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Hagard

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di Lukas Bärfuss

(Per gentile concessione de L’Orma Editore, pubblichiamo un estratto, le prime pagine, da Hagard, romanzo di Lukas Bärfuss tradotto da Marco Federici Solari, e da pochi giorni in libreria. L’autore (1971), scrittore, saggista e drammaturgo svizzero, è tra le più importanti voci del panorama letterario di lingua tedesca. In seguito alla pubblicazione di Hagard è stato insignito del prestigioso premio Georg Büchner)

Da troppo tempo tento di comprendere la storia di Philip. Vorrei scoprire il mistero che nasconde. E per l’ennesima volta ho fallito, incapace di decifrare l’enigma delle immagini che mi perseguitano, immagini crudeli e comiche come in ogni racconto in cui desiderio e morte si incontrano.

So tutto, e non comprendo nulla. La successione degli eventi mi è chiara. So come inizia la storia, conosco il giorno, e conosco il luogo: il chioschetto dei brezel davanti ai grandi magazzini di piazza Bellevue. So quando finisce, ossia dopo trentasei ore, nel primo mattino di giovedì tredici marzo, su un balcone da qualche parte in periferia. Anche gli avvenimenti tra quell’inizio e quella fine sono stati appurati: la questione della pelliccia, la prima notte passata in macchina al freddo e al gelo, il portafoglio smarrito, la gazza, la scarpa perduta, la morte del matematico giapponese… tutto ciò è ormai chiaro come il sole. Le circostanze, però, le condizioni che hanno reso possibile quegli eventi restano celate. Quanto più mi riesce di precisare i dettagli, tanto più il mondo dove la storia si è svolta si fa spettrale. Si potrebbe pensare che mi capiti come a quel tipo che a furia di fissare gli alberi non vedeva più la foresta; solo che la foresta – su questo voglio insistere – è una pura ipotesi, un sistema astratto non riscontrabile nella realtà. La foresta si dissolve in singoli alberi proprio come il cielo si dissolve in singoli pianeti, stelle e meteore.

Dopo numerosi tentativi andati a vuoto di trovare un filo conduttore tra le immagini, sono giunto alla conclusione che non sia tanto la storia in sé a sfuggirmi. Il punto è il mio coinvolgimento; voglio scoprire cosa abbiano da dirmi quelle visioni in grado di affascinarmi, incantarmi e a volte condurmi sull’orlo della follia. Mi sono convinto che la mia esistenza sia appesa a questa storia, però, allo stesso tempo, sono consapevole di quanto sia ridicola questa idea; non ho nulla da temere: potrei accantonare gli eventi di quei giorni di marzo e non mi accadrebbe niente. La mia vita proseguirebbe come prima. A pensarci bene, per salvarmi mi basterebbe riuscire ad ammettere definitivamente il mio fallimento. Benché sembri semplicissima, la storia di Philip è troppo grande per me. È come se a ogni tentativo dimenticassi sempre qualcosa, un qualche dettaglio essenziale, come se mi sfuggisse l’indizio capace di mettermi sulla giusta traccia. Quante volte ho giurato di lasciar perdere, ingannando me stesso come l’ubriaco con l’ultimo bicchiere. Sono un giocatore che, a un passo dalla bancarotta, si fa dare di nuovo le carte… Voglio rischiare, tentare ancora un’altra volta, far risorgere gli eventi un’altra volta ancora, e poi che tutto resti pure così com’è.

Sì, la mia frenesia non mi ha dato pace. Anch’io ho le mie ossessioni, ovvio, e come tutti me le tengo volentieri per me. Non perché mi vergogni, alcune semplicemente stonano con l’immagine che ho di me stesso e che ormai, a metà della mia vita, coincide con quella che hanno i miei simili: un uomo con molte debolezze e ancor più principi. Ma l’eros non si cura dell’immagine che abbiamo di noi, al contrario spesso sembra quasi sforzarsi di contraddirla. Tutti hanno il loro lato oscuro, così almeno si dice, ma col tempo ho compreso quanto poco questa oscurità sia da intendersi in senso morale. Le tenebre non vanno associate con il male così come la luce non va legata al bene. La parte buia è quella in cui manca la luce, nient’altro; e mi ci è voluto del tempo per capire che di notte i gatti sono per davvero neri, non lo sembrano soltanto: sono proprio privi di colore. Come ci sono arrivato? Ah, sì, le mie ossessioni. Mi vengono in mente Le confessioni di Rousseau, che ho letto qualche anno fa. Se non ricordo male, l’autore comincia a scrivere un resoconto completo e del tutto sincero sulla propria persona, senza escludere nulla con intenzione: tralascerà di raccontare solo quello che ha dimenticato. Ricordo quanto poco mi fossi fidato di quel proposito, mi pareva una trovata da scrittore, erano «parole vuote», come si suol dire, e ho continuato a diffidare dell’autore fino al punto in cui narra delle sue preferenze sessuali. Non riesco a ricordare in che termini ne parli, so soltanto quanto mi abbiano colpito e come da quel momento in poi io abbia prestato fede alle sue affermazioni. Dovrei dunque rivelare anch’io le mie perversioni per rendere credibile questo racconto?

Alcuni aspetti della storia di Philip mi imbarazzano, e non sono i momenti bizzarri, osceni e malati che pure vi si trovano. Piuttosto non riesco a rassegnarmi alla futilità di certi dettagli. Sono molti gli elementi che paiono quasi insignificanti e del tutto banali. Ad esempio, per me sarebbe più facile se l’attenzione di Philip non fosse stata catturata da quelle ballerine color prugna, un paio di normalissime scarpe basse che da tempo non sono più appannaggio esclusivo delle danzatrici. Calzature acquistabili per pochi soldi, reperibili in qualunque negozio, nelle forme più diverse, cucite o incollate, con o senza fiocchetto, opache o laccate, in ogni tinta possibile e immaginabile. E che nel nostro caso fossero ben rifinite e di una pregiata pelle di vitello non cambia nulla rispetto al dato di fatto: all’inizio di questa storia c’è un paio di scarpe da donna.

L’inizio? Non è mica una cosa facile. Nessuno può sta­bilire con quale evento prenda avvio una storia. In principio Dio creò il cielo e la terra, così è scritto, ma prima che ha combinato? E qualunque cosa fosse, perché non fa parte del principio? I fisici, che sostituiscono Dio con il Big Bang, obietteranno che la domanda è assurda perché presuppone il tempo, e questo prima di Dio o del Big Bang non esisteva. I libri e i film pretendono di cominciare, ma nella realtà a partire da quel primo inizio non esiste più nessun altro inizio. E, per inciso, neppure alcuna fine, se può essere di una qualche consolazione. L’Uno fluisce nell’Altro; ma la maniera in cui la conclusione di una certa storia si colleghi al principio di un’altra rimane inaccessibile allo spirito umano. Chi vuole districare la trama della realtà finirà per rimanervi impigliato. Personalmente rifiuto questa tesi. Desidero risolvere l’enigma, ma non ho alcuna intenzione di impazzire.

Sono un testimone di quei giorni di marzo, e in quanto testimone li racconterò, senza omettere né risparmiare nulla. Alcuni elementi mi porranno in cattiva luce, ma non mi importa. Per risultare credibile potrei espungere qui qualcosa, inventare lì qualcos’altro, ma non voglio. La mia ossessione, dunque lo confesso, la mia ossessione è la veridicità. Insulse o meno che siano, sono state proprio delle ballerine color prugna a smuovere Philip. Perché le ha seguite? A ciò non so rispondere. Sarà stato un gioco, almeno al principio, un gioco innocente e innocuo, perché se Philip avesse intuito cosa sarebbe accaduto nelle ore successive avrebbe lasciato stare la donna all’istante. Non cercava la propria rovina, e tantomeno il pericolo, anche se poi, giunto il momento, quando ha compreso a quale filo fosse appesa la propria esistenza, ha affrontato quel pericolo senza esitare.

Quel che è certo: martedì undici marzo, alle quattro e un quarto, Philip, un uomo sulla quarantina inoltrata, massiccio e da qualche anno un po’ fuori forma, attendeva in un bar al limitare del centro storico un certo Hahnloser. Philip non lo conosceva, sapeva solo che di recente la sua impresa di tinteggiatura era fallita e l’uomo si vedeva costretto a cedere un lotto di terreno di proprietà della sua famiglia da generazioni, un fondo non edificato in una zona soprastante il lago. A Philip il luogo dell’appuntamento non andava a genio, avrebbe preferito la sala riunioni della sua ditta, ma fiutando un affare veloce che stimava potesse fruttargli, diciamo, trentamila, e poiché verso le sei doveva comunque raggiungere Belinda, che non abitava lontano da quel caffè, aveva accettato.

Il locale si trovava in un suntuoso palazzo signorile dell’Ottocento, un ex Grand Hotel dell’epoca della più intensa espansione urbanistica della città, quando vennero rasi al suolo i bastioni per gli artiglieri e innalzati gli argini del lago. Oro e velluto rosso dominavano l’ambiente, un’ampia scalinata conduceva a una terrazza dove madri con bambini sedevano a tavolini colmi di resti di dolciumi, bicchieri di sciroppo vuoti e tazze di caffè. Hahnloser si faceva aspettare, e Philip fu tentato di ordinare una fetta di torta in bella mostra in una vetrinetta, ma, poiché non voleva in nessun caso farsi sorprendere con la bocca piena e l’orario convenuto era passato da appena cinque minuti, si accontentò di un caffè in cui versò due bustine di zucchero. Di Hahnloser però non c’era traccia neppure dieci minuti più tardi, dieci minuti che sarebbero bastati e avanzati per ingollare quasi la metà di una torta. Philip provò a chiamarlo e a mandargli un messaggio: nessuna reazione. E, dopo essersi fatto confermare da Vera che il numero fosse giusto, scorse le ultime notizie riguardanti l’aereo della Malaysia Airlines, un Boeing 777, che la domenica precedente era scomparso da qualche parte all’altezza dei Quaranta ruggenti con a bordo duecentotrentanove anime, una tragedia che lo incuriosiva e lo inquietava. A Kuala Lumpur le autorità non avevano la più pallida idea di cosa fosse accaduto al velivolo. La ricerca, che di ora in ora veniva ampliata ad aree più vaste, rimaneva senza esiti. Oltre a cinesi e malesi, la lista dei passeggeri conteneva pure i nomi di due austriaci, che si erano rivelati poi essere degli iraniani saliti a bordo con passaporti falsi. Per alcune ore i due erano stati ritenuti terroristi, finché non era emerso che si trattava di immigrati clandestini e di conseguenza pure quell’ipotesi investigativa era sfumata. Rottami non ne erano stati trovati e le macchie di petrolio nello stretto di Malacca derivavano dal quotidiano traffico navale.

A un certo punto Philip decise di compiere una ricognizione del locale, ma non notò nessuno che corrispondesse alla descrizione di Hahnloser. Ritornato al proprio tavolino, lo trovò sparecchiato; una signora in carne con una cuffietta azzurra occupava il suo posto. Philip rimase per un attimo interdetto, indeciso sul da farsi, poi afferrò la propria ventiquattrore, pagò al bancone, prese il resto e uscì in strada.

Collegio di entomologia

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di Tommaso Lisa

La ricerca della preda vivente non è la ricerca frettolosa dell’ombra di cui si accontenta la pigrizia di spirito che si dà il nome di azione.

Georges Bataille

 

Passeggiando, sul sentiero, trovo sparsi frammenti di carabo. Qua e là delle zampe, qualche elitra, un pronoto. Sono probabilmente residui coagulati nelle feci di qualche predatore, volpe o cinghiale, che la pioggia ha sciolto e dilavato. Frammenti inerti, parti inanimate di una forma che aveva vita. Crea un sommovimento interiore pensare che quelle elitre spaiate, quella carcassa di pronoto, fino a pochi giorni prima erano parti organiche di una creatura attiva. Forme animate, hanno dato nutrimento da vive ad altre forme viventi che, se non venissero raccolte, catalogate e descritte, andrebbero perse, tornerebbero polvere senza storia. Fluttuo sospeso in un tempo metafisico osservando gli sparsi frammenti di carabi. È forse questo ciò che chiedo all’entomologia, uno shock percettivo legato alla memoria di forme archetipiche, un turbamento del pensiero che faccia deragliare la percezione abituale di me nell’esistenza.

Continuo a passeggiare e giungo vicino a una vecchia quercia colpita da un fulmine. Vagheggio da giorni, forse vagellando, la fondazione di un improbabile “Istituto di Entomologia Metafisica”. Meglio ancora, un “Collegio di Entomologia Patafisica”. Oppure una via di mezzo tra i due. Prenderei come riferimento l’iniziatico “Collège de sociologie” fondato dal filosofo e scrittore francese George Bataille, assieme alla rivista “Acéphale”. Forse, più che una congrega d’accoliti, seguaci d’una forma di “entomologia sacra”, dovrei essere l’unico partecipante a quest’attività solipsistica di meditazione. Secondo la “congiura sacra” ideata da Bataille, io, unico membro dell’associazione, dovrei abbandonare la società civilizzata e la sua luce per osservare segretamente il mondo umano fuori dalle coordinate convenzionali, per divenire tutt’altro da ciò che la società vuole, oppure cessare di esistere. Una parodia della metafisica, basata sulla scrupolosa osservazione delle “eccezioni” entomologiche.

Mi chino a terra, ai piedi del tronco, a meditare. L’esistenza non dovrebbe servire solo da testa e ragione. Nella misura in cui l’esistenza diventa razionalmente “necessaria” essa accetta un asservimento. Ma la vita, come testimoniano queste elitre, questi frammenti intrisi di sterco che tengo nel palmo della mano, eccede l’asservimento, la riduzionista ragione dell’utile. Mi avvicino ad un’altra dimensione quando, sul mio piccolo e sdrucito taccuino d’appunti entomologici, che continuo a preferire a un documento di Word o a un programma di registrazione vocale, redigo il “manifesto” con un mozzicone di lapis, da pubblicare nel primo numero di un ipotetico Bollettino:

LA CONGIURA ENTOMOLOGICA

Atti del collegio di entomologia metafisica

Ciò che noi abbiamo intrapreso non dev’essere confuso con nient’altro, non può essere limitato all’espressione di un pensiero e ancora meno a ciò che è considerato come arte.

L’avidità umana incontra il vuoto. Siamo ferocemente entomologi, di un’entomologia elevata a religione, nella misura in cui l’esistenza si ribella alla dittatura della necessità e dell’utile.

Ciò che intraprendiamo è una ricerca di un incognito, di una alterità imponderabile che si manifesta ogni volta che si entra nel bosco in cerca di insetti.

È tempo di abbandonare il mondo civilizzato e la sua luce. Misurare e conoscere tutto porta a un’esistenza senza attrattive. Segretamente o no, dopo aver attraversato gli strumenti della retorica, è necessario porsi in una disposizione d’animo verso l’ignoto, l’inatteso, l’imprevedibile. Ciò che non ha nome e non può essere misurato.

Noi amiamo l’insetto come una alterità assoluta e irriducibile. Lo sottoponiamo a un nome, a una ricerca, a una scomposizione anatomica ma infine, al di là di ogni analisi scientifica quale presupposto di esercizio ascetico, lo scopo è la resa. Arrendersi, esausti, innanzi all’evidenza che, nonostante ogni sforzo della ragione, il significato dell’insetto resta impossibile da comprendere.

Amare l’insetto significa arrendersi davanti a questa frustrazione. Dopo aver provato tutte le strade razionali della misura e della nominazione, l’arte combinatoria della razionalità, deporre le armi della ragione e porsi in semplice contemplazione. A mani tese, con gesto di prostrazione. Di fronte a una mancanza abissale che non è colmabile con nessuna parola.

Oltre la storia, oltre la civiltà. La vita si svolge in un ordine di grandezza che solo l’estasi e l’amore possono ammirare. Nella sua grandezza, nel suo irredimibile tumulto. Colui che, con fare scientifico, tiene ad ignorare o a misconoscere l’estasi è un essere incompleto il cui pensiero è ridotto all’analisi.

Occorre però prima aver attraversato la ricerca e il calcolo, essersi sfiniti nella sistematica, per raggiungere lo stato d’estasi. Tanto più lunga sarà la strada di analisi, quanto più pura sarà l’illuminazione. Bisogna procedere come se davvero la scienza possa spiegare qualcosa, segnare la via del percorso per l’estasi. Ma lo scopo resta la liberazione dalla necessità. La ricerca di un affrancamento dalla necessità.

Una ricerca asservita alla necessità porta alla cecità. Per vedere oltre, occorre sfuggire alla testa, farsi acefali, oppure gastrocefali, o stetocefali. Dopo aver provato con rigore scientifico le estenuanti forme della sistematica dovrebbe apparire evidente come l’insetto non sia del tutto incasellabile, restando un’alterità irriducibile e misteriosa.

Giunti al punto di questa specola, testimonianza di un piano naturale delle cose, il cosmo apparirebbe allora regolato da leggi universali, un ordine che il linguaggio umano non potrà arrivare a comprendere se non nella condizione acefalica.

Ciò che penso e che presento non l’ho pensato né rappresentato da solo. Scrivo nella campagna fiorentina, all’ombra di un una quercia colpita dal fulmine. In questo istante stesso, osservo al contempo ma non simultaneamente la realtà e la sua rappresentazione. Per non vivere come un ragioniere, con gli occhi cavati, che non si sanno più meravigliare di niente, contemplo nel disegno delle elitre di questo insetto il tumulto di infiniti che è la vita.

Chiudo il piccolo taccuino e lo ripongo nella tasca dei pantaloni, lasciando il mozzicone di lapis a fare da segnalibro. Durante la caccia sacra e il rituale di determinazione dell’insetto, divento io stesso insetto. Osservo ancora i frammenti del carabo nel palmo delle mani e dal fondo dell’occhio di Medusa, riflesso sulle elitre del carabo, ecco apparire lo stetocefalo, come in un blasone si specchia il mio stesso volto, in un’araldica mise en abyme.

Una costellazione di nomi si articolano sul territorio, nel labirintico dedalo di sentieri sotto al bosco di lecci, fino al culmine del monte Ceceri, alla radura sommitale, in un moto di ascesa e discesa segnato da varie tappe. Perdo la testa in questa ricerca senza fine di un rapporto più profondo di coesione con l’ambiente. Durante il rituale del ribaltare pietre in cerca del carabo, condotto con cocciuta ostinazione, capisco che l’attesa del carabo deve essere delusa. Dall’insufficienza non si sfugge né col caso, né col sogno. Sono consapevole che si è creato un incanto occasionale, e solo nella consapevolezza dell’incantamento (e non nel disincanto) la vita ha un valore. Perdo la testa in questo gioco potenzialmente infinito di ricordi e descrizioni dell’oggetto dei desideri. Da questa fin troppo dichiarata consapevolezza dell’incanto nascono i sedici racconti seguenti.

I limiti del racconto sono quello di questo stesso bosco che attraverso in silenzio, delineati in questa mappa:

Questo testo è apparso su numero 42 della rivista Liberazioni.

Radio days: Martina Bertoni

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Trasfigurazioni

in conversazione con Martina Bertoni

di Mirco Salvadori

Ricordo di aver chiuso gli occhi, forse per riposare o letteralmente sprofondare nel sonno da mesi rincorso, al pari di un veloce levriero che stremato si lancia comunque all’inseguimento di una finta lepre, troppo veloce per esser raggiunta. Ancora intontito dalla perdita di coscienza, il cuore che sfugge al proprio battito riapro gli occhi cercando di trovare l’equilibrio della memoria.

Dov’ero, cosa stavo cercando prima della perdita di coscienza. L’eco delle dimenticanze mi scivola addosso, fatico a focalizzare e solo il riverbero di un suono proveniente dalla finestra spalancata mi aiuta nel processo del ricordo.

Esco all’aria aperta e vengo travolto dal sordo rumore del sole accecante che penetra il viavai della vita, un’apparente semplice confusione dispersa tra le vie e trasformata dal calore della luce in sospeso istante di infinita attesa. Cammino instabile, seguo l’esile riverbero musicale che insiste e danza cercando la mia percezione e inizio a ricordare il nome di un locale. Ancora non so perchè lo ricordo e perché devo trovarlo.

Lo cerco mentre cammino lungo strade che non conosco, seguendo una linea immaginaria capace di unire tra loro distanze sconfinate. Potrei trovarmi a Pordenone come a Berlino, non ha importanza. Ciò che conta è il suono che ora inizio a udire chiaro, così come le altre informazioni che improvvise giungono a riconnetermi con il mondo che mi circonda. Sono preghiere quelle che sento, sono voci che parlano lingue straniere quelle che fluttuano nello spazio intriso di pesante e silente bisogno di una pausa liberatoria. Sono i versi di un poeta di strada che riesce a suonare dei nastri magnetici, testimoni di antiche registrazioni, il microfono ben inserito nel più recondito orifizio emotivo. E’ la voce di un antico strumento che sa adattare le sue corde vocali, comunicando nelle mille lingue che l’animo umano riesce a percepire.

Eccomi giunto, l’insegna di questo disadorno luogo risplende nella luce che via via va scemando, sono giunto fin qui per incontrare colei che forse potrà raccontarmi che significa inoltrarsi lungo la strada delle emozioni alla ricerca di una rinascita nella difficile e complicata ricerca di se stessi.

È da quando ti ascolto che sento il desiderio di farti una prima domanda. Con cosa entri in contatto quando le vibrazioni del tuo violoncello iniziano ad apparire danzando nelle tue visioni..

Domanda difficile, non lo so nemmeno io…di sicuro con le vibrazioni fisiche dello strumento. Una delle caratteristiche peculiari del violoncello è che viene suonato con tutto il corpo: le ossa, i muscoli, la cassa toracica entrano in risonanza. E’ un fatto fisico ed è una sensazione magnifica.

Come dialoga Martina Bertoni con il suo strumento, sei conscia della potenza che sa sviluppare e come la controlli, sempre tu voglia controllarla.

Sonare per me è un esercizio costante di controllo. Il violoncello richiama sempre ad una disciplina, la cui parte interessante sta nel forzare i propri limiti fisici e interpretativi verso l’espansione. C’è poi una particolare affinità mia personale con le frequenze più basse. Lo strumento con cui suono ora non è più un violoncello nel senso classico, si tratta di un pre-prototipo, su ispirazione dei violoncelli antichi a 5 corde, ma in carbonio e la corda in più è in basso.

Io credo sia importante per meglio conoscerti, ascoltare un riassunto del tuo percorso formativo ma anche geografico. Martina Bertoni può considerarsi un’anima errante, colei che viaggia ma non vaga. E’ questo forse il termine più appropriato, se rapportato alla tua storia?

Sempre stata in viaggio, fin da piccolissima. Mio padre era ferroviere e sono cresciuta trascorrendo molta della mia infanzia in treno. Viaggiare per molti anni è stata una necessità logistica, fino a che è diventata una costante nella mia vita. Sia come musicista che come individuo. Mi piaceva e mi piace tuttora stare in viaggio ed imparare a vivere in luoghi diversi. Ringrazio gli anni trascorsi da studente universitaria in perenne borsa di studio in Europa dell’Est, come ringrazio gli anni passati in tour in giro per il mondo. Sono cresciuta in provincia a Nord Est, un posto morbosamente morbido, in cui tutto è comodo ma non c’è quasi nulla da fare. Stare in giro mi ha sempre fatto stare meglio. Fino ad ora ho avuto un’esistenza fortunata e ricca di storie. Ora sono ferma qui in Germania.

Durante il cammino hai incontrato molti musicisti, alcuni di questi sono stati fondamentali per la tua crescita. Come hanno contribuito alla tua formazione.

Ho incontrato ed ho avuto a volte la fortuna di lavorare con un numero incredibile di musicisti ed artisti. Tutto sommato la mia storia musicale è facilmente visibile e rintracciabile per tutti. Sono incredibilmente grata per tutti gli incontri che hanno costellato il mio passato. Alcune di queste collaborazioni sono state lunghe e prolifiche, ed ovviamente hanno lasciato insegnamenti ed esperienze, com’è normale che sia.

La mia formazione è stata lunga, sparsa e diversificata ed è un processo ancora in corso.

Paradossalmente l’accademia è stata fondamentale nell’insegnarmi la disciplina, quanto sia determinante volere infrangere i propri limiti, ed il puro valore dello studio. I lavori più sperimentali mi hanno dimostrato quanto sia importante cercare ridisegnare le mappe.

La cosa curiosa è che tutte le mie collaborazioni ed incontri del passato sono legati al periodo in cui da violoncellista, suonavo con e per altri artisti, la musica era sempre di qualcun altro. Per me è un periodo concluso, quello che faccio ora non ha punti di contatto col passato. Quando ho cominciato a scrivere per me ho deciso che non avrei più suonato il violoncello con o per altri, almeno per un bel po’.

Che umanità incontri quando decidi di partire alla ricerca di te stessa, quale il salto che devi prepararti a fare per iniziare a capire che la strada è quella giusta.

Sono a mio agio quando sono presente nel presente, e per me è imperativo cercare di imparare quello che non so e non crogiolarmi troppo nel passato, nel comfort di ciò che so già fare. Ad esempio, mi piace l’idea di sedermi davanti ad un pezzo di hardware o un software e non avere la più pallida idea di come funzioni. Poi la parte per me più seducente è capire come mettere tutto in comunicazione con il mio strumento. Se c’è questo senso di sfida costante allora credo di essere sulla strada giusta, sperando poi che possa arrivare un risultato interessante. Non sempre succede. In questa fase ho davvero poca umanità intorno, tendo ad essere schiva.

Il musicista, al pari dello scrittore, riempie le sue pagine con una stesura capace di esprimere diversi stati d’animo che amplificano il loro messaggio anche grazie alla profondità espressa dal suo strumento. Partiamo dal primo capitolo: All Ghosts Are Gone uscito nel Gennaio dello scorso anno per l’etichetta islandese FALK, acronimo del provocatorio Fuck Art Let’s Kill. Prova sublime che rivolge lo sguardo dietro di sé, fissando le ombre che pian piano svaniscono. Parlacene.

All the ghosts are gone è stato il primo album. E’ stata una scrittura terapeutica, il culmine di un periodo di cambiamento, fatica e di transizione personale. Dovevo recuperare molte energie. Per la prima volta ho avuto del tempo a disposizione per prendermi cura di me e per scrivere musica in totale indipendenza ed isolamento. E’ stato laborioso capire dove volessi andare, stilisticamente parlando. Ho provato a trovare un modo per scrivere qualcosa che mi piacesse e mi convincesse. Il risultato è All the Ghosts Are Gone…sono stupita e felice per quanto bene sia stato accolto.

Esiste una componente letteraria ispirativa nel tuo lavoro di costruzione musicale, testi o autori che riescono in qualche modo a influenzare le tue composizioni?

In generale non direi. Alcuni dei lavori recenti hanno riferimenti testuali letterari (Edda, Kurt Vonnegut, Stanislaw Lem), nati per il desiderio di lavorare assieme a mio marito che viene dal teatro e possiede una visione per il perfomativo assolutamente fantastica. Se devo citare uno scrittore preferito dico David Foster Wallace sopra ogni cosa. Ciò che però mi ispira musicalmente parlando è più legato al senso della vista, alle immagini, reali o no che siano

Le tracce dei tuoi lavori trovo siano tossiche, quell’idea di tossicità legata a una cultura romantica, un fluire di sostanze che ti trascinano lentamente altrove, nella beatitudine o nella mestizia di luoghi altrimenti non raggiungibili. In questo album il mio sentire ha individuato due brani in particolare che contengono una dose maggiore di oppiacei: Blu, quasi un canto alla luna e Notes At The End Of The World, con il suo lento e costante progredire verso una rinascita che sola può giungere dopo una fine. Ti teniamo per mano Martina, accompagnaci dentro il tuo suono.

Sono gli unici due brani dove ho deciso di cominciare a scrivere dai beats. Ho provato a partire dalla parte opposta al mio strumento. In quel periodo ascoltavo Punctum, Vatican Shadow, Kangding Ray, Varg 2TM…diciamo che questi due brani in particolare sono i frutto distonico dei miei ascolti del periodo.

Per Blu avevo a disposizione delle tracce di violoncello molto liriche – l’elemento lirico del violoncello è la parte per me più controversa del mio strumento – e la direzione è stata quella di provare a farle marciare dentro una griglia ritmica per smorzare i tutto questo pathos. Notes at the End…è il primo esperimento non strumentale, nato in maniera quasi casuale con mio marito, Hinrik Thor. Abbiamo appoggiato il testo al primo tentativo, la prima take è risultata perfetta e senza troppo pensare è saltato fuori un perfetto ultimo brano per il disco, una specie di commiato asciutto.

Ciò che la tua musica esprime è anche il risultato di una ragionata e studiata commistione di pensiero musicale classico e moderno. Il suono del violoncello, espressione prettamente legata alla risonanza acustica, viene ‘contaminata’ dall’immissione di materia digitale e analogica sintetizzata, che ne aumenta particolarmente la capacità di penetrazione. Una scelta non scontata, anche se assai diffusa, per chi si è formato in conservatorio. Spiegaci.

ll violoncello è uno strumento antico il cui repertorio è legato al passato. Più ci si avvicina all’oggi è più diventa difficile rappresentare il presente con uno strumento così costretto e determinato da codici precisi. La mia scelta è frutto della necessità di potermi riconoscere nel mio presente, con gli strumenti e le conoscenze che ho e che posso potenzialmente implementare. Il conservatorio è un istituto museale, che si occupa di preservare una tradizione. Il presente va nella direzione del digitale, è sintesi, è realtà aumentata, dialogo con AI. La velocità è esponenziale e questi sono tutti aspetti per me molto affascinanti.

Nel Dicembre dello scorso anno ti ritrovi a Reykjavìk, ti capita di andare ad abitare in un appartamento completamente vuoto nei sobborghi della città. Nella completa solitudine di un Natale vissuto al Nord, chiusa in un appartamento del tutto disadorno, componi le tracce del tuo ultimo disco. Nasce così Music For Empty Flats uscito a Gennaio per la berlinese Karl Records. Cosa sei riuscita a scorgere in quelle stanze vuote, cosa ti ha suggerito il silenzio nordico, quale racconto scaturisce da questa, immagino profonda esperienza.

Il silenzio e un po’ di isolamento sono spesso per me necessari per produrre musica e per stare bene. Durante il Natale 2019 mentre ero a Reykjavik ho iniziato ad abbozzare quello che poi sarebbe diventato Music for Empty Flats. Avere tempo e spazio a disposizione è stata una grossa fortuna. Ho poi completato il disco qui a Berlino, durante i primi mesi della pandemia. Ancora, tempo e spazio a disposizione. Ho potuto concentrarmi su un processo di asciugatura del modo in cui scrivo musica. Meno tracce e molto più spazio acustico da sfruttare. Sono riuscita a trovare un modo diverso di scrivere e a liberarmi ancora di più dalla necessità melodica e armonica a cui il violoncello normalmente confina. Ora lo posso considerare al pari di tutti gli altri intetizzatori, come un semplice generatore di suono. Nel mentre è arrivata Karlrecords e tra pochissimo il disco esce.

Dal Nord Europa all’Italia, un paese nel quale conti di tornare?

Sono felice di tornare per vedere la mia famiglia, sarebbe bellissimo poter tornare anche per delle date ma i tempi al momento sono ancora confusi e molto incerti per tutti. Per il resto ora la mia vita è radicata qui.

 

All the ghosts are gone Martina, grazie.

Grazie a te Mirco!

Link utili:
 VIDEO TRACCIA ULTIMO LAVORO: https://www.youtube.com/watch?v=cDmYSZ00m2Q
 

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Mimmo Paladino, "Montagna di sale", Napoli, 1995

 

Sale
di Giulia Scuro

Rino Gaetano, I tuoi occhi sono pieni di sale -> play

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Mimmo Paladino, “Montagna di sale”, Napoli, 1995

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Da Italo Calvino, Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2017

54. Bene come il sale (Bologna)
C’era una volta un Re che aveva tre figlie: una bruna, una castana e una bionda: la prima era bruttina, la seconda così e così e la più piccina era la più buona e bella. E le due maggiori erano invidiose di lei. Quel Re aveva tre troni: uno bianco, uno rosso e uno nero. Quando era contento andava sul bianco, quando era così così sul rosso, quand’era in collera sul nero.
Un giorno andò a sedersi sul trono nero, perché era arrabbiato con le due figlie più grandi. Esse presero a girargli intorno e a fargli moine. Gli disse la più grande: – Signor padre, ha riposato bene? È arrabbiato con me che la vedo sul trono nero?
– Sì, con te.
– Ma perché, signor padre?
– Perché non mi volete mica bene.
– Io? Io, signor padre, sì che le voglio bene.
– Bene come?
– Come il pane.
Il Re sbuffò un po’, ma non disse più nulla perché era tutto compiaciuto di quella risposta.
Venne la seconda. – Signor padre, ha riposato bene? Perché è sul trono nero? Non è mica in collera
con me?
– Sì, con te.
– Ma perché con me, signor padre? – Perché non mi volete mica bene. – Ma se io le voglio così bene…
– Bene come?
– Come il vino.
Il Re borbottò qualcosa tra i denti, ma si vedeva che era soddisfatto.
Venne la più piccola, tutta ridente. – O signor padre, ha riposato bene? Sul trono nero? Perché? L’ha con me, forse?
– Sì, con te, perché neanche tu mi vuoi bene. – Ma io sì che le voglio bene.
– Bene come?
– Come il sale.
A sentire quella risposta, il Re andò su tutte le furie. – Come il sale! Come il sale! Ah sciagurata! Via dai miei occhi che non ti voglio più vedere! – e diede ordine che la accompagnassero in un bosco e l’ammazzassero.
Sua madre la Regina, che le voleva davvero bene, quando seppe di quest’ordine del Re, si scervellò per trovare il modo di salvarla. Nella Reggia c’era un candeliere d’argento così grande, che Zizola – così si chiamava la figlia più piccina – ci poteva star dentro, e la Regina ce la nascose. – Va’ a vendere questo candeliere, – disse al suo servitore più fidato, – e quando ti domandano cosa costa, se è povera gente di’ molto, se è un gran signore di’ poco e daglielo -. Abbracciò la figlia, le fece mille raccomandazioni, e mise dentro al candeliere fichi secchi, cioccolata e biscottini.
Il servitore portò il candeliere in piazza e a quelli che gli domandavano quanto costava, se non gli andavano a genio domandava uno sproposito. Finalmente passò il figlio del Re di Torralta, esaminò il candeliere da tutte le parti, poi domandò quanto costava. Il servitore gli disse una sciocchezza e il Principe fece portare il candeliere al palazzo. Lo fece mettere in sala da pranzo e tutti quelli che vennero a pranzo fecero gran meraviglie.
Alla sera il Principe andava fuori a conversazione; siccome non voleva che nessuno stesse ad aspettarlo a casa, i servitori gli lasciavano la cena preparata e andavano a letto. Quando Zizola sentì che in sala non c’era più nessuno, saltò fuori dal candeliere, mangiò tutta la cena e tornò dentro. Arriva il Principe, non trova niente da mangiare, suona tutti i campanelli e comincia a strapazzare i servitori. Loro, a giurare che avevano lasciato la cena pronta, che doveva essersela mangiata il cane o il gatto.
– Se succede un’altra volta, vi licenzio tutti, – disse il Principe; si fece portare un’altra cena, mangiò e andò a dormire.
Alla sera dopo, benché fosse tutto chiuso a chiave, capitò lo stesso. Il Principe pareva facesse venir giù la casa dagli strilli; ma poi disse: – Vediamo un po’ domani sera.
Quando fu domani sera, cosa fece? Si nascose sotto la tavola che era coperta fino a terra da un tappeto. Vengono i servitori, mettono i piatti con tutte le pietanze, mandano fuori il cane e il gatto e chiudono la porta a chiave. Sono appena usciti, che s’apre il candeliere e ne esce fuori la bella Zizola. Va a tavola e giù a quattro palmenti. Salta fuori il Principe, la prende per un braccio, lei cerca di scappare ma lui la trattiene. Allora la Zizola gli si butta in ginocchio davanti e gli racconta da cima a fondo la sua storia. Il Principe ne era già innamorato cotto. La calmò, le disse: – Bene, già d’adesso vi dico che sarete la mia sposa. Ora tornate dentro il candeliere.
A letto, il Principe non poté chiudere occhio tutta la notte, tant’era innamorato; e al mattino ordinò che portassero il candeliere nella sua camera, perché era tanto bello che lo voleva vicino la notte. E poi diede ordine che gli portassero da mangiare in camera porzioni doppie, perché aveva fame. Così gli portarono il caffè, e poi la colazione alla forchetta, e il pranzo, tutto doppio. Appena gli avevano portato i vassoi, chiudeva l’uscio a chiave, faceva uscire la sua Zizola e mangiavano insieme con gran gioia.
La Regina, che restava sola a tavola, si mise a sospirare: – Ma cos’avrà mio figlio contro di me che non scende più a mangiare? Cosa gli avrò fatto?
Lui continuava a dire che avesse pazienza, che voleva star per conto suo; finché un bel giorno disse: – Voglio prendere moglie.
– E chi è la sposa? – fece la Regina tutta contenta.
E il Principe: – Voglio sposare il candeliere!
– Ohi, che mio figlio è diventato matto! – fece la Regina coprendosi gli occhi con le mani. Ma lui
diceva sul serio. La madre cercava di fargli intendere ragione, di fargli pensare a cosa avrebbe detto la gente, ma lui duro: diede ordine di preparare il matrimonio di lì a otto giorni.
Il giorno stabilito partì dal palazzo un gran corteo di carrozze e nella prima ci stava il Principe, con a fianco il candeliere. Arrivarono alla chiesa e il Principe fece trasportare il candeliere fin davanti all’altare.
Quando fu il momento giusto, aperse il candeliere e saltò fuori Zizola, vestita di broccato, con tante pietre preziose al collo e agli orecchi che risplendevano da tutte le parti. Celebrate le nozze e tornati al palazzo, raccontarono alla Regina tutta la storia. La Regina, che era una furbona, disse: – Lasciate fare a me che a questo padre gli voglio dare io una lezione.
Difatti, fecero il banchetto di nozze, e mandarono l’invito a tutti i Re dei dintorni, anche al padre di Zizola. E al padre di Zizola la Regina fece preparare un pranzo apposta, con tutti i piatti senza sale. La Regina disse agli invitati che la sposa non stava bene e non poteva venire al pranzo. Si misero a mangiare; ma quel Re aveva la minestra scipita e cominciò a brontolare tra sé: “Questo cuoco, questo cuoco, s’è dimenticato di salare la minestra”, e fu obbligato a lasciarla nel piatto.
Venne la pietanza, senza sale anche quella. Il Re posò la forchetta. – Perché non mangia, Maestà? Non le piace?
– Ma no, è buonissima, è buonissima.
– E perché non mangia?
– Mah, non mi sento tanto bene.
Provò a portarsi alla bocca una forchettata di carne, ma ruminava, ruminava senza poterla mandar giù. E allora gli venne in mente la risposta della sua figliola, che gli voleva bene come il sale, e gli prese un rimorso, un dolore, che a poco a poco ruppe in lagrime, dicendo: – O me sciagurato, cos’ho fatto!
La Regina gli domandò cos’aveva, e lui cominciò a raccontare tutta la storia di Zizola. Allora la Regina s’alzò e mandò a chiamare la sposina. Il padre ad abbracciarla, a piangere, a domandarle come mai era là, e gli pareva di risuscitare. Mandarono a chiamare anche la madre, rinnovarono le nozze, con una festa ogni giorno, che credo siano lì ancora che ballano.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Francesco Brancati: “che cosa resta nascosto nel sangue”

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di Francesco Brancati

 

 

I nomi (da L’assedio della gioia)

 

1. Hanno tutti un nome, gli individui

che conosce e che incontra ogni giorno;

le persone che non conosce

con cui condivide le strade, gli occhi,

i minimi contatti tra il suo corpo

e i corpi degli altri dentro i tunnel,

le strette di mano assicurate

dai perimetri delle abitazioni

e poi fuori, nei luoghi predisposti

alla socialità, allo sport, agli acquisti.

 

È ragionevole accordare

per breve tratto un’invasione

della propria area di esistenza

agli sconosciuti nelle piazze,

tra le vie del centro oppure, come

adesso, dopo aver preso posto

sul regionale. Secondo un’altra

configurazione del tempo sono

questi gli attimi che preparano

l’intuizione buia del massacro,

il passaporto ovvio della specie.

 

 

2. Per forse qualche istante pensa sia

possibile lasciare che il mondo

(tutto quel che vede, che lo riguarda

e che comprende) esista così come

esistono le cascate, gli insetti

nella terra, i sorrisi intimoriti

dietro le fontane, mentre lo sguardo

risale le molecole sul viso

e cerca un riparo dietro le spalle

nude e forti di tutte le ragazze.

 

Vede le figure precipitare

in un movimento troppo piccolo

perché possa fissarle in una zona

esatta di quella che, sulla base

di un elenco impreciso di libri

e discorsi, chiama la sua coscienza.

 

Dalla serie confusa di immagini

si sforza di ricavare una visuale,

un quadro di insieme che autorizzi

il passaggio dalla deduzione

di una qualsiasi differenza

a un’incolpevole e sicura

rivendicazione di individualità.

 

Eppure non riesce a ricomporre,

a trasformare un’intelligenza

dei sensi in emozione o materia

e, come la memoria o altre sciocchezze,

il frammento si perde e dilegua,

il suo impegno ritorna leggibile,

ritrovare lo zaino, raccogliere

tutto, portarsi di fretta all’uscita

preparato di nuovo a discendere.

 

 

3. L’ospedale è vicino ai quartieri

periferici della città, si può

raggiungere facilmente tramite

le apposite linee urbane

(il novantasei passa tutti i giorni,

il novantatré soltanto durante

i festivi). A guardarlo dal basso

sembra anche lui un individuo,

un gigante funzionale e assiepato

lì dove niente di altrimenti

importante poteva essere stato.

La disposizione degli interni,

le mura bianche dipinte da poco

sono un compromesso dimenticato,

un’innocenza smarrita nel ventre,

che cosa hai perso nelle arterie,

che cosa resta nascosto nel sangue.

 

Il nuovo reparto di chirurgia

generale e del pancreas si trova

al terzo piano, per accedervi

occorre prendere gli ascensori B.

 

Quando sale osserva due uomini

parlare mentre indossano un camice

e realizza di colpo che la pioggia

e la storia sono un altro ordine

di grandezza, che non lo riguarda.

Appunti su L’iris selvatico e Averno di Louise Glück

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di Francesca Matteoni

Ho incontrato per la prima volta le poesie di Louise Glück nell’antologia Nuovi poeti americani (Einaudi, 2006) curata da Elisa Biagini.  In seguito, grazie a piccoli editori, sono apparsi in italiano due libri: L’Iris selvatico (Giano, 2003); e Averno (Libreria ed Editrice Dante & Descartes, 2019). Entrambi ci arrivano  nella traduzione di Massimo Bacigalupo. Quando nell’autunno del 2020 vince il Nobel, il Saggiatore decide di riproporre i due libri già pubblicati e acquista i diritti per le altre sue opere.

Lo scritto che segue si compone di appunti sulle due opere disponibili in italiano, entrambe percorse dalle forze opposte di estraniamento e riconciliazione. Continuamente i protagonisti delle poesie sono estraniati da qualcosa di promesso o sfiorato in un’età indefinibile; continuamente viene tentata la riconciliazione fra l’ora e l’eterno, la terra e la mente, l’amore e la completezza. Ma anche queste categorie sono illusioni, che Louise Glück rivela mettendole in scena. La sua parola si affila senza compiacimento, colloquiale e assertiva.

Ne L’Iris selvatico, ci troviamo in un giardino, che è sia il giardino dove la poetessa, il marito e il figlio coltivano fiori e piante, sia una copia del Giardino da cui l’umanità è stata esiliata secondo il libro della Genesi.  Parlano i fiori, che sembrano capaci di scrutare nel tempo remoto e futuro. Da dove viene questo dono profetico, la loro parola fredda come acqua da una pietra?
Ci risponde la poesia di apertura:

È terribile sopravvivere
come coscienza
sepolta nella terra scura.
(“L’iris selvatico”)

Il bulbo è l’oscurità della terra, dove il ciclo vitale convive con il presentimento della fine, lo incarna, portandolo alla luce. I fiori sbocciano in bellezza perché la morte li sorveglia da vicino; la loro ignoranza è una sapienza più duratura di quella dell’umano che li coltiva o li estirpa, come un dio ordinante nel microcosmo. Così in “Viole” incontriamo l’anima in pochi versi chiari e lapidari:

in tutta la tua grandezza non sapendo
nulla della natura dell’anima,
che è di non morire mai: povero dio triste,
o non ne hai mai una
o non ne perdi mai una.

Mentre in “Zizzania” attraverso il tema del capro espiatorio si espongono le illusioni di potenza. La prospettiva della pianta rovescia quella del giardiniere che cerca di preservare quanto ama, stabilendo regole di sopravvivenza: meri capricci, guardati dal basso, dal silenzio dell’erba che ritrova sempre la via per tornare.

Non era fatta
per durare sempre nel mondo reale.
Ma perché ammetterlo quando puoi continuare
a fare come sempre fai,
dolerti e incolpare,
sempre le due cose insieme.

Non mi serve la tua lode
per sopravvivere. Ero qui prima,
prima che tu fossi qui, prima
che tu abbia mai piantato un giardino

La dignità fiori tuttavia non si oppone al linguaggio umano. Al contrario compie un’azione di pulizia, libera da pregiudizi e armature costruite negli anni, per restituire agli esseri umani un posto nel giardino. Come i fiori interrogano l’uomo e la donna che se ne prendono cura, così i due redivivi Adamo ed Eva, si rivolgono al giardiniere-dio, che li ha cacciati dal Giardino primordiale. All’alba e alla sera, nelle poesie che si ripetono in serie sotto i titoli di “Mattutino” e “Vespro”, si svolge il dialogo con il creatore, oscillando fra la preghiera e la sfida aperta. Al divino e alla pretesa del controllo risponde un cieco desiderio di essere al mondo, più che di ricevere, infine, giustizia.

Volevate nascere
Vi ho lasciato nascere
(“Fine dell’Inverno”).

Quel desiderio che spinge a cercare amore dove non si trova che precarietà.

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale  ̶  la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa  ̶  Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne  ̶
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.

La conversazione si dipana dai fiori all’umano a dio e di nuovo rimanda ai fiori, detentori di un segreto manifesto, mentre il divino viene spinto in un margine estraneo: esiste, ma non ha davvero a che vedere con noi. Esiste, ma non possiede le risposte alle nostre inquietudini.

Dubito
Tu abbia un cuore, nel senso che intendiamo
Noi.
(“Vespro”)

Così il giardino è testimone dell’incontro fra l’uomo e la donna, evento che li avvicina nella reciproca tensione affettiva, mentre li corrompe nel destino.

persino qui, persino all’inizio dell’amore,
la sua mano lasciando la faccia di lui si compone
un’immagine di separazione
e pensano
che sono liberi di ignorare
questa tristezza.
(“Il giardino”)

L’unità è consapevolezza di una continua separazione, di una ricerca frammentata in molte vite, dimenticanze, incomprensioni, illusioni di purezza e compimento. Eppure i fiori sollevano la testa, risplendono, se amiamo, ci consegniamo come bulbi l’una all’oscurità dell’altro. Il cerchio è chiuso.

Zitto, amore. Non mi importa
quante estati vivo per ritornare:
in quest’unica estate siamo entrati nell’eternità.
Ho sentito le tue due mani
Seppellirmi per sprigionare il suo splendore.
(“I gigli bianchi”)

Dal giardino ci spostiamo nella provincia di Napoli, presso le rive del lago vulcanico Averno, uno degli accessi al mondo infero, secondo la tradizione greco-romana. Averno significa assenza di uccelli. Si dice che essi non potessero abitare questo luogo a causa di esalazioni tossiche. Ma gli uccelli della poesia d’apertura, “Migrazioni notturne”, sono soprattutto l’anima che fugge altrove, si distacca dal corpo e dalla terra, diventa inconoscibile, quando la morte sopraggiunge. L’anima che scende nell’oltretomba  appartiene sia a una qualsiasi donna (o uomo), sia a Persefone (la fanciulla, la figlia, l’errante), rapita dal dio dell’inferno. Nelle poesie del libro Averno la narrazione mitica si mescola alle vicende quotidiane della protagonista: una donna che ricorda la ragazza che è stata, da cui è stata estraniata, ben prima che dal tempo, dall’anima.  Quell’anima che compie atti irreparabili, seguendo il divino nel fondo, perché si innamora – o viene rapita, fa lo stesso. O ancora, tradotto in termini più pratici, ha vissuto, accettando che quel vivere sia una violenza inflitta all’infanzia, al corpo che non sa niente di sé, alla mente che immagina. E immaginando entra nelle sfide, nei fallimenti, nella perdita, nella morte. Al principio dell’autunno Persefone abbandona la madre. Nel poemetto ottobrino si legge:

La violenza mi ha cambiato.
Il mio corpo è diventato freddo come i campi spogli;
ora c’è solo la mia mente, cauta e guardinga,
con la sensazione di essere messa alla prova.
(“Ottobre”)

Affacciarsi sul lago che è specchio e porta, corrisponde al passaggio dal risiedere in un posto sicuro al vagare di luogo in luogo, di persona in persona, perdendo a piccoli brani un’interezza che non c’è mai stata.

è la terra
«casa» per Persefone? Lei è a casa, plausibilmente,
nel letto del dio? È
a casa in nessun luogo?
E poco più avanti:

Dicono
Che c’è una spaccatura nell’anima umana
che non fu costruita per appartenere
interamente alla vita
(“Persefone l’errante”)

A chi appartiene l’anima? Si potrebbe rispondere alla soglia, dove le esistenze del mondo non si attardano mai troppo a lungo, trascorrono  in un colpo di vento.

Il mondo
è nel flusso, quindi
illeggibile, i venti che girano,
le placche terrestri che girano e scorrono invisibilmente –
(“Prisma”)

E perché non è possibile mantenere o raggiungere l’interezza? Si ricorderà che Persefone è dibattuta fra l’amore del dio e l’amore materno: dalla madre ha avuto tutto, dal dio è stata privata di tutto. Ma questa privazione significa l’esserne amata e scoprire di poter amare, accettando di avere identità instabili, essere materia sognante, in movimento.

Come uno scudiero che vuole
servire un grande guerriero, l’anima
voleva parteggiare per il corpo.

Si volse contro il buio,
contro le forme di morte
che riconosceva.

Da dove viene la voce
che dice supponiamo che la guerra
sia male, che dice

supponiamo che il corpo ci abbia fatto questo,
abbia creato in noi la paura dell’amore  ­­̶
(“Lago vulcanico”)

Forse l’amore che ci scuote è un passo più spedito verso la dissoluzione, un passo che supera soglie invernali, e nel farlo provoca fratture.

Il tempo passava, trasformando tutto in ghiaccio.
Sotto il ghiaccio, il futuro si agitava.
Se ci cadevi dentro eri morto.
(“Paesaggio”)

Il ghiaccio del lago si restringe a “intuizione raggelante” che in “Un mito di innocenza”, fa comprendere alla fanciulla Persefone il prezzo dell’amare: sentirsi incompleti e invasi dall’altro. Da quel momento non si può che seguire quel compagno temuto e desiderato, senza per questo acquisire saggezza. Al contrario l’innocenza è lo strano risultato dell’ignoranza, dell’immaginazione e della fede.

La ragazza che scompare dal lago
non ritornerà mai. Ritornerà una donna,
cercando la ragazza che era.

Si ferma presso il lago dicendo, di tanto in tanto,
sono stata rapita, ma suona
sbagliato per lei, niente come ciò che sentiva.
Poi dice, non sono stata rapita.
Poi dice, mi sono offerta, volevo
fuggire dal mio corpo. Anche, a volte,
l’ho voluto. Ma l’ignoranza
non può volere la conoscenza. L’ignoranza
vuole qualcosa di immaginato, che crede esista.

L’ignoranza è anche speranza che questa fede sia condivisa quale reciproca devozione. In una delle poesie più belle del libro, la Glück presenta le ragioni del dio, cioè dell’amore, travestito da morte. Fa risuonare magnificamente il sentimento in una verità che infrange ogni promessa felice.

Una luce soffusa si alza sopra la distesa del prato,
dietro il letto. Egli la prende tra le braccia.
Vorrebbe dire ti amo, niente può farti del male

ma pensa
questa è una bugia, quindi alla fine dice
sei morta, niente può farti del male
che gli sembra un inizio più promettente, più vero.
(“Un mito di devozione”)

Sappiamo dal mito che Persefone deve andare all’inferno per permettere il ciclo delle stagioni, interrompere l’inganno dell’eternità con la vita. Sappiamo anche che non decide: il fato e gli dei decidono per lei. La madre e l’amante si dividono una ragazza che scomparirà senza riuscire a crescere. O il suo crescere sarà un moltiplicarsi di sensi di colpa, inadeguatezza, un vago disagio per aver tradito qualcuno o qualcosa che la amava. Ma chi, di preciso? La casa infantile? La casa nuziale? Chi l’ha nutrita? Chi l’ha desiderata? E Persefone cosa desidera?
Forse desidera soltanto che gli uccelli volati via tornino, non come anime, come finzione, messa in scena mitica, ma come loro stessi. Desidera uno sguardo disincantato. Desidera che il volo non sia una fuga, ma una sospensione nel cielo. Una tregua.

Tordo

La neve cominciò a cadere, sulla superficie di tutta la terra.
Questo non può essere vero. Eppure sembrava vero,
cadeva sempre più fitta su tutto ciò che potevo vedere.
I pini divennero vitrei dal ghiaccio.

Questo è il luogo di cui ti ho detto,
dove ero solita andare di notte per vedere i merli dalle ali rosse,
che qui chiamano tordi,
barlume rosso della vita che scompare –

Ma per me – penso che il mio senso di colpa significhi
che non ho vissuto tanto bene.

Qualcuno come me non evade. Penso che per un po’ dormi,
poi scendi nel terrore della vita che verrà
solo che

l’anima assume qualche forma diversa,
più o meno cosciente di prima,
più o meno avida.

Dopo molte vite, forse qualcosa cambia.
Penso che alla fine quello che vuoi
sarai in grado di vederlo –

Allora non hai più bisogno
di morire e ritornare ancora.

Guardare per breve momento la grazia delle vite che non sono simbolo di nulla, che non incolpano di nulla né chiedono ragione. Prima di dimenticare, ancora, sulla terra fiorita o nel gelo dell’altromondo. Ricominciare il conflitto. Errare.

Salpa l’ancora ragazzo!

5

di Nicola Fanizza

Quando i filosofi si diedero la voce!

Fra quelli che fiutano il vento in Italia non troviamo solo i marinai, i giornalisti, i politici, ecc., ci sono anche i filosofi.

 

Sin dalla prima ora di filosofia ho saputo che nella mia vita non avrei fatto altro. Il mio professore di filosofia al Liceo ci affascinava con le sue affabulazioni e le sue conoscenze. Sapeva rispondere in modo esaustivo a tutte le nostre domande. Era davvero bravo! Durante le sue lezioni il prestigio derivante dalla sua immensa cultura diventava il fuoco dai cui si originava uno splendore numinoso che si irradiava sui nostri volti accecati dalla meraviglia. L’esercizio della filosofia e il suo insegnamento mi apparvero, allora, come rituali magici, capaci di aumentare la mia potenza e il mio sex appeal nei confronti delle ragazze. Va da sé che un approccio così ingenuo alla filosofia è esposto a tutti i contraccolpi che la durezza e la fatica dello studio provoca sull’immaginazione. Da qui la delusione che si sperimenta di fronte alle prime difficoltà: leggevo il manuale di filosofia, senza capirci molto; il mio primo docente di filosofia fu chiamato all’Università e, pertanto, rimasi senza il mio cattivo maestro.

Durante la frequenza del Corso di Laurea in Filosofia, le cose non sono cambiate. I docenti veicolavano certezze e mai dubbi; erano sussiegosi e supponenti. Guardavano con diffidenza gli studenti stravaganti e si circondavano di adulatori.

Tuttavia, sulla scorta di una lenta impazienza e di un lungo noviziato – mediato dal pathema e, insieme, dal mathema –, ho messo da parte il mio adolescenziale delirio di onnipotenza. Ho capito, finalmente, che chi insegna filosofia – allo stesso modo di chi insegna tutte le altre discipline – lo fa per essere amato.

I docenti di filosofia con cui ho avuto a che fare, negli anni Sessanta e Settanta – sia nell’Università sia nei Licei – erano per lo più dei nipotini di Geymonat. Uno dei topoi del loro immaginario era che per fare i filosofi ci voleva la laurea in Matematica. Di quelli che presero anche la laurea in Matematica, alcuni si ammalarono di scientismo, altri utilizzarono quel titolo come chiave d’accesso all’università, nessuno diventò filosofo!

Ah che tempi! Ed erano davvero bei tempi! Certo, si dice così perché erano i nostri tempi. E comunque ci conviene crederlo! Erano gli anni in cui il movimento del ‘68 si fece promotore di nuove forme di sociabilità e di nuove pratiche di liberazione che consentirono agli operai e agli studenti di prendere per la prima volta la parola.

A fronte della massificazione della scuola, gli insegnanti più motivati si misero in gioco nella prospettiva di creare una scuola critica, capace di formare cittadini sovrani. Gran parte dei docenti di filosofia erano, a quei tempi, per lo più organici ai partiti e per di più avevano una fiducia cieca nelle categorie della vulgata marxista, che sembravano dar conto dell’ordine o disordine presente nella società. Tale fiducia è venuta meno solo col movimento del ’77, che ha consentito, tuttavia, ai filosofi di ritornare a pensare.

A partire dalla fine degli anni Settanta – dopo gli arresti del 7 aprile –, quegli stessi docenti che negli anni precedenti facevano studiare Marx, Lenin e Mao in un baleno e in massa misero nei loro programmi il nazista Heidegger, il pastore dell’essere che voleva trasferire l’immaginario tragico nella Foresta nera, senza rendersi in alcun modo conto che il branco nazista con la sua cieca e feroce violenza non aveva nulla a che fare con la comunità ellenica. Erano convinti – sulla scorta del loro cattivo e maestro – che per pensare in filosofia bisogna farlo in tedesco. Da qui la fascinazione per una lingua «mistica» e, insieme, «magica», capace di trasformarli in filosofi della mutua in cura ascetica.

La filosofia egemone di quegli anni perde i suoi legami con la società, l’economia, la sociologia, la psicologia e diventa discorso consolatorio, rinuncia a cambiare il mondo; tende, pertanto, a disconoscere il conflitto.

Tale disconoscimento è diventato esplicito in questi ultimi anni, grazie agli epigoni della filosofia analitica. Di fatto, oggi, il discorso filosofico rischia di trasformarsi in un discorso squisitamente tecnico.

Non è inutile rilevare che i vescovi nell’età medievale non erano episcopi – ispettori –, poichè il loro compito era, invece, quello di valorizzare la luce che si manifestava nelle nuove forme di sociabilità, attivate dai movimenti che nascevano dal basso. L’homo religiosus (il filosofo di allora) riteneva che la peggiore disperazione era proprio quella di non avere nessuna disperazione; l’accesso alla verità era possibile solo attraverso la cura di sé; l’esperienza tradizionale (il pathema d’animo) aveva una valenza conoscitiva, la stessa  bellezza (l’arte) era legata alla verità. Insomma il soggetto si costituiva attraverso una molteplicità di discorsi che dicevano il vero; il discorso profetico, del saggio, del tecnico, dell’artista, del poeta e del parresiates.

Quando, invece, la filosofia diventa solo epistemologia o gnoseologia, finisce col perdere il suo legame con la vita. Si può accedere alla verità solo attraverso la cura di sé e degli altri, solo attraverso le pratiche sociali, solo addomesticando la distanza fra gli uomini. Insomma la filosofia non è solo amore della scienza ma anche scienza dell’amore. Di fatto, nell’economia della nostra vita, gli affetti sono importanti allo stesso modo dei concetti.

Ebbene i filosofi, oggi, – allo stesso modo dei vescovi di allora – sono chiamati a valorizzare le nuove pratiche di liberazione e, insieme, ad attivare nuovi percorsi di conoscenza. Una filosofia che non parli della nostra disperazione, della nostra collera, della nostra vita è una filosofia algida, una filosofia che non vale niente. Allo stesso modo una cultura che non sia capace di evitare la guerra – e noi siamo entrati in guerra contro l’Afghanistan e la Libia – non vale niente. «Salpa l’ancora ragazzo – diceva Epicuro –: e abbandona ogni retorica!».

( questo articolo in forma lievemente differente è apparso ne La poesia e lo spirito il 19/11/2012)

inversioni rupestri (# 2)

5

di Giacomo Sartori

Dite

dei tori
tutti i tori
(tutti tori!)
attorniati
da oranti
attoniti
(sui roccioni)

dite
li vedete
li temete
vi vegliano
vi vessano?

(convertiti al dio
Algoritmo
al dio Google

La propria lingua

1

Due prose di Alexandrina Scoferta

 

I.

A volte ho la sensazione di vedere le clienti di mia madre camminare fuori dalla libreria. Mi affretto ad uscire e gridare – Buongiorno Rosi! – ma non è una di quelle mattine in cui porto le brioche di Regina Adelaide a mia madre in negozio e di certo la signora Rosi non è su queste strade mediterranee che cammina con la spesa in mano. Prima di partire mi chiedevo cosa portare via con me. Alla fine non ho preso quasi nulla. Dopo un paio di giorni mi sono resa conto di non avere nemmeno vestiti. Le cose della stanza appartengono alla stanza. Le cose del lago appartengono al lago. Non ho mai sopportato le romanticherie simboliche. Un sasso del lago di Garda è solo un sasso, qui non mi avrebbe fatta sentire più vicina al lago.

Cenere

0

di Arianna Villani

Queste righe vogliono essere una testimonianza. Un’esperienza personale e come terapeuta.
Nei primi giorni di isolamento forzato ho ascoltato il silenzio, il buio, il cielo deserto dal traffico aereo, la natura che si  prepara al risveglio primaverile.
Ho veicolato il setting terapeutico a una modalità nuova e che, fino ad adesso, avevo relegato all’ultimo posto delle possibilità, sia per inattitudine al metodo online sia per pregiudizi circa il mezzo.
Mi sono adattata, mi sono posizionata di fronte a uno schermo e ho provato a liberarmi dai tabù, dai preconcetti che fino a ora mi guidavano e ho cercato e sto cercando di imparare da me e dai miei pazienti.

Un momento di crisi. Di profondo cambiamento. Di ricerca di senso e di significati.
Mi vengono in mente le parole di Racamier “non c’è altro modo di  uscire da un eccesso, qualunque esso sia, che attraversare una crisi”[1].
L’eccesso di tecnologia, l’eccesso del progresso, l’eccesso dei ritmi, l’eccesso di una società industrializzata e consumistica con lo scopo primario del produrre e del denaro, l’eccesso di tutto, che contemporaneamente mi richiama il suo opposto, eccesso di niente e che mi conducono alla dipendenza: tutto e niente, tutto e subito.
Credo che questa crisi sia un’occasione per rivalutare il senso del nostro vivere, per riflettere sui gesti distruttivi che solo l’uomo è capace di compiere con l’illusione di un fittizio benessere.

Ogni relazione terapeutica mira al cambiamento, quindi lavora nel quadro della possibilità del processo di crisi; inoltre, è probabile che tutte le crisi si risolvano partendo da un’accettazione di una certa ambiguità.
Bisogna accettare in certi momenti di non capire e credo che il terapeuta analitico dovrebbe subire l’indifferenziamento prima di capire e di differenziarsi.
Questa volta, però, l’ambiguità non è solo nel mondo del paziente ma abita anche dentro di me, “.. la capacità di tollerare e superare le crisi, di evolvere e anche di creare durante una crisi, mi sembra che consista nella capacità di tollerare l’ambiguità”[2].

Lo spazio del pensiero  richiede confini, così è possibile percepire quell’immagine, quel segno che ne deriva.
Penso a una scultura, a un quadro; ogni forma che emerge ha linee chiare che ne esaltano l’interno, che lo rendono tangibile, visibile, vivo.
Sono quasi due mesi che i confini si sono spostati, ribaltati, confusi, imbrigliati in canoni inversi dove occorre ricostruire un tempo nuovo.
Confini ristretti, relegati in spazi ridotti, dove le pareti delle case hanno la funzione raccapricciante di delimitare una libertà di movimento che fino a ieri era scontata, saldamente appartenente a ognuno di noi nella gestione di scelte, di azioni, di incontri,  di movimenti nel mondo.

La casa non ha più funzione di protezione ma  innalza barriere che assomigliano a sbarre di prigioni invisibili.
Anche la condizione più favorevole in questo tempo senza spazio ha le sembianze di una gabbia dorata.
Mi trovo a vivere in uno spaesamento del pensiero. Smarrita in un qui e ora che non ha passato né futuro.
Vivo la vita e sono vissuta dalla vita.

Ci sono parole che riecheggiano nella mente, come nei racconti dei sogni di alcuni pazienti.
Assenza, solitudine, vuoto, mancanza, tristezza.
Nei loro sogni case in bilico, invasioni, rappresentano lo scenario di instabilità emotiva e bisogno di ricreare confini, protezioni.

Assaporo l’odore penetrante della morte nel languido dondolio di un tempo  senza lancette orientative.
File di bare che avanzano  in una marcia immobile in cui l’ultimo saluto, delegato al rito, è negato.
L’unica presenza e la consistenza dell’assenza.
Si riapre il varco indelebile di una ferita, del trauma della perdita improvvisa; che l’atto suicidario, con la sua lama mortifera, ha tagliato la possibilità del respiro ansante alla vita.
Il tradimento della fiducia, riposta nella possibilità di riscatto attraverso risorse personali, avanza
con il suo passo ritmato.
Ascolto la tristezza del buio profondo che mi avvinghia in un abbraccio senza corpo.
Navigare nel magna emotivo rischia di mutarsi in un labirinto senza via di uscita.
Cercare di dipanare la nebbia che avvolge la mente appare necessario.
In questo esistere mi aggancio al lavoro. Attraverso lo schermo del computer accedo alla presenza dell’Altro. Ma sono presenze che incarnano l’assenza del corpo e l’assenza diviene una presenza bianca totalizzante che mi invade incessantemente.

Sono alla ricerca di senso.
Lo trovo nel calpestare la terra a piedi nudi. Lo trovo nell’accarezzare i giovani fili d’erba, lo trovo nel canto dei pettirossi al sorgere del sole, lo trovo nella purezza dei fiori del ciliegio selvatico, nella possente presenza di un bosco di cerro e castagno.
Lo trovo nel recupero della mia mortalità, nell’accettare che ogni cosa muta, cambia, che la vita è una perpetua trasformazione e che l’effimera ricerca di sicurezze non esime dall’ ineluttabile fine della vita.

Mi sono assolta dall’aver mancato di presenza? Questa è la domanda che mi nasce dall’eco dell’assenza. Non è tanto la morte, che ha evidenziato la perdita, ma la mia dipartita in vita nel contatto stretto con chi ha scelto di andarsene per sempre.

Due passi sotto casa.
Aprendo la casetta dedicata allo scambio di libri trovo al suo interno tre post-it gialli che attraggono la mia attenzione. Non so chi l’ha lasciati come messaggio da condividere con altri, alla prima lettura mi appare quasi la descrizione di  un sogno, poi rintraccio le parole di Primo Levi.
Niente accade per caso “…Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi…  Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo ..”

Vita e Morte.
Si possono riaprire le porte all’ambivalenza.
Penso all’ineludibilità del cammino della vita.
È come se avessi attraversato un esilio da me stessa passando da uno stato di estraniamento alla possibilità di assaporare una nuova linfa vitale.
La cenere nutre, non è solo l’essenza di qualcosa che non c’è più.
Testimonianza di trasformazione.
E adesso, tornare ad affrontare il cammino della propria esistenza, sopportando il peso della responsabilità delle proprie azioni e, a volte, dovendo reggere anche l’angoscia che ne deriva, rappresenta ciò che dobbiamo a noi stessi.

[1]Racamier P. C. 1993, Il genio delle origini, Raffaello Cortina Editore pag.116

[2]Racamier P.C. E Taccani S. 1986, Il lavoro del negativo, Edizioni del Cerro pag. 161

Testo tratto da: Rivista di Psicologia Analitica Nuova Serie, Volume 101/2020, n. 49

I cattivi maestri: Aldo Braibanti

1

 

di

Francesco Forlani

 

 

Dal 1 marzo i giurati voteranno la cinquina del David di Donatello. Su 150 opere, “Il caso Braibanti” di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese è stato selezionato tra i 10 documentari che concorrono a questa edizione del 2021. Sinceramente non so quanti di loro avranno l’occasione di leggere questa mia nota di certo non autorevole quanto le parole spese dai maggiori critici cinematografici italiani riportate in conclusione, ma ne sarei ben felice.

Opera dalla genealogia complessa, nata come spettacolo teatrale  all’interno della rassegna del Garofano Verde ideata e diretta da Rodolfo di Giammarco, il testo dello spettacolo è pubblicato nella collana Teatri di Carta dell’editore Caracò di Bologna, e ora in forma di docufilm. Conosco l’autore Massimiliano Palmese, drammaturgo e poeta, da molti anni e proprio qui su Nazione Indiana come traduttore dei sonetti di William Shakespeare. .

Questa premessa mi sembra necessaria per dire che quando ho assistito alla proiezione del Caso Braibanti, sapevo dal principio che soltanto un poeta, drammaturgo e soprattutto attivista come lui poteva al meglio cogliere il suono della voce di un intellettuale come Aldo Braibanti, entrare in risonanza con la sua vitalità non disperata. Con Carmen Giardina, Massimiliano Palmese ha creato uno specchio in grado di farci capire quanto disperato e non vitale fosse il mondo Italia prima del ’68. È una vicenda la sua che da una parte anticipa le conquiste che ci sarebbero state con le leggi sul divorzio e sull’aborto, la rivoluzione femminista e sessuale, e dall’altra le armi che quello stesso mondo avrebbe usato in seguito e sul piano politico con gli intellettuali “impegnati” bollandone i destini con l’infamante nomignolo di “cattivi maestri”. Un ruolo quello degli intellettuali che Elsa Morante rivendica con un j’accuse dalle pagine di Paese Sera:

Quanto a me che qui mi rivolgo alla Signorie Vostre (in proposito, devo ancora presentarmi: mi chiamo Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta), io ignoravo che il libero insegnamento delle proprie idee si configurasse, nella nostra Repubblica in un reato

 

Come scrive uno dei miei “maestri”, Valerio Caprara, sul Mattino, Il caso Braibanti è “Il primo referto completo sulla figura di Aldo Braibanti, partigiano, poeta e regista, omosessuale, diventato bersaglio e vittima di un pretestuoso processo per plagio, portato a termine a partire da un oratorio recitante dello stesso romanziere e traduttore Palmese con un ricco corredo di materiali di repertorio, interviste inedite e testimonianze autorevoli. Inequivocabile è l’emersione che ne consegue del rancido benpensantismo che ancora allignava nella mentalità e le azioni delle classi dirigenti.”

Ognuna di quelle testimonianze, su tutte quella di Piergiorgio Bellocchio, contribuisce a restituirci non solo il reperto andato perduto ma anche il senso e lo stile di un’archeologia del presente in grado di affrancare i fatti dall’oblio e di mettere in guardia le generazioni future dagli agguati che l’io sociale tende ai corpi liberi di uomini e donne del nostro tempo. Felici le inserzioni dello spettacolo teatrale in cui la passione da intendersi nel doppio senso, laico e religioso, domina la scena. Tra le immagini di repertorio o documentarie formidabile è il ritratto dello scienziato, studioso delle formiche – descrizioni del mondo minimo che mi hanno riportato alla mente le magnifiche pagine di Cacce sottili di Ernst Jünger- ed è un colpo al cuore la scena finale, una videopoesia con immagini girate dallo stesso Braibanti in cui dei cenci mobili di un Cristo velato si liberano nella corrente del mare.

 

trasvoliamo cornix
oltre questi anfratti domestici
verso colline turchesi oceani gialli sequenze verdi di primavera
trasvoliamo presto perche’ la vita mi sfugge tra le dita
e io non voglio spezzare la preziosa catena dei miei quotidiani risvegli
non voglio travalicare con mentite sapienze la lunga serie delle contraddizioni segrete
non voglio rinunciare al gesto che ricicla quello che gli altri buttano via
non voglio barattare i miei sassi colorati con l’ abbondanza dei loro frutti marciti
non voglio tradire la mia coerenza quando cambio col mondo che cambia
non voglio finire qui’ questo mio lungo frammento di paura e di desiderio
la porta resta spalancata fino allo spasimo
come la breccia nera da cui sei caduto tu mio dolce compagno di viaggio

 

Il film documentario  torna disponibile in streaming tra il 9 e il 14 marzo per la prima edizione di CineMaOltre / Palladium Film Festival (piattaforma MYmovies). Il film sarà programmato nella sezione CineMaOltre “i muri”
Il CASO BRAIBANTI (Italia, 2020)
un film di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese
con Ferruccio Braibanti, Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel,
Giuseppe Loteta, Dacia Maraini, Maria Monti, Elio Pecora, Stefano Raffo, Alessandra Vanzi, e Fabio Bussotti, Mauro Conte
musiche Pivio & Aldo De Scalzi
prodotto da Pivio Pischiutta per Creuza srl

 

 

Rassegna stampa

Un bel documentario contro l’omofobia.
A stupire è che non sia stato realizzato prima.
Anna Bandettini, la Repubblica

Ha suscitato grande emozione tra il pubblico, applaudito a lungo.
Nella precisione della scrittura, procede implacabile.
Silvana Silvestri, Alias – il manifesto

Aldo Braibanti, l’eretico, nell’Italia retriva del .68.
Un documentario appassionante racconta la sua odissea.
Fabio Ferzetti, L’Espresso

Il primo referto completo sulla figura di Aldo Braibanti.
Valerio Caprara, Il Mattino

Un processo che ricordava Oscar Wilde, ma che si è rivelato un processo politico.
Elena Stancanelli, La Stampa (poi Dagospia)

Vicende che i giovani hanno il diritto di conoscere.
Giancarlo Zappoli, MyMovies

Un’opera appassionata, dall’ideografia sconveniente e di bruciante attualità politica.
Roberto Silvestri, FilmTv

‘La prima cosa bella’ di sabato 12 settembre è il docufilm ‘Il caso Braibanti’, sul ‘nostro Oscar Wilde’.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica

Un’opera di grande valore civile.
Gino Delledonne, BookCiakMagazine

Un grido di denuncia contro l’omofobia, che ha risuonato con forza nei cuori degli spettatori.
Cristiana Paternò, Cinecittà News

La partitura è complessa, gli intenti nobili, il risultato di gran pregio.
Lorenzo Ciofani, Cinematografo

Nell’offuscata memoria del nostro Paese, al docufilm va il merito di non rendere vano il sacrificio di Aldo e Giovanni.
Diego Baldoni, NegZone

Coraggioso, preciso, potente.
Ettore Fobo, Lankenauta

Fernand Deligny: tra Rhizome e Lignes d’erre

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di Lucia Amara

 

 

«E il bambino appena potrà trascinarsi, avanzerà o, se qualche cosa lo minaccia, regredirà. Il bambino è il tattico che avanza, è il tattico che indietreggia. L’avanti, il dietro? A dir il vero, non esiste l’avanti non esiste il dietro. Che cos’è l’avanti? Che cos’è il dietro? Dipende dall’estremità che prendete. Ecco perché, in battaglia si fanno talvolta movimenti aggiranti per cambiare il senso di questo avanti e indietro. Sono queste le grandi regole della tattica.»

M. Jousse

 

«L’unico eroe in questa toccante storia è l’umanità»

Géricault, iscrizione sul quadro La zattera della Medusa

 

 

  1. Rizoma, carte e calchi

 

Quando Gilles Deleuze e Félix Guattari, in Rhizome, il saggio pubblicato nel 1976 e in seguito divenuto introduzione di Mille Plateaux (1980), fanno riferimento a Fernand Deligny (e forse in molti conoscono questo nome in virtù di tale accenno), è un riferimento che gravita innanzitutto attorno alla questione dei rapporti di referenza. Nello specifico, al «metodo Deligny» si fa ricorso nel quinto e sesto punto, enumerati da Deleuze e Guattari tra i «caratteri approssimativi» di un rizoma, sotto la denominazione di «principio di cartografia e decalcomania», in base al quale «un rizoma non è soggetto alla giurisdizione di nessun modello strutturale e generativo». L’argomentazione si articola a partire dalla differenza tra carta e calco, laddove quest’ultimo assume un connotato negativo: «Tutta la logica dell’albero è una logica del calco e della riproduzione. […] Tale logica ha per scopo la descrizione di uno stato di fatto […] essa consiste nel ricalcare qualche cosa di precostituito»:

Tutt’altro è il rizoma, carta e non calco. Fare la carta e non il calco. L’orchidea non riproduce il calco della vespa, fa carta con la vespa all’interno di un rizoma. La carta si oppone al calco, è interamente rivolta verso una sperimentazione in presa sul reale. La carta non riproduce un inconscio chiuso su se stesso, lo costruisce. Concorre alla connessione dei campi, allo sblocco dei Corpi senza Organi, alla loro massima apertura su un piano di consistenza. Fa a sua volta parte del rizoma. […] (Deleuze & Guattari 2006: 46, corsivo mio)

Proprio perché incentrata su una «sperimentazione in presa sul reale», che favorisce «la connessione dei campi», una carta ha molteplici entrate, contrariamente al calco che ritorna sempre allo «stesso»:

La carta è aperta, è connettibile in tutte le sue dimensioni, smontabile, reversibile, suscettibile di costanti rimaneggiamenti. […] La si può disegnare sopra un muro, concepirla come un’opera d’arte, costruirla come azione politica o meditazione. […] Una carta è legata alla performatività, mentre il calco rinvia sempre a una pretesa «competenza » (Ibidem).

Un modello opposto alla carta è quello della psicoanalisi, o della «competenza psicanalitica»

che ripiega ogni desiderio ed enunciato su un asse genetico o una struttura surcodificante, che stampa all’infinito i calchi monotoni degli stadi su questo asse o dei costituenti su questa struttura, la schizoanalisi rifiuta ogni idea di fatalità ricalcata, non importa quale nome le si dia, divina, anagogica, storica, economica, strutturale, ereditaria o sintagmatica (Ibidem, corsivo mio).

La psicoanalisi colloca e ordina le pulsioni e gli oggetti parziali come stadi su un asse genetico, mentre essi sono «opzioni politiche relative a specifici problemi, entrate e uscite, vicoli ciechi, che il bambino vive politicamente, ossia con tutta la forza del suo desiderio» (Ivi: 47).

Il calco diventa pericoloso, secondo Deleuze-Guattari,  quando trasforma il rizoma in radici e radicelle, ossia blocca, organizza e stabilizza neutralizzando le molteplicità e seguendo gli assi di significanza e soggettivazione. È ciò che hanno in comune la psicoanalisi e la linguistica, che procedono a predisporre calchi o foto (dell’inconscio l’uno,  e del linguaggio l’altro, la questione non cambia essendo il meccanismo il medesimo):

Guardate la psicoanalisi e la linguistica: l’una non ha mai eseguito che calchi o foto dell’inconscio, l’altra, calchi o foto del linguaggio, con tutti i tradimenti che ciò comporta (non è sorprendente che la psicoanalisi abbia legato la sua sorte a quella della linguistica). (Ibidem)

Eppure, considerando che la carta ha da sempre la prerogativa di essere ri-calcata, Deleuze e Guattari ammettono che per uscire da questa logica binaria potrebbe valere il ragionamento opposto, è solo una questione di metodo; e allora si deve sempre riportare il calco sulla carta. Il riferimento è implicito: diverrà esplicito poco più avanti quando Deleuze-Guattari nomineranno apertamente il «metodo di Fernand Deligny», senza fornire tuttavia alcuna spiegazione né del metodo in sé, né del suo artefice.

 

*

 

Nel 1968 Fernand Deligny, già da un trentennio educatore nelle istituzioni per l’infanzia e per l’adolescenza deviata, aveva fondato, nel sud della Francia, tra le montagne delle Cévennes, una comunità, fatta di vaste «aree di soggiorno», distanti tra loro e sparse attorno alla cittadina di Monoblet, dove venivano assistiti bambini a parte, o indietro (secondo le definizioni correnti), che molte istituzioni avrebbero rifiutato. Insieme ai suoi collaboratori, che Deligny denominò «présences proches», presenze vicine, ragazzi giovani ma non educatori specializzati né diplomati, mise in atto un metodo per dar voce a chi, come gli autistici o i mutacici, è fuori-linguaggio (hors langage, sic Deligny). È qui che prese avvio la pratica delle carte e dei calchi, di cui si parla in Rhizome. Adottando un criterio di trascrizione sempre uguale e condiviso, venivano riprodotte le carte topografiche, o mappe, delle «aree di soggiorno», alle quali gli educatori sovrapponevano fogli trasparenti (i calchi) sui quali di giorno in giorno venivano registrati i tracciati dei percorsi e degli spostamenti quotidiani dei bambini, gli oggetti con cui essi entravano in relazione, mettendo in evidenza i «nodi» di incontro con i tragitti degli adulti. Lignes d’erre chiamò Deligny queste cartografie, in italiano linee d’abbrivio, piuttosto che linee d’erranza, come facilmente si sarebbe tentati di tradurre. L’abbrivio è un termine più adatto a riprodurre ciò che Deligny intendeva usando il termine erre, proprio perché i tragitti erratici dei bambini autistici, privi come sono di linguaggio e incapaci di un agire mirato, vengono mossi da una propulsione e si implementano solo per la forza stessa con cui si sono innescati, sconnessi totalmente da uno scopo.

Il ricorso alla carte di Deligny, in Rhizome è, dunque, esemplare, condividendo il rizoma e la carta, per la loro stessa natura, «entrate molteplici»:

Il metodo di Deligny: fare le carte dei gesti e dei movimenti di un bambino autistico, combinare più carte per lo stesso bambino, per più bambini… Se la carta o il rizoma hanno per natura entrate molteplici, si dovrà considerare il fatto che ci si può entrare per il cammino dei calchi o la via degli alberi-radice, tenuto conto delle precauzioni necessarie (qui, ancora, si rinuncerà a un dualismo manicheo). (Deleuze & Guattari 2006: 48-49)

La psicoanalisi, al contrario, si sbarazza della «carta» e fa «calco» con l’inconscio. Deleuze e Guattari cercano modelli rizomatici da opporre al puro stile «psicoanalisi infantile», che tende a distruggere la carta, sovrapponendo e predisponendo calchi arbitrari o finti. Al piccolo Hans si è continuato a «SPEZZARGLI IL RIZOMA, a MACCHIARGLI LA CARTA, a rimettergliela a posto, a sbarrargli ogni via d’uscita […] gli si sbarra il rizoma dell’edificio, poi quello della strada, lo si radica al letto dei genitori, lo si arborifica perfino nel suo corpo […]» (Ibidem). Secondo Deleuze-Guattari, Freud considera, sì, la cartografia del piccolo Hans, ma riportandola e ripiegandola sul modello familiare, sulla «foto di famiglia», che ha la medesima struttura ad albero o a fittone, che il rizoma vorrebbe eludere. Un’operazione simile ha eseguito Melanie Klein sulle «carte geo-politiche» del piccolo Richard, da cui estrae foto e copie, non comprendendo «un problema di cartografia» del suo paziente e ricorrendo a «calchi preconfezionati». Il rizoma viene così spezzato e ciò coincide con l’interruzione del desiderio:

Quando un rizoma è otturato, arborificato, è finita, del desiderio non passa più niente, perché è sempre per rizoma che il desiderio si muove e produce. Ogni volta che il desiderio segue l’albero, si verificano ricadute interne che lo precipitano e lo conducono alla morte, ma il rizoma opera sul desiderio per spinte esteriori e produttive. (Deleuze & Guattari 2006: p. 48)

Deleuze-Guattari suggeriscono di «tentare l’altra operazione, inversa ma non simmetrica. Reinnestare i calchi sulla carta, rapportare le radici o gli alberi a un rizoma» (Ibidem). L’operazione di reinnesto, se estesa allo studio dell’inconscio e del bambino, produrrebbe una relazione «rizomatica» tra l’albero familiare e la mappa del fitto reticolato di luoghi, strade o palazzi, che, in questa direzione, si configurano piuttosto come «vie di fuga» del bambino e non vengono barrate dall’asse famiglia-padre-madre:

Lo studio dell’inconscio, nel caso del piccolo Hans dovrebbe porsi nella prospettiva di mostrare come egli tenti di costituire un rizoma, con la casa familiare, ma anche con la linea di fuga del palazzo, della strada, ecc.; come queste linee si trovino precluse, con il bambino che viene radicato nella famiglia, fotografato sotto il padre, ricalcato sotto il letto materno […] come il bambino non possa più fuggire se non sotto la forma di un divenire-animale assimilato alla vergogna e alla colpa. (Ibidem)

Lo «stile psicoanalisi infantile» non riesce a comprendere – concludono Deleuze e Guattari – che «il divenire-cavallo del piccolo Hans è una «vera opzione politica».

 

*

 

Cosa succede dunque se, come Deligny, si riporta o si reinnesta il calco sulla carta? Quali configurazioni, spaziali e non, ne sortiscono? All’inizio di Rhizome scrivere e mappare si equivalgono: «Scrivere non ha niente a che vedere con il significare, ma con il misurare territori, con il cartografare, perfino contrade a venire». Quali contrade a venire ci indica «il metodo di Deligny»? Perché di questo si tratta, nel caso in cui si voglia indagare il tratto fortemente utopistico della sua inchiesta, dove utopia non deve richiamare l’irrealizzabile, ma lo spostamento e sfiatamento di luogo (e luoghi) di cui è portatrice, di certo il nucleo più essenziale e notevole dell’operazione e dell’opera di Deligny.

Riprendendo il piano politico del discorso, oltre all’operazione associata al desiderio infantile troviamo, nella riflessione di Rhizome e nell’accenno a Deligny, un altro livello di nessi, che danno conto di una serie di congiunture storico-politiche rilevanti, il cui fulcro si rintraccia attorno a un importante e durevole dibattito, avviato nel ’68,  sul tema della configurazione spaziale di una opzione politica, anche decentralizzata e centrifuga o centripeta, pertinente al modello che Deleuze e Guattari cercano nel rizoma:

In che modo i movimenti di deterritorializzazione e i processi di riterritorializzazione sono relativi, perennemente connessi, intrecciati gli uni agli altri? L’orchidea si deterritorializza formando un’immagine, un calco della vespa, la vespa si riterritorializza su questa immagine. La vespa, nondimeno, si deterritorializza diventando un pezzo dell’apparato di riproduzione dell’orchidea, ma allo stesso tempo riterritorializza l’orchidea, trasportandone il polline. La vespa e l’orchidea fanno rizoma in quanto sono eterogenee. […] non imitazione, ma cattura di codice, plusvalore di codice, aumento di valenza, vero divenire, divenire-vespa dell’orchidea, divenire-orchidea della vespa, con entrambi i divenire che assicurano la deterritorializzazione di uno dei termini e la riterritorializzazione dell’altro e si concatenano e si danno il cambio secondo una circolazione di intensità che spinge la deterritorializzazione sempre più avanti. (Deleuze & Guattari 2006: 43)

I movimenti che si producono tra vespa e orchidea, esempio tipico di rizoma, non sono asserviti a uno schema per imitazione e somiglianza, ma all’esplosione di due serie che, sebbene parallele, deflagrano in «linee di fuga», condividendo un rizoma comune pur non producendo significanza. Deleuze e Guattari ricorrono alla formula di Rémy Chauvin: «Evoluzione aparallela di due esseri che non hanno assolutamente niente a che vedere l’uno con l’altro».

La modalità con cui il metodo psicoanalitico riduce e minora i movimenti cartografici e geografici del bambino riproduce esattamente un pericolo sociale e politico. Anche laddove si riesca a produrre una rottura, o si scorga o si tracci una linea di fuga, si rischia in seguito di ritrovare organizzazioni che ristratificano l’insieme, formazioni che ridanno il potere a un significante. Deleuze e Guattari, registrando il meccanismo di ciò che si manifesta e configura come ritorno a un ordine, lo estendono poi alle più diverse situazioni e configurazioni, «dalle risorgenze edipiche fino alle concrezioni fasciste».

La pratica delle carte e dei calchi di Deligny diviene dunque una leva importante per i due filosofi, lo si legge chiaramente nel passaggio che prelude a quel «metodo»:

Sulla carta si devono sempre ricollocare le impasse, e da lì aprirle sulle possibili linee di fuga. Lo stesso dovrebbe avvenire per una carta di gruppo: mostrare in quale punto del rizoma si formino fenomeni di massificazione, di burocratizzazione, di leadership, di fascistizzazione, ma anche quali linee continuino, magari sotterraneamente, a fare oscuramente rizoma. (Ivi: 48)

Si comincia così a comprendere meglio come, per Deleuze-Guattari, il «metodo di Deligny» possa assurgere a laboratorio in cui sperimentare il concetto di rizoma e ripensarlo in termini di prassi, all’interno di domande che erompono spesso dalle medesime occorrenze. Uno dei ceppi comuni sta proprio nel reinterrogare il concetto di configurazione e i modi in cui si producono i rapporti di referenza, che Deleuze-Guattari individuano sia nella storia, intesa come complessa stratificazione di poteri e relazioni di poteri; sia nella storia, che potremmo definire ‘privata’, vista dalla parte dell’inconscio freudiano, in cui le stratificazioni fanno sempre capo a un “albero” genealogico familiare (ad essere presa di mira da Deleuze-Guattari è la psicoanalisi infantile con le sue discendenze che portano sempre direttamente al letto del padre/madre); sia, infine, nelle strutture di potere del linguaggio, come si evince dall’albero sintagmatico di Chomsky costruito secondo uno schema dicotomico. Opporsi al dispotismo della costruzione binaria e ad albero, in cui ogni elemento dipende dall’altro senza possibilità di rottura, o via di fuga, significa, dunque, pensare in termini di territorialità.

Termini e concetti quali deriva, margine e linea di fuga, sono giunti a noi da questo complesso dibattito, che mosse i suoi primi passi alla fine degli anni sessanta, di cui Mille Plateaux di Deleuze-Guattari è uno dei contributi più sostanziali, oltre che compendianti. Tornare a verificarne il punto di scaturigine è il motivo per cui è importante rimettere Deleuze e Guattari in relazione con Fernand Deligny.

Il trattamento a cui Deligny sottopone il termine «deriva» è emblematico:

La deriva di cui parla Deligny non è né esistenziale né situazionista. Essa designa lo spostamento per il quale degli operai, dei contadini, degli studenti, hanno lasciato una via ben tracciata per mettersi in situazione di ricerca. Indica lo spostamento e la cosa: la pinna verticale immersa che impedisce a un aereo o a un’imbarcazione di derivare. Ha il suo territorio (così come dice Deleuze dei nomadi che hanno un territorio), la sua gerarchia… (Alvarez de Toledo, in Deligny 2007: 804, trad. mia).

Per questa via, la condizione del bambino autistico diviene un campo aperto. Privo totalmente di linguaggio, egli è già di per sé deriva e margine, perché nel momento in cui la pensiamo, la sua condizione, lo facciamo in termini di linguaggio e con il linguaggio, quindi “quella” condizione non può che rimanere fuori. E se l’adulto (educatore o vicino e familiare), dalla sua parte, non dà alcun potere al linguaggio, saranno all’inverso questi bambini a controllare e vigilare la deriva, a garantire una postazione che diversamente sarebbe insostenibile per chi il linguaggio ce l’ha. Così, in una lettera, datata 7 ottobre 1975, a Isaac Joseph, giovane filosofo assistente in sociologia all’Università di Lyon, che aveva visitato la rete delle Cévennes nel ’74 e che curerà l’edizione dei Cahiers de l’Immuable, Deligny scrive che ha affidato a Janmari, il ragazzo che incontrerà a La Borde e attorno al quale si costruirà il progetto nelle Cévennes, il compito di «ispettore delle derive» e agli altri ragazzi quello di «controllori». Saranno le loro presenze e i loro passaggi a decidere la fondatezza delle derive di ogni area di soggiorno:

«Sono un miscredente», «Qui siamo tutti miscredenti. Qui, noi non ci crediamo alla parola, non ci fidiamo…» e qui Janmari ci aiuta a tenere questa posizione insostenibile, ci aiuta nella nostra deriva. Nessuno ignora in questa rete che il linguaggio non è religione o mito che si sostiene su una credenza o si rifiuta attraverso un’eresia, che è costitutivo del me e del sè e che nulla che germina su questo terreno sfugge al fiume di parole. Semplicemente Janmari e gli altri, permettono questa deriva della zattera che ha cominciato con questa scommessa di diffidenza, di miscredenza.

Chi deriva? Chi si vuole domandare seriamente cosa ne sarà delle loro maniere d’essere una volta che essi avranno messo la parola a rottamare ciò che è  stabilito […]. (Deligny 2007: 850, trad. mia)

Per questo Deligny, come tutti i fondatori di nuove pratiche e mitologie,  considera necessario rimettere a punto un vocabolario, azione fondamentale se si vogliono riformulare le questioni. Dunque, alla linea di fuga, che non può in alcun modo riguardare un bambino privo di linguaggio, il quale si muove nello spazio e nella vita con delle intensità più simili a una propulsione senza motore, Deligny oppone la ligne d’erre. Da qui proviene la scelta, data anche da un certa riuscita eufonica, di usare il verbo errer nella forma erre, senza precisarne né la persona né il modo e il tempo (potrebbe essere Io o Tu, indicativo o congiuntivo) e non mutando il verbo in sostantivo, errance, proprio per non rinchiudere definitivamente in una parola/forma i tragitti “senza fine” di chi è privato, fin dalla nascita, del linguaggio:

Erro: mi è venuta la parola. Essa parla di un po’ di tutto, come tutte le parole. Di “un modo di camminare, di andare”, dice il dizionario, della “velocità acquisita da una nave su cui non agisce più il propulsore” e anche “di orme di un animale”. Parola molto ricca, come si può vedere, che parla di andatura, di mare e di animale, e che nasconde ben altri echi: “errare: – allontanarsi dalla verità… andare su e giù, a caso, all’avventura”. J.-J.Rousseau lo dice: “viaggiare per viaggiare, significa errare, essere vagabondo”. Ma anche “manifestarsi qua e là, e fuggevolmente, su diversi oggetti, sorridere a fior di labbra”.

Eccoci provvisti di una parola che non vuol dir nulla, colma di senso comune come una conchiglia può esserlo di sabbia, morto venuto a riempirla, bestia defunta. E questi strani animali vagabondi, privati di propulsore, che manifestano vai a sapere cosa a tutte le estremità di questo campo che è quello del nostro sguardo, eppure hanno un nome di persona di cui sembra non si sentano segnati (Ivi: 811, trad. mia)

Davanti a questi bambini «increati dal Verbo» e «non coniugati», perché semplicemente il verbo non lo possono coniugare – come di loro dice Deligny – la categoria della psicoanalisi, che erge a fondamento il linguaggio, non può che risultare un paradigma inadeguato. Quella di essere hors-langage è una condizione da cui non si può tornare indietro, né edificarla né dargli alcuna configurazione se non di tipo strettamente spaziale: noi, dotati di linguaggio viviamo nel tempo – dice Deligny – loro, i bambini senza-linguaggio, vivono nello spazio.

 

*

 

Fernand Deligny, lontano da Parigi e dai tumulti sessantottini, lavora con esseri umani privi della facoltà del linguaggio e che non possono rivendicare alcun diritto alla parola, mettendo rigorosamente in crisi i termini e gli estremi della rivendicazione del prendere, o dare la parola (de Certeau 2007). Una presa di posizione di fronte all’ideologia che si riassume in una frase di Moindre geste, il film-documentario che Deligny girò insieme a Josée Manenti e Jean-Pierre Daniel, nel 1971: «Perché sarebbe necessario che la parola appartenga a qualcuno, anche se qualcuno la prende?». Non sono i diritti dell’alienato a interessare Deligny, ma piuttosto il contrario, cioè la sua «irresponsabilità» profonda e inveterata, la sua impossibilità a farli valere i propri diritti.

Nella prima pagina del suo diario-autobiografia, Journal d’un éducateur (1966), in visita in un asilo psichiatrico, Deligny annota:

È vero che questi bambini indietro in questo castello di Sologne vivono del tutto al di fuori del tempo e dello spazio, perdutamente apolitici […].

Liberi. Sono liberi. Essi possono esprimersi liberamente attraverso ogni sorta di onomatopea. Non sono obbligati neanche a servire le parole in quanto tali. Hanno colori a tempera e matite per esprimersi ancora, liberamente. Non hanno bisogno di fare il minimo gesto utile. Ritirati dalla nascita. (Deligny 2007:11, trad. mia)

*

 

Figura 1. Mappa della clinica di La Borde

 

Nel 1977, Félix Guattari dedica il numero 21 di Recherches ai dieci anni di esperienza psichiatrica della clinica di La Borde, fondata dallo psicanalista Jean Oury, nella regione francese di Loir-et-Cher: «Histoires de la Borde: 10 ans de psychothérapie institutionnelle à Cour-Cheverny 1953-1963». Nella prefazione, a cura dello stesso Oury, fondatore della clinica insieme a Guattari, è evidente come l’acceso dibattito prendesse forma attorno a una riflessione  incentrata sullo spazio. Non a caso il testo è accompagnato dalla mappa della clinica (Figura 1). Un «altrove», ma qui e «presente», un «luogo puro», si staglia all’orizzonte, un luogo neutro da reinventare:

Niente è da vedere qui. Niente, se non una certa curvatura dello spazio. Tutto concorre forse, ingenuamente, a stabilire l’equazione di questa curva. […] Questo cammino, di un altrove sempre presente, che marca nella sua istanza le ripetizioni, i luoghi, le scene, incontra una quotidianità banale e abbondante. Sapere se c’è un luogo puro, un luogo di neutralità dove possa inscriversi ogni evento, ogni itinerario, foss’anche il più inabituale? (Oury 1976: 9)

Deligny reagì all’uscita della rivista con una lettera a Guattari, raccolta nel terzo dei Cahiers de l’Immuable, sotto il titolo Dal mistero al miraggio, in cui torna su alcuni punti del saggio di introduzione – ed in particolar modo su un passaggio in cui Guattari, riferendosi a un arco di tempo che va dalla fine della guerra al sessantotto, parla di «crisi generale dei punti di mistero», in cui, secondo il suo punto di vista, azioni come quella di Deligny ebbero la «funzione di raccordo»:

In questo disastro religioso, aggeggi come Saint-Alban e Deligny svolgevano la funzione di raccordo. Come hanno potuto, questi focolai del mistero, fondarsi attorno a bande di folli e di delinquenti? Si pensava che in quei luoghi accadesse qualcosa… (Guattari, in Deligny 1980: 65)

E Deligny replica:

Dove tu dici mistero, io dico miraggio. E mi va benissimo di essere preso per un “posto”. Eccomi dunque luogo. Prendersi per il “buon” luogo. (Ivi: 66)

Ricordando come Jean Oury, durante la sua permanenza a La Borde, lo avesse un giorno apostrofato “vicino”, Deligny ammette che è vero, sì, lui era un vicino. Tuttavia il vicinato implica una distanza, aggiunge: «Bisogna sempre mantenere un po’ di distanza, altrimenti si passa – e si trapassa – per davvero». E Deligny prende distanza anche dalla psichiatria di La Borde. La questione è sostanziale, anche perché egli dall’inconscio e dalla storia sposta l’attenzione su di un altro piano, mettendo in campo il concetto di «umano»:

Per me non si tratta di dire la mia in queste storie ma di precisare qualcosa di ben diverso. A voi stavano a cuore la storia e l’inconscio, a me l’umano. Ecco una parola insolita, nuova nuova. Nessuno – e io meno di tutti – sa cosa voglia dire. D’altra parte (l’)umano non vuole dire niente. […] E l’umano, relitto irriducibile, è vicino ineluttabilmente. Per questo l’ho soprannominato libertario. L’umano non è qualcosa, come io non sono un luogo. Ma può capitargli di aver luogo al di sopra di ogni mercato, di ogni mercanzia e di ogni mercanteggiare, come un punto di orientamento all’origine della necessità di libertà sempre riconosciuta. Dell’umano, a dire il vero, tutti se ne infischiano. Si trova infatti all’altro polo della persona. Se questo focolaio di mistero potesse parlare, ecco cosa direbbe. (Ivi: 67)

 

*

 

Le sovrapposizioni e i riverberi tra Deleuze, Guattari e Deligny sono importanti e non così facilmente riconducibili a una semplice genealogia o enumerazione di luoghi, concetti e opposizioni, in molti casi generatesi da un alveo storico-politico e culturale comune. Intanto, un primo dato cronologico: Rhizome esce nel 1976, stesso anno di apparizione, per la rivista Recherches, diretta da Félix Guattari, dell’ultimo dei tre Cahiers de l’Immuable di Fernand Deligny (i primi due erano usciti tra il 1975 e il 1976). Il titolo origina dalla constatazione che l’«immutabile», termine con cui Deligny allude alla ripetitività convulsiva e stereotipata dei bambini autistici, può diversamente essere assunta come regola organizzativa e ritmica su cui scandire la vita degli adulti insieme (o vicini) ai bambini:

 

È affetto

questo bambino

da autismo infantile precoce

il suo isolamento è estremo

dice la psichiatria

e quel che dice è vero

il sintomo è innegabile

e dato che è di immutabile

che ha bisogno

ne avrà quanto ne vuole

di immobile e di reiterato e di

sempre uguale.

(Deligny 1977: 13)

I Cahiers de l’Immuable sono la testimonianza e il punto più alto, la summa dell’esperienza “pedagogica” di Deligny su quelle che lui nominò lignes d’erre, e che, come abbiamo visto, corrispondono precisamente alle cartografie cui si riferiscono Deleuze e Guattari, in Rhizome. Potrebbe allora essere interessante rifare il passo da qui, mettendo ancora una volta in relazione alcuni aspetti del pensiero e della pratica di Fernand Deligny con un dibattito ampio, di carattere storico e politico, come era in quel frangente, piuttosto che semplicemente riporlo per sempre all’interno della pratica dell’anti-psichiatrica o dalla cosiddetta pedagogia libertaria. Concetti quali territorialità, deterritorializzazione e riterritorializzazione, configurazione e piani di consistenza, linee di fuga e tracce di intensità, concatenamento e modi del concatenamento in rapporto a tipologie di potere sociale, ci appaiono parole quasi rinsecchite dall’uso, che possono essere riascoltate come conchiglie vuote, nello stesso modo in cui Deligny immaginava le parole in disuso, abbandonate come banchi di conchiglie.

La figura di Deligny è complessa e raffinata, le sue aree di intervento, dalla letteratura alla poesia, dal disegno al cinema, votate a un rigore assoluto e intransigente, sono difficilmente riportabili a un’unica area disciplinare. La questione dell’autismo rappresenta nel suo lavoro un perno, prima di tutto esistenziale («Noi abbiamo raggiunto la chiave delle nostre esistenze», scrive nel secondo dei Cahiers de l’Immuable); ma, al contempo, Deligny intravede e disegna la “regola tattica” per la possibilità di un estremo confronto storico-politico. In questo doppio si gioca allora un’ulteriore possibilità di ri-leggere l’opera di Deligny.

 

 

  1. Transumanza

 

Quando nel 1968 Fernand Deligny si trasferisce nelle Cévennes per fondare la comunità di presa in carico di bambini e ragazzini considerati «im-possibili» e «in-curabili», non si tratta di un ritiro, né tanto meno di un ritiro da Parigi, o da un centro. Innanzitutto Deligny è già lontano. Egli, tra il febbraio 1965 e il luglio 1967, aveva soggiornato nella clinica psichiatrica di La Borde, a Cour-Cheverny, invitato da Felix Guattari e Jean Oury. Sarebbe più appropriato parlare di avanguardia, nel senso di un reparto avanzato, perché Deligny, nelle Cévennes, si sposta in avanti, non torna indietro come qualcuno potrebbe pensare, insinuando sulla sua comunità il sospetto di primitivismo.

Il viaggio è già inscritto nel suo romanzo. Anche per la eco di quello che Stevenson, uno degli autori preferiti di Deligny, aveva compiuto attraverso le Cévennes nel 1878 e descritto nel romanzo Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino (R- L. Stevenson 2012). I luoghi sono storicamente pregnanti, sia per Stevenson che per Deligny: in quelle montagne, all’inizio del Settecento, ebbe luogo la rivolta dei Camisards, i protestanti perseguitati dal re cattolico Luigi XIV. Durante quella che fu una vera guerriglia si verificarono strani episodi: paracusie, apparizioni, e bambini che parlavano lingue sconosciute o in glossolalie («bambini tocchi», li dice Stevenson), da cui si è trasmessa la leggenda dei “piccoli profeti delle Cévennes”. Deligny, giunto in quella regione del massiccio centrale, aveva in progetto di girare un film sui Camisards, per l’appunto.

Eccolo descrivere l’arrivo del «primo nucleo» tra le montagne:

Il nostro arrivo nelle Cévennes avveniva quasi all’indomani di un’alluvione che aveva fatto straripare i fiumi allagando le città. Tra le maglie di ferro dei tralicci dell’energia elettrica erano ancora impigliati grovigli di rami e di alberi. Sembravano nidi. Eravamo in sei oltre alcuni bambini… (Deligny 1980: 7, corsivo mio)

Colpisce il termine «nidi» perché è carico di senso nella “trasferta” di Deligny, per il quale la specie si perpetua attraverso i gesti (solo così è possibile usare un concetto altrimenti pericoloso come quello di specie). Ecco allora che uno dei gesti originari di un “umano” di cui Deligny scaverà le tracce è molto vicino a ciò che per gli animali è la nidificazione. Per questo Deligny sceglierà i luoghi in cui fermare la sua erranza e li chiamerà aree di soggiorno («unità sparse nelle Cévennes»), rubando l’espressione al vocabolario dell’etologia animale. Si sa che Deligny fosse un lettore dei Souvenirs entomologici di Jean Henri Fabre (Fabre: 1957; 2020). Si ri-porta il soggetto a un punto di origine, che è sempre spaziale: in quel luogo dove possiamo fare a meno del linguaggio.

La parabola di tali tragitti è quella originariamente tracciata a matita su fogli bianchi da Janmari, il ragazzo encefalopatico grave, proveniente dalla clinica parigina della Salpêtrière, affidato a Deligny dalla madre a La Borde, nel 1966, e che lo “inquieta”, nel senso che lo metterà nella quête, divenendo l’ispiratore del nuovo spostamento nelle Cévennes. Il disegno che il ragazzo traccia per giorni interi è una O mal fermé (una O non chiusa), come la chiama Deligny. Un cerchio aperto che diventerà la struttura portante del «tentativo in corso»: il tentativo non è un progetto né una applicazione di principi, ma una «démarche», un’andatura, un modo di camminare. (Fig. 2)

 

 Figura 2

Se il tratto della linea rimane aperto, il progetto è sempre possibile. Siamo di fronte non all’edificazione che è propria al linguaggio, perché quei bambini sono in «vacanza di linguaggio», ma all’erranza tipica di certi uccelli che nidificano utilizzando i nidi abbandonati da altre specie (De Certeau 1990: 136). Sono movimenti opposti, tutte opzioni possibili. Deligny sceglie di ripercorrere le tracce segnate della catena ercinica, ricerca il gesto primo e prima del linguaggio; fiuta la memoria dei luoghi, cerca una collocazione, il tòpos dei bambini; si stanzia fondando aree di soggiorno come possibili strutture “aperte” per “collocare” una condizione estrema e degradante, ma aperta, come quella di chi è fuori-linguaggio. Ogni area è abitata da un piccolo nucleo formato da un adulto (o massimo due) e da un bambino (o massimo due o tre). Insieme si alternano, arrivano, partono e tornano. Nessuna reclusione, per nessuno. Solo tre ragazzini, Janmari, Cristophe e Gilles (detto Toche), vivono in “permanenza” (Deligny fa discendere questo statuto dal verbo latino permanēre). Anche gli adulti possono fermarsi per periodi brevi, poi vanno.

Il rilievo del luogo individua uno dei primi nuclei di installazione, sul territorio di Séré, che Deligny guarda e descrive dall’alto, servendosi di una fotografia aerea, che accompagna l’inizio della scrittura del terzo dei Cahiers de l’Immuable: 

Questo mio diario fa da didascalia non a una carta tracciata con le nostre mani ma a una foto scattata dall’aereo che riprende un luogo chiamato Séré. Visto dall’alto appare così. Nella parte bassa dell’immagine ritrovo la spaziosa casa in cui abbiamo vissuto. Si vede il tetto: una macchiolina grigia rettangolare. E sotto quel tetto c’erano, a sfidare il buon senso e il linguaggio, mille e mille tracce successive e identiche di qualcosa che ogni giorno sorgeva tra noi e correva sul filo di una mina di grafite. Tutt’attorno, le ondulazioni profondamente erose della catena ercinica. (Deligny 1980: 8)

La transumanza, l’erranza, la devianza, il détour, il déplacement vengono eletti come principi per creare una «rete» (in francese réseau, uno dei prìncipi fondanti del progetto di Deligny), che rimpiazza l’idea di comunità chiusa, di concentramento e accentramento, schivando così la riserva dei diversi. Il territorio della rete è esteso e la distanza assicura un certo distacco tra le aree di soggiorno. Una mezza dozzina di unità distanti da cinque a venti chilometri le una dalle altre: L’Ile d’en bas, Graniers, Monoblet, Le Serret, Pomaret, Les Murettes-Le Montaud, Le Palais:

Uno di noi era andato a vivere in una valletta

a trecento metri dai casolari

Robinson

     nella sua isola

in una cunetta provvisto di alcuni Venerdì

im possibile

in sopportabile

in curabile

un piccolo corso d’acqua

una tenda

un riparo

i quattro muri senza tetto di una stella da

tempo abbandonata     Senza te-tto

Senza te

né me

(Deligny 1977:22)

Gli individui sono il luogo che abitano, territorio o isola, comunque sempre «nodo di esistenze»:

Tra di noi chiamavamo quel luogo l’Ile d’en bas senza saperlo, per noi il “soggetto”, la “persona”, erano già l’area, il luogo, il territorio, l’isola, nodo di esistenze. E esito a scrivere questa parola al plurale. Noi eravamo lì e il “noi” non era affatto pensato come un aggregato di “individui”. Era un luogo. Ce n’erano altri. (Deligny 1980: 27)

Tra gli strumenti cartografici, la fotografia è una tecnica che Deligny utilizza regolarmente. Così descrive una foto scattata durante uno di questi spostamenti, che chiama transumanze. Alla deriva, viene sostituito e succede il détour, curva o deviazione:

Venti chilometri, quel giorno, dal luogo vecchio a quello nuovo, attraverso le onde erose della catena ercinica. Gravemente psicotici questi bambini, entrambi, e la persona che cammina alla testa del gregge è arrivata qui dalla periferia di Parigi. Bisogna abbia deviato parecchio il suo destino, perché questi bambini possano sfuggire al loro, di destino, che era di essere internati. Ed eccoli tutti e tre che camminano tranquilli, nessuno più pazzo dell’altro […]. (Deligny 1977: 59)

Non c’è un tempo in questo viaggio «in vacanza di linguaggio», non c’è alcun confine tra passato e progetto presente o futuro.  Ci si muove cercando dei punti di riferimento (repères, li chiama Deligny), vivi:

Il gregge non si raccapezza, perplesso davanti a questo percorso di oggi che non finisce mai e non ritorna al luogo consueto. E quello che cammina davanti confida, per questo da farsi, in quello che segue, che è l’autore del progetto presente che si può definire così: scuoterla un po’ questa routine che invadeva ciò che è consueto, darle un po’ di aria, per discernere il grano dal loglio, i punti di riferimento vivi dalle cose morte. Capita anche a loro, alle cose, di morire. (Ibidem)

La ricerca della traccia e del contorno della figura negli scatti fotografici di questa transumanza («ci si fida delle mappe catastali di altri tempi», scrive Deligny) scava e dissotterra gesti antichi (sarà uno dei criteri per tracciare le «lignes d’erre»):

Ed ecco che la foto si mette ad evocare certi affreschi ritrovati su qualche parete rocciosa. Vi compare quel tratto che delimita, la linea di contorno che segna il confine della cosa nominata e di cui si potrebbe credere che non esiste in natura. Quelle capre eccole tracciate. (Ivi: 63)

Le paraboliche traiettorie di viaggio ricordano quelle di Don Chisciotte, un eroe letterario molto amato da Deligny, la cui erranza costruisce un’epopea di tragitti. Il gioco omofonico tra leggenda e legenda, che in francese si esprimono entrambe con la stessa parola, légende, intesse un intrigo doppio tra la grana leggendaria di cui Deligny riveste il suo progetto con i bambini e le «légende» che appone come descrizioni sia delle foto che delle linee d’erranza/lignes d’erre. L’insieme di questi elementi conferisce alle «légendes du radeau», un tono simile ai miti di fondazione, tanto da farlo divenire le mythe du radeau, il mito della zattera, un’imbarcazione di estremo salvataggio, metafora per dare nome al progetto a una comunità di fortuna, come Deligny intende il «tentativo in corso». Tutto così si carica di legenda:

Un tempo, il sale aspettava le pecore su queste pietre. I greggi stanno per scomparire, sono scomparsi da queste parti.

Vestigia, queste pietre erose dalla lingua delle pecore. Certe persone a vederle sentono come un vuoto da qualche parte, un vuoto triste. Altri che sono puri frutti del progresso, prendono le cose come vanno. […]

La prossima primavera, ne avremo certamente uno, di gregge, che passerà di qui, tra le pietre piatte, e ce ne sarà di sale sulle pietre, nonostante tutto, per vedere, per porre rimedio alla nostalgia, riparare il danno, far girare la terra in senso inverso. (Ivi: 68-69)

 Dispiegando tutte le possibilità della parola e della parola poetica, servendosi del linguaggio alto della metafora, del vocabolario desueto e di quello popolare del linguaggio idiomatico, Deligny conferisce  dignità di letteratura ai bambini senza linguaggio: dignitas inteso nel senso esteso del diritto romano. Solo innalzando il suo, di linguaggio, Deligny può garantire a quei bambini il diritto al silenzio, l’unico per cui l’educatore francese vuole e può battersi: «Divenire muti […] fare lo sciopero dell’espresso come altri fanno lo sciopero della fame […] questa decisione di legare la propria sorte a una causa persa, quella del silenzio». È l’incipit di uno dei capitoli di «Nous et l’innocent» (saggio del 1975), dal titolo Ce silence là ou le mythe du radeau, dove zattera è la metafora della comunità da fondare:

ecco che ora ci sono, in questi vasti cammini di terra trattenuti da piccoli muretti montati pietra su pietra al fianco di monti molto erosi della catena ercinica.

Ancora una volta, c’è, la quindicina di bambini autistici, ed è perché ci sono io, tra quattro mura spesse d’un metro o quasi, loro nei dintorni, fuori, lontano; i loro tragitti vi si sono iscritti, sui muri, e ciò che tengo d’occhio, è noi, noi altri là, zattera di ultimo salvataggio di vite isolate.

Le Cévennes sono vaste. (Deligny 2007: 696, trad. mia)

 

  1. Giornale di bordo

 

Dal canto suo, fisso nell’atelier situato a Monoblet, Deligny non si sposta, e vigila sulla vita dei bambini, ma “da lontano”. Questa distanza, studiata e non occasionale, necessaria e mantenuta costante, è fondamentale nello sviluppo del suo metodo. Anche le aree di soggiorno, abbiamo visto, sono molto distanti tra loro. La scrittura di Deligny è costantemente puntellata da indicatori di luogo, , haut, nous-ci, nous-là, ce nous-là, che hanno il ruolo di shifters, riportano sempre al qui e al dove, riconducono alla traccia, così come a tutto ciò che marca lo spostamento, producendo il punto di osservazione attraverso una pratica territoriale di messa a punto e configurazione di spazi. Una “misura” che si estende a tutta la relazione con i ragazzi presi in carico, affidatigli dalle istituzioni o dalle famiglie. Per questo gli educatori non sono tali e Deligny li ribattezza presenze prossime, dove prossimo non è “esattamente” vicino (il concetto di voisinage qui è messo radicalmente in crisi) perché non richiede relazione. Chi è prossimo è “lì”, presente, ed è su di lui, adulto, a essere incentrato l’intervento. Nel 1976, Deligny scrive ad Althusser:

Nella nostra pratica, qual è l’oggetto? Tal o talaltro bambino, soggetto psicotico? Certamente no. L’oggetto reale che si tratta di trasformare, siamo noi, noi là, noi prossimi di questi “soggetti” qui, che a rigore di termini non lo sono proprio (tanto) ed è il motivo perché ESSI ci sono, là. (Lettera inedita a Louis Althusser, settembre 1976, cit. in Deligny 2013: 1, trad. mia)

Allo stesso modo, ai bambini autistici, privi del patto con il linguaggio, non si trasmetteranno conoscenze, ma semmai gesti. Nelle aree di soggiorno si svolge una vita semplice, si coltiva l’orto, si fa il pane, si allevano i polli, si lavora il legno, si prepara da mangiare, si apparecchia e si lavano i piatti. (FIG. 2bis)

Figura 2bis

 

L’organizzazione della rete nelle Cévennes si basa sull’autosussistenza, nessuno ha uno stipendio e quindi non c’è circolazione di denaro. Deligny la definisce «vita da zattera»:

Gesti, percorsi, progetti avvengono nell’assenza del linguaggio. Sono mutacici, questi bambini, e l’assenza del linguaggio è un po’ come l’assenza di gravità.

I gesti di quelli che sono là, come presenze vicine a questi bambini gravemente psicotici, alcuni dei quali sono stati dichiarati incurabili, subiscono da questo fatto una sorta di «deriva», che LORO hanno deciso di non frenare.

Chi sono LORO, quelli là, che vivono volontariamente ai confini del mondo del verbo di cui si dice che è l’umano per eccellenza?

[…]

Perché un bambino possa avere un luogo altrove che nei luoghi previsti dallo Stato per il suo stato, bisogna che qualche adulto si sia sottratto alla forza d’attrazione dell’impiego che lo aspettava, qui o là, e decida di vivere nell’incessante ricerca di un «noi altri» che permetta a questi bambini «proibiti» di osare, di osare di essere, che il verbo ci sia o non ci sia.

Permettere loro di intervenire, a questi bambini che paiono segregati in un isolamento a volte estremo, rivela gli indizi di un NOI che ci sorprende e, si può dire, ci sfugge.

È quasi sempre inavvertitamente che avvengono le coincidenze tra il bambino psicotico e il NOI di queste piccole unità sparse nelle Cévennes. (Deligny 1977: 29)

I bambini (EUX, LORO) sono lì, vivono in prossimità dei gesti degli adulti (NOUS, NOI), gesti improntati a un consuetudinario ripetitivo con cui Deligny sostituisce il concetto di quotidiano. In tal modo gli si garantisce l’immutabile. In questa organizzazione ritmata e susseguente, può succedere che il bambino assuma il gesto dell’adulto, per contagio o imitazione. Sarà compito dell’educatore comporre, decomporre e amplificare il gesto del bambino, osservando, rimanendo prossimo, tracciando (azione assieme coreografica e pittorica):

Voglio dire che non smetterebbe mai

di pelare patate

o di lavare piatti

da quel buono a niente che era

eccolo diventato una straordinaria

macchina tuttofare

senza linguaggio nessun fine

una verità evidente che può evitarci di vedere

che il linguaggio può avere i propri fini

e di noi      non gliene frega niente

al linguaggio né più né meno

che a lui, il ragazzo

(Deligny 1977:22)

Dettagliatamente e magistralmente documentata in Ce gamin, là, il film di Deligny, prodotto  nel 1975 da François Truffaut, la pratica del consuetudinario affonda su NOI, gli adulti, le presenze prossime, vicini, attenti, stupiti, inquieti, commossi, ma costantemente :

Quel che mi sono detto

E che ho detto e ridetto instancabilmente

 immutabilmente

        a noi altri

                proprio a questo ‘noi’

quel che ho detto e ridetto

noi eravamo là

vicini

attenti

stupiti

inquieti

commossi

è una vasta dimora

tra due spuntoni di roccia

noi

degli esseri pensanti

esseri di linguaggio

di carne     di sangue     di ossa

e di linguaggio soprattutto

altrimenti

     su cosa volete contare?

Ma dato che il linguaggio non serve

dato che il linguaggio non ce l’ha, lui, il linguaggio

che non capisce affatto

allora

la differenza è enorme

la distanza infinita

im possibile

questo ragazzino

in sopportabile

in curabile

e noi

ai suoi occhi

in visibili

in esistenti

(Deligny 1977: 16-17)

L’assunto di Deligny è molto chiaro fin dall’inizio. Se i bambini mutacici e senza parola non potranno mai entrare nel consesso del linguaggio, è necessario creare uno spazio comune e primordiale “fuori linguaggio” (hors-langage).

Che l’umano forse non sia (tanto) di competenza del linguaggio, ecco dove mira la scommessa di queste cosiddette linee erranti. (Deligny 1980:38)

 

mutacico questo ragazzino

allora

su cosa si può contare

        quando manca il

        linguaggio?

Fidarsi dei nostri occhi

fidarsi delle nostre mani

        ci siamo messi a tracciare

questo ragazzino che non è parlante traccia

per mesi e mesi. La sua mano ha tracciato dei

cerchi nient’altro. […]

(Deligny 1977: 15)

Il primo dei Cahiers de L’Immuable (dal titolo Voix et Voir) si apre con una nota vergata a mano in cui l’infinito del verbo tracciare (tracer) è inscritto all’interno dei cerchi non-congiunti di Janmari.

Questo TRACCIARE

davanti la lettera

non finirò mai di vederci ciò che alcuno sguardo

compreso il mio

vi vedrà mai · l’umano è là

forse

semplicemente

senza nessuno con la chiave

senza voce ·

loro là

di TRACCIARE

sono di mia mano che ha improntato la maniera di maneggiare

lo stile di questo janmari che parlante non è · e tutto

ciò che io posso scrivere viene da questo

TRACCIARE che tutti gli scritti

del mondo non rischino di prosciugare. (Deligny 2007: 813, trad. mia)

*

Nel suo studio, che diventa un vero e proprio laboratorio, Deligny intraprende la pratica delle carte, così si racconta, a partire dalla difficoltà di Jacques Lin, uno dei suoi collaboratori, a fermare il flusso interminabile di quei bambini che con gesto, chiamato stereotipia, si mordono o si battono la fronte contro pietre o muri. È il 1969 e Deligny propone di trascrivere quel gesto, di dargli una configurazione spaziale sulla carta piuttosto che riportarlo a un sintomo o a una definizione clinica.

Lo stereotipo è una emozione manifesta. In quel caso c’è un’emozione profonda provocata da qualcosa. Quel dondolare di Janmari ci ha spinti a cercare nelle carte un punto di orientamento. Non credo agli stereotipi che risalirebbero a una meccanica propria del bambino autistico. Ogni movimento indicato all’infinito evoca l’idea di un possibile nodo: e lì affiora l’umano. Bisognerà pur dirsi un giorno che la specie umana non è più stupida delle rondini e delle anatre. Le carte ci consentono di scoprire il naturale che, a quanto sembra, affiora per vacanza del linguaggio vissuta dai bambini autistici. Ma certo è che non siamo soltanto dei paperi. (Deligny 1980: 15)

Da questo momento in poi, alla fine di ogni giornata, i collaboratori di Deligny, le «présences proches», si incontrano in occasione di quelle che verranno chiamate tance de cartes. Le carte vengono raccolte da Gisèle Durand, un’altra delle sue collaboratrici, Deligny commenta e, insieme agli altri, osserva. Sono mappe per vedere, servono agli adulti. I tracciati infatti permettono a Deligny di guardare a distanza per poter rilanciare la ricerca. Questo lo schema: le lignes d’erre sono tracciate su dei calchi e i calchi riportati su un fondo di carta (che rimane sempre fisso) che restituisce il piano del territorio dell’area di soggiorno. Le carte vengono approntate sia in presa diretta, dal vivo nelle aree di soggiorno, sia la sera, nell’atelier. Le sovrapposizioni svelano i cambiamenti e le trasformazioni dei tragitti e dei gesti, o, al contrario, i ritorni e le ripetizioni.

Lo scopo dell’osservazione sulla carta è chiaro. Loro, i ragazzi autistici non ci guardano e il loro sguardo è vuoto di noi: «Si tratta di apprendere a vedere ciò che non ci riguarda, voglio dire ciò che non interessa, a prima vista, né “io” né “egli”», ciò che noi non riusciamo a vedere:

Nel testo introduttivo del primo Cahiers de l’Immuable Deligny illustra e stabilisce i presupposti fondamentali del tracciare, i criteri minimi con cui si redigono le mappe di erranza: in mina grigio piombo i tragitti e gesti consuetudinari degli adulti; all’inchiostro di china, quelli dei bambini. (Fig. 3)

 

Questi QUADERNI si aprono su un tentativo in corso, rete di presenza.

La maggior parte dei bambini presenti in questa rete di aree di soggiorno, vivono lontano dalla parola; mutacici.

Qui, in questi QUADERNI, noi ci atterremo al fatto che tracciare è il proprio dell’uomo che ha l’uso della parola che lo fa essere ciò che è. Da qui queste carte di cui noi abbiamo introdotto l’uso tra noi. Trascritte alla mina di piombo appaiono le tracce dei nostri tragitti e gesti consuetudinari. All’inchiostro di china, la linea di abbrivio inscrive, in «tragitti», ciò che arriva da un bambino non parlante alle prese con queste cose e queste maniere d’essere che sono le nostre. (Deligny 2007: 811, trad. mia)

 

Figura 3

L’alternativa a una soggettività, che è mancante perché manca di linguaggio, è un’evidenza che si “leva” e brilla dai calchi. Nello stesso punto in cui il bambino torna a battere su una pietra attaccata a un albero, o torna a un fuoco antico, o a una sorgente d’acqua, c’è un ritorno perché si stabilisce una connessione di luoghi (repères, li chiama Deligny), un nodo (chevêtre), che lega noi a lui, e che, infine, ci trova. Noi, una pietra sulla sua linea di erranza. La favola ricomincia sempre da questo punto:

c’erano una volta

uomini

e pietre.

Stavano volentieri

vicino alle sorgenti

e non sapevano perché

l’acqua, è qualcosa

che non serve solo per bere

e le pietre

erano là anche loro

e il sedercisi sopra

rompere le noci

farne dei muri

non le esaurisce

ecco che ne sprizzano scintille

ecco che ne sprizzano punti di riferimento

quel ragazzino

in accettabile

in sopportabile

incurabile

ne prende sì

di iniziative

affascinato

attirato com’è

dalle cose da fare

una pietra di noi sulla linea di abbrivio

(Deligny 1977:26-27)

 

4. Zattera: contrade a venire

 

Le carte riprodotte nei Cahiers de l’Immuable furono redatte da Gisèle Durand specificatamente per servire da illustrazione alla pubblicazione dei testi di Deligny. Tre anni dopo l’apparizione delle Œuvres (2007), a cura di Sandra Alvarez de Toledo, per la casa editrice l’Arachnéenne, la stessa Durand ritrovò negli archivi di Monoblet un corpo di trecento carte tracciate entro il 1969 e il 1980, che, a differenza di quelle pubblicate nei Cahiers, erano state redatte nelle aree di soggiorno, secondo il protocollo indicato da Fernand Deligny a Jacques Lin. Questo materiale è andato a costituire, in parte, il libro-catalogo uscito nel 2013 per la stessa casa editrice (Deligny 2013, da cui sono estratte le immagini allegate al presente articolo). L’opportunità di seguire l’evoluzione delle lignes d’erre, sia dal punto di vista cronologico sia per aree di soggiorno, offre la possibilità di intravedere il “protocollo”, cioè l’insieme dei criteri comuni che chi tracciava doveva seguire, in modo da rendere leggibile la processualità dei tragitti e delle traiettorie. Gli stili di trascrizione sono molto diversi tra loro nei dieci anni di pratica (dal 1969 al 1980): in certi casi il tratto è realistico, anche se molto semplice e spesso infantile, in altri il disegno è piuttosto astratto. [Figura 4 e 5).

 

Figura 4

Figura 5

 

Quasi sempre sulla carta viene evidenziato il contorno, espresso con il termine cerne (il lessico di Deligny deve molto alla pittura), che marca e delimita il territorio dell’area di soggiorno, un’area ben definita in cui si stabilisce una relazione tra bordo e fuori. Il contorno d’area può avere due forme, espresse ancora una volta attraverso un gioco di carattere omofonico: il «cerne d’erre» e il «cerne d’aire». Il primo circoscrive i bordi o i margini estremi toccati dalle erranze del bambino e occupa tutto lo spazio circoscrivendo la condizione autistica; il secondo è il territorio del consuetudinario, in cui si svolgono le azioni giornaliere e in cui i cammini degli adulti possono incrociarsi con quelli dei bambini. Il gesto consuetudinario può essere tracciato in bianco su uno sfondo sfumato in mina di piombo, oppure essere segnalato con pastello marrone. Il contorno d’erranza e il contorno d’area si presentano sotto forma del cerchio “non-chiuso” di Janmari. (Figura 6).

 

Figura 6

 

All’interno del contorno d’area e sulla linea di erranza di un bambino può essere indicato un détour, cioè uno spostamento o curvatura nella traiettoria intrapresa che subisce, quindi, un cambiamento o deviazione. Le azioni che si svolgono nelle aree si ispirano a un agire intransitivo, contrapposto da Deligny al fare che invece è carico di finalità, impossibile nel caso dei bambini autistici il cui gesto è piuttosto privo di finalità, improntato al «per niente» (pour rien). Sui calchi l’agire è rappresentato in diversi modi, o con piccole onde e anelli in inchiostro di china; o attraverso macchie di pastello marrone, o ancora, con piccole mani stilizzate in inchiostro bistro. [Figura 7)

 

Figura 7

 

In alcuni periodi, sul margine delle carte, o anche all’interno del tracciato, viene disegnato un quadrante, come quello di un orologio, le cui lancette segnano la durata dei percorsi registrati o le ore in cui sono stati rilevati. L’irruzione del tempo sulla carta divarica ancor più lo spazio, conferendogli una sorta di ritmo interno che funziona contemporaneamente da dispositivo esterno di temporalità – Deligny infatti parte sempre dall’idea che il tempo i bambini autistici non lo sentono dal momento che il tempo è una categoria del linguaggio.  [Figura 8 e 8 bis)

 

Figura 8

 

Figura 8bis

Lo spazio delle aree di soggiorno è puntellato di «repères», ovvero punti di riferimento, oggetti o luoghi con cui il bambino (ma anche l’adulto) si mette in relazione, o a cui torna per ripetere dei gesti. Per esempio, una pietra appesa al ramo di un albero che viene percossa per emettere un suono. O il dado, un grosso cubo di pietra collocato in un sacco attaccato a un albero. Può capitare che una presenza prossima prenda il dado e lo lanci: il gesto, che si riferisce esplicitamente e volutamente all’azzardo e al caso, può essere poi assunto anche da Janmari. Si tratta di inciampi o incontri nello spazio che suscitano nuove traiettorie nel bambino. Il dondolare («balancer», per Deligny), l’oscillamento stereotipato e continuativo caratteristico degli autistici, è rappresentato da un fiore nero, via via sempre più stilizzato, disegnato in inchiostro di china. In certi casi è una piccola forma a zigzag, come la dentellatura di una sega. Questo segno è importante nella lettura delle carte perché il dondolarsi coincide con un punto di arresto, un tempo in cui le traiettorie dei bambini si fermano inesorabilmente. Sulla carta la N designa NOI, gli adulti, mentre la Y è un punto di raccordo, che nel lessico di Deligny corrisponde a chevêtre – capestro, nodo, tavola di legno che nella carpenteria riunisce elementi portanti. Nelle carte esso indica un punto in cui nello spazio si incrociano (s’enchevêtrent) i tragitti degli adulti e le linee d’erranza dei bambini, una zona precisa dove per consuetudine vengono a collocarsi o dove possono coincidere il loro agire. Il segno dello chevêtre, la Y, è tracciata a pastello grigio, o più raramente a pastello arancio. Il gambo più grande designa l’adulto e il gambo corto il bambino autistico che è sopraggiunto all’adulto, capitato o “avvenuto” (nel senso del latino advenire). Questa idea può essere ulteriormente sottolineata da un punto arancio sopra il gambo corto della Y. [Figura 9)

 

Figura 9

 

Il termine chevêtre può allo stesso tempo designare un luogo che il bambino ritrova: fonti e corsi d’acqua, ad esempio, sono tra i magneti più potenti per bambini che si muovono come rabdomanti. Nell’atelier si osservano meticolosamente questi punti di ritorno, sia perché si nota in essi una riduzione considerevole nella frequenza della stereotipia, sia perché tali nodi di incrocio sono quelli dove l’adulto o la presenza prossima dovrà a sua volta farsi acqua – come scrive Deligny, per divenire ‘attraente’ nello stesso modo in cui lo sono fonti e ruscelli. Si tratta di uno dei pilastri delle metodo Deligny: è l’adulto che ha l’obbligo di trasformarsi, divenendo il referente primo dell’azione pedagogica, e non il bambino, come per la pedagogia tradizionale.

 

Come farci acqua, dunque, agli occhi dei piccoli profeti senza-Verbo?:

e là lui vibra fino al midollo come la bacchetta

di un rabdomante

L’ACQUA

sorgente

fiume

fontana

ogni polla d’acqua scoperta

I nostri piccoli percorsi sono in bianco

il deserto

o quasi

quasi

uno di questi fili, una linea d’abbrivio c’è

che passa di lì

vedete quel vecchio luogo lassù

la linea di abbrivio porta lì

chi sa perché     questo ritorno

ostinato al vecchio luogo

capitava che l’una o l’altro di noi

l’accompagnasse

il ragazzino, lassù

fin nell’acqua

lui non      entrava nell’acqua

guardava

e noi abbiamo pensato

dato che non c’era

l’altro

per lui

come fare

per farci acqua

ai suoi occhi. (Deligny 1977: 20-21)

Il rigore con cui Deligny oppone la sua letteratura al protocollo clinico si esplica nel mettere a punto un vocabolario infallibile ed evocativo al contempo. Come se, vista la fallibilità del linguaggio, questo debba necessariamente ergersi a strumento affilato; e anche se Deligny sceglie le parole per la loro «lontananza dal senso», facendole così apparire preziose e poetiche, queste finiscono ugualmente per «impregnarsi di senso». Scrivere su di loro (i bambini), dopo avere esperito questa singolare prossimità/lontananza, varata nello spazio delle aree di soggiorno nelle Cévennes («Non bisogna staccare le parole da quelle carte che sono lo strumento della nostra pratica»), equivale in qualche misura a restituire loro la scrittura, altrimenti impossibile senza linguaggio, una sorta di letteratura che sia la loro voce, ma senza voce.

Così, la zattera non è il luogo di un’umanità naufraga, ma quello in cui si è “naufragati” dal linguaggio. È qui che Deligny impianta accuratamente il suo intervento, configurandolo in un tempo arbitrario che potrebbe collocarsi “dopo” ciò che definisce disastro del linguaggio – Deligny conosceva bene l’opera Antonin Artaud, che in questa espressione sembra evidentemente riecheggiare:

Eravamo solo in pochi

in piccole unità sparpagliate

sulle montagne da queste parti

bisognava tener duro

di giorno

di notte

malgrado l’impossibile

l’insopportabile

sulle montagne corrose

simili a grandi ondate

della catena ercinica

 

qualche zattera

dopo il disastro

disastro     il linguaggio è scomparso

come si diceva

del sole (Deligny 1977:18-19)

 

La zattera diviene dunque l’immagine finale, il battello, la nave dei folli, l’imbarcazione di Medusa, e Deligny la disegna, fluttuante tra le onde delle montagne erciniche, lanciata nel mare aperto senza linea di confine con il cielo. (Fig. 10)

Una zattera, voi sapete come è fatta: ci sono dei tronchi di legno legati tra loro in modo molto lasco, sì che quando si abbattono le montagne d’acqua, questa passa attraverso i tronchi aperti. È per questo che una zattera non è un battello. Altrimenti detto: noi non tratteniamo le domande. La nostra libertà relativa viene da questa struttura rudimentale di cui penso che chi l’ha concepita han fatto il suo meglio dal momento che non era in grado di costruire un’imbarcazione. Quando i problemi si abbattono, noi non serriamo i ranghi – non congiungiamo i tronchi – per costituire una piattaforma concertata. Ma esattamente al contrario. Noi manteniamo del progetto chi del progetto ci lega. Vedete da lì l’importanza primordiale dei legami e del modo di legare, e della distanza stessa che i tronchi possono prendere tra loro. È necessario che il legame sia sufficientemente lasco e che non lasci. (Le Croire et le Craindre, cit. in Deligny 2013 : 11, trad. mia)

 

Figura 10

 

I flussi migratori dei bambini imbarcati sulla zattera di Deligny, tra le onde erciniche delle Cévennes, somigliano a quelli descritti da Marcel Schwob ne La crociata dei bambini, non a caso modello citato in Rhizome come un’operazione rara e ben riuscita, quando Deleuze e Guattari fanno appello alla necessità di fondare la «nomadologia», da contrapporre alla Storia, scritta sempre «dal punto di vista dei sedentari». Il libro di Schwob racconta un fatto leggendario accaduto agli inizi del Duecento, quando dalla Francia e dalla Germania partirono due spedizioni di bambini, guidati da «voci bianche» e diretti verso Gerusalemme. Alcuni scomparvero in mare, altri vennero fatti schiavi, comunque mai giunsero alla città sacra. Così come per Deligny, la lente della raffinatissima scrittura di Schwob coglie il viaggio dei bambini con una profondità visionaria da sempre negata, o inaccessibile, alla pedagogia:

La terra ha oscure foreste, e acque, e montagne, e sentieri pieni di rovi. E dove la terra finisce c’è Gerusalemme. Non abbiamo né capi né guide. Ma tutte le strade ci sono amiche. Benché non sappia parlare, Nicolas cammina come noi, Alain e Denis, e tutte le terre sono uguali e ugualmente pericolose per i bambini. Le foreste oscure, e le acque, e le montagne, e le spine sono ovunque. Ma dovunque saranno anche le voci. […] Oh come sono belle le cose della terra! Non ricordiamo niente perché niente abbiamo imparato. E tuttavia abbiamo visto vecchi alberi e rocce rosse. Ogni tanto attraversiamo lunghe tenebre. […]  Così la nostra speranza è grande, e presto vedremo l’azzurro del mare. (Schwob 2004)

 

Questo articolo è stato già pubblicato da:

La Deleuziana – rivista online di filosofia – Issn 2421-3098

3 / 2016 – La vita e il numero

 

 

Postilla bibliografica:

Il presente saggio, uscito nel 2016, per le citazioni da Rhizome, si è avvalso della prima traduzione italiana di Mille piani a cura di Giorgio Passerone (Castelvecchi, 2006). Si rimanda ora alla nuova versione dell’opera in cui la prima traduzione è stata accuratamente rivista: G. Deleuze- F. Guattari, Mille piani, a cura di Paolo Vignola, con saggio introduttivo di Massimiliano Guareschi (Orthothes, 2017). Lo stesso vale per l’edizione: F. Deligny, I vagabondi efficaci, a cura di Luigi Monti, traduzione di Chiara Scorzoni (Edizioni dell’Asino, 2020).

Si segnala, infine, il lavoro di ricerca che Enrico Valtellina, anche dalla prospettiva del metodo Deligny, sta conducendo sull’autismo, il cui primo contributo è contenuto nella collana «Disability Studies», diretta da Roberto Medeghini: E. Valtellina (a cura di), L’autismo oltre lo sguardo medico. I Critical Autism Studies, vol. I, Erickson, 2020. In preparazione il secondo volume dedicato interamente a Fernand Deligny.

 

Bibliografia

 

de Certeau, M. (1990). L’invenzione del quotidiano. Trad. it. di M. Baccianini. Roma: Edizioni Lavoro.

de Certeau, M. (2007), La presa della parola e altri scritti politici, Trad. it. di R. Capovin. Milano: Meltemi.

Deleuze, G. & Guattari, F. (2006). “Rizoma”. In Mille piani. Trad. it. di G. Passerone. Roma: Castelvecchi, 34-66.

Deligny, F. (1977). Una zattera sui monti. Stare accanto ai bambini che non parlano, cronaca di un tentativo. Trad. it. di M. Bertini. Milano: L’Erba Voglio.

Deligny, F. (1980). I bambini e il silenzio. Trad. it. di G. Amati, A. Cavicchiolo, C. Vazzoler. Milano: Spirali.

Deligny, F. (2007). A cura di S. Alvarez de Toledo. Œuvres. Paris : L’Arachnéen.

Deligny, F. (2013) [catalogo collettivo]. Cartes et lignes d’erre. Traces du réseau de Fernand Deligny, 1969-1979. Paris: L’Arachnéen.

Fabre, J.-H. (1957). Le meraviglie dell’istinto negli insetti. Traduzione di E. Somaré. Milano: Sonzogno.

Fabre, J.-H. (2020). Ricordi di un entomologo. Traduzione di L. Frausin Guarino. Milano: Adelphi.

Jousse, M. (2011). La sapienza analfabeta del bambino. A cura di A. Colimberti. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.

Oury, J. (1976). «Préface», “Histoires de la Borde: 10 ans de psychothérapie institutionnelle à Cour-Cheverny 1953-1963”, Recherches, marzo-aprile 1976, 9-11.

Schwob, M. (2004). La crociata dei bambini, traduzione di G. Mariotti. Milano: SE.

Stevenson, R.-L. (2012). Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, a cura di P. Pignata. Como-Pavia: Ibis.

 

 

 

L’Anno del Fuoco Segreto: Astrazione

1

La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI

di Viola Di Grado

Una sera, in una zona fredda della Terra, mi sono innamorata di una persona. Perdonate l’imprecisione. L’imprecisione è una forma narrativa e una forma d’amore. Non ricordo davvero di che sesso fosse. Non ricordarlo è il mio tentativo maldestro di avvicinarmi alla sua essenza.
La mia memoria è complice di quella sua natura indefinibile che tanto mi attraeva. Aveva i capelli molto chiari e lo sguardo di un naufrago e la voce simile a ghiaccio che si rompe. Aveva un’età tra i venti e i cinquanta. Perdonate l’imprecisione. L’imprecisione è una forma di bontà. Scegliere cosa amare e cosa perdonare.
E poi io vivo nelle astrazioni. Concetti che evaporano così velocemente da diventare luminosi e lontani come astri. Anche Persona, adesso, è luminosa e lontana. E piccola. Credo sia mort*, a causa delle operazioni chirurgiche invasive e invalidanti sul suo corpo, oppure non mi parla più, il che tecnicamente, nella mia storia personale, è equivalente. In realtà è equivalente anche sul piano della storia astrale.
E io ne scrivo per avvicinarl*, per ingrandirl*. Amare con struggimento è un modo di ingrandire. Aveva un nome, se non sbaglio, ma anche quello è andato. È rimasto un po’ nei miei ricordi come la luce di una stella ormai defunta, poi è scomparso. Non importa.
Rimane quello che so. Quello che so è che mi sono innamorata, una sera, in un ospedale, in una zona fredda della Terra. L’amore ti dà una conoscenza imprecisa e inaffidabile di te stessa e degli altri. Io ero lì perché avevo un proiettile nello stomaco, mi avevano sparato perché sono un’aliena e me ne stavo in un giardino a guardare una pianta, non è diverso da un umano che guarda la televisione in un salotto, ma io non posso stare nei giardini degli umani, è spaventoso e li confonde, se sono creativi ne fanno film e libri, altrimenti sparano. Persona invece era lì perché voleva liberarsi del suo ombelico.
Non è facile, essere in un corpo che non somiglia alla tua anima. La sua anima era audace e indipendente. Il suo corpo invece era bisognoso. Doveva essere nutrito e ascoltato. Calmato, esercitato, liberato. Così sono i corpi degli umani.
In sala d’attesa mi disse che tutto era cominciato da lì, dall’ombelico. La mattina, prima di andare all’università (studiava cose interessanti, ma non ricordo quali), si guardava allo specchio e quel buco inespressivo ricordava l’utero in cui era stat* come un pesce nella boccia, a disposizione di un cibo che l* inondava.
Quello che era venuto dopo, nella sua vita, non somigliava alla serenità. Somigliava più alla storia di un cane che attende il suo padrone dietro la porta: che sia cibo o bastonate non importa, attende un segno, una conferma che esiste ancora, i suoi guaiti somigliano a un coro di porte che cigolano insieme in tutte le case abbandonate del creato. Persona si sentiva come un cane e ne aveva abbastanza.
Dopo la chiusura chirurgica dell’ombelico, quella sera in ospedale, iniziò la nostra breve relazione e contemporaneamente il problema delle orecchie. Non sopportava di avere bisogno dei rumori del mondo per capire come comportarsi, cosa rispondere alla gente, quando attraversare la strada. Si sfondò i timpani con un due arnesi di ferro. Poi c’è stata la bocca. Non sopportava di aver bisogno di pronunciare le cose. Di pronunciare il mio nome, persino, anche se mi amava un po’. Com’era poi, il mio nome? Perdonate l’imprecisione, è una forma perversa di libertà.
Si cucì la bocca, lasciò libero solo il naso, perché respirare era l’unico modo conosciuto per restare vivi. Quando mi urlò, quella notte, nel giardino ombroso fradicio di rugiada, “Io non ho più bisogno di nulla!”, sapevo che in quel nulla c’ero anch’io. Non aveva più bisogno di me. Non è detto che amarmi, amare un’aliena, sia importante. Ho accettato immediatamente quella verità. La voce con cui aveva urlato era la voce fragile di chi non poteva sentire la sua voce, e io presa dalla tenerezza l* abbracciai forte.
Si accesero le luci della casa. Casa sua. Due genitori pallidi, impietriti, videro un* figli* tornat* dopo mesi dall’università senza più i buchi con cui l’avevano concepit*. Un sacco di carne ricucita, un corpo astratto. E, abbracciata a l*i, un’aliena pazza d’amore. Quale parte della scena va precisata? La reazione dei genitori, la mia, il modo in cui corsi via perché sapevo che anche loro mi avrebbero sparato?
Questa non è la fine della storia. Da fuori, la Terra segue un conto alla rovescia che tiene conto di una storia più grande, di cui faccio parte anche io e persino i buchi neri. La fine della storia ti dà una conoscenza imprecisa e inaffidabile del resto della storia.
La fine della storia non è esplosiva: se ne sta in un luogo timido impreciso che non è la Terra e nemmeno il posto da cui vengo, non è il giardino in cui ho visto il mio amore per l’ultima volta: è il luogo in cui restano le storie, come in attesa,  e lì quella persona che ho amato non sente più nulla e non vede più nulla e i suoi occhi richiusi sono simili a virgole in un racconto, e io non so come contattarla dal buio del mio pianeta pieno di segnali che non possono raggiungere il suo corpo chiuso, e ne sono ancora innamorata, molto innamorata, per quanto importa, per quanto tristemente impreciso sia questo sentimento.
Perdonate l’astrazione.

**

Immagine di Francesco D’Isa.

Viola Di Grado (Catania, 1987) è l’autrice di Settanta Acrilico Trenta Lana (edizioni e/o 2011, vincitore del premio Campiello Opera Prima e del premio Rapallo Carige Opera Prima, finalista all’International IMPAC Dublin Literary Award), di Cuore cavo (edizioni e/o 2013, finalista ai PEN Literary Awards e agli IPTA Awards), di Bambini di ferro (La Nave di Teseo 2016) e di Fuoco al cielo (La Nave di Teseo 2019, vincitore del Premio Viareggio Selezione della giuria 2019). Collabora con “La Stampa” e con “Linus”. Le sue opere sono tradotte in sedici paesi.

La Spoon River dei vivi

1

di Antonella Falco

Domenico Dara, Malinverno, Feltrinelli 2020, pp. 336, € 18,00

Una Spoon River dei viventi, di chi è rimasto, e giorno dopo giorno deve trovare il modo di andare avanti, di portare il fardello di un’esistenza che l’evento ineluttabile della morte di una persona cara ha svuotato di senso, aspettando che il tempo svolga la sua opera e renda più facile, un giorno, alzarsi dal letto e più leggero il peso che grava sul cuore.

Perché

«Ci si abitua a tutto. Alla solitudine, al dolore, alle stagioni che cambiano, all’apparente lentezza del tempo, agli amici che partono, ai ricordi che svaniscono, alla memoria che si assottiglia, all’umidità sul muro, al silenzio delle strade, ai perfidi spifferi dalle finestre, alla pigrizia dei muscoli, alla luce accecante dell’estate, alla nostalgia, alla tristezza, a un amore che finisce, ai sapori indistinti su papille filiformi.

A tutto finanche alla morte.

Ogni evento che al suo manifestarsi ci appare troppo grande per sopportarlo, e che nel momento in cui lo viviamo sembra schiacciarci definitivamente, gravare su ogni cellula del corpo, va prima o poi ad allinearsi tra i fatti consueti della quotidianità, l’abbandono al fianco della bottiglia d’olio, la disperazione tra le camicie nel cassetto, la tristezza tra i libri sulla mensola. E anche la morte della persona che amiamo, la morte che esaurisce le lacrime e i pensieri, l’evento che sembra interrompere il tempo, cancellare ogni domani, azzerare il futuro, quella morte che sembra la nostra morte, s’impoverisce, anche quella diventa una maniglia cigolante, il pomo di un appendiabiti, un calzino spaiato, una stella cadente vista all’ultimo momento. Ci si abitua a tutto, anche alla morte».

Una Spoon River dei vivi, dunque. Questa è la prima cosa che viene da pensare inoltrandosi nella lettura di Malinverno, il nuovo, bellissimo, romanzo di Domenico Dara, pubblicato a fine agosto da Feltrinelli. Un romanzo che è in realtà, per certi versi, un metaromanzo, in quanto fin dalle prime pagine vi si respira l’afflato della grande letteratura di ogni epoca e luogo, quella poesia imperitura che le parole dei grandi classici tramandano da secoli.

Timpamara, nuova immaginaria incarnazione romanzesca della Girifalco tanto cara all’autore, è un paese in cui i libri sono, anche letteralmente, nell’aria. Accade da quando, tanti anni addietro, vi fu installata la più antica cartiera della regione, alla quale si aggiunse, poco dopo, anche il maceratoio. Fu così che qualche operaio prima di gettare le pagine nell’acqua delle vasche, iniziò a darvi un’occhiata e poi, magari, a portarsele a casa. Prima pagine sparse, poi fascicoli e capitoli, infine interi libri; finché gli operai presero l’abitudine, la sera, dopo cena, di leggere e di far leggere in famiglia quelle carte, «spargendo come untori il morbo della lettura». E quando non erano gli operai a diffondere le parole dei libri, ci pensava il vento, cosicché stormi di romanzi volavano e si diffondevano in ogni angolo del paese. Non sorprende dunque se gli abitanti di Timpamara, infestati dal potere affabulatorio delle grandi storie che leggevano, iniziarono a dare ai figli i nomi di personaggi letterari e di scrittori. E fu tutto un fiorire di Victorùgo, «a tal modo scritto e pronunciato», e di Marselprù, Verter, Ortìs, Gargantuà e Pantagruèl, e di Otello, Desdemona, Armida e Valchiria. Risulta pertanto del tutto normale che il protagonista di questa storia si chiami Astolfo Malinverno, nome dovuto alla passione materna per il poema cavalleresco dell’Ariosto e per quel cavaliere che aveva osato andarsene fin sulla luna a recuperare il senno smarrito di Orlando.

Astolfo, nato zoppo, «a causa di uno sbilanciamento corporeo che era segno fisico dei tempi squilibrati che il mondo viveva e della cecità di Natura che, dispensando nella stessa portata Vita e Morte, talvolta difetta nella scelta», è il bibliotecario di Timpamara, attività a cui si dedica con passione e che rispecchia il suo carattere sognatore e visionario:

«Fosse per me ci abiterei, tra i libri: attraversata la porta della biblioteca mi sembra già di non zoppicare più, non è vero ma io lo sento, come se lì dentro non esistessero uomini claudicanti o piè veloci, distanze da percorrere o tempi da rispettare ma tutto si agguagliasse nella parola. È più di un rifugio per me: una tana, la mia camera amniotica. Qui dentro mi sento meno solo, e io la so misurare la solitudine».

La tranquilla routine quotidiana di Astolfo viene turbata il giorno in cui il messo comunale gli annuncia un nuovo incarico: il pomeriggio continuerà a svolgere la mansione di bibliotecario, ma la mattina sarà il custode del cimitero. Inizialmente timoroso che il nuovo incarico venga a stravolgere la regolarità certosina della sua vita, Astolfo accetta senza alcun entusiasmo ma ben presto instaura tra le due attività un rapporto osmotico, complice anche una misteriosa lapide senza nome e senza date: solo la fotografia di una donna dagli occhi bellissimi e dallo sguardo franco. Astolfo rimane affascinato da quel volto e lo associa a quello a lui caro della sua eroina letteraria:

«Sentì provenire da quell’immagine come un’aria di tristezza autunnale, di mondi che sfioriscono, la mestizia delle vite sciupate e dei sogni mancati. Uno scatto vecchio, di anni imprecisati, e tuttavia il volto era nitido, magnetico, e mi si fissò tanto nella mente che, quando ripresi la lettura, mi bastò immergermi nel grondante disincanto delle pagine per associare quasi naturalmente alle fattezze della sconosciuta quelle dell’eroina di Flaubert. Da quel momento, Madame Bovary ebbe per me il volto di quella foto, l’anima affine d’un essere umano nato per il cielo ma dannato alla terra, zoppa nell’animo come io nel corpo.

E le diedi così per sempre il nome a me caro, Emma Rouault, sepolta nel cimitero di Timpamara».

 

La fascinazione letteraria e la trasfigurazione romanzesca degli eventi sono una peculiarità di Astolfo che riempie la solitudine e la mestizia della sua vita popolandola di personaggi letterari. Il romanzo di Flaubert è in tal senso uno dei punti di riferimento fondamentali, è lo stesso Astolfo a dircelo:

«Questa lettura tornava nella mia vita ogni volta che avevo bisogno di consolazione, quando avvertivo cioè la necessità di annacquare e disperdere la mia tristezza nella tristezza del mondo e sentirmi così parte dell’umanità illusa e dolente».

Altro imprescindibile punto di riferimento romanzesco non può che essere il Don Chisciotte di Cervantes. Emma e l’hidalgo. Le due icone assurte a simbolo della diversità di Astolfo che ha scelto di fare della «vita interiore […] il recinto della sua esistenza». E che riconosce consapevolmente come la propria diversità consista «nell’aver confuso ciò che il resto degli uomini sa ben separare», proprio come i suoi due eroi letterari che «tentarono di imporre il loro tempo al tempo del mondo»: «due esseri simboli di quell’umanità colpevole di sognare troppo e di pensare che sia sogno, la vita».

Animato da una fervida immaginazione, Astolfo riscrive il finale dei suoi romanzi preferiti, quando questi non si concludono con la morte del protagonista (dettandone poi, per telefono, il necrologio, al giornale locale): unica cosa, la morte, in grado di dare all’esistenza un senso di compiutezza. Una posizione che rievoca le famose parole di Pirandello secondo il quale «la vita non conclude». La morte, invece, almeno per Astolfo Malinverno, evidentemente sì. Quella morte con la quale il nostro protagonista ha un’antica consuetudine, risalente alla primissima infanzia, lui, forse unica persona al mondo, a poter contemplare la propria immagine in una lapide. Sua è infatti la fotografia che campeggia sul marmo funebre di Notturno, il fratellino gemello nato morto e seppellito senza che gli venisse scattata una foto, per cui si sopperì alla mancanza usandone una dello stesso Astolfo.

In questa continua osmosi tra l’attività di bibliotecario e quella di guardiano del cimitero, Astolfo s’inventa anche il cimitero dei libri: un quadrato di terra, entro il perimetro del camposanto, nel quale sotterra i libri attaccati dalla muffa, rovinati, e ormai inservibili.

Ma come il già citato Pirandello, nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in appendice al suo Mattia Pascal, metteva in guardia su come la realtà a volte possa, per inverosimiglianza  e trovate stupefacenti, superare la più vivida immaginazione, così anche Astolfo si troverà a vivere una storia che neanche lui avrebbe mai saputo immaginare. Tutto inizia quando fa la sua comparsa nel cimitero una giovane donna vestita di nero, somigliantissima alla defunta della tomba senza nome. Attratto dal mistero di queste due donne, dal loro sconosciuto legame e dalla ignota e probabilmente dolorosa storia che le riguarda, il bibliotecario inizia un’indagine che si dipana per pagine e pagine, tra colpi di scena e momenti di grande sensibilità e commozione, portandolo a vivere un’esperienza che lo tocca nel profondo e cambia per sempre la sua vita.

Malinverno è un romanzo sulla vita e sulla morte, sul loro indissolubile legame, una riflessione sul destino e sull’amore (dal quello filiale a quello tra uomo e donna) che qui è spesso amore vissuto nel ricordo, nella memoria, nella nostalgia del tempo passato, nella malinconica consapevolezza che tutto è destinato a finire ma che niente muore senza lasciare una traccia indelebile nell’esistenza di chi rimane. Astolfo sa raccontare, e, come chiunque abbia il talento dell’affabulazione, sa ascoltare, e di storie ne ascolta tante, a volte bizzarre, a volte struggenti, a volte paradossali: tanto surreali da sembrare incredibili o così ironiche da strappare un sorriso, ma sempre, tutte, profondamente umane.

Astolfo ha il dono della compassione, la capacità di sentire empaticamente la sofferenza altrui, e si prodiga, per quanto è in suo potere, di alleviarla. Nel fare questo arriva a modificare in modo apparentemente stravagante, il regolamento cimiteriale, venendo incontro alle singolari richieste di alcuni suoi concittadini. Accade per la gamba incancrenita dal diabete e amputata del vecchio Brognaturo, il quale chiede espressamente che l’arto venga «sepolto a sé stante, fin quando morto l’intero altro corpo, cioè sé stesso, quel pezzo sia insieme a lui seppellito ad aeternum».

Accade per il bastardino bianco di Marcantonio Parghelia, maestro d’ascia in pensione, vedovo e solo, che ha in quella bestiola, amata come un figlio e che porta il suo stesso nome, l’unica compagnia. Quando il cagnolino muore, Parghelia chiede ad Astolfo di trovargli un posto entro le mura del cimitero, «un angolo appartato», perché, sostiene, «Marcantonio non era un cane, era un cristiano a cui mancava solo la parola», e pertanto come un cristiano merita di essere seppellito.

E accade per Margherita, che rimasta “vedova” del suo sposo alla soglia delle nozze, supplica Astolfo di unirla in matrimonio al suo Fiodoro, dopo che il prete del paese, quel don Pallagorio che ogni domenica pontifica «sulla vita eterna, sulla morte della carne e la resurrezione dell’anima», è rimasto sordo alla sua preghiera e l’ha congedata come fosse una poveretta impazzita di dolore per la perdita dell’amato. Ma non è sordo Astolfo a un simile appello, e, dinanzi a un amore che osa sfidare la morte e i suoi limiti ineluttabili,  si fa officiante di una cerimonia degna di un film di Tim Burton: sepolcrale e poetica, gotica e commovente (ché, se questo romanzo dovesse mai avere una trasposizione cinematografica, proprio il visionario regista di Edward mani di forbice e de Il mistero di Sleepy Hollow ne sarebbe l’artefice perfetto, tanto più che la stessa immagine di copertina ricorda la sua Sposa cadavere).

Né poteva mancare, in una storia come questa, la figura di uno psicopompo, qui incarnato dal cane Kachanka, apparso un giorno dal nulla e che misteriosamente presenzia ad ogni funerale, scortando poi il feretro dalla chiesa al cimitero.

Tanti sarebbero i personaggi degni di essere menzionati in questa storia che, pur avendo come protagonista indiscusso Astolfo Malinverno, sa aprirsi a una narrazione corale che reca in sé qualcosa della magia senza tempo dei racconti degli aedi e, come alcuni hanno notato, sembra evocare taluni aspetti del realismo magico.

Tra le tante figure presenti nel libro potremmo ricordare quella di Isaia Caramante, che si aggira fra le tombe munito di registratore e cuffie per registrare le voci dei morti, e quella di Elea Maierà, il Resuscitato, come tutti lo chiamavano da quando si era improvvisamente risvegliato nella bara in cui familiari e conoscenti lo stavano vegliando in attesa del funerale, e che da allora, ogni mattina alle nove, varcava il cancello del cimitero e «si sedeva accanto alla buca che gli avevano scavato la mattina del giorno in cui era morto, e restava fino all’ora di pranzo». Elea «aveva pagato per comprarsi quella piccola metratura che era il suo unico avere, […] e voleva lasciarla sempre a quel modo, aperta…». Muto e solitario, Maierà dopo il suo ritorno alla vita, «per quasi un anno parlò una lingua diversa, e ci volle un po’ di tempo per capire che pronunciava parole all’incontrario, portatore di un punto di vista rovesciato sul mondo, lui che era un vivo morto o un morto vivo, comprendeva il linguaggio lineare degli uomini ma lo restituiva come allo specchio, ribaltato, paladino di un sistema capovolto».

Ma numerosi altri sono i personaggi singolari che si incontrano nelle pagine di questo romanzo, personaggi di cui è bene tacere per non rovinare al lettore il piacere della scoperta. Tuttavia di uno non possiamo esimerci dal parlare, perché, pur essendo morto da tanti anni e presente, dunque, solo nel ricordo affettuoso di Astolfo, esso è fondamentale per comprendere la pervasiva inclinazione del protagonista verso le storie e l’arte di raccontare. Il personaggio in questione è quello di Catena Seminara, la madre di Astolfo Malinverno. Di tale debito è consapevole egli stesso che ne rievoca la figura in questi termini:

«Mia madre viveva delle storie che leggeva, che se avesse avuto l’istruzione, come diceva, ne avrebbe scritte anche lei, ma poiché non sapeva, fin da giovane si scriveva i libri nella testa, che i personaggi ce li aveva davanti, tutti i paesani che incontrava e a cui attaccava addosso una storia segreta, ed era una bella vita, che così anche Catena era come se vivesse dentro un libro. Siamo fatti di pensieri più che di carne, e quei pensieri ci vengono distillati nel sangue dalle idee di chi ci ha voluti, che io non ho ereditato solo il colore dei capelli o l’arrendevolezza degli sguardi ma anche le illusioni, i sogni, e le passioni per i racconti.

Di ogni persona conosciuta e sconosciuta, di ogni uomo o donna che incrociava, di ogni essere di cui si parlava, di ogni vicino di casa, di ogni cuore che batteva, perfino degli animali per strada o di ogni oggetto sfiorato, della pietra raccolta, della busta di latte abbandonata, del mondo intero mia madre conosceva e raccontava la storia. […]

Con la bocca di mia madre che narrava e animava il mondo, come se il mondo esistesse solo nella parola e con la parola, conobbi la vita e imparai ad amare i racconti e a capire presto che uomini e libri narrano in fondo le stesse storie».

Domenico Dara ci consegna un romanzo sul potere delle parole e della narrazione, sul pervasivo incanto che esse sanno creare, un romanzo che, dunque, è anche una riflessione sulla capacità della Parola di plasmare e animare il mondo, come se essa, la Parola, fosse generatrice di realtà. D’altra parte, «ogni vero artista crea la realtà nominandola» scrive un altro grande evocatore di mondi attraverso il potere delle parole, che risponde al nome di Michele Mari. E lo fa in un racconto, Grecia-Argentina, contenuto in Fantasmagonia, in cui Omero e Borges, i due grandi ciechi della letteratura mondiale, assistono a una finale di calcio anch’essa scaturita dalla lanterna magica dell’affabulazione letteraria. Né occorre sottolineare come la citazione borgesiana ripresa da Mari rimandi alla creazione del mondo come è descritta nel libro della Genesi: Dio crea il mondo e tutte le cose che lo popolano mediante un comando verbale. Egli nomina gli elementi del cosmo mentre li crea, secondo l’antico concetto di ascendenza ebraica in base al quale le cose non esistono veramente fino a quando non sono nominate. Le analogie con Mari non finiscono qui, avendo egli dedicato al grande tema della fascinazione affabulatoria esercitata dai racconti il suo stupendo romanzo La stiva e l’abisso. Mari è autore al quale ci viene da pensare anche in relazione all’abitudine di Astolfo di cambiare il finale dei libri. Michele Mari, infatti, ha pubblicato un’intera raccolta di racconti – Fantasmagonia – nella quale si diverte a consegnarci una versione apocrifa della letteratura, di quella letteratura che egli stesso ha maggiormente amato e assimilato al punto da sentirsi autorizzato a fornircene una versione alternativa, non meno potente e ammaliante di quella ufficiale.

Domenico Dara ha saputo ritagliarsi un posto nell’ambito del panorama letterario contemporaneo attraverso la specificità della lingua – in questo caso un italiano lineare ma non privo di ricercatezze, che prende il posto del dialetto presente nei primi due romanzi – ma anche di un filone tematico che fa dell’indagine sul senso della vita (e della morte, intesa come «la più grande invenzione della vita», per usare la celebre definizione di Steve Jobs), sull’importanza del racconto e della memoria e sui grandi temi universali del destino, del caso e dell’amore, il nucleo essenziale del suo narrare. Il tutto attraverso una scrittura che sembra sospendere il tempo e, così facendo, accomunare passato e presente in un continuum cronologico che abbraccia e affratella gli uomini di ieri e di oggi.

La matematica è politica

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di Antonio Sparzani

In generale sono contrario a fare di Nazione Indiana un blog prevalentemente di recensioni, ma qualche rara volta non resisto alla tentazione, specialmente quando mi capita tra le mani un librettino come La matematica è politica, firmato da Chiara Valerio, per molti anni indiana (e dunque eis aiōna) e uscita, con mio grande dispiacere, nella primavera 2012, dalla nostra Nazione per uno stupido malinteso. Il libro è uscito l’anno scorso nelle “Vele” Einaudi, direi subito dopo la cosiddetta prima ondata del Covid, ha 105 pagine e costa 12€.
Chiara è laureata in matematica, cosa che, a suo dire, l’ha avvantaggiata negli ambienti letterari che ora frequenta perché un matematico non può che essere una “persona intelligente”, essendo donna, poi, ancora più eccezionale. Ma il suo atteggiamento nei confronti di questa che viene normalmente chiamata “scienza esatta” non è quello tradizionale. Basta leggere la citazione di copertina:

“La matematica è stata il mio apprendistato alla rivoluzione, perché mi ha insegnato a diffidare di verità assolute e autorità indiscutibili. Democrazia e matematica, da un punto di vista politico, si somigliano: come tutti i processi creativi non sopportano di non cambiare mai.”

Ma come, certamente qualcuno si chiederà, non è la matematica l’unico assoluto – nella scienza – al quale possiamo affidarci nei nostri molteplici tentativi di comprendere il nostro mondo? Ecco a voi come ragiona Chiara (p. 53):

“È una disciplina che non ammette principio di autorità giacché nessuno possiede la verità da solo, le verità sono asserzioni verificabili da chiunque, o se non da chiunque (alcune volte è difficile) almeno da un certo numero di persone. Inoltre, la matematica è un linguaggio, una grammatica. Per discutere di matematica bisogna accettarne le regole. Sicché uno studioso, ma anche uno studente di matematica, è abituato a operare in un mondo di regole comuni, per ridiscutere le quali non si può essere in uno, bisogna essere almeno in due. Ovviamente la matematica non procede per voto o alzata di mano, ma per ipotesi e verifiche. Se i nostri politici avessero studiato matematica, e se studiandola l’avessero capita, si comporterebbero diversamente rispetto alle cariche dello Stato che ricoprono perché non agirebbero come singoli, ma come funzioni di un sistema più ampio del loro ego, e soprattutto non si preoccuperebbero delle cose ma delle relazioni tra le cose, dunque sarebbero più cauti nel dare una notizia falsa o non verificata, perché consci di quanto la notizia falsifichi il resto, talvolta il contesto.”

La scrittura di Chiara è strana, spesso sorprendente nei suoi accostamenti e nei suoi collegamenti, e d’altra parte è molto personale, parla di sé, delle letture che l’hanno più colpita e cui si è talvolta ispirata e torna insistentemente a parlare dell’idea di democrazia e dei suoi punti di contatto con la matematica.
In uno degli ultimi capitoli si lancia in una rapida analisi di alcuni articoli della nostra Costituzione, in particolare degli articoli 1, 2, 11, 12, 54. L’articolo 11 è quello famoso sul rifiuto della guerra, sentite Chiara:

“l’articolo 11 chiarisce che mai e poi mai l’Italia limiterà con la guerra la libertà degli altri popoli. Nemmeno la libertà a spostarsi, a migrare. Accettare la nostra libertà di muoverci temporaneamente limitata per l’emergenza Covid-19 è stato faticoso, ma lo abbiamo fatto convintamente, partecipi dello Stato. Riusciremo a essere più radicali nel chiedere politiche giuste e rispettose per interi popoli che si spostano?”

A me questa deduzione dall’articolo 11 non era mai balenata (mi era stata molto più evidente la sua contraddizione con quanto D’Alema, allora capo del governo, annunciava, in tv a reti unificate, la nostra esplicita partecipazione alla guerra nei Balcani) e tuttavia è lì da vedere.
Potrei mostrare tante altre citazioni, sempre un po’ spiazzanti, ma allora tanto vale che leggiate il libro, basta un pomeriggio e, secondo me, ne vale proprio la pena.

Mustafa Malimbo

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di Antonio Sparzani
In tutte le prime notizie della davvero tragica e ingiusta uccisione dell’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, vengono doverosamente forniti i nomi e qualche particolare della vita dell’ambasciatore e del carabiniere che gli faceva da scorta, ma, per primo, veniva ucciso “l’autista della jeep” sulla quale essi viaggiavano. Né radio né giornali ne fornivano il nome, era “l’autista”, presumibilmente non italiano, che importa il nome, chi lascia, chi piangerà la sua ingiusta morte, che tipo era, non importa, non fa notizia. Stamani sono riuscito leggendo accuratamente la cronaca su qualche giornale, a saperne il nome, Mustafa Malimbo, era congolese forse, ma non si dice. Ci sono le persone di serie B, o anche C, eccetera.

Tra ironia e disincanto: Mio zio Napoleone svela vizi e virtù degli iraniani

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di Giuseppe Acconcia

In Mio zio Napoleone (Francesco Brioschi Editore, 2020, 20 euro, p. 585, traduzione e postfazione di Anna Vanzan), l’autore, Iraj Pezeshkzad svela pregi e difetti degli iraniani. Questo romanzo umoristico familiare con ironia e disincanto racconta le gesta di un vecchio zio che vanta un passato da patriota sullo sfondo della seconda guerra mondiale in Iran. Il tragicomico ufficiale in pensione dei cosacchi, traditore dei valori della Costituzione, conquistata nel 1906, il Caro zio, fan sfegatato di Napoleone (visto in chiave anti-inglese), è circondato da figure esilaranti: l’attendente Mash Qasem con il quale costruisce un rapporto che ricorda quello tra Don Chisciotte e Sancho Panza; il dongiovanni Asadolah Mirza che vede la California come un eldorado, gridando spesso “E venne l’ora di San Francisco!” e tenta di smascherare il trasformismo del Caro zio mentre è feroce la sua critica dell’influenza inglese nel paese (“l’Inghilterra odia tutti coloro i quali amano la loro terra”); dal gelosissimo macellaio Shir Ali fino al vanaglorioso Puri, considerato il promesso sposo della giovane Leili che ha invece rubato il cuore del cugino tredicenne. Mio zio Napoleone, pubblicato per la prima volta nel 1973 e poi adattato in serie televisiva, è il romanzo di punta di Pezeshkzad, autore iraniano parte della diaspora in Francia dopo la rivoluzione del 1979. La traduttrice, Anna Vanzan, scomparsa prematuramente lo scorso dicembre 2020, è stata una delle più importanti iraniste e islamologhe italiane, ha pubblicato testi fondamentali per lo studio del femminismo iraniano come Donne d’Iran tra storia, politica e cultura (Aseq IPO, 2019), L’Islam visuale. Immagini e potere dagli Omayyadi ai nostri giorni (Edizioni Lavoro 2018), Diario Persiano. Viaggio sentimentale in Iran (Il Mulino, 2017), Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici (Mondadori, 2010), insieme a traduzioni memorabili come quella de “La civetta cieca” (Carbonio 2020) del grande autore persiano Sadeq Hedayat, nel 2017 ha ricevuto il premio MIBACT alla carriera per il suo lavoro di traduzione dal persiano. Proprio con gli occhi del giovane innamorato il cui cuore è stretto in una “morsa di ghiaccio” per l’amata Leili, parte il racconto del suo amore platonico e delle vicende che coinvolgono il Caro zio Napoleone, tra racconti di guerra, come le battaglie di Mamasani e di Kazerun, millantati e confermati solo dal fedele Mash Qasem, delle vendette e dell’inimicizia tra il Colonnello e lo zio, delle flatulenze della giovane Qamar ai doppi sensi tipici dei racconti erotici in Iran, fino a sceneggiate memorabili di finti ferimenti, evirazioni impossibili, assassini apparentemente senza spiegazione. Non mancano neppure dei racconti tutti persiani di flagellanti, odori di piatti prelibati fino alle candele accese per devozione a una saqqakhanek e agli annunci di alcol presente in medicinali che avrebbero costretto alla chiusura le farmacie, svelando tra meschinità e beffe, le ossessioni e le manie di un intero paese. Mio zio Napoleone rientra in una lunga tradizione di letteratura umoristica, quasi di scrittura farsesca per il teatro, dove il diffuso sentimento anti-inglese per il ruolo che Londra ha avuto nella prima guerra mondiale costringendo Reza Shah ad abdicare e nel colpo di stato che ha rovesciato Mossadeq nel 1953, viene associato con sagacia all’affascinazione per l’educazione Occidentale e il cosmopolitismo parte dei tratti essenziali di un intero popolo.

François Coppée tra poesia e parodia

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Félix Vallotton - Le joyeux quartier latin (1895)

François Coppée (1842-1908), poeta popolare e sentimentale, noto esponente del Parnassianesimo, è stato

il vate della piccola Parigi, fatta di vicoli e modiste, di umili e umidità. Poeta malinconico, ha nostalgia ovunque di altri luoghi: in città vorrebbe la campagna (e viceversa); con gli uccelli sente la mancanza degli uomini (e viceversa); nel presente gli manca il passato; di giorno aspetta la sera e in terra aspetta il paradiso;

così lo descrive Stefano Serri nel volume dal titolo Poesia e parodia dalla Ville Lumière. Parigi in dieci righe, apparso per Robin Edizioni. Di cosa si tratta?
Coppée è stato oggetto di innumerevoli parodie e pastiches, delle quali le più note sono firmate da Verlaine e Rimbaud. Come ricorda Olivier Bivort,

I versi di François Coppée (1842-1908) costituiscono uno dei bersagli prediletti degli zutistes, in particolare le sue decime in alessandrini a rima baciata, dedicate a soggetti della quotidianità e a dettagli realistici, confluite nella raccolta Promenades et intérieurs (1875), ma già pubblicate in vari periodici nel corso del 1871. Col tempo, i «Coppées» o «Vieux Coppées» diventeranno un genere a sé, praticato in chiave ludica da Verlaine, Germain Nouveau, Charles Cros, Jean Richepin ecc. (vedi Dizains réalistes, Librairie de l’eau-forte, 1876) (Rimbaud, Opere, a cura di O. Bivort, traduzione mia, Marsilio, 2019, p. 678).

Le rime baciate delle sue decime gli valsero però un buon successo di pubblico. È dunque interessante l’operazione pensata da Serri di raccogliere in un unico volume, con sue traduzioni e testo a fronte, la silloge sopracitata di Coppée, Passeggiate e interni, insieme al rovescio della medaglia, ossia questi noti Dixains réalistes, in cui dieci poeti si divertono a comporre per gioco dei “Coppées”. Parodiato e parodia si susseguono, creando così un piacevole contrappunto.
Presento uno stralcio dell’introduzione di Serri, seguito da alcune poesie. Segnalo, agli appassionati di questo periodo della storia letteraria francese, anche il suo precedente volume Idropatici. Storie di poeti e di liquori, sempre per i tipi di Robin Edizioni, dedicato al circolo degli Hydropathes. (ornellatajani)

Félix Vallotton – Le joyeux quartier latin (1895)

 

a cura di Stefano Serri

Parigi in dieci righe

Lo scopo di questo volume, affiancare due opere non ancora tradotte in Italia e legate tra loro dal legame apparentemente occasionale della parodia, non è solo quello di illuminare entrambi i testi di nuova luce inevitabilmente riflessa, ma anche suggerire due differenti sfumature (ed è proprio dal discriminare sfumature che possono scaturire scintille di conoscenza) sul modo di intendere la poesia.

Ma questo libro è anche il ritratto di una città, Parigi, che è forse la più cantata, decantata e declamata, nel bene e nel male, dai suoi abitanti, dai suoi visitatori occasionali e anche da chi l’ha sfiorata appena, magari in modo indiretto.

Nei due testi presentati sono molti i luoghi indicati, con il nome o con un indizio, e il lettore potrà comporvi le sue passeggiate di ricordi personali o di scoperte e curiosità. Una mappa con i luoghi indicati nelle poesie, però, oltre che lasciare molte zone in ombra, non restituirebbe quello che costituisce l’anima di entrambi i libri: gli angoli anonimi, i passanti occasionali, le figure e gli scorci che, vividissime epifanie di un istante, non potremo mai più collocare. Perché se Parigi può essere rappresentata come una città da sfogliare, una città-libro, come per Baudelaire, che ne fa la Bibbia della modernità, in realtà da questo carnet in dieci righe è piuttosto la città che sfoglia il lettore viandante, sporgendosi dalle sue pietre e dalle sue vetrine, ora come un tramonto che ci coglie impreparati, ora come una venditrice ambulante che ci inquieta e che ci porta, sempre per mano, zoppicante o spedita, un po’ più lontano dentro noi stessi.

Queste ottantanove poesie, questi ottocentonovanta versi, ci mostrano poveri e ricchi, la moda e la natura, i corpi malandati sui marciapiedi e gli amoretti da boulevard. Si trovano squarci della periferia, illuminati dalla luna, «astro degli invalidi», come la definisce Nouveau, e si guarda alla tecnologia e alla modernità con un misto di entusiasmo e scetticismo […].

* * *

da “Passeggiate e interni” di François Coppée

IV

Amo la banlieue con i campi a riposo
E i muri lebbrosi, dove un vecchio avviso
Parla di un quartiere da tempo cadente.
O vanità! Leggo il nome di un mercante:
Sarà già al Père-Lachaise, tra le sepolture.
Indugio. Qui nulla mi piace, neppure
I soffioni tremanti in un cantone.
Poi, per tornare alle case lontane,
Con i vetri che già incendia il tramonto,
Su vie buie, tra gusci d’ostrica, monto.

 

XXVI

Parigi è infernale e sogno, tuttavia,
Una città calma e senza ferrovia,
Dove, dal buon compagno sottoprefetto,
Leggerei, al dolce, un’epistola, un sonetto.
Direi piano, minuscolo peccato,
La quartina mordace che ho scartato.
Là, custodirei vaghe ipoteche.
Mi consulterebbero per le biblioteche;
E, allievo lieto, mi metterei alla mercé
Dei sommi Esménard, Lebrun, Chênedollé.

 

XXXIX

Come sigarette scrivo questi fogli,
Per me, per mio piacere; e sono germogli
Che forse era meglio non cogliere affatto
Poiché l’impressione che mi ha esterrefatto,
Il quadro incontrato per strada un istante,
Alla fine, per chi mi ascolta, è importante?
Non lo so. Perché ciò gli sia gradito,
È, come me, un sognatore incallito?
Forse in questo ruolo si può seccare?
– Su! tu mi sbirci alle spalle, lettore.

* * *

da “Dixains réalistes”

XXIII

Il piccolo impiegato al fermo posta
arriva tardi; la marcia composta;
sulla poltrona in pelle siede dolente,
poiché sa che dovrà dare al cliente
lettere, timbri, le allegre riviste,
e pure i vaglia!… Uomo oscuro e triste.
Si dice, annusando un foglio profumato,
che non viaggia e che non è amato,
e il suo nome, poche sillabe comiche,
non c’è mai nelle gazzette pubbliche.

Nina de Villard

Vennero in sella due gendarmi

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di Marco Pandin

Il 23 maggio 2019 più di mille persone si sono raccolte a Genova in piazza Corvetto per contrastare un comizio elettorale di casapound.

Della reazione brutale della polizia avrete potuto leggere diffusamente sulla stampa nazionale, che si è mossa in solidarietà del giornalista Stefano Origone di Repubblica – vittima e testimone delle violenze.
Minore circolazione ha avuto, invece, la notizia delle cinquantasei denunce e dei circa 60.000 euro di multe affibbiate a persone che la questura ha potuto identificare grazie alle numerose telecamere collocate intorno alla piazza. Persone che saranno a breve trascinate in tribunale per difendersi dall’accusa di antifascismo.

E’ stato messo in piedi un fondo di difesa e per sostenerlo Marco Sommariva (scrittore) e Marco Pandin (vecchio collaboratore di A/Rivista Anarchica) hanno avuto l’idea di chiedere aiuto ad amici e compagni impegnati nel mondo dell’arte: musicisti, disegnatori, pittori, scrittori e performer. La voce è girata tramite passaparola, scavalcando le distanze geografiche e le differenze di stile espressivo; ognuno ha contribuito come poteva e sapeva fare, in maniera volontaria e del tutto gratuita.
Ne viene fuori una raccolta composita, che proprio dalla diversità delle voci e dei segni, delle parole e dei suoni trae linfa vitale. Un libretto e due CD dove ci sono dentro Genova e Napoli e il Veneto e Roma e Catania e il Cilento. Ci sono dentro Fabrizio de André e una “Genova per noi” rifatta in un modo che lascia senza fiato. Scritti bolognesi e milanesi, canzoni in occitano e in friulano, nomi con un certo peso e una certa storia ed altri poco noti, gente abituata ai palasport e altri ai piccoli spazi dei centri sociali, voci che si sentono spesso alla radio e altre che alla radio non passano, parecchie adesioni che hanno sorpreso e reso felici i promotori.

C’è da imparare parecchio da questa solidarietà giunta senza chiedere nulla in cambio, da questa vicinanza nonostante tutto – difficoltà tecniche, lungaggini burocratiche e vincoli contrattuali, nonché l’impossibilità di spostarsi causa covid. E’ stato uno stringersi forte che ci ha insegnato a non temere né pandemie né processi né rappresaglie.

Il disegno in copertina l’ha fatto Zerocalcare e non serve raccontarlo, ma è bene ricordare che il prossimo luglio saranno trascorsi vent’anni da quel tragico G8 che vide sempre Genova come palcoscenico.

Il titolo dell’iniziativa – “Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi”. Fabrizio De André ogni tanto si divertiva a modificare i testi delle sue canzoni: ha inventato degli svizzeri nel bosco e una meravigliosa signorina Anarchia che s’è vista assai spesso accanto a lui fino all’ultimo. Nel nostro sogno genovese, al pescatore i due gendarmi chiesero se lì vicino fosse passato un ragazzino; lui non rispose, e a quelli venuti con le armi offrì solo una specie di sorriso.

I due CD non sono distribuiti commercialmente nei negozi. Vengono diffusi per le strade di Genova, in maniera militante. Un riferimento può essere Marco Sommariva – il suo sito/blog è raggiungibile a questo link.

Hanno partecipato, con contributi sonori, scritti e grafici:

Giorgio Canali, Andrea Sigona, Yo Yo Mundi con Marco Rovelli, Ascanio Celestini, Mars on Pluto, L’Estorio Drolo, Alessio Lega, Banda POPolare dell’Emilia Rossa, Modena City Ramblers, Nuovo Canzoniere Partigiano, Bandabardò, Lo Zoo di Berlino con Franco Fabbri, Gang, Luca Bassanese, Loris Vescovo, Simona Boo, Paolo Capodacqua, Od Fulmine con Davide Toffolo. Dany Franchi, Franti, Massimo Zamboni, Umberto Maria Giardini, Subsonica, Kina, Wu Ming Contigent, Daniele Sepe e i Fratelli della Costa, Caparezza, Luca ‘O Zulù Persico, Mauràs, Signor K, Assalti Frontali, Putan Club, Cesare Basile, Lalli e Stefano Risso.

Erri de Luca, Giansandro Merli, Franco Arminio, Maurizio Maggiani, Fabio Geda, Paolo Cognetti, Haidi Gaggio Giuliani, Max Mauro, Marco Sommariva, Alessandro Spinazzi, Carmine Mangone, Stefano Giaccone.

Zerocalcare, Gaia Cocchi, Fabio Santin, Chiara Sestili, Elia Fortunato, Federico Zenoni, Stefano Sommariva, Shinbross [Giulio Sciaccaluga], NicoComix.

Carmelo Bene e Luisa Viglietti: una storia estromessa

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di Alessio Paiano

 

 

Quando si tratta del fenomeno Carmelo Bene ci si trova sempre di fronte a due poli che ruotano uno sull’altro, la vita e l’opera, che si completano e si respingono allo stesso tempo; così diventa necessario, per una ricognizione completa dell’artista, integrare una dimensione con l’altra per colmare spazi vuoti o irrisolti. Non accade raramente di riscontrare tra i superstiti/seguaci del fenomeno CB (o presunti tali) delle appropriazioni indebite, come se l’’artista’ avesse ceduto il passo a una sua comoda riduzione, che fa comodo a molti: il ‘personaggio’ che ne deriva, adattabile sia nel caso in cui lo si voglia trasformare in un prodotto d’élite, sia che lo si investa di connotazioni ideologiche di dubbia valenza (il Bene anti-potere, il Bene anti-casta delle ultime apparizioni televisive), ritaglia sfaccettature forse corrette ma parziali. Carmelo Bene è stato uno dei pochi artisti del Novecento ad aver frequentato ogni forma artistica disponibile, a cui si aggiunge la presenza televisiva nel corso degli anni Novanta, così nei fan più gelosi del mito beniano questa parentesi sarebbe la più irrilevante e addirittura dannosa, avendo portato a un volgarizzamento dell’artista. Ma Bene ha sempre avuto come unico riferimento la demolizione del linguaggio maggioritario e delle sue funzioni moralistiche e retoriche, come già gli riconosceva Deleuze negli anni Settanta in un saggio poi confluito in Sovrapposizioni (1978); per questo appare del tutto naturale come Bene non potesse lasciare insoluto il conflitto col mezzo televisivo dopo essersi abbattuto, negli anni, contro il teatro, il cinema, il romanzo e la poesia (parlo del mal de’ fiori, poema mastodontico pubblicato da Bompiani nel 2000). A ogni riduzione, a ogni confinamento e pretesa di conoscibilità esclusiva e totale di Carmelo Bene segue idealmente la sonora pernacchia che lui stesso dedicò a chi cercava di ingabbiarlo in improbabili affiliazioni politiche.

Verrebbe da dire: al filologo bastano le opere, al seguace bastano le parole del personaggio da cui trarre una sorta di verità rivelata. Eppure entrambe non si bastano a vicenda. Ben venga allora questo libro a firma di Luisa Viglietti, sua compagna di vita e di arte come costumista e assistente dal 1994 fino alla scomparsa, poiché costituisce un tassello importante per comprendere gli aspetti inediti dell’ultima fase dell’artista. Nella sua prefazione a Cominciò che era finita (Edizioni dell’Asino, 2020) Goffredo Fofi descrive il volume alla stregua di un dono, ben consapevole (in quanto stretto collaboratore di Bene) del gioco a cui Carmelo Bene ha sottoposto tutti, spettatori, critica e fedeli, tranne quelli che ne hanno da sempre compreso il meccanismo: uno scivolamento continuo tra realtà e finzione che passa dalla mitizzazione di sé e della propria opera, tanto da rendersi necessaria prima la stesura di un’autobiografia definita «rischiosissima, reale e immaginaria», Sono apparso alla Madonna (1983), poi di una Vita di Carmelo Bene (1998) architettata con Giancarlo Dotto. Architettata, appunto, poiché si tratta di una storia guidata dal suo stesso oggetto di ricerca, come a fare gli ultimi conti con un’esistenza incomprensibile, poiché quello che da sempre interessa non è la Storia, la biografia documentata dei fatti, ma tutto ciò che non è mai avvenuto e non è stato conoscibile poiché estromesso dai suoi stessi artefici. Così Bene ne parla nell’incipit di Lorenzaccio (1986):

«Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un’azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno»[1].

Carmelo Bene, che ben conosceva i cortocircuiti dell’essere-parlante attraverso le lezioni di Freud, Lacan, De Saussure e avendo per questo, alla stregua dei mistici (su tutti San Juan de la Cruz e Teresa d’Avila) connotato la propria esistenza di una nostalgica inconoscibilità, risolve così i conti con la propria storia: quello che si può sapere, che si crede di sapere e che non si può sapere si ritrova contemporaneamente sulla scena, in un paradosso che Deleuze, parlando del suo cinema, aveva raffigurato tramite l’immagine-cristallo («l’eterna fondazione del tempo, il tempo non-cronologico»[2]) mentre Jean-Paul Manganaro, da un punto di vista più sostanziale, nella pratica dello slittamento («Egli propone una forma e intanto la smentisce, produce appunto uno slittamento rispetto al paradigma appena affermato»[3]). Cosa ci fa dunque sapere in più Luisa Viglietti? Nel suo racconto si avvicendano dettagli di vita quotidiana e i retroscena riguardanti le opere del periodo, sia in teatro con l’Hamlet Suite e Pinocchio sia in televisione, lo strumento a cui Carmelo Bene sembra dedicare maggiore attenzione in questa fase; fino all’esordio nel millennio con mal de’ fiori, di cui Viglietti fornisce informazioni filologiche e ricorda il tentativo di dialogo da parte di Bene con gli altri poeti, che a parte qualche complimento privato lo esclusero dai loro circuiti, probabilmente (a nostro avviso) per la distanza assoluta, sotto vari punti di vista, con le opere del suo tempo – di tutta risposta a questo isolamento, Bene non evitò commenti sprezzanti sulla poesia delle «anime belle», «comunicativa, edificante, a volte satura di decadentismo smidollato».

Cominciò che era finita contiene una serie di notizie inedite sulle opere e curiosità a tratti sbalorditive per chi custodisce l’immagine del mito, anche se i più semplici gesti di quotidianità domestica venivano portati da lui su un piano differente: così, se Viglietti racconta come in quegli anni Bene fosse rimasto sedotto dalla televisione, il suo non era mai un ruolo da spettatore passivo (un contrappasso impossibile), ma uno studio attento di quei ‘buchi neri del linguaggio’ che dichiarava di aver ritrovato lì, nei talk-show dove ci si parla addosso (Bruno Vespa), spesso con esiti inconcludenti o confusionari (Gigi Marzullo), senza mai perdersi un solo programma sportivo; evitava e disprezzava la TV delle vallette e delle showgirl, anche se nella storia delle apparizioni ‘improbabili’ rimane la partecipazione a Macao (1997) condotto da Alba Parietti, che da questo libro sappiamo essere una gentile prova di stima per Carlo Freccero, il quale da direttore di Rai 2 vorrà alcune messe in onda tra cui il Pinocchio del 1999:

Per la scena dell’arrivo dell’omino di burro con il carro dei ciuchini all’appuntamento con Lucignolo e Pinocchio, Carmelo mi chiese di vestirmi da Lucignolo per pochi secondi.  La scena iniziava con Sonia/Omino di burro che entrava guidando il carro, io/Lucignolo e Carmelo/ Pinocchio, ci avvicinavamo e saltavamo in groppa agli asinelli. Al primo ciak Carmelo anziché appoggiarsi con il fianco alla sella del ciuchino a dondolo, come avevamo fatto alle prove, alzò la gamba destra e ci montò sopra, l’afferrai da dietro per la cintola dei pantaloni per non farlo cadere, nessuno se ne accorse. Buona la prima! Appena finito di girare la sequenza lo accusai di essere un incosciente, lui con un sorriso di soddisfazione mi disse che era da quando li aveva visti la prima volta che desiderava farlo. (p. 143)

Ovviamente, non si parla solo di studio, arte e lavoro: al centro resta la relazione tra i due, l’amore quotidiano delle scelte d’arredo, delle cene esagerate cucinate da Carmelo (di cui Viglietti riporta le ricette, sempre le stesse ripetute ossessivamente, per dosi e ingredienti eccessive come il cuoco), degli screzi per motivi fin troppo comuni nelle coppie, che ne fanno però una storia credibilissima e tangibile. Infatti è proprio questo restituire (finalmente!) la dimensione umana dell’uomo-Carmelo Bene il grande merito del volume: ne fuoriesce, e Viglietti non ha remore nel descriverlo, un uomo solo, separatosi fin dalla giovinezza dai famigliari, di cui restano però le tracce di un’educazione fortemente matriarcale e da qui, probabilmente, il rapporto difficile con le attrici, che l’autrice cerca di comprendere, senza condannare né giustificare. Vengono poi nominati i pochi amici, a cui Bene dava molta importanza, tanto da rimanere vittima di alcune prove di generosità non ricambiata; e poi l’idiosincrasia con le spiagge d’Otranto («vuoi diventare cretina, il sole è micidiale»), l’incontro non esaltante con Umberto Eco, la paura di essere fissato dagli occhi indagatori dei bambini, le incomprensioni con l’Università di Lecce che rifiutò all’ultimo di conferirgli la laurea honoris causa (non «buon esempio per i giovani», secondo il rettore), la scoperta della malattia e la sparizione, che Viglietti racconta in maniera lucida e priva di ogni patetismo, forse anche dall’esempio di quell’uomo così abituato a darsi del tutto in scena ma così rigido nel privato. Eppure, ci racconta l’autrice, la notte prima di uno degli interventi chirurgici a cui dovette sottoporsi, pensava a quel figlio, Alessandro, avuto dalla prima moglie Giuliana Rossi e morto a quattro anni, nel 1965; un lutto inconfessabile, secondo Viglietti:

Mi parlò del dolore più grande della sua vita, la perdita di suo figlio Alessandro. Quella notte Carmelo mi parlò a lungo di quel bambino, e del dolore che nel corso di tutti quegli anni non aveva mai trovato pace. Mai prima di allora ne aveva parlato in quel modo. Quella notte riuscì a raccontarmi quanto aveva rimosso per tutta la sua vita. (p. 180)

Soprattutto il libro dà una risposta a un quesito che si pongono tutti coloro che ne riconoscono il genio: che fine ha fatto la memoria Carmelo Bene? Ma la domanda corretta è un’altra: che fine avrebbe dovuto fare la memoria di Carmelo Bene? Il testamento dell’artista prevedeva difatti la creazione della Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene, naufragata per vicende giudiziarie a dir poco pirandelliane. Le pagine più drammatiche per il lettore sono forse queste, che Viglietti preferisce come al solito ripercorrere in maniera analitica, affidandosi più ai verbali che agli impeti emotivi. Cominciò che era finita è allora il tentativo di scrollarsi di dosso almeno una parte di questa storia dal peso enorme: nel finale, donandosi al lettore con estrema sincerità mediante il racconto della sua storia personale e famigliare, Luisa Viglietti vuole testimoniare l’incontro di due solitudini che si salvano a vicenda. Una storia per anni estromessa e che questo libro finalmente restituisce, per il bene di chi resta. «Abbandonati tutti gli eccessi non gli restava che essere normale. Con un cuore grande come il suo sarebbe stato sì un’eccezione».

 

 

[1] Bene, Lorenzaccio, in Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, p. 9.

[2] Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989.

[3] Manganaro, Il pettinatore di comete, in Bene, Otello, o la deficienza della donna, Milano, Feltrinelli, 1981.

La comunione degli psiconauti

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di Andrea Zandomeneghi

[Note ed elucubrazioni su “Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio” di Peppe Fiore in La scommessa psichedelica a cura di Federico di Vita]

Fiore parte dalle sue esperienze personali con l’LSD («La dissoluzione dell’ego, l’estasi, la percezione di squarci di bellezza assoluta e senza scampo, la sensazione di unità col creato. […] L’LSD è stata una delle cose più vicine al sacro che io abbia potuto sperimentare») e le vede come accesso (rectius: come «ritorno», perché «il cosmo lisergico è sempre lì, sempre uguale a se stesso») a uno spazio peculiare, un «luogo eterno» – che come tale non è prodotto ex novo ed ex nihilo solipsisticamente dal singolo viaggio del singolo psiconauta, ma ha una sua consistenza oggettiva preesistente e addirittura immutabile – «popolato da una folla di altri – tutti gli uomini e le donne che prima di me hanno varcato la stessa soglia». Del resto se lo psichedelico rivela e mostra la mente e non si risolve in un delirio allucinatorio individualistico allora diventa possibile e pensabile un incontro con l’altro nei territori mentali rivelati, la comunione degli psiconauti come partecipazione solidale immersiva alla medesima realtà che si manifesta («l’idea che i fenomeni, spaventosi e bizzarrissimi che accadono a me siano già successi, più o meno simili, anche agli altri i è sempre risultata di conforto durante i trip. […] L’LSD mi ha permesso di stringere un legame con persone a me care così profondo che è paragonabile solo al sesso e, forse, all’essere scampati insieme a un pericolo mortale, o aver combattuto insieme, sullo stesso fronte, la stessa guerra»).

Alla luce di queste premesse diventa sensato da una parte cercare di mappare «il luogo eterno» ovvero «il mondo psichedelico» a partire dai trip report («quella che per mezzo secolo è stata solo una forma di resoconto di stretto appannaggio della letteratura specialistica o degli artisti si è solidificata in qualcosa che assomiglia a un canone: una popolazione di testi che, insieme, posso essere interpretati come un particolarissimo sottogenere della letteratura di viaggio») in cerca di «ricorrenze e sincronicità» analizzati con strumenti comparativistici, dall’altro andare a sondare in base ai risultati ottenuti quanto di realmente «condiviso» c’è nell’esperienza psichedelica operando quindi una sorta di verifica a posteriori che possa eventualmente fondare sperimentalmente l’ipotesi (la premessa) di partenza. Come materiali reportistici da lavorare comparativisticamente Fiore sceglie l’enorme massa di racconti (per lo più anonimi, ma comunque non d’autore: non partoriti con finalità artistiche e letterarie) presenti sul web («con Internet venne una forma di enunciazione di massa dell’esperienza di viaggio psichedelico») e in particolare ne seleziona qualche decina (a cui s’aggiungono le sue proprie memorie personali) dal migliore database sulle sostanze disponibile in rete: Erowid.

Procede poi a tracciare la geografia del «luogo eterno» individuando «pattern che ritornano: quelle rivelazioni che l’LSD dischiude a chiunque sia interessato a conoscere l’universale»:

NATURA («L’LSD dialoga fittamente con il mondo naturale. […] Le texture delle cortecce, le venature nelle rocce, le ramificazioni dei capillari delle foglie: sono sistematicamente tra i primi elementi che prendono vita quando la sostanza si comincia a sentire. Con l’aumentare degli effetti, la natura vive di vita propria, si fa cosciente e può rivelare un carattere cangiante»).

CREATURE («È un peccato che nessuno abbia mai pensato di stilare un bestiario delle creature psichedeliche. Ne risulterebbe un catalogo di varietà impressionante, in cui il quotidiano dialoga con l’inconscio profondo, generando entità che partecipano di entrambe le nature: reale e fantastica, naturalistica e archetipica»).

MUSICA E SUONI («Nei trip report tornano spessissimo i riferimenti alla musica e, in generale, alle esperienze sonore. La musica è da sempre una compagna di viaggio per gli psiconauti: incoraggia il trip, a volte lo guida, e dischiude sempre dei significati inaspettati»).

ETERNITÀ («Ho accennato all’inizio che un carattere ricorrente del mondo psichedelico sembra essere quello dell’archetipico, in qualche caso del mitologico. Sotto l’effetto dell’LSD, gli oggetti, le architetture, i corpi delle persone, anche senza particolari distorsioni della percezione, spesso appaiono circonfusi da una caratteristica aura di eternità»).

TEMPO («Durante il trip il tempo, come le percezioni, può assumere connotati elastici, ricorsivi, frattali. Spesso il temuto bad trip non è altro che questo: l’impressione di ritrovarsi intrappolati in una spirale di tempo che ritorna angosciosamente su se stessa. […] La psichedelia invece scardina il tempo, e con il tempo la consequenzialità degli eventi. Ci porta in un mondo in cui a un effetto non è necessariamente presupposta una causa. In qualche modo, simula il delirio paranoide»).

AUTOPERCEZIONE («In effetti è vero – gli specchi sotto LSD possono essere una trappola infernale, e ci sono poche esperienze più spaventose di specchiarsi e non riconoscersi – la mia identità misteriosamente decomposta e ricombinata in una forma che assomiglia a me, ma non sono più io. […] La dissoluzione dell’io è un’esperienza che molti psiconauti cercano, perché ci distacca finalmente da noi stessi e dal sistema di automatismi che governa la nostra vita quotidiana, ci richiama all’origine che sta prima del nostro essere gettati nel mondo: anche nella prospettiva di ritornarci poi, nel mondo, purificati da quell’abbandono»).

FOLLIA («Al culmine dell’intensità, la psichedelia smonta le catene di senso, le avviluppa in spirali di non-significato che tornano ossessivamente su se stesse. È la regione più spaventosa della psichedelia, quella che affaccia direttamente sul bad trip. […] Non esiste psiconauta al mondo, credo, che non abbia pensato almeno una volta nella vita di essere impazzito e non poter più tornare come prima»).

DIO («Un grande personaggio ricorrente dei resoconti degli psiconauti: una presenza mutevole e capricciosa che si manifesta, di volta in volta, nella forma di coscienza universale, o di luce, o di senso di unità con il creato, o di caos, o di armonia ordinatrice della creazione»).