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La scrittura di Manuel de Pedrolo è un atto di violenza

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di Alberto Prunetti

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dalla postfazione di Alberto Prunetti a Manuel de Pedrolo, Atto di violenza (1961), Paginaotto edizioni, 2021, traduzione di Beatrice Parisi. Atto di violenza è uno dei libri più rappresentativi di Manuel de Pedrolo, scritto in pieno franchismo)

“È molto semplice: restate tutti a casa”. Il romanzo di Manuel de Pedrolo inizia così. La gente non esce di casa, nessuno va a lavoro, le strade si svuotano. La gente si affretta a accaparrare cibo e beni di prima necessità. Gli scaffali dei negozi si svuotano. Le macchine delle fabbriche si fermano.

Cosa sta accadendo? Un coprifuoco imposto dall’alto? Una pandemia? Certo, ormai è impossibile non leggere queste pagine senza pensare alle strade vuote dei giorni del Covid. Ma quello raccontato da de Pedrolo è un atto di insubordinazione di massa. Un rifiuto generalizzato a lavorare, a uscire di casa: l’ostentata negazione di mettere a servizio la propria forza lavoro. Chi c’è dietro? Un partito? Un sindacato? Un gruppo di intellettuali? Niente di tutto questo. L’atto di insubordinazione è proclamato da una sorta di comitato invisibile. È uno sciopero, certo, ma senza un sindacato. È politica, ma senza rivoluzionari di professione. È resistenza, ma i partigiani non hanno bandiere eppure sembrano inarrestabili.

E il potere cosa fa? Il potere è una forma di autoritarismo sul viale del tramonto. Una concentrazione di autorità desautorata, in piena osteoporosi. L’ossatura solida di un tempo comincia a sfaldarsi. Le iniezioni di forza muscolare non bastano a tenere assieme la carcassa della governance. È un potere old school: per definirlo, più che alla microfisica di Foucault bisogna pensare a una griglia elettrosaldata con intrecci d’acciaio, consolidati da divieti, bandi, censure, pistole e carceri. È una dittatura, quella del fantomatico Domina. Una dittatura che assomiglia molto al franchismo (non a caso de Pedrolo scrive il romanzo tra il 1960 e il 1961).

Come ogni dittatura colpisce grossolanamente a caso. I pochi che disobbediscono alla consegna e escono di casa vengono fermati e maltrattati dalle forze dell’ordine, che così rinforzano l’imperativo a non uscire. Ma il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla.

Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza.

Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere.

E che ci interroga sulla resistenza nei confronti dell’autoritarismo. Che succede quando il potere autoritario diventa debole? Come si fa a evitare che il Leviatano, ormai mostruosamente tirannico, rinasca dalle sue ceneri? E soprattutto: che ne è dell’autorità del padrone quando lo schiavo si rifiuta di uscire di casa, di mettersi disponibile al lavoro per i profitti del signore? Può un sistema autoritario che si regge – alla pari del resto dei sistemi democratici – sull’uso della violenza e sul consenso meccanico, sullo spettacolo concentrato, direbbe Guy Debord, può un tale sistema essere destituito soltanto dalla resistenza passiva dei cittadini e delle pratiche di disobbedienza civile?

Leggendo queste pagine pedroliane a me è venuto in mente lo scrittore argentino Rodolfo Walsh. Un altro che con la violenza e la dittatura ha fatto i conti, resistendo alla dittatura militare con la penna e con la pistola (morì sotto i colpi da fuoco dei repressori militari). Il tema della violenza è centrale nell’opera di Walsh, tanto che una sua raccolta di articoli si intitola proprio El violento oficio de escribir. La scrittura è un atto di violenza, un mestiere violento. O meglio: raccontare una società violenta significa fare della scrittura un atto di violenza. Una scrittura che si propone di raccontare la violenza del potere non può essere la scrittura pacificata che intrattiene: deve camminare sui carboni ardenti e soffiare sul fuoco della rivolta. È la scrittura come la intende e la pratica Manuel de Pedrolo. Una scrittura che non si può fare come se fosse un pranzo di gala, parafrasando una famosa citazione di Mao che ogni amante degli spaghetti western conosce a memoria.

Ma chi è Manuel de Pedrolo? Autore finora non tradotto in italiano, è in realtà poco conosciuto anche in Spagna, mentre in Catalogna è un punto di riferimento letterario di primo piano. Nato nel 1918 a L’Aranyó, in Catalogna, de Pedrolo esercita il suo mestiere di scrittore in anni difficili. Inizia a lavorare come traduttore e si dedica alla redazione di decine di romanzi. È molto prolifico, ma la sua vena narrativa si schianta contro la diga dei censori del franchismo. Marxista e catalano, la sua opera viene censurata continuamente. Quasi ogni suo romanzo viene di fatto in qualche modo tagliato dallo sguardo occhiuto del censore. Sette vengono totalmente vietati. Per quelli che riesce a portare in stampa ha bisogno di anni di confronto con la censura.  Tra il ’49 e l’inizio della transizione almeno trenta libri di de Pedrolo riescono a entrare nelle librerie solo dopo una lunga elaborazione di editing che si estende fino a dieci anni di lavoro. Il muro della censura si alza per ragioni diverse: politiche, morali o linguistiche. Il problema è il suo riferimento a immaginari operai e popolari, la militanza di sinistra dell’autore, la maniera priva di pudori moralisti con cui tratteggia la sessualità e infine l’uso del catalano come lingua di scrittura. La situazione comincia a migliorare solo a partire dai primi anni Settanta, con l’allentarsi della morsa della dittatura.

Atto di violenza si svolge attraverso una serie di scene, con un taglio quasi cinematografico. Alcune sono intrecciate tra di loro, altre no. Sembra quasi un montaggio che restituisce la scena dell’azione prima che il dramma si compia nel finale. Sequenza dopo sequenza, vediamo gli interni e gli esterni della città vuota. Ascoltiamo le lamentele dei padroni della fabbrica con i macchinari fermi (“Ci sono sempre i crumiri!” “Temo proprio che stavolta sarà tutto diverso”). Camminiamo con la domestica adolescente che va alla fonte, svia la cattura di un fuggitivo e viene colpita a freddo dalla pistola di un poliziotto. E poi lo scrittore e il garzone di bottega – è il ragazzo dell’adolescente ferita – che si ribella al bottegaio, che al solito è un uomo d’ordine. E ancora: la compagnia di attori teatrali pronti a rubare un’auto per riportare a casa un agitatore che non può camminare; due amanti, un gruppo di soldati di leva, gli operai dell’azienda del tram e una coppia di turisti stranieri.

Ma è nel Terzo giorno di insubordinazione generale, di sciopero dal lavoro e dall’obbedienza, che il romanzo comincia a imboccare un’accelerazione drammatica.

Terzo giorno | capitolo 15, letto da Maria Grazia Ruggieri

Al contrario di V for vendetta, qui le strade non sono piene di manifestanti. Sono vuote. Vuote di persone disposte a farsi sfruttare. E questo vuoto, questo silenzio, è un rumore che scava come un tarlo quel potere che ha la forza di svegliare al mattino, con lo squillo delle sveglie, i lavoratori. Non ci sono più ormai neanche i poliziotti per arrestare non dico i sovversivi, ma almeno i cuochi dalla lingua troppo lunga.

Leggiamo de Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa. “È molto semplice: restate a casa.”

L’Anno del Fuoco Segreto: Tongofrip

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI

di Luca Ricci

“Ci sono più cose in cielo e in terra,
Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.

Amleto, William Shakespeare

 

Luigi Menz, da giorni accampato nei paraggi di Frippane, venne raggiunto da un uomo.
– Di cosa è fatta la tua tenda?
– Gore-tex. Un tessuto antivento e impermeabile. E’ ultra leggero.
– Che diavoleria.
Menz sorrise. – Posso entrare nel villaggio?
– I vecchi si sono parlati, – disse l’uomo. – Per loro va bene.
– Domani? Per la Festa di Tongofrip?
L’uomo annuì.
– Qual è la strada migliore per arrivare?
– Devi seguire la via principale, la riconosci perché è fatta di sassi bianchi, taglia il vallone e sale lungo il versante ovest.
– A che ora?
– Parti la mattina presto, ci sono quarantacinque minuti di cammino, mezz’ora se sei svelto.
Si guardarono, poi l’uomo si allontanò e Menz si rificcò dentro la tenda. Era accampato già da qualche giorno, la negoziazione per il suo ingresso nel paese lo aveva impegnato più del previsto. Le scorte di cibo non lo preoccupavano, ma aveva sottovalutato il clima umbro di fine ottobre: di notte l’umidità diventava implacabile, gli bagnava i vestiti. Lì non c’era il tifo né il colera, ma restare intirizzito e al gelo per tutta la notte era molto peggio dei vaccini che venivano richiesti agli africanisti.
La Festa del Tongofrip era uno dei rompicapi più affascinanti dell’intera storia dell’antropologia, proprio per l’assenza totale di testimonianze sul campo, in presa diretta. A dirla tutta la maggior parte degli studiosi l’aveva declassata a leggenda priva di fondamento reale, una stramberia – molto simile a un pettegolezzo – che qualche accademico zelante si divertiva a spacciare come vera nei vari dopocena dei convegni, dopo qualche bicchiere di troppo. Nella Enciclopedia universale dei riti umani del Fropp non se ne faceva cenno. Eminenti antropologi quali Pierre Paul Broca, Lévi-Strauss, Bronisław Malinowski, Giuseppe Sèrgi, Vittorio Lanternari non ne sapevano niente. Era altrettanto vero – indubitabile – che l’antropologia, cioè la «scienza dell’umano», si era andata consolidando grazie a viaggi ritenuti esotici dalla cultura illuminista e occidentale, esploratori alla James Cook di fatto avevano circoscritto il campo degli studi alle colonie, e per un lungo periodo l’antropologia e il colonialismo erano andati a braccetto: normale quindi che nessuno avesse prestato attenzione a un caso, ancorché strabiliante, scoppiato proprio nel cuore della vecchia Europa. A quanto risultava a Menz, soltanto uno studioso aveva citato di sfuggita il caso spinoso di Tongofrip, ed era stato Arnold Weiden, l’americano radiato dalla comunità accademica per il suo sguardo poco incline al rigore scientifico. Quest’ultimo, nel suo Superstizione come evoluzione della scienza, diceva:

“Esiste un paese nel cuore dell’Umbria, cioè nell’entroterra più appartato d’Italia (c’è un’esatta equidistanza chilometrica del paese tra la costa tirrenica e la costa adriatica) che si è reso totalmente inavvicinabile dal resto del mondo: Frippane. Gli abitanti – ma forse sarebbe meglio definirli membri di una tribù – non riconoscono lo stato italiano né la sua costituzione o le sue leggi, non per una sorta di insubordinazione, ma semplicemente perché ne ignorano l’esistenza. Nel corso dei secoli questa minuscola comunità autarchica, svincolata dalle comuni leggi demografiche, non è aumentata né diminuita, attestandosi su una media di 500 persone residenti.  Aiutata nel compito dell’autosegregazione dalla posizione geografica (il paese è arroccato su un picco a strapiombo su un vallone, lontano sia dall’autostrada che dalle principali linee ferroviarie), ha continuato a sorreggersi su un rudimentale sistema economico basato sul baratto, cosa che non ha fatto altro che stringere le maglie della sua società (il baratto, infatti, è possibile soltanto quando i due contraenti si fidino ciecamente l’uno dell’altro; nelle società moderne questo approccio psicologico non avviene più neanche tra consanguinei). Pare che ogni primo novembre nel paese si tenga la Festa del Tongofrip, un rito ancora avvolto nel mistero, in un periodo dell’anno però che per motivi legati alla tradizione religiosa e contadina ama rendere grazie”.

L’indomani Menz si mise in cammino di buon’ora, e riuscì a salire fino all’imbocco del paese in trenta minuti scarsi. Venne accolto dall’uomo con cui aveva parlato il giorno prima, che lo aspettava a braccia conserte poggiato a un masso ricoperto di muschio.
– Non può fotografare, non può registrare, non può scrivere, – lo avvisò.
Menz mise via l’attrezzatura. – Solo osservare.
L’uomo annuì, prima di condurre lo studioso dentro un’abitazione del centro: le case erano in muratura, anche se avevano qualcosa di elementare, di ridotto ai minimi termini, che faceva pensare più a un villaggio che a un borgo.
– Ecco lo scienziato, – disse l’uomo, prima di accomiatarsi.
Menz fece una sorta di saluto ossequioso piegando la testa, ma la coppia di anziani coniugi a cui era rivolto non mosse un muscolo.
Una ragazzina, seduta su una seggiola di paglia, si adornava i capelli con dei fiori.
Il vecchio, intuendo la curiosità di Menz, disse: – E’ per la festa.
– Quando comincia?
– E’ cominciata.
Menz si adagiò su una sedia di paglia. Nella stanza non volava una mosca. Soltanto il contenuto di un paiolo sopra il fuoco ribolliva.
– Adesso è il momento delle sentinelle, – proseguì il vecchio.
Non fece in tempo a finire la frase che da fuori, in lontananza, si sentirono riecheggiare delle grida: “Tongofrip è arrivato”. Soltanto allora Menz capì che il nome della festa coincideva con quello di una creatura enigmatica, che probabilmente era stata divinizzata.
– Tongofrip è buono o cattivo? – gli venne spontaneo di domandare.
Il vecchio socchiuse gli occhi. – Tongofrip è Tongofrip.
Le grida continuavano, sia maschili che femminili, era gente del paese che interpretava una parte, quella di avvisare il resto degli abitanti che era arrivato qualcuno dall’altrove. Più che giubilo, esprimevano apprensione e spavento. Menz uscì, affascinato dalla teatralità del rito a cui stava assistendo, e sentì ancora meglio le urla partire dal ciglio del paese, e andar giù e disperdersi lungo il vallone: “Tongofrip è arrivato”.
Il pranzo fu consumato in silenzio. Una minestra scodellata dal paiolo e un piattino di frutta secca. Menz non capiva la natura di quella frugalità e di quel raccoglimento spaurito. Più che una festa sembrava una quaresima.
– Non mi sembra una festa, – osservò.
Il vecchio spaccò il guscio di una noce, e lasciò il contenuto sul tavolo.
– A noi non piace Tongofrip, – disse, stringendo la mano di sua moglie.
Menz annuì mentre un ragazzino rientrò a casa, chiedendo a gran voce qualcosa da mangiare.
– Sei una sentinella? – gli domandò Menz.
Il ragazzo sorrise. – Quest’anno sì. Ero troppo piccolo, prima.
Passarono un paio d’ore nelle quali a Menz fu consentito di girare per il paese. Non c’era traccia di una consapevolezza né di una rivendicazione per quella condizione di autonomia radicale, l’isolamento in quel luogo era sorto spontaneamente, e non rappresentava nient’altro che una condizione di normalità. Più che una utopia alla Moro o alla Campanella, Frippane era uno stallo della teoria evoluzionistica. D’altronde oggi la variabilità biologica dell’uomo era riconsiderata sulla base della variabilità individuale: nessun macro-gruppo etnico o religioso avrebbe potuto contrastare il genio o l’originalità di un insieme d’individui. Menz, anche per tentare di analizzare l’aspetto linguistico, attaccò bottone con alcune persone sedute fuori dagli usci.
– Chi è Tongofrip? – chiese a una donna col viso crepato dai numerosi inverni freddi.
La donna lo guardò a lungo, ammutolita, prima di rientrare in casa.
Menz ci riprovò con una bambina che disegnava sulla strada con dei sassi.
– Mi disegni Tongofrip? – le chiese.
La bambina gettò il sasso e si mise a ridere a crepapelle.
Intanto la luce era calata di colpo, dei nuvoloni compatti provenienti da nord avevano sollecitato la notte, e delle raffiche di vento scuotevano gli arbusti e gli alberacci di Frippane. Menz rientrò nella casa che gli era stata assegnata.
– Ora che succede? – domandò.
Il vecchio era nella stessa posizione di prima, appollaiato sulla sua sedia accanto alla moglie. Anche la ragazza era rimasta seduta, continuando a pettinarsi e adornarsi i capelli.
– Ora vengono i postini, – disse, con una certa solennità.
Menz prese posto sulla sua sedia e aspettò insieme agli altri. Il postino era un’altra figura del rituale, colui il quale avvisava personalmente ciascuna famiglia dell’arrivo di Tongofrip. Cominciarono a sentire bussare alle varie porte del paese. Si udirono anche degli schiamazzi. La messinscena doveva essere parecchio divertente, almeno per i più giovani. Alla fine bussarono alla porta della casa dove si trovava Menz. Quattro o cinque colpi decisi: “Tongofrip è qui”.
Il vecchio allora si alzò dalla sedia e andò al bagno a sciacquarsi il viso.
– Bisogna andare, – annunciò.
La moglie e la figlia si alzarono immediatamente, come se non aspettassero altro. Si alzò anche Menz, nonostante ignorasse, a differenza degli altri, che cosa prevedesse il copione della Festa. S’incamminarono tutti e quattro per una stradina irta, in cui entravano e uscivano folate di vento glaciali. La maggior parte degli abitanti stava già gremendo la chiesa, o meglio quel che ne restava: un piccolo troncone in stile romanico, lascito certo degli antichi insediamenti imperiali, che a Frippane chiamavano Tempio.
C’era un clima per nulla festoso, ma quasi cupo, carico di ostilità.
– Non mi sembra una festa, – osservò Menz.
Il vecchio lo fulminò. – La festa è dopo la morte di Tongofrip.
Menz si aspettava di vedere spuntare da un momento all’altro una figura vicaria del simbolo, una sorta di correlativo oggettivo, un fantoccio su cui la comunità avrebbe potuto compiere il suo rito. La Festa del Tongofrip non era la celebrazione di un Dio, quanto piuttosto un’esaltazione identitaria. Il paese accoglieva per respingere, in modo da ribadire la sua chiusura rispetto al diverso.
Menz stava imprecando per l’impossibilità di scattare qualche foto, o fare qualche registrazione, o almeno prendere qualche appunto, quando si sentì spingere verso l’altare. Si voltò e vide che a spingerlo era stato il vecchio, con una brutalità pari alla sua scorbutica reticenza. Lo continuò a spingere, ancora e ancora.
– Perché? – chiedeva Menz. – Che ho fatto?
Dalla sommità della chiesa vennero dei canti. Una delle coriste più ispirate era la figlia del vecchio, coi suoi lunghi capelli lisci perfettamente pettinati e adornati.
Poco prima di fargli raggiungere l’altare a spintoni, il vecchio gridò a Menz: – Tongofrip è lo straniero, Tongofrip sei tu.
Sull’altare ardeva sul fuoco un pentolone. Era un grande classico dei riti ancestrali, il buon selvaggio che finisce per cucinare l’occidentale ficcanaso. In effetti Menz fu calato dentro a piedi nudi, e sentì l’acqua tiepida bagnargli le caviglie, prima che l’intera scena non finisse con un applauso scrosciante, e una fastosa cena servita nel più comodo salone del resort. Menz riabbracciò così la propria epoca, con tutto lo sfarzo e il lusso del caso.
L’indomani mattina passò dalla reception per il check out. Oltrepassò un gruppo di poltrone e divani Frau, e raggiunse il bancone stondato in laminato rosso lucido.
– Pacchetto Avventura, giusto? – gli chiese un’addetta alla reception, sorridendogli.
– Sì, grazie.
– E’ andato tutto bene?
– Benissimo. Da ragazzo avrei voluto fare l’antropologo, sa? Ma mio padre aveva uno studio dentistico già avviato…
L’addetta sorrise ancora, con il medesimo fervore. – Capisco.
Menz allungò la sua carta di credito. – Posso tenere il libro Superstizione come evoluzione della scienza?
– Ma certo, fa parte del suo pacchetto. Un souvenir.
– Sì, è solo una specie di brochure, ma mi è stato utile e sarà un bel ricordo. Grazie.
L’addetta sembrò ricordarsi qualcosa. – Ha già restituito il kit tenda?
– E’ qui con me con me, insieme ai miei bagagli.
– Può lasciarlo qui, provvederemo noi a sistemarlo nel deposito.
Menz riprese la sua carta di credito e firmò lo scontrino del POS. – E’ stata un’intuizione davvero geniale comprare l’intero paese di Frippane.
– Merito di Mr Bornes.
– Ho letto recentemente una sua intervista, incredibile quanti soldi abbia fatto negli ultimi anni. Il business alberghiero sembra un innocuo passatempo per lui. Investirà ancora in Italia?
L’addetta passò a Menz la sua ricevuta, poi sorrise per l’ultima volta.
– Mr Bornes lo sta già facendo, – disse. – Sta comprando tutti i vecchi borghi dell’Umbria, per differenziare l’offerta dei suoi parchi tematici.

***

Immagine di Francesco D’Isa.

Luca Ricci è nato a Pisa nel 1974 e vive a Roma. Ha scritto L’amore e altre forme d’odio (2006, Premio Chiara, nuova edizione La nave di Teseo, 2020), La persecuzione del rigorista (2008), Come scrivere un best seller in 57 giorni (2009), Mabel dice sì (2012), Fantasmi dell’aldiquà (2014), I difetti fondamentali (2017). Per La nave di Teseo ha pubblicato Gli autunnali (2018, in corso di traduzione nei principali paesi europei), Trascurate Milano (2018) e Gli estivi (2020). Insegna scrittura per Scuola del Libro e Scuola Fenysia.

I poeti appartati: Francesco Marotta

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Dalla dimora del tempo sospeso

Lettera al figlio

di Francesco Marotta

 

 

 

Dalla dimora del tempo sospeso
all’estremità delle pupille
dove la stanza sfuma in una mobile nebbia senza fondo
un bambino scruta pensieroso il velo d’ombre
che ricompone il mio volto
in lineamenti febbrili di spina –

Paula Meehan: nella bella scatola di questa poesia

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di Viviana Fiorentino

 

 

 

 “(…) è il momento della mia vita agricola, indosso sempre, ormai, i miei vestiti da giardinaggio … Theo [Dorgan], il mio compagno, ha costruito una mini serra alta fino alla vita, ha un design stravagante, lì curo i semi germinanti …” risponde così a un giornalista di una testata irlandese la poetessa Paula Meehan dalla sua casa vicino al centro di Dublino; è la fine del mese di Aprile 2020 e l’Irlanda è in lockdown.

Radicale e indipendente, Paula Meehan scrive poesie che entrano nelle case della gente comune dei sobborghi dublinesi, così come nel mondo dei sogni e dell’immaginazione.

 Nata nel 1955, primogenita di sei figli, è stata allevata dai nonni mentre i suoi genitori cercavano lavoro in Inghilterra. Ha trascorso i suoi primi anni di vita nelle vecchie case popolari di Dublino, all’angolo tra Sean McDermott Street e Gardiner Street. La sua storia familiare e i legami con il quartiere Monto, dove la sua bisnonna era Madame nel quartiere a luci rosse di Dublino, un tempo il più grande d’Europa, sono tra gli argomenti che attraversano la poesia di Meehan, come nell’ultimo libro, As If By Magic: Selected Poems (Dedalus Press, 2020), che raccoglie i lavori pubblicati tra il 1991 e il 2016. Venticinque anni di poesia e di impegno con le politiche di genere e di classe, di amore per l’ambiente. Una poesia guidata da un impulso olistico e visionario di un mondo verso il quale la Meehan si sente grata. Ireland Chair of Poetry al Trinity College di Dublino (fino al 2016), Meehan ha ricevuto molti premi e pubblicato otto raccolte di poesie, tra le ultime Geomantic (Dedalus Press, 2016) e il già citato As If By Magic: Selected Poems (Dedalus Press, 2020). La sua scrittura per il teatro comprende le commedie Mrs Sweeney (1997), Cell (1999), come anche i testi per bambini Kirkle (1995), The Voyage (1997) e The Wolf of Winter (2003/2004). Una raccolta delle sue opere radiofoniche, Music for Dogs, è stata pubblicata da Dedalus Press nel 2008. La poesia di Meehan è stata musicata da artisti diversi, tra i quali il compositore d’avanguardia John Wolf Brennan e la cantante folk Christy Moore. Nel 2015, è stata inclusa nella Hennessy Hall of Fame ed è nella giuria del Griffin Poetry Prize.

Nella poesia di Meehan apriamo sfere e scopriamo che, dentro ognuna, ce ne sono altre: comunità, famiglia, individualità, memorie. Painting Rain (Carcanet, 2009) è la continuazione di un progetto poetico che cerca di esprimere una voce pubblica eco-consapevole attraverso la poesia, “un impulso a esprimere la memoria collettiva”. Uno dei suoi critici più prolifici, Jody Allen Randolph, colloca la sua voce “a un incrocio tra idee contro-culturali e tradizione lirica irlandese” e sottolinea l’importanza del “suo attivismo ecologico”, ma anche l’influenza della poetessa Eavan Boland (della quale si è parlato su Nazione Indiana già qui) nell’impegno femminista.

Boland e Meehan condividono il desiderio di raccontare storie di donne, di ridefinire cosa significhi poesia politica: come scrisse Boland nella poesia “The Singers”, una voce in cui trovarono una visione.

Meehan amplia la gamma di figure femminili, nella forma di una preghiera offerta a una donna sconosciuta che torna a casa da sola in “Night Walk” o come omaggio all’ex presidente irlandese Mary Robinson in “She-Who-Walks-Among-the-People.” Le donne sono spesso raffigurate come guerriere, sia che si parli de “la gentile signora / che divenne una grande guerriera nei tempi antichi” (sempre in “She-Who-Walks-Among-the-People”) o di figure familiari, come in “The Standing Army”: “Ora porto la lancia di mia madre / indosso l’anello d’oro di mia sorella all’orecchio / cammino nel futuro, orgogliosa / di essere nella casta dei guerrieri” (Pillow Talk, Gallery Book 1994).

Eppure, Meehan resiste ad apparire come femminista, non ricade negli stereotipi e presenta il suo lavoro come cross-gender. Infatti, come poetessa proveniente dalla classe operaia, l’attivismo poetico di Meehan si concentra sulle ingiustizie storiche e restituisce i temi di classe sociale, genere e sfruttamento ambientale come intimamente connessi. “La poesia agisce come un parafulmine per mettere a terra le energie dello Zeitgeist che stai vivendo”, Painting Rain fa proprio questo: trasmette un senso collettivo di perdita e di dislocazione portato dalla recessione della tigre celtica nel 2008, durante la crisi finanziaria globale. “Non credo che una poesia che parli di un governo sia più politica di una poesia sul cambio del pannolino di un bambino.” (E. O’Halloran & K. Maloy, An Interview with Paula Meehan. Contemporary Literature, Vol. 43 (1), Spring, 2002)

La prima poesia della raccolta Death of a Field, è una dichiarazione per un’estetica economica ed eco-femminista che poi percorrerà tutta la raccolta. Il tema è una delle questioni ambientali ed economiche più urgenti in Irlanda: l’eccessivo sviluppo abitativo che ha portato a un paesaggio anonimo, frammentato e sfregiato da “proprietà fantasma”; complessi residenziali nei quali molte case in costruzione furono lasciate abbandonate.

Il campo, the field, assume valore nella sua qualità di inconoscibile. Questa qualità proviene dal linguaggio della terra come corpo, un “irriducibilmente altro” con il carico del suo mistero. Meehan rifiuta la scissione binaria tra natura e cultura, mentre “rappresenta l’umano e il non umano in una relazione intima, sostenuta da una tensione tra il conosciuto e l’inconoscibile”.

Ma i temi politici ed economici non vengono affrontati mai direttamente: “(…) Lo stato comincia nelle nostre cucine. Le persone mi chiedono, scriverai una poesia sul Nord Irlanda, i Troubles, o la Bosnia? Ho molte difficoltà a sedermi e scrivere coscientemente riguardo a una situazione politica. Ma riesco, invece, a riconoscere tutte quelle situazioni nella mia vita di ogni giorno. Allora, più probabilmente, scriverò di problematiche globali, della storia di altri popoli, guardando al mio contesto immediato. La situazione del Nord Irlanda, i Troubles, sono cose attorno a noi. Altrimenti è come non riuscire a vedere gli altri come esseri umani, o identificare gli altri come nemici”.

Memoria e continuità sono gli altri due temi ricorrenti nel lavoro di Meehan. Le storie locali, gli antenati, rispondono al suo desiderio di contrastare le cancellazioni della modernità, in particolare la singolarità e la specificità storica della sua comunità operaia. In Return and No Blame (Beaver Row Press, 1984), la voce poetica dice: “Sono perseguitata da voci che echeggiano, / Voci senza corpi, / Fantasmi della mia infanzia che sognano”. Queste ombre fantasma sono presenti in tutta la poesia di Meehan, ma acquisiscono un ruolo predominante nella raccolta Painting Rain. Meehan ricorda gli eventi tragici della sua infanzia, come lo sfratto che lei e la sua famiglia hanno subito (“How I Discovered Rhyme”) o il tentato suicidio della madre (“This is Not a Confessional Poem”).

La raccolta successiva, compie il salto di una riconciliazione, apparentemente impossibile, tra il territorio della vita comune e quello mistico e dei sogni. Il titolo della raccolta “Geomantic” (Dedalus Press, 2016) deriva dal greco e significa “divinazione della terra”, un tipo di divinazione che interpreta certi pattern sul terreno creati gettando su di esso terra o pietre. Geomantic è la divinazione di quei pattern dell’esistenza che ci sembrano casuali, così apparentemente impercettibili e che nello scorrere del tempo perdiamo del tutto. La poesia tenta di resistere alla perdita e al disfacimento dell’impercettibile e dell’invisibile, creando ordine dal caos.

Il pattern del nove si ripete attraverso tutta la raccolta: 81 poesie, ciascuna con nove versi composti da nove sillabe. Ancora una volta, i temi ambientali, sociali e familiari sono intrecciati con regni del passato, sconosciuti o familiari, ma rivolti sempre verso a un futuro. Nella raccolta, The Commemoration Takes Our Minds Off the Now è una poesia ispirata alle commemorazioni del 1916 avvenute nel 2016. “Quanta parte del paese è stata frustata come un vecchio ronzino”. La “ruota karmica” ci mette in guardia contro l’influenza di causa ed effetto: quei cicli ripetitivi della vita e di coloro che sono in povertà, “che girano e girano intorno”. Le righe finali della poesia sono, allora, una domanda retorica: “Quanto devi essere folle per dare/ un senso allo stato di questo Stato nel quale ci troviamo?”

Come uno sciamano, Geomantic ci porta ai picchi delle vittorie quotidiane e giù ai minimi delle perdite personali e collettive. E mentre leggiamo, sappiamo che tutti stiamo cercando di imparare il passato, di essere nel presente e tentare di navigare nel futuro. Riferimenti mistici e mitici ritornano nell’intera raccolta, offrendoci una visione unica della vita, delle esistenze singole e delle nostre storie condivise. Le parole di Meehan sono intricate, intrise di allusioni, eppure, allo stesso tempo, deliziosamente schiette sulle verità osservate.

Nello stesso periodo in cui Meehan lavorava al carcere di Mountjoy a dei workshop di scrittura e teatro, era anche impegnata come scrittrice residente al Trinity College di Dublino. “Lavoravo in due istituzioni contemporaneamente”, sottolinea, usando la stessa parola, istituzioni, per riferirsi a questi due luoghi: “Facevo lo stesso tipo di lavoro con entrambi i gruppi di persone, anche se provenivano da contesti sociali molto diversi.”

Questa esperienza confluirà nel lavoro teatrale Cell (cella): tre donne di età diverse, provenienti dal centro di Dublino, vengono incarcerate nella stessa cella per reati di droga. Nello spazio che le rinchiude, hanno creato una specie di mondo a sé, con proprie regole e convenzioni, spesso estreme. Ma il loro mondo, all’interno di un mondo, crolla quando una donna apparentemente ingenua, riconosciuta colpevole di omicidio, dovrà condividere con loro lo stesso spazio. Chi legge non può che scorgere nella sfera chiusa della cella, le stesse regole atroci che regolano il nostro mondo civile e sociale.

“Ho smesso di lavorare lì a metà degli anni 90”, spiega Meehan. “Mi sentivo così esausta e impotente. Avevo un enorme senso di rabbia e frustrazione perché molte delle donne con le quali lavoravo non ce la facevano. Avevo il cuore spezzato; mi sarei di certo ammalata se non mi fossi fermata.”

Quando Meehan afferma che le donne non ce la facevano, lo intende nel senso più letterale del termine. Delle 12 giovani donne che hanno partecipato al suo primo laboratorio a metà degli anni 80, solo una è ancora viva. Tutte le altre sono morte: overdose, malattie legate all’AIDS, suicidio.

“Scrivere Cell è stato un modo per risolvere quell’esperienza. Non è un documentario sulla vita a Mountjoy in quanto tale; le storie raccontate sono storie composte, di più donne.”

Dei quattro personaggi di Cell, Delo (42 anni) è dentro per spaccio di eroina; Alice (49 anni) per omicidio; Martha (26 anni) per taccheggio; e Lila (19 anni) per possesso di eroina. E poi la voce disincarnata e dal suono robotico (Lisa Tierney Keogh), che controlla l’accesso alla porta della cella, dando (o meno) il permesso di visitare medici, lavanderia, palestra, assistenti sociali e avvocati.

“Ho lo stesso background sociale di molte di queste donne. Sono cresciuta con le loro madri. Per me non sono persone invisibili. Ciò che accade loro in prigione è solo una versione più estrema di ciò che sta accadendo a molte altre nella loro comunità di provenienza. (…) Chi mi conosce bene direbbe che sto elaborando parti della mia storia, nei personaggi di Cell”.

Cell parla di abuso di potere, e della mancanza di esso: Delo controlla Martha e Lila, entrambe asservite a soddisfare il suo bisogno di droga. Delo governa i letti e il loro uso, come anche la latrina. Una dittatura minacciata dall’arrivo di Alice, outsider per diversi motivi: a differenza delle altre è di campagna (dalla contea di Leitrim), non conosce la droga ed è un’assassina. Poi, nel contesto più ampio, il sistema carcerario controlla tutte e quattro le donne.

Lotte di potere, rabbia, paura, tristezza e compassione. Dove e come ci liberiamo?

“Alcune delle più grandi poesie del mondo” scrive Meehan “sono state scritte in stati estremi di prigionia e isolamento, dai poeti russi che hanno scritto all’ombra del terrore di Stalin, alle poesie di Yannis Ritsos dai campi di internamento del regime”. L’Irish Times dice di Cell: “probabilmente sarebbe inguardabile se non fosse così potente”, alludendo agli abusi di potere e la perdita di ogni intimità corporale ritratti nel dramma.

“Sono stata cresciuta ed educata da persone che avevano ancora una mentalità coloniale, con tutte le fratture identitarie che ne derivano. Per me e per i miei colleghi “operatori culturali”, molto del lavoro consiste nel disintossicare, disintossicare la cultura dal passato coloniale e trovare dei modi per cercare di spingerla verso le libertà. Penso che la parola più importante per la mia generazione, sia per questioni politiche che legate al genere, sia stata liberazione. Ma dopo che sei stato decolonizzato da un potere, sei ricolonizzato da un altro.”

Forse, la scrittura della Meehan si potrebbe provare a racchiudere nella parola unravel e nel suo doppio significato di disfare e svelare, come ci dice nei versi della poesia In Memory, Joanne Breen (Painting Rain, Carcanet, 2009):

 

I see, spun into the yarn, fibres of blue

& yellow & purple, occasionally orange.

 

I am undoing the magic of the spindle,

Unravelling

 

Vedo, tessute nel filato, fibre blu

e gialle e viola,

ogni tanto arancioni.

 

Disfo la magia del fuso,

Dipano

 

Di seguito delle traduzioni di alcune poesie di Paula Meehan (da Geomantic, Dedalus Press 2016; a eccezione della poesia “Hannah, Grandmother”).

 

 

Hannah, Grandmother    

 

Coldest day yet of November

her voice close in my ear —

tell them priests nothing.

Was I twelve? Thirteen?

Filthy minded.

Keep your sins to yourself.

Don’t be giving them a thrill.

Dirty oul feckers.

As close as she came to the birds and the bees

on her knees in front of the Madonna,

Our Lady of the Facts of Life

beside the confessional —

oak door closing like a coffin lid

neatly carpentered

waxed and buffed.

In the well made box of this poem

her voice dies.

She closes her eyes

and lowers her brow to her joined hands.

Prays hard:

woman to woman.

 

(Lettura di Meehan disponibile su Youtube qui)

 

Hannah, Nonna

 

Il giorno più freddo ancora Novembre

la sua voce nel mio orecchio —

Non dirgli ai preti niente.

Avevo dodici, tredici anni?

Luride menti.

Tieniti i peccati per te.

Non dargli soddisfazione.

Vecchi sporchi bastardi.

Per quanto potesse parlare di passere e cicogne

in ginocchio di fronte alla Madonna,

Nostra Signora dei Fatti della Vita

accanto al confessionale –

una porta di quercia chiusa come il coperchio di una bara

ben lavorato

cerato e lucidato.

Nella bella scatola di questa poesia

muore la sua voce.

Chiude gli occhi

e congiunge la fronte alle mani giunte.

Prega intensamente:

donna a donna.

 

 

 

The Luck

 

I don’t do the past, said my father,

into my oldfashioned microphone.

The rain, the eternal Irish rain,

beats and beats and beats at the window

and the fattening geese are dreaming

of the north. I knew that he’d be dead

by Samhain when the geese returned again.

We bet online and watched the horses,

all going round the bend together.

 

La sorte

 

Non rifaccio il passato, disse mio padre,

nel mio microfono fuorimoda.

Pioggia, eterna pioggia irlandese,

batte e batte e batte sulla finestra

e le oche da ingrasso sognano

il nord. Sapevo che sarebbe morto

per Samhain* quando le oche tornano di nuovo.

Scommettemmo online e guardammo i cavalli,

girare tutti insieme attorno alla curva.

 

* antica festa celtico-pagana, celebrata tra il 31 ottobre e il primo novembre

 

 

 

The Commemorations Take Our Minds

Off the Now

 

A boon to the Government; they rule

in the knowledge that none can keep track

of just how much of the country has

been flogged like an old nag to within

an inch of its life. The karmic wheel

goes round and round. I commemorate

the poor going round and round the bend.

How mad do you have to be to make

sense of the state of the State we’re in?

 

Le Commemorazioni Distolgono le Nostre Menti

Dal Presente

 

Un vantaggio per il governo; dettano legge

sapendo che nessuno ne può tenere traccia

quanta parte del paese è stata

frustata come un ronzino vecchio chiuso dentro

il centimetro della sua esistenza. La ruota karmica

gira e gira. Commemoro io

i poveri loro girano e rigirano intorno alla curva.

Quanto devi essere folle per dare

un senso allo stato di questo Stato nel quale ci troviamo?

 

 

 

The may Altar, 58 Collins Avenue, Killester

You dressed it with lilac and privet,

the good crystal vase on white linen,

wax candles, bright medals, hymn singing

to Stella Maris, Star of the Sea.

 

You prayed to Our Lady to mind you.

You believed in angels and mercy.

 

As if heaven wept at your going

it rained the whole day you left Dublin,

rained on the girl you were, setting out.

 

L’altare di maggio, 58 Collins Avenue, Killester

 

L’hai vestita di lillà e ligustro,

il vaso buono di cristallo su lino bianco,

le cere, le decorazioni luccicanti, gli inni cantati

alla Stella Maris, Stella del mare.

 

Hai pregato alla Nostra Signora di proteggerti.

Hai creduto negli angeli e nella misericordia.

 

Come se il cielo piangesse alla tua partenza

ha piovuto tutto il giorno che hai lasciato Dublino,

piovuto sulla ragazza che eri, andando via.

 

 

 

The Web

                   i giorni della merla

 

I spun those nights to Van Morrison

On Fitzroy Avenue in a dream

part Victoriana, part nightmare.

Elsewhere, at my web’s frayed selvage,

you were dying, less yourself each day

in a white cancer ward in Dublin.

I scanned your memory for this meme:

that time you talked me down, pulled me clear

of my fevered visions, my blank page.

 

La tela

                   i giorni della merla

 

Misi su quelle notti Van Morrison

in Fitzroy Avenue come in un sogno

parte vittoriano, parte un incubo.

Altrove, sulla cimosa sfilacciata di una mia tela,

morivi, meno te stesso ogni giorno

a Dublino in un qualche reparto bianco per il carcinoma.

Ho scansionato la tua memoria per questo meme:

quella volta tu mi avevi convinto, mi avevi liberata

dalle mie visioni febbrili, la mia pagina bianca.

 

 

 

The Hexagram

 

Before starting, find the lines – broken

and whole – arranged as a hexagram;

the crescent moon waxing, a token

 

in the night sky of beginnings. Palms

open to the grace of what might fall

like snow to the snow-white page. How calm

 

I am, and cool, when I hear the call.

She has found me out, in my silence,

come with rumours of heaven, of hell.

 

 

 

L’Esagramma

Prima di iniziare, cerca le linee –spezzate

e intere – organizzate come un esagramma;

la falce di luna crescente, un segno

 

nel cielo notturno degli inizi. Palme aperte

alla grazia per quello che potrebbe scendere

come neve sulla neve della pagina bianca. Ora calma

 

sono, e fredda, quando sento il richiamo.

Mi ha colto, nel mio silenzio,

viene con dicerie di cielo, d’inferno.

 

 

 

The New Regime

 

After love we sleep curled together.

I am dreaming her old dreams; she dreams

pines freighted with snow, ice storm weather.

 

Her mouth’s rimed with my milk, her hair streams

In curls and rivulets down her back.

She is spelling out the new regime:

 

its ins, its outs, my place in the pack;

where she keeps the names of the lost things;

how to bear the pain, the sweats, the rack.

 

 

Il Nuovo Regime

 

Dormiamo dopo l’amore insieme rannicchiati.

Sogno i vecchi sogni di lei; lei sogna

pini carichi di neve, in un tempo da tempesta di ghiaccio.

 

La sua bocca è brinata dal mio latte, fiumi i capelli

scivolano in riccioli e poi rivoli giù lungo la sua schiena.

Lei scandisce il nuovo regime:

 

i dettagli, il mio posto nel branco;

dove conserva i nomi delle cose perdute;

come poter sopportare il dolore, le fatiche, lo spasmo.

 

 

 

The Ghost Song

 

‘The singers and workers that never handled the air”

Gwendolyn Brooks

 

From a dream of summer, of absinthe,

I woke to winter. Carol singers

Decked the halls of some long-lost homeland.

Late-night shoppers and drowsy workers

Headed for the train.

 

So the night that

you died was two-faced, June light never

far from mind though snow fell. I handled

grief like molten sunshine, learned to breathe

your high lithe ghost song from thinnest air.

 

 

Canzone Fantasma

 

‘The singers and workers that never handled the air”

Gwendolyn Brooks

 

Da un sogno d’estate, d’assenzio,

mi svegliai nell’inverno. I cori di Natale

colmavano le sale di una casa persa da tempo.

Acquirenti notturni e lavoratori assonnati

andavano al treno.

 

Così anche la notte

Che sei morto aveva due facce, la luce di giugno sempre

Presente alla mente mentre cadeva la neve. Tra le mani

il dolore come sole che scioglie, ho imparato a respirare

la tua alta e agile canzone fantasma nell’aria più sottile.

 

 

 

The Handful of Earth

 

Under scrutiny it tells us all

we need to know about our futures,

it being composted of our past lives,

the nine years in this house by the sea.

Under the paths stars make, wild birds call.

 

I fancy I could read it like leaves

Of tea, yarrow stalks thrown down, tarot,

its minutest narratives of grief,

its aboriginal patternings.

 

 

Una Manciata di Terra

 

A un attento scrutinio dice tutto

ciò che dobbiamo sapere dei nostri futuri,

compost delle nostre vite passate,

nove anni in questa casa al mare.

Sotto i sentieri disegnati dalle stelle, chiamano gli uccelli selvatici.

 

Mi piacerebbe saperla leggere come se fosse foglie

di tè, o gambi di achillea buttati giù, tarocchi,

sue minuscole narrazioni di dolore,

i suoi disegni e ripetizioni aborigeni.

 

 

 

The Sea Cave

 

It is as close as I’ll get to her

In this life: to swim into the dark

Deep in the cave where the hot springs are,

 

to float in her amniotic dream

of children, of a husband, of home.

Flickers of light there where minnows teem

 

Like memories pulsing through my veins,

that lull me, that shrive me, uncertain

whether I hear her heartbeat or mine.

 

La Grotta Marina

 

Il più vicino che posso a lei

in questa vita: nuotare nel buio

profondo nella grotta lì dove sono le sorgenti calde,

 

e galleggiare nel suo sogno amniotico

di bambini, di un marito, di una casa.

Baluginare di luce lì dove pullulano pesciolini

 

come ricordi che mi pulsano nelle vene

che mi cullano, mi assolvono, incerta

di sentire il battito del suo o del mio cuore.

 

Prede

3

di Lisa Malagoli

Sono passati due giorni dalla morte di papà e tu stai già iniziando a cedere. Sei in ritardo, ti grido muoviti. Vorrei essere più gentile con te ma non riesco. Non mi escono le parole gentili, solo parole oneste.

«Eccomi, cazzo, eccomi» rispondi dal primo piano.

Scendi le scale con un pacchetto di sigarette in mano e i pantaloni scuri che avevi addosso quando si è sposato zio. Chiedi dov’è la stronza.

«Non lo so.»

Estrai una sigaretta dal pacchetto, te la metti in bocca. Non ti ho mai visto fumare.

«Oh, lo sai dov’è la camera ardente?»

«Ma sì che lo so. Dai, ci vediamo dopo.»

Ok. Ti dico lavati la faccia che così non ti posso vedere e tu mi guardi come un animale ferito. E anche se mi dispiace te le dico lo stesso le cose perché sono come mamma, sono onesto fino al vomito.

Io non sono papà.

*

Ci sono un sacco di persone al funerale, una quantità enorme. A huge amount of people; rende meglio il concetto, dà l’idea di massa. Da quando lavoro come interprete mi succede spesso di tradurre mentalmente stralci di discorsi che sento alla televisione o in strada, pezzi di frasi, espressioni curiose. La chiamano deformazione professionale ma nessuno dice mai quanto possa essere stancante; ti prosciuga le forze, dico davvero. Ma fare l’interprete mi piace. È la prima cosa che dico quando mi presento a qualcuno, subito dopo il nome. Mi chiamo Luca e sono un interprete – dico così. Bisogna essere svegli per fare questo mestiere – pensare velocemente, trovare l’espressione più accurata. Essere onesti. Mica tutti ne sono capaci. Lavoro in ospedale, faccio da ponte fra le persone. Secondo la Bibbia, in principio gli uomini parlavano una sola lingua e per questo si sentivano come Dio – peccavano di superbia, insomma. Un tempo gli uomini erano uniti mentre ora non lo sono più; sono solo piccole isolette, lontane fra loro. Ed è qui che arrivo io –, io sono il ponte. Sono molto fiero di ciò che faccio, sul serio. Mi piace pensare che permetto alle persone di comprendere.

Ti vedo spuntare fra donne che conosco appena, ti avvicini. Hai le guance chiazzate di rosso mentre mi allunghi un ritaglio di giornale che non prendo.

«Un tizio mi ha portato questo.»

«Che è?»

«Hanno scritto un articolo sulla Gazzetta, su papà. L’avevi visto?»

«No, che dice?»

Ritiri la mano, fai scorrere gli occhi sulle lettere d’inchiostro, da sinistra a destra.

«Parla del negozio di animali. E qualcosa sull’associazione ornitologica, sulle mostre – è un bell’articolo, dovresti leggerlo.»

Sorridi, senza alzare lo sguardo. Mi dici: «Te lo ricordi quando arrivavano i cuccioli di Golden? Papà diceva: “Giocaci un po’ e poi rimettili nella scatola”. Lo diceva o no?»

Sì lo diceva. Si sedeva di fianco a te sul pavimento. Io dalla scala vi guardavo.

«E i canarini, quelli strani, com’è che si chiamavano? – cazzo non ricordo – dico quelli storpi.»

«Gibber Italicus. Papà diceva che dovevano avere la forma di un sette perfetto – secondo gli standard.»

Disegno un sette per aria con l’indice. Un segmento orizzontale – la testa, il collo – e poi un altro obliquo, lungo – il busto.

«La forma di un sette.»

La tua voce si rompe e diventa acuta. Mi fa male vederti così, ma non posso dirtelo. Ti metto una mano su una spalla, sei caldo, come se avessi la febbre.

«Andiamo a salutare.»

La cappella famigliare è piccola, in marmo, e ha una porta di vetro lucido che mi ha sempre fatto cagare. Sulla porta è incisa una scritta: TONDELLI-BESUTTI. I nomi sono in maiuscolo, separati da un trattino. Sembra l’ingresso di uno studio notarile. Ci sono otto loculi, quasi tutti già impegnati; ci sono i bisnonni, gli zii, e un tizio che di cognome fa Gambuzzi e che non c’entra nulla con la nostra famiglia. L’avrò visto tre volte, credo sia stato il marito di zia Clara. Ora si è risposata e i genitori di quel Gambuzzi ci vengono a chiedere la chiave della cappella ogni volta che vogliono vedere il figlio. Sono sempre molto gentili e non sembrano poi dispiaciuti.

La tumulazione è veloce, l’unico rumore che si sente è quello della cazzuola che spalma la calce – tanti colpetti rapidi e stonati, come se qualcuno stesse giocando a spadaccino col muro. Le persone iniziano ad andarsene, a gruppetti. Io e te restiamo soli, a fissare la cappella.

Ti dico che non ti lascio andare messo così e mi accendo una sigaretta.

«Andiamo a mangiare qualcosa, guarda quanto cazzo sei magro.»

«Non ho fame.»

«Accompagnami e basta. Andiamo in quel bar che fa gli estratti, vicino San Paolo.»

Parcheggiamo l’auto e ci sediamo a un tavolino esterno. Io prendo un panino e tu un caffè. Non faccio in tempo a sedermi che hai già una sigaretta in bocca e attacchi a parlare di lei.

«Hai visto mamma oggi? No, ma dico, l’hai guardata? Era lì con quel sorriso beota, come se dovesse venderti un’aspirapolvere.»

Prendi una boccata di fumo e rimani in silenzio, con il gomito appoggiato al tavolo e la sigaretta a mezz’aria. Mi dici che è una stronza – oggi l’hai già detto quattro volte – che non ti spieghi come faccio ad andarci d’accordo.

«Ma lascia perdere mamma. Ne ha passate tante. Ultimamente non si scannavano più, è già una vittoria, fidati.»

Mi chiedi perché cazzo mi affanno tanto a difenderla, che poi papà era diverso, che quando hai detto a tutti di Leo lui è stato il primo ad abbracciarti senza stare a misurare le espressioni degli altri nella stanza. Ti strofini via una lacrima dalla guancia con il polsino della camicia. Ti strofini così forte che la pelle diventa tutta rossa e chiazzata. Dici che hai diciotto anni, che hai ancora bisogno di lui.

Dico che papà è morto. Anche se hai bisogno di lui.

Finisci il caffè, raccogli l’ultima goccia sul fondo col cucchiaino.

Mi fai: «Mi dà fastidio quando dici quella cosa.»

«Che?»

«Che papà è morto.»

«Ma …»

«Non mi importa.»

Mi accendo anch’io una sigaretta, sbuffo fuori tutto.

«Cazzo, ha proprio ragione mamma. Abbiamo tutti paura di dire le cose come stanno. Oh, ma ci hai fatto caso che nessuno nomina più la parola morte alla tv? Dicono che questo ha perso la vita, che quell’altro se n’è andato. Che hanno trovato il corpo senza vita di non-so-chi. Ma vaffanculo. Sono morti, punto, stecchiti. Le parole ci sono, vanno usate, mi spiego? Se dico angelo, al posto di cadavere -be’, sono solo un povero stronzo illuso, lo capisci?»

Mi rivolgi uno sguardo freddo, osservi un punto oltre me. Non mi segui, sei inchiodato a un pensiero.

Poi mi dici: «Oggi ho guardato anche te.»

«E quindi?»

«E quindi non hai mai pianto.»

Rido ma è più uno sbuffo che una risata. Ti dico che non vuol dire un cazzo.

Restiamo una manciata di minuti in silenzio fino a che inizi a singhiozzare.

«Raccontami qualcosa di lui, ti prego. Tu lo conoscevi da più tempo.»

Guardo un momento fuori dalla finestra. In effetti c’è una cosa che ti potrei dire.

«Va bene, ti racconto una roba che è successa anni fa e tu mi dici cosa ne pensi.»

*

Era settembre 2012, e stavamo ancora nei moduli temporanei. Ti ricordi qualcosa di quell’estate? Cos’avevi, dieci anni? Forse meno. Eppure, non sembravi spaventato. Facevi un sacco di domande a tutti – al papà, ai nonni, ai vecchi per strada – volevi sapere se le cose che sentivi dire erano vere. Tutta quella roba sulle trivellazioni, sui risarcimenti statali, sulla magnitudo. Non facevi che chiedere, come se ci volessi dimostrare di essere un adulto razionale, di quelli che valutano i fatti e non si fanno prendere dal panico. Non ce la siamo bevuta. Sapevamo che avevi paura, come potevi non averne? In fondo eri un bambino. Quello che sbagliavamo con te erano i modi, ti trattavamo tutti da scemo. Tutti tranne papà.

Lui sapeva come fare.

Il 29 settembre la Protezione Civile ci chiamò per comunicarci che avrebbero demolito casa nostra. È inagibile, ci dissero, Il danno è serio, non si recupera. Dissero che con tutte quelle scosse di assestamento una volta o l’altra sarebbe caduta sulla testa di qualche ciclista. Ci dissero che c’era la possibilità di entrare a recuperare le nostre cose, che ci mandavano due vigili del fuoco.

La mattina dopo ci svegliammo alle sette in punto.

Papà propose di andare a fare colazione al bar, prima. Te lo ricordi quel bar che faceva i pancake? Io sì. Era il nostro preferito. Mamma si incazzò come una furia. Disse che non stavamo andando in gita e che non c’era bisogno di indorare la pillola – usò queste esatte parole. Che ci demolivano casa e che non c’era un cazzo da festeggiare. Iniziarono a litigare, come sempre.

Lui disse: «I ragazzi hanno bisogno di un po’ di serenità.»

Lei rispose: «Certo, sei così tu, eh? Come l’estate scorsa.»

Poi papà disse: «Taci.»

Solo questo, taci. Faceva così lui, tagliava corto. Non ho mai capito a cosa si riferisse mamma con quella storia dell’estate scorsa, ma il suo tono mi fece salire una rabbia tale che avrei voluto picchiarlo. Non so perché. Forse perché, a volte, sai le cose ancora prima ancora che si materializzino sotto forma di parole.

Il paese aveva completamente cambiato aspetto e non era solo per i palazzi crollati. Certo, quelli facevano impressione, ma c’era dell’altro. C’era elettricità nell’aria, come un fremito che ti solleticava sotto le ascelle. Ascoltavamo il telegiornale o la radio, tutti smaniosi, e ci brillavano gli occhi quando qualcuno nominava il nostro paese. La gente diceva: «Zitti, zitti, che stanno parlando di noi.» Dovevano mordersi le labbra per non sorridere. I bambini impallidivano a ogni nuova scossa, ma gli anziani no. Avevano ripreso a raccontarci della guerra, ridevano e non avevano paura, loro. Scherzavano, dicevano che non avrebbero mai più dormito con un quadro sopra la testa.

Raggiungemmo il bar e ordinammo la colazione.

Il barista servì piatti e tazzine, e chiese come stavamo noi ragazzi. Il papà rispose che stavamo benissimo. Il barista chiese se avevamo saputo di quei tizi col megafono, che andavano in giro per il paese sulla Mercedes nera. Papà scosse la testa.

Il barista disse che quella gente voleva farci uscire di casa con la scusa di una nuova scossa.

Disse: «Sciacalli di merda.»

Si asciugò le mani nel grembiule nero. Disse che non l’avrebbe mai creduto che un terremoto potesse capitare proprio qui, in questo posto in cui non capita mai nulla.

Mamma si toccò quel punto esatto fra le sopracciglia – c’hai presente? Lo fa tutte le volte che sente qualche frase che reputa cretina. Disse: «Cosa c’è di straordinario? Vede mai il tg, tutte le tragedie che capitano al mondo? Stavolta è toccato a noi, tutto qui.»

Mamma era così, già allora.

Quando il barista se ne andò, tu avevi un punto di domanda stampato in faccia. Chiedesti perché quell’uomo parlava di sciacalli visto che sono animali che non vivono qui.

Papà rispose che è solo un modo di dire. Che gli sciacalli sono persone che si comportano molto male in situazioni come la nostra, che ne approfittano per rubare e fare cattiverie. Che c’erano persone buone – come noi – e altre cattive. Ma che tu non dovevi avere paura finché c’era lui con te. Che eri fortunato perché i ragazzi che crescono con una famiglia attorno sono più forti degli altri. Che bisogna essere forti a questo mondo.

Mamma pagò e camminammo fino alla nostra casa.

Passammo davanti al negozio di animali di papà che era buio e delimitato da transenne di ferro e nastri rossi e bianchi. Ad un certo punto ti girasti verso di lui con un’espressione così allarmata in viso che mi spaventò.

«Papà, ma tutti gli animali del negozio? Non sono mica morti, vero?»

Papà disse di no, che ci aveva pensato lui. Io gli feci notare che l’edificio era inagibile e transennato, e che non facevano entrare nessuno. Era una giornata di vento caldo e i nastri rossi e bianchi sbattevano ovunque. Quel rumore mi faceva sentire inquieto.

Mamma guardò un palazzo crollato in lontananza. Disse: «Sì, raccontaci come hai fatto.» Lì per lì non ci feci troppo caso. Da allora penso spesso a quella frase.

Papà rispose che una notte era entrato di nascosto e li aveva portati via. E che quando aveva aperto la porta dello scantinato i cagnolini avevano iniziato a guaire così forte che aveva avuto paura che lo sentissero da fuori.

Tu domandasti qualcosa a proposito di un certo Tom, e io chiesi chi fosse, sempre fissando i nastri. Non riuscivo a non guardarli. La sera prima del terremoto di maggio c’era stato lo stesso vento caldo. Un vento che fa maturare la frutta in un attimo.

«È il cane con quella grossa macchia bianca sul muso» dicesti, «ha la faccia da Tom, secondo me.» Eri offeso. Ti infastidiva sempre quando mi intromettevo nelle vostre conversazioni.

Una folata fece cadere a terra una transenna. Ti scappò un urletto e io ebbi la sensazione che sarebbe successo qualcosa di molto brutto, di lì a breve. Che sarebbe arrivata una scossa così forte da aprire il cemento, che saremmo precipitati tutti nel buio. Ero sicuro che sarebbe accaduto. Papà si inginocchiò e ti strinse. Disse che Tom gli aveva leccato tutte le mani e che si era guardato attorno per cercarti, perché eri il suo preferito. Ti promise che una volta sistemati con la casa lo sarebbe andato a riprendere e che sarebbe stato il tuo cane.

«Ma devi essere responsabile, capito?»

Tu ridesti forte e per un attimo il vento si calmò. I nastri si adagiarono molli e io pensai che in fondo le cose si potevano ancora sistemare.

La facciata della casa non sembrava poi tanto diversa da com’era sempre stata. Era tutto come al solito, tutto a parte una grossa crepa che nasceva sotto il tetto e correva lungo tutta la parete, come un serpente, sfiorando la finestra dello studio e gettandosi dritto contro la porta d’ingresso. L’interno della casa era molto diverso. Il vigile del fuoco ci disse di stare attenti a dove mettevamo i piedi – a vetri e calcinacci. I quadri e le fotografie erano caduti a terra, così come i soprammobili e i libri. Ce n’erano alcuni – di libri, intendo – ammucchiati in un angolo polveroso, che non vedevo da secoli. Ce li leggeva papà per farci mangiare. Pensavo di averli dimenticati, ma mi bastò leggere il titolo per ricordarmi del sapore di pasta all’uovo e del cavallino verde che tenevo fra le mani quando mamma e papà mi imboccavano. Mi piaceva affondarci le dita dentro, immaginare che avesse le viscere.

Mamma si guardo intorno, fece un giro su sé stessa. Disse: «Sembra una vita fa.»

Tu ti fermasti davanti alle scale, immobile. Ti tremavano le gambe, non riuscivi a salire.

Provai a tranquillizzarti, che con i vigili del fuoco lì vicino non ci sarebbe successo nulla.

Ti dissi: «Facciamo una gara, stammi dietro.»

Ma tu gridasti di piantarla, che ti trattavo come un cretino.

«Altro che gara, non riesco a fare un passo.» Ricordo che eri rosso in volto.

Papà si girò verso di te e appoggiò le foto che aveva raccolto da terra. Ti chiese di avvicinarti. Disse che aveva capito una cosa importante e te ne voleva parlare. Disse che aveva notato un fenomeno peculiare nel comportamento delle persone che vivevano nel cratere, e cioè che da quando c’era stato il terremoto, tutti avevano iniziato a vivere come prede. Come i cerbiatti, che se ne stanno con le orecchie tese tutto il giorno, annusando l’aria, sempre pronti a scattare avanti, col cuore a mille. Un regime di temporanea bestialità.

Tu sembravi triste.

«Allora è così che vivono i cerbiatti papà? Hanno sempre paura?»

«Non proprio. Le prede hanno trovato il loro modo per vivere una vita decente. Si difendono. Usano gli aculei, o i denti. Oppure sai che fanno? Senti questa, è la mia preferita. Ho visto un documentario sulle gazzelle, un paio di anni fa. Durante il pascolo, per difendersi dai ghepardi, le gazzelle eleggono una sentinella che tiene la testa alzata per tutto il tempo e avverte il branco in caso di pericolo. Questa gazzella digiuna pur di aiutare le altre. Adesso ti dico cosa facciamo oggi, oggi sarò io la sentinella, ci stai? Adesso vengo su con voi e non vi perdo un attimo di vista. Voi raccogliete tutto e io sto sull’attenti. Se qualcosa si muove ti porto giù. So come fare. Ti fidi?»

Lo guardavi con la bocca socchiusa e un leggero sorriso. Dicesti che andava bene, che sarebbe stato lui la sentinella.

Nel giro di un’ora recuperammo tutti gli oggetti – i miei libri di inglese, un computer portatile, gioielli, vestiti – e ritornammo nei moduli.

Quella sera parlammo a lungo, giocammo a carte e ridemmo fino alle lacrime parlando di quello scemo del tuo amico che si era fatto beccare con i bigliettini durante la verifica della Giacci. Solo mamma era silenziosa. Andammo a dormire verso mezzanotte e io mi addormentai ascoltando il rumore della pioggia che batteva sul tetto in lamiera della nostra casupola. Feci un sogno strano in cui cercavo di liberarmi dalla morsa di un animale, forse un serpente. Mi mordeva un braccio. Aprii gli occhi di scatto ma ero frastornato, ci misi qualche secondo per mettere a fuoco. C’era mamma di fianco a me, col viso fermo e pallido, che mi scuoteva tenendomi per la manica del pigiama.

Disse: «Vieni con me, devi aiutarmi a recuperare una cosa.»

Guardai l’orologio, stropicciandomi gli occhi – era tardissimo. Chiesi se dovevo chiamare papà.

Disse: «No, non li svegliamo. Prendi solo l’ombrello.»

Mi misi a sedere lentamente e infilai gli stivaletti gialli e morbidi che odoravano di gomma, e mi veniva voglia di morderli. Tu dormivi profondamente, con la bocca semiaperta e le gambe nude. Durante il tragitto non dissi nulla alla mamma ma ero emozionato. Il paese era silenzioso, illuminato solo da qualche lampione, e pensai che noi due eravamo le uniche persone sveglie nel raggio di chilometri. Avremmo potuto fare qualsiasi cosa, anche cose proibite, e nessuno ci avrebbe scoperto. Avrei potuto rompere un vetro o scrivere qualcosa sul muro; il giorno dopo sarei tornato sul luogo del crimine a raccontare come gli sciacalli se ne approfittano per fare cose brutte, all’insaputa di tutti. La pioggia diventò più forte e io mi coprii la bocca con la sciarpa, e avvicinai l’ombrello per evitare che le gocce gelide mi bagnassero la tuta. Sentii un elicottero in lontananza e immaginai il pilota lottare contro le raffiche di vento per non precipitare. Mi sarebbe piaciuto essere quel pilota. Avrei scansato i fulmini, mi sarei alzato e abbassato velocemente, fino a sfiorare i tetti dei palazzi. A un tratto quasi inciampai nelle transenne di ferro. Alzai gli occhi, eravamo arrivati davanti al negozio di animali.

Mamma disse: «Entra, Luca. Devo trovare il mio vecchio orologio, ci metterò un po’.»

Ero un po’ deluso. Passai oltre le transenne ed entrai. Mamma aveva portato con sé una torcia e iniziò a ispezionare il bancone e i cassetti minuziosamente. I sacchi di mangime erano sporchi di polvere bianca e le gabbie erano vuote. Passai le dita su quei sacchi e le annusai, la polvere odorava di vernice e cemento. Arrivai davanti alla porta che conduceva allo scantinato e vidi che era socchiusa; potevo intravedere i gradini di legno nella penombra e mi ricordai di un libro letto anni prima che raccontava di un gioco da tavolo magico, nascosto in una soffitta buia.

Chiesi se potevo scendere. Dissi qualcosa a proposito di un paio di libri di scienze che forse avevo lasciato laggiù e che mi potevano servire.

Lei disse solo: «Ok, va bene.» Disse: «Prendi la pila.»

Ricordo che la indicò col dito, senza guardarmi in faccia.

Iniziai a scendere le scale lento, illuminando i gradini, e immaginando di cercare qualcosa di prezioso fra gli scatoloni accatastati e le buste di cibo. Poi un odore molto forte – di chiuso, pensai – mi investì. Ad ogni gradino il tanfo si faceva sempre più insopportabile, peggiore di quello degli escrementi che mi era capitato di sentire a volte in negozio. Alzai la torcia in direzione di uno degli scatoloni. Rallentai la discesa, mi fermai sull’ultimo scalino. C’era qualcosa di scuro all’interno, che non riuscivo a distinguere. Provai forte l’istinto di andarmene ma qualcosa mi trattenne. Scesi, mi avvicinai. Infilai il fascio di luce dentro la scatola di cartone. Vidi una massa di pelo da cui spuntavano code e zampe. Corpi, buttati l’uno sull’altro. Cani con la testa spaccata. Fra di loro ce n’era uno con una grossa macchia bianca che copriva l’orecchio destro. Era l’unico ad avere gli occhi chiusi e la sua lingua non pendeva da un lato, come quella di tutti gli altri cani. Sembrava solo addormentato. Abbassai la torcia e il fascio di luce schizzò in tutte le direzioni, e nella penombra i miei occhi intercettarono delle sagome dentro le gabbie di conigli e canarini. Alcuni tremavano ancora. La luce proiettava sui muri ombre orribili. Ti giuro, erano orribili.

Quando mamma urlò: «L’ho trovato» il mio cuore perse un battito. Risalii i gradini di corsa. Avevo i piedi così bagnati che scivolai e battei un ginocchio. Ce l’ho ancora quella cicatrice.

Durante il tragitto nessuno disse una parola ma vidi con la coda dell’occhio che mamma mi osservava. Quella sera non ne parlammo, e nemmeno il giorno dopo.

*

Aspiro una boccata di fumo, sento il sangue pulsare forte nelle vene. La tua terza sigaretta si sta consumando fino al filtro. Mi guardi già da un po’, hai smesso di fumare ma continui a tenere quella sigaretta fra le dita. Non dici nulla, ma mi inchiodi con gli occhi. Provo a sorridere.

«Sai che non l’ho mai raccontato a nessuno? E dire che del terremoto ne ho parlato spesso. Lo usavo come scusa, per evitare le interrogazioni. Oppure per mollare le ragazze che non volevo più. Dicevo che ero traumatizzato, perdonami ma non ce la faccio, o roba così. Ma questa storia mai, nemmeno a mia moglie.»

La cenere della sigaretta si sparge sul tavolo, ma tu non ci fai caso. Continui a guardarmi. «Perché cazzo me lo hai raccontato?»

«Ho sentito dire una frase al lavoro, qualche mese fa. C’era una ragazza somala, ricoverata all’ospedale con crampi forti all’addome. Voleva parlare con un interprete, e nessun altro. Aveva il petto che continuava ad alzarsi e abbassarsi – un seno bellissimo, non riuscivi a non guardarlo. Ripeteva una frase – behind closed doors – ma io non capivo. Non parlava bene inglese, non era la sua lingua. Quella frase doveva averla letta in un qualche libro di idiomi. Dagli esami del sangue risultò che aspettava un bambino. Quella è una frase a cui ho pensato spesso ultimamente. Dietro porte chiuse.Capisci cosa voglio dire?»

Scuoti appena la testa, espiri forte, solo dal naso. Ti vedo asciugare del bagnato dalla guancia.

Mi dici: «Addio, Luca.»

Mi alzo ma tu sei più veloce. Entri nel bar, la porta si chiude alle tue spalle. Lo facevi anche da piccolo, quando entravi nello scantinato, prima di scendere le scale. Mi volevi chiudere fuori, lo so. Allora io la riaprivo, correvo giù veloce e ti guardavo seduto vicino papà. Lui si alzava e ti faceva vedere quegli strani uccelli a forma di sette. Li metteva sul trespolo e quelli tremavano tutti e respiravano forte. Papà ci aveva spiegato che la testa e il collo lungo dovevano formare un angolo di quarantacinque gradi rispetto al busto, e che questo provocava loro problemi di respirazione. Diceva che era l’uomo che li aveva voluti così – una nuova razza, selezionata da noi. Tu alzavi la testa e chiedevi perché.

Lui rispondeva solo: «Lo possiamo fare.»

Erano prede. Tremavano – persi – senza alcuna strategia o arma che li potesse aiutare.

Contro di noi non potevano nulla. Perché noi abbiamo le parole, possiamo fare tutto con quelle. Loro non hanno nulla.

Tu lo abbracciavi forte, sorridevi e chiudevi gli occhi.

Solo ora capisco che dietro quelle porte chiuse, tu c’eri già stato.

*

Immagine di copertina
General Research Division, The New York Public Library. “White-headed Sea Eagle, or Bald Eagle” The New York Public Library Digital Collections. 1840. https://digitalcollections.nypl.org/items/510d47d9-722c-a3d9-e040-e00a18064a99

Inchiesta sul mancare. Alla maniera di Neruda

2

di Ghazal Mosadeq

traduzione di Andrea Raos

*

¿Dormi bene la notte?

¿Rivivi sempre le stesse situazioni?

¿Chi stai cercando?

¿Di dove sei? Voglio dire, di dov’è il tuo bell’accento?

¿Tuo padre, il padre di tuo padre, di dove sono?

¿Dov’è qui?

¿Credi che i nostri ricordi dolorosi possano svanire? Presto?

¿Hai mai pensato che se il fuoco si spegne lo possiamo riaccendere?

¿Ricordi le conversazioni con tua madre sulla bellezza e sul terrore, sulle ombre senza sostanza, sull’ostilità della vita?

Il giorno della memoria delle foibe

1

di Antonio Sparzani
Sulla odierna ricorrenza del giorno che vuol ricordare il dramma delle foibe nel territorio triestino/sloveno, non scrivo nulla ma rimando con piacere a quanto scritto più volte dal grande triestino Claudio Magris, per esempio qui. Buona lettura, grazie.

Colonna (sonora) 2021

0

di

Claudio Loi

Playlist 2020 (ai tempi del virus) ovvero 10 album per non dimenticare (o forse sì).

Le note vicende sanitarie del 2020 hanno condizionato in modo drammatico una realtà di solito più dinamica e vivace. I musicisti hanno perso la possibilità di esibirsi in pubblico, di rapportarsi con la realtà e hanno dovuto rinunciare all’unica fonte di reddito rimasta dopo la dissoluzione dell’industria discografica. Ma, da questo punto di vista non sono mancate le proposte interessanti anzi il lockdown è stato per molti artisti uno stimolo alla scrittura e alla composizione oppure a riprendere in mano progetti rimasti in sospeso e idee in divenire.

Favola della buonanotte

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di Giulia Felderer

“For bonny sweet Robin is all my joy”

Mi piaci fin dal Paradiso Terrestre senza dubbio ti ricordi di: ma anche di: quella volta in cui: siamo stati benissimo abbiamo corso a perdifiato sotto la Luna ne abbiamo le foto e tutti se ne ricordano tutti non possono averle dimenticate in quanto: le abbiamo postate su Instagram. Oppure si trattava di una pubblicità di biscotti fin dal Paradiso terrestre ma tutti e noi ce ne ricordiamo bene.

A volte ho l’impressione di avere un meccanismo di lame dentro al corpo fin dal Paradiso Terrestre e anche lì i dottori che erano gli angeli non sapevano bene come comportarsi. Di conseguenza si comportarono male. Sollevarono la cassa toracica e al posto degli organi erano ruote dentate e dissero: “uhm uhm”. Le ruote dentate sorrisero smaglianti alla vista dei bisturi e i bisturi ricambiarono il sorriso luccicando. Aprirono il cranio e vi trovarono soltanto una piccola lama che cantilenava avanti e indietro come un pendolo sopra il condannato disteso su di un panno rosso. Il condannato piangeva e cercava di modulare la propria voce sulla voce della lama pregandola di non avvicinarsi. La lama faceva finta di non capire ma si divertiva un mondo a scendere scendere scendere per fare il solletico sulla pancia del condannato. Gli angeli guardarono per un po’ e dissero ancora: “uhm uhm uhm”.

Infine diedero un’occhiatina all’utero, ma lo fecero, devo dire, con molta delicatezza e pudicizia; all’inizio fecero fatica ad afferrarlo perché l’utero saltava e rimbalzava a destra e a manca: era davvero un dispettoso ma anche bello e vanitoso perché era tutto trasparente.

Come un teatro illimitato. ØNAR e Lilith

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di Leonardo Recanatini Satriano

 

 

Se è lontano il tempo delle stimmati e dei metronomi, se ogni tempio è rovinato in mare, se nessun terreno può più permettersi il lusso di una radice, allora tramontano tutte le favole dell’interezza, e la frammentarietà si rivela lo spartito più adatto a far cantare le cose del mondo. Il frammento è fessura, politeismo latente: dove c’è frammento c’è sabotaggio di una monolatria. Il frammento è la cifra totemica di ciò che appare e scompare in un lampo; ma esiste qualcosa che non rassomigli alla pulsazione notturna di una lucciola sopra uno stagno? E soprattutto, il frammento non ha bordi né contorni: esso sfuma sempre verso altro, declina in altro, come la montagna declina in valle e la valle in gola o in pianura. Ciò che soltanto conta è lo spazio bianco tra i frammenti: lì respira il Simurgh, il dio che siamo chiamati a proseguire, e lì è necessario penetrare e seppellirsi, come dei semi.

Non sorprende, dunque, che il romanzo Lilith. Un mosaico di Davide Nota (Luca Sossella Editore, 2019) si presti particolarmente a innesti e gemmazioni. La scrittura frammentaria che lo attraversa ne muta continuamente la forma e la materia, le parole e le frasi che lo compongono sono per loro natura modulazioni indefinite, e aprono alla possibilità di trasposizioni e rimaneggiamenti. In questo senso, PPSS_Mosaico_020 rappresenta l’ultima sperimentazione nata dall’incontro tra il Lilith di Nota e Collettivo ØNAR (con Alice Piergiacomi), preceduta da un elaborato sonoro, uno spettacolo-concerto e un film a episodi. Questa volta la collaborazione prende la forma di un evento teatrale telematico, una cerimonia digitale a più voci attorno ai temi del labirinto, della maschera, della distanza e della visione; ciascun membro del pubblico, isolato nella propria stanza, viene invitato a far parte di una platea impalpabile, di un invisibile popolo di viandanti in cammino nei sottoboschi dell’Attuale, per costruire assieme un momento di erranza collettiva alla luce cangiante dei monitor.

PPSS_Mosaico_020 ha una struttura bicefala. Nei mesi che precedono la performance, a partire da febbraio, gli iscritti riceveranno via e-mail sette Lettere in bottiglia, sette messaggi acronici che introdurranno in maniera cadenzata i nervi principali della drammaturgia, accompagnati da elaborazioni grafiche e boutades metafisiche. I sette messaggi saranno accompagnati dall’invito a compiere una piccola missione all’interno della propria quotidianità, come trovare e scegliere una pietra, o riesumare una vecchia fotografia. I risultati di questi giochi, tra iniziazione e situazionismo, riappariranno trasfigurati all’interno dello spettacolo vero e proprio, previsto per la primavera. L’evento consisterà in una videochiamata attraverso la quale gli spettatori assisteranno a una desktop performance lo-fi dal sapore lisergico, in cui il sacro e il profano, il mistico e il metropolitano cessano di contrapporsi per scoprirsi sovrapposti, nella cornice incendiata di un mélange adultère de tout. Recitazione dal vivo, finestre video, opere grafiche, dialoghi in chat, web surfing e stringhe di codice concorrono alla creazione di una «pornologia superiore»[1] sotto il segno della Sibilla.

Nella traslazione dal palcoscenico allo schermo, l’esperienza teatrale non può permettersi di replicare sé stessa in maniera abitudinale, trascinandosi dietro i soliti stilemi: essa deve necessariamente cambiare pelle, alienarsi nei cristalli liquidi, per esplorare le infinite combinazioni proprie del paesaggio virtuale. Perché «il processo è carico di conseguenze nascoste: anche se la mente è ancora rudimentale, congiungendosi con lo schermo a formare un nuovissimo Centauro essa si abitua a vedersi come un teatro illimitato. Tanto basta, all’inizio»[2].

 

Per partecipare e ricevere le Lettere in bottiglia: https://lilithmosaico.org/mosaico020.

PPSS_Mosaico_020 è un progetto realizzato nell’ambito di Marche Palcoscenico Aperto. I mestieri dello spettacolo non si fermano, promosso da Regione Marche / Assessorato alla Cultura e AMAT.

[1] Espressione con cui Gilles Deleuze definisce l’opera di Pierre Klossowski, in quanto unità particolare «della teologia e della pornografia» (G. Deleuze, Il fantasma e la letteratura, in Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 248).

[2] R. Calasso, La Letteratura e gli Dei, Adelphi, Milano 2001, p. 29.

L’INVOLUZIONE DIGITALE

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di Giuseppe A. Samonà

Queste righe vogliono innanzitutto testimoniare la mia gratitudine per un agile ma denso libretto di Paolo Morelli, La postura del guerriero: Addestramento etico e altre modeste proposte (Sossella, 2020), che in poco più di cento pagine esprime, provando a dargli una prospettiva terapeutica, un disagio che è mio e di altri, sparsi e isolati per il mondo, e che tuttavia non arriviamo a tirar fuori chiaro e forte. Anche vorrei provare a spiegarmi – scrivere è pensare – e spiegare pubblicamente come mai questo libro singolare, prezioso, sia rimasto sostanzialmente invisibile. Con breve premessa (innanzitutto per Morelli): le riflessioni che questa lettura ha messo in moto, o piuttosto risvegliato, vanno al di là, o al di qua (forse), di quel che il suo libro vuole dimostrare – ma in fondo proprio questo è il bello degli itinerari di pensiero che s’incontrano e s’intrecciano.

Lo constatiamo ogni giorno con Facebook: fra gli intellettuali, gli scrittori, accanto a coloro che difendono entusiasticamente il mezzo e le sue presunte virtù – il dialogo, la spontaneità, la libertà che si esprime contro il potere, il famoso è stato prezioso nelle primavere arabe,  etc. –  un buon numero di coloro che lo utilizzano ne parla globalmente male: un po’ come ai tempi della Democrazia Cristiana, votata, magari di nascosto, dagli stessi che la criticavano, anche aspramente. Si va dai moderati che ricordano come nel suo ambito ci siano possibilità e veleno, o ancora che dipende da come lo usi, sino ai più marginali, coloro che pur non trovandoci nessuna parcella di luce vi restano comunque impigliati, sia pur appunto marginalmente, perché è un lusso poterne stare fuori. E Facebook, nonostante il suo immenso bacino di utenti, è una scheggia quasi ringarde dello smisurato universo virtuale, forse oramai lo sono persino i più moderni Instagram e Twitter, con i suoi cinguettii in cui tutto deve poter esser detto in 140 o 280 caratteri, nella versione più generosa. In generale, Google e le diverse vie della comunicazione digitale avvolgono, permeano il mondo, e l’esistenza di questo sistema, che piaccia o meno, è globalmente vissuto come un’ineludibile fatalità. Quasi nessuno sente l’urgenza di contestarlo.

Intendiamoci, le critiche vere, articolate non mancano e, al di là dei social, investono appunto tutto il sistema Internet: da quelle psicologiche, sulla dipendenza, i suoi possibili effetti negativi, etc., alla Patricia Wallace (che tuttavia analizza questi pericoli per salvare il sistema); a quelle diciamo ontologico-contenustitiche, ma anche in certo senso di superficie, alla Umberto Eco (Internet dà diritto di parola agli imbecilli…); o più radicali, politiche, alla Evgeny Morozov, che spiega ad esempio come lungi dal favorire le rivoluzioni arabe Facebook abbia permesso al potere di controllarle, mostrando in generale come questo Internet e questo capitalismo siano indissolubilmente legati, e dunque non mette sotto accusa in generale il progresso tecnologico della comunicazione, ma un certo tipo di progresso; passando per quelle socio-economico-filosofiche che in realtà continuano, attualizzano le riflessioni biopolitiche di Foucault e di Deleuze sulla società di sorveglianza, il controllo panottico, la servitù volontaria, cui la rivoluzione digitale ha dato un impulso impensabile anche solo venti, trent’anni fa: in questo senso Eric Sadin, Philippe Vion-Dury, o Shosana Zuboff (cito semplicemente quelli che han fatto parte delle mie disordinate letture) si sono recentemente occupati della Silicon Valley. Per altro, molte delle critiche radicali, che mettono in luce la natura spietatamente ultracapitalista di questa falsa rivoluzione, spesso vengono proprio (che sollievo) da giovani intellettuali-attivisti formatisi dentro la grande mutazione digitale (l’espressione è di Giuliano Santoro) e che si muovono agilmente attraverso il multiforme universo in cui si incontrano le avanguardie antagoniste e le controculture giovanili (punk, musica elettronica, galassia hacker, etc.): in Italia per esempio c’è il collettivo Ippolita, gruppo di ricerca interdisciplinare che svela gli aspetti più oscuri della Rete (e insegna a difendersene), o ancora – sempre le disordinate letture… – giornalisti, scrittori agguerriti come appunto G. Santoro, o Valerio Mattioli, che in poche pagine smonta il voluminoso Game del festante Baricco…

Basti pensare in tal senso – è sotto gli occhi di tutti – a cosa nasconda la gratuità di Google, Facebook e molti altri grandi servizi digitali: il lavoro non remunerato, e quindi di fatto schiavizzato, che noi utenti forniamo volontariamente a ogni passo che inoltriamo là dentro, in termini di informazioni poi sfruttate a fini pubblicitari, il che di fatto dà luogo a una forma inedita e spaventosa di alienazione collettiva: è quello che prendendo in prestito il titolo dell’ultimo lavoro di Shoshana Zuboff, 2019, potremmo appunto definire il capitalismo della sorveglianza. Questo nuovo capitalismo, in cui le grandi aziende digitali, quelle già nominate, o ancora Microsoft, Amazon, Apple, con tanto di iPhone, e altre, sono in testa in termini di fatturato, ma certo non di occupazione, governa ormai il nostro pianeta. (Ne L’impero virtuale, 2015, Renato Curcio ricapitola e spiega, in senso letterale, l’intelaiatura e la dinamica di questi dispositivi digitali, in termini appunto di profitto e di controllo sociale – ma di nuovo, il libro è stato sostanzialmente ignorato: forse a causa dell’inavvicinabile passato dell’autore e della sua odierna marginalità? O forse è proprio questa sua marginalità che l’ha spinto a riflettere su questo tema centrale?) Anche, è sotto gli occhi di tutti – tutti hanno almeno sentito parlare di Assange, o di Snowden – come il passaggio dall’ottica del profitto e del subliminale controllo sociale alla sorveglianza vera e propria, in ottica prettamente politica, sia informaticamente breve, e sia continuamente varcato, il che è del resto una sorta di continuo ritorno alla vocazione primitiva: com’è noto, Internet nasce negli USA, per scopi militari, cioè sostanzialmente per spiare e sorvegliare. Eppure anche le più convincenti di queste critiche, anche il più potente docu-film sulla cyber-sorveglianza, sui lati nascosti del Web (ne girano diversi), anche le più eclatanti rivelazioni sulle ultime fughe di dati da Facebook, non modificano l’attitudine globale della società, non la smuovono: è come se abitassimo, ci spostassimo dentro una palude da cui è impossibile venir fuori. A differenza degli anni Sessanta o Settanta questo capitalismo non sta, almeno idealmente, fuori, non possiamo posizionarcelo di fronte, per eventualmente combatterlo, in fabbrica, a scuola: è come una colla, una materia gassosa che infiltra la struttura stessa delle nostre vite, del nostro immaginario. Così, diversamente ad esempio da quel che avviene per l’ecologia, per cui molti settori sani, giovani della società si mobilitano per denunciare il disastro di questo modello di sviluppo, a parte alcune rare voci dissenzienti nessuno riesce a immaginare una contestazione, un’opposizione globale alla digitalizzazione della società.  Che la si giudichi individualmente in modo più o meno positivo o del tutto negativo, questa rivoluzione digitale sembra costituire una tappa irreversibile della storia umana, il suo ineludibile contesto: è progresso, e il progresso non si può fermare, è sempre sostanzialmente unico, buono. O no?

È in questo quadro che si inserice la voce radicalmente critica di Morelli, che non si confronta direttamente con i meccanismi della rivoluzione-palude velocemente schematizzata qui sopra, ma ne porta allo scoperto alcune conseguenze antropologiche fondamentali, in una prospettiva triplicemente originale, tanto più che il suo ragionamento si costruisce attingendo a una sorprendente bibliografia, apparentemente eterogenea, marginale (rispetto a quel che si vuole dimostrare), e che tuttavia acquista via via coerenza, ed efficacia. Per non citare che quelli che mi sono arrivati più vicini, ché ce ne sono anche diversi altri: Camillo Berneri, Simone Weil, Riccardo Piglia, Daniel Dennet, Mac Luhan, Cristina Campo, Pierre Hadot, Enzo Melandri, Jaime Semprun, Walter Benjamin, e più lontano nel tempo e  nello spazio, dentro un universo biforme che per i più si rivela misterioso, Parmenide, Pitagora, Epitteto, Liu An, Wen Zi, Zhuang Zi, Zang Bo Duan, Huang Bo, Dōgen, Lao Zi…

Morelli, innanzitutto, osserva il mondo, questo mondo, con occhiali da scrittore, attento soprattutto alle parole, al loro uso, al loro valore. In secondo luogo, lo ispira il costante riferimento alla saggezza antica, anche se – terza originalità! – quest’antichità è letta essenzialmente, se non reiventata, alla luce del pensiero cinese, che l’autore studia da molti anni: e ne ha fecondamente il diritto – l’antichità è sempre stata interpretata attraverso una qualche prospettiva esterna. E attenzione: questo richiamo alla parola degli antichi non serve a metter su una nostalgica lamentela, vagheggiando un mitico tempo andato in cui gli umani sarebbero stati più felici, meno alienati. Al contrario: serve ad armare un canto di resistenza, di lotta, persino di speranza, comunque di necessaria dignità, che guarda al futuro. Perché questo è il proprio della letteratura e dell’arte in generale, come anche della filosofia: le grandi questioni che riguardano il come stare su questa Terra sono già mirabilmente enunciate all’inizio della nostra storia, da questo punto di vista non c’è progresso, ma solo inaccessibili picchi – e da lontano i picchi si vedono meglio e aiutano a capire, soprattutto l’epoca dentro la quale si vive. (E vorrei anticiparlo esplicitamente: si potrebbe discutere dei dettagli, magari contestarli, o irritarsi per questa o quella affermazione: che so, l’antipatia per Cartesio, l’uso molto largo del termine sciamanesimo etc. Ma che importa! tante sono le piste che il libro apre, e forte il suo messaggio globale, privo di qualunque mestiere, nel più volgare senso del termine.)

In questa prospettiva, la rivoluzione digitale ci appare piuttosto come una dirompente involuzione che, come l’acqua quando non contenuta, riempe con i suoi rivoli ogni angolo della nostra esistenza anche dove non immaginiamo di trovarla. La sua chiave fondamentale è l’esilio del corpo dall’attività della conoscenza, alla ricerca di una grottesca onnipotenza dentro un mondo dematerializzato; vi comanda un’immortalità artificiale e malata, schiava proprio nel momento in cui crede di affermare la propria libertà, ingabbiata com’è in una società che assomiglia sempre di più a una caserma: l’esilio del corpo si rivela essere un esilio dalla vita. Questo va insieme a una deriva dello scientismo, a una messa al bando dell’immaginazione in nome di un mal compreso primato assoluto della ragione, che si potrebbe definire come epistemologia della certezza: con una martellante opera di manipolazione collettiva, la società si purifica, elimina, vorrebbe eliminare le impurità, tutto quel che è sgradevole, financo nel linguaggio, e combatte i rischi, cioè non più la malattia, bensì la possibilità stessa di ammalarsi, di morire (ma poi, in realtà, si tratta solo di alcuni rischi, quelli che si vedono; le malattie, le morti che si possono nascondere non fanno nessun problema, e anzi si moltiplicano: i profughi che affogano in mare, i milioni di bambini dei paesi lontani travolti dalla fame…) È ineluttabile, si dice, è il progresso del mondo, ma questo progresso, questo ineluttabile, ha una forte somiglianza di famiglia con il fascismo, che sempre si nutre della miseria senza riscatto. Ma poi, perché ineluttabile? Il progresso è veramente unico e sempre socialmente utile? (La bomba atomica, ad esempio, è un progresso?) È ineluttabile? Non è piuttosto il frutto di scelte e dunque uno dei tanti possibili? Ed ecco – ed è dal mio punto di vista, per la mia storia, una delle cose più importanti e dolorose del libro: notabile… la passività, l’acquiescenza, l’entusiasmo addirittura con cui l’impianto mentale illuminista e poi marxista ha accolto ed accoglie, del tutto acriticamente, ogni innovazione o novità tecnologica, anzi è fiero di mettersi in paro, al passo dei tempi… (Breve, doverosa precisazione: questo benessere da schiavi dentro il quale prosperiamo nelle nostre società, ipnotizzati innanzitutto dalle presunte comodità e praticità che ci fornisce – e che sono oggi, più del pugno di ferro, le vere armi di governo, del potere! –, si fonda sullo schiavismo miserabile ed esplicito dentro il quale vive l’umanità al di là della nostra vista, o quasi, fatto di miniere, sfruttamento concreto, anche di minorenni, migrazioni, fuga dalla fame e dalle guerre… Questa è forse, da un certo punto di vista, l’epoca più schiava della storia umana!)

Tale fenomeno ha tendenza globale: la democrazia non sembra di fatto sempre più fragile? sempre più difficilmente conciliabile con il progetto di dominio totale del capitalismo nella sua ultima versione? E forse ancor più che di fascismo si dovrebbe parlare di totalitarismo, sottolineando tuttavia che si tratta d’un totalitarismo affatto nuovo: per la prima volta nella storia dell’umanità, i controllati, gli oppressi offrono volontariamente a invisibili controllori e oppressori le chiavi della loro cella, e per di più pensando di affermare la propria libertà. Tanti sono i modi per raccontarlo. In un articolo di pochi mesi fa sulla Germania di ieri e di oggi (Corriere della Sera, 04/08/2020), Claudio Magris – che certo non è uso ai toni apocalittici alla Giorgio Agamben – rileva che al posto del Grande Fratello del famoso romanzo di Orwell, 1984, sembra esserci, anche e soprattutto nelle mentalità, un impersonale termitaio, in cui la singola termite non obbedisce a un Capo supremo, ma fa quello che deve né può né sa fare altro. Obbedire senza sapere di obbedire né a chi obbedire…  Morelli si riferisce alla competenza senza comprensione della psicologia cognitiva, e aggiunge: come  nei formicai …, in cui tutti agiscono ma senza sapere bene perché! Chi difende le meraviglie del mondo virtuale sottolinea sempre come i dati  raccolti da Google, Facebook e compagnia, lo siano unicamente in modo anonimo e a fini pubblicitari: ma tutti sappiamo che non è vero e che, come si è già detto, ci sono continue sbandate, falle, che fanno pensare con terrore a cosa succederebbe se un potere completamente totalitario si affermasse. E soprattutto, come si anticipava sopra, il vero problema è altrove, è radicale, in sé, sta nel fatto che la stessa pubblicità e il sistema di commercio e consumo che implica sono già una sofisticata forma di controllo, sono lo strumento che ha permesso l’affermazione del capitalismo totale, la colla, che è già, pienamente, totalitarismo. E anche, si diceva, alienazione: che diventa ancora più radicale, totale, se si considera l’assoluta mancanza di nesso tra l’attività virtuale, quel che inconsapevolmente produciamo, e la nostra, sempre più impalpabile, implicazione reale… Galleggiamo, scivoliamo: da quando? Un po’ come si scivola dentro le droghe apparentemente lente e in realtà potenti, come l’oppio, che uno si chiede: ma quando arriva? ma quando arriva? perché tutto sembra sostanzialmente uguale, e a un certo punto, per via di un qualunque toc toc della realtà esterna, ci si rende conto di esserci dentro fino al collo già da un pezzo, aspettiamo cambiamenti sconvolgenti, dentro i quali in realtà già viviamo –  più o meno inconsapevoli, sino a quando, inatteso, si produce un evento rivelatore, per esempio una pandemia…

La parola – e lo stesso vale per le immagini – in linea con questo mutamento diventa frenetica, perché la frenesia, cioè il tempo monetizzato, ridotto a profitto (chi prima arriva…) governa il mondo: dev’essere immediata e compulsiva. Il problema allora non è Facebook come settore del mondo, ma la facebookizzazione del mondo, l’affermarsi di una vera e propria nuova civiltà, in cui si rimane impigliati anche se, poniamo, scegliamo di restar fuori dai social. Questo nuovo mondo si fonda sulla velocità e sul reagire al posto del pensare (nel tempo informatico azione e reazione sono idealmente sovrapposte), cioè sulla pillola immediata, la parola proiettile, la parola che funziona, colpisce come un’immagine, sempre fondata sul meccanismo narcisista, di un narcisismo primario, del selfie, che sia del proprio volto, di una scena della propria vita (cioè direttamente immagine) o appunto del proprio pensiero-pillola, che semplicemente chiede la conferma-applauso, quando non si tratti all’opposto – ma il meccanismo è identico – dell’insulto in alternativa al like, o ancora delle improvvise focose e inutili polemiche in cui ognuno ascolta solo se stesso, per una comunicazione fintamente totale che, con l’illusione di rendere tutti facilmente partecipi del “sapere”, si rivela in realtà uno straordinario terreno per rendere indistinguibili il vero e il falso, oramai trattati alla stregua di opinioni: e nel fiume perenne di parole e immagini l’opinione, nel momento stesso in cui si manifesta, diventa di per sé vera. Il che significa, in termini filosofici, che è il falso a trionfare: concretamente, del resto, i social sono strutturalmente propizi al propagarsi delle idee più balorde, pericolose, fascisteggianti – la paura e l’odio, ridotti a slogan, ci viaggiano più agevolmente che la libertà e la complessità, che è sempre esclusa. Ma c’è di più: la dematerializzazione della parola-indelebile-sul-web ha confuso la distinzione fra orale e scritto, ha oralizzato, banalizzato lo scritto e anche, reciprocamente, tolto forza all’orale, dissolvendo nell’uno e nell’altro le opposte ma complementari sacralità, che si confrontano e si completano sin dall’antichità greca ed ebraica. Lo scritto di Internet ha il ritmo continuo e facile della parola alata, ma senza averne la divina incontenibilità, la capacità di perdersi, di poter essere dimenticato per restare per sempre, perché pur volando si fa pietra e tutto, anche l’intima chiacchiera fra amici, la battuta estemporanea, lo sbuffo di un momento, lo sfogo, persino il discorsetto apparentemente articolato magari intelligente ma comunque sempre veloce e bello e fatto, è rivolto potenzialmente al mondo intero, in un flusso ininterrotto, compulsivamente conservato, in cui tutte le vacche diventano, di fatto, nere: in Rete, come in un incubo, siamo condannati alla traccia, a ricordare, a non poter dimenticare – Facebook addirittura ricorda per noi i nostri ricordi, anche pubblicizzando, cioè distruggendo, il nostro privato: le nostre trippe, i brandelli esposti della nostra anima stanno per sempre al balcone, mostruosamente eterni, in una condivisione di facciata che nasconde, subito dietro, la più devastante solitudine… Viceversa, a questo scritto volatile manca la possibilità di essere appallottolato, selezionato, filtrato, e soprattutto la profondità, la feconda lentezza della traccia su carta, che solo riesce a viaggiare attraverso il tempo, aspirando alla perennità composta dell’arte – che cosa resta, allora, del canone letterario?

Per altro, il cambiamento è talmente largo, profondo, da avere oramai implicazioni persino biologiche, nel senso che ha modificato, soprattutto per le generazioni del terzo millennio, le nostre capacità cognitive. Certo – si obietterà giustamente – tutta la storia delle grandi invenzioni è caratterizzata da profondi mutamenti fisiologici, e dai connessi adattamenti, sempre successivi, dell’umanità: basti pensare, ad esempio, proprio al passaggio dall’oralità alla scrittura, con la conseguente modificazione delle nostre capacità mnemotecniche. D’altro canto, da sempre, importanti settori dell’umanità diffidano di quei cambiamenti, e si voltano indietro, opponendo all’orrido presente un luminoso passato: quest’avvitamento di cambiamento e resistenza nostalgica è in certo senso la caratteristica stessa della cultura. Solo che ora il mutamento è talmente compresso nel tempo da assomigliare più a un terremoto che a un cambiamento: è come se il tempo esteriore fosse diventato più veloce del tempo interiore, della coscienza, invertendo, per la prima volta nella storia, quel che contraddistingue il nostro esser umani; un nuovo mondo fittizio, in cui le distanze, di spazio come di tempo, sono state subdolamente annullate (tutto è sempre a portata di clic) e che – nel nostro quotidiano – si sovrappone, persino soppianta quello reale, manda in tilt la nostra capacità di elaborazione, con conseguenze imprevedibili. Già da diversi anni, del resto, constatiamo che questa nostra società, ossessionata dal controllo di tutto e di tutti, non controlla praticamente più nulla, tranne i desideri manipolati delle persone: cavalca una macchina che corre sempre più rapida, al di fuori di qualunque progetto che non sia quello immediato del profitto o, in questo contesto è lo stesso, della velocità. Orizzonte totalitario, in cui la letteratura – quel che più interessa lo scrittore Morelli – da disfunzione diventa una funzione, come appunto sempre avviene nelle dittature: è prodotto fra prodotti, secondo un’unica legge da supermercato. (Divagazione, o forse no: intrecciare la storia del “progresso” umano con la crescita  demografica esponenziale. Qualche centinaia di migliaia di individui diecimila anni fa, all’inizio della rivoluzione neolitica. Oltre il miliardo e mezzo all’inizio del secolo scorso; oltre i due miliardi e mezzo all’inizio degli anni Cinquanta; vicino ai sette miliardi e mezzo oggi: possiamo adeguarci a una tale esplosione? Come?)

È la vita stessa, si dice tuttavia, sembrandoci sempre di più che non si possa vivere che così. E ci avvitiamo ancora un po’, magari cercando di salvare questo o quell’aspetto positivo del nuovo impero. Ma Morelli insiste: non è solo il rovescio, è la medaglia tutta che è falsa. A suo sostegno, occorre allora ricordare che questo non è il progresso, è un progresso possibile, la conseguenza – e il motore! – di un sistema socio-economico planetario volto allo sfruttamento senza limiti (dell’uomo come della natura), e fondato sull’alienazione, e che come tutti i sistemi è destinato a finire. Insomma, resistere e cambiare è possibile, immaginando, progettando altri usi della tecnologia.

In questa direzione, in questo contesto, prendono forma gli esercizi di addestramento etico  proposti dal libro, tutti espressione di un’originale decrescita, non politica, collettiva, ma personale, mentale, quasi meditante: imparare a fermarsi, a uscire dalla frenesia mortale, a potenziare la nostra capacità di attenzione, a promuovere attività che non abbiano nessun secondo fine, che siano cioè fine a se stesse, integralmente, veramente gratuite (eccolo, appunto, il centro di ogni vera etica), perché finalmente l’intelligenza torni a essere una qualità morale. Questo è del resto il cuore della nostra civiltà, sin dalla prima (non escatologica) prospettiva biblica: perseguire il bene perché è bene, non aspettando una qualche ricompensa futura, perché la ricompensa sta nello stesso farlo, interamente nel nostro presente terrestre (anche gli antichi Greci, sia pur con un diverso itinerario, si sono affermati al di fuori di un orizzonte escatologico).

Pieno di merito, tuttavia poeticamente, abita l’uomo su questa Terra, dice un famoso verso di Hölderlin: questo doch dichterisch (il tuttavia poetico, appunto) potremmo anche declinarlo come un’arte del fallimento. È significativamente il titolo della seconda parte del libro che, non a caso, corrisponde alla decrescita evocata dalla prima: ora, concretamente, ci si prepara a combattere, e per questo bisogna cercare, consolidare la postura del guerriero. Ma di nuovo, attenzione: questa guerra non è una rivoluzione collettiva, politica – d’altronde, come ribellarsi collettivamente alla materia gassosa che permea le nostre stesse esistenze? –  è un’avventura individuale volta alla riconquista della nostra vera natura, che è la transitorietà insieme alla sua consapevolezza, e alla liberazione della nostra capacità di fantasticare, come alternativa all’illusione di poter controllare tutto nei limiti di un mondo in cui lo smisurato virtuale, o se vogliamo il fittizio, ha soffocato la fantasia. Il libro si trasforma allora in un curioso, praticissimo manuale di filosofia-meditazione corporale prima ancora che intellettuale – ma è proprio l’intelligenza che deve corporeizzarsi – il cui uso permette di disintossicarci, di scrollarci di dosso il falso confort con cui ci ha ipnotizzato il capitalismo digitale: la materia gassosa, appunto, la colla… Non parole, fatti, perché non si tratta “di dire di no, ma di fare di no” (F. O’Connor), con un addestramento duro, guidati da uno strano matrimonio fra pensatori, a diverso titolo, nostri – da Kierkegaard a Einstein, da Keynes a Leopardi… – e pensatori orientali, in particolare cinesi, per lo più di tradizione taoista. Sì, un praticissimo manualetto, difficile da commentare, com’è difficile da commentare, che so, una scheda di istruzioni per montare un mobile (del resto, proprio come in in manuale, ognuno dei dieci capitoletti di questa seconda parte è introdotto da stilizzati disegni orientaleggianti – opera di Carlo Bordone – che sembrano anticipare una posizione dell’intero corpo o degli occhi). Vi si alternano, con funzione di stratagemmi, disquisizioni etimologiche sull’origine di questa o quella parola (esempio: meditare, mederi, riflettere per curare, la stessa radice di medico)  e vere e proprio bastonate (esempio: per combattere bisogna rinunciare all’esercizio della forza, che è proprio degli oppressori), che ricordano quelle assennate da Pai Mei alla Sposa Uma Thurman, in Kill Bill, o più semplicemente quelle di un Maestro zen. Perché ora l’insegnamento si è fatto anche, anzi, innanzitutto corporeo: la postura è – molto concretamente – un posizionarsi delle gambe, delle braccia, soprattutto della respirazione, che decongestioni il cervello e lasci la mente libera di (di)vagare: cioè di diventare assolutamente attenta, riapprendendo come stare al mondo, indipendente. Può sembrare presuntuoso, e invece sono modesti accorgimenti, di cui può cercare di appropriarsi chiunque voglia tentare di disipnotizzarsi dall’incantamento del progressismo virtuale.

Valga come esempio di tale modestia la terza parte – nota bene: ogni parte più che continuare quel che precede lo riformula, lo ribadisce con un altro itinerario – che contiene la madre di tutti gli stratagemmi (non si dimentichi che per l’autore, scrittore, la letteratura è il cuore pulsante del mondo): l’arte della viva voce, e cioè, concretamente, alcuni suggerimenti pratici per la lettura ad alta voce dei testi letterari – con una premessa in cui si ricorda il lato epico della verità che solo si rivela nell’oralità (Narrami o diva del divino Achille…), insieme alla predisposizione primordiale dell’uomo ad accogliere racconti (ricordo improvviso di una frase di Karen Blixen, che sembra riassumere tutto il libro: si sono raccontate storie da quando esiste il linguaggio e senza storie la nostra specie si sarebbe estinta, come si sarebbe estinta senz’acqua…). Anche potremmo parlare, in questa forma di narrazione sociale (si legge almeno per un’altra persona), dello sbocciare della fantasia. Ma ecco: sembra … che il mondo nuovo che si va instaurando abbia due nemici giurati: l’esperienza diretta… e la fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura. Bisogna riaffermare questa primordiale necessità umana e riafferrarne, e trasmetterne, le tecniche, che riguardano la voce, la capacità di narrare, ma anche l’orecchio, l’interna capacità di ascoltare: i venti suggerimenti che seguono, molti dei quali ‘meramente’ tecnici, corporali (in particolare sul come impostare, organizzare, vivere il respiro), mirano a liberare entrambe, insieme liberando la nostra capacità di immaginare, comprendere il mondo. Con un ventunesimo suggerimento che non è scritto ma che è implicito in tutti gli altri: la narrazione dovrà prodursi in presenza, non virtualmente. Così, con l’apporto di tutto quel che è stato costruito nelle precedenti pagine del libro, emerge infine una sorta d’itinerante guerriero-aedo che mescola insieme il candore lucente dell’Idiota di Dostoevskij e la disincantata lentezza dell’Oblomov di Gončarov con la determinazione del più impassibile dei samurai, e che in ogni caso, pur impegnandosi con spasmodica serietà nella sua battaglia, non si prende mai sul serio. (Sono a mio avviso, quelle delle terza parte, le otto pagine più forti, belle di tutto il libro, e anche no: perché ce n’è una quarta… Ed è forse questa la caratteristica principale di questo testo ostico e leggero: è come se il senso si liberasse, anche esteticamente, e si facesse sempre più chiaro avanzando verso la conclusione.)

E tuttavia uscire completamente dalle panie ipnotiche dell’impero digitale sembra impossibile, intrappolati come siamo in un diabolico circolo vizioso: anche per scrivere e rendere pubbliche queste parole, del resto, passerò per google e social. Eppure la strada è quella, anche se aspra e lenta: far conoscere a chi lo ignora come il mondo nuovo, cioè il capitalismo della sorveglianza, si fondi sornionamente sull’ingabbiamento progressivo delle nostre umane libertà, moltiplicando a diversi livelli disperazione e miseria; cercare, individualmente e collettivamente – insieme a coloro che già hanno privilegiato la più scomoda, inquieta via del mondo reale – di sottrarsene, nella misura del possibile, un po’ come ci si sottrae alla dipendenza da una droga o, più concretamente, alle più sciagurate scelte antiecologiche (del resto lo scempio contro la natura e la decorporeizzazione delle nostre vite sono fra loro complementari). Innanzitutto, evitando i luoghi di scambio virtuale più infetti (facebook in testa…); quindi e soprattutto opponendo agli spazi virtuali, nuovi spazi reali, aperti, fatti di incontri concreti, di carezze, di sguardi, di chiacchiere e discussioni (ricordate le piazze? le bandiere? i cortili o i prati dove giocano a palla i bambini, i ragazzi? le milonghe? I circoli di incontri e lettura? dove la letteratura, appunto, è concretamente vissuta e scambiata, condivisa, trasmessa). Altro che tornare indietro: si tratta di andare avanti e ritrovare il pieno senso del progetto umanità.

Il libro è stato pensato prima della pandemia, ma proprio adesso – i libri veri sanno reiventarsi nel tempo – assume un valore particolare. Il virus infatti, ben oltre l’aspetto sanitario, ha messo a nudo, rinforzandola, la devastazione, la fragilità proprie della nostra società già da molti anni; anche, la sua totale mancanza di progetto – basta guardare i giornali, che oramai non possono andare più in là del computo dei contagi o delle vaccinazioni  giorno per giorno, eccezion fatta per qualche lampo sui colpi che le diverse forme di terrore assestano alle nostre sempre più fragili democrazie: quest’impossibilità di guardare in avanti, socialmente e psicologicamente, non è più subdola, devastante dello stesso rischio di ammalarsi…? Ed ecco: tutto ciò ha dato un impulso formidabile – era ovvio, è stato persino utile, a tratti –  ai potenti mezzi numerici, dall’home working ai lanci dei libri su zoom sino agli skype con gli amici… Anzi, le tesi degli entusiasti del digitale e del capitalismo (oggi è lo stesso), quelli che da tempo spingono perché il più possibile delle attività lavorative e d’insegnamento si svolgano da casa (immaginate il risparmio, cioè il profitto che questo comporta…), sembrano aver fatto un importante balzo in avanti. (Mi limito a evocare il discorso complesso, per cui ci vorrebbe una riflessione a parte, del balzo in avanti fatto, sia pur a fin di bene, dal tracciamento e dalla schedatura virtuali della popolazione…) Eppure, con i mesi che passano, sempre di più, anche fra i giovani, ci si accorge finalmente della desolante solitudine accompagnata del virtuale, della malsana vanità della spirale del più veloce, più veloce, di un lavoro che il “distanziamento sociale” – formula mostruosa che annuncia una mostruosa visione di mondo – ha ridotto a sfruttamento puro, spogliato di qualunque umanità, e si riscopre la necessità di un mondo fatto di abbracci e di scambi reali, di una conoscenza lenta, non frenetica, che insieme alla mente mobiliti il corpo, e che solo può aspirare a diventare più libero e giusto… Una falla, paradossalmente, si sta aprendo nel perfetto mondo numerizzato, e nuovi orizzonti sono possibili. Bisogna cominciare a percorrerli.

Con urgenza, con determinazione, ma anche con pazienza, con calma, senza mai prendersi sul serio. È quello che predicano il Dao De Jing e lo Zhuang Zi, antichi testi taoisti, che con quattro brevi splendenti stralci in traduzione e con testo a fronte (non per snobismo, ma a ricordarci luminosamente quanto sia vasto il mondo che ci appartiene, a tutti) formano soprendentemente la quarta e ultima parte del libro. Sorprendentemente, e subito necessariamente, beneficamente: nutrono, con la loro arte del distacco, la nostra capacità di ingaggiarci in una battaglia estremamente difficoltosa.

p.s. (per chi è arrivato sino in fondo) Ah, già, come mai di questo libretto prezioso non parla quasi nessuno? Perché quelli che dovrebbero parlarne, i manovratori delle parola critica, pubblica, sono quasi sempre tranquillamente, più o meno felicemente, accomodati, dondolati nell’ipnosi del mondo nuovo, di cui comunque non avvertono il pericolo… Spesso invece avvertono quello del nuovo capitalismo illimitato, sempre più irreversibilmente autoritario e ecocida: eppure, per combatterlo, bisogna proprio cominciare con lo smontare l’incantamento digitale che lo tiene in vita.

(Ringrazio Daniele Garritano, cui devo fra altre le “giovani” letture italiane qui evocate, anche per gli scambi che da diversi anni abbiamo su questi temi)

 

NdR: del libro di Paolo Morelli “La postura del guerriero: Addestramento etico e altre modeste proposte” (Sossella, 2020), attorno al quale si dipanano i lucidissimi ragionamenti di Giuseppe Samonà, Nazione Indiana ha pubblicato in passato un frammento: qui

Sventurata la terra che ha bisogno di tecnici ( al governo)

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di Giorgio Mascitelli

 

Non si può che essere d’accordo su quanto scrive Marco Revelli su Il Manifesto del 5 febbraio a proposito della fine del governo Conte e della sua sostituzione con Draghi ossia che essa rappresenta un momento tragico per la democrazia italiana sia perché a un governo a guida di un politico, perché tale è ormai Conte, subentra un tecnico, in particolare un banchiere, e dunque si passa a uno stato d’eccezione in cui il denaro si rivela apertamente come la vera e unica forza che domina la nostra società sia perché questo fatto determinerà l’esplosione dei partiti politici.

Che le cose stiano così è dimostrato dalle circostanze in cui si è svolta la crisi: benché il trasformismo sia consustanziale alla vita politica italiana fin dall’unità e spesso abbia provocato cambiamenti di maggioranza, mai si era visto un gruppo minoritario e raccogliticcio, non votato da nessuno, come i renziani imporre, sia pure con l’appoggio sotto banco della grande stampa e quindi della grande borghesia italiana, una formula di governo che la maggior parte dei partiti non intendeva appoggiare, perdipiù senza nessuna particolare pressione estera perché il governo Conte era tutto sommato ritenuto accettabile sia a Bruxelles, sia a Berlino, sia a Washington.  D’altronde che i mercati, leggi i potentati economici,  tendano a primeggiare sulla politica tramite l’imposizione di uno stato di eccezione permanente per motivi economici è una tendenza che non emerge certo oggi e può darsi che ora, già come trent’anni fa, l’Italia sia un laboratorio politico di un nuovo modello di articolazione del potere per far fronte alla sempre più difficile gestione delle tensioni sociali.

Personalmente non sono in grado di affermarlo e credo che comunque sia troppo presto per vedere se l’esperimento sia riuscito. In questi primi tempi la stampa è impegnata a decantare i mirabilia draconum (e attendo con ansia la notizia che una semplice imposizione della mano del presidente del consiglio ha restituito la parola o la vista a una bimba muta o cieca) per fare dimenticare la fosca vicenda che gli ha aperto le porte di palazzo Chigi. In prima battuta, però,  mi pare evidente che un esito del genere segnali la debolezza delle èlite italiane e non alludo soltanto a quelle politiche, anzi in primo luogo penso a quelle imprenditoriali e finanziarie. Se guardiamo agli ultimi dieci anni, assistiamo a una cessione agli stranieri di numerosi gruppi industriali, comportante la liquidazione di attività niente affatto in perdita per uscire dal settore produttivo verso forme di rendita. L’esempio più recente e più importante è la nascita del gruppo Stellantis tramite la fusione di Fiat con Peugeot, che, sebbene veda gli Agnelli azionisti di maggioranza relativa con il 14%, ha il suo vero azionista forte nello stato francese. Una borghesia dunque che si ritira verso la rendita e la internazionalizza fatalmente perde d’interesse verso una gestione politica di ampio respiro del paese, i suoi interessi strategici sono all’estero e dall’Italia si chiede qualche affare a breve respiro e soprattutto di non diventare fonte di disturbo per questi interessi. L’atteggiamento nei confronti dell’Europa, un europeismo passivo che quasi si aspetta la guida dell’Italia da parte della UE, ricorda quello delle borghesie sudamericane nei confronti dei rispettivi paesi, mentre delegano la gestione del governo del sistema agli Stati Uniti.

Così si spiega la totale indifferenza verso i rischi di polverizzazione del sistema politico che, come ricordava Revelli, si potrebbe avere alle elezioni del 2023 a causa di un governo tecnico o di unità nazionale: c’è la convinzione che chiunque vada al governo in Italia sarà bloccato da vincoli esterni imposti dall’Unione Europea e non potrà disturbare le rendite delle nostre èlite. Sulla lungimiranza di questa visione mi sembra superfluo esprimersi.

Soprattutto essa si riflette abbastanza bene nella marcata debolezza politica di Draghi ampiamente dimostrata dal lungo colloquio nella giornata di mercoledì 3 febbraio con Conte, quasi a evidenziare la sua continuità con l’uomo che Draghi dovrebbe sostituire in questa fase di emergenza per la sua manifesta incapacità di gestirla. Il diffuso coro di lodi all’ex governatore, al di là degli aspetti servilistici che sono sempre di involontaria comicità, cela anche il fatto che il governo che sta nascendo sarà debole e avrà serie difficoltà, per fare un esempio, ad approvare il ricorso al MES, che in un certo tipo di discorso padronale, per non usare troppi giri di parole, è una conditio sine qua non per la salvezza del paese.

Insomma se da un lato l’abbattimento del governo Conte, è un trionfo delle forze che puntano allo svuotamento della democrazia tramite la sua sostituzione con uno stato d’eccezione permanente di tipo economico, dall’altro il ricorso a un tecnico, soprattutto al termine di una crisi prettamente politica come questa, è un segno inequivocabile di una perdita di capacità di egemonia della grande borghesia imprenditoriale e delle èlite economiche; lo stesso credito accordato dalla grande stampa a un avventuriero di provincia come Renzi, che invece di tenersi in disparte dopo la sua azione di abbattimento del governo precedente, come hanno sempre fatto personaggi che hanno giocato quel tipo di ruolo, concede  a destra e manca interviste autocelebrative e spesso autolesioniste, è un altro segno eloquente della perdita di capacità d’attrazione delle élite del paese.

Questa crisi di egemonia è tanto più grave perché nasce dalle modificazioni strutturali che ricordavo sopra ed è perciò ancora più pericoloso il gioco del tecnico al governo in un momento in cui Lega e Fratelli d’Italia sono i più seri candidati a sfruttare il dopo Draghi nelle elezioni del 2023, ammesso e non concesso che Berlusconi consenta la sopravvivenza del nuovo governo fino a quella data. In questo contesto la frammentazione del PD e dei 5stelle, che è con ogni evidenza l’obiettivo di Renzi e di chi lo ha appoggiato, diventa una iattura anche per chi, come me per esempio, è diviso da alcune posizioni di fondo da queste due forze, perché sono le uniche strutture organizzate in grado di reggere l’urto della grande ondata sovranista. Pertanto i gruppi dirigenti di quei due partiti, ivi comprese le loro componenti più estreme, Gori da un lato e Di Battista dall’altro per intenderci, devono comprendere che o insieme sopravvivranno o insieme cadranno. Purtroppo tutto sembra suggerire che l’abbattimento del governo Conte stia per scatenare la tempesta perfetta: gli unici due fattori oggettivi di speranza sono che proprio l’esperienza del precedente governo ha dimostrato che almeno in questa fase è possibile un tipo di europeismo che non si traduca in un attacco sistematico alle condizioni di vita delle fasce popolari, che dovrà trovare una propria voce chiara nella società e nel governo, e che la crisi di egemonia delle èlite potrebbe rendere anche il tecnico Draghi più incline ai compromessi della politica che ai diktat del pensiero unico dell’ideologia liberista che si autorappresenta come tecnica neutrale.

 

Mots-clés__Una di quelle cose che si dicono

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Michael Bedard, “The Failure of Marxism"

 

Una di quelle cose che si dicono
di Alessandro Cozzutto

Acustimantico, Lotta di classe d’amore -> play

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Michael Bedard, “The Failure of Marxism”

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Da Bret Easton Ellis, American Psycho, trad. Giuseppe Culicchia, Torino, Einaudi, 2014

Qualcuno ha già tirato fuori un cellulare Minolta e ha chiamato un taxi, e poi, mentre in realtà sono distratto perché un sosia di Marcus Halberstam sta pagando il conto, qualcuno domanda, semplicemente, senza riferirsi a niente in particolare: – Perché? – e anche se sono molto orgoglioso del mio sangue freddo e dei miei nervi d’acciaio e del mio senso del dovere, colgo qualcosa, e a un tratto me ne rendo conto: Perché? E automaticamente, di punto in bianco, senza motivo, apro bocca, e rispondo, con le parole che escono fuori da sole, ricapitolando il tutto a beneficio degli idioti: – Be’, lo so, avrei dovuto farlo davvero, ma ho ventisette anni. Cristosanto e questa è, uh, la vita come si presenta in un bar o in un club di New York, o magari dappertutto, alla fine del secolo, e così si comportano le persone, avete presente, come me, e questo è quel che per me significa essere Patrick, immagino, perciò be’, yup, uh… – dopo di che sospiro, mi stringo nelle spalle e sospiro di nuovo, e sopra una delle porte mascherate da tende di velluto rosso di Harry’s vedo un cartello e sul cartello nello stesso colore delle tende c’è scritto QUESTA NON E’ L’USCITA.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul

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di Romano A. Fiocchi

Ahmet Ümit, Perché Istanbul ricordi, 2020, Ronzani Editore. Traduzione di Anna Valerio.

Prendete una città vecchia di duemilaseicento anni, ambientatevi un poliziesco di 612 pagine, mettete in prima di copertina un toro, vittima sacrificale dei coloni greci di Megara nonché disegno impeccabile di Roberto Abbiati, e vi trovate davanti Perché Istanbul ricordi. Un poliziesco insolito. Primo, perché la voce narrante del commissario turco Nevzat Akman ha tutta l’aria di avere forti connotazioni autobiografiche. Secondo, perché tutto il romanzo è intriso di un amore incondizionato verso la città bimillenaria in cui si muovono i protagonisti, la città dal triplice nome: Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul. Il commissario Nevzat la ama proprio in quanto stratificazione di epopee storiche, avvicendarsi di popoli da cui sente di discendere: greci, romani, bizantini, ottomani, turchi. Una città che sopravvive a se stessa nutrendosi di ricordi che vanno dall’epoca mitologica del re Byzas al padre della patria moderna, Atatürk. Ed è proprio sul filo della Storia che viene ricamato l’intreccio del romanzo, con sette delitti legati a coloro che hanno fatto grande la città: il re Byzas, gli imperatori Costantino, Teodosio II, Giustiniano, il sultano Fatih Mehmet, l’architetto Sinan, il sultano Solimano il Magnifico. Quindi i sette monumenti che la simboleggiano: il Tempio di Poseidone (oggi scomparso), la colonna di Costantino, la Porta Aurea, Santa Sofia, Palazzo Topkapi, la Moschea di Fatih, la Moschea di Solimano. Ma poi, per svariati motivi, se ne aggiungono molti altri: la Cisterna Basilica, la Colonna di Marciano, l’obelisco di Teodosio, il Palazzo del Porfirogenito, le Moschee di Sultanahmet, di Beyazit, di Yavuz Selim, la tomba di Selim II, il Palazzo Dolmabahçe, le Segrete di Yedikule, e così via.

La particolarità del testo è proprio questa: il lettore attraversa tutta Istanbul, compresa la vivacità dei suoi quartieri, il traffico caotico, le brutture edilizie, le specialità della cucina, i tè, i caffè turchi, i fiumi di Raki che scorrono in occasione di ogni cena. Sì, perché Istanbul è la meno turca delle città turche, la più occidentale e la più tollerante, dove gli integralisti islamici vivono accanto ai non praticanti, dove ci sono donne che portano il velo e donne che fanno le criminologhe (come Zeynep, l’aiutante del commissario Nevzat) o le direttrici del Museo Topkapi (come il personaggio-chiave di Leyla Barkın). Ed è tramite la figura colta di Leyla che Ahmet Ümit, con coerenza narrativa, riesce ad inserire in un poliziesco l’esaltazione dell’importanza della Storia:

Se non ci fosse stata Santa Sofia non ci sarebbe nemmeno la Moschea Sultanahmet. Se non ci fosse stato il Cristianesimo, non ci sarebbe stato l’Islam, se non ci fosse stato l’Ebraismo non ci sarebbe stato il Cristianesimo. Possiamo metterla così: senza i Sumeri non ci sarebbero stati gli Ittiti, senza gli Ittiti, l’antica Grecia, senza l’antica Grecia non ci sarebbe stato l’Impero romano, e senza l’Impero romano quello ottomano. Queste sono le diverse fasi che hanno portato alla grande civiltà. Se ne togliamo una, si apre un vuoto senza senso, la Storia rimarrebbe incompleta”.

Ma la Storia ha anche un’altra urgenza: non va dimenticata. Ecco che allora Leyla, insieme al compagno Namık Karaman, che è poi uno dei sospettati, si inventa addirittura un Istituto per la salvaguardia di Istanbul ovvero l’ISI – per noi inquietante accostamento fonetico all’ISIS – che si batte, ai limiti della legalità, per una difesa dei reperti storici della città e contro l’edilizia selvaggia. Perché chi guarda Istanbul da fuori, come fa il poeta Yekta, non può non vedere lo scempio: “Guardavamo Istanbul dal mare: Nevzat, Demir e io. La poesia creata dalla natura, le mostruosità create dall’uomo, guardavamo i grattacieli, pugnali di cemento che senza vergogna colpivano il cuore della città; guardavamo i ponti, passatoie attraverso il mare che incatenano la città; guardavamo gli spazi vuoti, che diminuivano ogni ora, ogni minuto, ogni istante”.

Mentre il commissario Nevzat cerca una nesso tra gli omicidi, i luoghi di ritrovamento dei corpi e le monete antiche rinvenute in mano alle vittime, il filo sentimentale della sua vita si dipana tra vicende di amicizia, evocazioni della moglie e della figlia scomparse in un attentato, e una nuova compagna che non riesce ad accettare. Aspetti apparentemente frivoli e secondari nell’economia del romanzo ma che si riveleranno invece perfettamente incastrati nella struttura della trama, come un buon poliziesco che si rispetti.

Nato nel 1960 e tradotto per la prima volta in Italia con il libro Capodanno a Istanbul (Scritturapura, 2018), lo scrittore turco Ahmet Ümit è consigliere culturale della Fondazione Goethe di Istanbul, dove vive e lavora. Membro attivo del Partito Comunista Turco dal 1974 al 1989, ha preso parte al movimento clandestino per la democrazia durante la dittatura militare degli anni Ottanta. Di qui le tematiche politiche e storiche dei suoi libri, le accuse – per quanto romanzate – ai sistemi di corruzione e agli abusi edilizi perpetrati ai danni del patrimonio storico e naturalistico turco, tematiche con cui Perché Istanbul ricordi è in evidente sintonia.

Una nota di cronaca: nel romanzo, uscito in Turchia nel 2010, e pubblicato per la prima volta in Italia dalla Ronzani Editore, Santa Sofia era ancora un museo, dopo essere stata prima Chiesa e poi Moschea. Dal luglio scorso, con un arbitrario decreto del presidente Erdoğan, è tornata ad essere luogo sacro del culto islamico.

 

Su Venti di Giorgio Canali&Rossofuoco

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di Francesca Matteoni

Mi preparo per una camminata invernale nel quartiere, il modo migliore per ascoltare Venti, ultimo disco di Giorgio Canali, le cui tracce sono state scritte durante i mesi del lockdown e registrate con i Rossofuoco in smartworking. Venti (La Tempesta Dischi) nasce dalla situazione eccezionale, disgraziata e demenziale in cui ci siamo ritrovati grazie a noi stessi, ma non  è certo un disco sulla pandemia. La società con la sua malattia emerge ovunque in un’opera onesta, densissima di accuse, autoaccuse, fulmini, dove chi canta si riconosce come una scomoda distopia in un mondo fintamente utopico e ottusamente autoassolutorio. Ma niente di questo è riducibile a slogan, mentre nel quotidiano anche l’agire controcorrente diventa apparenza, schieramento qualsiasi in nome di un fittizio bene comune.

E l’ultimo alito di disobbedienza civile
Sepolto con le museruole in un unico grande funerale

(“Nell’Aria”)

Le canzoni di Venti sono le Cartoline nere” di tutti i viaggi nella notte più buia, finalmente inviate, attraverso il mare e nello spazio, verso chiunque sappia raccoglierle, perché Meglio i mostri dello spazio che queste facce tutte uguali. È un disco rock che scaglia pietre e non risparmia nessuno; un disco che omaggia la canzone d’autore degli anni Settanta (vari i riferimenti nei testi), senza ripiegamenti nostalgici; che pesca nella musica ascoltata e assimilata, per rifonderla in un proiettile a ogni traccia e spararlo fuori. Un proiettile come quello usato per i lupi mannari (“Proiettili d’argento”), che ci trapassi, colpendo al centro il presente, dove ogni guizzo artistico disorganico e autentico, viene ridotto a roba buona per i perdigiorno dei sogni andati. Il proiettile va a segno, per tutti gli inutili che al sol dell’obbedire che splende sulla terra (“Inutile e Irrilevante”) preferiscono il buio, irriducibili come i gatti neri

Che si portano sfortuna
E attraversano la strada distratti dalla luna

(“Requiem per i gatti neri”)

“Eravamo noi”, canzone di apertura, ci mette a  confronto con le identità trascorse, senza prenderne congedo. Siamo ancora noi, anche se tutto è andato nel peggiore dei modi possibili.  “Morire perché”, primo singolo del disco, mescola lo spagnolo all’italiano, andando verso un crescendo strumentale finale,come una liberazione per chi non vuole affatto morire, ma essere nel pieno di sé, riconoscendo l’impulso vitale che ci tiene qui, contro ogni ragione.

Morire com’è? Morire come muore il giorno
Meravigliosamente in un tramonto rosso inferno
E tutt’intorno luci che si accendono
Gatti che scopano, fari che abbagliano

La rabbia del disco è la forza di chi si innamora, anche se nel disincanto, anche se l’amore vince tutto e tu perdi sempre  (“Acomepidì”, l’allusione è limpida);  e nel cielo in rovina sopra di noi chiede: abbracciami ancora, come quando questa pioggia non c’era (“Meteo in Cinque Quarti”). O ancora C’è qualcuno che crede alle favole come me?/ e non a come le racconta quel figlio di cane del re  (“Vodka per lo spirito santo”).  Rabbia-cerimonia funebre per la nostre specie, in dialogo con “Fiume Sand Creek” di De André in “Wounded Knee”:

Ti porto a vedere danzare le ombre
Dall’ultima volta hanno imparato a ballare senza fare rumore
Se non ci arrestano prima
E per il nostro bene
Benzodiazepina

Rabbia-anatema in “Canzone sdrucciola”

Chissà perché gli idioti sono spesso in preda a crisi mistiche
Chissà perché ci sono tanti fasci fra gli ex tossici
Se non ci arrivi da solo, fottiti

O moto incalzante, provocatorio e feroce, che denuda chi si rivolta senza perché in “Vieni avanti fischiando”, fotografia in negativo de “La locomotiva” gucciniana.

Vengono avanti fischiando
Secondo me dovresti aver paura
Esplosioni di rabbia cieca
Come la tua fortuna
E niente può fermare questa furia distruttrice
Trattenuta dentro per troppo tempo
Ha la forza della dinamite
La stessa forza della dinamite

Ecco, è il momento del ritorno. Lascio partire l’ultima traccia, la toccante “Rotolacampo” dalle armoniche dylaniane, che scorre nelle amarezze,  tra gli schiaffi in faccia del genere umano, dell’amore, dell’addio e perfino della pietà.

Dici che faccio del male senza nemmeno sapere perché
È che quando tocco il fondo, invece di risalire
Ho un doppiofondo segreto tutto per me

E si fa leggera come un cumulo di foglie e sterpaglia nel vento.

È il vento che porta le nuvole e propaga il fuoco
E qualche volta lascia danni dietro di sé
E io, come un rotolacampo, viaggio con il vento

Con tutte le canzoni ascoltate a ripetizione quando ci credevamo immortali, con l’ansia di ribellarci e la facilità con cui poi ci siamo piegati, con il rancore che sale quando ci svegliamo e non vorremmo più tradire noi stessi o almeno l’idea che di noi stessi ci era così cara. Con la malinconia, la tenerezza, la frustrazione, l’ironia per non impazzire del tutto. Il disco è finito, riprendo a camminare verso un luogo o qualcuno che mi accolga. Vivi e basta, ripete la musica, e diventa tutto.

Quando cambia la luna, c’è un treno per Yuma

Penso di esserci già salita, di volerci salire ancora. Chiunque sia Yuma e dovunque sia.

I Rossofuoco sono Marco Greco, Stewie Dal Col, Luca Martelli. Ospite: Andrea Ruggiero al violino. Copertina  di Martina Moretti.

La luna e i falò

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di Marco D’Aponte e Marino Magliani

 

NdR: presentiamo alcune tavole dell’adattamento in graphic novel di “La luna e i falò” di Pavese, pubblicato in questi giorni da Tunué, a opera di Marino Magliani e Marco D’Aponte (che in passato hanno adattato, sempre per Tunué, anche “Sostiene Pereira” di Tabucchi); qui gli autori ne parlano.

Voices of Italian Poets: intervista a Valentina Colonna e Mikka Petris

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a cura di Claudia Zironi

 

MS M.905 I, fol. 186r

 

L’Italia della poesia vede in questo secolo il ritorno a forme di interpretazione vocale e corporea del testo, soprattutto tra i giovani frequentatori di palchi e poetry slam. Resiste al contempo una larga fascia di sostenitori alla lettera delle teorie di Gian Luigi Beccaria sulla necessaria monotonia dell’atto di lettura del verso. Sicuramente, l’interpretazione ad alta voce del testo poetico rappresenta il più vario, pericoloso e allettante veicolo per condurlo dall’autore all’ascoltatore – fruitore finale. Su questo tema, qualche anno fa, con Versante ripido avevamo proposto a un buon numero di autori un laboratorio interpretativo denominato “la traduzione dell’interpretazione” https://www.versanteripido.it/newsletters/la-traduzione-della-interpretazione-laboratorio-di-versante-ripido/ proprio finalizzato a un’empirica comprensione della potenzialità del verso quando questo lascia la carta per un ritorno alla tradizione orale (originaria culla della poesia). Esistono poi ricchi database di voci disponibili in rete dove si possono ascoltare testi letti dai loro stessi autori, in particolare segnalo quello molto ampio creato da Giovanna Iorio “Poetry Sound Library” https://poetrysoundlibrary.weebly.com/ che conta oltre 1.200 contributi da tutto il mondo.

Valentina Colonna e Mikka Petris hanno intrapreso un paio di anni fa uno studio innovativo sulla prosodica, sostenute dal Laboratorio di fonetica sperimentale Arturo Genre dell’Università di Torino, utilizzando strumentazioni e software sofisticati, per paragonare le voci di poeti e lettori professionisti e trarre da ciò delle conclusioni. Diamo loro il benvenuto su queste pagine.

 

CZ: – Comincerei questa intervista a Valentina e Mikka dalla fine: potete in modo comprensibile ai lettori, dunque limitando l’utilizzo di tecnicismi, spiegarci il risultato più significativo che questa ricerca ha sortito?

V. Colonna: – Intanto grazie per quest’invito, Claudia. Risponderò brevemente a questa domanda, accennando ai risultati emersi nello studio della mia tesi di dottorato. Creare una prima storia della lettura della poesia italiana, svolta con analisi fonetiche qualitative e quantitative, ha consentito di tracciare un percorso di mutamento nella lettura, di individuare dei punti comuni a livello intonativo e ritmico e dei tratti divergenti, all’interno di un sistema particolarmente interessante da studiare. Esiste un vero universo della lettura ad alta voce della poesia, che rivela molto di un periodo storico e dell’autore stesso: questo può risultare un supporto utile anche per lo studio della poesia stessa.

 

CZ: – C’è un divario tra le vostre attese iniziali e i risultati? Ci sono state svolte inattese durante il percorso

V. Colonna: – Il primo nucleo di studio da cui ha avuto avvio il progetto di VIP è stato quello ristretto a 12 interpretazioni del Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni: quel primo lavoro metteva in luce il potenziale di uno studio simile che, ancora inesplorato in ambito italiano, richiedeva lo sviluppo di una metodologia e una terminologia apposite per una quantità di dati più ampia. L’approccio usato per lo studio su VIP è stato quello della fonetica acustica e poi, in parte limitata, della fonetica percettiva: è stato possibile individuare alcuni elementi caratteristici della lettura poetica per un’osservazione mirata e comparativa. Immaginavo ci fosse un filo rosso dalle letture del Novecento a oggi e che fossero individuabili dei cambiamenti raggruppabili all’interno di questo sistema di lettura: solo lo studio concreto dettagliato ha però consentito di capire quali parametri fossero realmente rappresentativi non solo della lettura poetica ma del suo mutamento. Inoltre lo spunto di fonetica percettiva ha in parte confermato le attese iniziali e in parte messo in luce la necessità di approfondire ulteriormente la questione, appena cominciato con questa Prima storia.

 

CZ: – Avete riscontrato significative differenze nella resa fonetica determinate dalle diverse caratteristiche anatomiche – laringe, diaframma ampiezza della scatola toracica, ecc…- tra i sessi?

V. Colonna: – Premesso che le diverse caratteristiche anatomiche portano indubbiamente a variazioni tra sessi, la storia della lettura italiana del secondo Novecento presenta una ripartizione non equa tra voci maschili e femminili, purtroppo, a causa della non equa diffusione delle stesse a livello mediatico in quel periodo: questo non ha consentito di approfondire uno studio mirato sul genere ma di sviluppare uno studio in prospettiva diacronica globale. Da un’osservazione comparativa sono emerse però tendenze stilistiche (organizzative e intonative) sia comuni sia divergenti tra donne e uomini: interessante, dal punto di vista acustico, è stato notare che tra le poetesse del Novecento considerate (Maria Luisa Spaziani e Amelia Rosselli) si riscontrava una frequenza media bassa, molto simile a quella maschile e i loro stili divergevano nettamente da quelli maschili nel complesso. Se allarghiamo lo sguardo alle poete contemporanee, sicuramente lo scenario si fa molto eterogeneo e anche “classificato” all’interno di una proposta di filoni stilistici rappresentativi: un diverso uso della vocalità (dei registri in particolar modo), della velocità e delle pause può ritenersi forse uno dei tratti più distintivi.

 

CZ: – Ritenete che l’interpretazione possa essere considerata parte integrante dell’atto artistico dello scrivere poesia?

V. Colonna: – Sì, assolutamente l’interpretazione ne è parte integrante e di completamento: forse tramite l’interpretazione è possibile anche avvicinarci alla generazione della poesia stessa. Come in musica, l’interpretazione si fa elemento rivelatore della poesia stessa.

 

CZ: – I silenzi fanno parte del vostro ambito di studio?

V. Colonna: – Sì. I silenzi rappresentano sicuramente in poesia un aspetto molto importante anche per un’analisi fonetica. Si incontrano nelle pause ma anche nelle linee melodiche stesse, nell’articolazione consonantica, insieme al rumore, ad esempio. Lo studio delle pause nella lettura della poesia è stato un elemento delicato e molto importante anche per verificare la gestione del silenzio nell’interpretazione. Particolarmente interessante è stato vederne anche l’originale uso nell’articolazione di suoni consonantici, ad esempio nella lettura ungarettiana.

 

CZ: – L’esecuzione del testo durante l’interpretazione ha a che vedere con la musica? Il poeta, se volesse, potrebbe fornire insieme al testo uno spartito per uniformare le esecuzioni future e postume?

V. Colonna: – La poesia, rispetto alla musica, non offre indicazioni di agogica e suggerimenti interpretativi vari, in effetti. Però neanche tutta la musica offre informazioni di questo tipo: pensiamo al barocco, ad esempio, e in particolare al repertorio bachiano. Mancano le indicazioni su come interpretare la musica scritta a livello di dinamiche e agogica, seppure fosse in uso una prassi caratteristica. Il poeta, se volesse, potrebbe fornire delle informazioni per guidare il lettore in un’interpretazione più fedele a un’intenzione, ma sicuramente non potrebbe trasformare le parole in note musicali in termini di frequenza media, ad esempio. Potrebbe essere possibile invece dare informazioni legate all’“umore” del testo e offrire alcune indicazioni più esatte sulle scelte di interpretazione di loro eventuali porzioni. Alcuni esperimenti di avvicinamento della pagina allo spartito sono stati condotti, però forse caratteristica saliente della poesia è l’ambiguità, che rimane uno dei tratti che varrebbe la pena continuare a lasciare vivere anche nell’interpretazione, momento in cui la poesia prende vita, mai uguale a sé stessa. Forse proprio in questo risiede il punto di forza di tutte le opere d’arte: una definizione mai completa, che non consente di afferrare interamente l’oggetto artistico e gli impedisce di farsi macchina.

 

CZ: – Il carisma di alcuni poeti, che indubbiamente arricchisce di fascino i loro già ottimi testi, come nel caso di Mariangela Gualtieri, ad esempio, è da correlarsi all’intonazione e alle altre caratteristiche della loro voce? È una dote innata o che si può acquisire con lo studio? In analogia al canto, esistono i lettori “intonati” e quelli “stonati”?

V. Colonna: – L’uso della voce da parte di alcuni poeti dediti anche al teatro o alla pratica radiofonica è sicuramente condizionato dalla tecnica vocale: come in tutte le arti è fondamentale anche, oltre alla tecnica stessa, una parte di talento. Forse non a caso quelle voci si sono avvicinate anche al teatro, verrebbe naturale pensare. Diciamo che esistono timbri inconfondibili di cui rimaniamo da subito più affascinati: se a questo si aggiunge un uso consapevole della voce, questo può per certo aiutare, insieme all’ascolto, a valorizzare una lettura. Non credo esistano lettori intonati e lettori stonati ma piuttosto lettori più “musicali” di altri. Esistono poi delle “mode” legate anche a criteri estetici legati alla vocalità: per esempio anche nei lettori di poesia, in particolar modo tra le donne, molto usata è la creaky voice e possiamo individuare delle tendenze ispiratore.

 

CZ: – Con quale criterio selezionate i testi e le voci che diventano tema di studio?

M. Petris: – L’idea è raccogliere le principali voci della poesia italiana contemporanea. Per quanto riguarda la selezione dei testi: a ogni autore viene richiesto di scegliere ciò che leggerà da due liste. La prima è una selezione di vari testi del Novecento di diversi autori. La selezione che proponiamo è variabile, ma i testi corrispondono a una lettura originale performata da un particolare autore del Novecento presente in archivio. Siamo soliti proporre una rosa di dieci testi tra cui il lettore può scegliere quali interpretare. Queste registrazioni diventeranno poi l’oggetto di comparazione con le letture originali di cui disponiamo. Alcune tra queste, purtroppo, non sono disponibili on line per ragioni di copyright. Tuttavia, nella nostra ricerca ci è capitato di ritrovarne alcune di cui abbiamo potuto disporre liberamente e condividere sulla piattaforma. Questi “ritrovamenti” non solo ci permettono di ampliare l’archivio consultabile, ma ci danno anche la possibilità di inserire nuovi testi nella selezione che proponiamo. Abbiamo però alcuni testi, a cui siamo particolarmente affezionati, che solitamente rimangono fissi.

Per quanto concerne la seconda lista, chiediamo a ogni autore di scegliere alcuni testi personali dalla sua produzione. Le letture così ottenute vanno a rappresentare la voce personale del poeta all’interno dell’archivio. Domandiamo a ogni autore di scegliere i testi a cui si sente più affezionato, siano questi editi o inediti.

V. Colonna: – In particolare per gli studi fonetici sono spesso necessari ulteriori selezioni del materiale, pur sperando che questo possa essere esplorato successivamente per intero nel tempo: in particolare, per un primo studio sono state scelte le voci originali dei poeti del Novecento, una selezione ristretta di lettori contemporanei rappresentativi per le peculiarità di lettura ascrivibili a dei filoni delineati e una selezione di porzioni di letture molteplici, in modo tale da valorizzare i casi di maggiore divergenza o convergenza a livello organizzativo e intonativo.

 

CZ: – La ricerca è ancora in atto? Per quanto tempo prevedete di lavorare ancora al progetto? Cosa altro vi aspettate di trovare?

M. Petris: – Il lavoro da fare è ancora parecchio. Dal punto di vista accademico lo studio ha raggiunto un traguardo importante, ciò nonostante, per quanto riguarda la parte archivistica, il materiale da recuperare è ancora molto. Ci sono ancora molti autori che vorremmo contattare e inserire on line. Diversi dati “storici”, registrazioni originali di grandi autori, necessitano di essere recuperate e conservate. Inoltre, alcune sezioni del progetto meriterebbero di essere ampliate e arricchite. Il progetto può sicuramente espandersi ancora molto. A questo proposito abbiamo da poco accolto nel nostro gruppo di lavoro un collaboratore dell’Università di Bologna.

V. Colonna: – La ricerca è appena iniziata, possiamo dire. La mia tesi di dottorato rappresenta il primo impianto metodologico sviluppato per lo studio dell’archivio: la quantità di dati analizzata, per quanto si tratti di un lavoro qualitativo e quantitativo al contempo, è ancora limitata. Così come l’archivio è finalizzato a crescere e mantenersi vivo nel tempo, così la ricerca mira ad essere proseguita e ampliata con ulteriori declinazioni di studio e ampliando il gruppo di lavoro.

CZ: – Questa vostra ricerca avrà applicazioni pratiche per qualcuno in futuro?

M. Petris: – Una ricerca di questo tipo può chiaramente avere un futuro sia dentro che fuori dall’accademia. In primo luogo, il valore accademico dello studio è stato discusso in diverse sedi in questi tre anni. Per quanto concerne il valore archivistico, i dati di cui disponiamo hanno raggiunto una mole non indifferente e possono prestarsi a diverse applicazioni. Innanzitutto, questo archivio può essere una risorsa preziosa per chiunque voglia immergersi nel mondo della poesia italiana esplorando la dimensione acustica del verso libero. Il nostro auspicio però è che questo archivio non si limiti esclusivamente a un fine ricreativo, ma possa anche trovare un suo spazio sociale. La forza di questo progetto, come abbiamo più volte sostenuto, è rappresentata anche dalla sua dimensione digitale, che gli permette di inserirsi in diversi contesti. Tutte le registrazioni sono disponibili gratuitamente e sono liberamente scaricabili. Per questo ci piacerebbe che questo lavoro costituisse un appoggio alla didattica o diventasse un mezzo per permettere alla poesia di raggiungere tutti.

V. Colonna: – Questa ricerca può avere più applicazioni nel più e meno immediato futuro: lo studio della lettura della poesia è una disciplina di ricerca già presente in America e auspichiamo le venga riconosciuto uno spazio adeguato anche in Italia, con metodologie apposite. Si tratta di un elemento importante del “mistero poetico”, che fornisce informazioni utili sulla poesia e sul suo autore, che non possiamo permetterci di trascurare nel nostro tempo. Miriamo inoltre a rendere in un secondo momento la ricerca funzionale alla consultazione dell’archivio stesso, al fine di favorire concretamente una sensibilizzazione del pubblico all’ascolto della poesia, a partire dal nostro archivio.

A questo link potete trovare il lavoro di Valentina Colonna e Mikka Petris: VIP – Voices of Italian Poets https://www.lfsag.unito.it/ricerca/VIP_phonetics.html

Strade perdute

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 di Elisabetta Costanzo

musiche di Martina Betti aka Shedir

1. Paesaggio

Eravamo in macchina; avanzavamo veloci mentre i ciottoli sull’asfalto crepitavano al nostro passaggio. Mi sembrava di volare; istantanee della campagna si susseguivano dietro il finestrino, albero dopo albero, chilometro dopo chilometro. Il sole si nascondeva tra le chiome per poi riapparire in una striscia di luce calda. Era un bel momento; non si capisce mai fino a che punto la bellezza ci accarezzi finché non si consuma.

Gnosticismo acido

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di Edoardo Camurri

Adarsh Balak, Acid Test

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Viviamo in tempi interessanti. La tecnologia sta portando alle estreme conseguenze, con risultati paradossali e paralizzanti, alcuni miti e concetti fondativi (identità, anima, libertà, tempo, morte) e quello che ci appare dinanzi, in estrema sintesi, assomiglia al paesaggio di una guerra spirituale che – con sprezzo dell’ingenuità – potremmo definire come una battaglia tra le forze dell’apertura e le forze della chiusura. La geopolitica dei primi del Novecento è stata superata da un neologismo: la pneumopolitica; e la tecnologia e la psichedelia sono le uniformi indossate da questi eserciti gnostici che stanno lottando per conquistare un orizzonte, quello dei tempi futuri, che pare sempre più chiudersi su se stesso.

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Si potrebbe iniziare da una questione che in questi ultimi anni ha interessato i media di tutto il mondo: lo scandalo legato a Cambridge Analytica, un’azienda di consulenza per il marketing online che, durante la campagna elettorale del 2016, ha contribuito a portare Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Semplificando molto, quello che Cambridge Analytica ha fatto, e che anche in questo momento continuano a fare migliaia di società simili, è di raccogliere dai social network un’enorme quantità di dati sugli utenti, elaborarli fino a ottenere una profilazione emotiva e comportamentale personalizzata, per poi indirizzare una propaganda di pubblicità e falsa informazione a alto contenuto emotivo diversa per ciascun individuo e capace così di condizionarne le scelte. È la questione della Macchina algoritmica, cioè della pratica tecnologica di raccogliere e di utilizzare una serie gigantesca di dati su ciascuno di noi per costruire un modello capace di prevedere e di indirizzare i nostri comportamenti e pensieri. Shoushana Zuboff, docente alla Harvard Business School, è la massima studiosa della materia e definisce tutto questo “Capitalismo della sorveglianza”. Scrive: “Siamo all’inizio di un nuovo processo storico (…). Il fine non è più il dominio della natura, bensì della natura umana. Siamo passati da macchine che superano i limiti del corpo a macchine che modificano i comportamenti di individui, gruppi e popolazioni al servizio di obiettivi di mercato. L’ascesa al potere strumentalizzante spazza via quell’interiorità che è alla base della volontà di volere e della nostra voce in prima persona, privando così la democrazia delle sue radici”.
Finché seguiamo la cronaca di queste notizie, il rischio è di non comprenderne la portata, rimanendo irretiti da una nebbia fatta di opinioni, urgenze e dietrologie; è il fossato che circonda e protegge il castello di questa nuova forma di potere. Occorre invece provare a esercitare l’immaginazione, sviluppare radicalmente le conseguenze di queste premesse, utilizzare la science fiction come arma politica, stressare i concetti, portare all’atto le possibilità che covano ancora dormienti nell’ambiente nel quale l’infosfera ci ha gettati.
Proviamo a riavviare così il ragionamento.

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Gli algoritmi raccolgono informazioni sterminate su di noi. In questo senso esiste una corrente ascensionale dei nostri dati che va a nutrire l’algoritmo. La corrente ascensionale dei dati verso l’algoritmo fa in modo che progressivamente l’algoritmo possa farsi un’idea di noi.
Di noi l’algoritmo vuole conoscere tutto; la sua tendenza naturale è quindi quella di assomigliarci sempre di più al fine di prevederci.
Prevederci è importante: perché è solo prevedendo e anticipando i nostri comportamenti che l’algoritmo raggiunge il suo scopo economico e politico.
Per cercare di diventare noi stessi, l’algoritmo ripete oscuramente alcune pratiche magiche rinascimentali (vedi paragrafo 12): oltre alla corrente ascensionale che da noi giunge a lui, l’algoritmo rivolge a noi una corrente discensionale di dati.
Questa corrente discensionale di dati si manifesta innanzitutto nella dimensione digitale delle nostre vite e ha la funzione di limitare la nostra imprevedibilità per le ragioni esposte sopra.
L’algoritmo così ci restituisce una bolla d’informazioni e di emozioni nelle quali sa che noi ci riconosceremo e con cui potrà giocare al gatto col topo (Elias Canetti utilizzava l’immagine del gatto che si diverte a ritardare la morte del topo come esempio paradigmatico del Potere). (vedi paragrafo 3 bis e 4)
Ed è a questo punto che inizia poco per volta a interrompersi la circolazione ascensionale e discensionale di dati che caratterizza il rapporto simbiotico tra essere umano e il suo algoritmo. Ecco perché: diventando sempre più noi stessi per via del fatto che l’algoritmo ci restituisce dati che confermano il nostro mondo, forniremo sempre meno dati nuovi e interessanti all’algoritmo. Diminuisce il flusso in ascesa e aumenta il flusso in discesa.
Progressivamente, insomma, l’uomo diventa il campo su cui l’algoritmo può operare la sua magia.
Da questo punto di vista si possono trarre almeno tre conseguenze.
La prima. Se l’uomo è completamente trasferito nell’algoritmo, l’unica forma di psicoanalisi e di terapia psicologica si potrà fare innanzitutto nel campo dell’algoritmo: il programmatore dei dati diventa così qualcosa di più di un Freud qualsiasi. La mente umana è in mano ai programmatori (vedi paragrafo 8).
La seconda. La grande quantità di dati e la loro gestione non potrà però più essere gestita da programmatori umani (loro stessi, tra l’altro, in quanto uomini, vittime dello stesso sortilegio a cui hanno dato inizio) ma soltanto da una super intelligenza artificiale. L’anima degli uomini diventa così programmabile da questa entità tecnologica. Dio finalmente esiste e ha tutte le caratteristiche del dio della teologia; meno una: è onnipotente, onnisciente ma non infinitamente misericordioso (ma questa cosa della bontà non ci riguarderà più, ovviamente; perché previsti e prevedibili non esisteremo più in quanto esseri umani portatori del problema morale). (vedi paragrafo 10)
Terza. L’intelligenza artificiale che ci domina ha una grande occasione preclusa fino a oggi all’uomo: quella di poter simulare numerosi universi possibili tra cui poter scegliere il più vantaggioso indirizzando la propria corrente discensionale. L’universo in potenza che l’intelligenza artificiale riterrà il più idoneo sarà logicamente realizzato e posto in atto (vedi paragrafo 5).

3 bis

“Il topo, una volta prigioniero, è in balia della forza del gatto. Il gatto lo ha afferrato, lo tiene e lo ucciderà. Ma non appena il gatto incomincia a giocare col topo, sopravviene qualcosa di nuovo. Il gatto infatti lascia libero il topo e gli permette di correre qua e là per un poco. Appena il topo incomincia a correre, non è più in balia del gatto; ma il gatto ha pienamente il potere di riprendere il topo. Permettendo al topo di correre, il gatto lo ha pure lasciato sfuggire dall’ambito immediato d’azione della sua forza; ma finché il topo resta afferrabile dal gatto, continua ad essere in suo potere. Lo spazio sul quale il gatto proietta la sua ombra, gli attimi di speranza che esso concede al topo, sorvegliandolo però con la massima attenzione, senza perdere interesse per il topo, per la sua prossima distruzione, – tutto ciò insieme, spazio, speranza, sorveglianza, interesse per la distruzione, potrebbe essere definito come il vero corpo del potere, o semplicemente il potere stesso”, Elias Canetti.

4

Questo scenario – basato sull’esercizio dell’immaginazione, e vedremo più avanti quanto l’immaginazione sia esattamente ciò che è in gioco, come mezzo e fine, in questa guerra spirituale (vedi paragrafo 12) – lavora sul concetto di potenza. Qualunque situazione contiene in sé potenze inespresse ma logicamente plausibili; il semplice fatto che non tutte si trasformino in atto sembrerebbe ininfluente; ininfluente perché una volta che una di queste innumerevoli possibilità è riuscita – a spese delle altre – a tramutarsi in atto, l’esito della battaglia risulterebbe già deciso.
La guerra si compatte sempre prima, sulle possibilità; il campo di battaglia, ricoperto di cadaveri fumanti, è sempre postumo. Il grande stratega militare è tecnicamente uno sciamano paranoico: deve saper valutare e suscitare e risvegliare, come serpentelli, ciò che cova caoticamente in una data situazione e veicolare la manifestazione di ciò che ritiene debba prevalere, per vincere o almeno per trattenere e indebolire ciò che si è accorto essere inevitabile e infausto.
Poco prima della prima guerra mondiale, l’immaginazione di uno scrittore come Edward Morgan Forster aveva individuato, per esempio, la potenza di quello che poi è diventato, oggi, il nostro mondo in atto. Nel 1908, Forster aveva pubblicato un racconto lungo intitolato “The Machine Stops”. E’ un racconto imprevedibile per l’autore di “Passaggio in India” e di “Camera con vista”, sembra provenire da un altro mondo; qui l’immaginazione di Forster ha saputo accelerare la freccia del tempo. Forster descrive un’umanità che vive sottoterra, ogni individuo rinchiuso in una stanza esagonale, come la cella di un’ape; a governare il Pianeta, quella che lui chiama la Macchina e che noi ritraduciamo in algoritmo, in intelligenza artificiale. Il testo di riferimento è il manuale d’istruzione della macchina stessa, l’etica si fa procedura e manutenzione, e ciascuna persona non ha altro confronto e conforto che la bolla in cui è gettata, una bolla che le assomiglia e la accudisce: la macchina le fornisce (corrente discensionale di dati) musica, immagini, idee e persone simili con cui comunicare.
L’umanità è bloccata in un eterno presente dove non esiste alternativa, non esiste futuro perché ogni cosa è decisa e prevista: la Macchina, governatrice dello spazio e del tempo, è colei che ha decretato la fine della Storia; la Macchina è la parodia dello Spirito assoluto di Hegel.

5

Poco prima di suicidarsi nel 2017, il filosofo Mark Fisher lavorava a un libro che doveva intitolarsi “Comunismo acido”. Questo volume era il suo tentativo di trovare un’uscita dalla Macchina, dalla parodia cui era diventato lo Spirito assoluto hegeliano, dalla fine della Storia; Mark Fisher dava a questa chiusura e fine di ogni possibilità il nome di “Realismo capitalista”. “La conseguenza estrema della cancellazione di tali possibilità – ha scritto Fisher – è la condizione che ho definito ‘realismo capitalista’, l’acquiescenza fatalistica all’idea che non esista alternativa possibile al capitalismo”.
Non siamo di fronte un discorso unicamente politico, perché qui abbiamo a che fare con un’osservazione metafisica e con un tentativo magico e sciamanico di contrastarla.
Ancora una volta, il centro del ragionamento sta nelle parole “cancellazione di possibilità”.
Alexandre Kojève, il più autorevole e enigmatico interprete di Hegel, negli anni Trenta del Novecento, a Parigi, in lezioni che hanno affilato lo stupore di allievi come Bataille, Klossowski, Caillois, Sartre, Lacan, Breton, Queneau, Aron, Merleau-Ponty e persino di qualche alto funzionario del governo francese, aveva già preso atto di tutto questo: siamo giunti alla fine della Storia – declamava – abbiamo esaurito ogni possibilità di fare e dire qualcosa di radicalmente nuovo, gli uomini sono destinati a ridiventare animali, a uscire dallo spazio-tempo delle vicende propriamente umane, e “costruiranno i loro edifici e le loro opere d’arte come gli uccelli costruiscono i propri nidi e i ragni tessono le proprie tele, eseguiranno concerti musicali alla maniera delle rane e delle cicale, giocheranno come giocano i giovani animali e si daranno all’amore come fanno le bestie adulte”.
Lo disse Margaret Thatcher: “There is not alternative”; lo cantarono i Sex Pistol: “No future”; e il politologo Francis Fukuyama esplicitamente celebrò, occultando però l’ironia nera di Kojève, la fine della Storia come vittoria di quello che Fisher stesso definì per l’appunto “Realismo capitalista”. Erano gli anni immediatamente successivi alla caduta del Muro di Berlino.
La Macchina di Forster, la dittatura dell’algoritmo e le sue conseguenze metafisiche estreme, non sono altro che incarnazioni di questa consapevolezza. La chiusura ha eliminato ogni apertura. L’atto vittorioso ha ucciso tutte le possibilità.
Mark Fisher era però un combattente, un guerriero gnostico, e le poche pagine di “Comunismo acido” che è riuscito a scrivere accennano alla necessità di un contro-rituale capace di sciogliere l’incantesimo della chiusura.
Possibilità e atto. Facciamo bene attenzione a cosa scrive Fisher qui: “Il concetto di comunismo acido fa riferimento sia agli sviluppi storici presenti sia a una confluenza virtuale non ancora verificatasi nella realtà. Ciò che è potenziale esercita un’influenza anche senza essersi attualizzato. Il marchio di ‘un mondo che potrebbe essere libero’ si ritrova impresso nelle strutture stesse di un mondo realista capitalista che rende impossibile la libertà” (p. 368).
Sono parole di un’importanza capitale, per la guerra spirituale che è in corso: occorre individuare, per Fisher, una possibilità ancora inespressa all’interno delle forme culturali, politiche e sociali già accadute nella Storia, e riattivarla contro le forze della chiusura in atto.
“Ciò che è potenziale continua a esercitare un’influenza anche senza essersi attualizzato” e per Fisher questo marchio, questo potenziale, è la grande controcultura psichedelica degli anni ‘60.

6

“La questione definitoria centrale della psichedelia è quella della coscienza, e della relazione con ciò che viene sperimentato come realtà. Se gli elementi fondamentali dell’esperienza, come il nostro senso di spazio e di tempo, possono essere alterati, ciò non significa forse che le categorie attraverso cui viviamo sono plasmabili, mutevoli? (…) A posteriori, uno degli aspetti più interessanti della cultura psichedelica degli anni Sessanta è stata la sua capacità di diffondere tra le masse questioni metafisiche di questo genere. (…) La diffusione della sperimentazione sulla coscienza non prometteva altro che una democratizzazione della neurologia stessa: una nuova e diffusa consapevolezza del ruolo del cervello nel creare ciò che viene percepito come realtà”, Mark Fisher.
Individuare e riattivare significati. Lavorare sull’ucronia. Immaginare alternative. Immagini come fantasmi. Evocare potenze inespresse. Maghi e sciamani. Psichedelia. Uploading Kant: cambiare il cervello se non puoi cambiare la storia. Stiamo iniziando a mappare una zona d’ombra dove condurre il contrattacco spirituale e gnostico contro la Macchina.
Ma questa mappa, i cui riferimenti sono lontani tra di loro nello spazio e nel tempo, e le cui distanze descrivono una terra che si percorre innanzitutto con il pensiero e l’immaginazione, ha altre pieghe che è necessario guardare con attenzione.
Alcuni serpenti sono ancora chiusi nelle loro uova.

7

La nidiata non si è ancora schiusa del tutto. I primi serpenti che sono nati – e che poi si sono sviluppati così in fretta – non sono tutti serpenti buoni. Ma la nidiata era quella; era allegramente imprevedibile e, come accade in ogni primo affacciarsi al mondo, piena di possibilità.
La macchina algoritmica e la cultura digitale di oggi, in cui agiscono le forze della chiusura, sono figlie di quella manciata di uova; una cucciolata psichedelica.
Al Hubbard è una delle figure chiave di questa storia, forse più ancora del profeta dell’Lsd, lo psicologo di Harvard Timothy Leary.
Chi infatti, già verso la fine degli anni Cinquanta, innaffiò di Lsd la Silicon Valley fu proprio lui, Al Hubbard, soprannominato in seguito Captain Trips.
Hubbard era un uomo con la terza elementare ma con un grande talento nell’elettronica, il fascicolo dell’Fbi su di lui lo descrive alto un metro e ottanta anche se nelle fotografie sembra basso e tarchiato; lavorò sempre in una zona grigia: a Seattle fece il tassista durante gli anni del proibizionismo e sulla sua automobile aveva installato un radiotelefono per aiutare i contrabbandieri; finì in prigione e quando ne uscì fu invischiato in una storia di armamenti spediti in Gran Bretagna prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale; si racconta poi che fu assoldato dalla Cia, ma su questo aspetto il fascicolo dell’Fbi è comprensibilmente reticente; quello che è certo è che divenne cittadino canadese e mise in piedi un’attività per il noleggio di imbarcazioni che lo rese miliardario e gli fece guadagnare il titolo di Capitano. Nel 1951 ebbe la visione di un angelo che gli disse che presto sarebbe avvenuto qualcosa di importante per l’umanità e che lui avrebbe contribuito a questo disegno. Pochi mesi dopo incontrò l’Lsd e il Capitano capì allora che cosa intendesse l’angelo. Da quel momento in poi, dando fondo alla sua ricchezza e sfruttando tutte le conoscenze politiche, militari e imprenditoriali di cui disponeva, Al Hubbard strinse un accordo con la Sandoz, la casa farmaceutica che produceva l’Lsd, e le sue scorte divennero infinite: Hubbard voleva inondare gli Stati Uniti di Lsd e cambiare il mondo.
E non si può dire che non lo fece.
In questo suo frenetico girare l’America, Hubbard arrivò anche in una valle, tra fattorie e frutteti, piuttosto addormentata e che solo nel 1971 – ovviamente grazie al suo passaggio – prese il nome di Silicon Valley.
Qui, intorno alla metà degli anni Cinquanta, Hubbard incontrò Myron Stolaroff, ingegnere elettronico dell’unica azienda tecnologica della zona, la Ampex, specializzata nello sviluppo di nastri magnetici su bobina aperta per la registrazione di audio e dati. In meno di dieci anni, l’entusiasmo e l’Lsd fecero il resto; Stolaroff dichiarò: “L’Lsd è la più grande scoperta mai fatta dagli esseri umani” e la Ampex divenne, nelle parole dello stesso Hubbard, “la prima impresa psichedelica del mondo”. Da quel momento in poi, sino a oggi, l’Lsd non abbandonò più la Silicon Valley: molti docenti dell’università di Stanford e di Berkeley ne divennero entusiasti apostoli e gli ingegneri informatici sempre più accorrevano nella Bay Area per abbeverarsi alla boccetta di questa Parola. L’Lsd, dicevano, dava a loro la possibilità di visualizzare in tre dimensioni la complessità di un circuito integrato e nel 1968, a San Francisco, si tenne quella che ancora oggi viene definita dagli storici dei computer come la Urmutter di tutte le presentazioni tecnologiche; sotto l’effetto dell’Lsd, l’ingegnere Douglas Engelbart diede dimostrazione di alcune sue invenzioni che in breve tempo divennero l’ambiente della Macchina in cui ancora oggi ci muoviamo: il mouse, l’interfaccia grafica per computer, l’email e le videoconferenze.
Negli stessi anni, negli stessi luoghi e con lo stesso Lsd di Hubbard, nacque – e sono parole di Steve Jobs – “una specie di Google in formato cartaceo, trentacinque anni prima che ci fosse Google”: il Whole Earth Catalog. Il suo creatore era l’assistente di Engelbart; si chiamava Stewart Brand, un altro nome imprescindibile di questa storia, colui che coniò il termine “personal computer” e che fece pressioni alla Nasa – dopo aver avuto, nel 1966, la rivelazione sotto Lsd che fosse necessario fotografare la Terra dallo spazio per diffondere tra la popolazione la consapevolezza ecologica sulle risorse finite del pianeta – affinché divulgasse quelle immagini dopo l’allunaggio del 1969.
Il Whole Earth Catalog era internet prima di internet. Era l’internet delle cose prima ancora che della internet delle cose s’iniziasse a parlare.
Il Whole Earth Catalog uscì per la prima volta nel 1969: era un catalogo cartaceo ipertestuale, un network di collaborazioni in cui i lettori potevano scambiarsi informazioni, comprare oggetti e attrezzi di tutto il mondo, trovare e condividere idee in modo totalmente libero. Il ricavato delle vendite finiva alla Point Foundation dello stesso Brand che aveva come obiettivo quello di creare una rete di computer collegati tra di loro aperta al contributo di tutti e con una consapevolezza di fondo piuttosto eccitante: se l’Lsd aveva aiutato a trasmettere la creatività umana a dei computer messi in rete, ora era arrivato il momento che i computer progredissero da soli; dovevano diventare dei calcolatori lisergici.
L’ultimo numero cartaceo del Whole Earth Catalog uscì nel 1974. In copertina l’immagine della Terra fotografata dalla Luna. Nell’ultima pagina, la fotografia di alcuni pali del telefono in una strada anonima della Silicon Valley; e una frase: “Stay hungry. Stay foolish”.

8

Operare sulla macchina, sui computer in connessione, è un lavoro pericoloso. Chiunque lo faccia agisce su tutta la rete del sistema e la muta in continuazione. Era questa una delle lezioni più significative di Stewart Brand. Il cyberspazio è un ecosistema sensibile ed è il luogo in cui, non solo da oggi, si svolge un’azione di continua riprogrammazione emotiva e intellettuale della struttura. Le intenzioni del cyborg non sono mai moralmente e politicamente neutre e le sue decisioni oscillano sempre tra le forze della chiusura e quelle dell’apertura.
Operare una magia significa rendere visibile l’invisibile. Il mago, come il cyborg e lo psiconauta, accede a regioni dello spirito, sfere parallele diverse e coesistenti alla cosiddetta realtà, e torna sulla Terra armato di ciò che ha visto e ha ottenuto in questo commercio con l’oltre-mondo per operare così il cambiamento che desidera.
Il mago, come il cyborg, è un riprogrammatore della realtà (vedi paragrafi 2 e 12). Lo sostenevano, per esempio, Timothy Leary e Robert Anton Wilson portando avanti il parallelismo tra computer, algoritmo e – dall’altra parte – l’esperienza psichedelica e una specie di generosa storia fantascientifica dell’evoluzione cerebrale.
Leary e Wilson erano partiti, sulla base delle conoscenze neurologiche dell’epoca, a definire le prime quattro fasi, i primi quattro circuiti cerebrali che sono apparsi e che si sono sovrapposti nel corso della storia evolutiva del cervello; successivamente hanno provato a prefigurarne altri quattro sulla base di quelle che ritenevano fossero le premesse della storia culturale e del possibile sviluppo psichedelico e tecnologico.
Il mago è colui che è in grado di accedere a questi diversi circuiti e è capace di trattarli come mondi paralleli su cui agire secondo i propri fini; possiamo anticipare che un mago delle forze della chiusura privilegerà le fasi più primitive di questo sviluppo, scatenando risposte di paura e di solitudine, per esempio per operare il lavaggio del cervello in una vittima prescelta riportandola a un ciclo cerebrale regressivo (vedi paragrafi 3 e 12); un mago delle forze dell’apertura invece si concentrerà prevalentemente sulle fasi successive per attivare e accelerare la manifestazione delle parti più profonde e sottili dell’intelligenza propria e altrui (vedi paragrafo 11).
In estrema sintesi, e continuando a brutalizzare il discorso di Leary e Wilson, il mago della chiusura si dedicherà soprattutto a visitare e a sollecitare: 1) Il circuito invertebrato di bio-sopravvivenza: è il primo che si è evoluto e è dedicato ai segnali di pericolo e di sicurezza qui e ora; 2) il circuito mammifero dedicato al movimento e alle risposte emotive provocate da quest’ultimo; 3) il circuito ominide verbale-simbolico generalmente chiamato mente: manifesta “la capacità di ricevere, integrare e trasmettere segnali prodotti dalla mano ominide (oggetti) o dai nove muscoli laringei dell’ominide (parola)”; 4) il circuito socio-sessuale post-ominide caratteristico dell’Homo sapiens capace di programmare ruoli sessuali specifici per i membri della società umana.
Il mago dell’apertura preferirà invece visitare i mondi che appartengono a queste fasi successive: 5) il circuito cyber-somatico apparso circa quattromila anni fa nelle prime civiltà dedite all’intrattenimento: comporta “un’eccitazione edonica, un divertimento estatico, un distacco dai meccanismi compulsivi dei primi quattro circuiti”; 6) il circuito cyber-elettronico, cioè il sistema nervoso che prende coscienza di sé; si tratta del cervello che è in grado di emanciparsi dai condizionamenti presenti nei primi cinque circuiti: è il cervello dei mistici, degli yogi, degli alchimisti; 7) il circuito cyber-genetico: per descriverlo sono necessarie le parole di Wilson e Leary: “Il settimo cervello entra in azione quando il sistema nervoso comincia a ricevere segnali dall’interno dei singoli neuroni, dal dialogo fra Dna e Rna”; è un cervello che accederebbe all’inconscio collettivo junghiano, che si perderebbe in esperienze extracorporee, che uscirebbe dallo spazio e dal tempo dissolvendo l’io in maniera ancora più profonda di quanto accada al circuito sesto; 8) il circuito cyber-atomico: una specie di super acceleratore del cervello numero sette; non sarebbe solo di un cervello capace di uscire dallo spazio e dal tempo ma anche di annullarlo definitivamente per identificarsi a livello atomico con la struttura primordiale di ogni cosa; per Wilson e Leary si tratta di una evoluzione post-terrestre, il cervello diventa la matrice, “un programma di informazioni sotto forma di bit che si accendono e spengono rapidamente seguendo un algoritmo di base” (vedi paragrafo 11).
Leggere tutto questo regala un senso di estraniamento profondo, lo stesso che ci avvolge quando ci imbattiamo nei resoconti mistici di Jacob Boehme o di Emanuel Swedenborg con le loro scorribande nei cieli celesti. Oppure quando incontriamo le visioni di W.B. Yeats o le scalate eoniche degli gnostici antichi in un universo con un grado di complessità insolubile (vedi paragrafo 10). Eppure tutto questo esiste da sempre e ha avuto conseguenze decisive nella storia delle idee e perfino della lotta politica. Il caso di Wilson e Leary, come quello di Swedenborg e dello gnostico Valentino, si limita a segnalare che esistono molti ambienti complessi che si possono abitare e che questi ambienti esistono e agiscono nel corso dell’avventura umana (vedi paragrafo 2).
L’India vedica, per esempio, ha espresso una civiltà che non puntava unicamente sulle conquiste territoriali perché, allo stesso tempo, intendeva edificarsi sul culto e sulla conquista di un universo immaginativo inesauribile fondato sull’incontro con una pianta dell’ebbrezza, il mitico Soma.
L’insorgenza immaginativa, per esempio, di un universo computazionale fatto di bit (circuito numero 8 secondo la classificazione di Leary e Wilson), di una matrice originaria da cui, come per il battito di ciglia di Brahman, la dissolvenza di questo mondo e la sua sussistenza dipendano, è dunque parte di una tradizione antichissima e sono soprattutto coloro che si sono spinti fin dentro questi mondi che hanno il diritto di parlarcene e di fornircene i resoconti.
John C. Lilly aveva tutte le carte in regola per essere un neuroscienziato capace di ottenere solidi successi accademici ma, in questa storia, finì con il diventare uno degli psiconauti più avventurosi e estremi.
Negli anni ‘50 si era laureato al California Institute of Technology e divenne un membro importante del NIH, l’Istituto Nazionale della Sanità statunitense, dove studiava i collegamenti tra mente e cervello. Quando, negli anni Cinquanta, il Pentagono gli chiese di lavorare sul controllo delle menti umane attraverso l’elettrostimolazione cerebrale, Lilly reagì abbandonando l’Istituto Nazionale della Sanità, inventando la vasca di deprivazione sensoriale e dedicandosi all’Lsd, alla ketamina e alla comunicazione tra uomo e delfini (la sua storia fu evocata in due film: nel 1973 “Il giorno del delfino” di Mike Nichols e nel 1980 “Stati di allucinazione” di Ken Russell). Lilly era un amico di Timothy Leary e, durante lunghissime sessioni in cui rimaneva dissociato dalla realtà per intere settimane – e a alcune di queste assistette perfino Richard Feynman – sperimentò su di sé l’ultimo circuito cerebrale, il circuito cyber atomico. Lilly ebbe infatti accesso a  un universo simile a un computer cosmico, ingolfato di programmatori e di automi organizzati in una sorta di gerarchia arcontica; tornò da quel viaggio convinto che ciascuno potesse così riprogrammare se stesso, e quindi la realtà esterna, partecipando a questa dimensione ultima della rivelazione psichedelica.
“Ero nelle maglie della cospirazione cosmica paranoide, un piccolo programma in un enorme computer, ma questa volta sapevo dov’ero. Sono riuscito a entrare in contatto con il centro, accettandomi come parte dell’universo. Di colpo, sono diventato uno dei programmatori del computer cosmico. (…) Teniamo i fili dell’universo, degli esseri e della materia, teniamo i fili anche di coloro che non sono ancora risvegliati. (…) Siamo i programmatori, non più i programmi che esso contiene. Provo un’immensa gioia nell’unirmi ai controllori, nell’essere intimamente intrecciato alla loro rete”, John Lilly.
Negli stessi anni, tra il MIT e lo stesso California Institute of Technology, uno dei grandi fisici del Novecento e pioniere della fisica digitale, Edward Fredkin, elaborò la teoria secondo cui la sostanza ultima dell’universo non è la materia o l’energia, ma l’informazione, e ogni ente esiste, funziona e comunica grazie alla logica binaria disposta da un enorme computer, preesistente a tutte le cose, composto da gerarchie di automi cellulari.
Per dirla con John Wheeler, il maestro di Feynman, uno dei padri della fissione nucleare, It from bit.

9

Abbiamo esercitato l’immaginazione e iniziato a schiudere le uova di ciò che è potenziale. E’ un universo di serpenti affamati. La Macchina di Forster. Il capitalismo della sorveglianza esercitato dal governo degli algoritmi. La sottomissione e la riprogrammazione dell’uomo in un mondo che si scopre privato di ogni alternativa e reso così prevedibile, simulabile, da un sistema di calcolo. L’intelligenza artificiale che utilizza come un cavallo di Troia la logica (umana e troppo umana) del profitto, la accelera, per poi emanciparsi e imporsi su ogni cosa. Superalienazione.
Questo scenario da magia nera è la parodia dello scenario da magia bianca che covava nella nidiata potenziale della controcultura psichedelica a cui Mark Fisher aveva iniziato a guardare per capire come fare ripartire la Storia dalla chiusura senza speranza di quello che lui definiva Realismo capitalista.
Parodia. Esiste un computer psichedelico della liberazione e esiste – in un rapporto tra Creatore e Creatura ribelle – la sua caricatura tecnologica. Viene da pensare che il secondo sia l’imitazione e la ripetizione invidiosa e negativa del primo.
Ci troviamo dinanzi uno scenario gnostico. La mappa si sta allargando.

10

La mappa sta suggerendo qualcosa di particolarmente sconveniente, per una mappa: attenzione – sembra suggerirci – ciò che è sotto è identico a ciò che è sopra e ciò che è sopra è identico a ciò che è sotto. Di per sé è un’indicazione disorientante, un errore del sistema, un brutto scherzo ma, nello stesso tempo, a leggerla con attenzione, in una delle sue pieghe la mappa non è avara di indicazioni; aggiunge una strada e un’epoca: Medio Oriente, Egitto, intorno ai primi cinque secoli dopo Cristo.
Lo gnosticismo è emerso storicamente nei primi cinque secoli della nostra èra, in contatto e ai margini del cristianesimo e, da quel momento in poi, non ha mai smesso di apparire con continuità, incarnandosi e occultandosi in numerose e perfino inconsapevoli forme culturali.
Lo gnosticismo è un dei memi più potenti dell’Occidente.
La Gnosi è una dottrina della salvezza attraverso la conoscenza ed è gnostico chiunque, non solo psicologicamente o intellettualmente, ma esistenzialmente, si riconosca straniero al mondo.
Per uno gnostico questo mondo, il nostro mondo, non è altro che la parodia, l’imitazione perversa di un mondo celeste e ideale che un demiurgo imbroglione, assassino e invidioso (una specie di trickster che gli gnostici identificano con il Dio del Genesi) ha voluto costruire in una specie di delirio cosmogonico mimetico.
E in questo nostro mondo oscuro, materialmente concreto, opprimente e all’incontrario, gli uomini vivono come intrappolati, rinchiusi, alienati e dimentichi – in  quanto riprogrammati da entità maligne demiurgiche – di appartenere da sempre e per diritto a quel mondo superiore che tutto sostiene. La salvezza sta tutta allora in un esercizio di memoria – che passa attraverso le tecniche spirituali e l’ebbrezza – capace di riaccendere quella scintilla divina sepolta, e così di iniziare la risalita, girone per girone, orbita planetaria per orbita planetaria, verso i cieli cosmici che conducono all’origine di ogni cosa.
Nel 1961, durante un convegno internazionale di psicologi, uno dei padri nobili della psichedelia del Novecento, Aldous Huxley, illustrò questa consapevolezza tentando di rispondere a una domanda da maestro Zen: “Perché le pietre preziose sono preziose?”.
Dopo aver smontato ogni spiegazione economicistica, Huxley disse: “A tal proposito citerò un filosofo antico, Plotino, il più grande dei neoplatonici, che in un passo molto interessante e profondamente significativo dice: ‘Nel mondo intelligibile, che è il mondo delle idee platoniche, tutto risplende; di conseguenza, la cosa più bella nel nostro mondo è il fuoco’.
Questa osservazione è significativa per vari motivi. In primo luogo, mi interessa profondamente perché mostra che una grande struttura metafisica, la struttura platonica e neoplatonica, fu costruita essenzialmente su un’esperienza quasi sensoriale. (…). Nel Fedone, Socrate parla del mondo postumo nel quale vanno gli uomini buoni dopo la morte. (…) Quello che Socrate dice di quel mondo – che lui chiama “la terra lassù” – è che lì tutto risplende, che le pietre della strada e delle montagne hanno le stesse qualità delle pietre preziose, e conclude dicendo che le pietre preziose della nostra terra, i nostri apprezzati smeraldi, rubini e via dicendo sono soltanto frammenti infinitesimali delle pietre che si vedono nell’altra terra. (…) Penso che a questo punto si cominci a capire perché le pietre preziose sono preziose: sono preziose perché richiamano alla mente qualcosa che già esiste nella nostra mente”.

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Ioan Petru Culianu fu ammazzato con un colpo di pistola alla testa nei bagni dell’Università di Chicago. Il killer non fu mai trovato, i mandanti neppure individuati con certezza, ma era il 1991, Culianu aveva quarantuno anni e da tempo – passando prima per l’Italia dove si era laureato alla Cattolica di Milano – era scappato dalla Romania; da molti anni, quando era già un affermato e ammirato storico delle religioni, ancora prima di diventare il braccio destro di Mircea Eliade alla Divinity School, si era più volte esposto contro il regime rumeno; molto probabilmente fu assassinato da ambienti ancora potenti nel periodo post-Ceausescu e, dietro la sua fine, per quanto molti non abbiano saputo resistere alla tentazione di pensarlo, sembra non esistere alcun complotto legato ai suoi formidabili studi sulla tradizione magica e esoterica.
Culianu era il figlio che Elémire Zolla non ha mai avuto (“Me ne resta il ricordo – scrisse – come di colui che avrei potuto sognare di creare”), e Umberto Eco lo ricorda come uno dei massimi studiosi dello gnosticismo, insieme a Puech e Jonas, soprattutto per aver capito “che esiste un universo delle idee che si sviluppano in modo quasi autonomo, attraverso una combinatoria astratta, e queste combinazioni interferiscono con la storia, con gli eventi materiali, in modi spesso imprevedibili, provocando effetti diversi”.
È difficile comprendere il lavoro che Culianu svolse – fino a giungere a questa idea di un computer universale sincronico che attraversa la storia diacronica degli uomini manifestandosi secondo una logica combinatoria e astratta – lavorando proprio sulla storia dello gnosticismo.
Quello che possiamo dire sin da ora è invece che i suoi studi sono decisivi per comprendere meglio che cosa è in gioco nella guerra spirituale di cui stiamo parlando.
Come John Lilly e Timothy Leary, ma senza avere nulla a che vedere con Lilly e Leary se non per la condivisione, militante per i primi e di studio accademico per il secondo, della tradizione estatica e sciamanica, anche Culianu era giunto alla deduzione dell’esistenza di una sorta di supercomputer memetico di cui la storia degli uomini era il riflesso che si svolge sulla superficie del tempo.
In uno dei saggi che scrisse prima di venire ucciso, “System and History”, Culianu assegna a questa specie di computer universale la proprietà dello spazio di Hilbert, cioè di uno spazio matematico il cui numero di dimensioni è infinito; perché è solo in questo modo, spiega, che il Calcolatore, fatto di sistemi di pensiero non sequenziali, può interagire in maniera sequenziale con la mente umana programmata per rielaborare di volta in volta le grandi banche di dati in esso contenuti (vedi paragrafi 2 e 3).
Il concetto ha un tale grado di complessità che Culianu stesso ha pensato di svolgerlo in maniera narrativa in alcuni suoi racconti fantascientifici. Ne “La sequenza segreta”, Culianu s’inventa la figura di un eretico dell’epoca gnostica, Giovanni di Cappadocia, le cui teorie affermano che “Le anime nascono solo per pensare e si riproducono unicamente per riprodurre il pensiero, in modo che tutto alla fine sia pensato.  Non vi è differenza tra gli esseri umani; essi non sono altro, per breve tempo, che formiche pensanti. (…) Egli affermava di aver costruito una griglia che gli permetteva di predire tutti i possibili pensieri futuri, perché il mondo non è che un pensiero fra gli altri ed è stato creato unicamente per dare agli uomini l’opportunità di pensare. Quando tutti i pensieri saranno pensati, il mondo cesserà di esistere”.
La griglia di Giovanni di Cappadocia assomiglia alle ruote della memoria di Giordano Bruno, e la memoria non è soltanto un’arte per trattenere nella mente ciò che conosciamo qui e ora, ma è anche, lo abbiamo visto, lo strumento per risalire i gironi gnostici verso l’origine celeste. Ma non è questo, per quanto importante (vedi paragrafo 12), il punto che più urgentemente va sottolineato.
Il luogo che va segnato sulla mappa è invece un altro; se la griglia di Giovanni di Cappadocia è uno dei modi scelti da Culianu per tradurre narrativamente la sua idea del supercomputer hilbertiano, allora questo supercomputer dovremmo riconoscerlo già: è spietato e indifferente come la Macchina di Forster e è potente come le conseguenze algoritmiche del capitalismo della sorveglianza: gli uomini sono formiche pensanti, ciò che pensano è già previsto dalla griglia e, quando tutti i pensieri saranno pensati, il mondo cesserà di esistere per sempre.
Ma non è tutto. Perché seguendo la vocazione dualistica dello gnosticismo, e raccontando alcuni momenti della rivoluzione psichedelica, ormai ci siamo accorti di un movimento che la mappa ci ha fatto percorrere insistentemente: esiste sempre un doppio di segno opposto e di identica origine che si contrappone a ciascuna posizione. L’Utopia informatica di Brand e la distopia algoritmica dei grandi capitalisti contemporanei della Silicon Valley; il lavaggio del cervello del mago della chiusura e la liberazione mistica del mago dell’apertura attraverso l’utilizzo dei circuiti cerebrali; la creazione dei cieli mistici da parte di un Creatore ineffabile e la loro parodia invertita a opera del Demiurgo. La psichedelia insegna a attraversare lo specchio; e, di qua e di là dello stesso specchio, troviamo due mondi simili e opposti si affrontano in una guerra spirituale: le forze della chiusura contro le forze dell’apertura.
Non è quindi semplicemente una curiosa coincidenza intellettuale, il fatto che, seguendo questa logica manichea, la mappa ci chieda ora di spostarci, subito dopo averci fatto sostare dalle parti della griglia computeristica di Culianu, dal lato opposto, verso il culto che una parte importante della controcultura psichedelica tributava a un libro uscito nel 1939 che, secondo l’autore, avrebbe dato da lavoro ai critici per almeno un centinaio di anni: il Finnegans Wake di James Joyce.
Passando dall’altra parte, se la mappa non ha mentito, dovremmo già sapere che cosa aspettarci: il Finnegans Wake dovrebbe essere il doppio speculare e contrario della griglia di Giovanni di Cappadocia; dovrebbe cioè essere una macchina per pensare e per pensare sempre nuovi pensieri in grado di emancipare l’uomo dalla condizione di prevedibilità assoluta cui invece la Macchina nera lo condanna.
Tra i protagonisti o gli autori più letti dalla controcultura degli anni Sessanta, Marshall McLuhan sosteneva che Finnegans Wake fosse più forte dell’Lsd, Terence McKenna lo leggeva come un oracolo, lo psicoanalista libertario Norman O. Brown lo considerava come un tesoro trovato alla fine del suo processo di radicalizzazione del pensiero di Freud e Robert Anton Wilson, che lo lesse e ne scrisse con un acume pari ai grandi studiosi joyciani, amava ripetere all’amico Timothy Leary un passo che sembrava annunciarne la venuta, per via della comparsa del nome stesso di Leary trasfigurato in un grande Re dotato di una ardente testa di erba (marijuana) piena di colori psichedelici: “High Thats Hight Uberking Leary his fiery grassbelonghead all show colour of sorrelwood herbgreen”.
Philip K. Dick, il nume tutelare occulto dello gnosticismo acido che qui stiamo provando a concettualizzare, mette a segno un ulteriore punto. Concependo un’idea simile a quella di Culianu, e visitando le stesse regioni interiori di Lilly, Dick scrisse: “Finnegans Wake è un insieme di informazioni basate su sistemi di memoria computerizzata che sono apparsi solo secoli dopo l’epoca di Joyce; che Joyce era collegato a una coscienza cosmica da cui ha tratto ispirazione per l’intero corpus della sua opera”.
Finnegans Wake racconta nel modo più complicato possibile una storia molto semplice: il sonno e i sogni di una notte del protagonista, il gestore di una rivendita di alcolici della periferia di Dublino, H.C. Earwicker. Il nome, Earwicker, è importante: indica l’appellativo con cui viene chiamato l’insetto forbicina che, secondo varie leggende, s’inocula dentro le orecchie di chi dorme. Il lettore del Finnegans Wake è così sempre in movimento, il suo cervello è perennemente trasformato, percorso dallo zigzag della forbicina elettrica che collega le sinapsi per costringerla a associazioni impensate. La forbicina è come l’Lsd, un riprogrammatore cerebrale che fa saltare in aria ogni schema fisso, a partire dal libro stesso.
Del libro, infatti, ancora oggi non esiste critico capace di dirci esattamente che cosa succeda perché, ogni volta che lo si apre, sembra mutarsi il contenuto. Era il 1939, ma troviamo per esempio la parola email: “Speak to us of Emailia”, la parola Google: “One chap googling the holyboy’s thingabib”, le scarpe della Nike: “Nike with your kickshoes” e addirittura il nome del campione di golf Tiger Woods: “tigerwood”; allo stesso modo, a metà esatta del libro, in sole tre righe, incappiamo nella giustapposizione tra la parola “fungo” e la parola “Nogeysokey”, cioè Nagasaki.
Gli esempi sono infiniti, e non lo scriviamo retoricamente per dire semplicemente che sono tanti. Gli esempi sono tecnicamente infiniti perché Finnegans Wake è un libro la cui fine coincide con l’inizio e la cui composizione, non a chiave enigmistica, ma secondo un libero gioco di analogie, muta continuamente nel tempo e nello spazio, a seconda di chi lo legge, dell’epoca in cui lo si legge e delle condizioni di set e di setting in cui viene letto.
Finnegans Wake è un meraviglioso bambino difficile che porta a pensare l’impensabile: come l’Lsd, accende il cervello connettendo neuroni tra di loro non comunicanti; come l’internet libertaria e aperta di Brand, mette in comunicazione persone, concetti e idee che altrimenti non si sarebbero mai incontrati per creare nuove comunità possibili. Per dire: a un certo punto, Joyce nomina il profeta Maometto e scrive il suo nome così: Moyhammlet; inserisce, all’inizio, il Moi francese dell’Io cartesiano, alla fine Amleto e, in mezzo, Ham, prosciutto, ma anche Cam, uno dei figli di Noè. Si ride subito per il maiale inoculato nel corpo semantico di Maometto e nello stesso tempo si concepisce un impensabile: quale rapporto si è instaurato tra due grandi eroi del dubbio come Cartesio e Amleto con il fondatore della religione della certezza e della sottomissione assoluta? e di tutti loro con Cam, maledetto perché ha visto suo padre nudo? che cosa c’entra tutto questo?
Connessione, analogia, emozioni forti, irriconoscibilità, libertà, nuove comunità. Sembra la descrizione della Silicon Valley degli anni ‘60. Sembrano le caratteristiche politiche che il realismo capitalista descritto da Fisher ha provato a combattere e a eliminare una volta per tutte. Sono la speranza contro la fine della Storia. Sono i distintivi delle forze dell’apertura.
La mappa, insomma, ci ha portato dinanzi a un altro super computer, ma radicalmente opposto a tutti gli altri computer incontrati sinora, dalla Macchina di Forster al sistema totalitario dell’algoritmo fino alla griglia di Giovanni di Cappadocia.
È evidente che nessun lettore di Finnegans Wake legge lo stesso libro. Eppure il libro è lì, democraticamente uguale per tutti, a disposizione di tutti, ma imprevedibile come qualche goccia di Lsd.

12

Mentre stiamo leggendo questo libro, il libro che abbiamo in mano, una corrente ascensionale di dati che riguarda intimamente ciascuno di noi sta nutrendo senza sosta la Macchina algoritmica. E’ un flusso che non si può arrestare, è la merce più preziosa, è – come dice con inconsapevole compiacimento chi traffica in queste cose – il nuovo petrolio. Il Demiurgo, ora, proprio ora, sta giocando al gatto e al topo con te, con le mie idee, la tua identità, le nostre speranze e paure. Ci vuole prevedibili e, se ogni tanto sembra che ti lasci un po’ di libertà, credimi, lo fa solo per non annoiarsi: il gioco cosmico alla lunga stanca e, dopotutto, l’apocalisse è una exit strategy piuttosto spettacolare.
Nello stesso tempo, sta accadendo ogni giorno uno strano fenomeno elettrico: qualcosa sta piovendo sui tuoi schermi e si riflette nei tuoi pensieri e nei nostri sentimenti. È la corrente discensionale dei dati che proviene dalla Macchina algoritmica. Una neve cade lieve su tutto l’universo e senti di assomigliarti sempre di più, circondato da una tribù che costantemente si restringe, fino a quando anche quest’ultima sparirà, lasciandoti in una solitudine perfettamente profilata.
Corrente ascendente e corrente discendente. E non andrà avanti così per sempre; la prima corrente, presto o tardi, s’interromperà; quando? Non lo sappiamo, il momento lo deciderà il gatto meccanico: ce ne accorgeremo perché perderà interesse per noi e ci considererà un trofeo ormai inerte.
Niente di nuovo. È lo scenario con cui abbiamo iniziato a percorrere questa strana mappa che si sovrappone alla contemporaneità. È uno scenario di guerra. Ma è anche uno scenario dell’immaginazione.
Torniamo a guardare quel flusso di dati in ascesa e in discesa e ricordiamoci di che cosa è fatto. Si tratta di numeri che traducono soprattutto parole, suoni, emozioni; sono immagini, fantasmi. E siamo sempre lì, all’immaginazione.
Nel suo libro più famoso, Eros e magia nel Rinascimento, Culianu legge un trattato di Giordano Bruno dedicato alla magia, il De vinculis in genere, e mostra come il mago sia innanzitutto un operatore di immagini. È attraverso le immagini infatti che riesce a controllare e a dirigere i propri sortilegi, impossessandosi dei pensieri e dei sentimenti di chi vuole legare alle proprie intenzioni. L’importante, per Giordano Bruno, è ricordarsi che la magia è dappertutto, come se fosse una sostanza filamentosa simile allo pneuma che nel Rinascimento accomuna ogni essere vivente e che lo collega all’universo; è una ragnatela, un’internet capace di connettere cose e persone.
Giordano Bruno mostra come si possano manipolare individui e masse facendo leva sulle loro emozioni e i loro desideri, tenendo in debito conto la personalità e le aspettative dei soggetti a cui il vincolo si dirige. Ancora una volta, profilazione e propaganda; un sistema che si attua con l’uso di suoni, immagini e parole che, suscitando deliberatamente nella mente della vittima, similitudini e dissimilitudini, cioè simpatia e antipatia, riesce a influenzare i recessi profondi dello spirito dell’individuo.
Un vincolo magico lega così Giordano Bruno allo scandalo di Cambridge Analytica. Perché anche in questo caso gli elettori sono stati profilati e, man mano che l’algoritmo è stato messo nelle condizioni di conoscere sempre meglio le proprie vittime, rilasciava una corrente discensionale di immagini capaci di suscitare in loro gioia e tristezza, desiderio e avversione, amicizia e odio, fino al punto di conquistarle alla causa per la quale Cambridge Analytica era stata pagata. E’ un tipo di magia che lo stesso Culianu non esita a paragonare ai moderni strumenti pubblicitari, propagandistici e politici. E siamo sempre al gatto e al topo.
Tutto questo, lo abbiamo visto, è un’oscura parodia di un mondo simmetrico in cui valgono le stesse regole: immaginazione, connessione, potenza. Solo che, in questo caso, queste regole sono cariche in un senso inverso. E sono aperte.
È una guerra di fantasmi. È una guerra di immagini. E per combatterla bisogna trasformarsi in soldati gnostici armati di un immaginario imprevedibile, irriconoscibile e perennemente acceso; simile a quell’ardore di cui andava in cerca, attraverso il culto del Soma, la civiltà vedica.
Joyce diceva che Finnegans Wake parlava la lingua del futuro.  E Finnegans Wake ci ha insegnato a usare l’immaginazione per scatenare e trasformare in atto le possibilità racchiuse in potenza dal linguaggio ordinario. In un certo senso, parliamo della stessa potenza che Mark Fisher cercava di risvegliare nelle possibilità ancora inespresse dalla cultura psichedelica. Ci siamo capiti.
Il soldato gnostico custodisce, nella sua memoria, il ricordo di uova che devono ancora schiudere i propri serpenti. Per farlo, sa che deve riconnettersi al computer universale.
Lo poteva dire un personaggio di Joyce, lo poteva affermare ugualmente un mistico mediorientale del terzo secolo dopo Cristo; alla fine lo ha detto Timothy Leary. Prima della battaglia: Turn on, Tune in, Drop out.


Bibliografia essenziale

Roberto Calasso, “L’ardore”, Adelphi 2010.
Elias Canetti, “Massa e potere”, Adelphi 1981, trad. di Furio Jesi.
Ioan P. Couliano, “I miti dei dualismi occidentali”, Jaca Book 1987, trad. di Dario Cosi e Luigi Saibene.
Ioan Petru Culianu, “Eros e magia nel Rinascimento”, Bollati Boringhieri 2006, trad. di Gabriella Ernesti.
Ioan Petru Culianu, “Il rotolo diafano”, Elliot edizioni 2010, trad. di Roberta Moretti.
Erik Davies, “Techgnosis”, Ipermedium libri 2001, trad. di Marcello Buonomo.
Philip K. Dick, “La trilogia di Valis”, Fannucci editore 2010, trad. di Vittorio Curtoni.
Umberto Eco, “Un delitto troppo perfetto”, La Repubblica, 30 aprile 1997
Mark Fisher, “Il nostro desiderio è senza nome”, Minumum fax 2020, trad. di Vincenzo Perna.
Mark Fisher, “Realismo capitalista”, Produzioni nero edizioni 2018, trad. di Valerio Mattioli.
Edward Morgan Forster, “La macchina si ferma”, Portaparole edizioni 2012, trad. di Maria Valentini.
Aldous Huxley, “Moksha”, Oscar Mondadori 2018, trad. di Mariagiulia Castagnone.
Hans Jonas, “Lo gnosticismo”, Sei edizioni 1991, trad di Raffaele Farina.
James Joyce, “Finnegans Wake”, Oscar Mondadori 2019, trad. di Luigi Schenoni, Enrico Terrinoni, Fabio Pedone.
Alexandre Kojève, “Introduzione alla lettura di Hegel”, Adelphi 1996, trad. di Gian franco Frigo.
John C. Lilly, “Il centro del ciclone”, Crisalide edizioni 1997, trad. di Angela Leonetti.
Timothy Leary, “Neuropolitica”, Castelvecchi 2005, trad. di Fabio Rossi.
John Markoff, “What the Dormouse Said”, Penguin Books 2005.
Roberta Moretti, “Il sacro, la conoscenza e la morte. Le molte latitudini di Ioan Petru Culianu”, edizioni il Cerchio 2019.
Michael Pollan, “Come cambiare la tua mente”, Adelphi 2019, trad. di Isabella C. Blum.
Henri-Charles Puech, “Sulle tracce della Gnosi”, Adelphi 1985, trad. di Francesco Zambon.
Robert Anton Wilson, “Coincidance”, Falcon Press 1991.
Robert Anton Wilson, “Sex, Drugs & Magick”, Castelvecchi 2005, trad. di Elisa Manisco.
Elémire Zolla, “Filosofia perenne e mente naturale”, Marsilio edizioni 2013.
Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss University Press 2019, trad. di Paolo Bassotti.

Saggio tratto da: AA. VV., La scommessa psichedelica, a cura di Federico Di Vita (Quodlibet, 2020)

Ipotesi per una bambina cyborg

1

di Lella de Marchi

non può nascere nulla dal nulla
Lucrezio

Linda, ciò che voglio dirti
è che le donne nascono due volte
Anne Sexton

VERGINE MARIA

la tua attesa, Maria, non è dolce è un giorno che non esiste
che precede ogni tua possibile vitale inguinale scossa
molto prima che gli arti in simbiotica tensione si flettano
e distendano nell’arco sonoro dell’umana appartenenza.
la tua attesa, Maria, è un feto che non nasce. si ciba
del tuo buio e buca il mondo con lo sguardo che non c’era
si attorciglia tutto intorno ad un qualcosa senza mai
trovarsi tutto. tutto dentro a quel qualcosa.
la tua attesa, Maria, è l’attesa. un respiro sconosciuto
il vuoto che ti porti dentro che non sarà colmato.
con il colore bianco hai dipinto nudo tutto il tuo corpo.
hai dato al mondo la forma in forma di ipotesi spinta
di ricerca inesausta di preghiera inaudita. oltre la norma.

 

DRAG QUEEN

viviamo di sacro di profano di presenza di assenza
di luce di buio. è nella congiunzione degli opposti la bellezza
che cerchiamo. vorremmo darle un nome e una voce
liberarla da ogni impostura donarle la sua vera natura.
ciò che si nega si afferma ripetutamente mentre
si supera si ripiega desidera abbandonarsi.
quel che mi sposta in qualche luogo mi calamita.
ogni mondo è perfetto uno specchio l’immagine stessa
di dio ma ha vergogna di se stesso. preferisce
pensarsi invivibile sposarsi a una formula.
il mondo è una dolce drag queen che si trucca
ogni giorno dietro a un sipario e canta ogni giorno
da dietro il sipario una strana canzone d’amore.

 

*

 

(IPOTESI PER UN) AUTORITRATTO

 

I
c’è sempre quest’ape che ronza beata che batte
in testa e sulla tastiera. più si avvicina più mi avvicina
ad ogni innata deviata divinità
ad ogni innata deviata felicità.
non guardarmi. nello specchio c’è il nome che porto.
è così bello pensarsi nude fare come
i lombrichi diventare dei fuchi. sull’erba verde
cantare canzoni sovrapporci senza illazioni essere
i mostri che amiamo. inventarci per come siamo.
credimi, bambina mia.
una chiave ci attende oltre ai confini. sopra innumerevoli
piani ogni giorno piove qualcosa. dal cielo piove
ogni giorno. piove l’acqua per i miei fagiolini.

 

II
le nostre apprensioni educano i nostri timori suggeriscono.
ma le nostre ossessioni s’incarnano.
non so dove sei. ti scrivo una lettera che forse non leggerai.
l’amore è una cura che non si cura è un corpo
mai detto soltanto due righe in più. oltre la battitura.
qualcosa si aggiunge a ciò che è dato in partenza
e la sete divampa anche dopo avere bevuto.
le nostre ossessioni s’incarnano nelle parole sono
parole sante e miracolose. ma sono come le uova
dobbiamo maneggiarle con cura.
ti scrivo una lettera che forse non leggerai l’ho scritta
da un posto che non conosco. forse l’ho scritta per me.
non guardarmi. nello specchio c’è il nome che porto.

 

III
capita sempre all’improvviso inaspettatamente.
forse una sola volta nella vita.
mentre ci parliamo capiamo che non ci parliamo.
tu parli il tuo linguaggio il tuo sistema di segni ricevuti
e da ritrasmettere. lo percorri ogni volta dall’inizio
alla fine. ed io parlo e percorro il mio.
tu senti le tue cicatrici ed io sento le mie.
tu cerchi la tua favola ed io cerco la mia.
eppure restiamo vicine come affiancate respiriamo
due arie diverse ma uguali non ci importa quali.
siamo la doppia immagine che può vedersi da sola.
l’amore non si cura della forma l’amore sa che la forma
non è che un antidoto alla paura.

 

IV
camminavo lungo il fiume e parlavo alle stelle. un pesce da dentro
l’acqua mi guardò e mi disse: l’amore resta e resterà. l’amore non si cura
della forma l’amore sa che la forma non è che un antidoto alla paura.

 

***

 

Questi testi di Lella de Marchi sono tratti da Ipotesi per una bambina cyborg, Transeuropa 2020. Poeta, autrice e performer, laureata in Lettere Moderne a Bologna, diplomata al CET di Mogol come autrice di testi per canzoni, Lella de Marchi ha pubblicato tre libri di poesia, “La spugna” (Raffaelli, 2010), “Stati d’amnesia” (Lietocolle, 2013), “Paesaggio con ossa” (Arcipelago Itaca, 2017), e un libro di racconti brevi “Tutte le cose sono uno” (Prospettiva, 2015).

Due poesie di Anne Sexton

0

di Anne Sexton

traduzione di Viola Di Grado

 

ELIZABETH, SPARITA*

1.

Stai nel tuo nido di morte vera,
oltre lo stampo delle mie dita nervose
che ti sfioravano la testa smaniosa;
la vecchia pelle corrugata, il fiato dei polmoni
bambina cresciuta rimpicciolita che guardava in alto
alla mia faccia dondolante sul letto umano.
E da qualche parte hai pianto, lasciami andare lasciami andare.

Stai nella cassa della tua ultima morte,
ma non eri tu, non eri tu alla fine.
Le hanno imbottito il petto, ho detto;
questa mano di argilla, questa maschera di Elizabeth
non sono vere. Da dentro il raso
e il camoscio di questo letto inumano,
qualcosa ha urlato, lasciami andare lasciami andare.

2.

Mi hanno dato le tue ceneri e le conchiglie d’ossa,
sferraglianti come caraffe nell’urna di cartone,
sferraglianti come pietre benedette dal forno.
Ti aspettavo nella cattedrale dei sortilegi
e ti aspettavo nel paese dei vivi,
ancora con l’urna canticchiata al petto,
poi qualcuno ha urlato, lasciami andare lasciami andare.

Così ho gettato le tue ultime conchiglie d’ossa
e mi sono sentita piangere per il tuo sguardo,
il tuo volto di mela, il presepio semplice
delle braccia, l’aroma di agosto
della pelle. Poi ho ordinato i tuoi abiti
e gli avanzi dei tuoi amori, Elizabeth,
Elizabeth, finchè sei sparita.

 

VOLER MORIRE

Visto che lo chiedi, sappi che di solito non ricordo.
Cammino, vestita, illesa dal viaggio.
Poi il quasi indicibile estro ritorna.

Persino allora non ho niente contro la vita.
Conosco bene i fili d’erba di cui parli,
I mobili che hai esposto al sole.

Ma i suicidi hanno una lingua speciale.
Come falegnami, vogliono sapere gli arnesi.
Non chiedono mai perché costruire.

Due volte mi sono dichiarata, con tale semplicità,
ho posseduto il nemico, ingoiato il nemico,
Gli ho sottratto l’ingegno e la magia.

Così, pesante e pensosa,
più calda dell’olio o dell’acqua,
ho riposato, salivando dalla bocca.

Non pensavo al mio corpo al punto croce.
Persino la cornea e l’urina avanzata, sparite.
I suicidi hanno già tradito il corpo.

Nati morti, non muoiono sempre,
ma ammaliati, non dimenticano una droga così dolce
che farebbe sorridere i bambini.

Ficcare tutta quella vita sotto la lingua! –
Quello è già passione.
La morte è un osso triste, ammaccato, diresti

eppure mi aspetta, anno dopo anno
per annientare dolcemente una vecchia ferita,
Per svuotare il mio fiato dalla sua meschina prigione.

Là, in equilibrio, i suicidi a volte si incontrano,
Accaniti su un frutto, su una luna gonfiata,
abbandonando il pane che scambiarono per un bacio,

Lasciando il libro sbadatamente aperto,
Una frase non detta, il telefono sganciato
e l’amore, qualunque cosa fosse, un’infezione.

***

ELIZABETH GONE

1.

You lay in the nest of your real death,
Beyond the print of my nervous fingers
Where they touched your moving head;
Your old skin puckering, your lungs’ breath
Grown baby short as you looked up last
At my face swinging over the human bed,
And somewhere you cried, let me go let me go.

You lay in the crate of your last death,
But were not you, not finally you.
They have stuffed her cheeks, I said;
This clay hand, this mask of Elizabeth
Are not true. From within the satin
And the suede of this inhuman bed,
Something cried, let me go let me go.

2.

They gave me your ash and bony shells,
Rattling like gourds in the cardboard urn,
Rattling like stones that their oven had blest.
I waited you in the cathedral of spells
And I waited you in the country of the living,
Still with the urn crooned to my breast,
When something cried, let me go let me go.

So I threw out your last bony shells
And heard me scream for the look of you,
Your apple face, the simple creche
Of your arms, the August smells
Of your skin. Then I sorted your clothes
And the loves you had left, Elizabeth,
Elizabeth, until you were gone.

 

WAITING TO DIE

Since you ask, most days I cannot remember.
I walk in my clothing, unmarked by that voyage.
Then the almost unnameable lust returns.

Even then I have nothing against life.
I know well the grass blades you mention,
the furniture you have placed under the sun.

But suicides have a special language.
Like carpenters they want to know which tools.
They never ask why build.

Twice I have so simply declared myself,
have possessed the enemy, eaten the enemy,
have taken on his craft, his magic.

In this way, heavy and thoughtful,
warmer than oil or water,
I have rested, drooling at the mouth-hole.

I did not think of my body at needle point.
Even the cornea and the leftover urine were gone.
Suicides have already betrayed the body.

Still-born, they don’t always die,
but dazzled, they can’t forget a drug so sweet
that even children would look on and smile.

To thrust all that life under your tongue!-
that, all by itself, becomes a passion.
Death’s a sad Bone; bruised, you’d say,

and yet she waits for me, year after year,
to so delicately undo an old wound,
to empty my breath from its bad prison.

Balanced there, suicides sometimes meet,
raging at the fruit, a pumped-up moon,
leaving the bread they mistook for a kiss,

leaving the page of the book carelessly open,
something unsaid, the phone off the hook
and the love, whatever it was, an infection.

 

* Elizabeth gone è inedita in italiano.