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Magdalo Mussio: il secondo mondo o luogo interdetto

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di Giulia Pigliapoco

 

Ospito qui un estratto da Sulla soglia del dicibile. Appunti attorno all’opera di Magdalo Mussio di Giulia Pigliapoco, primo titolo pubblicato nella collana “Quaderni di teatro” dell’associazione CongerieIl libro è affiancato dal volume d’artista “L’odore del bianco”, che documenta -attraverso fotografie, testi e partiture visive- il lavoro teatrale  di Pigliapoco insieme a Vincenzo Consalvi.

 

Il secondo mondo o luogo interdetto

 

Solo resiste al tempo quel che si fa col tempo. E quello che si fa con l’eternità? La poesia viene quando restiamo nell’inesauribile compagnia della solitudine. Viene come un sùbito taglio, dove si mischiano con fredda febbre, sangue con sangue, due separati mondi[1].

 

Due mondi – e io vengo dall’altro[2].

 

Due separati mondi, uno di qua uno di là. Quello di là sembra esserci vietato e non sempre riusciamo a vedere ciò che c’è ma soprattutto non sempre vogliamo vederlo. La parola impregnata di energia tende sempre al di là di sé, la realtà è sempre più di sé stessa. È proprio in quell’al di là che si rivela il simbolo. Florenskij lo definisce come «un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza. Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita [stratvorennaja] insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest’ultimo»[3]André Lalande afferma che «il simbolo è qualunque segno concreto che evochi, in un rapporto naturale, qualcosa di assente o che è impossibile percepire»[4]. Continuando, ne indica poi le sue proprietà: «è un segno concreto, non è un segno astratto, non è un’allegoria, è una realtà»[5]. Si tratta dunque di un segno che conduce ad altro, che evoca un’assenza di per sé già esistita, dunque portatore di una qualità di presenza. Se possiamo dire che qualcosa è assente, è perché si è stati a conoscenza con il gusto della presenza. Il segno, cioè simbolo, non è soltanto un significato, ma è più del segno e di sé stesso, perché tende già di per sé verso ciò che indica.

Mussio, come un primitivo, sembra mettere alla base di tutta la sua esperienza ideologica le ragioni del culto, come contenuto intero del logos. Come per il primitivo la danza, la maschera, le processioni, l’atto di imitazione, così per Mussio la parola, i segni, le tracce, le immagini sono esempi di raffigurazione simbolica della realtà. «Stabilire un nesso tra le forze naturali e l’uomo, di creare cioè il symbolon, l’anello di congiunzione, ed ecco che il rito magico opera allora un collegamento reale inviando un mediatore…»[6]. Mettere nello stesso piano l’oggetto reale e la figura dell’oggetto, cioè il suo simbolo: essi sono uniti, sono la manifestazione di un’unica e medesima sostanza, che è il divino, il mondo. Come un uomo primordiale che non ha orizzonti. Nelle opere di Mussio il tutto è nel tutto, l’uomo è nell’uomo, il flusso nel flusso, il divino nel divino. Percepiamo la sostanza omogenea, pesante e simbolica, di ciò che c’è, del questo e del quello, del sé e dell’altro, come tutto. Il simbolo, scrive Emilio Villa, è «da intendere come intensificata naturalezza, come intensificazione e moltiplicazione di concretezza, come iterazione dell’atto profondo»[7].Nell’operare di Mussio è segnata l’azione del toccare, ottenere, tenere, trattenere, possedere l’energia, l’essere. Dunque, è già tutto nella sua mano e Mussio si limita a produrre, agire, senza voler dimostrare quello che è saputo. Ma davanti ai suoi lavori ci si chiede se al concetto di presenza, di essere e di verità, sia possibile sostituire una pratica altra che permetta di tradurre i concetti in significati. La risposta è negativa, perché al di là delle ipotesi che possiamo formulare, nessun significato, nessuna interpretazione certa è possibile. Ciò che si fa nel luogo è l’ipotesi dell’altro luogo, è un continuo rimando a ciò che non può farsi presente e che come tale eccede il pensiero, che vuol esser detto senza potersi dire.

Ciò che possiamo trovare nel luogo è una vera e propria frantumazione dello spazio, dove soltanto i più attenti riescono a vedere più superfici, riescono a vedere ciò che c’è dietro. Così come è lo spazio, anche i segni, le parole, le tracce, gli episodi, le narrazioni, i frammenti si distaccano completamente dalla propria parola, riferimento o immagine per inseguire un’altra identità. Essere da questa parte o dall’altra, essere uno e nessuno e insieme tutte le possibili maschere, essere una possibilità rivolta al passato è quel che ci rimane.

«Ora, se l’opera non ha più una sua centralità è l’altrove a dominare e a dividere gli spazi. Ma l’altrove è in nessun luogo, è questa mancanza di luogo, rimanda a ciò che è senza esserci, è pura allusione senza certezza, ma non per questo meno reale di ciò che viene indicato per esserci e rimane nella propria identità».[8]

 

Non possiamo non pensare che tutto l’operato di Mussio guardi a questo vuoto, al non detto, probabilmente per indicarci i luoghi deputati della morte, dello stesso accadere. Anche il semplice segno di Mussio diviene traccia incisiva, strada da seguire quantomeno con lo sguardo; e più si distacca della realtà, più progredisce di intensità, più l’uomo ne è attratto, più il simbolo si sostiene da solo. I suoi segni sono già oltre la comunicazione e i suoi equivoci. Segni continuamente in divenire, iniziati a essere prima ancora di apparire. È nella sottrazione, nella sparizione, nella distanza che il semplice segno diviene segnale simbolico. Quello di Mussio è un segno che traccia il dominio della forma che sia umana, animale, divina, oggetto percepito o figurato, presentato o raffigurato. «Il segno è figura, la figura è atto, l’atto è unità, comunione, integrazione, generazione; l’unità è il divino, il divino è figura, la figura è segno. Così come azione e simbolo sono la medesima realtà»[9].

Ciò che quell’insieme di segni/simboli attiva è una sorta di movimento di fuga, una migrazione che tende a spostare di continuo il proprio luogo di rivelazione verso un perenne altrove, verso il secondo mondo. Ci troviamo davanti a qualcosa che si produce davanti ai nostri occhi, ma alterato e proiettato in un’altra dimensione. Ciò che vediamo fa parte di un’altra scena, o meglio, è fuori dalla scena e per questo ogni sua manifestazione non rivela mai una presenza. In questo senso possiamo parlare di segno o simbolo, delle sue due facce, di significante e significato. Soltanto attraverso la passione effimera dei segni e la loro continua messa in opera espressiva è possibile ricavare il senso simbolico dell’esistenza, la sua verità e il suo unico scopo visibile. «Il simbolo è un oggetto tagliato in due»[10], scrive Edmond Ortigues. Un simbolo dunque che separa, divide, ma in fine unisce.

«Il gesto del braccio del polso della mano produce il simbolo, riconduce l’essenza istantanea della vita»[11].

Se il gesto del braccio del polso può produrre il simbolo, si può dedurre che il corpo stesso è simbolo, è parola espressa in gesto, «è l’espressione che dà la giuntura tra ogni interno ed esterno, tra il creante e il creato»[12]. Mussio, attraverso se stesso, collega ciò che è al di fuori di lui con ciò che è dentro, proiettando nelle sue opere, o nel secondo mondo, tutta la sua energia: dentro le sagome, nel solco delle incisioni, dentro un punto o un buco, dentro uno spazio vuoto, dentro il nero o il bianco, dentro un angolo, dentro una traccia o tracciato, dentro le bestie, dentro la freccia, dentro il numero, dentro la punta, dentro il sentiero che conduce o non conduce a un luogo, dentro la pietra, dentro il sole o la luna, dentro una porta, dentro una scala che porta verso il basso o verso l’alto. Anche nei segni, nei sottilissimi segni come pensieri, nelle vibrazioni, nelle crepe, nella paura, nella tragedia, è presente il simbolo. Addirittura, le sue parole ne sono gravide.

i guaritori

i maestri

il suicidio

il corpo del mostro

la pestilenza e la sterilità

le impiccagioni

la distruzione destinata

la malattia inadeguata

l’accettazione dell’enigma

il simbolo decisivo

la precisione dell’incerto

l’oscurità manifesta

la destrezza arcaica

l’esperienza e l’abilità

il piccolo iniziato dell’ignoto

le identiche origini

l’evanescenza fioca

oscura e avara

il simbolo che non si manifesta[13]

 

Un simbolo che è già nel polso dell’uomo, un simbolo che agisce eliminando la distanza tra morte e vita. Ogni numero, immagine, segno o traccia, si inscrivono sul luogo per darci forse la certezza del luogo, ma non assumono altro che il valore del successivo e del precedente insieme, facendosi punto unico. Andare oltre il tracciato dell’opera è forse abbandonarsi alla propria angoscia esistenziale. Si assiste dunque, nelle opere di Mussio, a un rituale che sfugge completamente a ogni comprensione, e ciò che ne deriva è un’ambiguità, una trasparenza, un forse qui o là. «Il simbolo non funziona su oggetti ma su immagini»[14], dunque si parla di esperienza simbolica quando si ha un passaggio dall’oggetto all’immagine, quando smettiamo di considerare le realtà esterne o le realtà interne come oggetti e cominciamo a considerarle immagini. Una realtà intesa così acquisisce una forma di duttilità e dinamismo e l’immagine così rimanda ad altro, non è soltanto oggetto. Se siamo attenti a guardare un oggetto come a un’immagine, esso sicuramente ci invita a guardarlo, ci invita ad andare al di là. È in questa prospettiva che si devono guardare le opere di Mussio: «il simbolo allora è, tutto intero nei suoi elementi, pregnante fisicità»[15].

Davanti alle opere di Mussio, per un attimo ci troviamo nel secondo mondo o luogo interdetto, dove le immagini dimorano e con attenzione possiamo percepire il suo vissuto, possiamo a volte riuscire a vedere ciò che l’artista non vede: la sua verità. Porte, frecce, numeri, colonne, figure geometriche, punti e virgole, luna, aquilone, balena, ruote meccaniche, scale, torri, mostri strani, castelli, croci, case, finestre, bare, coltelli, note musicali, colori, serpenti, strade, pesci, parole, corpi. Ogni ipotesi, cancellatura, immagine, traccia, segno, spazio cancellato, itinerario o documento, sono impregnati di energia e di forza.

 

Magdalo Mussio, particolare da Il corpo certo o il luogo di una perdita, Altro / La Nuovo Foglio 1977

Mussio ci propone immagini viventi, immagini che sembrano risvegliarci la coscienza. Se guardassimo con attenzione scopriremmo che la porta, freccia, numero, luna, aquilone o casa che si presenta nelle sue opere, abita anche in noi, e non soltanto nel luogo bianco. Nell’immagine è dunque insito l’invito a guardare; sia ciò che ci si presenta davanti agli occhi, sia ciò che è in noi, cioè sempre qualcosa d’altro.

Davanti alle immagini che l’artista ci presenta e che vuol comunicare c’è sempre qualcosa che va al di là del rappresentato. «Si potrebbe dire che consegnandosi validamente alla logica delle immagini, agendo con esse, l’uomo scopre in modo empirico e non ancora riflessivo, di essere radicato in una forza creatrice»[16]. L’uomo, dunque, guardando l’immagine percepisce che è ciò che guarda, si consegna a sé stesso, fa esperienza di ciò che egli è. Guardare inoltre significa pensare, pensarsi.

«Dov’è caduta una voce, dove il fiato è mancato, sta, in alto, un piccolo segno. Su nient’altro che quello, esitante, si avventura il pensiero»[17].

Ma dietro a ogni immagine, a ogni pensiero, l’uomo, oltre alla consapevolezza che può acquisire di sé e di ciò che vede trova sempre un enigma che può essere intuito soltanto al di là della soluzione. Si ha sempre paura della verità, o meglio della rappresentazione che noi ne facciamo. «È questa arcaica paura contenuta in ogni rappresentazione che, nell’enigma, trova la sua espressione e il suo antidoto»[18]. La verità comincia soltanto un momento più in là da dove cominciamo a riconoscerla, e per questo è importante che la rappresentazione si fermi un istante prima della verità. Se venissimo a sapere ciò che veramente Mussio voleva raccontare con ogni suo disegno, parola, numero, se si potesse intravedere ciò che sta al di sotto delle cancellature, ciò che sta dietro al colore, se potessimo vedere ciò che sta nel foglio bianco, se sapessimo il significato dell’inchiostro o di un semplice segno sarebbe uno scandalo o soltanto un’illusione.

Sarebbe tutto capito, sarebbe la morte dell’interrogazione. Al linguaggio non rimane che la mancata rappresentazione del linguaggio, il suo scopo ultimo è l’incomprensione. «Se, invece, pazientemente dimori nella vacuità della rappresentazione, se non te ne fai alcuna rappresentazione, questo, o beato, è il cammino che diciamo di mezzo»[19]. Lasciare che il vuoto sia vuoto, non attribuire l’essere o il non essere. Saper restare sulla soglia è il compito più difficile dell’essere umano. E dunque nelle immagini di Mussio possiamo soltanto dire ciò che ci si presenta, ipotizzare ciò che potrebbe essere, non ciò che è.

«Quello che rimane è anche di avere paura. Io credo che nessuno di noi (costa, kuperman, de paoli, ecc.) sappia come fare: e questo è lo scopo (se c’è) dell’operazione. Ma se ci troviamo a non sapere questo è un modo che mi interessa»[20].

Nei lavori di Mussio ciò che ci attrae è il mistero, l’incompiuto, il nascosto, è proprio quello che non riusciamo ad arrivare a capire, e questo ci costringe a interrogare, interrogarci. Il secondo mondo è per pochi, e soltanto i più attenti possono riscontrare di tutto.

 

Ci si trova davanti ai suoi lavori come appena svegliati, dove il ricordo del sogno è appena accennato dal pensiero, dove non si capisce bene dove si è stati, o dove ancora si è, infatti impauriti percepiamo «la sgradevole consapevolezza di svegliarsi ancora in un sogno che non tendeva ad esaurirsi»[21]. Ci troviamo spaesati, non sappiamo bene da dove incominciare a ricordare per capire, a ricordare per essere, e dunque vaghiamo e ci facciamo trasportare da frecce e numeri. Frecce e numeri cioè tempo e spazio, forse gli unici simboli che potranno condurci al tutto o al niente.

Mussio stesso scrive riguardo i numeri: «l’occupazione dello spazio numerando non significa altro, o non vuole essere altro, che il trasferimento in numerazione progressiva dei momenti necessari (come tempo) impiegati nella realizzazione. Tempo che corrisponde all’occupazione e misurazione della stessa superficie. Nessuna dicotomia quindi tra allusione ad una figura e allusione a ciò che è senza figura come fatto letterario. Quale sia il codice risultante è nell’impronta stessa lasciata dagli inchiostri o dagli altri materiali; la traccia di un’azione che nel tempo e nella prassi si svolge nell’inscindibile contemporaneità mentale di lettura e percezione estetica. Parlerei allora di evento, accadimento, di verifica memorizzante dell’esistenza o, al limite, parafrasando, di action poeting»[22].

 

Magdalo Mussio, particolare da In pratica, Lerici 1968

Mussio è riuscito a costruirsi il suo tempo e il suo spazio. Ci troviamo dunque veramente in un altrove, nel secondo mondo o luogo interdetto, dove tempo e spazio diventano autonomi. Lo spazio percorso dai suoi numeri sembrerebbe rappresentare il tempo impiegato della trascrizione di essi. Ma non soltanto questo, i numeri contano loro stessi, contano i colori, le cose, gli animali, gli oggetti, il luogo, lo spazio bianco della pagina.

Possiamo trovare file di numeri che seguono un percorso forse già segnato, numeri che sembrano voler scappare via o farci strada da seguire, numeri sparsi o dentro a un cappello, numeri giganti che si impongono alla pagina e numeri invisibili a scomparire dietro di essa, numeri sopra una scala a segnare forse l’arrivo o l’inizio, numeri incastrati in figure geometriche, numeri che diventano parole, segnali, immagini, simboli da seguire. «La locomotiva l’8, i sassi il 3, le armi il 5, gli scudi il 123»[23].

E poi le frecce, altro simbolo fondamentale in Mussio. Frecce che vanno di qua e di là, di su e di giù. Frecce gigantesche o quasi invisibili, frecce che consigliano dove guardare e che cosa guardare, che indicano sé stesse o un colore, nome o immagine a volte intraducibile o che si nascondono, frecce che rivelano qualcosa o nulla, che vanno verso il bordo del luogo, che scappano, o che si dirigono al suo centro per affermarsi. Frecce che corrono, che si rincorrono, che giocano al girotondo.

Frecce che diventano pesci, uccelli, colonne, strade, case, alberi, cerchi, sole. Frecce che prima di tutto sono: «semplice registrazione di un modo dell’Es. (Se infatti i gesti indicativi sono il primo stadio del linguaggio umano, il gesto che si compie nel tracciare l’appunto/ freccia non si potrebbe considerare una proiezione grafica di tale processo primario?)»[24].

Per chi come Mussio voglia rappresentare simbolicamente il divenire, i gradini e le scale sembrano rappresentare la prima esperienza dell’umanità. «L’uomo che non procede più a quattro zampe ma in posizione eretta, e perciò ha bisogno di un ausilio per vincere la forza di gravità quando guarda in alto, ha inventato con la scala lo strumento per nobilitare questa sua inferiorità nei confronti dell’animale»[25]. «Salire, è l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo: è l’atto simbolico per eccellenza, che conferisce all’uomo deambulante la nobiltà del capo elevato, rivolto verso l’alto»[26].

Dunque, come per le frecce e per i numeri, Mussio sembrerebbe utilizzare il simbolo della scala per condurre qualcosa da qualche parte. Simbolo che trasferisce, trasporta. Possiamo trovare scale che scendono e che salgono, scale che si uniscono a diventare un tetto di un rettangolo, scale diagonali, scale che escono dal luogo e ricompaiono nello stesso luogo, scale che interrompono linee e trafiggono figure geometriche, scale finissime che sembrano crollare e scale spessissime a tenere parole. Scale che, interrotte, formano triangoli, scale come montagne da percorrere con lo sguardo, scale a diventare serpenti che strisciano nel foglio.

E poi il serpente, altro animale/simbolo molto frequente nei suoi lavori. Il serpente considerato da sempre l’animale più terrificante. Lo ritroviamo nelle civiltà indiane del Nuovo Messico e dell’Arizona, ci dice Warburg, spiegando che già allora il serpente «come in tutti i riti pagani – è venerato come il più vitale dei simboli di culto»[27].

Cleo Jurino, raffigurazione cosmologica. Santa Fe, 1896, con appunti di Warburg.

 

Guardando questa immagine non può non venirci in mente, parte dell’operato di Mussio. Serpente con lingua a punta di freccia, scale a salire, numeri sparsi. «La casa-universo con il tetto a forma di scala, la lingua a punta di serpente, così come lo stesso serpente, sono elementi costitutivi del linguaggio simbolico figurato degli indiani. Senza dubbio nella scala è racchiuso – come qui posso solo accennare – un simbolo panamericano e forse universale del cosmo»[28]. Il serpente per gli indiani diventava il mezzo per scatenare i temporali: portatori di salvezza in certi periodi dell’anno. Attraverso danze, cerimonie e riti particolari, i serpenti diventavano dunque «mediatori e suscitatori di pioggia»[29].

Forse Mussio non pensava al serpente come divinità da idolatrare per far piovere nei periodi di siccità. Ci sono infatti altri infiniti significati e altrettante rappresentazioni del serpente, basti pensare al «serpente sull’albero del paradiso – causa prima del male e del peccato – regge infatti il corso degli eventi nell’universo della Bibbia»[30], o nella teologia medievale dove «il serpente riesce a riproporsi come simbolo del destino»[31], e ancora nelle sculture dell’antichità, un esempio ne è Laocoonte: espressione della massima sofferenza umana; dove troviamo il «serpente come potere ctonio distruttore»[32], e in ultimo nella visione pessimistica del mondo in contrapposizione col serpente demone, sempre nell’antichità troviamo Asclepio, «dio della salute dell’antichità, ha come simbolo il serpente attorcigliato al bastone»[33]. «Attorcigliato al suo bastone è lui, ovvero l’anima dipartita del defunto, la quale continua a vivere e riappare in sembianza di serpente»[34].

Balena, altro simbolo nelle opere di Mussio. Potremmo presumere che la balena disegnata da Mussio abbia un nome: Moby-Dick. Come nell’opera di Melville, la balena di Mussio ci porta a intuire, a domandarci cosa si potrebbe nascondere sotto il mostro bianco e dove potrebbe portarci.

Come le frecce, i numeri, le scale, i serpenti, così la balena «sfiorasse quest’allusione al labirinto e all’uscita e immersione in un oceano di silenzi»[35]. Dunque, possiamo riscontrare una ricerca continua di significato, di verità, di un principio primo, una ricerca ossessiva di speranza sia in tutto l’operato di Mussio, sia in Ahab personaggio fondamentale del Moby-Dick in caccia continua in tutti i mari del mondo per la balena bianca, causa della perdita della sua gamba. Se siamo attenti, al di sotto del Moby-Dick romanzo, Moby-Dick parola o Moby-Dick immagine, come in tutto l’operato di Mussio emerge «una misteriosa allegoria dell’eterna lotta tra bene e male, tra la salvezza e la condanna, in cui l’essere umano vive sospeso lungo tutta la sua esistenza»[36].

Dentro l’angoscia generata dall’impossibile impresa o dal ricercare una verità ultima, tutto si fa enigma, simbolo, e all’uomo non rimane che esserne ancora più attratto. Contro il mistero della balena, e contro la verità nascosta nell’ opera di Mussio non si può nulla.

«Una caccia. L’ultima grande caccia.

A cosa?

A Moby Dick, l’enorme capodoglio. Vecchio canuto, mostruoso; nuota solo ed è smisurato nella sua rabbia dopo essere stato attaccato così tante volte. Bianco come la neve.

È senza dubbio un simbolo.

Di cosa?»[37]

 

Cosa potrebbe essere allora la balena bianca? Cosa si nasconde dietro? Essere immenso che vaga nell’oscurità dell’oceano, che è la vita. Grande contenitore. Essa forse è l’interrogazione, il presagio, la verità, la coscienza. «Vogliamo braccarla. Assoggettarla alla nostra volontà»[38]. È una maniacale caccia a sé stesso quella che Ahab intraprende con Moby-Dick, e più non riusciva a scovarla più esso si addentrava nel mistero della vita. Più ricercava, più non trovava altro che risposte terrificanti. «Per me quel muro è la balena bianca: me l’hanno addossato contro. A volte penso che al di là non ci sia nulla. Ma basta e avanza. M’aggrava; mi soverchia: in lei scorgo una forza oltraggiosa, retta da imperscrutabile malizia. È quell’ imperscrutabilità che più di tutto ho in odio: e la balena bianca sia il mandante o la balena bianca il mandatario, su di lei io sfogherò quell’odio»[39]. E allora la caccia diventa il percorso della vita dell’uomo verso la morte. Si va sempre verso qualcosa che non si può capire, che non si può interpretare ma che in fin dei conti ci rappresenta. Si va sempre verso l’indicibile, l’invisibile. Soltanto nel secondo mondo o luogo interdetto forse, possiamo dire ciò che non si può dire, raggiungere l’introvabile, affidarci all’inaffidabile. Quando non si cerca niente si trova sempre qualcosa o tutto. Quando si guarda più in là di quello che si vede, si riesce meglio a vedere.

 

Per arrivare a sapere tutto

non voler sapere nulla in nulla.

Per arrivare a godere tutto

non voler godere nulla in nulla.

Per arrivare a possedere tutto

non voler possedere nulla in nulla.

Per arrivare a essere tutto

non voler essere nulla in nulla[40].

Ahab cercando il nulla, desiderando il sapere, l’essere, si è trovato dentro la verità, dentro il tutto. Senza rendersi conto, andò verso qualcosa che non poteva più esser detto, espresso, raccontato, ma soltanto raggiunto.

«Oh, dopo una vita solitaria, solitaria anche la morte! Oh, ora sento che la mia suprema grandezza sta nel mio supremo dolore. Oh, oh! da tutti i vostri confini più remoti riversatevi ora qui, prodi marosi dell’intera mia esistenza trascorsa: coroni la mia morte alto un frangente! Ti vengo incontro rollando, balena che tutto distruggi e non riporti vittoria; fino all’ultimo io lotterò con te; dal cuore dell’inferno ti pugnalo; in nome dell’odio ti sputo in faccia l’ultimo respiro. Affondino tutte le bare e tutti i carri funebri in una pozza comune! e non potendo aver né l’una né l’altro, strascinami, anzi straziami mentre ancora ti do la caccia, pur legato a te, balena maledetta! Così, getto la lancia!»[41].

Una volta scovata la verità, addentratosi in essa quasi ad afferrarla, non gli si presentò che la morte. Solo lui, Ahab una volta caduto nel mistero dell’oceano, può sapere se esiste o meno un secondo mondo o luogo interdetto.

È nella stessa prospettiva che ci si dovrebbe porre davanti alle opere di Mussio. Non pretendere nulla, né cercare, né volerne godere, né essere, solo in quel caso forse si può arrivare a ciò che Mussio stesso voleva farci intendere o non farlo affatto. Solo in quel caso si potrebbe arrivare alla verità. Porsi morti davanti i suoi lavori è quel che ci rimane da fare.

Solo chi, è almeno una volta caduto nel mistero del luogo, può sapere se esiste o meno un secondo mondo o luogo interdetto.

 

NOTE

[1] C. Campo, La tigre assenza, a cura di M. Pieracci Harwell, ed. Adelphi, Milano 2017, p. 110.

[2] Ivi, p. 45.

[3] Florenskij, Il valore magico cit., p. 28.

[4] Cfr. M. Eliade, I. P. Couliano, (a cura di), Dizionario dei simboli, ed. Jaca Book, Milano 2017.

[5] Ibid.

[6] A. Warburg, Il rituale del serpente, ed. Adelphi, Milano 1998, p 44.

[7] E. Villa, L’arte primordiale dell’uomo primitivo, a cura di A. Tagliaferri, ed. Abscondita, Milano 2005, p. 30.

[8] Cfr. A. Signorini, Magdalo Mussio un cartografo amanuense della differenza, Pollenza- Macerata 1991.

[9] Villa, L’arte cit., p. 41.

[10] Cfr. Eliade, Couliano, Dizionario cit..

[11] Villa, L’arte cit., p. 59.

[12] R. Giorgi, alla ricerca delle nascite (lingua e mania), a cura di M. Mussio, ed. La Nuova Foglio, Pollenza- Macerata 1978, p. 48.

[13] Cfr. M. Mussio, Elogio alle desolate rassegnazioni / Le Parole Gelate, a cura di F. Castro, L. Martinis, Roma/Venezia 1980.

[14] Cfr. Eliade, Couliano, Dizionario cit..

[15] Villa, L’arte cit., p. 63.

[16] Cfr. Eliade, Couliano, Dizionario cit..

[17] G. Agamben, Idea della prosa, ed. Quodlibet, Macerata 2013, p. 94.

[18] Ivi, p. 100.

[19] Ivi, p. 129.

[20] Cfr. N. Cagnone, in M. Mussio, Scritture, ed. Altro/ La Nuova Foglio Editrice, Pollenza-Macerata 1977.

[21] Cfr. M. Mussio, Il corpo certo o il luogo di una perdita, ed. Altro/ La Nuova Foglio Editrice, Pollenza-Macerata 1975.

[22] Cfr. Mussio, Scritture cit..

[23] Cfr. G. Sandri, Come la storia di Arone, in Mussio, Scritture cit..

[24] Cfr. G. Sandri, Appunti su un cronista, in “Marcatrè” 46/47, ed. Lerici, Milano 1968/69.

[25] Warburg, Il rituale, p. 26.

[26] Ibid.

[27] Ivi, p. 19.

[28] Ivi, p. 20.

[29] Ivi, p. 48.

[30] Ivi, p. 57.

[31] Ivi, p. 62.

[32] Ivi, p.51.

[33] Ibid.

[34] Ivi, p.54.

[35] Cfr. M. Mussio, Magdalo Mussio ad Anna Caterina Toni, in AA.VV., Charta, Macerata, 1977, p. 22.

[36] Cfr. M. V. Llosa, Il mio romanzo preferito, in H. Melville Moby-Dick, Giulio Einaudi editore, Torino 2016.

[37] D. H. Lawrence, Moby-Dick di Herman Melville, in Melville, Moby-Dick cit..

[38] Ibid.

[39] Melville, Moby-Dick, cit., p. 206.

[40] Campo, La tigre, cit., p. 184.

[41] Melville, Moby-Dyck, cit., p. 686.

 

L’Anno del Fuoco Segreto – La primavera

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.

di Carla Fronteddu

Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?

Karin Boye

Quel giorno un grosso cavolfiore bolliva in pentola, rilasciando una terribile puzza di zolfo e impregnando la stanza di umidità, ricordi? La vecchia c’era abituata ma il tuo povero nasino si sarà arricciato infastidito. Riuscì con la sua sensibilità ferita, a distrarti dalla scena? Da quelle manacce deformate dall’artrite che stringevano il canale blu dell’utero, facendo ricadere le ovaie ai lati come tulipani appassiti? Capace che tu neppure sapessi che cosa fosse un utero.
Tua madre era una furia a quei tempi, andava pur fatto qualcosa, ma le tue sorelle non si sarebbero prestate manco morte. Piuttosto l’avrebbero fatta impazzire. La tua docilità, invece, rende sempre tutto una passeggiata. Fai quasi passare la voglia.
Le povere labbra raggrinzite di tua nonna non hanno smesso di fremere neppure per un attimo. Era contraria, eppure, si era presa la croce di accompagnarti, mentre quell’altra se ne stava a strillare a casa.
Quando vi siete sedute a tavola, quella sera, nessuna ha parlato dell’accaduto e non lo ha fatto neppure in seguito.
Quanto le piaceva curarti e lisciarti adesso! I piaceri della maternità ritrovati d’un colpo. La mia tenera piantina, ti chiamava. E diceva bene perché ti tirava su proprio come si fa giardinaggio; una stecchetta qui, una potatina lì. Il pensiero di quel che ti aveva imposto le disturbava per caso il sonno? Se glielo avessi chiesto avrebbe sgranato gli occhi; neppure se lo ricordava. In compenso, però, ringraziava tutti i giorni il cielo per il dono di una bambina tanto buona e devota come te.
Tutte brave a mettersi fette di prosciutto sugli occhi e a farcele marcire sopra. Si sente ancora la puzza. Ma, in fondo, in fondo, tu lo sapevi che non era finita lì e che nella tua pancia c’era un buchino che cresceva e sgranocchiava a destra e sinistra, facendosi un po’ più largo a ogni compleanno. Non avrai mica creduto che le mestruazioni bastassero a barattare la tua verità con un brutto sogno, piccola ingenua? Dovevano solo renderti un perfetto inganno per gli uomini là fuori.
E quanto ci hai messo poco ad accalappiarne uno. Ci sono ragazze che finiscono per beccarsi una bronchite in attesa che qualcuno si accorga di loro. Tu non ti sei neppure dovuta affacciare sul giardino di casa che, dlin dlon, eccoti servito lo sposo; il giovane assistente del dottor D., che quel giorno non poteva far visita alla vecchia matriarca. Arrivato giusto in tempo per il tè e per interrompere quell’insopportabile cicaleccio di tua madre. Lei l’ha capito subito che si trattava dell’uomo giusto, gliel’ha letto nei polsini lindi e inamidati. Oltretutto, i medici parcheggiano dappertutto.
Ma cosa ti vuoi ricordare tu. É capace che di quella giornata ti sia rimasta in mente solo la fatica che hai fatto per resistere alla tentazione di grattare i pizzichi di zanzara. Del resto a te non salta fuori un sentimento neanche se ti prendono a pugni. Non hai avuto dubbi però quando si è trattato di farti mettere l’anello al dito; ti sei fidata subito di quel che aveva detto mammina, che saresti stata tanto, ma tanto felice con quell’ometto lì. Vero? Eccola, gioca con la tua nuova casetta per le bambole. E che fidanzamento corto! Avrai dato soddisfazione a qualche pettegola di paese. C’è da scommetterci che quella impaziente non fossi tu. Tua mamma, in compenso, non vedeva l’ora di liberarsi di te, e quell’altro, quell’anima vecchia del tuo futuro marito, era impaziente di atteggiarsi da uomo di famiglia dai tempi delle elementari.

Non ero preparata quando sulla soglia della chiesa fui colpita dalla prima raffica di chicchi di riso. Non ho mai assistito a una lapidazione, ma è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Sentivo alla mia sinistra la sua risata rumorosa, una risata che nasceva dal petto e usciva nel mondo senza cercare complici. Mi spingeva, con la mano sulla vita, a seguirlo sulla piazza. Stavo scendendo un gradino, con il braccio ancora sollevato per proteggermi da quella sassaiola bianca, quando notai, tra gli invitati, una vecchia. Al posto degli abiti da cerimonia indossava una camicia di tela grigio-topo infilata in una lunga gonna a quadri. Mi incuriosì e indugiai su di lei con lo sguardo. Fu allora che notai che stringeva nel pugno sinistro un utero bluastro da cui pendeva la coppia di ovaie dello stesso colore. Mi voltai di scatto verso mio marito, ma quando feci per indicare nella direzione della vecchia, era già sparita. Al suo posto una delle mie cugine di terzo grado agitava nervosamente un ventaglio di piume intorno al viso, cercando inutilmente di impedire al trucco di liquefarsi sotto il sole. Il prete, considerato lo scarso preavviso, aveva offerto come unica disponibilità per le nozze una domenica di inizio agosto, a mezzogiorno.
Quella notte, dopo aver eseguito il copione per cui ero stata preparata da mia madre, sognai di trovarmi sull’orlo di una grande macchia scura che non riuscivo a distinguere. Percepivo l’umidità del terreno attraverso i piedi nudi. La sentivo entrare nelle ossa e risalire su per lo scheletro, rabbrividendo. Non osavo fare un passo avanti per la paura di trovarmi sull’orlo di un immenso cratere, eppure dovevo combattere contro l’impulso nelle gambe che mi spingeva a procedere in avanti. Mi svegliai con il cuore che martellava nella cassa toracica. Mio marito dormiva supino con le mani incrociate sul petto. Sembrava già pronto per il proprio funerale.
Non mi sentivo ancora a mio agio per andare in cucina a notte fonda a preparare una camomilla, così provai a calmarmi facendo respiri profondi e ripetendomi che si trattava di un incubo di nessuna importanza causato dall’ansia per le nozze.
Mi sbagliavo. Da quel momento, ogni volta che mi addormentavo tornavo contro la mia volontà su quell’orlo spaventoso e ogni volta era più faticoso strapparmi da lì e spalancare gli occhi. Provai a farmi bastare dei brevi pisolini per non allontanarmi troppo dallo stato di veglia, ma a volte era impossibile resistere alla tentazione di abbandonare la testa sul cuscino. Salvo poi ritrovarmi dove non avrei voluto.

Perché non allunghi quel piedino?

Tolto questo inconveniente la mia nuova vita non era poi così diversa dalla precedente. Certo, adesso passavo lunghe giornate in solitudine, mentre mio marito era a lavoro. Nell’attesa però avevo tante nuove responsabilità con cui tenermi occupata, come la spesa, l’arredamento, lo studio dei ricettari di mia suocera. Con mio marito le cose erano andate proprio come aveva previsto la mamma. Nei suoi occhi grigi potevo leggere senza sforzo di cosa avesse bisogno; distrarsi, lamentarsi, ricever prova della sua virilità. Potevo leggerci anche l’aspettativa di diventare padre ma, ogni mese, tornavo a sanguinare.

E ti stupivi pure. Uno splendido inganno, ti avevo avvisata. Alla fine, con questo fagotto da marchiare con il proprio nome che non arrivava, il nostro dottore ha cominciato a fare due conti. Lo sentivi che c’era qualcosa di nuovo nel modo in cui ti soppesava con lo sguardo? E soppesa, soppesa è arrivato alla conclusione che senza prole e vuota e passiva al di sopra delle sue aspettative (e ce ne voleva!) non ti eri rivelata un grande affare. Rispedita al mittente. Che roba signora mia. Non si capisce più come vestirsi di questi tempi, non trova? A casa ti aspettava (si fa per dire) soltanto la nonna ammutolita, ché tua mamma, prevedibilmente, se l’era data a gambe. Le avevi mai sentito dire che sognava di rifugiarsi in un convento sui Pirenei lontano da tutti, te inclusa? Preparava il piano da quando era ancora nubile, poi tuo padre aveva avuto il cattivo gusto di metterla incinta tre volte prima di tirare finalmente le cuoia. Ad ogni modo sei stata fortunata, perché aveva pensato alla servitù. Per occuparsi di tua nonna, aveva ingaggiato una straniera incontrata per strada la mattina in cui era uscita per donare alla Casa della Solidarietà abiti e gioielli (o i suoi travestimenti, come aveva preso a chiamarli). Vedendola aveva notato che camminava a piedi nudi e con quel suo fare pomposo da sciura le aveva chiesto «La offendo se le offro un paio di scarpe di cui mi sto liberando?» Al ritorno dalle sue commissioni l’aveva ritrovata seduta sul bordo di una fontana a contemplare i pesci rossi e osservandola più attentamente le si era accesa una lampadina. Quanti matti conosci che farebbero entrare in casa propria una sconosciuta di cui non capiscono la lingua? Beh, tua madre dopo trentasei ore di supervisione (di cui la metà trascorse a dormire e a leggere guide per viaggiatrici solitarie), aveva concluso che sarebbe potuta partire tranquilla. E puoi scommetterci, che dopo essersi messa l’anima in pace per aver sistemato così bene madre e figlia, si sia dimenticata di entrambe. Certo, tu hai rischiato di romperle le uova nel paniere proprio per un pelo.

Quando feci ritorno a casa la trovai molto cambiata. L’edera era entrata dalle finestre e continuava a arrampicarsi lungo le pareti delle stanze, attorcigliandosi intorno ai lampadari e coprendo i soggetti dei quadri. Una gallina beccava briciole e sporcizia dal pavimento della cucina e i ragni avevano nascosto gli stucchi dei soffitti con i loro fragili tendaggi grigi. Trovai la nonna seduta in terrazza accanto alla straniera. Entrambe contemplavano un gatto rosso che si leccava tra le zampe. Guardandosi intorno mio marito, che si era offerto di accompagnarmi, aveva detto «Se hai bisogno di qualcosa, soldi o un giardiniere, chiamami. Vedrò cosa posso fare.» Aveva i lineamenti contratti in un’espressione che non avevo mai visto prima. Pensai che si sentisse in colpa, ma mi sbagliavo, perché dopo aver depositato le valigie in salotto ha girato i tacchi e non si è più fatto vedere.

Auuuuf Wiedersheeeeen!

Non fu facile ambientarsi. Non che mi mancasse la sua compagnia, ma mi sentivo terribilmente disorientata. La nonna era uscita dal mutismo in cui si era chiusa negli ultimi anni, tuttavia le poche parole che le uscivano di bocca suonavano sibilline. La straniera elargiva gran sorrisi, ma parlava ancor più raramente. Io mi sforzavo di ricambiare silenzi e sorrisi e intanto mi trascinavo nelle stanze in cui ero cresciuta sperando di trovare, nascosto tra le fotografie e i vecchi abiti tarlati, un indizio su chi ero stata o chi avrei potuto essere d’ora in avanti.

Che spettacolo avvilente eri! L’avrà pensato anche la straniera, quella mattina, quando ha provato a distrarti montandoti in testa una buffa acconciatura, come si fa con le bambine. Mentre su quello sgabello ti ingobbivi senza decenza sotto il peso della tua autocommiserazione, quella stringeva la lingua tra i denti e affondava con grinta il pettine nei tuoi capelli e cotonava, attorcigliava e scioglieva. Quando poi un’invisibile Arcimboldo le sussurrava alle spalle, tirava su una spiga di grano e un papavero da un vaso lì accanto e li appuntava con una forcina. Gliel’hai fatto almeno un sorrisetto di gratitudine quando ha iniziato a battere le mani soddisfatta per l’impresa appena compiuta?

Gli eventi cominciarono a precipitare a partire da quel pomeriggio. La straniera mi aveva piantata a sedere sullo sgabello girevole del pianoforte senza che potessi protestare e si era messa a giocare con i miei capelli. L’avevo lasciata fare; la lotta contro il sonno mi aveva allenata all’apatia. Quando le sue mani smisero finalmente di tirare ciocche e ferirmi la cute con delle vecchie forcine arrugginite, mi comunicò con un gesto di non alzarmi e corse in bagno a staccare lo specchio dalla parete. Avrei dovuto aiutarla. Tornando verso di me, era inciampata su una piega del tappeto e quello si era frantumato. Quando corse di sotto a prendere una scopa, e mi ritrovai sola a osservare le schegge ai miei piedi, si affacciò il ricordo della superficie del lago ghiacciato che avevo visto da bambina, e qualcosa mi spinse ad alzarmi e a camminarci sopra.

Ah, non eri completamente sorda allora.

Osservai la mia immagine frammentata e mi accovacciai per dare un’occhiata allo stato dei miei capelli. Mentre cercavo di scorgere il profilo destro e il profilo sinistro, un altro impulso mi fece abbassare lo sguardo e guardare il riflesso sul frammento di specchio tra le mie gambe. Vidi la macchia nera che mi capitava di sognare e, all’improvviso, avvertii lo stesso freddo nelle ossa che da sempre accompagnava quell’immagine. Una pennellata rossa si affacciò sulla superficie scura e subito scomparve, come il dorso di un pesce rosso. Con la coda dell’occhio notai la straniera che mi osservava appoggiata allo stipite. Mi precipitai sotto le lenzuola e lasciai che portasse via quel che restava dello specchio. Prima di uscire la straniera posò sul comodino il frammento più grande, e io mi girai sul fianco opposto. Quella visione tra le gambe mi aveva turbata. Mi addormentai e in sogno tornai al confine di quella vastità nera. Questa volta resistetti all’impulso di scappare verso lo stato di veglia. Restai sul bordo aspettando una traccia del guizzo colorato che avevo visto nello specchio e osservando la superficie ebbi l’impressione che non si trattasse del cratere di un buco nero come avevo sempre creduto. Sembrava piuttosto un lago.

É un peccato che il buco abbia avuto origine nella pancia e non nel cervello. Negli anni ti saresti risparmiata un sacco di ruminio mentale di nessuna utilità. La mattina dopo eri già pronta a dare la colpa a tua nonna e alla straniera. Erano loro, con la loro presenza, le responsabili della tua irrequietezza. Era certamente la loro presenza a causare le immagini che si producevano nella tua testa e che ti spaventavano tanto. Come no. Mammina? Dov’è la mammina? Il piagnucolio tremolante, pronto a tuffarsi dal bordo del labbro inferiore. Cosa avrebbe detto la tua indispensabile genitrice? L’avresti tanto voluto sapere, vero?

Mi resi conto che da quando era tornata a casa non avevo più messo piede in un centro estetico. Mia mamma non avrebbe creduto ai suoi occhi; non faceva che ripetermi che ero la ragazza più curata che si fosse mai vista. Decisi di provvedere subito, per scrollarmi di dosso la sensazione di paralisi che la casa e le mie due strane coinquiline mi ispiravano.
Tra la ceretta e la permanente, mi capitò di trovare, all’interno di una rivista che mi era stata offerta, il volantino di una tale che vantava di saper trasformare zucche in carrozze e offriva il suo aiuto per realizzare i desideri altrui. Quel messaggio mi dette da pensare. Cosa desideravo? Non mi ero mai posta la domanda e non riuscii a rispondermi. Sentii che avrei potuto far sanguinare le tempie senza per questo tirar fuori un’intuizione su cosa potessi volere. Quanto ci vuole poco a rovinarsi una giornata. Rificcai con stizza il volantino nella rivista. ma subito dopo mi pentii e ricopiai il numero di telefono nella mia agendina vuota.

«Non vorrei che mi scambiasse per una maga. Quella della zucca era una metafora. Mi definirei piuttosto una levatrice.» Ma dai, e noi che pensavamo che tu fossi la fatina di Cenerentola! Se avessi avuto un briciolo di cervello…Ma in quel caso non ci saresti neppure andata da quella svalvolata. Una con due occhi a palla da competere con quelli di un gufo impagliato. A questo punto, perché non baciare i rospi quando spuntano al chiardiluna.

«Cosa vorresti dunque?»
Quella domanda mi fece immediatamente sentire scomoda sulla sedia. Esitai, giusto il tempo di ricordarmi quanto mi stava costando quella consulenza, e svuotai il sacco.
«Non lo so»
«Cominciamo male. Bisogna pur averlo uno scopo. Che so…inventare qualcosa che non esiste ancora, fare un viaggio intorno al mondo. Anche un desiderio generico come diventare ricca, ma devi darmi qualcosa da cui partire.»
Le lacrime mi punzecchiarono gli occhi, ma capii subito che non avrei trovato braccia carnose a consolarmi in quella stanza. La donna seduta di fronte a me, all’altro capo della scrivania, aveva già smesso di guardarmi per infilare un foglio azzurrino nella macchina da scrivere.
«Non facciamo tragedie adesso. Forse la mancata gravidanza e la separazione ti hanno spenta un pochino.»
Cominciò a battere velocemente entrambi gli indici sulla tastiera sillabando dalla prima all’ultima parola e prima di liquidarmi rilesse il testo a alta voce per accertarsi che avessi capito bene le istruzioni. Dal mattino seguente e ogni giorno fino al nostro incontro successivo, avrei dovuto:
Arieggiare e tenere pulito l’ambiente in cui vivevo.
Mangiare frutta e verdura tutti i giorni.
Lavarmi e vestirmi come se avessi dovuto ricevere visite.
Fare esercizio fisico mattina e sera. Ma niente passeggiate che avrebbero potuto rendermi malinconica e pensierosa; ci volevano salti con la corda, corse, esercizi che mi facessero mettere su una bella massa muscolare.
Sarebbe stato impossibile pulire l’intera casa, che ormai era diventata estensione dell’orto, ma questa osservazione la tenni per me. Cominciai dalla mia stanza e dalla cucina.

Cos’è che penzola dal lampadario, saranno mica le tue ov…?

Strappai con decisione i fiori che crescevano tra le crepe del pavimento, sfrattai a uno a uno i ragni che dondolavano dal soffitto, rispedii nelle loro gabbiette conigli e galline recalcitranti. Spazzai, lavai e lucidai con una foga sconosciuta. Quando incontravo il mio riflesso in uno specchio sentavo a riconoscermi, con le gote rosse e i capelli avvolti da una nebbiolina di sudore.
L’acqua nel secchio si scuriva rievocando la visione della macchia nera, che ormai mi perseguitava anche nelle ore di veglia. Di tutta risposta svuotavo il secchio dalla finestra.
Non c’era un momento della giornata in cui non fossi impegnata a svolgere o pianificare una delle attività della lista.

Brava bambina. Vuoi questo? Un bel quaderno con i compiti da fare e una maestrina che ti dica brava? Piantala e vieni qui!

Dopo la prima settimana, la straniera mi pregò di lasciarla cucinare per una sera. Da quando avevo parlato con la levatrice ero riuscita, con una scusa o l’altra, a non farla più avvicinare ai fornelli. Promise che li avrebbe lasciati puliti come uno specchio. Quel modo di dire riaccese la memoria di quello su cui avevo camminato alcuni giorni prima, facendomi rabbrividire, ma scacciai il pensiero e le accordai il permesso, a patto che cucinasse verdure.
Preparò una zuppa. Quando me la trovai davanti ci soffiai sopra e mentre il vapore si spostava vidi nel piatto un guizzo, come quello del pesce rosso che era apparso tra le mie gambe. Spinsi istintivamente la sedia dal tavolo e, per la prima volta, mi voltai verso la straniera con un senso di inquietudine. Attraverso il fumo caldo della zuppa, quella sorrideva come sempre.
Il giorno dopo mi concentrai con ancor più convinzione sulla mia routine. Saltai la corda così a lungo che al termine dell’esercizio ebbi qualche difficoltà a camminare in equilibrio. Quando fu il momento di lavarmi, evitai di riempire la vasca da bagno. Ero ancora turbata dalla sera prima. Pur sapendo che non avrei dormito sonni tranquilli, sentivo l’urgenza di chiudere gli occhi e rilassare i muscoli del corpo; cedetti alla tentazione e mi infilai sotto le coperte. Al mio risveglio, sul comodino accanto a me era appoggiato il frammento di specchio che la straniera aveva conservato il giorno dell’incidente. Era stata lei a metterlo nuovamente lì?

Dai una sbirciatina S.

Corsi al piano di sotto con il pezzo di vetro in mano. «Cosa vuoi da me?» le gridai appena mi si parò davanti. Quella sgranò gli occhi e si irrigidì alla vista del frammento tagliente. «Cosa volevi che ci facessi eh? Da dove le tiri fuori quelle immagini?»
La spinsi verso la porta continuando a brandire il pezzo di specchio e la cacciai di casa senza darle il tempo di raccogliere le sue cose. Mi sentivo come una bestia feroce pronta a sbranare per difendersi, una sensazione nuova che mi diede il capogiro.
Senza la straniera nei paraggi mi sembrò che la casa e i suoi oggetti si fossero liberati dell’aria sinistra che aleggiava su di loro da qualche tempo. Finalmente li vedevo per quel che erano, stanze e mobilia abbandonate a sé stesse e invase dalla vegetazione. Decisi di proseguire con le pulizie e restituire alla casa il decoro che meritava.
Trascorsi alcune giornate in gran movimento, con il giardiniere e il suo aiutante impegnati a far indietreggiare e contenere le piante, il muratore a rinforzare i muri su cui si erano aggrappate le edere e l’imbianchino a ritinteggiare interni e esterni. Mi sentivo coraggiosa e forte e coordinavo tutti con un’energia che mi rendeva orgogliosa. La nonna si era nuovamente chiusa nel suo silenzio e non servì a molto il tentativo di spiegarle che quella donna ci avrebbe reso pazze. Trovai inutile raccontarle che, nella stanza in cui dormiva, avevo trovato delle scodelle piene di acqua melmosa nascoste sotto il letto. Sulla superficie galleggiavano macabramente zanzare morte e batuffoli di polvere e capelli. Le avevo svuotate nel lavandino del bagno osservando con orrore il liquido sporco sparire nel tubo di scarico. Dopo quel ritrovamento avevo chiesto al giardiniere di bruciare un sacco pieno degli oggetti che la straniera non aveva fatto in tempo a portare via con sé, sperando che le fiamme ne cancellassero il ricordo e purificassero la casa dalle sue tracce.
Al termine dei lavori stesi sul tavolo della sala da pranzo la tovaglia di lino bianco del corredo e andai a fare spese in una rinomata gastronomia. Volevo premiarmi con qualcosa di speciale, ma non avendo delle preferenze optai semplicemente per i piatti più cari, fiduciosa che fossero quelli che chiunque avrebbe voluto mangiare. Sebbene tutto quel lavoro fisico avesse rimesso in moto la circolazione sanguigna, ancora non erano affiorati desideri o segni di personalità. Ma questo non mi rattristava più. Ero giunta alla conclusione che non fosse poi così importante avere dei desideri propri; quel che contava era funzionare, tenere lontana quella macchia nera che voleva attirarmi a sé e ingoiarmi.
Feci accomodare la nonna davanti a me; una compagnia silenziosa, ma anche l’unica su cui potessi contare in quel periodo.
«Vuoi uno spicchio di limone per le ostriche?»
In risposta allungò sul tavolo il frammento di specchio.
La guardai inorridita.
Per quella sera il salmerino deliziò i gatti di casa e la mousse alla frutta si sciolse sul tavolo a beneficio delle mosche.
Mi sentivo ingannata. Perché mi spingevano verso quella voragine? Mi volevano morta?
«Voragine…c’hai mai guardato dentro?»
Una figura femminile stava attraversando l’ingresso. Era la vecchia che avevo scorto tra la folla il giorno delle mie nozze. Questa volta aveva le mani vuote.
«Ci siamo conosciute molto prima del tuo matrimonio, non barare.»
«Non mi ricordo di te.»
«Non dire sciocchezze.»
«Tu hai qualcosa di mio.»
«Allora ti ricordi?»
Mi sembrò di riconoscere il movimento di un sorriso sulle labbra della vecchia e provai di nuovo la rabbia feroce con cui avevo cacciato la straniera di casa.
«Mi hai svuotata», gridai «mi hai fatto un buco dentro in cui rischio di cadere in continuazione!» Mentre le parole mi uscivano di bocca mi stupivo di possedere quei pensieri.
«Sei venuta tu da me.»
«Ero una bambina.»
«Certo. Una bambina orgogliosa di sacrificarsi. Ne vedo tante sai? E fate tutte la stessa fine. Basta farvi spuntare una coda e vi credete subito un gatto.»
«…»
«Alzati la gonna.»
«…»
«Alzala.»
Prima che potessi protestare sentii un liquido fresco scorrere attraverso le gambe. In men che non si dica, quel rivolo si fece abbondante e frettoloso come un ruscello, precipitandosi sul pavimento. Fui costretta a sollevare il vestito. Dalla vulva pesciolini rossi guizzavano verso la pozza d’acqua a terra. Inaspettatamente scoppiai a ridere.
La vecchia mi stava già dando le spalle, dirigendosi verso l’uscita.
«Bene. Non c’è bisogno di allagare casa, sei piena di specchi del resto.»

Immagine di Francesco D’Isa. 

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Carla Fronteddu (1984) vive e lavora a Firenze. I suoi racconti sono apparsi su L’Indiscreto, Altri Animali, Tuffi Rivista.

25 aprile 2021 Canteremo ancora… [tracce di un’altra vita]

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Milano 15 Gennaio 2020 [una vita fa] Pietra d’Inciampo in Via Broletto 39

di Orsola Puecher

ai ragazzi dell’Istituto Comprensivo Rinnovata Pizzigoni
Scuola Secondaria di I Grado “Giancarlo Puecher” di Milano

Milano 15 Gennaio 2020 [una vita fa] Pietra d’Inciampo in Via Broletto 39

Giorgio PUECHER PASSAVALLI
nato a Milano il 14/5/1887
arrestato il 15/2/1944
assassinato a Mauthausen il 7/4/1945

Giorgio Puecher Passavalli nasce a Como il 14 maggio 1887, figlio di Giulio, di origine trentina, e di Carlotta Bossi. Orfano di padre in giovane età si laurea in Giurisprudenza e diventa Notaio Combatte valorosamente nella Prima Guerra Mondiale. Lavora nello studio notarile Puecher-Cassina. Il 14 aprile 1920 sposa Anna Maria Gianelli, dalla quale ha tre figli: Giancarlo [1923], Virginio[1926] e Gianni [1930]. Uomo integro, di grandi principi etici e religiosi, profondamente avverso alla retorica del fascismo e alla sua ideologia violenta, con la moglie educa i figli ad alti valori. Il 30 luglio 1941 viene nominato Commendatore della Corona d’Italia. Resta vedovo il 31 luglio 1941. Per i bombardamenti la famiglia sfolla nella villa di Lambrugo. Nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1943 la casa di Via Broletto 39 viene completamente distrutta. Giorgio Puecher Passavalli per pura ritorsione, per quella Sippenhaft,responsabilità della stirpe”, che colpiva i famigliari di chi si opponeva al nazifascismo, viene arrestato il 12.11.1943 con il figlio Giancarlo Puecher Passavalli, poi condannato a morte e fucilato il 21.12.1943 per la sua attività partigiana, prima Medaglia d’Oro al Valor Militare della Resistenza. Giorgio Puecher Passavalli, rilasciato il 17.1.1944, è di nuovo arrestato il 15 febbraio 1944 e condotto a San Vittore, matr. 1369. Il 27.04.1944 viene rinchiuso a Fossoli, da qui il 2.6.1944 con il “Trasporto 53” è deportato Mauthausen, dove giunge il 24.6.1944, matr. 76529. Morirà di tifo l’8 aprile 1945, poco meno di un mese prima della liberazione del campo.

ritorno dopo molti anni – la campagna lombarda piana e nebbiosa – come deve essere – scorre dal finestrino del treno verso la stazione assiro milanese – dove nell’atrio non c’è piu il transatlantico nella teca di cristallo di mille appuntamenti di viaggi – le sale d’aspetto si sono mutate in bar maleodoranti di fritti stratificati – che invadono le volte altissime e severe – la metro affollata di etnie – dove nessuno si guarda – mi rovescia in piazza Cadorna – dove ci sono ago e filo di Oldenburg – fa molto freddo – passo da “casa” – che non lo è più casa – alzo gli occhi – oltre agli alberi – diventati altissimi da tutto il tempo che è passato – dove al quarto piano sullo stipite della verandina ci sono le tacche incise degli anni e dei centimetri – sotto sotto – nulla più c’è di quel che c’era – solo negozi “non solo qualcosa” – boutiques – banche – bistrot – con le appliques da acquario incastonate in cartongessi – in lamimati scuri melodrammatici da apericene – cerco una rosa – la trovo – in un sopravvissuto chioschetto verde di fiori – in Piazza del Carmine – arrivo in anticipo – molto – come al solito – non c’è nessuno – esploro il buchetto transennato nel marciapiede che ospiterà la targhetta d’ottone – poco oltre la chiesa di San Tomaso – grigia di smog – dove si sposarono Giorgio e Anna Maria – è chiusa – peccato – al posto dell’Armeria Legnani – dove Giancarlo e Ginio si esercitavano a sparare – di nascosto – nel piccolo poligono di tiro nel seminterrato – c’è una FERRAMENTA – che quasi rassicura un po’ di normalità – con le pareti a buchini e le rastrelliere di utensili – sono lì con la rosa in mano e penso alla vita di quella casa – quando era una palazzina antica – a tre piani – piena di bambini – cugini – zie – domestiche come zie – nel via vai del carbonaio – dell’uomo del ghiaccio – del prestinaio che portava il pane – dove c’era la stanza dei giocattoli e una piccola cappella – dove alle sei – ogni sera – si recitava il rosario – quanti dovedovedove di assenze – di stupidi e stupiti rimpianti

 

 

Mi hanno scritto dalla Rinnovata, la scuola media milanese intitolata a Giancarlo Puecher, chiedendomi un piccolo scritto per la cerimonia del 25 Aprile, sono molto legati al loro Giancarlo, come lo chiamano. Mi hanno invitato di persona molte volte, dopo l’incontro per la Pietra d’Inciampo l’anno scorso, ma la pandemia lo ha impedito. Ci tengo molto a questo legame: penso che il ricordo di un ragazzo stia bene fra i ragazzi. Cercando di scrivere a loro in modo semplice cerco la semplicità.

 

   Carissimi ragazzi, insieme alla Preside Anna Teresa Ferri e ai vostri Professori, vi scrivo due righe per questo 25 Aprile ancora rinchiuso e solitario.

   L’incontro con voi, il 15 Gennaio dell’anno scorso, in occasione della posa della Pietra di Inciampo in onore del padre di Giancarlo Puecher, Giorgio Puecher, in via Broletto 39, è stata forse l’ultima occasione di riunione pubblica, l’ultimo assembramento consentito a cui abbiamo potuto partecipare, inconsapevoli che il virus stava già correndo.

   Alcuni di voi che ancora frequentano la scuola lo ricordano di certo: vedervi scendere dal tram numero 12, con chitarre, fisarmonica e sgabelli ha trasformato quella che pareva essere una cerimonia ufficiale in un momento pieno di fervore. Sono queste, in un certo qual modo, tracce di un’altra vita e ricordi bellissimi: le vostre voci che cantano Bella Ciao ancora mi commuovono e sono certa che canteremo ancora tutti insieme.

 Il senso profondo di quell’incontro in cui passato e presente, i vivi e coloro che scomparvero inghiottiti dalla violenza del nazifascismo erano tutti lì, raccolti, ancora una volta a testimoniare il valore della memoria e l’attualità degli ideali per cui tantissimi anni fa uomini e donne di tutti le religioni e i credo politici si batterono uniti e si sacrificarono per consentirci oggi di vivere in una democrazia e di poter esprimere liberamente le nostre opinioni.

   La radice del nostro oggi affonda in quegli anni lontani e non sarà una pandemia a impedirci di sentirla ancora più profondamente nel cuore. Anzi forse è proprio l’impossibilità di manifestare pubblicamente che la rende ancora più intima, vissuta e profonda.

   La piccola targa di ottone è ancora là, incastonata nel marciapiede, lo è stata nel silenzio e nella solitudine delle strade deserte e del lockdown. Testimonia lo stesso e rende onore a chi tomba e sepoltura non ha potuto avere.

Cesare Grampa del Centro Comunitario Puecher, che ha voluto la posa della Pietra d’Inciampo, con i ragazzi della Rinnovata.

   Il nonno Giorgio e lo zio Giancarlo, oltre a essere eroi e martiri, sono per me figure famigliari e nei loro confronti ho provato sempre un grande dolore e una nostalgia, accresciuti dal fatto di non averli potuti conoscere, se non nei racconti di mio padre e nelle testimonianze ufficiali.

   Quel giovane dagli occhi chiari che vedete nella foto, il maggiore dei tre fratelli Puecher, era un ragazzo sportivo, vivace, allegro, pieno di vita e di speranze per il futuro, testardo nelle sue passioni e al momento della svolta dopo l’8 settembre determinato nella scelta di combattere il nazifascismo. Era un giovane uomo già maturo, pieno di pietà e di spiritualità nel momento supremo della morte, quando trovò la forza di abbracciare a uno a uno i componenti del plotone di esecuzione e di perdonarli . Così aveva scritto nella sua ultima lettera, il suo testamento spirituale, in una saletta buia del Municipio di Erba dove si era riunito il Tribunale speciale che lo condannò a morte, nella notte prima di morire, illuminato da due alte candele che gli erano state accese accanto per indicargli la morte imminente.

Giancarlo Puecher Passavalli

L’amavo troppo la mia patria, non la tradite e voi giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale.

 

Perdono a coloro che mi giustiziano, perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia.

Questi valori, che erano quelli della famiglia, sono ancora oggi d’esempio per tutti noi.

Il nonno Giorgio, che affrontò la morte del figlio rinchiuso nella cella che aveva diviso con lui, nel carcere di Como, non lo rivide più, non poté partecipare al funerale. Penso spesso al suo dolore e mi sembra di sentirlo ancora così vivo dentro di me. Era un uomo mite e delicato, un notaio, un uomo di Legge, trascinato dalla vendetta e dalla violenza nazifascista a una morte terribile nel campo di concentramento di Mauthausen.

Poco prima di partire per la Germania dal campo di Fossoli scrive alcune lettere alla cognata Lia Gianelli, nelle quali traspare fino all’ultimo la commovente, e davvero sempre per me straziante, speranza dell’uomo di Legge e Giustizia, incredulo fino all’ultimo di quanto lo stava aspettando. Conscio di non avere colpe se non quella di vivere in un perverso regime dittatoriale in cui le colpe dei figli potevano ricadere sui loro padri.
 

Lettera di Giorgio Puecher
25 maggio dal campo di Fossoli
a Lia Gianelli

[…] Penso alle nostre belle rose e alla prima nostra frutta; chissà, presto potrò venire a godere almeno la seconda, gli avvenimenti promettono bene… Chissà quando la potrò rivedere e con essa rivedere il luogo dove giacciono i nostri due angioli! Giancarlo è spesso all’ordine del giorno nei discorsi e da chi l’ha conosciuto anche soltanto per riverbero. […]

 Lettera di Giorgio Puecher
30 maggio dal Campo di Fossoli
a Lia Gianelli

 […] Dì a Rosa che ho molto gustato la sua torta, e che spero di non ritardare tanto a gustarla anche a casa…[…]

Lettera di Giorgio Puecher
21 giugno 1944 dal Campo di Fossoli
a Lia Gianell
i

Carissima Lia, partiamo per ignota destinazione, probabilmente per ora, per Suzzara, sospendi quindi per ora qualunque invio, vi terrò informati. Comunque in alto i cuori e speriamo di rivederci presto. Un bacione e un abbraccio a tutti voi

Le ultime parole che vi voglio lasciare, per calarvi ancora di più nella dimensione familiare di questa dolorosa vicenda, sono sempre quelle della zia Lia Gianelli, che in un suo memoriale rievoca i momenti tristi e indimenticabili da quando, il 15 Dicembre 1944, rilasciata dopo il suo arresto insieme alle domestiche Vanna, Berta e Rosa, avvenuto l’11 Dicembre, si reca a visitare Giancarlo e Giorgio nel carcere di San Donnino a Como dove erano detenuti.

Quando andai a Como dai miei, si rise del soggiorno a San Donnino: ma vi era un velo di preoccupazione sul viso di Giancarlo. Giorgio era pure inquieto, ma di riflesso. Bastò una settimana perché la tragedia avvenisse.
Il lunedì 20 dicembre vennero chiamati alla questura padre e figlio. Io ero con loro e li vidi impallidire un poco. Salutai Giancarlo dicendogli di non perdersi d’animo; con un sorriso rispose: “ Stai sicura Szà, sai che non mi perdo mai d’animo.”
Dovevano essere le ultime parole, che udivo da lui, e fu l’ultimo bacio che gli diedi.

[…]
Il giorno 30, di sera, giunse a Lambrugo un’autolettiga della Croce rossa: e al buio, ché doveva essere ignoto, ritornò Giancarlo a noi in una semplice bara e passò la notte in un nido di verzura che gli avevamo preparato. Di sotto ai fiori nascosi una bandierina. la bandiera della Patria per la quale si era offerto.
E poi andò a riposare accanto alla mamma, la mamma sua che lo aveva accolto in cielo.

[…]
Lunghi mesi di dolore e di pena passarono, Ginio dopo aver vissuto nascosto a Milano – preparandosi alla licenza liceale in condizioni d’animo assai tristi, povero figliolo, è pur riuscito bene nonostante le difficoltà, dovette essere allontanato per sicurezza. Sempre per mezzo dei buoni amici Treccani ebbe modo di andare in Svizzera accompagnato da Pio Bruni (ora si può dire).
Partì il 18 gennaio 1945, Rimanemmo soli, Gianni ed io, nella triste dimora di Lambrugo.

Spero ci siano altre occasioni di incontrarci.

Buon 25 aprile a tutti!

Orsola Puecher

“Buon” 25 Aprile!

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Dante: Amore e ‘l cor gentil

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di Antonio Sparzani

Difficile proseguire nella scelta, dopo la seconda puntata di questa passeggiata tra i sonetti e le canzoni che costellano la Vita Nuova; il primo verso di questo sonetto rimanda inevitabilmente all’inizio delle famose terzine dette da Francesca (in Inferno, V, 100) per descrivere la sua storia d’amore con Paolo: “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”. Tutta la Vita Nuova è un trattato sull’Amore e qui Dante si propone addirittura di “dire che è Amore”, sentiamo:

Vita Nuova, cap. XX
Appresso che questa canzone [allude alla famosa canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore” trattata nel capitolo precedente] fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovesse dire che è Amore, avendo forse per l’udite parole speranza di me oltre che degna. Onde io pensando che appresso di cotale trattato, bello era trattare alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire, propuosi di dire parole ne le quali io trattassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto, lo qual comincia: Amore e ‘l cor gentil.

Amore e ‘l cor gentil sono una cosa,
sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l’un sanza l’altro osa
com’alma razional sanza ragione.
Fàlli natura quand’è amorosa,
Amor per sire e ‘l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a gli occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d’Amore.
E simil fàce in donna omo valente.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto di potenzia si riduce in atto. La seconda comincia quivi: Bieltate appare. La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l’uno guarda l’altro come forma materia. La seconda comincia quivi: Fàlli natura. Poscia quando dico: Bieltate appare, dico come questa potenzia si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: E simil fàce in donna.

Nervino

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di Mariasole Ariot

Si apre nella stanza – la parvenza della luce che ha per occhio – una buca sul terreno della casa – le mani dolci come cialde – il delicato attendere una chiamata – la temperatura elevata al grado – più alto della durata dei quando – e dove sono se non ancora – qui – dove sento il rancore che ci porti – la maschera di un dio rimescolato con le alture – e quando vivo dentro – quanta vita dentro – questo affacciarsi alle finestre ad osservare – una ginestra rotta – il cumulo di torba sul campo delle feste – una tempesta di menzogne masticate – si apre come vento e come spera – un resto che recrude nelle parti – la troppe molte parti rannicchiate – un gesto di vendetta che ci spinge – a dirci le parole la lingua delle spore – si muove un vento che mi spinge, il gelo diradarsi delle acque – un ruscello che non parla dice muovi – il troppo movimento si fa piano – appena i primi passi nella casa – lo specchio che confonde il mio non dire – non dire quanto hai visto e quanto l’occhio – respinge il troppo accumulato sottoterra – la terra che mi premi nella gola

***

Si apre il tuo sudario a primavera – il vero ricomposto nel silenzio, quanto – ci siamo dati e riproposti – ma ancora cede il tempo al temporale – ancora mi scomponi per procura – la tana in cui cacciamo i nostri corpi – sepolti di sabbia che ho ingoiato – la guaina che copre quando i morti – non tremano se non per riposare e – dico guarda il vento – che tuona nelle ossa – l’assalto per ridirsi un po’ penosi – la noia di quest’epoca ammalata che richiama – mondare le giunture e le animelle – ho visto un albero non verde, la chioma – già ammalata la mia chioma – dirada sulla strada della testa – un guscio e non c’è spazio per chiamare – urlare il già sentito il troppo detto, la piana – di un ricordo che si accorda – e ho visto e detto troppo – se apre il tuo sudario nell’autunno – la stagione a ricompensa per l’estate – la foglia e la testuggine del mondo – dimentico la voce la tua casa – dimena fame a fame per un corpo – che sembra maledetto e non c’è verso – se verso è già restare

***

Si apre il mio ricorso – soccorrere un malato dai suoi nervi – nervino il nero la nostra ricompensa – essere i sapienti della notte – sapere che non sanno – chinarsi nel sentito – dire di macerie di rotture del candore – se i santi si scolorano nel nostro articolare – un vento l’eventuale discordare – l’umore i nostri amori dimezzati – se in mezzo c’è un dolore che fa spazio – al canto di topaia e di ranocchie – la rana che si gela solo fuori, che genera un polmone immacolato – ritorna quando sgela di sudore – riaccorda le sue parti come zampe di tensione – e nasce nasce ancora se non – dorme, se non – strilla – se non – passa la stellata nella testa – si muore solo un giorno e non c’è giorno che non cadi – si muore per un gioco e per un caso – il sacco in cui mi poni nella cinta – se fa male ammaliare il proprio porto – ho detto già l’opposto che mi cuci – la bocca quando grido – il lento diradarsi della pena – la piana è tutto quello che mi osservi

*fotografia Mariasole Ariot

Il demone meridiano

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di Fabrizio Bajec

1.

una controfigura dicevano che amavi il rischio

mettendoti al servizio dei più nobili

sapevi parlare in pubblico e posare al sole

imitando certe donne dagli occhiali scuri

stese sul bordo di un terrazzo

in attesa di una foto

è tutta l’Italia degli anni Sessanta

che proiettavi con un miscuglio

di celebrità e dannazione custodivi

una richiesta d’amore oltraggiosa e segreta

meglio solo ma in compagnia

sfoderavi un sorriso disarmante

studente a vita era il tuo statuto

ti governava la sete di apprendimento

.

2.

il tuo corpo conosceva bene l’acqua

ma al cloro e su di essa avevi scritto

i tuoi trionfi al nuoto

vecchie glorie solo tue

la prova che desideravi vincere un tempo

.

3.

ti ritrovammo nel medesimo cortile

qualche mese dopo la tua iscrizione in facoltà

il cranio inspiegabilmente raso

con macchie rosse rimaste ai lati

le tempie illustravano il tuo intervento

quel pallore rosato riluceva al sole d’agosto

quando il male si mostrava in tutta la sua grandezza

una voglia di provare dicevi di cambiare profilo

vedere se quella palla lucente si sposava bene

con la tua camicia hawaiana e sorridevi

come prima del passaggio della tosatrice

esprimendo che nulla di profondo era mutato

eccetto quell’orrore che dovevamo accettare

tu ti saresti abituato e gli altri lo stesso

la semplicità di quella gioia di provare

.

4.

incarnavi la parte scontrosa dell’eroismo

il ragazzo che non rinuncia all’azione

se desidera conoscere il mondo

occorreva buttarsi e solo dopo il salto

provare a capire cosa avevi combinato

sei il personaggio che non sarò mai

Georges Dyer il ladro innocente

riprodotto su una tela di Bacon

.

5.

giovane paladino dal sorriso onesto

sapevi che in mancanza di una radiazione

di tutto il tuo essere avresti venduto meno

e non avendo la forza di spostarti a piedi

per andare a cercare gli assicurati senza patente

arrivavi tardi in ufficio e avvisavi i colleghi

prima di tornare a letto e fare il necessario

al telefono da casa e malgrado il Prozac

dopo tre mesi dovesti rinunciare a quel mestiere

le telefonate a letto si facevano più rare

e non riguardavano già più il lavoro ma tua madre

con lei diventavi creativo inventando storie

sul corretto impiego della giornata

così uno finisce per crearsi una doppia vita

lasciando credere ad amici e parenti

che una delle due è brillante attiva normale

.

6.

prima di arrivare a quel punto

hai conosciuto il consumo giornaliero

di alcol e più raramente di certe droghe

tanto per rimanere svegli specie di notte

il sabato quando dietro a un bancone

cercavi di meritarti tutto il denaro

che non riuscivi ad ottenere in settimana

ti separasti da una donna depressa (a causa tua)

rientrando a pranzo ti trovava steso sul sofà

mezzo addormentato il tuo incubo era svegliarti

sul marciapiede perché è lei che pagava l’affitto

.

7.

avevi sviluppato un’ossessione del corpo

come di fronte a una cosa non posseduta

o a una donna che ci sfugge la tua parte

femminile si abbandonava alla contemplazione

della forma fisica davanti alla specchiera

col proposito di registrarne i difetti

studiando i miglioramenti possibili

perdita di peso nascita di foruncoli e ascessi

o altre ferite che la malinconia ti infliggeva

guardandola chiedevi alla tua massa modifiche

cambi di tinta con l’aiuto delle lampade

una forte sorgente di luce è responsabile

dell’aumento di serotonina nel cervello

impedendole di trasmormarsi in melatonina

andavi a correre lungo le strade provinciali

ti davano uno strappo la mattina in collina

o allora ti chiudevi tre volte alla settimana

in un centro benessere per rimetterti in sesto

e lì ritrovavi molte facce conosciute

gente venuta a sudare e socializzare

a offrirsi una ricreazione dello spirito

la cosa andò avanti per mesi fin quando

una profonda tristezza non fece capolino

bussando alla porta bruscamente e le attività

cessarono ti mettevi a mangiare senza ritegno

a un’ora impossibile vasetti di Nutella

dolci o del pane raffermo e a bere

litri d’alcol una sera dopo l’altra

fumando di più ti allungavi sul divano

e il sonno ti coglieva mentre eri già in cammino

verso una terra ghiacciata dove neanche

il minimo piacere avrebbe resistito

.

8.

i tempi erano maturi per i rapporti omoerotici

ma senza desiderio vero un’altra forma d’umiliazione

pensavi di non meritare altro le donne ti spaventavano

o le compravi o accettavi di farti toccare

da certi ragazzi tristi e perfino di sodomizzarli

evidentemente non potevi sentire un bel niente

le medicine ti privavano del gusto dei contatti

se ti avessero chiesto di masturbare un cane-lupo

un cavallo o un vegliardo avresti risposto

perché no dopo tutto come potevi credere

a un rimedio definitivo e la prima volta

che ti proposero qualcuno del tuo sesso

visionavi con attenzione un film hard

sul canapè di un collega molto robusto

ufficialmente legato a una donna

lo vedesti di colpo aprirsi la cerniera

estrarre l’attrezzo e farsi più vicino

siccome il tipo ti forniva anche la coca

contrattò una fellatio felice di iniziare

una pratica a lungo frustrata (non è tutto)

il pusher ti pregò di incularlo quel nuovo bisogno

era più pressante del primo ma fu allora

che abbandonasti il tuo stato di trance e uscisti

.

9.

hai aperto gli occhi in una villa nudo come un bebè

hai visto il tuo capo penetrare per l’ennesima volta

una squillo noleggiata per il week-end e smezzata con un altro

eravate tutti e quattro sul pavimento

in un soggiorno di un bianco glaciale

la donna pareva a tal punto disgustata da quella giostra

che non si ralzava nemmeno dal tappeto

accontentandosi di bere vino nell’attesa che il capo

si decidesse a riaccompagnarla in centro

tu non capivi come avevi potuto toccare

quella portoricana così sprovvista di fascino

non più giovane e che oltretutto

si lasciava sfuggire dei commenti osceni

per sottolineare l’estrema decadenza

.

10.

nel peggior momento della nostra coabitazione

non fui forse io a scegliere di lasciare il paese

il tuo male si era a tal punto generalizzato

che costituiva l’intero sfondo

della mia situazione sociale

non riuscivo a rendermi indipendente

in un paese sul ciglio della depressione economica

e ho optato per la fuga abbandonando un amico

ero il solo a poter prendere certe iniziative

nei tuoi confronti il ricovero forzato ad esempio

credevo di sapere ciò che vivevi

e solo per questo di essere in grado di sostenerti

ma ho abdicato e un anno dopo

tu eri fuori pericolo così

rinunciando ad essere in parte responsabile

della tua guarigione ho scoperto

che la vita si aggiusta anche da sola

Dentro o fuori

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di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno. Lui, secondo l’amico, doveva concentrarsi sullo stomaco, sul polmone sinistro e quello destro e, in generale, doveva accogliere la possibilità che la vita si svolgesse puramente dentro quel corpo. In che senso, aveva chiesto lui, più e più volte. L’amico aveva detto: non pensare, e lui aveva sorriso come per dire okay.

Da “I misteri del romanzo” di Lakis Proguidis

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[È uscito in questi giorni per Mimesis il saggio di Lakis Proguidis I misteri del romanzo. Da Kundera a Rabelais (Pierre-Guillaume de Roux, 2016), a cura e nella traduzione dal francese di Simona Carretta. Il saggio indaga Storia e Preistoria del romanzo a partire dalla nozione di “riso romanzesco”, un genere di riso che secondo l’autore sarebbe stato «praticato» per la prima volta da François Rabelais. Ne presentiamo le prime pagine.]

di Lakis Proguidis

Sotto le acacie

Ho avuto la mia prima esperienza romanzesca all’età di venticinque anni nel luglio del 1972. La scena mi è sempre presente. Anche ora, mentre sto scrivendo a Montréal, a metà autunno del 2005, me la ricordo molto bene. Camminavo lentamente sotto un filare di acacie. Qui, per essere la metà di autunno, le giornate sono piuttosto miti. Gli alberi esplodono in tutta la loro bellezza, come a far recedere il duro inverno che già colpisce il nord del paese. È là, sotto le acacie, che un pomeriggio di estate il romanzo mi ha afferrato.

Il delirio del valore

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di Biagio Cepollaro

Posto qui l’intervento apparso sull’ultimo numero della rivista  il verri a proposito della questione del valore letterario.

Il delirio del valore: da ontologia a biografia

1.

Cosa intendo dire quando dico: “questa poesia vale”? Che mi piace e che consiglierei ad altri di leggerla. Tradotto in emoticon: un like con l’aggiunta di un cuoricino. Cioè che oltre a piacere a me, oltre a valere per me, ritengo che possa piacere, che possa valere anche per altri. Il valore è il piacere e la conoscenza che se ne ricavano? Piacere e conoscenza, sapere sensuoso e incarnato. Si può quantificare questo piacere in un mi piace più, mi piace meno, cuoricino si, cuoricino no? Si possono scansionare le aree del cervello che si attivano in corrispondenza di questa esperienza estetica che definisco piacere, posso tradurre in processo biochimico il processo valutativo-estetico? Probabilmente sì, ma effettuare ciò non risponde alla domanda se non con una tautologia neurofisiologica. Vale ciò che vale. Le aeree del cervello attivate per formulare un giudizio di valore sono queste. Insomma: vale perché vale. La neurobiologia della bellezza.

Il valore è il comune? Ma fin dove arriva il comune? Il comune è una quantità, statistica? Il comune è un’idea, come quella del buon senso che proponeva Cartesio? Il comune è un’aspirazione, una tensione, un avvicinamento per asintoto, un postulato? Come il postulato della libertà che per Kant è fondamento della possibilità della vita morale? Spesso quando una poesia è molto “comune”, cioè è apprezzata da molti, da moltissimi, può anche accadere che a me non convinca. L’universale idealistico di una volta è diventato il commerciale (il dozzinale, il cialtronesco) di oggi? Ma come, si capovolgono le cose? Ciò che non è comune: l’avanguardia quando veniva percepita come tale, quella storica, lo scarto dalla norma, l’insolito, l’imprevisto, il de-contestualizzato, aspirano all’universale futuro e alla palingenesi. Ma ciò che di fatto è attualmente comune è invece per lo più il commerciale cioè un’idea di comunanza falsa, indotta, mistificata, costruita a tavolino, marketing, falsa coscienza. Non si uscirà mai dai confini posti da Adorno? Non si andrà mai oltre Adorno e alla funzione didascalica dell’intellettuale, o come qualcuno dice, alla sua funzione pastorale? Se il tuo romanzo non si associa ad una probabilità di vendita è perché è sbagliato, anche esteticamente: è brutto. Sembrano dirti proprio così. Per quelli belli vale la prova ontologica di Sant’Anselmo: nel concetto e nella sostanza della vendita che racchiude tutte le perfezioni non può mancare l’attributo del valore estetico, della bellezza, della conoscenza e del piacere. Così come nel concetto di Dio non può mancare l’attributo della sua esistenza. Questa è la nuova prova ontologica della bellezza.

Il valore attribuito si può scindere dal piacere attuale che provo, può diventare una sorta di idea connessa con l’oggetto in modo assoluto? Valgono oggettivamente? Un valore consustanziale? Esiste un valore istituzionale, un valore che come la Costituzione non si può modificare nei suoi principi fondamentali se non con una guerra, un atto di violenza? L’atto di violenza ad esempio di Hitler con la sua mostra sull’arte degenerata. O la violenza dei Futuristi contro l’arte del chiaro di luna, contro l’arte dei passatisti. Il valore dell’arte dell’avanguardia è un valore a priori, un manifesto, un’esternazione. L’avanguardia non chiede che le sia attribuito valore mentre valuta velocemente: piuttosto impone una nuova scala di valori, la trasvalutazione di tutti i valori. Il valore non è neanche il piacere (l’orrore di Nitch), il silenzio di Cage, la difficoltà a seguire senza perdersi nel Laborintus di Sanguineti. Il valore è il nuovo in una coazione a ripetere del moderno. Il valore non è il piacere se il sublime è dismisura, disagio, angoscia. Un cesso rovesciato è dismisura, una ruota di bicicletta aggiorna il sublime, una sedia e la fotografia della sedia, una bocca enorme e spalancata, congelata nell’urlo…Ma dove sta il piacere? C’è: è la sorpresa, è l’orrore.

Esempi che mi vengono subito in mente: Montale mi piace. Cioè: è il Dante che è dentro Montale che mi piace non il Gozzano che pure c’è, è il Montale petroso degli Ossi. Il valore è forse in questa attualizzazione. Leopardi mi piace più per lo Zibaldone: è il pensiero che onestamente analizza, compara, giudica ma è un pensiero dentro il fare della poesia. La poesia di Montale e di Leopardi hanno valore per me e per molti. Ma già D’annunzio mi pone in crisi: mi piace a metà, ha un valore a metà. Ma cosa vuol dire mi piace a metà? D’annunzio è una miniera di invenzioni che altri useranno e che lui si limita a esibire con grande maestria. Il valore per molti ma non per tutti. Oggi succede che sia acclamato un poeta da moltissimi eppure per me ha poco valore. Perché? Perché la sua scrittura è ricca di effetti speciali, di furbizia, di menzogna, in definitiva. La sua è una retorica che si nasconde, che veste l’abito della naturalezza pur essendo contorta, emana un odore malsano, di malattia. Stesso problema che ho con D’Annunzio: la retorica non veritativa, la retorica che allucina, incanta, la retorica lisergica. Me ne accorgo solo io? Se ne accorgono anche altri ma non sono moltissimi. Il comune dunque è un comune a metà, a un quarto, a un mezzo. Il comune è poco comune ma almeno non sono solo io. Il relativismo del gusto e del valore. Il valore dipende dal gusto? E il gusto da cosa dipende? Dall’educazione, dalla genetica, dalle circostanze, dai mass-media, dalla scuola, dalla pressione conformistica?

Una poesia che ha valore può averlo per motivi molto diversi, possono essere molto diverse tra loro le poesie che hanno valore. Possono essere diverse per genere, se tutti i generi hanno valore. Ha valore la poesia didascalica? Epigrammatica? Lirica? Epica? Drammatica? Comica? Gnomico-sentenziosa? Erotica? Tutti questi generi hanno lo stesso valore, o valgono chi più chi meno, o addirittura solo alcuni valgono mentre gli altri no? In alcune epoche alcuni generi fanno furore in altre no. E poi siamo sicuri che un genere escluda gli altri? La poesia di Lucrezio come si può dire non erotica e siamo sicuri che sia esente da tracce di comicità, epicità, epigrammaticità? Potremmo escludere dal valore generi interi, potremmo dire che la poesia didascalica non è poesia, che solo la lirica lo è, oppure potremmo dire il contrario. Per parlare del valore devo fare degli esempi. Il valore non è una precettistica, non è un’idea disincarnata, il valore lo incontro di fatto, di volta in volta, in ciò che vale nel circolo ermeneutico che nasce tra il testo e chi lo accende di senso con la lettura. Non esiste il valore, esiste ciò che vale. Ciò che sta valendo per me ora, che vale per te ora e che domani chissà. Ma perché vale ora e non domani? Perché ha incontrato un momento del mio sviluppo. Dall’ontologia alla biografia del valore.

2.

Da Baldus a Nazione indiana

Due fasi del mio lavoro letterario a cui penso ora per indagare sulla questione del valore: quando con Baino e Voce sceglievamo i testi per la rivista Baldus, tra il 1990 e il 1996, e più recentemente, da solo, tra il 2016 e il 2017, quando sceglievo gli autori e relative auto-antologie per la rubrica che mi ero inventato per il blog Nazione Indiana. Nella prima fase, quella della rivista, la selezione degli autori avveniva già ad una primissima lettura che ci vedeva facilmente d’accordo. Eravamo accomunati dalla stessa “area” poetica, anzi, lavoravamo alla definizione di una poetica a posteriori rispetto alla nostra produzione testuale. La poetica tendeva ad essere esplicita, analitica ma mai precettistica. Dalla poetica non credo si possa dedurre davvero una poesia ma da una poesia puoi dedurre una poetica. La prima scrematura era in base al riscontro di “una certa qualità” mai definita da noi. Sarebbe stato un lavoro complicato, se ci penso, stabilire le condizioni minime per “una certa qualità”. Anche perché a noi queste implicite e taciute condizioni minime apparivano, almeno a come ricordo io, evidenti. Si trattava di una maggiore o minore vicinanza all’area delle nostre poetiche? Una maggiore o minore somiglianza alle nostre pratiche di scrittura? Forse si. Alcune tecniche specifiche utilizzate o combinate in modo simile al nostro procedere. Si trattasse di riscrittura, citazione o montaggio, si trattasse della presenza del dialetto considerato non come un rifugio regressivo ma come materiale da impasto. Da questo punto di vista la selezione era possibile e la questione del valore, di fatto, nella scelta redazionale, si precisava in termini di scelte stilistiche. Alcune scelte stilistiche avevano valore, altre no.

Una scrittura che non avesse attraversato la banalità del poetico per sbucare dall’altra parte non sarebbe mai stata accettata. Quella banalità del poetico era forse il residuo dell’usura di ciò che un tempo era nuovo e fresco, l’esasperazione, l’estenuazione di ciò che era bello, di valore, magari in un’altra epoca, un secolo fa, poniamo. La banalità del poetico era spesso riassumibile in “lirica”, anche se non sempre. Spesso infatti questa parola veniva pronunciata come un insulto, come per smascherare l’imbroglione o il rimbambito, il furbo o l’ingenuo perché, dopo più di un secolo di avanguardie, presentarsi con una lirica (per dire solo i caratteri per noi più evidenti: atmosfera incantata, metafore edulcorate e prevedibili, lessico trito, tono aulico imbarazzante, accostamenti scontati, psicologismi, stucchevoli rime e altre prelibatezze) era decisamente troppo.  Interessante la banalità del poetico come la banalità del male: una sorta di burocrazia linguistica che esegue un programma senza rendersene conto, all’apparenza inutile ma anche innocuo. Un mio amico ripeteva spesso, parafrasando Arendt, che il banale è il male da piccolo: il banale non è innocuo, insomma, non è superficiale. Il banale è profondo, è ciò che scava da dentro e più di tutto si impone come vero e modella e si moltiplica.

Il gruppo redazionale procedeva alla seconda scrematura. Come appariva il testo: qualsiasi forma di irrequietudine, nervosismo, insofferenza, tensione, contraddizione, intolleranza, violenza sintattica e lessicale attirava subito la nostra attenzione. Una matrice espressionista era il presupposto, la genetica, il punto di partenza, il requisito minimo. Una volta attirata l’attenzione si leggeva e rileggeva per riscontrare se quelle insofferenze, violenze, contraddizioni, irriverenze, spietatezze, incoerenze fossero giustificate. E questa era la fase più delicata. Perché anche nei testi sperimentali vi si poteva annidare il banale, il conformistico, il superficiale, il furbo e il rimbambito. E come si faceva a riconoscere? Non era mica così facile come quando si era di fronte ad un “lirico”, dichiarato o camuffato che fosse. La domanda che mi facevo in questo caso per circoscrivere la zona del valore e del suo giudizio era la seguente: le tecniche presenti in questo testo hanno un senso, cioè sono tese a significare globalmente una posizione del testo con l’extra-testo, con il mondo? Se questo senso era rintracciabile e le tecniche risultavano così giustificate l’esame poteva considerarsi superato, se le tecniche invece restavano mere esibizioni metrico-versificatorie, l’esame non era per nulla superato. Perché la banalità del poetico può anche essere una banalità erudita, accademica, sterile e per nulla innocua, come l’altra banalità. Credo che anche la scelta di grandi autori del 900 da pubblicare proprio nel numero zero di Baldus fu orientata da questi ragionamenti, almeno per quanto mi riguarda (non posso pronunciarmi anche per i miei compagni di redazione che potrebbero ricordare altre cose). E non a caso gli inediti dei primi autori che pubblicammo nel 1990 furono i versi di Emilio Villa e di Edoardo Cacciatore.

Molti anni dopo, al tempo dei blog, in piena moltiplicazione esponenziale degli scriventi, digitanti, iperconnessi, recitanti, registranti, videochiamanti, in diretta Facebook, fotografanti su Instagram, decisi di chiedere a dei poeti con l’esperienza di tre-quattro libri alle spalle di scegliere dei propri testi, presentando distesamente il proprio percorso. In un certo senso, finito il periodo del conflitto tra le poetiche, il banale non era più di preferenza il lirico, il banale era tautologicamente il banale e basta. Avevo rinunciato a farmi guidare da una poetica e il mio atteggiamento era diventato più ermeneutico, per così dire. Ora erano importanti l’incontro con il testo, l’attivazione del testo attraverso la mia lettura, l’imprevedibilità di tutto questo. Vi era forse una tendenziale assenza o diminuzione del pregiudizio e una maggiore apertura all’incontro e al caso. A scegliere gli autori mi guidava la mia preferenza per dei percorsi consistenti, per una prima maturità autoriale che associava alla riuscita estetica la consapevolezza del proprio fare e del proprio rapportarsi al mondo. Ero curioso e desideroso di lasciar raccontare ai poeti il loro percorso, a dar loro lo spazio necessario per indicare o alludere al nesso tra le forme da loro scelte e il mondo così come lo vedevano, come lo avevano esperito. Il giudizio di valore qui credo abbia riguardato non tanto il singolo testo quanto piuttosto un corpus di opere e la dimensione autoriale del poeta, l’intero suo tragitto etico-estetico e la relativa narrazione. Come se nel rumore moltiplicato della rete fosse consigliabile isolare dei luoghi di coagulo di intense zone di scrittura che caratterizzassero in modo forte ed essenziale un determinato autore per l’insieme del suo percorso. Ciò che rientrava nel mio giudizio di valore in questo caso era la consistenza autoriale, lo spessore del percorso, la continuità della tensione e la consapevolezza nell’uso degli strumenti. La capacità in definitiva di produrre senso attraverso l’atto di scrittura. Un senso alimentato dal letterario (e dalla sua storia) come dal proprio punto di vista tanto viscerale quanto etico-politico sul mondo. Il giudizio di valore riguardava in definitiva l’esito del rapporto tra testo ed extra-testo, la capacità di costruire delle forme che illuminassero una parte di mondo attraverso il filtro veritativo della retorica.

Una trilogia scombinante

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di Claudia Zaggia

Trilogia della scomparsa di Roberta Salardi, Effigie, Pavia 2020

Penso a una frase di Nabokov: “La realtà non è né il soggetto né l’oggetto della vera arte, la quale si crea una realtà sua propria”.

Quasi tutto ciò che si trova in libreria oggi viene definito “romanzo”, sarà anche per questo che i più intendono solo un certo tipo di cosa, ci si aspetta una trama, un inizio e una fine e dei personaggi ai quali poter comodamente girare intorno. E una storia ben comprensibile che non lasci molte incertezze soprattutto quando si arriva alla parola fine.

Capita di incontrare opere di un altro tipo e la parola “romanzo” sembra non andar più bene, altri nomi o etichette non ne abbiamo, diciamo questo è un libro e fa parte di quel gran mondo della narrativa, vario e non sempre così rotondo.

Capita che i romanzi uno dopo l’altro si assomiglino tutti, qualcuno è un poco meglio ma dopo un certo tempo tutti si dimenticano. Scritti anche bene, insomma corretti, non molto di più. A volte scritti e basta ed è veramente troppo poco.

L’ottimismo che si trova poi in tanta letteratura, messo in bella mostra, è un prodotto commerciale. Dopo lo scaffale dei cibi in scatola per umani e animali, c’è quello dei libri, ma mi raccomando che non sia triste, che altrimenti non lo digerisco.

Roberta Salardi ha osato molto, fiduciosa di trovare dopo lettori adatti, non so se li ha trovati, non so se io qui sono un lettore adatto, so che mi piace incontrare l’inconsueto, l’azzardo, l’opera che osa senza mai tralasciare quella che si chiama qualità, quella della scrittura prima di tutto, altrimenti potremmo decidere di lasciare, di non continuare a leggere e invece si arriva inquieti e soddisfatti a pag. 352, l’ultima.

Credo che più di tanto non si debba spiegare o cercare di chiarire. In un libro come questo, in questa intrigante Trilogia della scomparsa (che bel titolo, e anche quelli che troviamo dopo promettono bene), sarebbe cosa ben superficiale credere di poter comprendere tutto o addirittura di aver compreso tutto.

C’è molta destrezza intellettuale in quest’opera e incontrarla così spesso fa parte del piacere di leggerla, un piacere pieno di sfumature.

Era da parecchio tempo che non leggevo un libro di narrativa così complesso, ricco, intenso e problematico. Con gli aggettivi potrei continuare ma mi fermo qui. L’abitudine a tanti romanzetti anche di buona qualità ma infine sempre quelli, ci impigrisce, come se la narrativa fosse questo e non altro. Poi un bel giorno l’assolutamente altro arriva e restiamo stregati ma anche un poco travolti. E adesso di quest’opera cosa diciamo? L’opera peraltro è di felicissima lettura, la scrittura è molto bella, non affatica il lettore che procede e procede ma vive anche continui stati di smarrimento.

Di cosa parla questa trilogia, cosa racconta? E chi sono i personaggi? Perché qualcosa racconterà e ci saranno dei personaggi di un qualche tipo. Certamente, anche.

Se si racconta si presuppone un certo ordine e anche un certo realismo. Questo sarebbe fuorviante per un’opera che è affascinante perché accidentata, succede e non succede, è e non è. La trilogia non teme di allontanarsi dal realismo, di giocargli brutti scherzi, di far riapparire quello che è imprevedibile, riapre gli orizzonti, non vuole che il lettore stia comodamente seduto in poltrona.

La forma scelta è quella del diario o dei diari, ma nessuno pensi a qualcosa che già è conosciuto e se poi anche qualcuno di voi tiene un diario: ebbene questa è un’altra cosa, anzi parecchie altre cose.

Mi faccio anche alcune domande sull’autore, un’autrice in qualche modo geniale che non sarà contenta di quello che si dice della sua opera, che vorrebbe ascoltare altro, ma si rende conto questa autrice misteriosa di che cosa ha fatto?

Cerco adesso di mettere ordine non nel libro ma nella mia testa.

I personaggi femminili creano realtà e subito dopo la frantumano, la dissolvono: è vero questo o è vero quello? O forse non è vero niente, solo vince la scrittura. E non fidiamoci troppo dei nomi che dovrebbero fare personaggio; tremende comunque le due sorelle, scrivono diari per modo di dire, s’inventano storie e ci cascano dentro. Le due sorelle scrivono, veramente in questa trilogia scrivono un poco tutti e sono abili affabulatori ma s’ingarbugliano, si aggrovigliano. Perché di solito si scrive un diario? Per ritrovarsi, per stabilizzarsi, anche per cercare di capire, ma i diari di Martina e Fabiola fanno altro. Nella terza parte della trilogia Andrea cerca di far meglio usando anche scritture altrui, autori importanti o anche no, i risultati non sono così rassicuranti, almeno per noi.

Riapro il libro, primo romanzo della trilogia: Il corpo della casa. Quello che già dopo alcune pagine stupisce è come la scrittura ci conduca avanti affascinante e convincente pur avendo a che fare con frammenti, allusioni, appunti e altro.  Anche il probabile incontro con i morti perché “loro forse hanno pietà di noi e ogni tanto ci vengono a trovare”. Ad ogni capitolo o quasi una citazione, alcune richiedono una certa attenzione, cerchiamo di legare la citazione con quello che troviamo dopo, una sfida anche questa.

Chi è Fulvio, cosa gli succede? Di lui si sanno cose molto contraddittorie, vorremmo fermarlo da qualche parte: è un artista, è malato, malato come e dove? E poi anche forse muore, forse è anche tutta una cosa immaginaria.

Secondo romanzo della trilogia: Doppio diario. Ecco l’altra sorella: Fabiola, però in questo secondo romanzo scrive anche la figlia di Fabiola, Virginia, Virginia sembra sino a un certo punto la tipica adolescente, forse per questo non così simpatica, ma non semplifichiamo. Lei commenta, interviene, si mostra preoccupata e consapevole dell’attuale stato del pianeta.

Una madre e una figlia: situazione tra le più complicate, che è impossibile chiarire.  

Siamo giunti alla terza parte della trilogia, ecco Andrea, lui incidentato, sua madre malata, lui giovane che qualcosa vuole fare, vuole essere e si fa aiutare da autori importanti, quelli che avrà letto durante i suoi studi, e che continua a leggere. Poi nel suo diario c’è anche molto altro, siamo in una sorta di diario-laguna, troviamo veramente molto, isolotti, pantani, percorsi interrotti. Andrea si occupa soprattutto di filosofia. Ci sono anche due racconti: Notturno e La città ctonia. La città ctonia è il racconto di una utopia, un luogo che sembra dover essere molto bello, ma il lettore può benissimo essere di tutt’altro parere.

C’è anche l’altro Andrea, i due sono amici, si scrivono, discutono… sembra prevalere in questa terza parte della trilogia la forma del racconto-saggio, mi piace quando la narrativa incontra la saggistica, è un altro steccato che va giù (anche se occorre maneggiare con cura le proprie conoscenze, non esagerare, non far sembrare che si tratti di un lavoro costruito troppo meccanicamente).

Ma quel dito insepolto che viene portato in giro (conservato forse come i resti degli antenati nei popoli nomadi di un tempo) ci turba o ci fa pensare, non si vorrebbe seppellire i morti, è una cosa troppo definitiva.

C’è un ordine in questa trilogia, ci sono richiami, riferimenti, ben si capisce che l’autrice su questo ha lavorato molto senza però mai voler dare ai lettori un filo per poter ripercorre con una certa sicurezza i labirinti. Se è, come ha detto l’autrice in una intervista, un’opera al limite, cosa potrebbe mai esserci dopo? Resto però convinta che rimanga ben all’interno della narrativa, sicuramente in modi non tranquillizzanti, problematici invece, ma non è forse in buona compagnia? Perché ci sono molte opere del Novecento che, uscendo fuori dai binari più tradizionali, hanno preso altre strade. Forse l’autrice da alcune opere è stata anche influenzata, forse si tratta soprattutto di corrispondenze. 

L’autrice ha creato riferimenti, richiami, suggestioni, emozioni che ritornano, niente sembra lasciato al caso, un gran bel lavoro, un’opera complessa, ci sono alcune presenze che più di altre ritornano, a me sembra che soprattutto sia dominante quella dei morti. Il morire, l’essere ammalati, essere scomparsi ma si sa che “i morti non i xe mai morti e i rampa sempre fora dapartuto”. Accanto alla morte, con lei sempre c’è la solitudine e non solo perché si muore soli.

La terza parte della trilogia significativamente si chiama Nell’altra stanza (l’altra stanza è quella dove sta morendo la madre di Andrea). L’altra stanza è titolo evocativo e suggestivo, evitiamo questa altra stanza, passiamo davanti alla porta chiusa, sentiamo dall’altra parte qualcuno che respira. Infine ogni respiro cessa. La madre è morta, ci affidiamo, come sempre, a quello che ci dice il narratore, ma forse non dovremmo, in questa intera trilogia ben lo sappiano che i narratori sono inaffidabili, sono anche logorati da forme di follia più o meno passeggera. Siamo anche tutti noi.

Adesso dovrei concludere e invece mi verrebbe voglia di riaprire tutto. Vengo ripresa da quella prosa frammentata, interrotta, dal ritmo vario… Un ritmo fluido anche, o accidentato.

Scrivere libri così mi sembra voglia dire avere anche molta fiducia nella letteratura, in quello che ancora può essere, malgrado tutto ovviamente. Non salverà il mondo la letteratura, non salverà neppure noi singolarmente presi, però qualcosa abbiamo, e “par che s’ingrandisca l’anima del lettore” come diceva Leopardi. Romanzi lodati sono quelli che anche a scuola, o soprattutto lì, possono andar bene perché sono testimonianze, racconti di cose vissute, sono pezzi di vita da prendere assolutamente sul serio. Gli schemi narrativi non cambiano se vengono raccontati i nuovi fatti e fattacci della nostra attuale situazione di esseri sull’orlo dell’estinzione. Questo è davvero strano. Viviamo in un gran brutto momento e non sto parlando di covid e virus, c’è ben di peggio. Il peggio che ci riguarda tutti è che viviamo in pieno Antropocene. I più, anche tra gli scrittori, fanno finta di niente e continuano a scrivere come sempre. Come sempre non è più possibile, anche per questo c’è questa Trilogia della scomparsa.

Cucina campagnola dell’Azerbaigian

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Come un video trovato per caso possa aprire un mondo, dove si cucina e si mangia all’aperto, anche se fuori nevica, fra cagnolini, galline e galli baldanzosi, pecore, fiori e steccati degni di un quadro di Chagall.

I video di Kənd Həyatı, vita di villaggio, illustrano con sapienza innata fantastiche ricette cotte su bracieri, in pentole e padelle larghe come bacili, dove si bevono tisane e tè di sontuosi samovar, preparate da Hormet e le verdure sono tagliate da Aziza, cuoca sopraffina, con una incredibile mannaia, sullo sfondo una casetta hobbit con porte e finestre rotonde verdi sul cui tetto si possono piantare grano e fiorellini.

Il ⇨ canale di Kənd Həyatı con più di un milione di followers crea dipendenza ed è una scuola di vita e di pensiero, dove ci si può vestire senza look, ma ogni oggetto utile e necessario ha una sua grazia intrinseca, e alla fine delle lunghe ricette si mangia en plen air con una tovaglia ben spianata e bicchierini di infusi.

Si dicono pochissime parole e si fa.

Che ci vuole a ⇨ Preparare un tradizionale forno per il pane Lezgi con paglia e terra? O a ⇨ Cucinare uno storione intero nel forno a fango? O a fare della ⇨ baklava un capolavoro di simmetria grafica?

Nel villaggio di Hil nel Gusar in Azerbaigian tutto è possibile.

Life in village. Gusar residents share delicious food recipes

Una passeggiata ad Avalon

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di Francesca Matteoni

Daniela Seefelder, Mazoe

La magia del nome Avalon evoca la visione di una terra perduta; un meleto incantato; un territorio della Dea, essenza trasformatrice del mondo. Ne è via d’accesso la città di Glastonbury, i cui confini ospitano molteplici tradizioni religiose. Storicamente fu il luogo d’origine del cristianesimo in Inghilterra, grazie all’edificazione dell’abbazia benedettina di Glastonbury, fondata nell’VIII secolo. Nell’era moderna però è diventata centro di nuove spiritualità, che si nutrono sia di antiche mitologie sia del pensiero ecologico ed eco-femminista. Glastonbury è una terra sacra, dove le varie esperienze culturali e spirituali hanno proliferato, imparando a convivere. Nel suo libro Avalon. La via segreta al sogno arturiano (Tre Editori, 1996), la scrittrice e mistica Dion Fortune scrisse:

Quale che possa essere la spiegazione, l’esperienza dimostra che nei luoghi sacri esiste un potere che rinvigorisce la vita interiore e infonde all’anima nuovo entusiasmo e nuova ispirazione. Laddove forti emozioni spirituali sono state vissute per lunghi periodi da generazioni successive di uomini o donne devoti, soprattutto se fra costoro vi sono stati coloro che possono essere considerati santi, l’atmosfera del luogo s’impregna di forze superiori, e le anime sensibili, capaci di rispondere, rimangono profondamente commosse allorché vi si recano.

Glastonbury può apparire come un’isola in un mare di nebbia, le cui costruzioni si radunano attorno alla collina rotonda del tor, un mistero paesaggistico che risale all’epoca neolitica. Il suo nome arcaico, Ynis Witrin, significa Isola di Vetro, poiché sorge su una landa per lungo tempo soggetta a inondazioni. Nella città riflessa sotto il velo acquoreo, il nostro piano di realtà si immergeva, perdendosi in un altro universo. Viaggiando indietro nel tempo potremmo approdare sulle sponde del mare interno che novemila anni fa, dopo l’innalzamento del livello delle acque oceaniche, inondò quest’area.

Nel centro cittadino incontriamo la più antica biblioteca europea esoterica; il tempio della Dea, situato nello stesso cortile della biblioteca; uno dei primi pub d’Inghilterra, il George Pilgrim Inn, locanda per i pellegrini dell’epoca Tudor; e le rovine dell’abbazia benedettina, dove, al principio del XII secolo, i monaci rinvennero i presunti resti mortali di re Artù e la regina Ginevra.

Nei terreni dell’abbazia e nel cortile della chiesa di St. John si trovano poi due biancospini speciali, che a loro volta derivano dal Biancospino Sacro o di Glastonbury, che ha la particolarità di fiorire due volte durante l’anno, in inverno e in primavera, e che secondo la leggenda nacque sulla Wearyall Hill, una collina nel sud-ovest della città, dal bastone di Giuseppe di Arimatea, colui che si occupò delle spoglie di Gesù e che fu il primo portatore del Graal, la coppa che figura sia nell’ultima cena sia dopo la crocifissione, quale recipiente dove fu raccolto il sangue di Cristo.  Il biancospino fu abbattuto alla stregua di un simbolo superstizioso nel XVII secolo, durante la guerra civile, e, piantato nuovamente nel secolo scorso, fu vandalizzato nel 2010. Nella leggenda del Graal la tradizione cristiana rielabora credenze preesistenti, connesse al culto delle acque materne e della terra rinvigorita dalle sue correnti sotterranee ed emerse. Per quanto improbabile un viaggio di Giuseppe di Arimatea in Inghilterra, Glastonbury è una sede perfetta per i miti del Graal: l’acqua sgorga in due sorgenti, a Chalice Well, rossa e metallica;  e a White Spring, bianca e calcarea.  Bianco e rosso sono i colori della vita caratteristici del mondo soprannaturale celtico. Una mucca rossa con le orecchie bianche è senz’altro fatata, forse una dea in incognito, e rossi e bianchi sono i cani delle mute spettrali.  Sono colori soglia che ci indicano l’avvicinarsi di eventi e creature straordinarie, sono acqua-sangue, acqua-latte provenienti dal corpo del divino femminile.

Dalle sorgenti possiamo salire al tor, la collina percorsa da un labirinto preistorico, che si dipana a spirale in sette livelli. Sulla vetta si innalza la torre di San Michele, unico resto della chiesa in legno distrutta da un terremoto nel 1275, e successivamente ricostruita in pietra. San Michele è il guardiano dei confini dove si affollano demoni e spiriti. Più in generale si noterà che i luoghi dove il santo appare sono stati (e sono) dimore fatate. E il tor è abitato o almeno visitato dalle fate. Nel suo Viaggio nella natura sacra di Avalon, Kathy Jones scrive che all’interno è

pieno di tunnel e caverne. Si dice che coloro che trovano gli ingressi segreti spariscono dentro di essi talvolta per anni. Queste sono le caratteristiche tradizionali delle colline cave che costituiscono gli ingressi al mondo della fate.

Secondo una leggenda è la dimora di Gwynn ap Nudd capo dei Tylwyth Teg, il popolo fatato, e sovrano di Annwn, l’oltretomba della mitologia gallese, terra inferiore appartenente alla Dea che, nella veste di Crona, guida attraverso la morte.

Mi sono recata al tor di Glastonbury fra le pecore al pascolo e i molti altri visitatori in ogni periodo dell’anno. C’è sempre vento, lassù. La bellezza si unisce alle storie determinandone l’unicità. Si attivano gli occhi della mente e della memoria. Come percepiamo vivo un paesaggio? Osservandone le esistenze vegetali, animali, minerali, immergendoci nella sua storia fantastica, personificandolo in creature che svaniscono e riappaiono alla periferia dello sguardo. Qualcosa di simile avviene nel culto della Dea, conoscibile in questo luogo attraverso le nove Morgen, donne metamorfiche che incarnano i misteri di Nolava, Signora di Avalon.  Kathy Jones ha dedicato loro un libro particolare, Le Nove Morgen. Le Nove Sorelle di Avalon, dove è al centro la discussione sulla loro natura: sacerdotesse umane, creature divine, ombre. Accompagnano i testi le suggestive fotografie di Daniela Seefelder, che raffigurano le Morgen con le loro maschere di corvo. Per le fotografie hanno posato nove donne, precedentemente coinvolte nella rappresentazione teatrale dedicata alle custodi della Dea. L’atto artistico ridefinisce la realtà: noi siamo le creature del nostro sogno e siamo quanto il mondo viene sognando… a nostra insaputa.

La presenza di nove donne magiche è un tema ricorrente e transculturale.  Nove fanciulle rimescolano il Calderone magico secondo la mitologia gallese; nove sono le Muse del mito greco; nove madri generano il dio scandivano dell’arcobaleno; nove sorelle danzano fra la terra e il cielo nella tradizione mongola; in una pittura rupestre della Catalogna, risalente a circa diecimila anni fa, nove danzatrici circondano un uomo dal fallo eretto e, infine, sono frequentemente nove i megaliti ritrovati in cerchio nelle brughiere britanniche: nove fanciulle pietrificate. Le Morgen vengono descritte per la prima volta nel Medioevo da Geoffrey di Monmouth nel suo poema epico Vita Merlini. Qui le nove sorelle, guidate da Morgen la Fey regnano sull’Isola Fortunata, l’Isola delle Mele, dove risanano le ferite spirituali.

Le Morgen rappresentano e simboleggiano i poteri della Signora, della sua terra e del suo popolo. (…) Manifestano l’essenza muliebre incarnandosi nella natura, nel tempo atmosferico e nel genere femminile in senso universale. Si rivelano a Glastonbury/Avalon nelle forme di piante e alberi, animali e uccelli. In particolare, appaiono in stormi di corvi oppure emergono dal regno ultraterreno di Avalon con sembianze di donne, sia incorporee sia reali. Si manifestano come fiori, tronchi e rami d’albero. Si presentano nelle mutazioni del tempo atmosferico come nubi, sole, vento, pioggia, tempesta, tuoni, lampi, ghiaccio, neve, nonché in tutte le loro varie combinazioni.

La Jones lascia invariati i nomi delle Morgen, ma le ricolloca poeticamente in una ruota stagionale, dove le fasi dell’anno terrestre corrispondono alle età umane, ad animali, elementi e piante. Ecco le sorelle con alcuni dei loro simboli: Thitis che cura le ferite dell’infanzia quando l’inverno volge alla primavera, Donna Salice, Neve, Donna Cigno che porta il fuso da cui la vita si dipana; Cliton che cura la tristezza nell’equinozio primaverile, Donna Nocciolo con una bacchetta magica fra le mani, Raggio di Sole, Donna Lepre; Thetis che cura le ferite d’amore nella luce del mese di maggio, Donna Biancospino, Nuvola, Donna Puledro, porta con sé uno specchio che riflette i sentimenti; Gliten che porta la compassione nel solstizio d’estate, Donna Airone, Donna Quercia, Pioggia che solleva il calice delle sorgenti; Glitonea che guarisce dalla cupidigia nel primo raccolto della tarda estate, Donna Frassino, Tessitrice della tela, Donna Cerbiatto;  Moronoe che guarisce la paura del fallimento nel principio dell’autunno, schiarisce la mente nel cristallo, Rovo, Donna Faggio, Donna Volpe e Merlo; Mazoe che guarisce la rabbia, taglia l’inutile con il suo falcetto nella stagione dei morti, Donna Tasso, Donna Falco, Tuono e Ombra notturna; Tyronoe che aiuta ad affrontare la paura della dissoluzione finale nel solstizio d’inverno, Vecchia Signora del Gelo dietro un ventaglio di piume, Donna Agrifoglio, Donna Gufo; e infine Morgen La Fey, Custode di Misteri, Nebbia, Donna Melo che imbandisce la tavola per le comunità, dissipa l’ignoranza, ci rende responsabili di quello che amiamo.  I doni delle Morgen non sono facili. Sono sfide che lanciano gracchiando come i corvi del pensiero che si nutrono degli occhi dei morti.  Ci guidano nel divenire compagne di noi stesse (o noi stessi), dando forma agli spettri e affrontandoli, restituendoci ai ritmi del mondo che armonizzano l’intimo e l’universale.

Il libro della Jones con i suoi racconti ed esercizi pratici per contattare le Morgen, è relativo ad Avalon e al suo genius loci, qui ripartito in nove donne incantate. Ma credo che la lezione profonda di ogni incontro là fuori sia quella di modificare la nostra percezione affinché, tornando in posti familiari, possiamo provare a interagire immaginativamente con loro, conferendo alle piante o alle colline un po’ della nostra umanità, mentre ci disumaniamo nelle lotte quotidiane delle altre forme di vita. Lo scopo di ogni viaggio non è sapere dove approderemo, ma lasciarci coinvolgere dalle figure sul cammino, apprendere da loro la via del ritorno, reinventando le madri che ci attendono, che sono le stesse di un tempo così come sono gli stessi gli animali e alberi, ma ora li vediamo quali inesauribili fonti di conoscenza, cura, appartenenza. Possiamo fare tesoro delle nove Morgen di Avalon, emblematiche di un luogo sacro, per rendere dignità a ogni luogo, avvicinandoci al paesaggio come a una regina o una strega sapiente, recitando per lei una poesia di nomi e vite, chiamandola sorella.

Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh #3

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di R. Umamaheshwari

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima e qui la seconda. Quella che segue è la terza.

23 Marzo 2020.

Tutti noi (intendo dovunque nel mondo il virus ci colpisce) siamo totalmente alla mercé dello Stato? E il virus ci ha sospinti tutti dentro? Da un certo punto di vista, ci si sta forse chiedendo di fare qualche passo indietro rispetto al modello di frenetica competizione, di ingiustizia nell’ordine economico? Ci si sta chiedendo di approfittare del tempo di questo lockdown per immergerci nel silenzio che ci circonda, fermarci, disfare e rifare?

A Shimla, che altrimenti in questo periodo estivo sarebbe invasa dai turisti e immersa nel commercio, adesso vediamo i macachi e le scimmie grey langurs che mangiano soltanto ciò che dovrebbero: i fiori di rododendro, le foglie e la frutta dagli alberi, invece di ingoiare gli hamburger e gli snack che qualche turista dà loro o che loro stesse sgraffignano dalle borse.

Le scimmie sembrano persino un po’ più gentili adesso. Tutto sembra appena lavato, pulito e naturale. Il messaggio che ne deriva, più forte di prima, è che quando l’economia cresce solo in verticale, senza una forte base orizzontale, che sia inclusiva per le diverse popolazioni e anche per le forme di vita non umane, finisce per collassare sotto il peso di qualunque microscopico virus che abbia un potenziale di diffusione. Passando in rassegna le città dell’India che hanno riportato i più gravi casi di contagio da Covid 19, si tratta di quelle che sono cresciute di più verticalmente, con un’espansione esponenziale, e con le politiche ambientali più spregiudicate ed ecologicamente disastrose. È là che noi vediamo oggi aumentare i numeri, nonostante il lockdown. Parlando di Hyderabad, negli ultimi dieci anni la città ha usurpato alcune migliaia di acri di fertile terra coltivabile per diventare “la grande Hyderabad”. La realizzazione di questo progetto è stata la meno pianificata tra tutte, con altissimi edifici che sporgono sul nulla.

Gli spazi verdi sono irrisori, se paragonati a quelli di altre città. Mumbai è un altro di questi esempi. Così sono anche tutte quelle città dove il settore immobiliare è cresciuto senza regole e senza piani regolatori. Qual è la natura dello Stato in questo momento, dovunque, in questo momento in cui il mondo è infettato dal virus? Che effetti, positivi o negativi, ha avuto questa situazione sulla crisi? Stranamente, ogni stato colpito dal virus e che ha fatto ricorso a misure estreme di lockdown totale, ha avuto anche altri problemi specifici da affrontare nell’ultimo anno. In Francia, per esempio, abbiamo visto il movimento dei gilet jaune, cominciato nel 2018. E dal 2017 la Francia è stata attraversata da proteste degli impiegati del pubblico settore (incluse le ferrovie, che hanno messo in atto un lungo sciopero di mesi), contro i tentativi del governo Macron di ridurre il budget del settore pubblico. Ci sono state anche alcune proteste studentesche nel Paese, nel 2017 e nel 2018. Il governo degli Stati Uniti ha continuato la sua politica nei confronti dell’immigrazione (specialmente quella messicana) e ha messo in atto alcune radicali politiche protezionistiche. In India, negli ultimi mesi del 2019, abbiamo avuto movimenti studenteschi di protesta, duramente repressi, allo stesso modo di quelli che protestavano contro il Citizenship Amendment Act e il National Register of Citizens – entrambi oggetto di un duro dibattito, fino alle elezioni e all’arrivo del virus.

A Delhi, la gente ha messo in atto un lunghissimo sit-in di protesta contro il Citizenship Act, nel quartiere di Shaheen Bagh. Gli Italiani, allo stesso modo, hanno protestato contro le politiche sull’immigrazione del loro governo; il Regno Unito ha assistito a un lunghissimo dibattito sulla Brexit, seguito da una crescente protesta contro le misure di austerità, finalizzate specialmente a tagli degli investimenti pubblici nel settore dell’istruzione, della salute, etc. E’ abbastanza strano il fatto che i temi dell’immigrazione, dello “straniero”, della privatizzazione del settore pubblico, sono stati comuni a tutti gli Stati durante il lockdown, ed il dibattito su questi temi è stato fortemente influenzato dalla pandemia di Covid 19. È qualcosa su cui pensare. Oggi è il momento giusto per chiedersi in quale direzione stanno andando questi Paesi. Quale tipo di stato si sta cercando di mettere in piedi? L’accesso per i poveri o per le persone a basso reddito, o anziane all’assistenza sanitaria è una questione che si ripropone ogni volta che c’è una crisi. Ma il virus ha reso questo chiarissimo: in assenza di una sicurezza sociale, economica e politica, una pandemia è quasi come una guerra di armati contro disarmati.

 

25 Marzo. Il permesso prezioso, ovvero il pass per il coprifuoco.

Il 24 marzo il lockdown e il coprifuoco sono stati dichiarati insieme, cogliendo di sorpresa la popolazione, e spingendola a correre a destra e a manca per organizzarsi in vista di questo improvviso sconvolgimento. Ho completato il mio vaccino antirabbico e ho deciso di provare a ottenere un permesso per spostarmi in un paesino vicino Shimla, o nella sua periferia. Avevo deciso che era il posto migliore in cui stare in affitto durante il lockdown, in solitudine. Il fatto che poi io non sia riuscita nel progetto, dopo aver atteso dalle dieci del mattino alle otto e mezza di sera il permesso firmato dal Collector, è un altro discorso. C’erano alcuni che erano arrivati all’ufficio del Collector alle otto del mattino! Tra quelli che aspettavano per il permesso da molte ore c’erano stranamente anche giornalisti della televisione e della carta stampata. Molti di loro non avevano neanche potuto coprire la prima metà del primo giorno del lockdown per stare lì in attesa. L’intero processo evidenziava il potere di una firma che decideva a chi era permesso, e a chi no, fare ciò che aveva richiesto. La firma, o la sua assenza, non è necessariamente basata sull’urgenza o il reale bisogno della persona. Talvolta, nel bel mezzo del lavoro, un parente del ministero o un amico, per una ragione misteriosa, otteneva il permesso, superando le altre persone in coda.

 

Tra quelli che aspettavano in fila c’erano alcune persone con storie pietose, e altri con storie bizzarre. E mentre il processo di concessione dei permessi proseguiva, il Collector all’improvviso se ne andava a causa di un’importante videoconferenza con qualche papavero del ministero.

 

La situazione era allo stesso modo molesta per tutti, per il Collector, per il suo assistente, per l’usciere, e per tutti quelli che aspettavano impazientemente la loro firma. Ogni battito d’ali nell’ufficio del Collector ne produceva uno analogo tra la gente che aspettava che la sua domanda fosse firmata. Fra quelli in attesa c’erano anche migranti analfabeti, che avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse a compilare la loro domanda, e che erano totalmente dipendenti dagli altri e inermi.

Come il lavoratore a giornata che veniva da Jammu, il cui contatto se n’era andato a Jammu, lasciandolo per strada, senza alcun riparo e sufficiente denaro.

Ad aspettare per il visto c’era anche un uomo con accanto il cadavere di un parente stretto, che doveva essere trasportato nel Punjab quello stesso giorno. Nel tempo che c’era voluto per ottenere il permesso di partire, il corpo era già stato restituito dall’obitorio e portato a lui in ambulanza. L’attesa per il permesso durò quasi cinque ore.

Un altro lavoratore a giornata accompagnato da un signore diabetico ha sopportato la rabbia dell’usciere più e più volte, cercando di spiegargli l’urgenza di portare il suo amico in ospedale. Finalmente, dopo aver atteso per quasi sei ore, ha ricevuto il permesso. Nel frattempo però l’ambulanza se ne era andata a causa di un’altra emergenza. L’uomo era tornato indietro, implorando che il termine “ambulanza” nella sua richiesta di permesso, potesse essere sostituito con “veicolo” in modo da poter prendere un taxi qualsiasi fino al Punjab. Nessuno ha saputo che cosa ne è stato di lui. I giornalisti, nel frattempo, non erano interessati a storie come questa; fino a quel momento neanche loro avevano il permesso per fare i reporter! O più semplicemente non gliene interessava molto. Io dovevo ottenere il permesso perché mi era stato consentito di stare nella guest house solo fino al 31 Marzo e non un giorno di più. Potevo avvertire la tensione tra tutta quella gente sbandata.

L’usciere era il più stressato di tutti, e si abbandonava alla rabbia e all’abuso quando la folla cominciava a pressare. I più poveri avevano più pazienza, benché le loro vite fossero letteralmente appese a quel pezzo di carta e a quella firma, e quindi non protestavano tanto quanto i più istruiti, incluse me, benché non ero la sola a non avere potuto toccare in quella attesa né cibo né acqua, per più di otto ore. Il ruolo del Reader (come viene designato), nell’ufficio del Collector, è il più scrupoloso di tutti. Non solamente deve leggere le domande, in fogli di carta compilati con scritture illeggibili in Hindi, ma anche interpretarle velocemete, tradurle (in inglese – dato che per qualche incomprensibile ragione il permesso deve essere in inglese) e sintetizzare in appena cinque righe tutto il contenuto. Una lunga lettera di candidatura – in cui si forniscono elaborate ragioni – diventa una breve nota con un timbro, una firma e una data, e un periodo di validità, entro il quale il permesso è valido. Che mirabile capacità di sintesi! E ci sono centinaia di domande da leggere, di continuo, senza sosta, dalle nove di mattina alle nove di sera. Giusto una brevissima pausa per un tè o un boccone, talvolta senza neanche staccare dal lavoro. Nel bel mezzo di tutto ciò, trovi anche, tra il personale, per quanto anche loro siano così sotto pressione, qualcuno che dimostri umanità e compassione per quei poveri sofferenti, offrendo tè o acqua, o anche semplicemente scambiando qualche parola. Quando finalmente il permesso arrivò, non prima comunque che un giornalista aiutasse a velocizzare il processo per tutti noi quella notte, avevo perso la voglia di partire, e sono crollata.

Questa fu la mia prima esperienza di richiesta di un permesso per il coprifuoco. Mi sono chiesta allora se non avrei dovuto invece prendere un permesso per poter tornare sul campo e riferire sulla situazione.

Invece, ho scelto di cercare un permesso per andare a vivere da qualche altra parte. Significava ancora qualcosa per me quel permesso, quando è arrivato? Cominciavo a dubitarne. Il cammino di ritorno – circa tre chilometri – dall’ufficio del Collector, fu ugualmente penoso, e per la prima volta, smarrii la strada, e ancora una volta trovai persone compassionevoli – facevano parte dello staff di un albergo a cinque stelle (e qualcuno di loro, tra parentesi, aveva protestato qualche mese prima per i tagli al personale) – che mi indicò la direzione, per non dimenticare i cani randagi che mi mostrarono la strada al backyard dell’hotel.

Il permesso, nel frattempo, andò a vuoto perché il mattino seguente io mi resi conto che c’è gente che sfrutta le persone in difficoltà. Invece di offrire aiuto ad una donna sola bloccata lì, preferiscono ricevere l’affitto nel loro conto in banca. Nel momento in cui ho pensato “solitudine”, avrei dovuto opporre a quel pensiero quello di “famiglia” e accettare l’invito e la generosità della famiglia, nel villaggio che amavo. E il permesso avrebbe avuto un cuore. E una valida ragione. Di certo ha più senso aiutare una famiglia rurale relativamente povera che dare un grosso affitto a proprietari di molteplici case, in molteplici città, e tenerle tutte sfitte. Molte persone che non sono dell’ Himachal, hanno le loro case estive in questo stato, la maggior parte delle quali chiuse per la maggior parte dell’anno, o affittate per prezzi esorbitanti. Non se ne parlava proprio di passare altre otto ore a cambiare il nome del villaggio ed essere di nuovo maltrattata dall’usciere! Mi sono anche reso conto che la gente offre aiuto per pura generosità dello spirito umano, piuttosto che per appartenenza politica, religiosa o altro. Quando questa generosità viene riversata su di noi, a volte è meglio accettarla in quel momento in cui viene elargita. I momenti sono di breve durata. E talora non tornano più. Ho sperimentato sia i cuori grandi che vivono in una stanza, che quelli piccoli che stanno negli appartamenti a tre stanze (stanza da letto, sala, cucina), sia in tempi normali che in tempi di crisi come questo. Quando Malli, il mio amico cane, era vivo, sono state le più piccole case a dare a entrambi i ripari più calorosi. In ogni caso, avendo imparato un’amara lezione da questa prima movimentata giornata, i permessi vengono ora forniti online, e anche le domande possono essere inoltrate online, almeno per quella gente che ha accesso ai computer. Non so per gli altri.

 

31 Marzo 2020. Viaggiatori da altre terre.

 

C’è un’umanità al di là di razza, nazione e cultura? Peter Smith e Sheela Sherwood, una coppia di anziani del Suffolk, Inghilterra, e Sebastian di Parigi, Francia, abitano in una residenza a Varkala, nel Kerala. Sono tutti arrivati in India prima che il virus assumesse le proporzioni di una pandemia. Mentre in tempi normali (e loro dovevano arrivare in Kerala prima), i turisti stranieri sarebbero stati più che benvenuti e sarebbero stati trattati come ospiti di riguardo, loro hanno sperimentato un leggero cambiamento nel comportamento della gente nei confronti degli “stranieri”, specialmente dopo che si è sparsa la voce che erano i turisti a portare il virus in India. Nonostante i pregiudizi, hanno comunque un padrone di casa gentile che li ha ospitati e soggiornano in un posto relativamente tranquillo, e quindi non l’hanno presa male. Peter e Sheela vedono che il loro governo non ha risposto alle loro richieste e non sanno se saranno aiutati a raggiungere casa loro, ora che il lockdown è in atto.

Pare che non abbiano ricevuto alcuna risposta alle loro mail sull’evoluzione dei piani del loro Paese a loro riguardo. Anche se stavano bene nella loro residenza, Peter diceva che era proprio l’assenza di una qualunque risposta a disturbarlo. Sebastian, d’altro canto, è felice di restare in Kerala per tutto il tempo della durata del suo visto (fino alla fine di giugno), perché si sente “a casa”; la Francia sta attraversando una crisi peggiore, a causa del Coronavirus, a suo parere. La pace e la quiete di un villaggio del Kerala sulla spiaggia è di gran lunga più accettabile dell’ondata di panico, benché sia molto preoccupato per i suoi genitori. Mi ha ricordato la mia idea per cui puoi rendere “casa” qualunque posto, se vuoi, se sei in pace con la tua situazione e con te stesso. E se tu accetti le culture e i popoli come fai con i tuoi, ogni posto è veramente casa. Al di là di confini e frontiere. Non c’è panico, né la sensazione di essere bloccati, in questi tre viaggiatori provenienti da differenti età, gruppi e Paesi. Ma c’è in definitiva un senso di preoccupazione per i loro vicini e i loro cari rimasti nei rispettivi Paesi e che si chiedono cosa ci riserverà il futuro. Sheela lavora in un pub mentre Peter è in una compagnia di costruzioni. Sebastian, nei giorni successivi, continuava a ricordarmi di altri turisti, dalla Svizzera e dalla Francia. Proprio come anche Peter e la sua compagna mi avevano detto, ho scoperto che, a quanto pare, il loro governo, quello del Regno Unito, ha messo in atto degli sforzi per riportare indietro dall’India i propri cittadini.

 

Personificazione di un Virus, espressioni culturali, idiomi religiosi.

C’è un messaggio di un dottore trasmesso sulla radio ogni giorno. Il dottore dice: “Questo virus ha un grande ego: non verrà nelle vostre case se non andate fuori e lo invitate. Così non uscire e non invitarlo. Stai a casa”. Poi ci sono messaggi nei quali il virus è chiamato un “demone”. Inizialmente, in gran parte, espressioni idiomatiche della guerra tratte dal Mahabharata (l’antico poema epico indiano di guerra); la conchiglia (in cui usualmente si soffia all’inizio di un rituale di buon auspicio), recitando un particolare verso sanscrito; lo yoga, e cose simili, sono stati costantemente enfatizzati nella “lotta contro il Coronavirus”. Che siano cristiane, buddiste, jaina, islamiche, Sikh o di differenti adivasi (comunità indigene), le preghiere o le espressioni idiomatiche non erano di solito visibili sulle piattaforme social o nella programmazione radiofonica abituale. Ma in ognuno di quei giorni, nel mese di marzo, sono stati diffusi alcuni messaggi di natura religiosa che la gente ha recepito. Uno di questi mirava a formare una “catena” di mille e otto persone per recitare un distico sanscrito (chiamato “Mrityunjaya mantra”, un verso dedicato al dio Hindu Shiva, creduto essere efficace nel custodire dalla morte e dalle malattie mortali); il 25 marzo, ho ricevuto notizie da una conoscente a Hyderabad a proposito di una recitazione comune di preghiere che si teneva in una sala vicino alla sua casa. Questo era successo il giorno in cui il Primo Ministro aveva dichiarato il coprifuoco “Janata” (del popolo). L’evento non era stato riportato, benché un giornalista era stato allertato al proposito. La stessa sera, di molte simili riunioni e processioni

(alcune con finalità religiose) si era data notizia in pochi canali televisivi in inglese e in hindi. Riunioni organizzate da gruppi di destra in piena vista rispetto al governo e all’amministrazione locale, durante il coprifuoco. Non si sa se un qualche provvedimento è stato preso contro queste persone a tale proposito. Il cinque aprile, il Primo Ministro dell’India ha fatto un altro appello pubblico alla popolazione per mostrare la propria gratitudine agli operatori sanitari in prima linea (“guerrieri del coronavirus”, come adesso vengono chiamati), facendo spegnere tutte le luci alle 9 pm per nove minuti (non sappiamo ancora il perché dei nove minuti) e chiedendo di accendere lampade o candele come gesto simbolico. Comunque, la gente non smette di farlo; molti sono usciti e hanno sparato petardi, nonostante il coprifuoco. Può essere osservato come in India la gente, di solito, accende petardi durante una festa della luce chiamata Dipavali; e nel sud dell’India, durante un’altra festa rituale celebrata in inverno. Ma ovviamente fanno questo anche in occasione della vittoria di un partito alle elezioni, o se l’India vince la partita di cricket, ai matrimoni e quando nasce un bambino. Ma sparare petardi quella notte è stato interpretato come assecondare un certo tipo di ritualità religiosa. Un agente immobiliare del Punjab che è anche un attivista sociale e politico (e al momento è impegnato a fornire cibo ai lavoratori migranti di alcuni cantieri del Punjab) mi ha suggerito la seguente interpretazione politica: una sorta di celebrazione del giorno della fondazione del maggiore partito dell’India, il BJP, che sarebbe caduta il giorno successivo, e dato che i petardi erano stati distribuiti per queste celebrazioni (senza Coronavirus, se le cose fossero state normali), i lavoratori e i sostenitori del partito forse li avevano usati per accenderli il giorno della manifestazione delle lampade, dimenticando il gran numero di persone che erano morte e la solennità del gesto nei confronti del personale medico e della sua corsa contro il tempo in tutto il mondo, e non solo in India. Forse questa è una spiegazione: una festa, un’affermazione egemonica e un’affermazione? Forse il virus non ha il potere di alterare troppo il discorso. O forse sì?

 

Come sarà il domani?

Mio nipote in Africa mi ha suggerito le immense possibilità di questa immersione mondiale nel silenzio (in mezzo alla pandemia): forse un giorno o una settimana di ogni mese potrebbe essere dedicata ai silenzi, con un approccio non monetario e con moderazione nei consumi. Liberare la terra, lasciarla respirare, lasciare che gli uccelli e gli animali e tutto ciò che è vita non umana semplicemente siano, in modo da avere spazi più puri di aria, di terra e di oceani. Così ci sarebbe una pausa all’interferenza umana e forse un modo per mitigare il cambiamento climatico. Il virus sembra volerci far comprendere che il momento presente non può continuare per sempre. E lo stato deve necessariamente lavorare a partire da una base più equa se vuole che la terra e tutto ciò che essa contiene continuino ad esistere.

(traduzione di Rosario G. Scalia, foto di R. Umamaheshwari)

 

Rimbaud fotografo

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di Ornella Tajani

Esistono sette fotografie scattate da Rimbaud in Etiopia, oltre a tre che gli sono state attribuite dall’esploratore austriaco Philipp Paulitschke a seguito del suo viaggio nel Corno d’Africa nel 1885; Hugues Fontaine le ha raccolte in un volume dal titolo Arthur Rimbaud photographe (Textuel, 2020).

Guardare questi scatti è vedere attraverso gli occhi del poeta veggente; dev’essere per questo che i paesaggi e i ritratti emozionano più degli autoritratti. Ad aggiungere poesia contribuisce il dettaglio che le sette foto di paternità certa sono state purtroppo mal sviluppate e diverranno col tempo completamente bianche: «Ces photographies sont volatiles à l’image de l’homme aux semelles de vent», ha scritto Lucille Pennel, direttrice del Musée Arthur Rimbaud di Charleville-Mézières.

Paternità certa – 1883

Paternità certa

Attribuita

Attribuita

 

per approfondimenti https://www.franceculture.fr/photographie/rimbaud-photographe-en-abyssinie 

 

QUANDO LA POESIA SI TINGE DI GIALLO

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di Bruno Morchio

Già il titolo di questo romanzo (Antonella Grandicelli, Il respiro dell’alba, Fratelli Frilli Editori, 2021) suggerisce al lettore in quale insidioso territorio si sta inoltrando. L’assunto di Manchette, ispirato alla prosa di Dashiell Hammett, che la scrittura del noir (o polar, da distinguere dal tranquillizzante e consolatorio policier) debba essere basica, di grado zero, nel tempo è andato a farsi benedire. Peraltro, a smentirlo ci aveva già pensato un certo Raymond Chandler, che con Hammett è stato il fondatore dell’hard-boyled americano.
Così in Europa, dopo la scrittura “oggettiva” di Simenon, abbiamo conosciuto la prosa altamente letteraria di Vázquez Montalbán e quella lirica di Jean-Claude Izzo.
Succede, quando i poeti si mettono a scrivere gialli.
È il caso di questo romanzo, che da Montalbán prende in prestito anche l’ossatura narrativa: una persona che il protagonista ha conosciuto nel passato viene uccisa e l’indagine ne ricostruisce il percorso e la fisionomia, così come si è evoluta nel tempo, grazie alle testimonianze di coloro che la hanno frequentata e conosciuta.
Lucia Senarego, figlia di una famiglia dell’alta borghesia genovese, viene trovata morta annegata nelle acque di Vernazzola. I due acciaccati protagonisti, il commissario Vassallo e il poeta (eccolo lì!) Luigi Martines, che con Lucia aveva trascorso indimenticabili vacanze estive in quel di Casella ai tempi dell’infanzia e dell’adolescenza, sono convinti che la donna sia stata uccisa, ma il Potere che emana dai Senarego fa di tutto perché questa ipotesi sia esclusa a priori, al punto che la ricerca della verità (per tacere della giustizia) diventa operazione illegale perfino per un tutore ufficiale della legge.
Della trama non direi altro, se non che è ben articolata in un intreccio che incolla il lettore alla pagina, con tutti gli artifici del caso, a cominciare dal cliffhanger, che lo lascia “appeso” ogni volta che si cambia prospettiva passando da una voce narrante all’altra (Vassallo/Martines); da rilevare come i personaggi emergano a tutto tondo e soprattutto il crescendo di empatia generata dal tragico destino della vittima, a cui, come deve essere, la letteratura restituisce dignità di personaggio misterioso e poliedrico e, in ultima analisi, mitico.
Insomma, un romanzo che non ci lascia mancare niente, compresa la conclusione, che ci rimanda di nuovo alla lezione di alcuni grandi, fra cui Dürrenmatt e ancora Montalbán, riguardo alla problematicità della verità a cui approdano le indagini di polizia.
Ma quello che  qui ci preme sottolineare, come suggerisce il titolo, è la qualità della scrittura. Procediamo a brettio, con un florilegio di citazioni casuali che meglio di qualunque considerazione danno l’idea di che cosa stiamo parlando: “Il vetro mi rimandò i suoi lineamenti tesi negli occhi socchiusi, le labbra tirate, il corpo inquieto come l’aria prima della pioggia” (p. 33); “Nonostante suor Ludovica tentasse di apparire indifferente, il suo fastidio… emergeva come l’odore di stantio quando si apre un armadio chiuso da mesi” (p.137); “Fuori la sera aveva un colore bastardo, smarrito”  (p. 163); “Sui gradini del portone, ingialliti come i denti di una vecchia” (p. 164); “La madre, un osso liscio, senza imperfezioni, bianco e cereo” (p. 167); “Al passaggio di un tiro secco di tramontana il silenzio si arruffava” (p. 169); “Il cielo era sereno e intenso, l’aria frizzante, quasi primaverile, se non fosse stato per quella patina di rassegnazione dorata che la luce d’ottobre posa sulle foglie degli alberi” (p. 182); “Lucia che aveva luce negli occhi, che aveva gambe e sogni lesti, che strappava l’erba per sentirne il profumo di vita” (p. 206); “Mi avviai, nel pomeriggio che aveva già con sé i colori della notte” (p. 208); “Ancora una volta Vittoria usava Lucia per tenere saldo lo steccato bianco che circondava la sua reputazione” (p. 222); “Le mie parole avevano il gusto amaro della ruggine” (p. 278); “Un sorriso gli tagliò la faccia” (p. 300).
È chiaro adesso? Altro che scrittura “oggettiva”!
Qualcuno si chiederà se questo  genere di prosa sia “adatto” al genere; personalmente rovescio la domanda e mi chiedo che cosa possa ravvivare un genere così ubiquitariamente praticato (oggi chi viene trombato alle elezioni, va in pensione, litiga con il capoufficio, è mollato dalla moglie o dalla fidanzata, che cosa può fare di meglio che scrivere un giallo?) non abbia un disperato bisogno di letteratura, cioè di trarre il meglio in fatto di trame, situazioni drammatiche e scrittura, dalla grande letteratura (dai classici greci fino ai maestri del Novecento, noiristi e no).
L’autrice, che è una lettrice vorace e pratica per studi e per lavoro diverse lingue straniere, è per certo sulla buona strada. Consigli: lavorare sui dialoghi e sull’editing. Ma questo, si sa, è un processo che per ciascuno di noi non finisce mai.

Ossitocina

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di Giacomo Sartori

La mia nuova compagna, io dico fidanzata, ha molti meno anni di me, potrebbe essere mia figlia. E davvero ogni tanto qualcuno chiede se è mia figlia, il che è imbarazzante. Più frequentemente le persone capiscono alla prima occhiata come stanno le cose, e mi fissano come si guarda un vecchio libidinoso che si tira appresso una ragazzina, perché è pieno di soldi o perché esercita qualche forma di depravato dominio, o anche che senza saperlo si lascia intortare da una che ha scelto di indossare i panni dell’intortata. Manco a farlo apposta dimostra molti meno anni di quelli che ha, il che peggiora le cose. Fino a questo momento non mi ero mai reso conto di quanto siano nocivi gli occhi delle persone, quanto siano pericolosi. Sono sciabolate, tra le quali si deve sgusciare riuscendo a non farsi ferire.
Da quando sto con lei mi guardo allo specchio, e mi sembra che la decadenza del mio corpo sia ormai irrimediabile. O meglio, davanti allo specchio riesco in qualche modo a giocare con le angolazioni e l’illuminazione, o anche solo con la pietà nei confronti di me stesso, è quando vedo una mia immagine che rimango colpito da quanto il mio viso sia scomposto, inciso, devastato. Spesso ci facciamo dei selfie: lo vuole lei, io finora non avevo mai fatto dei selfie, e mai più avrei pensato che un giorno mi sarei ritrovato a farne. Le prime volte risultavo sempre davanti, parevo una maschera barocca, un teatrante grottesco. Ora cerco di defilarmi dietro a lei, in modo che le rughe e le borse della mia pelle siano meno impressionanti. Ma continuano pur sempre a imporsi e a concentrare l’attenzione su di loro: certe cose non si possono aggiustare solo con la volontà.
Cerco allora di tenermi in forma. Lo facevo anche prima, ma adesso non è più per contrastare i miei mali cronici, o insomma non è più solo per quello, ma per piacerle, o più precisamente per non disgustarla. Vado in piscina, cammino, mi stiro utilizzando le posizioni yoga che conosco. Certi giorni faccio addirittura dei piegamenti sulle braccia, che non ho mai fatto. Mi dico che è importante che il mio corpo non sia troppo cascante, mi pinzo con le dita per verificare le varie parti.
E cerco soprattutto di non avere peli nel naso e nelle orecchie: mi strappo con la pinzetta metallica quelli nelle narici, facendomi male, e delle orecchie, pinzandomi la pelle, e mi taglio con il rasoietto quelli sul collo. Cerco di fare del mio meglio, ma c’è sempre qualche pelo disordinato che resta: lei avvicina due dita fulminee e me lo strappa con un movimento deciso e per certi versi trionfante. Poi continua quello che stava facendo, senza commentare, ma insomma chi vuole capire capisce.
Un giorno mi ha confessato che ha paura che io muoia. Io le ho detto che sempre quando si ama si ha paura che la morte ci porti via la persona che amiamo. Lei allora mi ha chiesto se anch’io ho paura che lei muoia. Sei così giovane, le ho detto io, che con lei sono sempre sincero. La mia morte, che si impone adesso a me stesso, mi protegge dalla sua, mi sono accorto, dal timore della sua.
Se potessi con lei starei sempre in casa, o meglio ancora nell’intimità del letto. All’inizio non era tanto facile stare bene bene incollati, tra i nostri corpi rimanevano dei vuoti. Perché non potevo avvicinarmi troppo alle sue parti doloranti – a dispetto della giovinezza ha già parecchi acciacchi -, o insomma non avevo imparato a venircene fuori senza farle male, o anche solo i nostri angoli non si incastravano a dovere, facevano leva. Per quanto si facesse tra noi rimaneva spesso un braccio di cui non si sapeva cosa fare, come un bagaglio che non si sa dove mettere. I tentativi erano sforzati, e quasi sempre deludenti.
Adesso invece abbiamo imparato a fare aderire alla perfezione le nostre pelli: lei si stringe nel cavo del mio braccio appoggiata giù e giù al mio corpo, senza alcuna tasca di aria o di diffidenza, con i capelli che pigiano sul mio collo e i piedi che abbracciano i miei. O anche si schiaccia contro la mia schiena, risucchiandomi come una grande ventosa, e incollando le ginocchia nel cavo delle mie. O sono io che mi incollo alla sua schiena, con il braccio a fare pressione sul seno per ridurre a niente ogni distanza, per spremere fuori dai nostri corpi fino all’ultima molecola di ossitocina. Anche per incollarsi, per arrivare a farlo alla perfezione, ci è voluto del tempo, come per il resto.

(Parigi, 27 settembre 2018)

(l’immagine: Pierrette Bloch, “Sans Titre”, Encre sur papier, 76×57 cm, 2004, selvaggiamente fotografato)

COPRIS UMBILICATUS

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di Tommaso Lisa

“Merdre!”

Alfred Jarry, Ubu Re

 

Cosa ci faccio da fin troppo tempo chinato su un grande secchio di plastica rossa al centro di uno spiazzo assolato prossimo ad una fonte?

Avrò avuto poco meno di tredici anni; è tarda primavera e mi trovo in campagna, alle pendici del monte della Calvana, sopra la città di Prato, ma potrebbe benissimo essere il frammento di un sogno, un falso ricordo o un’allucinazione. Eppure sono proprio io che mi specchio ormai da molti minuti consecutivi in questa grottesca opera di basso materialismo: un secchio che si va riempiendo d’acqua e di sterco ovino. Resto quasi accecato da un’iniziale forma di miopia, effettivamente diagnosticatami dall’oculista, che induce però una distorsione semantica dell’oggetto in funzione di una visione puramente scatologica. Posto di fronte a tale scena primaria, a quest’autentica trasgressione, il linguaggio quasi non ha più potere. Ma non c’è dubbio che i molteplici riflessi cangianti e oleosi, variegati dal verde, al marrone fino al blu di tale melma, dovuti ai composti chimici dei liquami, valgono per me quanto quelli di un diamante.

Qualcuno, che calza dei grandi stivali impermeabili marroni, continua a riempire fino al colmo il contenitore di bitorzoluti escrementi raccolti nei pascoli limitrofi, diluendoli in quell’acqua via via sempre più scura. Io, chinato, non distinguo altro che le lunghe gambe e i pantaloni di velluto di questa che resta nel ricordo una statua acefala. Devo evidentemente subire una profonda fascinazione incantatoria da questi cretti affioranti in superficie, eruzioni vulcaniche a corda, deiezioni di pecora che galleggiano sulla superficie divenuta nel frattempo perturbante come una combustione di Burri. Lo sterco ricopre tutto lo spazio navigabile tranne alcuni buchi, isolette di vuoto che rimandano ad un oltre, a un sotto ancor più scuro. Eppure da questo magma indifferenziato emergono dei segni brulicanti di vita, creature lucide, dotate di dure e zigrinate zampe fossorie. Immagini di fenditure geologiche ctonie profonde che preannunciano il senso della catastrofe, testimonianza di un’inesorabile assenza.

Mi sono formato così. Ho forgiato il mio carattere individuale e la mia estetica nella materia, su queste emozioni primigenie. Altro che calchi di Bruce Nauman, altro che le spirali di Robert Smithson o alle architetture dissezionate di Gordon Matta-Clark! In tale celebrazione dell’inarticolato, naturale e impossibile da regimentare nella vetrina di una galleria d’arte, ricordo per certo di aver avuto una lucida epifania del mondo, sostituendo al linguaggio una silenziosa contemplazione. Sono stato lì, muto, per diversi minuti, la bocca spalancata e gli occhi sgranati, a contemplare – in estasi, quasi in preghiera – la melma limacciosa di quel secchio divenuto sacro, in cerca di scarabei. Le opache venature cangianti del limo e i riflessi del cielo azzurro elettrico del maggio inoltrato facevano da specchio agli affioramenti di Aphodius ed Ontophagus di taglie infime, minuscole, sempre inferiori al mezzo centimetro. E più il tempo trascorreva e più nel secchio era un ribollire di vita, di escrescenze, poiché l’acqua scioglieva quelle feci di capre e pecore, schiudendo alla vista la miriade di Scarabeidi appartenenti ai più svariati generi, oltra a numerosi e variopinti Isteridi, a lunghi e serpentiformi Stafilini.

Con delle pinze d’acciaio cromato smisuratamente lunghe, clownesche, ho iniziato ad estrarre, dalla superficie stagnante di quel secchio sporco i minuscoli corpi zampettanti. Ero entomologo e questo spettacolo toccava in sorte alla mia vocazione. Quale fascino esercitasse su di me la ripugnante materialità dell’essenza vitale è difficile dire adesso senza mentire. Era dal mio stesso corpo, dal profondo delle viscere di terra che stavo accortamente estraendo singoli esemplari in parte rappresi in frammenti filamentosi simili ad alghe, il senso. E scopro per la prima volta quanto sia faticoso la meticolosa e prolungata azione di cavare dalla materia il significato, dire il non detto. Onthophagus vacca, fracticornis, verticicornis. Ecco un Aphodius fossor, nero e grosso, e poi scrutator, erraticus… Tutto ciò perché sapevo già alcuni dei loro nomi: il linguaggio era tornato ad esercitare il proprio potere sulla realtà, informandola, setacciando, scindendo e posizionando ogni cosa su una corrispettiva scala di valori. Ogni tanto affiorava anche qualche grande Copris dal grande corno. Bisognava prenderli tutti e stare attenti nel distinguere poi, in studio, se si trattasse di lunaris o del ben più raro endemismo chiamato umbilicatus. Eppure tutta quella massa informe aveva anche un alto valore d’uso, essendo un ottimo concime. Non avrebbe torto il contadino a lamentarne la sottrazione dal prato dove aveva portato gli armenti a pascolare. Un alto valore d’uso agricolo ed un grande valore simbolico, nel momento in cui vidi affiorare, come fosse una pagliuzza d’oro, il raro esemplare tipico del luogo, il genius loci del Copris umbilicatus descritto per la prima volta da Abeille de Perrin nel 1901. La specie si distingue dalle altre, più comuni, per un piccolo ombelico al centro della spina sternale.

Come la volta che scalai la Calvana fuori da ogni sentiero, molti anni più tardi, perdendomi in un inestricabile macchione di rovi. Il sole stava tramontando in quella fine inverno che da purgatoriale stava diventando senz’ombra di dubbio un vero inferno tanto che dovetti strisciare sotto un cespuglio inestricabile di rami, nelle gallerie dei cinghiali, una muraglia insormontabile di cespugli spinosi da tutti i lati in tutte le direzioni. Sopraffatto, stavo per chiamare i Carabinieri per farmi venire a soccorrere quando per terra ho visto uno scarabeo trottare tra le erbe e lo sterco di cinghiale. Non ci crederete ma quello scarabeo mi guidò fuori dal macchione e mi fece ritrovare il sentiero. Rimesto nel ricordo, in questa melma psichica intorno a questo paesaggio carsico di meati e di doline, e più mescolo, più vado a fondo. Sprofondo alla scoperta dell’inconscio. In quel secchio melmoso della mia adolescenza, sulle pendici della Calvana, navigava una città altrimenti giacente sepolta sotto lo sterco, invisibile agli occhi.  Quei pallidi coleotteri cheratinosi, splendide forme sclerotizzate in corni vertiginosi, spine, elitre solcate e sterni carenati. Reliquie. Tra tutte loro emergeva, indimenticabile e grosso come un bottone di un vecchio capotto, il Copris umbilicatus. Ombelico del mondo, omphalos, tra betili di sterco che si ergevano attorno a me.

Nazione Indiana compie 18 anni e cambia… veste

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a Mariasole Ariot
alle sue piume leggere e stilizzate
che sono volate lievi
nel logo di Nazione Indiana

“… si può fondare una revisione di tutta l’istituzione stilistica novecentesca (da farsi appunto in gran parte risalire alla ricerca pascoliana).”
[Pier Paolo Pasolini, Pascoli, “Passione e ideologia” p. 291, Milano, Garzanti]

di Orsola Puecher

Nazione Indiana ha raggiunto la maggiore età e cambia veste grafica. Sono passati già 18 anni dal lontano 2003, anno della sua fondazione. In questo lungo periodo di tempo si sono avvicendati moltissimi redattori e alcuni veterani, Andrea Inglese, Helena Janeczek, Gianni Biondillo, dal 2004, e Jan Reister, dal 2005, sono ancora qui.

Come è solito dire Gianni Biondillo “un indiano è per sempre”, come i diamanti, non so se sia vero per tutti, ma il passaggio indiano è stato una tappa importante, scritta nella storia del web e delle riviste web, scritta nel diventare via via sempre più preminente della dimensione virtuale e digitale del giornalismo, della letteratura, della critica letteraria.

Per moltissimi Nazione Indiana è stata un punto di partenza e un trampolino di lancio.

Questa ricorrenza marzolina e primaverile, il ⇨ COMPLEANNO DI NAZIONE INDIANA, è stata festeggiata per un po’ di anni, come se ci si sorprendesse, dopo la scissione iniziale, della sopravvivenza e della longevità del progetto, del “miracolo” del suo proseguire, poi non ci si è più pensato, come per certe signore che non ci tengono tanto a far sapere la loro età, o forse, piuttosto, per l’assimilata sicurezza di una continuità solida e in evoluzione.

da ⇨ CHI SIAMO

L’organizzazione di Nazione Indiana è decentrata, orizzontale, rizomatica. Non esiste una redazione centrale e fisica, non ci sono posizioni unanimi, ma singole autonomie individuali disseminate in luoghi e nazioni diverse, che interagiscono e collaborano in una particolare armonia, sconclusionata e magica, trovando a volte l’occasione di formulare progetti collettivi e di incontrarsi, non solo virtualmente, organizzando feste e convegni annuali.

Questa armonia, sconclusionata e magica attiene anche al restyling grafico del sito, che ancora una volta è arrivato a una conclusione dopo una gestazione complessa, intermittente, dilazionata nel tempo, lontana nello spazio, fra momenti di entusiasmo e di sconforto, di difficoltà tecniche e di progettazione.

Dallo scorso 21 marzo, dopo un periodo di necessario rodaggio, ora siamo a una versione stabile e definitiva.

Come sempre, qui, quando viene proposta un’idea, molti la discutono, ognuno manifesta le proprie esigenze, i propri dissensi, qualcun altro si eclissa, in pochi si collabora praticamente alla sua realizzazione. C’è chi ha conoscenze professionali della materia, chi si professa webmaster empirico e intuitivo, chi generoso di disponibilità, tempo ed energie sta sempre lì, sul pezzo, pungolando e stimolando.

Sono particolarmente felice e orgogliosa che questa progettazione collettiva del nuovo sito di Nazione Indiana sia avvenuta con successo proprio in questo anno così difficile per tutti, dove il lavoro artistico e culturale sembrano essere negletti e relegati in secondo piano dall’emergenza pandemica.

Guardando gli screenshot della homepage dall’inizio, dal 2003 in poi, si evidenzia il cambiamento non solo grafico ma sostanziale della veste tipografica e del template.

2003

2005

2007

 
Dal blogroll, il blog a rullo, con i contenuti impilati in verticale, più adatto a uno spazio personale, come infatti è nella storia della nascita del blog, strumento elettivo per mettere i propri contenuti individuali online in una successione temporale, siamo arrivati nel 2012 a una visione più adatta a una dimensione collettiva, da rivista, che potesse contenere in una schermata, in ogni scroll, più informazioni possibili.

Dalle prime versioni un po’ calviniste e iconoclaste, con rare piccole immagini francobollo, abbiamo sentito l’esigenza di dare alla parte iconografica maggior rilievo e organicità rispetto ai testi.

Se la homepage ha ristretto i singoli post in una griglia più fruibile e navigabile, la pagina degli articoli invece si è allargata a una migliore leggibilità dei contenuti dei testi, con uno spazio maggiore per gli aspetti visuali e multimediali.

2011

2012

2021

  • Fra le novità di questa ultima trasformazione forse la più importante è la possibilità di valorizzare finalmente l’immenso archivio di Nazione Indiana, gli 11.900 e passa articoli, in crescita giornaliera, finora pubblicati, il corpus del lavoro degli attuali componenti della redazione insieme quello dei redattori del passato e degli ospiti, di cui siamo i custodi: con la rubrica dall’archivio, nel colonnino di destra, che cambia casualmente, ogni volta che si aggiorna la pagina, emergono a sorpresa post e autori dell’archeologia indiana, che altrimenti se ne starebbero sepolti negli strati geologici del retrobottega. Siamo il presente ma anche e sempre il passato da cui siamo germogliati.
  • Le categorie in cui sono catalogati gli articoli sono state rese disponibili per una consultazione rapida.
  • L’inchiesta La responsabilità dell’autore, del 2010, ma sempre importante e attuale, è stata rimessa in evidenza.
  • Alcune rubriche molto belle e in progress come Mots-clés e cinéDIMANCHE, hanno trovato uno spazio grafico consono.
  • Sta decollando anche una nuova rubrica di instant post, al volo, con articoli più brevi, segnalazioni, colpi d’occhio fulminanti.
  • Abbiamo dismesso le antiche penne, ma non il loro significato di appartenza a una “nazione composta da molti popoli orgogliosamente diversi e liberi” e Mariasole Ariot ha distillato delle nuove piume per il nostro logo.

Che altro dire? Buona lettura a tutti e buon lavoro ai redattori di Nazione Indiana, che ancora tengono viva e vitale questa bellissima avventura.

Immagini dal passato da ⇨ WaybackMachine/WebArchive

Brexit _ di James Noël

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Brexit è un poemetto di James Noël, pubblicato contemporaneamente in francese per Au Diable Vauvert e in italiano per le edizioni Cafoscarina, a cura di Giuseppe Sofo (2020). La traduzione è frutto di una cooperazione fra studenti e docente, che Sofo racconta in maniera dettagliata e brillante nel saggio posto in chiusura di volume, mostrando le potenzialità, le specificità e l’interesse della pratica collaborativa. Protagonisti di tale pratica sono stati, insieme a lui: Marco Boschetti, Angela Domazetoska, Anna Efremova, Michela Nessi, Valentina Piotto, Anna Schileo, Erica Vianello.

“Oggetto volante non identificato”, nelle parole dell’autore, Brexit è a metà “fra un pamphlet e un divertissement”, come descritto in quarta di copertina. Ne propongo qualche estratto; l’edizione pubblicata presenta il testo a fronte. [ot]

_

La Brexit mi eccita
È incredibile
È la prima volta
Che una nazione si butta dalla finestra
In pieno orgasmo
……………………………..
Schiavi della defenestrazione

*

Era la strada giusta per l’Inghilterra
E per la regina
E per l’autobus
…………………………..
La borsa saliva come il desiderio
E al culmine dell’eccitazione
Bingo
Ecco il break

*

La Brexit non è uno scivolo d’emergenza Né un’uscita di sicurezza Né una scala a chiocciola La Brexit non è un lungo tunnel Né un faro che brilla solitario nella notte La Brexit non è un tratto di strada Né un terminal che si ingozza di passi in ogni direzione La Brexit non è una culotte Né una coperta Né una bandiera Nemmeno un perizoma che pesa poco o niente

[…]

La Brexit è uno stato di trance Un passo nel vuoto Un salto nel letto Un’ovvietà Un fenomeno naturale Una sensazione Una dissonanza

*

È forse un open-bar
La Brexit
Perché
Questo bel mondo risvegliatosi intontito
Dall’altra parte

E questi corpi che galleggiano
Made in Mediterraneo
Hanno sbagliato festa
E paradisi
fiscali
Artificiali

E questi corpi che galleggiano
Hanno sbagliato impero
E paradisi
Artificiali

*

In che stato
Si trova il cuore
Quando non si riesce a lasciarsi

– Più grande del normale
– Più vivo che mai
– Impulsivo
– Adesivo
– Esplosivo

Ditemi
In che stato
È il cuore
Quando non si riesce a lasciarsi

Bisogna sotterrare l’ascia di guerra
O continuare senza senso
A constatare amichevolmente di amarsi
Come buoni vicini
Che si rispettano
E si guardano attraverso la chiusura lampo

Insaziabile
E in stato confusionale
È lo stato dell’Unione

– Ti verso da bere Miss Beautiful?
– Burk
Il verso libero non fa per me

– Prova da un’altra parte
Non ho tempo per chiacchierare al bancone

la seconda fregata

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sento dalla radio stamani che la seconda fregata che vendiamo all’Egitto sta ormai navigando verso quel paese. Forse per compensare il fatto che l’Egitto, nella persona del suo dittatore Abdel Fattah Al-Sisi e della sua cricca, ci sta continuamente fregando. Dopo quello che hanno fatto a Giulio Regeni e quello che stanno facendo a Patrick Zaki, noi manteniamo un solido commercio, anche di armi, con questa gentaglia, addestriamo i loro poliziotti in Sardegna, insegniamo forse loro a torturare meglio? Il nostro ambasciatore al Cairo, ritirato per poco tempo, è ancora lì che mantiene cortesi e diplomatici rapporti? Cosa ne è della causa intentata dai genitori di Regeni allo stato italiano per la vendita di armi a un paese che non rispetta i diritti umani, violando così un’apposita legge dello stato di qualche anno fa? Il Draghi che è così tanto cattolico confonde forse, dato il suo passato, il Dio trino col dio quattrino?