lei aveva provato a sterzare, era stato inutile. Sono venuta a sapere che la sua auto era finita contro un albero, mentre il corpo dell’animale era stato trovato poco più in là. Mia madre era riuscita a liberarsi dalla macchina in fiamme, aveva mosso qualche passo, si era accasciata vicina alla volpe. Mi chiedo se le abbia fatto piacere non morire da sola ma vicino a quel corpo. Se ne abbia potuto ammirare la bellezza. Mi immagino il sangue di mia madre che si mescola a quello di un animale selvatico.

Quando ero bambina non era raro che la volpe venisse nei nostri campi. Spesso riusciva a intrufolarsi nel pollaio di Nives. Mamma mi svegliava all’alba per mostrarmi quella volpe nel nostro prato. Mi portava in braccio davanti alla finestra, e io con gli occhi fragili per la luce la guardavo, seguita dai cuccioli.

«È una mamma», mi diceva sussurrando piano come se l’animale ci potesse sentire, «è per sfamare i suoi cuccioli che rischia tanto avvicinandosi alle case».

Aveva ragione. Qualche tempo dopo quella vicinanza si era rivelata fatale. La volpe giaceva nell’erba. La si poteva vedere anche dalla finestra della mia camera, un punto rosso che si stagliava nel verde. Non c’era modo di nascondersi in quei campi. Mia mamma mi ci ha accompagnato, tenendomi per mano. Era raro poter vedere così da vicino un animale tanto bello, non voleva perdere quell’occasione.

La volpe aveva gli occhi spalancati. Le iridi verdi erano ancora lucide, ma già coperte di polvere e sterpaglie. Il suo sguardo sporcato mi sembrava una bestemmia scritta sul muro di una chiesa. Il pelo rosso, folto, mi dava la sensazione di volerlo accarezzare. Riparare con le carezze la pancia rotta, la pelliccia intrisa dal sangue, le viscere brillanti che i corvi avevano iniziato a rubare poco prima che arrivassimo noi.

Mamma si era stupita quando aveva visto che io, invece di rimanere affascinata, piangevo fino a farmi mancare il respiro. Pensavo ai cuccioli.

Togliamo le lenzuola dal letto di mamma. Letto rifatto da lei, con i bordi sempre piegati accuratamente e adagiati sotto al materasso.

Mi allontano mentre tu leggi qualche pagina di un libro trovato sul comodino.

Faccio una doccia. Indosso la maglietta di un vecchio concerto. Noto il profumo di mamma accanto allo specchio e me lo metto sulla t-shirt.

Torno da te. Invece di aprire la porta della camera da letto mi chino e provo a guardare dal buco della serratura. Lo facevo spesso quando arrivavo a malapena alla maniglia. Non osservo te ma questa casa.

«Ti piace il mio profumo?», ti chiedo appena entro.

È di una marca che era di moda molti anni fa ma che ora si trova nei piccoli supermercati. Lei lo ha sempre usato. Ricordo come mi appoggiavo sui suoi cappotti per sentirlo. Era mancanza. A volte lei viaggiava per lavoro. Altre volte diceva che andava da amici e io e papà restavamo a casa ad aspettarla. Non diceva bene quando sarebbe tornata. Certe volte passava un mese. Le telefonavamo.

Mi avvicino per farti sentire il suo profumo sulla mia pelle.

«Mi piace molto», rispondi.

Mia madre aveva un’eleganza misurata, intellettuale. Sempre essenziale, mai semplice. Difficile da dimenticare. Aveva sempre qualcosa da ridire su come mi vestivo. Chi te lo fa fare di andare in giro con quei tacchi? Tanto lei non capiva, era bella anche con le scarpe basse.

Non ce lo diciamo ad alta voce ma sappiamo entrambi perché sei il suo preferito. Quando mi hai sposata hai sfumato la mia presenza. Mi hai allontanata da questa casa. Lei te ne era grata.

Prima di addormentarci apro la finestra. La tenda trema. Entra l’aria fresca del temporale appena passato.

Non era un segreto che mia madre non mi avesse voluta. Anche quando era incinta non mi desiderava. Non provava a immaginare insieme a mio padre che aspetto avrei potuto avere. L’attesa stava solo nel potersi liberare del mio peso. Forse è stato per quello che si era trovata impreparata quando aveva scoperto che ero identica a lei.

Mentre mi sto addormentando sento che il mio corpo dimentica le sensazioni del giorno. Si rilassa con il tocco della tua pelle. Ti rigiri su di me e mi stringi. Era lì di fronte a noi, il telefono che squillava e tu che mi hai detto di non rispondere: “non roviniamo una bella serata”. E io che ti ho ascoltato.

Ti devo ringraziare.

Ci svegliamo che è il mattino del funerale. Ora che è estate la messa si celebrerà nella chiesa in cima alla collina. Più antica, più fredda, inghiottita da alberi sottili. E tra quegli alberi vedrò spuntare i musi allungati dei miei parenti, mutati nel dolore di chi ha perso una sorella, di chi una figlia.

Appena apro gli scuri noto che il bucato steso da mia madre è stato portato via dal temporale di ieri. Corro fuori. Pezzi di lei sono su tutto il giardino. Sembrano quelle chiazze di neve che faticano a sciogliersi nelle zone d’ombra. I suoi vestiti sono gelidi di quella pioggia fredda e rovinati dalla terra che li inabissa.

Tu mi raggiungi.

«Non ti trovavo», mi dici, affannato, «pensavo che fossi sparita».

Mi accorgo che nella fretta di arrivare non ho messo nemmeno un abito nero in valigia.

Trovo un vestito dall’armadio di mamma.

Mi guardo allo specchio. Sputade, ci diceva Nives quando ci vedeva insieme.

Sputate, una somiglianza violenta.

Giudici (Letteratura e diritto #3)

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di Pasquale Vitagliano

È davvero un giudice. Ritengo sia il complimento migliore che si possa fare a un giudice. Terzo per vocazione rispetto alle parti, voce della legge. Nell’immaginario dovrebbe concentrare le migliori qualità umane dell’equilibrio, della sobrietà e di una magnanimità non lassista. Ci sarà un giudice a Berlino? È l’ultima speranza per un mugnaio di sottrarsi alle angherie dell’imperatore di Prussia. La frase erroneamente viene attribuita a Bertold Brecht di Vita di Galileo. In realtà, si è trattato di una attribuzione giocosa del drammaturgo tedesco Peter Hacks nella sua opera Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese. Resta la contraddizione di un tale affidamento con una concezione marxista della storia, secondo cui la magistratura è una sovrastruttura funzionale al sistema di potere. Più coerente con questa realtà è il giudice di Pinocchio per Carlo Collodi, cioè uno scimmione della razza dei gorilla. Anche Fabrizio De André diffida dei giudici la cui altezza – allusivamente – non supera un metro e mezzo. Anche George Simenon non aveva una grande stima dei giudici. Infatti, l’alter-ego dell’ispettore Maigret è il giudice istruttore Ernest Coméliau, che si distingue per la sua ristrettezza di visione. Eppure, in uno dei libri più intimi e crudeli, Lettera al mio giudice, il protagonista, condannato a morte per l’uccisione dell’amante, si rivolge ad un giudice che porta quello stesso cognome. “Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Mi sono domandato se questa lettera sia stata un effetto, in qualche modo, della sindrome di Stoccolma.
All’angustia dei giudici di Maigret si aggiunge il loro carattere minaccioso in due autori molto sensibili al tema, Dostoevskij e Kafka. La figura del giudice assume un’immagine tetra e per niente rassicurante. La terzietà scompare. Il giudice svetta con la sua forza accusatrice rispetto all’imputato che si sente già colpevole e condannato. Il giudice diventa un persecutore. Con uno scritto del 1981, I burocrati del Male, Leonardo Sciascia, commentando la manzoniana Storia della colonna infame, mette in guardia dal pericolo anti-illuminista e totalitario di utilizzare la funzione giudiziaria come strumento etico. Punto di riferimento di una pura visione garantista, è stato, però, brandito, postumo, essendo lui morto nel 1989 prima della stagione delle stragi mafiose e dello scontro su Tangentopoli, come un’arma culturale contro la magistratura politicizzata. Eppure, con Porte aperte, proprio lo scrittore siciliano disegna una delle più lusinghiere figure di giudice. Il ‘piccolo giudice’, compromettendo la sua carriera, in un ambiente in cui tutti, popolo e regime, si aspettano che l’assassino sia giustiziato, si assume la responsabilità di non comminare la pena di morte, sorretto dalla sua cultura giuridica e letteraria.
Per orientarsi nella polemica attuale che ha portato il governo allo scontro con i giudici a causa della separazione delle carriere tra giudicanti e inquirenti, suggerisco la lettura di un’opera teatrale, Corruzione a Palazzo di Giustizia di Ugo Betti, che tutto sintetizza su questo tema. Il potere di sentenziare ha come vizio inerente la corruzione: la verità giudiziaria “corrompe” sempre la verità storica; quasi mai coincidono, della seconda la prima dà sempre una versione fattuale ma microscopica, parziale ma socialmente accettabile. Solo la virtù può legittimare l’autorità. Alla fine del dramma, solo il grande corruttore, il giudice Cust, lo comprende per il peso che si porta sulla coscienza. Dunque, qualsiasi riforma deve essere una auto-riforma per essere efficace. Una conclusione (etica) che non vale solo per i giudici e la giustizia.

Le lettere scarlatte (Letteratura e diritto #1)
Un genere anglosassone (Letteratura e diritto #2)

Pasqua

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di Maria Noemi Grandi

Nel recinto gli animali di zio non sono divisi per specie, ognuno trova il suo posto un po’ dove gli pare. Le galline e le oche beccano senza paura in mezzo ai cani, sanno dove ritirarsi a covare le uova e a nessuno degli altri verrebbe mai in mente di disturbarle. I conigli corrono per i fatti loro tra una fossa e l’altra del terreno. Le due pecore, Pasqua e Pasquetta, dormono nella grande cuccia di pietra del cane senza nome che quando serve chiamiamo Cane, che tiene tutto a bada e caccia le volpi quando provano ad attaccare. Mi avvicino all’angolo in ombra dove sta la cuccia. Zio ancora non si vede ma mi ha raccomandato alle cinque in punto e io alle cinque in punto sono pronta, che a scuola la maestra ci dice in orario è già in ritardo e io non lo dimentico. Mi accovaccio, batto sulla rete del recinto, i musi delle pecore e del cane sbucano fuori per il buongiorno. Infilo qualche dita tra le maglie di ferro e li accarezzo come posso.

– Sicura? – mi fa zio alle mie spalle, annuisco e mi rialzo – Vedi che t’impressioni.

– Non mi impressiono – aprile sembra già estate eppure in pantaloncini e canotta ho freddo. Non mi sono mai alzata prima a quest’ora, non la conoscevo la temperatura dell’alba, mi rannicchio per poco tra le mie braccia. Zio mi allunga una pila di ciotole e un mazzo di coltelli.

Che le nostre due pecore si dovessero chiamare Pasqua e Pasquetta io e i miei cugini lo abbiamo deciso il giorno stesso in cui sono arrivate in campagna, durante le vacanze di Natale.

– Queste tra qualche mese sono perfette – ci aveva detto zio – Quando tornate a Pasqua sono grandi il giusto e le ammazziamo – e allora era stata facile quella trovata. Un nome: un destino.

Zio apre il recinto e chiama Pasqua a sé – Andiamo, bella. Andiamo – quella si avvicina placida, pensa le abbia portato da mangiare i soliti resti. Pure Pasquetta si accoda ma zio la spinge indietro e chiude il cancello. Insieme ci allontaniamo di qualche passo sul prato. Pasqua si agita e zio allora la afferra per il collo, le serra il muso, cerca di trovare la posizione migliore per bloccarla e procedere ma Pasqua è forte, scalcia. Zio le sale in groppa, la stringe tra le cosce. I polpacci da vecchio pugile si tendono e tremano. Ora la tiene per le orecchie avvinghiate in un solo pugno. Chino sul suo corpo incredulo, zio mi tende una mano e con le dita veloci mi chiede il coltello stretto e corto. Pasqua si dimena, prova a disarcionarsi di dosso il suo padrone. Zio tira il muso verso di sé, le dispone comoda la gola. Pasqua cerca i suoi occhi, bela stridula in quella posizione innaturale, sembra interrogarlo e poi capire, cercare la sorella che intanto piange chiusa nel recinto – il muso appiccicato alla rete nell’angolo da cui può osservarci fino alla fine. Qualunque sia la lingua o il verso, un pianto lo riconosci. E oggi io so come piange una pecora: come mio fratello piccolo appena arrivato a casa dall’ospedale. Quelle urla acute, scattose, lunghe fino a svuotargli i polmoni e stridergli in gola, come se fuori dalle braccia di mamma ci fosse solo la paura dei boschi neri, la certezza di essere soli e morti.

Zio impugna sicuro il suo coltello – Buona – le dice – Buona! – da sinistra a destra, la sgozza. È stanco ma sorride. Resta curvo sul corpo di Pasqua, la scrolla leggermente per aiutarla a morire. Il sangue sgorga dalla gola spezzata sugli ultimi rantoli. La vita se ne scappa per le zampe che scalciano ancora qualche volta prima di cedere.

– Avanti, è finita, buona. È finita – la consola – Andiamo – mi dice con la voce rotta dallo sforzo mentre se la carica su una spalla e fa strada davanti a me. Lo seguo in silenzio con in braccio gli attrezzi che mi ha affidato. Giriamo l’angolo, ci fermiamo all’ulivo più anziano, bitorzoluto e spoglio ma resistente, appena dietro il recinto da cui ancora la sorella riesce a osservarci. Da uno dei rami più alti, pende già pronta una corda con un arpione. Zio prende Pasqua per una zampa, infilza l’arpione nel tendine del tallone che nonostante il peso non si strappa. Sparisce nella casetta degli attrezzi e io resto sola a fissare Pasqua dondolare nel vuoto a testa in giù. Quando torna zio ha con sé un compressore. Incide la pelle della schiena e appena sotto, nel piccolo taglio, ci infila la bocchetta del tubo. Lo accende, l’aria scuote violenta il silenzio dell’alba e il corpo di Pasqua. La sua pelle si gonfia come una zampogna, si scolla senza fatica dalla carcassa. E Pasqua, come una zampogna, suona. Suona e io mi spavento.

Zio ride – I fantasmi! – rido anche io ma non rispondo – Che fai, ti spaventi? È solo l’aria che passa nel taglio della gola – rido meglio.

– Tipo flauto – faccio. La risata comune ci assolve. Pasqua, tutta gonfia, ridicola, continua a dondolare mentre noi ridiamo.

Spento il compressore viene scuoiata in fretta – Togliamo il vestitino – le dice zio divertito di se stesso. Gli passo quello che chiama coltellaccio e lui si fa deciso, primitivo, le apre la pancia per il lungo. Mi fa cenno e mi avvicino pronta con le ciotole. Fingo, mi tolgo dalla faccia la tensione dello schifo. L’odore vivo del sangue mi punge le narici e la gola.

Zio mi sa e mi richiama – Sbrighiamoci. Arrivano le api – e allora torno vigile e veloce nel disporre ciotole, stracci e coltelli. Per prima cosa estraiamo l’intestino. Zio lo lascia scivolare, viscido e caldo, nella ciotola che tengo sugli avambracci per raddoppiare la mia forza. Scaccio le api attorno a me agitando la testa come una mucca. Passiamo alla sacca dello stomaco, poi ai reni, al fegato. Al secondo giro ho capito come coordinare il respiro. Trattengo quando mi avvicino al corpo, respiro veloce quando mi giro a cambiare la ciotola. Tocca al cuore. Zio si fa più lento, lo estrae con cura a due mani – Trifolato è magnifico. Oppure semplice: arrostito, olio e sale – annuisco, mi perdo da qualche parte e il peso del cuore buttato nella ciotola mi sorprende. In ultimo, i polmoni.

Mentre mi avvio verso casa con le prime ciotole piene di organi, budella e coltelli, lui rifinisce il lavoro. Mozza la testa di Pasqua, la aggiunge in una delle mie ciotole, fa cadere in un secchio i rimasugli che non servono. Poi sgancia Pasqua dall’ulivo, mi cerca lì attorno per mostrarmi fiero tra le sue braccia spalancate in aria sopra la testa, la carcassa nuda e vuota, tenuta per i piedi e per il collo. In casa intanto solo zia è scesa per la sua parte del lavoro. Il tavolo vuoto al centro della cucina è pronto, coperto di traverse e taglieri. Seguo zio al lavandino, lui si sciacqua velocemente le mani, io proseguo su per le braccia, sfrego bene tutte le macchie di sangue, salgo fino alle spalle che mi prudono, mi sciacquo anche le narici.

La carcassa scomposta di Pasqua è sul tavolo. Dai buchi della mandibola sguscia fuori la lingua e si abbandona. I fasci di muscoli e tendini che avvolgono il cranio, gli occhi lucidi e ora esposti, appena pinzati alle orbite, resistono a comporre il suo volto. Mi sembra sorridere, sto sotto la pelle e il pelo e ancora la riconosco. Zio pizzica la lingua tra indice e pollice – Questa al sugo è la morte sua – sorrido. Buona, penso.

Zia intanto prende i sacchetti Cuki e me li porge. Passo a zio l’accetta per separare le zampe dal busto, gli stinchi dalle cosce. Lui conosce le fibre della carne, la loro direzione e resistenza, tra le coste ci entra con la punta del coltello grande e lungo ben affilato. Pare il rumore della seta accarezzata di nascosto nell’armadio di mamma quando giochiamo a le signore del mercato. O no, il rumore dei fogli di pelle che ci stacchiamo a vicenda dalla schiena dopo esserci bruciati al mare. I colpi secchi e decisi dell’accetta tranciano le ossa con pulizia e cura. Nessuna scheggia finisce nella polpa. L’indecisione fa mangiare carne scarsa.

– A Pasqua quanti siamo? – ci contiamo e poi contiamo i pezzi di carne. Immaginiamo quanta fame potremo avere da lì a tre giorni. Zia mi passa i sacchetti e io li arrotolo come so, per aiutare l’imbustamento e far sì che i bordi non si sporchino di sangue. Mi appollaio nell’angolo di tavolo sgombro, gambe ripiegate sotto il sedere per arrivare meglio con i sacchetti alle sue mani piene. L’odore del sangue di Pasqua non lo sento più. Posso stare vicina senza trattenere il respiro. Appoggiata sui gomiti continuo ad arrotolare sacchetti. Sono stanca e gobba. Ma era giusto scendere presto, aiutare zio. Vedere tutto, cosa c’era nel corpo di Pasqua, infilare gli occhi tra gli organi e guardare finalmente da vicino come quelli se ne stanno lì accrocchiati, scoprire come sono fatti, quanto pesano un cuore, un paio di polmoni, lo stomaco lungo lungo di una pecora. Mi drizzo, ho in testa la voce di mamma che mi dice Stai dritta. La pancia fa le pieghe. Pure le cosce premono sull’orlo dei pantaloncini. Mamma li chiama i suoi prosciuttini. Saltare in camera per tutto il mese, tutti i pomeriggi, non è bastato. Quando in oratorio mi siedo devo fare attenzione alla maglia che se ne resta infilata nelle pieghe. Con questa pancia la canotta blu e rosa non la potrò mettere. La canotta blu e rosa però sarebbe stata importante. Il primo giorno di campo è importante. In oratorio tornano quelli di terza media, che ormai è un anno che non si vedono più, e fanno le squadre. Le vacanze di Pasqua non durano niente, ho poco tempo per farmi piacere da Luca. A quelli di prima oggi facciamo i gavettoni di acqua e pipì. Mi tiro i pantaloncini sulle cosce come a slabbrarli e illudermi di avere meno carne attaccata, meno grasso. Un filo di sangue mi è colato su tutto il polpaccio destro. Deve essermi sfuggito. Lecco due dita e lo sfrego ma quello è già secco. Corro su per le scale, busso e ribusso alla porta del bagno ma Chiara, mia cugina, è chiusa dentro e non apre – Mi devo lavare.

– Usa il lavandino di giù – ma nel lavandino di giù c’è l’intestino di Pasqua. Zia già lo sta lavando per bene con il sale, andrà avvolto attorno a tritato, uova, prezzemolo. Buono. Allora cerco di portarmi avanti, lecco le dita e sfrego ancora. Busso.

– Devo usare il bagno. Arriviamo tardi. Non so che mettermi – il sangue di Pasqua è duro a levarsi.

Fuori sua sorella Pasquetta piange. Piangerà senza pace per giorni e notti a cui ci abitueremo e che smetteremo di contare.

Fu Mina

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di Laura Mancini

Un pomeriggio d’autunno del duemiladiciotto mio marito apparve sulla soglia a un orario insolito. Lo guardai storto dalla scrivania sperando entrasse e uscisse in rapidità senza pretese di interazione, non avevo ancora concluso il lavoro del giorno ed ero irritata dal suo aspetto squinternato e fuori asse. «Elio» sospirai come si constata «piove…», ma lui restò chiuso nel suo. Esitava trafficando intorno all’attaccapanni Shangai di cui mi sarei presto disfatta come se stesse cercando di ricordare che cosa fosse tornato a prendere. Non volli dare peso alla cosa avendo smarrito ogni interesse nei suoi confronti da quando avevo appreso che mi tradiva leggendo uno scambio whatsapp – erotico nei contenuti, scabroso a voler proprio infierire. Era stata una scoperta un po’ patetica, dovuta alla presbiopia e all’istinto alla lettura, una deformazione professionale di cui di norma ci si bea ma non in casi come questo. La schermata della chat resa gigantesca dalla scala aumentata dello schermo del nostro computer mi aveva trasformato all’istante nel genere di moglie che spia – ma piuttosto: vede suo malgrado – il marito in tutta la sua semi-demenza, segno che il degrado imperversava sul nostro comune destino macellando in un sol colpo i fasti del passato, o almeno “il suo dignitoso ricordo”. Ne era conseguito un disincanto radicale verso l’entità biologica ancor prima che storica, l’essere umano ancor prima che il compagno di una vita. Ma ventidue anni non fanno neanche mezza vita, mi ero detta, quindi chi se ne frega. Da settimane mentiva istericamente sulla sua routine, i suoi spostamenti, i suoi impegni di lavoro e i suoi appuntamenti ricreativi che definiva stressati da irrimediabili questioni accademiche ed erano invece solo esplosi per via di una relazione extraconiugale che non sapeva gestire. Trovavo quasi comico il suo sforzo di fornire precise e credibili descrizioni degli eventi immaginari che lo trattenevano fuori casa sebbene non gli chiedessi conto di nulla. Annuivo a ogni informazione guardando la parete verde salvia del soggiorno che ora mi ricordava un ospedale psichiatrico e non più il padiglione di un museo come quando l’architetto ci aveva presentato la palette con fare spocchioso. E più io annuivo più lui farneticava. Mentiva con un atteggiamento che gli doveva sembrare navigato ed esperto, degno del traditore seriale che dubito fosse stato, negli anni precedenti a quel gotico exploit fedifrago. La questione più divertente – sì, uno spasso. Che cosa stava cercando frugandosi in tasca, una prova da occultare sotto i miei occhi? Povero tonto, il solo ricordo è uno strazio – era che mi sapeva a conoscenza di tutto per essere irrotto nello studio proprio mentre leggevo la conversazione amorosa, ma inorridito e pietrificato dalla contro-scoperta si era astenuto dall’appurare la mia effettiva comprensione dei fatti e lo stato emotivo in cui versavo alla luce del nuovo grande segreto che ci divideva. O univa… eravamo entrambi stupiti dall’indifferenza che opponevo alla sua slealtà. Proprio io, Fu-Mina, come mi chiamavano le amiche anteponendo una sillaba al mio ultimo nome. Fumina era stato il personaggio iracondo che avevo interpretato fino a quel momento: presa consapevolezza del torto, il torto si era fatto piccolo, il reo miserabile. Fu Mina, ora non più.

Di slealtà non si sarebbe trattato in fondo se solo Elio avesse deciso di spiegarsi, o almeno di rivelarmi l’intenzione-tentazione di intraprendere un’avventura sensuale con un suo amico, una persona a entrambi familiare che io stimavo particolarmente, uno dei pochi scrittori che frequentavamo ancora. Avevo appena letto il suo ultimo romanzo tutto d’un fiato trovandolo superiore alle prove precedenti e sorprendente per l’atipicità. Non era ascrivibile ad alcun genere, rifuggiva le etichette e mi conquistava completamente nonostante le caratteristiche del tutto antitetiche al mio modo di sentire e leggere la realtà – la prosa scarnificata che in quel periodo riempiva la bocca di tanti era solo una delle caratteristiche del romanzo, non la più significativa. Ero rapita dalla natura onirica del testo, ma ancor più dalla caratura artistica dell’autore che traspariva in modo tutt’altro che compiaciuto dalla prosa, librandosi in aria e planando sulla pagina attraverso torrenziali ma sorvegliati sfoghi verbali compatti senza che si potesse davvero decifrare il senso della storia o sovraccaricarla di significati accessori. Non pretendeva di averne, né tantomeno di spiegare, istruire, sconvolgere o lasciare un segno. Eppure era un libro di idee: di idee e non di trama, di idee e non di personaggi, un lavoro distante da tutto ciò che avevo apprezzato nella narrativa contemporanea fino a un minuto prima di essere sedotta e tradita dalla stessa persona, Didier Slimani. In un certo senso avrei preferito chiedere ragione del misfatto solo a lui: lo ritenevo più degno e assennato. Elio avrebbe affogato il fatto nell’imbarazzo riducendolo al ridicolo accidentale e continuando a cercare qualcosa di immaginario nelle tasche dell’impermeabile. Mi ero risolta per lasciarli sguazzare in pace nel loro amorazzo da vecchi dedicandomi agli strascichi di una vita destinata a un unico compagno fedele: il lavoro.

Un anno prima avevo lasciato un incarico ventennale come editor in chief della narrativa straniera per una delle maggiori case editrici italiane dopo l’acquisizione indiscriminata di diverse case minori da parte della stessa al solo scopo di monetizzare forsennatamente pubblicando letteratura pornografica, manga coreani e libri demenziali per adolescenti – tutta l’immondizia che andava di moda in quegli anni. «Mina ma perché», aveva biascicato l’editore mentre ragionava soddisfatto su chi invitare a sostituirmi. Le dimissioni erano state liberatorie, non rimpiangevo lo stile ibrido del mio ufficio con le lampade tiffany e le poltroncine frau, né i personaggi che vi transitavano – topi ragno, uomini bassi, per lo più, con mani piccole e delicate da preti. Da qualche mese, nella nonchalance della libera professione senile, collaboravo con una rivista culturale internazionale che stava improvvisamente prendendo una piega molto meno indipendente di quando ero stata ingaggiata con una lusinghiera proposta vergata su vera carta con vera penna dalla direttrice in persona. Era un’amica di amici, snob ed eccentrica, un’esteta nomadica che si era formata nella scena artistica dell’Europa meridionale dove aveva consolidato un profilo militante raro a trovarsi nell’ambiente in cui sguazzava raccattando fondi a destra e a manca. Purtroppo il suo personaggio, al pari della mia superata caricatura collerica, era stato smontato dalla crudezza del quotidiano e non mi avrebbe stupito essere liquidata dall’oggi al domani per incompatibilità dei nostri reali ego che avevano iniziato a confliggere dal minuto zero della mia partecipazione al progetto. Io volevo una chiusura sofisticata a decenni di lavoro letterario, lei voleva fare soldi senza perdere la faccia. Questo era invecchiare male, cadere dai rami più alti come foglie prosciugate dal tempo e sgretolarsi a terra in una polvere qualsiasi, mi dicevo fissando la dirimpettaia che stendeva o ritirava i tappeti dal terrazzo ventiquattr’ore su ventiquattro con un aspetto tanto più sereno del mio. Tornando al quadro più piccolo, la delusione che mi opprimeva alle riunioni della rivista presiedute da individui ignari dei contenuti culturali, ma molto edotti sugli spazi pubblicitari a disposizione, era un chiaro segnale dell’imminente scadenza del mio sodalizio con l’astuta manager e con una certa epoca dell’editoria. Ero stanca di recitare e ascoltare recite, badavo solo ai fatti e i fatti erano squallidi.

Non sono sicura di aver chiesto a Elio come mai fosse tornato a casa prima del solito o a che cosa fosse dovuto l’atteggiamento cogitabondo che lo tratteneva sulla soglia con una manica del loden sfilata e l’altra ancora addosso, lo sguardo perso sulla presa del modem, un’aria stralunata per la quale in tempi di minore estraneità lo avrei deriso. Al contrario ricordo perfettamente che un allarme proveniente da un interno del palazzo suonava senza sosta da ore rendendomi impossibile conferire qualità narrativa al pezzo sulla ceramista inglese in consegna per il giorno successivo. Dal profilo esangue che mi era riuscito di comporre mentre l’emicrania pulsava all’unisono con l’allarme emergeva un’artista poco affascinante, il suo atelier, i pavoni, il riferimento a Virginia Woolf e all’Omega Workshop: era tutto molto noioso e le due cartelle che avevo composto meccanicamente non rivelavano nulla di inedito, non vantavano un guizzo stilistico né il minimo trasporto. Ciò che feci di certo fu rivolgere a Elio un saluto stringato e offrirgli una tazza di tè. A quel punto lui si riebbe e mi rese uno sguardo diffidente, quasi fosse incerto della mia identità e delle ragioni ultime della nostra convivenza. «È morto», disse, «ieri era vivo e oggi è morto». Comprendendo all’istante a chi si riferisse ne pronunciai il nome in modo interrogativo. Ma non può essere accaduto davvero, pensai, è giovane come ormai dicevamo di chiunque avesse meno di ottant’anni, ha ancora tanto da scrivere, libri che sarò io a leggere. Poi una freddezza immotivata mi pervase allontanandomi da quanto accadeva. Tacqui a lungo finché Elio non ripeté «Didier» e poi: «ha avuto un infarto, non c’è stato niente da fare, mi ha telefonato la figlia». Niente da fare, mi dissi, e ancora una volta: niente da fare. Fuori l’allarme continuava a suonare.

Avevo conosciuto la figlia di Didier a una presentazione di un libro del padre, anni prima. Mi era parsa una giovane donna dallo stile insolito, con voluminosi capelli rossi e un paltò vintage che doveva aver pescato a caso in qualche mercatino. Si chiamava Emma, abitava a Montpellier e veniva a trovare il padre per brevi e sporadici soggiorni dovendo dedicare l’altra parte delle ferie alla madre che dopo la separazione era tornata a vivere in Inghilterra. Una donna di gran classe, la madre, alla Jean Rhys, magra, pallida e squilibrata, dall’intelligenza spaventosa, spesso alterata e isolata, una protagonista involontaria nata con la camicia, ma di forza. Theresa. Pur avendola incontrata un milione di volte, non avevo il suo numero di telefono né il suo indirizzo e-mail, di lei non mi era rimasta che una specie di ombra sottile. Tutt’altra storia era la giovane Emma. Ci teneva a definirsi “naturalizzata” francese e spiccava per il suo studiato grigiore, era algida, concentrata sul lavoro – insegnava antropologia all’università – e fredda come le persone che crescono facendo a meno dell’aspetto sentimentale delle cose. Non aveva nulla del fascino dei suoi genitori, non sembrava interessarle la realtà poco terrena a cui loro avevano ispirato le rispettive disperazioni. Non seppi immaginare in che modo avesse accolto la notizia della morte del padre, forse la tragedia le aveva tolto di dosso quel rigore con cui doveva spaventare gli iscritti al seminario monografico su Lévi-Strauss. «Che palle» fu quanto mi uscì stranamente di bocca mentre Elio continuava a fissare l’attaccapanni come un totem o un crocifisso. Lottava con l’indecifrabilità del destino, vecchio, stolto amico mio. Qualcosa, forse l’amore, si dimenava in lui, impedendogli di piangere.

Mi lavai i denti, infilai l’impermeabile e presi le chiavi della macchina che Elio aveva cercato senza successo. «No», disse al muro salvia prima che uscissimo di casa, «non serve». Non parlava da solo da quando aveva consegnato il lavoro che lo aveva demolito prima del grande rilancio, come chiamavamo il suo ultimo decennio di attività. Si mise alla guida e mi augurai che non andassimo a sbattere, non perché avessi cara la pelle ma perché detestavo l’idea di morire in modo stupido e inconsapevole. Per distrarmi setacciai il web a caccia della notizia. La casa editrice aveva già annunciato la fine di Didier come l’esito improvviso di un male di cui l’autore era stato inconsapevole e che lo aveva dunque sorpreso nel fiore dell’attività strappandolo al piacere della vita e alla febbrile attività letteraria. Tra le righe del comunicato si intendeva qualcosa come un infarto silente, un tumore fulminante. Parcheggiammo la volvo a due passi dall’ospedale e mentre camminavamo verso la camera ardente notai che a Elio tremavano le mani. Quando parlava il mento subiva un lieve sussulto alla base, come per un’imminente ischemia.

Ci accolse Emma in persona, senza sorridere ma neppure piangendo o mostrandosi più scossa del dovuto. Ci fermò sulla soglia della camera ardente per esporre in modo rapido e chiaro l’accaduto. Dopo la premessa sulle cause ufficiali della morte, passò a descriverci in modo minuzioso il suicidio del padre – «Alle ore xx ha ingerito le pastiglie, alle ore yy ha scritto una lettera che leggerò alla commemorazione. Si rivolge anche a lei, Elio». Mio marito palleggiava gli occhi da destra a sinistra a velocità supersonica. Emma proseguì il resoconto secondo per secondo fino agli ultimi respiri esalati e agli spasmi post-mortem. Doveva essere carica di odio, per qualcosa o qualcuno. Studiandola a fondo mentre esponeva i fatti in modo implacabile, come una campana che col sole o con la tempesta, per un matrimonio o un funerale, a quell’ora rintoccherà la mezza punto e basta, compresi che era la consapevolezza di chi fosse stato mio marito per suo padre a ispirarla. Quanto a Elio, l’unico dei presenti sconvolto dalla perdita, prese a oscillare il corpo intero tenendosi aggrappato a una colonna di porfido e poi a me, come un ballerino perso nel ripasso della coreografia prima di entrare in scena.

Un anno prima di morire Didier aveva depositato testamento presso uno studio notarile di Nizza, il che è insolito per un uomo di sessantaquattro anni, ma del tutto sensato per un aspirante suicida avverso ai lasciti irrisolti. Di ritorno a Roma aveva mischiato grappa e benzodiazepine in una tazza danese come una di quelle poete americane afflitte da problemi psichici – sulla porcellana era poi stato trovato un fondo vischioso di miele scuro. In quell’occasione di cui né Elio né io eravamo a conoscenza che aveva preceduto di dieci mesi il secondo e più riuscito tentativo, Didier era stato salvato nonostante l’imperativo “non rianimatemi” scritto a penna sul petto. Nulla di quanto aveva compiuto corrispondeva all’idea di lui che avevo coltivato leggendo i suoi romanzi o ascoltandolo parlare di Londra Parigi e Algeri, la soluzione a cui era giunto contraddiceva il suo distacco dagli oggetti e dalle pulsioni oscure che avevo creduto poterlo agitare solo a livello cerebrale e tecnico-letterario, come capita a un uomo immune alle meschinità, un artista che risponde a una poetica e scava senza mai sprofondare. Mi ero lasciata ingannare dalla veste sociale senza cogliere la reale persona, avevo letto il manifesto ma non il testamento. Il coup de théâtre arrivava col lascito: Didier ci aveva donato – venivo menzionata per esteso, con tutti i nomi e i cognomi che i miei genitori per pura megalomania mi avevano attribuito – una villetta in Costa Azzurra, a Saint-Paul-de-Vence, dove James Baldwin aveva trascorso i suoi ultimi anni. James e Didier, annotai mentalmente per il memoir che fino a pochi minuti prima non avrei avuto ragione di scrivere e ora forse sì.

Quando apprendemmo tutto questo – che era molto anche per gente disinvolta come noi – ci trovavamo ancora all’ingresso della camera ardente, a pochi metri dalla salma e da una decina di persone che non riuscivo a mettere a fuoco. Il forte vento da nord muoveva a battito d’ali il rever del cappotto di Emma – quinte impazzite dopo uno spettacolo assurdo ideato per provocare il pubblico. L’episodio a cui partecipavo senza sapermi opporre era permeato dal cattivo gusto e dal cattivo auspicio. A troncarlo arrivò una donna microscopica spettinata dal maestrale che Emma chiamò «nonna» allontanandosi finalmente da noi. Elio sbavava lievemente e pareva rimpicciolire sotto il peso del cappotto. Per spezzare il suo silenzio dissi «non male» in riferimento alla notizia della casa. Fremevo sperando di poter concludere quanto prima l’immonda situazione, l’ondulazione di Elio, il libro degli ospiti, quel mostro con gli occhi asciutti e il ghigno trattenuto, i fiori, l’odore di disinfettante, i miei grotteschi «che palle» o «non male», quel vento malato, venuto a confondere le idee. Emma incrociando il mio sguardo ammiccò come chi avesse appena chiuso a proprio vantaggio una trattativa complicata e avvicinandosi nuovamente mi soffiò nell’orecchio: «la casetta è un incanto, si fa perdonare la sua umidità». Ogni cosa intorno a noi si scontornava fino a svanire svuotando la stanza dagli oggetti e la mente da ogni significato.

A Elio che camminava come se fossero il vento ghiacciato e l’uragano di foglie a spingerlo a pedate verso il parcheggio dissi «me la ricordavo meno agitata», ma non ebbi risposta. Accese il motore e zappò a caso sui pedali, ogni minuto meno in sé, vicino al suo inferno, solo nel suo privato abisso. Lasciò squillare più volte il cellulare – chi lo chiamava, ancora quell’aguzzina con le scarpette da tango o il rettore per fargli le condoglianze? Frusto come uno straccio bagnato, aspettava che a ogni verde ci strombazzassero contro prima di rimettere in marcia col fare di chi sia sbronzo e stremato, stufo di sé, non rianimatemi.

Presi a rimuginare su tutti i romanzi non scritti e su come avrei fatto meglio a prendere ad accettate la mia scrivania per poi farla ardere in un caminetto di Saint-Paul-de-Vence interrompendo una volta per tutte le passeggiate tra gli scaffali delle librerie intasati da robaccia e le riunioni con l’editrice mercenaria, non erano migliori di quelle coi topi ragno. «Chi?», mi chiese all’ennesimo colpo di clacson, «la figlia» replicai, «Emma? Non è agitata, solo un po’», ma non finì la frase. «È un po’ agitata?», «Dura» riprese piatto, «Emma è molto dura». Fu quanto di più intimo ci dicemmo sulla vicenda durante il viaggio in macchina a sbalzi e inchiodate. Poi piombammo in un concetto di perdita permanente fatto di silenzi, lunghe sessioni di lettura e pasti separati. Non ne parlammo più, non decidemmo nulla e non facemmo altro che aspettare, fino all’estate successiva quando partimmo per Saint-Paul-de-Vence con un’idea comune e complementare, di pentimento e redenzione.

L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza

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di Yousef Elqedra

All’amico Moheeb Barghouty,
là dove ti trovi,
là dove le anime continuano a dimorare tra le rovine del tempo, fra queste la tua.

 

 

La salvezza, un’altra ferita

Caro Moheeb,

ti scrivo non per annunciarti una salvezza, ma per raccontarti come la salvezza stessa possa essere un’altra ferita: una ferita antica che si rinnova.

Sì, abbiamo lasciato Gaza. Ma Gaza non ci ha lasciati. Tutto ciò che è accaduto è che ora la portiamo in noi, sotto forma di strati invisibili, come la linfa di un albero che conserva memoria di ogni tempesta, carestia e morte.

Abbiamo valicato il nostro carnefice, armato fino ai denti. Abbiamo valicato ma senza gli amici rimasti intrappolati. E quando abbiamo attraversato il mare, credevamo che l’acqua potesse lavare la memoria, tuttavia ho realizzato che la memoria non dimora nella pelle, per staccarsi da essa col sale, bensì vive nell’osso, nel suo midollo più segreto, laddove né le onde né il perdono possono raggiungerla.

Qui, a Marsiglia, il mare è diverso.

Il suo azzurro non somiglia all’azzurro del mare di Gaza.

Qui, il mare è quieto, adagiato come un’anziana stanca di raccontare storie.

Il nostro, invece, era un giovane mare impetuoso e tumultuoso, che scalciava la riva come chi tenta di evadere da una prigione.

Ogni cosa, qui, sussurra alle schegge del mio cuore: la vita è possibile.

La gente cammina con calma, parla con dolcezza, persino il dolore qui è sommesso.

Ma noi, venuti dal fuoco, portiamo nei nostri passi l’eco di un’antica esplosione.

Ora siedo al caffè accanto alla finestra, fumo come atto di rivalsa contro la privazione,
e fisso l’azzurro di questo mare estraneo, chiedendomi:

chi di noi si è davvero salvato?

Chi è rimasto laggiù sotto le macerie?

E chi di noi è sopravvissuto per morire lentamente qui, nel grembo di un esilio preso in prestito?

 

 

Una morte lenta, ma meno crudele stavolta

Moheeb,

non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza.

Cercavamo un altro tipo di morte:
una morte lenta, meno crudele.

Una morte che non ti sorprenda sotto le macerie,
ma ti raggiunga sotto un albero,
su un marciapiede,
o tra amici che ridono ignari del fatto
che tu stai agonizzando da tempo
per la delusione, i silenzi inquietanti, le complicità.

Qui, l’assenza è più grande di ogni cosa.

Né i volti dei passanti colmano il vuoto,
né le risate dei bambini nei vicoli restituiscono all’anima la sua gioia.

L’esilio non è il luogo. È il tempo.
L’ho compreso da prima.

E qui, il tempo scorre in modo diverso,
come se fossimo stati tagliati fuori dalla linea originaria della nostra esistenza.

Siamo diventati parassiti di un tempo
che non riconosce il nostro dolore
né ci chiede conto delle nostre perdite.

Sai, amico mio, qual è la cosa più crudele?

Scoprire che la patria ti ha lasciato prima ancora che fossi tu a lasciarla.

Renderti conto che le case che amavi sono divenute polvere,
che le strade che conservavano l’eco dei tuoi passi
sono state rase al suolo.

E che, se mai tornerai,
tornerai al vuoto,
alle tue rovine.

 

 

Il fantasma di mia madre

Caro Moheeb,

non scrivo per lamentarmi.

Scrivo perché la scrittura è l’unico modo per convincermi di non essere morto del tutto.

Che una piccola parte di me ancora respira, soffre e scrive.

Nelle ultime notti, il fantasma di mia madre mi fa visita.

Non parla.

Si siede soltanto sul bordo del letto
e posa la mano sul mio capo,
come faceva quando ero bambino e tremavo per gli incubi.

Apro gli occhi,
scorgo solo tenebre
e capisco che il vero incubo
non è sognare,
ma svegliarsi.

A volte mi chiedo:

cosa significa essere umani dopo la devastazione?

Come si può piantare speranza in un pianeta avvelenato dalla disperazione?

Come si può sorridere,
quando i ricordi ti riempiono la bocca di cenere?

Qui, a Marsiglia, tra amici e sconosciuti, ho capito che l’uomo non sopravvive perché è il più forte,
ma perché è il più abile a fingere.

Finge di stare bene, per poter credere alla propria menzogna.
Finge di dimenticare, per reggersi in piedi.
Finge di amare il mare, per non piangere davanti ad esso come un bambino smarrito.

È forse questa la salvezza?
Una bugia ben recitata?

O forse la vera salvezza -come diceva un vecchio mistico, di cui non ricordo il nome-
è sapere di essere già morto,
e continuare a vivere comunque,
con un sorriso beffardo sulle labbra?

 

 

la terra che mi ha rigurgitato

Caro Moheeb,

So che è greve questa lettera,
ma tu, tra tutti, sei l’unico a sapere
che le parole, quando ti spezzano, diventano più vere.

E che il silenzio, quando si prolunga,
non è pace, ma perdita.

Tu lo sai, come lo so io:
il dolore non guarisce mai davvero,

le ferite più profonde non si rimarginano,
ma diventano galassie che ruotano dentro di noi,
tracciando l’orbita delle nostre anime intorno alla loro assenza.

Cerco la patria nei volti degli amici che mi somigliano nell’esilio,
nello sguardo dell’amato Moneim Adwan,
che intuisce senza bisogno di parlare,
in una triste canzone yemenita che fugge da una finestra aperta dell’amico Jamil Sabea.

Capisco che la patria non è una geografia,

è una memoria condivisa di dolore.

Sto imparando a essere figlio dell’esilio,
senza dimenticare di essere figlio della terra che mi ha rigurgitato.

Ti scrivo queste parole perché sento il bisogno di lasciare un’altra traccia,
non solo i miei passi tremanti sui marciapiedi di Marsiglia
ma un’impronta familiare ad un amico,
un amico che sa che dietro i grafemi infranti
si nasconde un desiderio folle di riconciliarsi con la perdita.

Moheeb,

non ti chiedo di rispondere.
Va’, fuma il tuo narghilè e maledici il mondo.

A me basta che tu sappia che ci sono,
che esisto nonostante tutto,

porto Gaza nel cuore come una ferita bella,
e Marsiglia sulle spalle come una croce leggera.

Resta laggiù, o vieni un giorno a vagabondare con me per le strade. È lo stesso.

Alla fine, siamo tutti intrappolati nel medesimo viaggio:

un viaggio alla ricerca di una piccola luce
in fondo ad un lungo tunnel.

Il tuo compagno tra due inferni,

Yousef

 

 

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Testi di Yousef Elqedra, con una sua foto del porto di Marsiglia, dove si trova oggi il poeta palestinese. “L’esodo da Gaza” è apparso su raseef22, questa traduzione è di Sana Darghmouni. Di Elqedra Nazione Indiana ha già pubblicato L’altro volto della resistenza e la serie “Memorie da Gaza”.

 

Homo Faber

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di Filippo Canoro

Se volete sapere di Marko, lui, era un amico che in quel periodo andavo a trovare quasi tutte le sere. Faceva il meccanico in un’autofficina sul limitare di Marghera dove si raggrumavano tutte le migliori puzze della zona industriale. Regione senza dio e senza legge, segnata su nessuna mappa––i posti del cuore non lo sono mai, del resto!––dove vigevano la legge del più furbo e la psicologia del miracolo. Stavano sempre tutti per fare il colpo grosso, a quelle latitudini: il lavoro, la ragazza, il carico che li avrebbe con un unico strattone tratti in salvo dall’affitto, dalla catena di montaggio, dal cinquantino acquistato a rate, dalla camerieranza a vita, dai sedili appiccicosi di un vaporetto pigioso del cazzo, dalla puzza di cavolo nella tromba delle scale: insomma il colpo grosso che li avrebbe portati a riva prima che annegassero in quel mare di merda che gli spettava per diritto di sangue. Si fa così in periferia, si spera nel miracolo dietro ogni angolo e intanto si vive. Mestre-Marghera, periferia della periferia, buco di culo del mondo.

Mi stava molto simpatico, sto Marko, non dico di no. Mi portava a mangiare dal Mei Lin, e vedendomi così povero in culo come ero pagava tutto lui. Rideva, ciarlava, beveva a canna litri e litri di birra. L’unica parola che capivo, di quel suo italiano tutto sbrindellato, era hashish: dopo cena ci giravamo una cannetta piena di grazia e vagabondavamo per il centro città. Un cristo grosso così, sto Marko, con una schiena larga come un contrabbasso e tutto raggiante di buone intenzioni. Faceva il meccanico, mi spiegava, ma arrotondava smazzando qualche tocco di afghano. Mi ha mollato una pacca sulle spalle da scancherarmi la clavicola: ci avrebbe pensato lui a rendermi indipendente! Manco a dirlo, stava anche lui per mandare a segno il suo colpo grosso: un grosso, grossissimo carico di fumo da Bolo. Per intanto mi ha allungato due panettine di carta argentata da smazzare all’uscita dei licei e tenermi su di morale.

Per il resto era un vero coglione. Sottoscolarizzato che era, i suoi discorsi brulicavano di lettere latine di seconda, terza mano, tutte consunte e stazzonate e puzzolenti e appallottolate come vecchi calzetti; gli uscivano a fiotti dalla bocca come le bestie da un formicaio: brulicavano, ti si appiccicavano addosso, te le sentivi passeggiare co’ ste luride zampette su per la colonna vertebrale, niente niente te le ritrovavi sul collo, su una guancia, dentro a un orecchio. Memento audere semper. Per aspera ad astra. Fino a che non ti scappavano dalla bocca anche a te. Un tatuaggio lungo uno dei suoi monumentali tricipiti diceva

 

E sì che Marko faceva il meccanico in una grande officina, tutto il giorno culo in basso a stringere e allentare bulloni, dadi, a sbrugolare di gomito colle mani nel radiatore, due manone così per dirla tutta, e poi la sera tornava in quella greppia d’una casa colle dita rosse e gonfie come luganeghe e ancora spataccate di grasso, polvere, olio motore; il grasso soprattutto si rincantucciava sotto alle unghie e non lo levavi neanche coll’acquaragia; mani grosse e sporche di meccanico, mani luride. Ma lui niente, anche così colle mani zozze, la schiena sbuccia e tutto pieno di bernoccoli e bitorzoli––perché il convento non gli passava neanche la sdraio sottomacchina per scivolare sotto i mezzi, e allora gli toccava strisciarci sotto a colpi di lombi fino a consumarsi tutta la tuta da meccanico––anche così, ecco, lui sognava d’imprendere, di fare il capoccia. Sognava di mettere su lo sputo d’impresa che l’avrebbe finalmente fatto sentire padrone di qualcosa: di più, signore e sovrano della vita sua e di quella di altri due o tre disperati cenciosi che avrebbero brucato l’erba col culo tanto ci avevano fame, e che per portarsi a casa un tozzetto di pane erano pronti a qualsiasi nefandezza, anche a consumarsi la schiena a furia di strisciare sotto alle macchine senza la sdraio…

Lo faceva mica il collegamento, lui. Già si vedeva dietro al suo banchetto di formica, a sera, nel retrobottega, colla sua visiera verde da ragioniere del cazzo, a contare la grana passandosi libidinosamente i ventoni lisci lisci da una mano all’altra, a impilare puntigliosamente le monetine, insomma, a far di conto… lo faceva mica il collegamento, lui.

Neanche un mese prima, il capoccia di Marko aveva avuto la bella pensata di accettare un lavoraccio, un furgoncino fiorino… nulla di difficile, giusto un cambio alla cinghia di trasmissione… eccettoché il ponte sollevatore era un po’ sotto portata per sto furgoncino… ma non s’era mai sentito che… e poi con un po’ di fortuna… e allora Aziz, il compare di Marko, dico, come aveva messo il becco sotto il fiorino sollevato…

Insomma, per pigliarla in breve, la piattaforma del ponte sollevatore aveva ceduto di schianto e il vecchio Aziz s’era ritrovato mille duecentosessantadue chili di furgoncino su una gamba, di punto bianco, e giusto perché era stato lesto a sfilarsi appena aveva sentito cric-iiiiiik, sennò… mille duecentosessantadue chili moltiplicati per dio sa quanto dalla legge di caduta dei gravi, si sa… mannaggia a Galileo!… mille duecentosessantadue chili che senza sforzo gli avevano spaccato tutta la gamba fino all’attaccatura, su su fino al bacino.

Cric-iiiiiiiik!!

Ma il bello era venuto quando erano riusciti a sollevarlo, sto fiorino. In fondo allo sfacelo della gamba, il piede, lui, non se l’era sentita di rimanere attaccato, con tutto che erano diciannove e rotti anni che se ne stava laggiù al suo posto, proprio in fondo alla gamba, e gli era scoppiato come un petardo, o come un grosso fico fresco spiaccicato sull’impiantito grigiomerda… rosso rosso, rosso vivo colla polpa tutt’intorno… un delirio di polta, ossicini, fluidi e schizzi di sangue dappertutto… una raggiera di schizzi di sangue aguzzi come aculei d’istrice… diabolica aureola… gli era proprio esploso, sto piede––pum! E Aziz che ululava, strepitava, piangeva, invocava allah, maometto, la mamma… ci avrebbero avuto un bel daffare anche loro a rimettere a posto quel casino d’un piede spappolato.

Ce l’hanno mica fatta, poi. Frattura scomposta  di più o meno tutto sotto l’anca (lato dx) e amputazione del piede fino al calcagno. Homo faber fortunae suae!

A un certo momento ad Aziz gli era anche saltato il grillo di farla pagare, al capoccia. Di fargli causa o qualcosa del genere. Ma il capoccia, lui, aveva agitato un dito per l’aere come una bacchetta magica e aveva pronunciato la formula: Permesso di soggiorno. Figurarsi se lui ce l’aveva il permesso di soggiorno, il vecchio Aziz. S’era tuffato a picchetto nel mercato del lavoro senza increspare né punto né poco il mare magnum della burocrazia nostrana. Ma gli era andata bene, alla fine, perché il capoccia, mosso a compassione, s’era impegnato a indennizzarlo al ritmo di duecento carte al mese per due anni, ovverosia duemilaquattrocento euri netti. Questo il valore di un piede a Mestre-Marghera nell’anno domini corrente, se ve lo stavate chiedendo. Piede di negro scappato di casa senza permesso di soggiorno, si capisce.

Aziz lo vedevamo strampolare tutti i pomeriggi sotto i portici polverosi della via Piave. Ta-tac facevano le stampelle, tac-ta.

 

 

Sul ponte Secco. Una strada per la Georgia

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[È uscito per Exorma Una strada per la Georgia di Elisa Baglioni, un reportage che ha tutto il sapore dei migliori racconti di viaggio, l’autenticità di uno sguardo che si concentra su un’alterità studiata e conosciuta, senza però mai esibire preconcetti: il viaggio, l’incontro sono forme di relazione, di conoscenza di sé, di messa in discussione. Tutto molto semplice, in teoria, ma difficilissimo da restituire così bene come fa la voce di Baglioni.
Ne propongo un assaggio. ot]

 

di Elisa Baglioni

Negli anni Trenta del Novecento le acque sotto il ponte progettato dall’italiano Giovanni Scudieri furono prosciugate per esigenze di viabilità ed è qui che si svolge il mercatino dell’antiquariato, sul selciato e all’ombra del parco di Marzo. Su lenzuola o banchetti sono esposti i memorabilia sovietici, gli attrezzi del lavoro manuale, i pugnali ceceni, i servizi da tavola, i set di posate Fraget, i bicchierini da liquore in vetro colorato e in metallo, le ciotole in metallo smaltate, i gioielli, il vasellame, le anfore, i tappeti, i lampadari e il repertorio del folclore georgiano. Un banchetto all’apparenza non custodito espone dadi. Il suo allegro venditore, intento a conversare con i compagni d’arme a qualche banco di distanza, ne è anche il costruttore. Dadi in plastica, legno, metallo, dadi ricavati da materiale di riuso. Alla parola backgammon propone una sfida per soldi, 20 dollari; sarebbe troppo facile vincerli con chi ha solo osservato giocatori in Attica e nella Colchide senza capirne le regole.

Lungo la fila dell’argenteria un cucchiaino da tè attira la mia attenzione. Ha il manico attorcigliato e un fiore del tè inciso sul dorso. La signora che lo espone è minuta, ha capelli grigi corti e un sorriso benevolo. Appartiene alla comunità armena che oggi abita il quartiere di Avlabari e un tempo, tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, superava i georgiani per popolazione nella capitale.

«Ora tutti se ne vanno perché dicono di non trovare lavoro, ma bisogna sapersi accontentare, il lavoro c’è. E poi lasciare la propria casa, i propri affetti e i propri luoghi, non l’ho mai desiderato. I miei figli non se ne sono andati, sono tutti a Tbilisi. Insistono perché io smetta di venire al mercato, si preoccupano per la fatica. Ma vengo ogni tanto, due o tre volte la settimana per arrotondare la pensione di trecento lari [poco più di cento euro] e non solo per questo. È un modo per uscire di casa, incontrare persone, le amiche venditrici o i compratori e scambiare due parole».

Penso che faccia bene a venire, è un luogo in cui la merce esprime ancora qualcosa del suo proprietario e il proprietario è qui non solo per la merce, come lei. Lo si vede dalla cura con cui è esposta.

 

Tra i memorabilia trovo un libro di fiabe russe. Le ho notate all’inizio della passeggiata e torno alla fine della visita. Ricordo che una ragazza russa a cui davo lezioni di italiano mi aveva raccontato la sua fiaba preferita, Emelja lo scemo. La storia di un bambino che passa tutto il tempo sopra la stufa e non ha voglia di fare nulla, a differenza dei fratelli, che per questo lo tengono in scarsa considerazione e lo sgridano a più non posso, finché non entra in scena un luccio magico. Emelja non solo riesce ad accumulare una certa ricchezza ma finisce per sposare la figlia del re. Quella fiaba le piaceva perché non portava a modello un eroe dalle qualità straordinarie, né lodava l’impegno e la fatica, al contrario la felicità poteva essere raggiunta dal calduccio di una stufa.

Malgrado questa lezione tratta dal folclore russo, col venditore georgiano ingaggio una contrattazione durante la quale i lari di differenza diventano una questione categorica. Da parte mia è un’occasione per sfogare gli istinti venali, da parte del commerciante la mia avarizia è un’offesa personale.

Quando sono ormai allo stremo e risoluta a non concludere l’affare, il venditore aggiunge: «Tu sei chitraja (traducibile dal russo con scaltra e perfida) e a te il libro per quel prezzo non te lo do! Lo do invece alla tua amica, ecco sì, lo do a lei che è più gentile». E con un coup de théâtre riesce a vendere il suo libro al mio prezzo.

Ho ripensato più volte a quella scena che per Serena era stata una commedia, ma io non ho capito se assegnarle una morale sull’arroganza degli europei d’Occidente, sulla furbizia dei georgiani, sulla loro aggressività patriarcale, o se ricondurla al turismo globale che confeziona un ambiente protetto e infantilizzato, l’illusione di una prossimità.

[Foto di Serena Vallana]

 

“Che comodità!” La fatica di essere umani nell’era del comfort

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di Giacomo Agnoletti

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  1. Per forza o per comodo?

Se le nostre città non sono cosparse di monumenti alle nuove divinità tecnologiche, è perché quella in cui viviamo è una delle società più ipocrite della storia. Chiese, statue, abbazie? Tutta roba buona per i turisti. Dovrebbero piuttosto essere eretti templi e monumenti allo smartphone. E noi, con uno scatto di sincerità, dovremmo avere il coraggio di rivolgere le nostre preghiere non a una divinità trascendente, ma alla fin troppo umana capacità della tecnica di rendere la nostra esistenza meno faticosa e più confortevole, in una parola più comoda.

Ma come siamo arrivati a sviluppare quest’ossessione per la tecnologia? Piuttosto che chiamare in causa l’americanizzazione partita nel dopoguerra, vorrei invitare a una riflessione, chiedendomi quanto una cultura possa essere imposta attraverso i mezzi di persuasione, se non proprio occulta, almeno non del tutto dichiarata (ieri slogan e manifesti, oggi messaggi personalizzati sulla base degli algoritmi dei social). Chiediamoci allora chi dispone di questo tipo di forza: economica, politica, militare. Perché ci vuole la forza, quella dei cannoni e delle bombe, per legittimare socialmente un certo tipo di imposizione culturale. Secondo la celebre massima attribuita al linguista Max Weinreich, “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina militare”; perché non potrebbe valere lo stesso per una cultura?

Ovvero, la cultura occidentale verrebbe imposta attraverso il potere militare, quindi di base quello americano, e su questa “cultura imposta” si innesterebbero varianti regionali che partono e si diramano dalla cultura dominante.

Quanto ci siamo è americanizzati dopo il secondo conflitto mondiale? Il modo in cui la società si è evoluta è osservabile attraverso i cambiamenti nel cibo di cui ci nutriamo, nelle case che abitiamo e che arrediamo, nei vestiti che indossiamo, nei mezzi che impieghiamo per muoverci. Fino ad arrivare, com’è ovvio, alla cultura con la C maiuscola, ovvero alla letteratura, al cinema, all’arte e anche ai modi con i quali definiamo che cosa sia la cultura, in primo luogo i programmi per la scuola e l’università.

Pensiamo allora a come siamo cambiati dal dopoguerra a oggi. Con uno sguardo inevitabilmente superficiale, si può osservare che gli italiani hanno largamente rimpiazzato giacche, gonne e cappotti con un abbigliamento decisamente più casual; che sempre più persone, a cominciare dai giovanissimi, preferiscono ormai cibi genericamente “fast” ai piatti della tradizione mediterranea; che lo stile delle abitazioni e dell’arredamento ricalca per molti aspetti il rigore e l’efficienza delle culture germaniche e scandinave; che i grossi SUV hanno sostituito le berline e che l’istruzione dell’obbligo, proprio come avviene negli USA, è sempre più improntata a una preparazione generica, mentre all’università lo spazio per le materie umanistiche si riduce anno dopo anno. Sono osservazioni approssimative, ma quello che mi preme è fornire alcuni esempi di massima per chiarire una tendenza che, con le mille distinzioni dei casi, mi sembra comunque evidente.

Gli americani hanno vinto, hanno la forza militare per imporre la loro cultura – ed è ininfluente che ciò avvenga attraverso i media tradizionali o i nuovi media elettronici. Tali media diffondono una cultura omologata, propagandano il sogno a stelle e strisce e il cittadino si adegua, consumando la sua razione quotidiana di simulacri forniti dal “sistema”.  Sembra tutto molto semplice, persino troppo. È di fronte a questo tipo di rappresentazione del consumatore di cultura – e della cultura stessa – che Michel De Certeau ci ha ammoniti a non commettere l’errore di “considerare la gente idiota”.

Proviamo invece a rispondere alle domande implicite che emergono dalle osservazioni fatte poco sopra. Ovvero, perché molti di noi mangiano hamburger, sushi e poke, vestono come dei newyorkesi nel tempo libero, guidano un SUV e abitano in un appartamento super-climatizzato, pur vivendo in una cittadina italiana?

Ebbene, la risposta immediata a queste domande è di solito: “Perché è più comodo”. Non perché ci è stato imposto, militarmente o meno, né perché ci hanno persuaso con la pubblicità subliminale o con gli algoritmi di Elon Musk. Siamo noi, consapevoli o meno, informati o meno, che decidiamo di abbracciare un modello di sviluppo e dunque un’idea di progresso.

Credere nell’attivismo del consumatore significa allora pensare che nella miriade di scelte compiute da esseri anonimi nel quotidiano vi sia un arbitrio, che si esprime attraverso una percezione di utilità, vantaggio, comodità. Certo le nostre scelte sono tentativi, risposte, adattamenti, modi di usare quanto ci viene imposto dall’ordine economico dominante. Ma, al netto delle semplificazioni, ciò che mi interessa è mostrare quanto la cultura, più che su una base di imposizione, si definisca lentamente e “molecolarmente” (come diceva Gramsci) attraverso le scelte degli invisibili uomini e donne che abitano il nostro quotidiano. Ed è questo l’unico spazio in cui può emergere una resistenza.

  1. La macchina più comoda è quella che pensa per noi

Heidegger evidenziò come la tecnica non sia che uno strumento finalizzato al dominio. Ora, dall’osso degli ominidi di Kubrick agli ordigni che le industrie europee produrranno in luogo delle automobili a pistoni, mi pare che una certa volontà di dominio sia ravvisabile. Tuttavia, io preferisco guardare un po’ più in basso, spostando l’attenzione dai palazzi del potere alla vita quotidiana dell’uomo qualunque. Ma è proprio qui, ahimè, che l’ossessione per la tecnica si fa palese, concretizzandosi nella predilezione quasi ossessiva per ogni strumento che semplifichi o alleggerisca le nostre incombenze quotidiane: macchine e macchinette per ogni tipo di attività, dai robot per cucinare alle sveglie che monitorano il nostro sonno, fino agli onnipresenti, lisci e luccicanti dispositivi che simboleggiano la nostra epoca, gli smartphone. Senza quello che un tempo si chiamava telefono non si può fare ormai più nulla. Per testimoniare della nostra presenza non servono i documenti cartacei, nella loro inutile materialità: ci vuole uno strumento digitale, ci vuole lo smartphone.

Eppure, si tratta di congegni a noi totalmente estranei, lontani, inaccessibili. Cosa nasconde la superficie levigata dell’ultimo iPhone? Pochissimi, fra i miliardi di utilizzatori che sono pronti a giurare sulla comodità dei nostri devices, sono in grado di rispondere. Ma la tecnologia non è sempre stata questo. Non siamo sempre stati degli utilizzatori entusiasti, ma alienati[1], degli strumenti di cui ci serviamo. E non serve tornare all’amigdala degli uomini delle caverne, basta guardare agli anni ’80. I bambini-nerd, oggi cinquantenni, che smanettavano sul Commodore 64 o sul Sinclair Spectrum conoscevano più o meno bene sia i linguaggi di programmazione che l’hardware delle loro macchinette. Non erano utilizzatori di una tecnologia lontana, inaccessibile e superiore; o almeno, lo erano in una misura inferiore rispetto ai bambini e agli adolescenti che oggi dormono con lo smartphone sul cuscino. La domanda è allora: perché lasciamo che, giorno dopo giorno, si accresca la distanza fra l’uomo e i suoi prodotti industriali?

È dai tempi di Alan Turing che gli eredi di Comte ci ricordano che “Lady Lovelace aveva torto”[2]. La giovane figlia di Lord Byron aveva preso dalla madre, specializzandosi in matematica. Ma, saranno stati i possenti geni paterni o il clima culturale del XIX secolo, Lady Lovelace è ricordata soprattutto per un suo rassicurante commento riguardo alle primissime macchine calcolatrici, da lei considerate incapaci di creatività, apprendimento, pensiero.

Ma basta accendere la tv o leggere un articolo perché qualche scienziato si affanni a spiegarci, rubbing his hands with glee, che Ada Lovelace si sbagliava. Ovvero che le macchine creano, imparano, pensano come e meglio di noi, e che il loro livello di prestazione è Sovrumano[3] (ultimo libro di Cristianini). Sì, sarà vero. Le macchine sono sovrumane, e noi siamo inferiori. Sì, la povera Lady Lovelace, inconsapevolmente romantica a dispetto degli studi scientifici, aveva torto, ma allora Günther Anders aveva ragione, terribilmente ragione. Il “dislivello prometeico”, l’incapacità umana di essere all’altezza del “Prometeo che è in noi” (in quanto creatori di macchine) sta crescendo a livello esponenziale, e con esso crescono la vergogna e l’infelicità dell’essere umano, costretto a pensarsi costantemente come uomo-fra-le-macchine.

Qui è però necessaria una precisazione. L’infelicità dell’uomo al cospetto delle sue creazioni meccaniche non deriva dalla fin troppo decantata “imperfezione” umana, quotidianamente sottolineata dai media (vedi il caso delle pubblicità che mostrano corpi imperfetti). Questo tipo di compiacimento riguardo alla diversità umana viene, soprattutto negli ultimi anni, sfruttato dal sistema economico in quanto elemento individualizzante e de-socializzante, in questo utilissimo nel frammentare la società allontanando il rischio di rivendicazioni legate al lavoro. Una volta riconosciuto e catalogato, poi, viene facilmente indirizzato verso il consumo, ideale complemento di ogni diversità individuale (così ad esempio ci saranno creme per donne con la cellulite, per le persone anziane o altro).

L’infelicità che Anders preconizzava negli anni ’50 è quella di un uomo, o donna, costretto a vivere in un mondo pensato per le macchine e popolato da esse, costantemente esposto a un confronto e a un adeguamento che lo vede frustrato e sconfitto in partenza.

È sul dislivello prometeico che si innesta la “fatica di essere se stessi” su cui ci ha fatto riflettere uno psichiatra-sociologo come Alain Ehrenberg[4]. Perché la macchina, a differenza dell’uomo, riesce sempre, e con la massima facilità, ad assolvere al compito di “essere se stessa”, di “maturare”, di “realizzare il proprio talento”. Ciò che è “maturo”, nel senso di completo, pienamente realizzato, assume progressivamente il valore di imperativo etico tenuto nella massima considerazione dai sacerdoti del sistema, siano essi giornalisti, scrittori, musicisti o giullari mediatici. Accantonati, con la rivoluzione morale degli anni ’60, i vecchi sentimenti di colpa e disciplina, dalla musica rock ai libri per l’infanzia l’invito è perennemente quello a essere “diversi da loro”, a “realizzare il tuo sogno”, enfatizzando la capacità di iniziativa individuale. Ovunque veniamo invitati a uniformarci ai nostri desideri, a diventare “quello che siamo”, seguendo la massima riconosciuta dalle macchine,[5] che hanno sempre una specifica funzione, e in quella si definiscono e si realizzano con la massima efficienza.

Seguire le proprie inclinazioni, ascoltare la voce della propria interiorità è certo positivo per il benessere psichico. Ma in un mondo dove domina l’efficienza delle macchine pensanti, la voce dell’interiorità che ci impone di realizzare il nostro sogno diviene ben presto tirannica. Ne è un sintomo la crescente diffusione della depressione, malattia dell’insufficienza, della fatica, della mancata realizzazione del propri – spesso grandiosi – sogni. Malattia, in fondo, di chi resta indietro, di chi non riesce a reggere il passo di una società dominata dalla marcia trionfale del progresso, dell’efficienza e della produttività. La società “disumanizzante” allora, ci ammoniva Anders già settant’anni fa, non è solo quella borghese, fondata sul danaro e sul commercio, ma è anzitutto una società di uomini fra le macchine, in perenne e frustrante competizione con le sue prometeiche creazioni.

Eppure, tutto questo passa in secondo piano quando ci accostiamo ammirati all’intelligenza artificiale che svolge i compiti per i nostri adolescenti, seleziona curriculum, decide chi curare e chi mandare al fronte. E non importa che la macchina ragioni in maniera diversa rispetto a un essere umano, ovvero vagliando montagne di dati e filtrandoli attraverso complesse statistiche. La macchina pensa, e non importa che per farlo debba consumare acqua, energia e risorse minerarie in maniera spropositata. Quel che conta è che la marcia trionfale del progresso non si interrompa, continuando a produrre oggetti che lavorano, scrivono, pensano per noi, rendendoci così la vita più comoda. E la felicità umana? Questo sentimento, così indefinibile e scarsamente misurabile, deve per forza soccombere di fronte alla percezione di comfort che le sirene illuministe ci prospettano instancabilmente da duecento anni? Ogni idea che ci possiamo formare riguardo al nostro benessere psichico e fisico – perché a differenza delle macchine siamo fatti carne, ossa e sangue – deve per forza ridursi al concetto di comodità?

  1. Quale comodità

Giulio Bollati definì la modernità la “nostra sorte di terrestri industrializzati”. La nostra cultura, passo dopo passo, molecola dopo molecola, si va formando attraverso una difficile convivenza con le sempre più potenti creazioni umane; e forse, anche storicamente, una ricostruzione di questo complicato rapporto potrebbe avere un senso.

Che cosa cercavano i giovani rampolli della borghesia industriale nelle città italiane dell’Ottocento? Il Grand Tour non era solo un viaggio di formazione e istruzione: alla base del desiderio di esplorare nazioni sentite come socialmente ed economicamente arretrate c’era, com’è noto, la ricerca degli aspetti più quaint e picturesque dell’esistenza. Gli stessi giovani inglesi, americani o tedeschi che affollavano gli alberghi di Roma o di Firenze erano ben consci che le comodità di cui potevano godere in patria li avevano allontanati da una vita “autentica” e “umana” della quale speravano di cogliere un barlume in Italia. Il tema di una felicità tanto semplice quanto inafferrabile è centrale in Henry James, che appena giunto a Roma, scrisse al fratello William: “At last—for the first time I live! […] For the first time I know what the picturesque is.”

Ma, nella sua appassionata ricerca del pittoresco, James era ben conscio che “the picturesque is measured by its hostility to our modern notions of convenience”.[6] Ecco che, già nel XIX secolo, la “vera” vita – for the first time I live! – si definisce in opposizione all’idea di comodità, convenience. I giovani, nobili o borghesi, che visitavano le nostre città avevano avuto un’esperienza privilegiata e precoce dello sviluppo industriale, o per dirla con Günther Anders, della superiorità ontologica della macchina. Non è un caso che Daisy Miller, una delle eroine di James più rappresentative dell’ineluttabile attrazione verso l’Italia e la città di Roma, provenisse da Schenectady, una prospera cittadina industriale dello stato di NY (la General Electric venne fondata a Schenectady pochi anni dopo l’uscita del racconto di James).

Meno di un secolo più tardi, Pasolini constatava con scoramento che lo Sviluppo (industriale, capitalistico, consumistico) si era ormai esteso alla gran parte del mondo, comprendendo anche la penisola italiana e la città di Roma, simbolo e capitale del mondo antico. E oggi, come ha scritto Zygmunt Bauman in uno dei suoi ultimi testi, l’“angelo della storia” guarda oramai con terrore la tempesta che spira dal futuro, così rivalutando il passato, certo più arretrato, meno confortevole e comodo, ma al riparo “dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente”.[7] E ormai siamo tutti preda di una qualche Retrotopia: tutti cerchiamo conforto in letture, oggetti, pensieri rivolti al passato, cercando un effimero sollievo dalle angosce del capitalismo industriale, che condanna il sistema a una sorta di immobilità naturale, nell’angosciante certezza di un pessimo finale (ambientale, nucleare, sociale).

Certo, il “sistema” non può che continuare la sua marcia di sfruttamento e di progresso, e anche la tendenza retrotopica è stata, come ogni altro aspetto culturale, sussunta e gestita dal capitale: e oggi non esiste ambito commerciale in cui il prodotto retrò non sia disponibile, selezionabile, acquistabile, per rendere ancora una volta la nostra vita più facile e comoda. Cent’anni dopo il Grand Tour della prima borghesia industriale, il bisogno di guardare al passato per ritrovarvi un barlume dell’umanità perduta è divenuto di massa, ed è ormai l’ingrediente principale di tante strategie di marketing. Ma è paradossalmente proprio ora, mentre sentiamo di aver perduto tutto, che possiamo renderci conto di quel che significa aver concepito la comodità soltanto come un vantaggio immediato e percepibile, legato all’utilità del momento, senza conseguenze per il futuro.

Perché, se guardiamo all’etimologia della parola, la comodità non è sempre stata questa: nella sua prima accezione la parola latina commoditas significava proporzione, armonia, giusta misura dal sapore epicureo[8]. Concepire la comodità come proporzione significherebbe chiedersi quanto in una certa idea di progresso ci sia davvero di utile, comodo, vantaggioso, senza farsi abbagliare dalle sirene illuministe. Significherebbe mettere in dubbio l’oggetto tecnologico, la cui utilità è oggi considerata inevitabile e addirittura “naturale”, mentre ogni obiezione è derisa e guardata con sospetto. Significherebbe allontanarsi dal furore progressista che ha reso le macchine, e la loro luccicante perfezione, le divinità della nostra epoca.

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[1] Andrea Inglese ha fatto notare come in tempi recenti all’opacità della macchina rispetto all’utilizzatore si sia aggiunta l’opacità degli algoritmi che organizzano i dati effettivamente prodotti dagli utilizzatori. https://www.nazioneindiana.com/2021/11/03/umanisti-del-nuovo-secolo-e-sottomissione-tecnologica/

“Si presenta dunque una sorta di doppia alienazione nei confronti del mezzo tecnologico: rispetto alla macchina, composta di hardware e di software dei quali l’utilizzatore non sa nulla, e rispetto all’algoritmo, sorta di super cervellone lontanissimo e inaccessibile. Anche di questa macchina l’utente non conosce e non può gestire nulla: eppure essa si nutre e prospera grazie ai dati che egli, con milioni di altri, gli fornisce quotidianamente.”

[2] Uso qui il titolo di un paragrafo del libro La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano di Nello Cristianini, Il Mulino, Bologna 2023.

[3] Nello Cristianini, Sovrumano. Oltre i limiti della nostra intelligenza, Il Mulino, Bologna 2025.

[4] Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 2010.

[5] Günther Anders, L’uomo è antiquato. Vol. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2010, cap. 1, par. 5.

[6] Citato in Nelson Moe, The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2002, p. 19 (corsivo mio).

[7] Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, Bari-Roma 2017, p. XVII.

[8] Anche gli altri significati latini (momento opportuno, compiacenza) sono del tutto scomparsi, mentre l’accezione che avvicina la comodità al vantaggio percepibile, all’utilità degli economisti classici è invece ricorrente anche e soprattutto nelle varietà substandard, a dimostrazione della rilevanza del concetto nella società contemporanea.

La Discesa

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Immagine generata da AI

di Silvano Panella

Ero nella mia camera d’albergo. Bussarono alla porta. Aprii. Nel corridoio non c’era nessuno, a terra una busta da lettera, nella busta un cartoncino scritto a penna. Il direttore mi invitava a visitare le segrete dell’edificio. Andai in recezione. Il portiere mi riconobbe e, senza inutili chiacchiericci, mi accompagnò a una tenda di velluto color lillà. La sollevò. Sorrise mentre il drappo ricadde sulle sue spalle, a fatica ne sopportò la spinta – era un portiere giovane, ancora inesperto di alberghi e tessuti pesanti.

Un frastagliato varco di mattoni sporgenti e mancanti dava accesso a una discesa di gradini in pietra. Da qui in poi, un filo di lampadine fissato con chiodi storti al muro di massi squadrati. Sentivo vociare, scherzare. In fondo alla seconda rampa in pietra trovai il direttore e i suoi due ospiti, un imprenditore e una sceneggiatrice in vacanza in questa antica città. Scendemmo. Diligenti all’inizio, sfogammo poi il nostro scetticismo.

L’imprenditore domandò se le segrete fossero soltanto scalette e scalini, la sceneggiatrice raccontò di quando si perse in un negozio traboccante di oggetti al punto che vi si immerse con l’intento di nuotare un po’. Forse stava evocando la prossima sceneggiatura da scrivere per una pellicola dell’orrore.

«Avete scoperto qualcosa?», domandai al direttore.

«Sì», egli rispose, il passo sicuro mentre ci precedeva, e indicò verso la semioscurità. «Attenti, ci sono parti sconnesse», disse.

«Pensavo volesse mostrarci il primo rinvenimento della nostra serata. Scusate, del nostro pomeriggio. Sapete, è così buio che potrebbe essere successo di tutto, in superficie, persino una…»

«Starà mica immaginando una pellicola dell’orrore?», l’imprenditore interruppe la sceneggiatrice, rubò il mio pensiero, impedì al direttore di controbattere.

«Lei cosa produce?»

«Perché? Cerca finanziamenti?»

«Potrebbe inserire prodotti commerciali all’interno della mia pellicola.»

«La sua pellicola. Ma non è solo la sceneggiatrice?», domandai, irritato dal sentirmi spettatore.

«La mia, la nostra, di chi ci lavora e di chi ci lavorerà. E lei? Ha qualche idea da prestarmi? Pagandola, s’intende.»

«Certo, possiamo accordarci. Ma dovrei farlo un momento prima di partire per una località remota. Già, la curiosità mi assalirebbe, non la tigre, desidererei leggere la sceneggiatura, assistere alle riprese. Non so quale delle due eventualità è la peggiore. Preferisco la tigre.»

«Dovete perdonarlo, la sua sincerità risulta spesso sgradevole», il direttore disse.

«Oh, a me piace. Abituato a trattare affari, non a farli fallire, ho poca dimestichezza con la sincerità», l’imprenditore disse.

Ci fermammo per ispezionare gli anfratti scavati all’interno della roccia, anfratti di polvere e frammenti d’ossa. Catacombe. Catacombe svuotate. Chi le avesse svuotate, e perché, era un mistero. Proseguimmo giù.

La sceneggiatrice ci assillò con il soggetto che aveva appena abbozzato a mente.

«Una cripta rinvenuta da ragazzini che stavano giocando a rinvenire cripte. Via i ragazzini, a casa dalle loro madri, arrivano gli adulti, tre uomini e una donna diversi in tutto ma accomunati dal fato, ovvero: sono là. L’imprenditore, non lei ma un altro, vuole aprire un parco di divertimenti e chiede aiuto all’avventuriero, non lei ma un altro. Il confronto tra i due è ricco di spunti che la sceneggiatrice, io, proprio io, coglie e ruba. Il direttore d’albergo, che può benissimo essere lei perché tanto non cambia – scusi se ho fatto mia la sgradevolezza del suo ospite – tende a mettere tutti d’accordo. E ci riesce, purtroppo. Ma ecco che trovano un manufatto che li fa sragionare, che li rende…»

«Io credevo che sragionassero fin dalla sua prima parola. O forse, era lei che sragionava, non noi», dissi.

«Non erano noi, erano altri noi», il direttore puntualizzò con un candore così irritante che mi avrebbe portato ad allearmi con la sceneggiatrice se solo fossi rimasto in silenzio.

«Idiozie», dissi, e guardai in alto, da dove provenivamo. Avevo voglia di abbandonare tutti, di abbandonare questa esplorazione su scalini scheggiati, di anfratti cinerei.

«Perché non ci narra una sua avventura?», l’imprenditore mi propose. «Magari spronerà la sceneggiatrice a scrivere qualcosa di autentico, aiuterà me con il parco di divertimenti che in effetti ho in programma, dissuaderà il nostro direttore dallo stupirci con scale cadenti e vani sbriciolati.»

Ancora una volta una intromissione nel mio pensiero. Ancora una volta lasciai correre perché niente mi stuzzica più di poter raccontare un’avventura. Evocai una giungla di tronchi eretti, radici affioranti, rovi, cespugli, chiome, animali dispettosi, uomini sanguinari. Quadrumani staccano galle dai rami solo per poterle tirare contro di me. Circondato da sacerdoti armati, la cattura è l’unica speranza perché prospetta la fuga futura. Di notte l’altare allestito per il mio sacrificio, un onore. Ma prima, l’ignispicio. Il fuoco distrae – magari tra le fiamme c’è davvero qualcosa di trascendente, uno spirito rimasto bloccato nell’ardore. Sciolgo le corde, via di corsa. Ma i sacerdoti conoscono la giungla meglio di me. Non per questo fuggire è un errore, anzi, l’ignispicio gli ha fatto cambiare idea, nessun sacrificio ma solo sonnifero somministrato tramite cerbottana, un pungente premio all’escapologo che sono. Il risveglio beato di mattina all’interno di una casetta di foglie verdi e rami secchi. Vado via tranquillamente.

«Che storia è mai questa?», la sceneggiatrice domandò, offesa, bloccandosi.

Per poco io e l’imprenditore non finimmo addosso alla donna, avremmo ruzzolato giù per gli scalini e il direttore avrebbe ostentato il suo tempismo per scansarsi, salvarsi.

«Quale è il problema?»

«Troppo favorevole, troppo pulita, troppo repentina.»

«È la versione breve, adeguata a un pubblico distratto come il mio.»

«Dove sono i mugugni? Dove le frustrazioni?»

«Oltre alle vostre? Volevo appunto fingermi altrove. Genere d’evasione, mi sembra che si etichetti.»

«Soggetto inaccettabile. Interromperebbe l’assuefazione degli spettatori al nostro cinema.»

«Preferisco il cinema delle intelligenze artificiose. Ho ceduto le mie memorie a uno studio specializzato. Creano bei corti.»

«Pieni di mutamenti ingiustificati, suppongo. Un attimo prima è lei, un attimo dopo il suo amico, un attimo prima siete nella giungla indiana, un attimo dopo nella foresta amazzonica.»

«In verità, i mutamenti ricostruiscono il mondo così come lo intuiamo, così come lo sogniamo, danno la possibilità ai protagonisti di somatizzare le loro evoluzioni interiori. Non è più il mondo vincolato alla realtà e al tempo presente ma il nostro»

«Belle scuse. Belle scuse», la sceneggiatrice disse, furente, e proseguì la discesa assieme al direttore e all’imprenditore. Si ripeté ancora due rampe più giù.

Questi scalini avrebbero portato a un fondo di preziose rimanenze d’epoche estinte? L’imprenditore avrebbe suggerito al direttore d’albergo il miglior modo di valorizzare questi scalini che poggiano su uno spesso strato di meraviglie? La sceneggiatrice si sarebbe decisa a scrivere di stupori e incantamenti? Ne dubitai e così iniziai a risalire. Le voci dei miei tre ex compagni di discesa divennero suoni di provenienza abissale. Ero solo, potevo protrarre la permanenza a mio piacimento, contemplare muri e anfratti che erano soltanto muri e anfratti. La mancanza di oggetti, decorazioni, iscrizioni mi avrebbe spronato a immaginare per questo luogo un passato fantasioso, irreale, pieno di licenze narrative, avrei potuto essere testimone di mutamenti, ciotole, pitture, lapidi vivificate dalla loro innaturale ricrescita, indizi di una illusione onirica oppure artificiale. Sarei stato io, sarebbe stata l’IA. IA non vorrà forse dire intelligenza artificiosa?

Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman

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di Mariasole Ariot

In un oggi in cui l’oggetto scompare, un fotogramma ci riporta a un passato in cui la “cosa” non era ancora datificabile e invisibilizzata ma terrena, tattile, imbevuta di sensi: è lo sguardo di una giovane ragazza che, in uno stato di sospensione, è catapultata in una dimensione altra da un walkman, un istante in cui il sonoro proiettata (e forse “progetta”) un futuro a venire. È Il Tempo delle mele, lo stesso tempo in cui Stefano Solventi ne Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman(Jimenez Edizioni, 2024) ci spinge a indugiare.
La ragazza è ferma, alle spalle un amico posa sulle orecchie un oggetto che separa la dimensione sonora in cui si trovano da una seconda dimensione altra che solo lei, ora, può sentire. L’apparizione del walkman in un tempo in cui l’oggetto/dispositivo cominciava a farsi strada nelle strade: ragazzi “incuffiati”, come li chiama Solventi, che entrano in uno stato larvale, di bozzolo, lontani da ciò che prima era l’ascolto corale, dell’insieme comunitario, dove il suono si dilatava nell’attorno ed era (necessariamente) condiviso.

Il libro è un attraversamento di tempi, suoni, immagini, percorre il passaggio dagli anni Ottanta (con un’incursione nei Settanta) all’epoca attuale attraverso un oggetto familiare a chi l’ha usato ma che in fondo non è mai scomparso ma solo evoluto.
Un libro che si potrebbe immaginare come un racconto ad alta voce, che apre al ricordo con un breve accenno nostalgico e si insinua nelle pieghe e nelle piaghe del presente. Riflette. Confida. Accenna ad un futuro, ipotizza. Come scrive lo stesso Solventi: a tratti sovrainterpreta.
E in questo sovrainterpretare, come nei frequenti riferimenti ai film citati, l’analisi accurata e approfondita si muove nell’azzardo, ma un azzardo che fa abbracciare una prospettiva. Prospettiva come ipotesi, prospettiva come luogo da cui si osserva.
Camminando pagina a pagina dagli anni Ottanta in cui già si intravedevano i primi cambiamenti del futuro accelerato di cui oggi facciamo ogni giorno esperienza, Lo sguardo di Vic ci parla del ciò che era per affacciarsi al ciò che è e ciò che forse verrà – o che è possibile avvenga. Un libro, come scrive lo stesso autore, non ottimista ma nemmeno apocalittico.

“Un qualche futuro comunque ci aspetta, indipendentemente dai nostri timori e dai nostri entusiasmi. Ci toccherà bene o male affrontarlo, e forse sarà utile considerare l’ipotesi di essere entrati in una fase di ominiscenza, come teorizzato dall’epistemologo e filosofo Michel Serres già nel 2001, ovvero un processo di inevitabile e continuo ripensamento del ruolo e delle possibilità della nostra specie al tempo del web, del digitale, della proliferazione.
Il verbo “profilare” è interessante. Nel suo significato transitivo rimanda al disegnare, al tracciare un contorno, mentre con l’intransitivo intende il preannunciarsi di qualcosa, un accadimento. La profilazione degli utenti implica la produzione di un’identità – il disegno del suo contorno – attraverso la raccolta della scia di dati che l’utente stesso produce, però mi piace pensare anche alla sua declinazione transitiva, ovvero all’annuncio di un accadere. Il profilarsi all’orizzonte di qualcosa.”

Ma se il libro è anche un’analisi sociologica del passato e del presente, è prima di tutto un raccontare personale e appassionato dell’esperienza stessa dell’autore dall’arrivo dell’oggetto negli anni Ottanta ai mutamenti nella fruizione della musica che hanno attraversato i decenni, una dichiarazione d’amore: frammenti di biografia personale appaiono come piccole luci che ci riportano – a chi è della stessa generazione dell’autore o poco distante da quella – a qualcosa che “ci manca” come pure a qualcosa di cui non abbiamo più la percettibilità, per cui oggi è necessario sedersi e ascoltare per poter afferrare.

“Immaginatevi la scena: un mattino di febbraio del, diciamo, 1984, temperatura tendente al gelido e il cielo lassù grigio come la pancia di un topo, una testa zuppa di sonno e generica insofferenza, eccomi lì che scendo dal treno, aspiro l’aria ferrosa della stazione di Siena, mi guardo intorno e decido di farmela a piedi fino a scuola. […] Quindi, indossate le cuffie, inizio a camminare. […] E penso “io” e penso “voi”. Intensamente. Intendo dire che non si trattava semplicemente di una passeggiata mattutina per sfidare gli elementi ed evitare la minaccia del controllore sul bus: era un rituale di identificazione.”

La presenza del qui e dell’altrove, dell’io e del voi ricorre nelle pagine: e io stessa, nello stesso momento in cui sto leggendo, nello stesso momento in cui sto scrivendo, sono inserita all’interno di una dimensione alterata e alternata in una costante e persistente oscillazione. Leggo, appunto, ascolto.

Quell’essere qui e altrove in cui oggi ci ritroviamo tutti, iperconnessi in un fuori che è un dentro, nel dentro di un dispositivo che genera dati quando il fuori (dalla rete) evapora pur essendo ancora presente. Un presentimento.

I momenti, le pagine autobiografiche, il ricordo di Solventi sono anche il nostro ricordo – sia per chi c’era che per chi, arrivato dopo, ricorda i ricordi di chi è venuto prima. I ricordi dell’Altro, un libro che (ri)genera comunità. E lo fa a partire proprio dall’oggetto. Le non-cose, per citare Byung Chul Han, sono nude. L’oggetto – il walkman in questo caso – non è nudo: è un oggetto reale, concreto, che la mano muove, che la mano decide e sceglie.

È sì, il libro, un omaggio al walkman, un’affezione ad un oggetto transazionale, personale ma anche collettivo, un piccolo dispositivo che già nella sua comparsa mostrava i prodromi del futuro che abitiamo, ma non è solo questo: è la traccia di un momento orizzontalizzato, che si condensa in alcune pagine per liquefarsi in altre, quando la liquefazione lascia spazio al pensare.

Le ricorrenti citazioni (di sociologi, filosofi, psicoanalisti) non sono quindi mai lasciate sole, incastonate nella pagina, ma restano sempre in un dialogo assiduo con l’autore – e quindi con il lettore. Diventano presupposto per disporsi a una riflessione da cui spesso tendiamo a fuggire.

Il termine “larvale” torna più volte nel testo, e torna “l’incuffiamento” dell’altro che decide per noi (come accade a Vic), e “l’incuffiamento” deciso e attivo di una scelta voluta. La fruizione della musica si fa allora, attraverso l’utilizzo del walkman, una passeggiata solitaria che estranea dal fuori pur essendo nel fuori. Una posizione riflessiva, che nel suo estraniarsi si connette a una realtà che pur essendo la stessa muta però in consistenza, si liquefa, si dilata, si restringe, si amplifica, danza.

La passeggiata diventa allora metafora di un attraversamento anche sensoriale che è l’incedere stesso del libro. Un libro che mentre leggo “ascolto”. Perché è anche questa la cifra del libro di Solventi: farci ascoltare, farci pensare e pensarci in forma di suono.

“Se il walkman con il suo bozzolo sonoro mi aveva consentito di mettere a punto un equilibrio, di galleggiare in una bolla di possibilità “altre” rispetto al catalogo di percorsi offerto dalla mia situazione concreta (periferica e di ceto basso), il web atterrò nella mia vita di adulto squadernando le prospettive. Prospettive che erano “soltanto” relazionali e culturali, ma costituivano esattamente ciò di cui più avevo bisogno e, in definitiva, fame.”

E questa fame, per quanto in una certa misura inquietante per tutti noi che sappiamo il passato e conosciamo o disconosciamo in attimi e frammenti di sospensione il presente diventa anche straniamento, uno straniamento di cui a tratti non ci accorgiamo e a tratti, in un improvviso o nell’imprevisto, ci appare in tutta la sua potenza.

Perché anche oggi indossiamo le cuffie per ascoltare ed estraniarci dal fuori, ma nel farlo produciamo dati. (Dati, dati ovunque – s’intitola il penultimo capitolo)

Un libro che porta a ricordare sia ciò che abbiamo vissuto (per chi ha portato dentro la tasca di un cappotto un piccolo walkman e una cassetta, per chi l’ha arrotolata con una penna ascoltandone il suono ruvido e impreciso), e ricordare ciò che stiamo vivendo o che stiamo per vivere – dove il ricordare ha due accezioni: quella del tornare indietro e quella del renderci coscienti.
Non solo suono, non solo dati ma anche disegno, tracciato.
Un libro che si pone allora in forma di domanda, che apre alla criticizzazione non solo dell’adesso, ma anche di un allora in cui tutto il presente stava già al suo stato larvale. Ma nell’azzardo un’unica ipotetica risposta all’inquietudine che ci attanaglia a intermittenza di fronte all’altrove che abitiamo nell’oggi:

La nostra missione – scrive Solventi – sia allora: “diventare l’allucinazione della macchina.”

Marciando, marcendo

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di Angelo Di Fonzo

Da quando il villaggio era stato inghiottito dalla nebbia, Viviana rimaneva ore a guardare il signore che vendeva il vin brulé nella strada dell’albergo. C’era qualcosa in quell’uomo che la ammaliava. Forse il sorriso che regalava a ogni cliente; poteva sentirne il calore da lì. Poi la bocca incurvata quando non c’era nessuno, una malinconia che la contagiava e la costringeva a smettere di guardare fino all’arrivo del cliente successivo.

Aveva sempre sostenuto che le persone totalmente buone o cattive erano idiote, vittime della loro ascendenza di bene o di male. Riteneva invece davvero degne di nota quelle confuse, incapaci di scegliere da che parte stare, di definire chi sono in maniera netta. È troppo facile, pensava, scegliere una casacca e onorarla per tutta la vita senza neanche il tempo di un dubbio. Per questo cercava in quell’uomo dall’apparenza mite e gentile tutti i segni del male; nelle crepe, nei dettagli.

Non poteva fare molto altro.

La nebbia si era presa tutto: aveva fagocitato il mare, le colline, i sentieri e le cittadine limitrofe. Non c’era modo di avanzare in quella nube eterea. Viviana faceva delle lunghe e ripetitive passeggiate per quelle strade di case cadenti e vedeva sempre le stesse palazzine fotocopiate, la stessa chiesa in rovina, le stesse macchine parcheggiate immobili.

Sapeva che Lui stava arrivando ormai, ma non poteva più sfuggirgli come aveva fatto in modi diversi per tutta la vita. Marciando, marcendo. Lo sentiva alle calcagna, in costante agguato. Marciando, marcendo. Di notte, da sveglia; sempre. Marciando, marcendo. Lui l’aveva costretta per anni a combattere, in trincea, per avanzare da un avamposto all’altro dell’esistenza. Marciando, marcendo. E lei l’aveva assecondato, aveva fatto di tutto per paura che Lui la raggiungesse. Marciando, marcendo. Aveva corso chilometri e chilometri infiniti, a perdifiato. Marciando, marcendo. Senza sosta. Marciando, marcendo.

Quando non ne poteva più di passeggiare, si sedeva nell’unico bar del paese, dove la stessa TV locale andava in onda giorno e notte per stornare il silenzio a suon di televendite. Beveva un caffè, a volte più di uno, e guardava il vuoto, come gli altri avventori. Non c’era nient’altro da fare che lasciarsi vivere, o morire, in attesa che la nebbia sparisse. Ma la nebbia non spariva e diventava sempre più densa, quasi solida; una muraglia. Viviana non aveva mai parlato con nessuno di loro, nemmeno con il barista perché si limitava a indicare il caffè sul menu plastificato incollato al bancone e a pagare con la carta quando l’importo compariva sul pad. La foto della moglie del proprietario troneggiava sul muro del bar, una gigantografia agiografica, incastrata tra due date di tempo trascorso e mai attuale; anche se in fondo sembrava più in vita del vedovo: lei in foto sorrideva al massimo della forma, lui dal vivo pareva tumulato in piedi, in attesa di ulteriore sepoltura.

Quel giorno però, una signora anziana con un cappello di feltro verde le chiese se poteva sedersi al suo tavolo. Lei si guardò attorno e infastidita notò quanti tavoli erano ancora liberi, ma annuì, perché dire di no sarebbe stato più complicato. La signora prese posto vicino a lei e iniziò a sfogliare il giornale mentre le lanciava sguardi esplorativi, di nascosto. Dopo aver chiuso e ripiegato il giornale, la signora si girò verso di lei.

«Signorina, sembra stanca. Ha il viso stanco».

Viviana continuò a palleggiare nel vuoto, con i pensieri e le idee a fare canestri. Annuì senza fiatare.

«Da quanto è in viaggio?».

Disegnò il simbolo dell’infinito sullo strato di polvere del portatovaglioli. La signora sorrise, intenerita.

«Si vede, signorina, si vede. Per questo è così stanca».

Viviana continuò a bere il suo caffè a rallenti, con la lentezza immobile di un quadro che si scioglie dalla paralisi dell’arte per farsi vita pulsante. O forse al contrario era la paralisi del vivere che si trasformava in arte viva, che s’infinitava in quell’istante interminabile.

«Eppure adesso è ferma e le sembra ancora di correre, non è così?».

Viviana non rispose, spossata da quella conversazione, posò la tazzina e tornò al vuoto, spiritata. Non le riusciva bene parlare con le persone, preferiva guardarle da lontano, alla distanza giusta per studiarle. Come oggetti. Preferiva trattarle proprio come oggetti che come persone con una volontà propria. Le sembravano troppo complesse altrimenti, troppo difficili da afferrare nel loro dinamismo, nella loro imprevedibilità. Da lontano era tutto più semplice, come con il signore che vendeva il vin brulé nella strada dell’albergo, che si limitava a farsi osservare senza accorgersene. Se proprio doveva avere a che fare con le persone, preferiva quelle che si raccontavano senza chiedere nulla in cambio perché poteva risucchiare la loro linfa vitale, in forma di storie, al prezzo di qualche cenno del capo.

Gli altri clienti del bar non sembravano preoccupati da quella stasi forzata, nemmeno la signora con il cappello di feltro verde; chissà da quanto erano già fermi. Forse non si erano mai mossi, oppure non erano nemmeno in grado di concepire il movimento. Magari avanzavano da fermi, forse era quello il loro viaggio.

Ormai gli occhi di Viviana cominciavano ad abituarsi a quella nebbia, gli si rifletteva nella vista a ogni sguardo. La muraglia separava il villaggio dal resto del mondo, ma talvolta si ricreava dentro di lei come una talea, separandola a sua volta dagli oggetti, dalle persone, fino a isolarla nella sua bolla di nebbia; ogni volta più stretta. Succedeva di rado prima, ormai sempre più di frequente. La nebbia che aveva negli occhi ritagliava con le forbici i contorni grigiastri delle cose restringendo il campo sempre di più. Ma poi tornava tutto come prima, i confini ripristinati all’interno della muraglia, che però ogni volta diventava più densa e scura. Ci aveva fatto caso dopo le prime volte, aveva visto i confini irrobustirsi e lei diventare più anemica, allo specchio, col viso di un pallore candido. La signora con il cappello di feltro verde non smetteva di guardarla, in modo tanto compassionevole quanto sfrontato e invadente, e Viviana le cercava addosso ogni forma di male possibile, potenziale; nascosto in superficie: il suo gioco preferito. Era difficile in partenza, eppure così facile in fin dei conti che ci avrebbe scommesso tutto quello che possedeva. Avrebbe giurato sul suo male, professato la sua oscurità al tribunale delle stelle senza esitare.

Sentì un improvviso mal di testa, epicentro nel cranio, e capì che Lui era lì. Marciando, marcendo. Aveva smesso di correre, cosa si aspettava? Marciando, marcendo. Ma non poteva più correre, non questa volta, non più: mai più. Marciando, marcendo.

Gli occhi le si riempirono di nebbia e tutto attorno ne appariva annullato; riusciva a vedere a malapena il suo corpo, che pure andava consumandosi, corroso in quella cancrena di purezza. La sua mano destra bramava il vuoto e una mano rugosa comparve a stringerla per tirarla fuori, ma la presa non aveva forza, non abbastanza, e quel vortice di consunzione la assorbì e la divorò come non fosse mai venuta al mondo.

La corriera

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Il testo che segue è uno dei capitoli, intitolato “La corriera”, del romanzo di Graziella Belli “I campi di patate fanno le onde”, recentemente pubblicato da Fusta Editore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Graziella Belli

Giugno 1942

Era il primo giorno di vacanza, Giusto era uscito di casa di buon’ora e portava nella destra una valigia e nell’altra una grossa gabbia. Teneva la gabbia un po’ per la maniglia e un po’ come un pacco sottobraccio. All’interno della gabbia stava bella comoda una gallina di color marrone, beata, gli occhietti sonnolenti ogni tanto guardavano di brutto il suo portatore come a chiedergli di non farla più sobbalzare. Giusto capiva il desiderio della gallina e cercava di ubbidire, perché era stato anche l’ordine di sua madre: e mi raccomando, prova a non sbatterla tanto, Gistin. Ma non era mica facile, e sì che la madre gli aveva agevolato il cammino, aprendogli la porta di casa e accompagnandolo giù per le scale, ma lui le avrebbe voluto chiedere: «Ma siamo sicuri, mamma, devo proprio fare il viaggio con gallina e gabbia?».
Poi non aveva detto nulla perché gliel’aveva già chiesto in casa e la madre era stata chiara: «L’ho comprata da Palombo e pagata anche bene, e cerca di farla arrivare a salvamento», chiudendo ogni discorso con «e poi non fare più domande.».
Giusto risalì i vicoli cercando di non farsi vedere. Che vergogna andare in giro con una gallina in gabbia! Sarebbe stato meglio passare attraverso le chintōgne[1] tra le case di via del Molino e via delle Alpi e poi fino alla chiesetta della Madonna degli Angeli, ma era vestito troppo bene e rischiava di rovinare la giacca. Oltre all’incolumità della gallina, la madre non gli aveva raccomandato altro che quella della giacca: «Era di tuo fratello, lui l’ha portata per quattro anni, vediamo te».
Come se non bastasse, davanti al cortile di Romeo s’imbatté in Osvaldo il postino.
«Giusto, porti la gallina a vilegioa
Giusto rispose senza fermarsi: «Ma no, che villeggiare, vado ara Ciève[2] dalla nonna».

Arrivò in piazza tutto trafelato, si avvicinò a un gruppo di persone e come loro guardò in fondo alla strada. Teneva la gamba contro la valigia di cartone marrone, chiusa da una corda di iuta.
«Non la devi lasciare per nessun motivo.» La madre le cose le ripeteva alla nausea, e se n’era voluta accertare anche mentre l’accompagnava giù per le scale: «E la valigia, Giusto?».
E Giusto: «Non la mollo un attimo».
E adesso se ne stava lì, la gamba rigida a contatto con il cartone, lo sguardo che non perdeva di vista valigia e gabbia, un colpo d’occhio ogni tanto al punto in cui sarebbe apparsa la corriera. Il caldo sembrava aver atteso il primo giorno di vacanza e saliva anche dal Tanaro e dai campi di patate. La piazza era quella dell’Olmo, dove si fermava la corriera due volte al giorno, sia verso il Piemonte che diretta in Liguria, e caricava di tutto: contadini che portavano merci a Pieve di Teco, turisti arrivati a Ormea con il treno che procedevano per Imperia, galline mezze rassegnate e dirette anch’esse a cambiar aria in Liguria.
Dietro il Monte della Guardia si era alzato da poco il sole, e la gente diceva che faceva caldo fin dal mattino presto. Giusto si passava la mano sul collo, sudava sotto quella giacca più da primavera che da estate, i pantaloni alla zuava, le calze di lana. Avesse almeno avuto il fez sulla testa. Non gli piaceva il fez, faceva pizzicare la testa, ma dal sole riparava.
Un uomo, piazzato davanti a lui, cominciò ad agitarsi, a dire «Arriva».
Un altro: «Macché, cos’hai visto, bolgnu c’me ina topunōira[3] Non ci siamo ancora.»
Giusto si sporse in avanti, il piede rigorosamente contro la valigia, e anche la gallina guardò se arrivava o no. Poi, più che alzare la polvere della strada e farsi vedere da lontano, la corriera si fece sentire. Quando si arrestò davanti ai passeggeri e ne scese l’autista, fermandosi davanti alla scaletta a fare i biglietti, l’aria si riempì di tutti i cattivi odori possibili, tra cui quello della benzina. Uno dopo l’altro i passeggeri salirono e presero posto. Giusto e la gallina si misero in fondo, sul sedile vicino al finestrino. Gli piaceva guardare fuori e poi poteva controllare meglio la valigia. Forse guardare oltre il vetro divertiva anche la gallina, così se la mise sulle ginocchia.
Passato l’elegante palazzo, adibito a inizio secolo, dicevano, a casinò, il percorso fece qualche curva; una dopo l’altra le case si rimpicciolivano alle loro spalle e al loro posto i boschi iniziarono a stringere la strada.
La testa appoggiata al finestrino, Giusto osservava la compagna di viaggio. Anche lei doveva essersi stancata di guardar fuori.
«Ti è venuta la nausea?» le chiese sottovoce. «A me sì, non c’è cosa che mi fa venire la nausea come le curve e l’odore di benzina, ma fra poco scendiamo.»
Gli venne in mente che la madre gli aveva consigliato di mettersi davanti, che si pativa meno, e se non per sé si rimproverò di non averlo fatto per la gallina.
Come poteva chiamarla?
«Te lo trovo un nome prima o poi, promesso.»
Ferma in gabbia e sulle sue ginocchia, la gallinella inclinò la testa.
«Speriamo non ti venga in mente di pisciare» le disse sottovoce.
Per fortuna quel mattino Lorenzo non c’era per strada, altrimenti lo avrebbe preso in giro per un anno. Gli spiaceva, però, non averlo salutato.

Finita la seconda di avviamento professionale, Lorenzo era andato a lavorare in fabbrica e da allora si frequentavano di meno: il pomeriggio arrivava tardi, stanco, e aveva poco tempo per i divertimenti. E, del resto, Lorenzo si sentiva un giovanotto, aveva altri amici, più grandi, e guardava le ragazze. E questo un po’ spiaceva a Giusto, perché avrebbe voluto avere il coraggio anche lui di guardare dritto negli occhi le ragazzine, e farlo senza ridere.
Però la sera prima, che si erano incontrati alla fontana per caso, erano andati al campo in Borganza a tirare due calci al pallone. Era un pallone tutto sformato che qualcuno aveva perduto e che Lorenzo aveva trovato di là degli archi della ferrovia, un mattino che andava al lavoro. Poi, tutti sudati erano tornati nella piazzetta del gōlbu e si erano seduti sui gradini della casa di Giusto, come avevano sempre fatto quando andavano alle elementari assieme. Era dunque già il tempo delle nostalgie: sui gradini Lorenzo aveva parlato di quando fregavano le uova a Palombo, di Pina dalle gambe storte – era un po’ che non andavano da lei a fare razzia di ciliegie – e allora Giusto disse che il giorno dopo sarebbe andato a Pieve di Teco e per tutta l’estate non si sarebbero visti. L’aveva detto così, tanto per dire qualcosa, ma a quel punto avevano smesso di ridere. Solo un attimo, perché quando aveva ammesso quella cosa del viaggio con la gallina, pregando Lorenzo di non dirla a nessuno, non l’avevano più finita di riderci sopra. Poi, non si sa chi aveva attaccato per primo, avevano cantato a squarciagola: «È arrivata la bufera, è arrivato il temporale…».
Guardò la gallina e posò la mano sulle sbarrette della gabbia, come per accarezzarle la testolina. La gallina rispose con un verso da uovo.
Ogni tanto, a uno scossone della corriera, Giusto sbatteva la tempia contro il vetro del finestrino. Stanco di tenere la gabbia sulle ginocchia la mise per terra, accanto alla valigia. Ma la gallina per terra non ci voleva stare, faceva versi da uovo e starnazzava, la gente rideva, e Giusto si rimise la gabbia sulle ginocchia.
Prima del colle di Nava era salita una signora molto robusta, si era seduta al fondo, accanto a lui. La donna strabordava, la coscia premeva contro il ginocchio magro di Giusto e la gallina si agitava.  Al giro di Cosio la signora scese, salì altra gente e al posto della signora robusta venne a sedersi un uomo diretto, pareva, alla fiera di Pieve. Era un ometto arzillo e non la finiva più di parlare da solo e, se gli davano corda, con gli altri passeggeri. La gallina gli dava corda con versi che assomigliavano a quelli di un merlo stonato. Nel frattempo la corriera s’era riempita, e c’era chi imbracciava canestri di funghi e uova, altri che portavano forme di formaggio. I posti erano tutti occupati, anche il corridoio tra i sedili era a tappo. Giusto pensò che se non avesse avuto valigia e gallina avrebbe dato il posto a qualche anziano, perché era un’altra delle cose che la madre gli raccomandava sempre, anche se alla fine di corriere ne prendeva solo un paio all’anno. Ora, tuttavia, Giusto era preoccupato: nel suo dialetto di  Cosio,  l’ometto, sballottato anche lui dalle curve, si era lamentato di un fatto: «Belin, basta che con l’agitazione non vada di corpo…»
«Perché dite così?»
«Belin, perché l’agitazione è un veleno per le galline, le fa andare di corpo, non lo sapevi?»
Giusto ci pensò, disse: «Non ci va» e chiuse lì la faccenda.
L’ometto ribatté nel suo dialetto e la gente, seduta e aggrappata alle maniglie, dondolò dalle risate. Il ragazzo non aveva capito, l’ometto non tradusse e mostrò un pugno alla gallina. Giusto spostò la gabbia. La gallina non s’era accorta di nulla.
La corriera si fermò davanti alla chiesa di Acquetico e salirono ancora due persone. Dapprima l’autista disse che non ci stavano, ma i due di Acquetico si infilarono lo stesso. L’autista disse che non partiva e incrociò le braccia, spense. Siccome parlava in italiano, uno di quelli di Acquetico gli chiese da dove veniva. L’autista disse che era sardo, ma cosa c’entrava da dove veniva? Quello di Acquetico non replicò ma dopo un po’, come se avesse ben pensato alla risposta cercando le parole giuste in italiano, gli raccontò una cosa: «Sa, autista, caso vuole che in Sardegna ci ho fatto il militare, è stato nel ‘25, e se sapevo che dalla Sardegna uscivano degli autisti come lei davo un colpo di tacco sull’isola che la facevo affondare ».
La gente tacque, intimorita, si sentì appena un belin, ma bisbigliato, l’autista capì solo in parte, ma accese e la corriera ripartì, sbuffando.
A Pieve di Teco la corriera si fermò e fece uno strano cigolio come se si fosse spenta per sempre.
I passeggeri scesero. La gabbia sotto il braccio, con la gallina contenta di scendere, la valigia nell’altra, Giusto alzava lo sguardo sulla testa pelata dell’uomo di Acquetico. Non gli sembrava in grado di affondare la Sardegna con un solo colpo di tacco, ma l’uomo incrociò il suo sguardo e annuì. Giusto e la gallina sbarrarono gli occhi.

[1] Chintōgne, cunicoli posti dietro le case che servivano da intercapedine e per la raccolta degli scolatizi, ma anche per collegare i vicoli.

[2] Ara Ciève, a Pieve di Teco.

[3] Bolgnu c’me ina topunōira, orbo come una talpa.

Il violinista Igor Brodskij

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(il 15 marzo, per i tipi della nuova, piccola e agguerrita Qed, è uscito “Il violinista Igor Brodskij”, il nuovo libro di Romano Augusto Fiocchi, nostro amico e collaboratore. Ve ne anticipiamo l’incipit, sperando di incuriosirvi. G.B.)

di Romano A. Fiocchi

Quando l’agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece silenzio. Poi vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio: a loro furono date sette trombe Conn, le migliori. Ma a un altro angelo, merda, fu dato un violino invisibile. Il nome di quell’angelo era Igor Brodskij.

Giovanni, Apocalisse (trad. Max Bignami)

È stato qualche inverno fa, tanto per cominciare, uno dei mesi più freddi. Igor Brodskij arrivava in via Dante non più tardi delle otto. Cuffia di lana sopra i capelli grigi, sciarpa al collo, giacca con bavero alzato, scarpe che avevano girato il mondo sotto la pioggia. Igor Brodskij aveva il viso tondo e gli occhi rassegnati da ex sovietico. Schiariva la voce e mormorava in una preghiera l’unica cosa che sapeva dire: «Non parlo italiano».

Si fregava le mani, apriva il seggiolino pieghevole, si sedeva e appoggiava sulle ginocchia la custodia del suo violino. Si guardava attorno. I primi passanti infreddoliti gli lanciavano un’occhiata. Era il posto giusto. Da un lato le spalle intabarrate di un vecchio poeta, immobile su un piedistallo, dall’altro un condottiero a cavallo che dominava il fondo della via, tutta pedonale. Lui, allora, accarezzava la custodia con mani da prestigiatore. L’apriva, estraeva un violino inesistente e iniziava ad accordarlo. Girava i bischeri fatti d’aria, pizzicava corde invisibili, muoveva l’archetto nel nulla. La gente continuava a passare e a lanciare sguardi fugaci. L’aria di via Dante si faceva cristallina, l’umidità della notte milanese si stava alzando.

All’improvviso partiva la musica. Era un suono straordinario, che veniva dall’altro mondo. Via Dante era attraversata da cerchi concentrici di note. Non era musica classica, non era jazz, non era rock. Era la musica di Igor Brodskij, il più grande violinista del ventunesimo secolo

La gente sentiva il suono dal fondo della via, si avvicinava, si fermava. Restava incantata dalla musica. Non le importava di dove uscisse. Le dita di Igor Brodskij si disarticolavano alla velocità della luce, nell’aria, nient’altro che nell’aria, su un violino invisibile agli occhi ma vero. Vero perché il suono che emanava era divino.

I passanti erano così affascinati dalla musica di Igor Brodskij che restavano lì imbambolati e a volte si dimenticavano di fare l’elemosina. L’avvocato Biancardi si fermò anche lui e pensò che il violino fosse fatto di vetro. Don Agostino, il parroco del Carmine, ipotizzò che Igor Brodskij avesse venduto il suo strumento e suonasse sul suo fantasma. In fondo, come e su cosa suonasse aveva poca importanza. Contava la musica che riempiva via Dante, una musica densa da tagliare con il coltello.

«Musica solida».

«Musica che racconta, vi dico».

«Musica che galleggia nell’aria».

«Musica che ci puoi camminare sopra».

«Musica mai sentita».

«Ma chi è?»

«Si chiama Igor Brodskij».

A un tratto, quando la gente cominciava ad affollare la via, e la custodia aperta davanti ai piedi conteneva una decina di euro, le dita del violinista si fermavano. Igor Brodskij raccoglieva le monete e al loro posto riponeva lo strumento inesistente. Chiudeva con cura la custodia, ripiegava il seggiolino e se ne andava, non si sa dove.

«A cambiare l’acqua», diceva con la sua pronuncia cinese l’edicolante Wu Ming. «Per forza, è lì da prima delle otto».

Ma più nessuno vedeva Igor Brodskij sino al giorno successivo.

L’esibizione straordinaria si ripeté regolarmente per alcune settimane, mentre la morsa del gelo invernale non accennava a diminuire. Neppure il freddo riusciva a fermare le dita di Igor Brodskij che vibravano nel vuoto. Per molti era diventato un appuntamento fisso e stavano lì ad ascoltarlo tutti i giorni prima di recarsi al lavoro. Si perdevano nella sua musica. Finché cominciò a circolare la notizia che in via Dante c’era un violinista che ti suonava l’anima.

Fu un mattino. Lo videro arrivare come di consueto, guardarsi attorno, schiarire la voce, mormorare tra sé «Non parlo italiano», aprire il seggiolino, accarezzare con mani da prestigiatore la custodia e sottoporre il violino alle consuetudini preliminari. La musica di Igor Brodskij invase la via, si propagò nelle fogne attraverso i tombini, si arrampicò sui tetti, si infilò dentro i bar, dentro le case.

Un uomo l’osservava. Era piccolo, pelato, con le mani in tasca.

«Merda», esclamò.

Si avvicinò a Igor Brodskij e gli disse che avrebbe dovuto incidere un disco. Era Max Bignami della Marvels Music Italia. Igor Brodskij si fermò. Max Bignami ripeté le parole scandendole lentamente: «Incidere un disco, mi capisci?»

Con il suo accento slavo Igor Brodskij rispose: «Non parlo italiano».

Max Bignami non volle arrendersi. Tirò fuori le mani dalle tasche, una pacca sulla spalla, lo aiutò a raccogliere custodia e seggiolino e lo prese sottobraccio. Svanita la musica, la gente si era allontanata. Igor Brodskij senza musica era un passante come tanti. Max Bignami lo fece entrare in un bar e lo riempì di vodka. La vodka permetteva di superare ogni ostacolo linguistico. Gli illustrò il progetto discografico e gli fece firmare un contratto lì su due piedi.

«Sei contento?», gli chiese.

«Non parlo italiano», rispose Igor Brodskij.

Il mattino seguente, il violinista si ripresentò in via Dante. Si guardò attorno, si sedette, aprì la custodia, alzò gli occhi rassegnati da ex sovietico e si fermò. Di fronte a lui c’era il cranio pelato e il sorriso d’entusiasmo di Max Bignami.

«Merda», esclamò. «Raccogli le tue cose che andiamo in sala di incisione».

Lo fece salire sull’auto parcheggiata poco distante. Igor Brodskij attraversò strade piene di traffico, piazze congestionate, miraggi metropolitani, finché raggiunse la periferia. Il centro di produzione era un gigantesco parallelepipedo di vetro alto dieci piani. Vetri su vetri che si arrampicavano nel cielo grigio. Quando Igor Brodskij entrò in sala di registrazione, la voce della sua presenza negli studi si era già sparsa tra i tecnici. Tutti erano fermi lì davanti per ascoltarlo. Persino il custode Mario Porcu aveva abbandonato la portineria e la bottiglia di vermut bianco per assistere alla registrazione. Igor Brodskij tolse la cuffia di lana e si infilò quella per l’ascolto, allentò la sciarpa, si guardò le scarpe che avevano girato il mondo sotto la pioggia. Aprì la custodia del violino, prese archetto e strumento invisibili, aggiustò l’accordatura e, in piedi, iniziò a suonare. Era la musica più straordinaria che si fosse mai udita nel centro di produzione. I tecnici del suono erano paralizzati, gli occhi fissi sulle dita rapidissime, sui movimenti nervosi del braccio con l’archetto inesistente, sul nulla assoluto che avvolgeva Igor Brodskij e che permetteva il dilatarsi della sua musica.

«Venderemo milioni di copie», gli disse Max Bignami una volta finita l’esecuzione. «Domani vado giù a Roma e ti organizzo un concerto all’Auditorium».

Igor Brodskij lo guardò con gli occhi rassegnati da ex sovietico.

«Non parlo italiano», rispose.

Max Bignami andò a Roma ma al suo ritorno Igor Brodskij era introvabile. Don Agostino disse di averlo visto in un’altra via. L’avvocato Biancardi disse di averlo incrociato in piazza San Carlo, a Torino. Arrivato agli studi di registrazione, Max Bignami ebbe l’amara sorpresa: le tracce erano state cancellate.

«Merda», esclamò.

[…]

Romano Augusto Fiocchi, Il violinista Igor Brodskij, 144 pagine, Qed, 2025.

Sotto la terra

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Illustrazione dell’autrice

di Claudia De Angelis

Racconto vincitore del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

San Pietro Infine, lungo la linea Gustav, inverno 1943
Da bambina Lucia viveva in città, è andata a scuola e ricorda. La maestra diceva che nelle grotte vivono: orsi, ragni, spurtiglioni, grilli e vermi pelosi, talvolta i lupi ci riposano le ossa. Ma a quel bestiario ingiallito dagli anni va aggiunta una pagina, accanto alla sezione di un coleottero ecco strisciare le incisioni tremule di un’acquaforte, ritraggono una schiera di volti tetri e sfiniti, una righina striminzita racconta: nelle grotte ora vivono anche gli abitanti di San Pietro Infine. E poi tutte le cose che vive non sono ma pare: il buio, l’umido, la polvere, la brina, gli spifferi, certi fiati della terra profonda che li senti pure col naso turato. E Lucia.

Non c’è da farsi ingannare dai piccoli respiri che le tremano in petto, dal tamburo del cuore, dagli occhi sgranati e fondi che schizzano a ogni cambio di luce, non badate al bambino che le si attacca al seno e cresce. Lucia appare donna viva ma è un guscio, un contorno. Se il freddo e le circostanze concedessero ai paesani di potersi spogliare e lavare, in mezzo alle scapole nude di Lucia tutti vedrebbero pelle nera stracciata, il foro di un proiettile tedesco paro paro a quello che ha ammazzato Adelchi suo, oramai due mesi che sembrano duecent’anni fa.

Era uscito di casa dicendo: mi mandano a lavorare in Germania. In Germania ma dove? E quando torni? Statti tranquilla, amore mio. Insieme a lui altri sette paesani, il più piccolo di neanche quindici anni. Non ci sta da avere paura. La Germania è una fossa comune al limitare del castagneto. Morti col sole in faccia, con la testa alta, ma morti sparati.

Quel giorno Lucia è morta pure lei, o almeno così le pare. Il venerdì dopo, dalla finestra della cucina guardava sfilare le vedove e i vecchi e le figlie di San Pietro Infine. Abbandonavano il paese e lei con le pupille opache a dare la tetta al bambino, sarebbe rimasta là, una statua, una morta travestita da viva, e invece Antonietta – cugina di Adelchi, madre di due femmine appena donne, che nascondeva in soffitta a ogni visita del leutnant – l’ha tirata via per le orecchie.

Con un fagotto di cibo e coperte, col bambino al collo, Lucia si è messa in coda alla processione. Oggi non ha ricordi della camminata. Un minuto prima era al tavolo della cucina, quel tavolo che per quanto Adelchi suo cercasse di pareggiarlo era sempre sbilenco; un minuto dopo eccola davanti alle fauci della montagna che sola poteva salvarli. Il suo primo pensiero, il primo di numero in questa sua morte-che-pare-vita, era stato che sicuramente l’avrebbero rimandata indietro. Dieci anni in paese e ancora mi chiamano forestiera, pensava la viva già morta, si terranno il cibo e il bambino che ha il sangue loro e io torno a valle, se la montagna ha pietà di me scivolo e mi spacco la testa su un sasso e sennò starò in mano ai crucchi, va bene, tanto viva non sono, tenetevi il pane e pure il bambino che io devo compiere questa mia fine, non caccerò un fiato, giurosuddio, ma la fotografia di Adelchi mio, solo questa mi resta, solo questa lasciatemela, sul mio corpo il suo viso, come dev’essere.

E invece Antonietta ancora la piglia per il braccio e la tira sotto la terra e la fa sedere in fondo in fondo, appresso alle galline, dove il bambino può stare più riparato. La morta Lucia si accuccia, zitta, buona, forestiera ma madre di un paesano che ha bisogno di lei, e quindi: che viva. Fai latte, bella, non pensare a nient’altro, fai latte. Lucia ingoia grida e pianto, il latte viene come la neve, dapprima leggero e poi tutto insieme. I paesani le mettono in mano i pezzi di formaggio con meno crosta e le fette di pane più spesse. Lo sanno tutti che a quelli di Ponte li hanno trovati perché una piccolina piangeva di fame. Fai latte, bella, vedi che sei brava.

Il bambino ha un nome che Lucia non ricorda. A tre giorni di vita l’hanno portato dal prete, Adelchi suo, un gigante radioso come il sole, sorreggeva la moglie e il figlio insieme, e davanti a Dio al bambino hanno dato un nome che però sotto la terra non li ha seguiti, impaurito dal buio. Il bambino ha un nome che sua madre respinge, non serve, Lucia il bambino lo conosce solo attraverso il dolore e tanto le basta: e la gravidanza che rimpasta le interiora e poi le doglie e il parto e il corpo che si strappa, e poi quando va a riallacciarsi non ricorda più com’era prima, com’è stato per ventun anni, e deve inventare nodi e bottoni e asole nuove, e ogni cosa tira, e proprio quando ti sei abituata ecco le ragadi ai seni perché il bambino poppa in continuazione. No, non servono nomi. L’unico che importa è diventato inutile, lo chiami e nessuno risponde. Lucia comunque lo accarezza a ogni battito d’occhi, Adelchi mio tu non mi dovevi lasciare, no, sarò forte, tanto presto ti raggiungiamo tutti.

*

Sotto la terra si rivela l’esistenza di un tempo che è vuoto. Le giornate, derubate di bestie campi castagneti biancheria pavimenti stoviglie ramazze e pialle e segatura e mattoni, trascorrono lunghe e pigre con le orecchie appizzate a sentire se dal bosco risale qualcuno. Sotto la terra, a parte il freddo e l’umidità e la paura di essere trovati e ammazzati come bestie non c’è altro che tempo, una melma fredda di minuti e ore e giorni che s’incrosta sotto le unghie: tempo, tempo, tempo da far passare pensando ai morti, seminati nei campi intorno al paese; ai vivi, lontani giù a valle o in città, chissà se c’è ancora una città. Tempo da pregare che la primavera ritorni, o la pace: sogni lontani entrambe, parole proibite, si gonfia la lingua di chi prova a sospirarle.

La grotta è paese in miniatura. I vecchi si giocano ciottoli a carte e accendono il fuoco litigando sul dove e quando e come cacciare il fumo di fuori. Le vedove amministrano il cibo: non saranno i soldati ad ammazzarle e non sarà nemmeno la fame. Le vedove ricordano la guerra. Vegliano il pane come il santo sepolcro, quel che indurisce lo ammollano nell’acqua piovana assieme ai ceci e ai piselli dell’anno scorso; razionano il formaggio, quel poco di salsiccia è divisa equamente fra tutti (tranne Lucia, a Lucia un dito intero); la vedova Giordani, che da ragazza era sarta, ha salvato da casa due ferri e qualche gomitolo e tra le sue dita svelte si allunga un corredo per il bambino. Le ragazze guardano di fuori e sospirano la libertà. L’angoscia del presente annega nel ricordo amaro di una promessa strappata alla festa della vendemmia. E allora sono le ragazze ad avventurarsi fuori dalla grotta, sotto la luna raccolgono la pietà del bosco: bracciate di legna, grossi sassi che tengono il caldo, castagne da succhiare con pazienza, e una sera fortunata i due conigli del prete, già mezzi morti di paura per i bombardamenti.

Sotto la terra, ognuno ha il suo ruolo. Lucia sta seduta e fa latte.

La seconda figlia di Antonietta ha preso a incidere croci sulla roccia, una per ogni tramonto: prima due, poi sono sette, poi undici, poi s’incrociano gli occhi sopra il fuoco minuscolo che solo di giorno trovano il coraggio di accendere e d’improvviso le croci sono già venti, non è possibile, qualcuno ha fatto lo spiritoso e le ha aggiunte mentre non si guardava. Le croci saltellano danzano si scambiano di posto scappano tornano il doppio. Forse è Natale e forse non è passato neanche Ognissanti.

Quel calendario bugiardo e meschino, la morta Lucia non ha bisogno di guardarlo. Che il tempo passa glielo dice il bambino. Quando sono arrivati alla grotta a malapena apriva gli occhi e invece adesso dopo ogni poppata il suo viso sporco di polvere e terra si allarga in un sorriso tutto gengive e adorazione. Apre e chiude le manine sul seno di Lucia, abbozza carezze goffe, scalcia contro le fasce che lo avvolgono tutto. Quando azzardano qualche passo di fuori, sul terreno che gracchia sotto i piedi, il bambino è curioso di ogni suono, come un fiore rivolge la testolina soffice verso il sole. Ridacchia piano, contento. Strofina il nasino sul collo di Lucia. Se il castagneto d’improvviso trema per l’eco dei mortai, se di notte lampeggiano fuochi a valle, il bambino non se ne cura. La più piccola carezza invece lo fa fremere tutto, un bacio leggerissimo sulla fronte e lui sgrana gli occhi emozionato, il suo mondo sta tutto là dentro. Rimbomba la guerra? Che importa. Sotto la terra il bambino sospira soddisfatto tra le braccia della mamma.

La morta Lucia lo guarda e le pare di sentire un sussulto lontanissimo in petto.

*

Schiara mattina. Il bambino mangia con gli occhi chiusi, le manine lente, il corpo sciolto nell’abbraccio della madre un ritratto di pace. Lucia, seduta, lo guarda. I paesani si strappano dal sonno con forza. È caldo, nei sogni, e nella grotta c’è freddo.

Un rumore dal bosco. Piedi che strusciano sulla brina gelata. Sotto la terra un silenzio che fa più paura della morte imminente.

I paesani si appiattiscono contro le rocce, chi sarà il primo a crepare? I cuori martellano, il bambino è infastidito dai tonfi dissonanti. Lucia lo stringe più forte e guarda l’imboccatura della grotta. Il cielo bianco, carico di neve, la acceca. Si aspettano tutti la fine e invece si affaccia una ragazzina con la faccia di topo. Dodici anni. Le mancano i canini di sopra, i capelli biondi sono impastati di fango. Dice: Erminia, e poi non dice più niente.

Le danno acqua e pane e due uova. Antonietta la riconosce, è la figlia del fornaio di Galluccio. No, la vedova Giordani ricorda perfettamente che il fornaio di Galluccio ha fatto solo maschi, questa appartiene ai casari di Sessa. Erminia non dice, nemmeno le guarda. Si siede troppo vicina al fuoco e attraverso le fiamme fissa il bambino. Antonietta vigila preoccupata da quegli occhi di vetro a suo dire cattivi, ma Lucia si sente tranquilla. Il suo lutto riconosce il lutto di Erminia. Hanno in petto lo stesso squarcio.

Quella notte, Lucia le fa cenno di avvicinarsi. Il bambino dorme attorcigliato nella culla delle sue gambe incrociate, sulle sue caviglie c’è posto per la testa di Erminia.

Il bambino pasce come un re. Erminia ha deposto la gelosia e si è eletta sua custode. Ogni giorno, di fuori la guerra avanza e invece la morte di Lucia arretra. Il bambino grugnisce, stringe i piccoli pugni, e Lucia sa che bisogna rigirarlo sull’altro fianco o fargli il solletico sotto al mento ciccioso. Lui deliziato si afferra i piedini, schiocca le labbra, guarda stralunato Erminia che gli fa le boccacce.

Una sera, il bambino si irrigidisce tutto, sbarra gli occhi in faccia alla mamma, mulina le braccia, caccia un rutto così forte che la grotta gli fa eco. Silenzio. Erminia si copre la bocca ma la sua risata la intuiscono tutti, e tutti contagia, non si rideva così dall’estate.

Lucia riesce a fare solo un sorriso annacquato. Sta covando la febbre.

Per tre giorni e tre notti si contorce sul pavimento della grotta, fradicia di sudore, trema eppure avvampa e rigira gli occhi nel cranio. Il mondo è tutto fatto di mani: mani che afferrano le sue freddissime, mani che le buttano addosso coperte, mani che toccano la fronte e le guance, mani che portano acqua, che portano Dio, che portano odore di terra, mani che le mettono al seno il bambino e mani che lo staccano quando lei lo vorrebbe a sé, il suo amore piccolo.

Si squarcia il tempo. Il suo corpo inarcato in una pozza di sudore resta indietro. Lucia vede la montagna dall’alto, un tappeto di bombe precipita sul paese ma prima che tocchino terra tramutano in castagne, piovono sul tetto di lamiera della veranda di casa e Adelchi sussulta e poi ride, promette per la centesima volta che darà una sistemata a quell’albero. Lucia sbircia da una fessura tra le tendine a fiori della cucina: la stanza è illuminata d’oro, come la grotta del presepe che faceva da bambina. Lei ha il pancione e monda i fagiolini e Adelchi suo la trascina in una piroetta che diventa un abbraccio che diventa in bacio e Lucia distoglie lo sguardo, lo volge in su. Dalla strada che dal paese porta in montagna vede scendere il bambino ormai ragazzo, su una bicicletta verde sgangherata alza i piedi dai pedali e caracolla in discesa con la stessa risata del padre. Quindi rimarremo in paese, pensa Lucia, e per la prima volta il pensiero non la riempie d’angoscia.

È il futuro che le si srotola davanti agli occhi, oppure un sogno? Lucia segue il bambino-ragazzo, la piazza del paese si gonfia, i palazzi si allungano, il lastricato diventa asfalto, spuntano macchine da tutte le parti: la città è tutta un movimento, tutta un rumore, se pure la guerra è passata su queste strade l’hanno cancellata a secchiate di calce. Il bambino-ragazzo ha dei libri sotto il braccio, frequenta il liceo. Quando ride getta indietro la testa e sul collo si vede uno sbaffo nero: la polvere, la terra della grotta di cui preghiamo che non abbia ricordo. Lucia allunga un dito umido di saliva per pulirlo ma la sua mano attraversa il bambino-ragazzo che è fatto di luce.

Adelchi la chiama. Quanto sei bella, dice, e Lucia gli corre incontro. Portami via, non ho già fatto abbastanza?

Due mani le prendono il viso, non sono di Adelchi, non saranno mai più le mani di Adelchi. La febbre recede (e anche i tedeschi). Lucia abbandona il passato e il futuro e torna al suo corpo: una virgola attorno al bambino. Sente in bocca il sapore ferroso del vinaccio della sagrestia. Antonietta le strizza l’occhio velato di lacrime.

Ci hai fatto morire di paura, dice, e Lucia le stringe forte la mano. Erminia dove sta? I paesani s’adombrano. Dice che a Mignano il farmacista c’è ancora. Erminia è scappata da due giorni e non torna. Hanno sentito sparare. Lucia tace per un momento, poi è travolta da una speranza tiepida che di certo appartiene al bambino. Embé, e quando mai non si sente sparare? Antonietta si asciuga le lacrime.

Un rumore dal bosco. Piedi che strusciano sulla brina gelata.

Stavolta sono tanti, ecco: ci hanno trovati.

Prima che Lucia abbia il tempo di avere davvero paura, Erminia da fuori urla di uscire, sono arrivati i mmericani, c’è pane e cioccolata e medicine e salvezza e libertà. Le vedove non si fidano, i vecchi neppure, ma Lucia di Erminia sì, e allora esce.

Strizza gli occhi contro la sberla del sole. Il bambino ride eccitato dall’improvviso tepore. Erminia si butta ad abbracciarle le gambe, Lucia le carezza la testa.

Nessuno le spara, anche se qualche fucile sobbalza. Paiono mostri, le creature affamate e diffidenti che emergono dalla grotta, e invece sono i paesani. Cadaveri vivi, le facce smunte nere di sporco, i corpi ammaccati e ricurvi, i polmoni carichi di catarro, i muscoli accartocciati, i capelli e le barbe nidi di rondini, Antonietta con una gallina sottobraccio.

I mmericani si guardano, incerti davanti a tanta miseria. Il primo che s’avvicina è l’unico senza divisa e senz’armi, imbraccia una macchina fotografica dalla forma strana, che emette un fruscio continuo di torrente in piena. L’imbarazzo è rotto. Pane e cioccolata passano di mano in mano, i soldati annunciano che il fascismo è finito andato kaputt, ma i paesani vogliono sapere di questo cugino e di quella zia, e casa mia ha resistito sotto le bombe? Bada che l’ha costruita mio nonno. E mica hanno bruciato i castagni?

Il soldato che non è un soldato si avvicina a Lucia, inquadra il bambino. Bello piccolo, dice, come lo chiamo?

Lucia guarda a valle. Il paese è polvere, la sua casa calcinacci. Si vede varcarne la soglia sventrata, scalciare cocci, vetri, i pezzi dello specchio della bisnonna – sette anni di sventura, siamo pronti? – i rimasugli dell’infanzia di suo marito e della loro vita insieme fanno un mucchietto triste sotto il lavandino sbeccato. In mezzo a quei resti riarsi, sopra la cenere, Lucia accenna un passo di danza e restituisce al bambino il suo nome.

Nota cinefila
La vicenda di San Pietro Infine è protagonista del documentario “The Battle of San Pietro” girato dal regista John Huston, al seguito degli Alleati.

Claudia De Angelis (1992) è nata e cresciuta a Caserta. Vive a Roma, dove lavora come traduttrice e autrice per il cinema e la televisione. Ha vinto il Premio Solinas ed è stata selezionata a Biennale College Cinema.

Nelle retrovie

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di Linda Farata

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Provai gioia il giorno in cui babbo venne a dirci che saremmo potute andare a prendere Elvio con lui. Non seppi cogliere la gravità, l’eccezionalità di quel permesso. Da che eravamo sfollate a Molleone, non facevamo altro che impastare crescia e rammendare la poca biancheria che eravamo riuscite a portarci dietro. Babbo e Peppina una volta avevano provato a tornare nella casa vuota per recuperare la biancheria di mamma, ma si erano ritrovati nel mezzo di un cannoneggiamento. Oh Dio son mortooh Dio son morto, gridava correndo un partigiano, prima di trovare riparo dietro a un pagliaio – così mi aveva raccontato Peppina, che correva per la cucina con le mani in aria gridando Oh Dio son morto, e io ridevo fino a cadere dalla sedia. 

Da quella volta, babbo non ci aveva più lasciate andare. Si aspettava che proseguissimo con gli studi, ma la noia, la tristezza. Leggevamo dei libri, ogni tanto – sempre gli stessi. Lui rientrava impolverato dopo lunghe giornate di transito: dai campi al mercato, dalla caserma al convento. Ci chiedeva se avessimo studiato, e noi rispondevamo di sì. Poi gli servivamo la cena e si chiudeva al piano di sopra, nella stanza che aveva adibito a studio. Parlava poco da quando era stato rilasciato, e preferiva il tabacco al cibo. Non si portava più dietro disertori, partigiani ed ebrei: il regime l’aveva visto e non lo lasciava andare più. Per questo sul Monte Petrano dovemmo andarci a piedi, nonostante fossero quasi tre ore di cammino. Zio Imbriano ci aveva dato appuntamento sul versante sud, all’altezza del fienile dei pastori. Era il quattro di maggio e splendeva il sole: le foglie nuove, il pietrisco bianco, la massa bluastra del Monte Petrano che ci guidava all’orizzonte. Sembrava un’avventura all’inizio, una gita all’aria aperta, ma fu solo quando li incontrammo che iniziai a intuire quel che stava accadendo.

Sulla strada del ritorno parlammo a malapena. Io e Peppina ogni tanto ci guardavamo, poi guardavamo Elvio: camminava a testa bassa, tirando calci ai sassi. Rientrammo al casale di Molleone che era già pomeriggio inoltrato. Babbo si chiuse nello studio, mentre noi andammo in cucina ad accendere il camino. Qualcuno aveva cambiato l’acqua ai fagioli; forse la nonna, anche se dalla notte dell’acquazzone si alzava a malapena dal letto. 
«Stasera facciamo pasta e fagioli» disse Peppina, e io sapevo che era un regalo per Elvio – la farina per i maltagliati era razionata, e anche i legumi iniziavano a scarseggiare – ma lui non reagì. Era andato a sedersi al tavolo e si teneva la testa con una mano.
«Così poi ci teniamo caldi a suon di scoregge» provò ancora Peppina, e questa volta lui accennò un sorriso. 
«Ora vivete qui?» chiese, guardandosi attorno. La cucina grande e fredda, con le pareti annerite dal fumo.
«Solo finché non finisce la guerra» risposi.
Peppina andò a occuparsi della nonna, mentre io misi l’acqua sul fuoco e presi a riempire la tinozza per Elvio, una pentola per volta. Da che eravamo entrati, si sentiva più forte il suo odore di escrementi e braci, polvere e sudore. Lui non faceva niente, mi guardava e basta. Peppina me l’aveva bisbigliato, sulla strada verso il Monte: ora avremo un altro uomo da accudire. A me aveva fatto effetto quella parola, “uomo”, riferita a lui. Prima di seguire il padre in montagna, Elvio era stato un bambino lagnoso e inquieto, sempre bisognoso di attenzioni. Ricordavo con ribrezzo il modo in cui mi si avvicinava dopo i pasti – quando ancora esistevano le domeniche e ci si riuniva per i pranzi in famiglia – e mi appoggiava la testa sulla spalla, chiedendomi “un bacino”. Io voltavo veloce la testa e gli scoccavo un bacio a labbra strette sulla guancia unta, già puntellata dei primi, rossissimi brufoli. 
«Ti lascio solo» dissi, quando la tinozza fu piena abbastanza. Sul pavimento gli avevo sistemato un pettine e un pezzo di sapone. Lui non si mosse, e solo quando fui sulla porta mi chiese di restare. Mi sembrò così piccolo allora: un fagiolo appena uscito dal baccello. 
Restai di spalle finché si spogliava, poi trascinai una sedia accanto alla tinozza e mi sedetti dietro di lui. Prendevo l’acqua calda con la brocca e gliela rovesciavo lentamente sulla testa, come aveva fatto mamma con noi.
«Sai, su in montagna dormivo in un pagliaio» mi disse. «Scavavamo un buco nella paglia e io mi c’infilavo dentro.»
Gli passavo il pettine tra i capelli annodati, e lui non si lamentava. 
«Una volta ho anche sparato.»
«A chi, sentiamo.»
«Ai tedeschi!»
Feci una faccia come se mi stesse raccontando balle, ma non poté vederla. 

Zio Imbriano l’aveva portato in montagna con sé quando era riuscito a evadere dalla caserma dei militi. Elvio al tempo aveva solo undici anni, ma non c’era una madre a cui lasciarlo. Dicevano che Imbriano, per evadere, avesse scavalcato un muro altissimo, e che avesse chiesto la bici a un passante per pedalare veloce lontano da lì. Peppina lo diceva, e diceva anche che la bicicletta forse non l’aveva chiesta, ma rubata. Imbriano era sempre stato impetuoso, esuberante, il più divertente degli zii. Per questo mi aveva fatto così effetto vederlo sul Monte quel mattino: con le guance incavate, il tremolio alla mano destra. Il modo in cui provava a ridere per poi spezzarsi sotto i colpi della tosse. Quando alla fine si era chinato per salutare Elvio, babbo ci aveva fatto segno di seguirlo nel fienile, per lasciare loro un po’ di spazio. Dentro il fienile il buio era denso, e un mucchietto di feci rinsecchite attraeva mosche in un angolo. Da fuori arrivava il ronzio della voce di Imbriano, interrotto solo dai singhiozzi di Elvio. Lo zio ci aveva chiamato un’ultima volta, quando già scendevamo lungo il fianco della montagna. Urlava di avere fiducia, che presto il nemico sarebbe caduto. Ci voltammo a guardarlo: le mani sui fianchi, il piede appoggiato a un masso. Sembrava crederci davvero, e per un po’ quella fiducia ci rimase attaccata addosso.
«Ma con il moschetto, non con la mitragliatrice come babbo» precisò Elvio.
Peppina entrò in cucina in quel momento e ci guardò strano. Elvio non era più un bambino, e io ero quasi una donna finita. Dissi che andavo a prendere altra legna e lasciai Elvio a mollo. Fuori il blu del crepuscolo si stendeva su ogni cosa, l’aria era fresca e come fatta di polvere. Mi fermai in mezzo al cortile e chiusi gli occhi per un attimo. Provavo a immaginarmi il ragazzino che avevo appena aiutato a lavarsi mentre sparava ai tedeschi. Ma non riuscivo a immaginare uno scontro a fuoco, né i soldati, né sapevo cosa fosse effettivamente un ‘moschetto’. Nelle retrovie non vedevamo altro che farina e fagioli, e degli uomini che si ammazzavano sul fronte non ci restava che l’assenza.

Quando rientrai in cucina, Elvio era avvolto in un asciugamano e si scaldava accanto al camino. Peppina, seduta al tavolo, tritava la cipolla. «Portalo di sopra» mi disse, «vedi se gli trovi una gonnella pulita.»
Andammo nella stanza dove dormiva papà, Elvio si sedette sul letto mentre io cercavo nella cassettiera qualcosa che potesse stargli. 
«Hai freddo?» gli chiesi, quando vidi che tremava.
Lui alzò le spalle, e allora anche io.
«Non ci hai creduto alla storia dei tedeschi, vero?»
Gli passai un paio di mutande pulite.
«Guarda che è vero!»
«Sì, sì, ti credo» risposi, mentre s’infilava i pantaloni. «Hai avuto paura?» gli chiesi poi. 
Lui di nuovo alzò le spalle. I pantaloni gli ricaddero fino alle ginocchia, così andai a cercare qualcosa con cui tenerli su. Il resto della casa era silenzioso: solo dalla cucina arrivava lo sbattere aritmico del tagliere contro il tavolo, quando Peppina voltava l’impasto per schiacciarlo. Quando rientrai in stanza, Elvio era tornato a sedersi sul letto. Il torace era violaceo e ossuto, quasi incavato in mezzo al petto. Gli allungai un pezzo di corda che avevo trovato in ingresso.
«Torniamo giù» gli dissi, quando si fu infilato anche una vecchia camicia ingrigita, con le macchie ruvide di filo dove io o Peppina avevamo cercato di nascondere un buco. Sembrava un albero con le lenzuola stese ad asciugare sui rami. 
«Di mamma non avete saputo nulla, vero?» chiese allora lui. Io mi arrestai sull’uscio – era come se un sasso mi fosse rotolato dall’esofago allo stomaco. Sua madre era sparita. Tre, quattro mesi prima, senza lasciare niente di scritto. Ha abbandonato la famiglia, dicevano di lei, senza preoccuparsi di nascondere il disgusto. Io me la ricordavo piccola, zia Rosa, muta e remissiva. L’avevo notata appena, prima che se ne andasse. Io e Peppina mettevamo insieme le memorie: la volta che piangeva in cucina, e quel livido sul polso che cercava di coprire con la manica dell’abito. Ma erano solo congetture, e dovevamo farle sottovoce, perché nonna e babbo non volevano sentirne. 
«No» gli dissi, «non abbiamo sentito niente».
Lui annuì velocemente.
Provai a mettergli un braccio sulla spalla, ma sembrava un peso morto, un arto non mio.
«Com’è non avere una mamma?» mi chiese allora, voltandosi a guardarmi. 
Io restai in silenzio per un po’, poi scossi la testa. Non riuscivo a dire niente. 
«Adesso la nonna potrebbe farci da mamma, no?»
«È più di là che di qua» risposi.
Lui si arrotolava le maniche della camicia sui polsi, cercando di far spuntare le mani. 
«Allora Peppina?»
Scoppiai a ridere.

La cena fu allegra, con Peppina che diceva le sue scemenze ed Elvio che si abbuffava. Persino babbo sembrava più leggero del solito. I maltagliati si erano un po’ appiccicati tra loro, sulla lingua si sentiva la ruvidezza della farina, rimasta cruda tra gli strati che non si erano cotti del tutto. La nonna scuoteva la testa ma non diceva niente, anche lei aveva capito che quella sera era importante star sereni.

Poi sentii qualcosa, nel cuore della notte, quando dormivano tutti già da un pezzo. Un ticchettio alla finestra, come se un uccello infreddolito ci stesse chiedendo di entrare. Mi tirai su a sedere. Peppina, accanto a me, parlava nel sonno – sì, chiudilo, non sul tavolo, chiudilo su! La stanza era buia, ma si vedeva il bagliore di una luce accesa oltre gli stipiti della porta. Raggiunsi il corridoio a tentoni, e vidi che la luce veniva dallo studio di papà. Mi mossi piano, cercando di non far rumore. La porta dello studio era accostata, una candela bruciava sul tavolo. Babbo non mi vide: era piegato in avanti e si teneva il volto tra le mani. Lui poi avrebbe detto che mi ero sognata tutto, che non c’era modo che sapesse, o anche solo sospettasse. Ma io sono certa di averlo visto piangere. Anche se era appena successo, a otto chilometri da lì, e il messaggero che sarebbe venuto a informarci era ancora preso dal suo stesso sconvolgimento, in una notte d’orrore speculare alla nostra. Io so che anche babbo aveva sentito la beccata dell’uccellaccio alla finestra, e che, come me, anche lui aveva capito.

Ci avrebbero raccontato che avevano pianificato un attacco alla caserma dei militi di Cagli, la stessa che l’aveva preso prigioniero tre mesi prima. Ci avrebbero detto che erano in quattro, e che il piano era quello di far saltare la porta della caserma per rubare delle munizioni. Che per far saltare la porta avevano utilizzato il plastico – un esplosivo di cui gli americani avevano cominciato a rifornire i partigiani sulle montagne, insieme ai viveri che facevano cadere dagli aerei in volo. Ci avrebbero confessato che i partigiani non avevano dimestichezza con questo nuovo esplosivo, e che per errore ne avevano piazzato troppo. Così non era saltata solo la porta, ma l’intera facciata della caserma. Che i carabinieri all’interno si erano messi a sparare alla cieca sui quattro partigiani. E che Imbriano, colpito alla testa, era morto sul colpo. E ci avrebbero detto, guardando Elvio che si aggrappava al mio braccio, che probabilmente Imbriano aveva avuto un presentimento. Che aveva sospettato che le cose potessero mettersi male per lui quella sera, e che per questo aveva mandato a chiamare il fratello, per assicurarsi di mettere il figlio in salvo.

Tornata in stanza, m’infilai nel letto di Elvio. Lui mosse appena una gamba, ma il respiro gli restò regolare. C’era ancora un sentore di braci nei suoi capelli, oltre quello acidulo del sapone. Mi avvicinai al suo corpo magro, sudato, e lo strinsi a me come se fosse un bambino. Come se fosse il mio, di bambino.

Linda Farata è nata a Milano nel 1994. Suoi racconti, articoli e traduzioni letterarie sono stati pubblicati su diverse riviste e antologie. Nel 2022 è uscito Ero una Fanzine per i tipi di Agenzia X, libro scritto e curato insieme al Collettivo Mastica’zine. Il suo primo romanzo uscirà a settembre 2025 per Bompiani.