«Un tempo c’era una distinzione, una capacità critica che oggi è sparita. Quando apro i giornali nazionali, vedo le pubblicità della Feltrinelli e il consiglio “leggete questo libro” è firmato da un comico o addirittura da un lettore; quando compro un libro di poesia e la prefazione è scritta da un conduttore televisivo, vuol dire che la bussola è impazzita. Non esistono più punti di riferimento». Nell’era dei social media, della fine degli esperti e dell’uno vale uno, la critica letteraria non fa eccezione. «Un tempo potevi costruirti una fama di critico e il giornale ti chiamava, ora è il contrario: prendono uno qualsiasi, lo fanno scrivere di libri ed eccolo diventato critico».
A parlare è Valerio Magrelli, poeta, scrittore, professore di letteratura francese all’Università di Cassino. Lo incontriamo nel salotto della sua casa romana, a due passi da Piazza del Popolo. Argomento: la fine degli esperti in letteratura.
«Attenzione», ci tiene a precisare al riguardo, «nelle riviste, in moltissimi siti, ci stanno fior fior di ragazzi studiosi, critici, come forse non ce n’erano prima. Ma il mercato, grazie alla compiacenza di chi poteva frenarlo, ha voluto confondere tutto. Ecco perché sentiamo il cantautore che si presenta come professore universitario, quando non lo è; ecco perché sentiamo un giudizio critico espresso da un cantante, un romanzo scritto da un attore televisivo, e vediamo in classifica i libri da passatempo (sacrosanto e dignitosissimo), ma spacciati per letteratura».
Ce l’ha soprattutto con i critici di professione Magrelli?
«Piuttosto, con i non-critici. Ce ne fu uno che diventò famoso perché su un giornale nazionale pubblicò una copertina con il titolo “Giorgio Faletti, il più grande scrittore italiano”. Se scrivi su un giornale nazionale una cosa del genere, sei responsabile di migliaia di ragazzi che, fidandosi dell’autorità del quotidiano, crederanno a una sparata del genere. Non penseranno che magari possa essere un Tabucchi, un Zanzotto; no, Faletti, contro il quale io non ho nulla. È stato un bravo comico, magari avrà scritto un buon libro, ma questo titolo è come il napalm. Distrugge tutto, fa il deserto. Chi perderà più tempo a leggere Gianni Celati?»
Secondo Magrelli, è ancora necessario distinguere tra letteratura di ricerca e letteratura di consumo, o meglio, precisa, «fra letteratura di interrogazione e letteratura di intrattenimento».
«Per questo parlo di una cultura in dialisi. Questa è l’immagine che ho avuto: la dialisi è quella cura che si mette in opera quando i reni non funzionano più, non filtrano più. Ecco, per me i reni della cultura erano le pagine culturali. Quando propongo un articolo su Céline, e mi dicono che andrà nella pagina successiva perché nella prima c’è un’intervista a Ombretta Colli, vuol dire che i reni sono da buttare. Ombretta Colli che sta nella prima pagina di uno dei più importanti giornali culturali è come una bandiera bianca. Ci arrendiamo. È finita. In Italia io ho visto tutto ciò dall’inizio. Ricordo il “responsabile” (lo dico scherzando): Antonio Ghirelli. Un giornalista che scrisse del calcio come cultura. L’imbroglio era nato».
Per l’autore degli Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992) tutto dipende da cosa si intende per cultura. L’equivoco nasce da qui.
«Una cosa è la cultura in senso antropologico, lì possiamo parlare del seppellimento dei morti, delle feci o del modo di cucinare (è cultura in senso lato); altro è parlare di cultura in senso stretto. Lo scambio tra queste due sfere ha fatto sì che adesso i rettori diano la laurea honoris causa a sarti, cuochi e motociclisti. Mi spiace, su questo non transigo. Detesto la celebrazione dell’ordinario. Tu non puoi fare un corso sulla Storia della televisione e metterlo sullo stesso piano di un corso sulla Storia dell’Illuminismo».
Per Magrelli il discusso Nobel per la letteratura a Bob Dylan è l’esempio paradigmatico di questo cortocircuito.
«Non c’è niente da fare, non è dietrologia, io vedo da vent’anni in qua, un sistematico attacco portato contro la scuola pubblica e contro il concetto di cultura come pensiero critico. Adesso l’alternanza scuola-lavoro è il colpo di grazia. Certo, esiste ancora chi legge i classici. Io vedo dei ragazzi preparatissimi, per fortuna. Ma questi sforzi sono offuscati dalla glorificazione dell’esistente. Ricordo, ebbi una lite violenta perché a una seduta di laurea uno studente aveva portato una tesi triennale su Amleto e un altro sulle parole di De André. Al momento della valutazione, volevano dare il massimo a tutt’e due. Io dissi: “Passerete sul mio corpo: non sia mai che un testo di tale complessità venga messo sullo stesso piano delle parole (si badi: non “parole e musica”) di De André”».
Secondo il poeta non è questione di alto o basso, ma di coefficiente di difficoltà.
«Come nei tuffi: tu mi fai un tuffo a bomba impeccabile, l’altro mi fa un triplo carpiato. Ecco, le parole di De André (attenzione, ripeto, non parlo della musica) sono un tuffo a bomba. È fatto bene, certo, ma ammetterete che comunque ci voleva meno che scrivere l’Amleto. O no? Andando via, domandai: “Alla magistrale, tesi sui Fratelli Righeira?” (che peraltro hanno scritto canzoni di rara intelligenza, vedi L’estate sta finendo)».
E se dovesse essere Valerio Magrelli a consigliare ai lettori degli autori italiani contemporanei di qualità, chi sceglierebbe?
«Nella narrativa, che in realtà seguo poco, ho letto recentemente uno dei primi romanzi di Michele Mari. Ho visto degli spettacoli teatrali di Vitaliano Trevisan, molto belli. Mi piacciono Michela Murgia o Mauro Covacich. Ma è difficilissimo immaginare quello che può interessare al pubblico. Per me è una sfida impossibile, mi sono arreso. Nel 2010 scrissi Addio al calcio, in cui credevo molto: andò malissimo. Mi dissi: a questo punto scrivo un libro che potremo leggere solo io e mia sorella, e scelgo pure un titolo insolito, Geologia di un padre; me ne frego di tutto. Inutile dire che è il mio volume andato meglio. Anche con i miei figli era lo stesso: quando erano piccoli mi divertivo a consigliare loro dei libri e li sbagliavo tutti. Indovinare è impossibile. Una volta, ad esempio, mia figlia liceale prende dalla mia scrivania Finzioni di Borges, un testo difficilissimo. Tempo dopo mi dice: “Era questo che mi dovevi far leggere, non gli altri”. Oppure mio figlio con Lolita di Nabokov. Mi disse: “Ma perché mi hai consigliato tante stupidaggini al posto di questo?”».
[Una prima versione di questa intervista è uscita originariamente su Pagina99]
La Francia, in altri tempi, era il nome di un paese; attenzione che non diventi, nel 1961, il nome di una nevrosi.
Jean-Paul Sartre, prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon.
I. Piacere (principio di) – Agosto 2017
Mi piacerebbe poter dire che la mia nevrosi sia iniziata con la morte di mio padre, come quella di Giuseppe Berto; ma in verità è cominciata quando mi sono trasferito a Hong Kong, cioè quando è venuto meno il principio di realtà. Morte del principio di realtà che era sempre una morte del padre, ma non quella vera che tutti prima o poi proviamo, ma quella anelata dal me bambino, che sognava un mondo impossibile in cui niente potesse mettere limiti al piacere.
E’ difficile descrivere la vertigine di arrivare a Hong Kong per la prima volta a chi non l’ha provata. Zhang Ailing l’ha fatto così: in una città fatta di tali iperboli, perfino una caviglia lussata avrebbe fatto più male che in altri posti. Era un’altra Hong Kong, certo, quella del 1940, un anno prima che cadessero le bombe giapponesi. Ma la città era allora come oggi un luogo straordinario, al centro dei traffici tra Cina e Occidente.
Natura a Hong Kong (Sai Kung)
Hong Kong stessa sembrava partecipare a quel senso di licenziosità che provavo. Mi bastava uscire appena dal centro per incontrare una natura opulenta che non avevo mai visto: le foglie verde smeraldo, le spiagge tropicali, il mare blu. Tornando, trovavo ad attendermi l’altrettanto ostentata ricchezza della città, con le sue centinaia di boutique di lusso nei centri commerciali e nelle vetrine del centro. Uccelli dai colori sgargianti sfrecciavano nei parchi e tra i grattacieli. La durata interminabile della bella stagione mi aveva liberato dalla tirannide del tempo, e dalla paura di sprecarlo.
Insomma il principio di realtà, cioè il padre, si era dissolto come in una fantasia infantile. A 9000 Km da quella che era stata la realtà, le conseguenze apparivano un problema del passato. Del flusso impressionante dei capitali che dai paesi sviluppati fluiscono verso le aziende cinesi quotate a Hong Kong, 35 miliardi di dollari solo nell’ultimo anno, le briciole che iniziavano a cadere nelle mie tasche erano sufficienti per permettermi tutto quello che desideravo. Tutto sembrava possibile.
Non avevo ritenuto importante informarmi nel dettaglio sul sistema politico di Hong Kong quando avevo deciso di trasferirmi: altri aspetti come la tassazione minima, la facilità di trovare cibo occidentale e la qualità delle discoteche erano stati in cima ai miei pensieri.
Solo dopo alcuni mesi che mi trovavo qui ho iniziato a capirci qualcosa: dopo la restituzione di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese, avvenuta nel 1997, Hong Kong si è dotata di una Basic Law che funge da costituzione, pur non chiamandosi tale. L’interpretazione di questa “mini-costituzione”, in ogni caso, spetta al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, un organo della Cina continentale.
Uno dei fattori che ha permesso l’afflusso di capitali a Hong Kong è la presenza del sistema di Common Law ereditato dalla dominazione coloniale inglese, a cui si aggiunge un potere giudiziario indipendente; ma che, come si è detto, è obbligato a rimettersi a Pechino per l’interpretazione ultima delle leggi.
Il potere legislativo è svolto dal Parlamento, i cui componenti sono per metà eletti direttamente dai residenti e per l’altra metà nominati da delle Functional Consituencies, che dovrebbro rappresentare i vari settori dell’economia della città e sono per lo più sotto il controllo di Pechino. Alle ultime elezioni legislative, quelle del 2016, i partiti di opposizione hanno conseguito la maggioranza del voto popolare, ma risultano in minoranza in parlamento a causa delle Functional Constituencies e della squalifica di diversi parlamentari, accusati di non aver prestato correttamente il giuramento di fedeltà al governo centrale cinese.
Il Capo dell’Esecutivo è una figura ispirata al modello dei paesi democratici, ma è nominata da un concilio ristretto di 1200 persone (di fatto, è scelta da Pechino). Il trattato tra Cina e Regno Unito sulla cessione di Hong Kong prevede un progressivo allargamento della base elettorale fino ad arrivare al suffragio universale, accordo che la Cina non sembra avere intenzione di rispettare e che ha costituito la miccia per le proteste infruttuose di Occupy Central nel 2014.
Manifesto di propaganda appeso a Wan Chai
Il sistema prevede dunque la separazione dei poteri, in maniera non dissimile a quello delle democrazie liberali a cui è ispirato; già allora notavo, però, una certa contraddizione logica tra la separazione dei poteri delle istituzioni di Hong Kong e la nozione che la sovranità ultima del territorio spettasse alla Repubblica Popolare Cinese, dove la separazione dei poteri certo non esiste.
Era interessante anche osservare le frizioni di un sistema politico ispirato alle democrazie, ma in cui l’unica elezione davvero democratica che si svolge è quella per il ramo più basso del potere amministrativo, cioè per i District Councilors, quasi privi di poteri reali.
Di fronte a tante contraddizioni nella sfera pubblica e nella mia sfera privata ho sentito il bisogno di avere un punto fermo nella mia vita: è per questo che dopo qualche mese a Hong Kong ho iniziato una relazione con Amy. E’ chiaro, non ho smesso di vedere altre donne: solo, ho iniziato a farlo di nascosto, e con ancora più attenzione a che sparissero poco dopo avermi dato quello che volevo. Ho scoperto così di poter rimuovere dalla mia coscienza i fugaci incontri con altre donne, e dissociare la personalità del libertino da quella del fidanzato devoto.
Nulla è reale, tutto è permesso, frase che piaceva a Nietzsche. Si dice che sia stata pronunciata sul letto di morte dal Vecchio della montagna (ancora il padre?), il capo della setta degli Assassini. Ed è qui che la morte fa capolino per la prima volta nella mia storia.
II. Morte (e rimozione) – Settembre 2019
Il pensiero della morte rappresenta l’esempio per eccellenza di quella che gli psicoanalisti chiamano rimozione; se credessimo davvero alla nostra mortalità non sprecheremmo di certo il nostro tempo cazzeggiando al cellulare – così ho scherzato con Amy.
Difficile credere alla morte di fronte al cielo azzurro di maggio, durante una gita in barca vicino Sai Kung. Getterei via l’amore di una donna in questa maniera, se credessi alla morte? Accetterei di vivere così, nella dissociazione?
O è l’unico modo in cui si può vivere?
Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre e solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso. […] l’esteta non possiede liberamente il suo spirito, manca di limpidezza.
Chi vive esteticamente infatti cerca per quanto possibile di perdersi nello stato d’animo, cerca di avvolgersi completamente in esso, finché in lui non rimanga nulla che non ne possa venir assorbito, perché un simile residuo ha sempre un effetto perturbatore, che distoglie dal godimento. […] Chi vive eticamente ha […] memoria per la sua vita, chi invece vive esteticamente non l’ha affatto.
Mi sono segnato queste frasi di Kierkegaard, medico attento nella diagnosi del mio male. Ma quale sarebbe la cura? La scelta etica, che passa per la disperazione, appare poco allettante: sospetto che a conti fatti sia solo un modo di venire a patti con l’aver sublimato tutti i propri desideri in delle blande, monotone, piccole soddisfazioni. La scelta religiosa – men che meno, un secolo dopo la morte di Dio. Forse è per sfuggire a questa libertà di scelta che alcuni si rifugiano tra le braccia di governi autoritari come quello cinese.
La morte di mio padre – quella vera, infine – che è avvenuta qualche mese dopo al mio arrivo, ha sferrato il colpo definitivo ai concetti di realtà, temporalità, conseguenza. Innanzitutto mio padre continua a esistere, pur essendo senza dubbio morto: si palesa nei sogni, nelle foto dimenticate, nella lunghissima cronologia dei messaggi. Ancora mi appunto le cose da dirgli la prossima volta che lo vedrò; se dovesse apparirmi davanti in questo momento, giuro, non avrei il minimo moto di sorpresa.
Questa tragica circostanza, inoltre, ha fornito una scusa provvidenziale alla mia dissociazione: non è più un difetto nella mia tempra morale che mi porta a disperdere la mia personalità in mille rivoli contraddittori (e tradire crudelmente la persona che professo di amare), ma è il trauma del lutto; che io veda la realtà come un insieme di istanti non consequenziali, spettrali partite di videogames da cui entrare e uscire in qualsiasi momento, non è da attribuirsi alla nevrosi, ma al dolore. Poco importa che abbia iniziato a comportarmi in questo modo ben prima della morte di mio padre: cause e conseguenze sono concetti che ho rigettato da tempo; la realtà oggettiva è ormai del tutto degradata.
Il 4 giugno 2019 Amy e io siamo andati alla commemorazione annuale del massacro di Tienanmen. Una donna ha pronunciato un discorso appassionato dal palco che ha strappato gli applausi di centinaia di migliaia di persone, scagliandosi contro il progetto del governo di rendere legale l’estradizione di Hong Kong verso il resto della Cina.
Ecco un’altra contraddizione: è assurdo che non sia prevista l’estradizione tra due regioni dello stesso stato, ma allo stesso tempo collaborare con i tribunali sommari della Cina continentale manderebbe in crisi il sistema legale liberale di Hong Kong – per aggirare le garanzie previste a tutela di un imputato basterebbe portarlo appena oltre il confine regionale, a Shenzhen.
Le prime oceaniche marce contro la legge sono state esperienze gioiose ed elettrizzanti. Mettermi in gioco per un ideale mi liberava dallo stato nevrotico e nichilista in cui ero precipitato: mi sentivo parte di una massa coraggiosa e ottimista, sentivo che si stava facendo la storia, sentivo la forza del popolo unito di fronte a cui il regime avrebbe potuto solo capitolare…
C’erano anche tensione e paura, certo, ma eravamo convinti che la vittoria finale non avrebbe potuto mancare, che l’energia di due milioni di manifestanti non avrebbe potuto essere fermata da nulla, men che meno da lacrimogeni e manganelli. A una delle prime manifestazioni ci siamo trovati dietro le barricate, protetti da degli elmetti da cantiere raccolti da terra, senza altra arma che le nostre buone intenzioni – questo rende l’idea dell’illusione e l’incoscienza di quei giorni.
La doccia fredda non ha tardato: il governo non ha ceduto un centimetro, seguendo lo stereotipo che vede un cinese disposto a tutto pur di non perdere la faccia. E’ iniziata la repressione: il momento di svolta è stato l’⇨ attacco di Yuen Long, in cui criminali armati di bastoni hanno massacrato di botte manifestanti e passanti indifesi nell’indifferenza soddisfatta della polizia (ancora oggi, solo sette dei circa cento aggressori sono stati incriminati). Erano le Triadi, la mafia locale: agguati del genere appartenevano per me solo alla storia e ai libri, a Furore di Steinbeck o a Fontamara di Silone. Nella mia ingenuità, non riuscivo a credere che un governo potesse avere la faccia tosta di organizzare un atto di ingiustizia così trasparente nel 2019, davanti alle telecamere dei media globali.
Gli scontri si moltiplicavano fino a diventare una costante, gli arresti erano sempre più comuni, oltre che più gratuiti e più violenti. Anche giornalisti e paramedici iniziavano a essere presi di mira dalla polizia. Le manifestazioni erano ormai proibite, così che solo scendere in piazza esponeva al rischio di detenzione arbitraria. Erano ancora più agghiaccianti i resoconti di torture e molestie che iniziavano a circolare, ritenuti credibili da organizzazioni non governative come Amnesty International. La foto in homepage sul South China Morning Post ritraeva un uomo in carrozzina che avevo notato fin dalle prime manifestazioni, mentre soffocava nel fumo dei lacrimogeni a cui non poteva sfuggire.
Ma nello stesso tempo il suo cuore si rallegrava dell’avventura in cui il mondo stava per incappare. Perché alla passione, come al delitto, non s’addice l’ordine stabilito e il benessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogni turbamento e flagello del mondo le torna gradito.
Così descrive Thomas Mann la reazione di Aschenbach al diffondersi del colera e dei disordini, ne La morte a Venezia (non per caso a Venezia, città per Mann esotica e sensuale; il furore dionisiaco di Aschenbach non sarebbe scoppiato a Monaco o a Vienna, e questa nevrosi non si sarebbe impossessata di me a Roma o a Londra). Così mi sono sentito io di fronte alle scene sempre più caotiche di Hong Kong in fiamme: il malato prova una cupa soddisfazione a vedere anche il mondo cadere malato.
Le contraddizioni del sistema venivano alla luce, così che nessuno potesse più ignorarle o far finta di non vederle. Ero contento di assistere al collasso di un sistema partitico dove i ruoli sono fissi, senza possibilità di alternanza al governo.
Così, la funzione che i partiti di opposizione svolgono all’interno del sistema è quella di sparring partner: ora capro espiatorio da additare all’opinione pubblica della Cina continentale, ora foglia di fico da indicare all’opinione pubblica in Occidente.
Le contraddizioni del sistema spesso restano sommerse; rimosse, si potrebbe dire. Basterebbe rivolgere lo sguardo nella direzione giusta per vederle, ma in pochi lo fanno. Frantz Fanon nota che solo la lotta mette in luce le contraddizioni camuffate della realtà coloniale. In effetti, ci sono volute le manifestazioni e la repressione violenta per costringere il mondo a guardare.
Lottare contro un sistema nevrotico porta alla nevrosi, come fosse un contagio. Le questioni irrisolte si annidano nel profondo, per quanto riguarda sia i fini che i mezzi della lotta di liberazione. La violenza è da considerarsi parte dei mezzi disponibili a un movimento che era nato pacifico? E se l’obiettivo è la libertà di chi vive a Hong Kong, l’indipendenza è un modo legittimo per assicurarla? Le domande restano irrisolte, le risposte ambigue; anche perché questioni simili non si possono discutere apertamente per legge – sono a tutti gli effetti rimosse dal discorso pubblico.
L’ambiguità principale sta nella natura stessa della lotta e del rapporto tra le forze in campo. Attaccata alla Cina continentale, Hong Kong è imprendibile per una potenza straniera. E’ ancora meno immaginabile uno scenario in cui il popolo di Hong Kong, disarmato, abbia la meglio sulla polizia militarizzata locale e sull’Esercito di Liberazione Popolare cinese. Gli unici strumenti di pressione contro il regime a disposizione dell’opposizione interna e esterna sono quelli che prevedono la distruzione di Hong Kong così come è ora, danneggiando il popolo da liberare molto più del regime che lo opprime: rimozione dei privilegi commerciali concessi dagli Stati Uniti, paralisi economica della città tramite proteste e scioperi. Presto si è imposta tra gli slogan del movimento quella che suonava come una sentenza: se bruceremo, brucerete con noi.
Il movimento di liberazione di Hong Kong ha dovuto fare i conti con l’impossibilità, presto evidente, di raggiungere i propri obiettivi. Implicita la scelta: se Hong Kong non può appartenere al suo popolo, è giusto che sia distrutta affinché non possa appartenere al regime?
Altra scelta: combattere nel sistema, con il rischio di legittimarlo, o contro il sistema? Un appello alla Corte Suprema ha valore, nel momento in cui Pechino può ignorarne le decisioni emettendo una “interpretazione” della legge? Il Parlamento è un luogo dove condurre una battaglia per la democrazia, malgrado solo la metà dei seggi siano eletti dal popolo, e gli altri siano occupati per lo più da teste di legno nominate di fatto da Pechino? O è il palazzo di un potere tirannico e illegittimo, pieno di inutili cianfrusaglie da sfasciare, come è accaduto il 1 luglio 2019?
Se Pechino può cambiare il sistema a suo piacimento e senza contraddittorio, vincere una battaglia all’interno del sistema serve a qualcosa di più che costringere il regime a gettare la maschera, e diventare più apertamente autoritario?
Ricostruire la storia clinica della nevrosi chiamata Hong Kong non è scontato. Hong Kong non è mai stata una democrazia: il “gioiello della Corona” inglese era nient’altro che un possedimento coloniale, una preda di guerra. Per la mancanza di democrazia e libertà si può incolpare sia la Cina autoritaria che la dominazione coloniale del Regno Unito democratico, da cui la Cina ha ereditato molte strutture di potere: una su tutte, la polizia, che negli anni 60 ha represso con successo le rivolte marxiste e le spinte decolonizzanti. Anche il potere di emettere leggi senza passare per il parlamento, che il Capo dell’Esecutivo Carrie Lam si è attribuita nel settembre 2019, viene dall’ordinamento coloniale inglese.
Più facile è abbozzare una diagnosi, per quanto poco scientifica: la dissociazione è una forma di difesa dell’ego che prevede la separazione o il ritardo dell’emozione che di norma accompagnerebbe la situazione presente. Molti a Hong Kong ammettono di vivere nella negazione, ignorando l’avvicinarsi inesorabile del 2047, anno in cui è prevista l’integrazione della città al sistema del resto della Cina.
La nevrosi non affligge solo i residenti di Hong Kong, ma anche gli osservatori esterni. Al picco delle proteste, la pubblicazione di regime ⇨ Xinhua ha avuto buon gioco a notare che nel 2018 lo ⇨ Human Freedom Index, pubblicato dal Fraser Institute, collocava Hong Kong al terzo posto al mondo per “libertà umana”, dietro solo a Nuova Zelanda e Svizzera, e al di sopra della gran parte dei paesi democratici. Il Fraser Institute è un importante think tank canadese: come spiegarsi che abbia preso un l’abbaglio tale da giudicare che gli abitanti di Hong Kong fossero tra i più liberi del mondo, malgrado Pechino avesse già rifiutato di concedere elezioni democratiche, malgrado Hong Kong sia, in ultima analisi, la regione amministrativa speciale di uno stato dispotico?
Un’altra classifica, quella dell’⇨ Economist Intelligence Unit, classifica Hong Kong come “democrazia imperfetta”, così come gli USA o l’Italia. Come si può considerare una democrazia, sia pure imperfetta, un territorio in cui i partiti di opposizione non hanno mai potuto vincere le elezioni, pur ottenendo la maggioranza dei voti popolari?
Si sarebbe tentati di attribuire queste valutazioni senza senso al desiderio delle istituzioni “neoliberiste” di continuare a fare affari con il regime cinese, nascondendo sotto il tappeto gli aspetti sgradevoli così come si mette il cerone a un cadavere. Ma la stessa pubblicazione del Fraser Institute emette una dura condanna del regime già nell’introduzione. Anche l’Economist Intelligence Unit identifica la Cina come uno stato autoritario. Queste valutazioni incoerenti dei think tank occidentali rappresentano più che banali ingenuità o menzogne: considerarle frutto di interesse o ignoranza non permette di coglierne il carattere – appunto – nevrotico, dissociato.
L’Occidente ha bisogno di credere che Hong Kong sia libera; innanzitutto per giustificarsi di averla abbandonata nelle mani di una dittatura senza consultare il suo popolo. Ma anche per crogiolarsi nell’illusione della fine della storia, immaginando la Cina intera lungo un percorso inevitabile di democratizzazione (e liberalizzazione dell’economia) che la porterebbe ad assomigliare sempre di più a Hong Kong, e per estensione, all’Occidente. Riconoscere che Hong Kong non sia avviata lungo la via della libertà, e che men che meno lo sia la Cina continentale, significa distruggere il sogno dell’Occidente, la nostra pretesa di essere il culmine di un processo storico inarrestabile verso il progresso. La dissociazione come forma di difesa dell’ego, appunto, difesa dai sensi di colpa e dai dubbi su se stessi.
Nevrotico è stato l’intero approccio dell’Occidente all’ascesa della Cina. La dissociazione è stata istituzionalizzata attraverso quella che Shaun Breslin ha chiamato ⇨ privatizzazione della politica estera, in cui obiettivi di politica estera dello stato vengono perseguiti da istituzioni private, come aziende, missioni commerciali e organizzazioni non governative; lo stato, al contempo, si defila. I singoli obiettivi di politica estera possono così essere perseguiti senza bisogno di guardare il quadro generale, e soprattutto rimuovendo gli elementi più sgradevoli. Un ministro degli esteri, soggetto alla pressione dell’opinione pubblica, può trovare difficile ignorare l’arresto illegale di un libraio per un reato di opinione; la delegazione di un consorzio commerciale può farlo senza problemi.
III. Lo strappo – Luglio 2020
Gli strappi tendono a verificarsi sulle linee di faglia. Hong Kong sta sulla frontiera tra le due superpotenze US e Cina; ma anche su un’altra linea di faglia globale, quella tra i popoli e le élites nevrotiche che dal popolo traggono la legittimazione del loro potere, ma che sopportano sempre meno l’imprevedibilità del popolo e gli ostacoli che il processo democratico pone alla “buona” amministrazione tecnocratica. Elites che hanno guardato con simpatia ai successi della Cina in campo economico; élites che – non avendo il coraggio di proporre direttamente il modello autoritario cinese – ⇨ hanno indicato negli anni passati i sistemi più soft di Singapore e Hong Kong come una possibile strada da seguire affinché l’eccesso di democrazia non arresti il progresso. Eccolo qui il vostro progresso post-democratico, penso con soddisfazione; eccolo andare in fiamme sotto le molotov dei giovani militanti per la democrazia.
L’incendio si espande così oltre Hong Kong e le fiamme avvolgono Minneapolis, New York, Los Angeles. La reazione repressiva delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti non è troppo diversa da quella di Hong Kong. La retorica di Washington ricalca quella di Hong Kong e Pechino: i manifestanti sono accusati di essere terroristi, definizione illogica e contraria a ogni evidenza, ma che può essere utilizzata per giustificare la repressione poliziesca della comunità intera. Ai poliziotti è lasciata carta bianca, garantita l’immunità; l’habeas corpus è sospeso senza particolari remore.
La tempistica degli strappi è sempre imprevedibile: una comune esperienza di chi ha a che fare con un sistema nevrotico è quella di scoprire quanto a lungo una situazione insostenibile possa essere sostenuta. Così, quando finalmente si arriva allo strappo, si viene presi in controtempo.
La Legge di Sicurezza nazionale imposta da Pechino, senza passare per le istituzioni locali, ha preso di sorpresa anche gli osservatori più pessimisti. Persino il Capo dell’Esecutivo ha dovuto ammettere di essere stata tagliata fuori dal processo, di non aver potuto leggere il testo della legge prima che fosse promulgata. Una legge così platealmente autoritaria ha costretto il mondo e i residenti di Hong Kong stessi a guardare con lucidità l’inconsistenza delle garanzie promesse da Pechino, e delle pretese libertà di cui si godrebbe in questa Regione amministrativa speciale della Cina.
Dal primo luglio, data di entrata in vigore della nuova legge (e anniversario della cessione di Hong Kong alla Cina), è cambiato tutto. Alcuni attivisti, come ⇨ Nathan Law, hanno trovato rifugio all’estero per sfuggire alle persecuzioni.
D’altra parte, la guarigione dalla nevrosi non consiste forse nell’adattarsi all’ambiente sociale che circonda l’individuo? Non resta che aspettare qualche anno per vedere Hong Kong, rimossi gli elementi più indesiderati, adattarsi al sistema senza libertà del resto della Cina.
Miei cari,
da quando siete partiti il mondo è cambiato. Riuscite a immaginare da dove vi scrivo? A quale mezzo affido il mio messaggio per voi? Non adopero una delle vostre Olivetti. Nelle vostre vite pestavate sui tasti. Col ricorso a tappeti di feltro pensavate di attutire i colpi sulle macchine calde, e di non disturbarmi. Ma esattamente così non andava. Vi sentivo.
Le Olivetti non si usano più, né i primordiali personal computer che avete fatto in tempo a vedere (e sgranavate gli occhi). Insomma da dove vi scrivo? Da una bacheca sociale. E digitale. È un luogo promiscuo nel quale altri possono leggere il mio messaggio per voi, che diventa lettera aperta agli affetti. Questi “altri”, dei quali io stesso faccio parte, sono nomi e personalità senza corpo, parole pure che si raccolgono nello spazio virtuale dove ora voi mi leggete. Questo è il mio luogo, seppure anche io debba usare una tastiera e l’alfabeto che già conoscete, e vi scriva dalla casa che molto tempo fa avete lasciato, da qui, proprio da qui, non sorprendetevi, dove resto sigillato ormai da due mesi, perché è scoppiata un’epidemia e mi è proibito di uscire.
Immagino il vostro stupore. Un’epidemia. Una pandemia. È arrivata morte collettiva nella mia vita. Pericolo di tutti. Fervore e solitudine. Potete comprendermi? Tu puoi comprendermi, che nascesti nel ‘15 e combattesti tre guerre? Anche tu puoi comprendermi, venuta al mondo nel ‘39, quando veniva al mondo l’ultima guerra?
Vi prego, nessuna preoccupazione per me, niente soprappensieri. Siccome vado scomparendo, io sto bene. Questo volevo farvi sapere in lettera aperta. Mi allontano e sto bene. Appassisco e sto bene. Non potreste immaginare il ragazzo che non sono più. Ricorderete forse il ragazzo chino sui libri di storia, e appassionato. Prima di partire, il vostro preoccupato pronostico fu per una vita di studio. Si avverò per un poco. La tua partenza era calda, quando andai a Milano per il dottorato, la tua partenza mi distraeva nella grande aula, chiamato a esporre progetti per la commissione professorale, e invece pensavo alla gonna e al cappotto nei quali eri partita, alle calze di nylon per sempre. Pensa che ora non si può andare a Milano, né in treno, né in macchina o aereo, e nemmeno a piedi.
Pensa che ora la mia vita non ha corrisposto al vostro pronostico. Ho scelto una vita diversa. Ho cercato il più a lungo possibile di non prendere ordini. Odio gli ordini. Odio i comandi. Dalla tua partenza, avevo 26 anni, bado a me stesso. Ho fatto la spesa, ho risolto questioni pratiche. Sono fiero di aver badato a me stesso. Ma ho iniziato troppo presto, e in quel modo, senza ultime istanze, senza gradi di appello, dovendo badare a me stesso o morire, mi sono trasformato in un maturo bambino, improvvisamente adulto, fragile durevolmente.
Ma questo volevo dirvi: non importa e me la sono cavata. Scomparendo sento di rilassarmi, come se bevessi whisky in faccia alla storia. Svuoto il mio calice e non sopravvaluto il dovere di vivere. In stato di ebbrezza, sottovalutare si può. Peccato solo che non abbiate letto i miei libri. Qualche racconto, un paio di romanzi. Mi avrebbe fatto piacere mostrarveli. Ma se voi non foste partiti così presto, io non avrei scritto quei libri e non avrei potuto mostrarveli. Insomma che complicazione le cause e gli effetti.
Mi accorgo che voi siete per me la preistoria, e che io sono per voi fantascienza. Tranquilli: eccettuate epidemia e tecnologia, conservo fattezze umane, mi copro con vestiti pesanti nell’inverno più rapido e adopero le stoffe leggere di sempre nelle lunghe stagioni del caldo.
Mi sognate? Io vi ho sognati. È ovvio che ci siamo sognati. Tengo per me il racconto onirico vostro, preferisco non spogliarmi, restare negli abiti davanti a voi. Venite a trovarmi nei sogni, io vi raggiungo nei vostri. Il racconto è superfluo.
Per la festa del partigiano ho messo alla serranda una bandiera tricolore. Perdonami: tu mettevi bandiere rosse. Ma ho aggiunto un fazzoletto rosso, ricordo molecolare di te. Poi, ogni sera, cucino in casa con la mia compagna, un’estranea per voi mi dispiace. I ristoranti sono ancora chiusi. Teatri e cinema anche. Ma noi abbiamo due ore di serenità, mentre si prepara e apparecchia la tavola, e poi quando si cena. Beviamo vino e parliamo.
Ecco, questo volevo farvi sapere, laggiù dove siete finiti: che beviamo vino e parliamo ogni sera, che beviamo vino e ridiamo. Quindi va tutto bene, per un poco ancora.
Spero che anche voi condividiate la mia serenità. Ricordatevi di me come io vi ricordo, e ogni tanto mandate notizie.
Con affetto, d.
Dedicato a Frederika Randall
***
Da quando ero giovane e fino a poco tempo fa ho bestemmiato. Sfogavo certe rabbie quotidiane o perenni nella bestemmia. Ero spaventosa e ridicola, aggredivo un Dio che non conoscevo e non avevo mai frequentato ma che incolpavo, forse priva di altri da biasimare. Io non battezzata e analfabeta di qualsiasi chiesa, la mia bestemmia era un gesto di pura violenza e irresponsabilità, poiché nulla dovevo a Dio e viceversa. Poi ho deciso di smettere. Non bestemmio più. Mi pare di essere più calma. Più ferma e vecchia ma comunque migliore. O forse sono solo spaventata. Nei primi tempi dalla decisione, se ricadevo per abitudine o riflesso in una bestemmia mi colpivo con un pugno sulle tempie così dal dissuadere col dolore il mio istinto e la voce. Poi non ce n’è stato più bisogno. Avevo imparato a non bestemmiare. Ieri però mi ha preso un rimorso come se avessi bestemmiato di recente senza essermi punita col pugno, e fossi quindi in difetto. Ma non riuscivo a ricordare in quale momento avessi bestemmiato esattamente. Ero confusa. Alla fine ho capito. Avevo sognato. Avevo bestemmiato in sogno con la stessa ferocia del tempo reale passato. Bestemmiare in sogno è grave come nella vita reale? O valgono le regole del sogno dove tutto è lecito perché non avviene? In sogno la bestemmia pronunciata avviene o no? Non ricordo se in quel sogno dopo la bestemmia mi fossi data un pugno. Mi sembra di sì ma non ne sono sicura. Spero di averlo fatto perché sarebbe impossibile tornare nel sogno e colpirmi, quindi resterei impune per sempre.
Mary Karr, Il club dei bugiardi, edizioni e/o,2017, 413 pagine, traduzione Claudia Lionetti
L’intera opera di Mary Karr sembra dimostrare la semplicistica teoria di ogni scrittore improvvisato: ognuno ha una storia necessaria, urgente, da raccontare. La propria. Certo, si potrebbe replicare: bisogna aver vissuto una vita interessante. E quella raccontata in questo memoir, Il club dei bugiardi, lo è: una famiglia scombinata, un padre operaio contaballe e rissoso, una madre da un passato sconosciuto e un presente fatto di alcolismo e depressione, uno scenario desolato (Leechfield, cittadina petrolifera di indicibile squallore), un’infanzia difficile, fatta di abusi sessuali, risse, pregiudizi, con unico baluardo di fronte alle difficoltà quotidiane Lecia, la sorella di soli due anni più grande.
Eppure neppure questo basterebbe. Conosco persone che hanno vissuto vite altrettanto complicate, se non addirittura più estreme, devastanti. La stessa Mary Karr, dopo il successo incredibile avuto alla pubblicazione di questo libro, racconta delle centinaia di lettere ricevute che mettono a nudo storie altrettanto al limite. L’autrice, in realtà, con questo libro magistrale dimostra che è sempre e comunque la scrittura che fa la differenza, con, in più, il particolare dono di una memoria elefantiaca: ricorda tutto della sua infanzia, non solo le situazioni, ma persino i particolari più marginali. Leggendo ci si immerge nella vita di quella bambina, si fa esperienza degli odori, i sapori, i colori. Karr scrive con onestà ammirevole, non nega nulla, nulla nasconde: anche le piccinerie, le vigliaccherie, i capricci. E, cosciente che anche una memoria così solida può fallire, non nega a chi legge i buchi, i vuoti del suo passato, disegnando nel complesso un ritratto di traboccante umanità.
Insomma, non basta avere una storia da raccontare per farlo. Occorre avere un (grande) scrittore.
.
(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 5 del 30 gennaio 2018)
Copertina del sesto Cervo Volante: Intermezzo e altre sinapsi
«Ripensarsi come sistema semi-aperto / ridimensionare il ciclo delle verifiche / inserire, fra le strategie e gli atti, uno scarto» scrive Marilina Ciaco in Intermezzo e altre sinapsi. Forse proprio in questo scarto s’instaura quel vuoto tenace che è il vero luogo dei possibili, e anche il senso di una collana di scritture poetiche che a ogni nuovo titolo aggiunge un ulteriore vacillamento nel disegno d’insieme.
Per questo motivo ho scelto di ospitare Intermezzo e altre sinapsi nei Cervi Volanti, che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progettoEdizioni Volatili. Dicevamo in un precedente appunto: libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.
Pubblico qui alcune pagine in anteprima da Intermezzo e altre sinapsi, insieme a una nota tratta dalla sezione del libro realizzata per il Museo per la Memoria di Ustica. Le partiture visive e i segnalibri sono sempre di Giuditta Chiaraluce.
All’interno del Museo per la Memoria di Ustica a Bologna è conservato il relitto del DC9 abbattuto il 27 giugno 1980. L’installazione di Christian Boltanski ha previsto che il relitto del DC9 fosse circondato da 81 specchi neri collegati a 81 altoparlanti. Dal soffitto pendono 81 luci, le luci si accendono e si spengono – 81 sono le vittime della strage. L’esperienza della morte è il non immaginabile. Una morte collettiva che si direbbe accidentale e inaspettata ci rende partecipi di una tragedia che fino a un istante prima non ci apparteneva. Gli altoparlanti emettono voci confuse, le ultime frasi pronunciate al telefono, la prosa quotidiana di ciascuno. Gli specchi riflettono l’immagine del visitatore, ma opaca, appiattita dalla lastra scura, si perde il contorno che distingue figura e sfondo. Alcuni oggetti appartenuti alle vittime sono stati prelevati dal mare e riposti in 9 casse.
Marilina Ciaco è nata nel 1993 a Potenza. È dottoranda di ricerca in Literature and Transmedia Studies presso l’Università IULM di Milano, città dove attualmente vive. È stata selezionata come autrice emergente per l’edizione 2017 di RicercaBo e alcuni suoi testi hanno ricevuto segnalazioni in diversi concorsi letterari tra cui il Premio Lorenzo Montano. Nel 2018 ha partecipato alla performance poetica La notte di San Lorenzo presso il Museo per la Memoria di Ustica (Bologna). È fra i finalisti del Premio Nazionale Elio Pagliarani 2019 per la raccolta inedita Sinapsi.
( questo racconto è apparso sul numero 69, anno 2019, della rivista Sud dedicato all’anniversario dello sbarco sulla Luna,g.m.)
Faceva caldo, sì faceva troppo caldo in quel maledetto luglio del 2019 nelle nostre periferie di cemento, nelle giungle d’asfalto che ci ostiniamo a chiamare città come se esse fossero costruite per noi e non noi per loro. Faceva troppo caldo anche per Tristano Corzé, un settantenne che tutto sommato si teneva bene, in situazione pensionistica non brillante ma accettabile, purtroppo però dotato d’un cuore canaglia incline alla nostalgia & sentimentalismo tant’è vero che sua madre, sapendo che lui era così, proprio Tristano l’aveva chiamato, respingendo le insistenze del prete che lo voleva battezzare con un nome più cristiano ( come se Tristano non fosse un nome cristianissimo!). Tutto ciò per amor di cronaca ovviamente. Quanto al resto, resta il fatto che questo maledetto Calore, al pari della Grande Eguagliatrice, è democratico e non distingue tra malinconici ed entusiasti, grandi e piccini, ricchi e poveri, femmine e maschi e quando deve colpire, colpisce. E in quel Luglio colpiva con dovizia feroce, forse a causa dell’effetto serra o della normale canicola, non so, e allora Tristano Corzé prese a passare una parte del pomeriggio nel supermercato vicino a casa: indossava la sua sciarpettina di seta, caro souvenir di giorni più fulgidi, per ripararsi dagli eccessi della climatizzazione, metteva uno yogurt allo zabaglione nel carrello e poi, fingendo di cercare tra gli scaffali altri prodotti, dava qualche quarto d’ora di refrigerio a una vita accaldata non solo per motivi atmosferici. Ma la Direzione dell’esercizio non approvava questo passatempo rinfrescante, soprattutto a fronte di una spesa così contenuta, e glielo comunicò nella maniera più ferma possibile ( poveri cocchi quelli della Direzione non sapevano quanto avrebbero rimpianto tutti i Tristani di questo mondo allorché Big Data si fosse decisa a introdurre un serio sistema di vendite on line dei prodotti da supermercato!).
Fu così che Tristano si vide costretto a scoprire altri luoghi pubblicamente frequentabili nel quartiere dotati di aria condizionata, tra i quali spiccava l’ufficio postale. Proprio nello stesso periodo l’ufficio numismatico della zecca di stato dette licenza a Poste Italiane di mettere in vendita presso le proprie filiali una dannatamente intrigante collezione di cinque monete commemorative in lega d’argento del cinquantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna su disegni dell’artista Pippo Garoci al prezzo di euri 25,40 ( venticinque e quaranta) per i titolari di un conto Bancoposta e di euri 40,80 ( quaranta e ottanta) per la clientela ordinaria. La raccolta, naturalmente intitolata ‘Le facce nascoste di un grande balzo per l’umanità’, rappresentava in ciascuna delle monete una fase cruciale della spedizione.
Il piano di Tristano Corzé, quanto all’ufficio postale, consisteva nel sedersi e leggere, poi fingere di essersi dimenticato di prendere il biglietto con il numero di chiamata e infine per guadagnare tempo, soprattutto nell’ipotesi che non vi fosse molta fila, porre una domanda subdolamente sbagliata, per esempio il cap di Lublino in Irlanda, in modo che il personale perdesse del tempo nelle more di dare una risposta corretta a una domanda che non la prevedeva.
Questo in breve il piano, anche ingegnoso, vanificato dall’imprevisto. Ora, tutto quel che c’è da sapere su questi dannatissimi imprevisti è che ce ne sono due grandi tipi, quelli relativi alle contingenze della realtà e quelli alle contingenze del cuore. E i secondi, per quanto di minore apparenza, non sono meno perniciosi dei primi.
Quando Tristano Corzé entrò nell’ufficio postale e l’occhio gli cadde sulla teca che esponeva la collezione celebrativa, un sospiro fuoriuscì dalle sue labbra. Altri allunaggi di quel luglio del 1969 gli erano tornati alla memoria: una cinquecento che correva su una litoranea a un appuntamento o meglio a un approdo, Evelina dalle bianche mani che lo aspettava alla gelateria, il loro disco che suonava, un avvenire prodigo di promesse: un piccolo passo per un uomo sulla Luna era il giusto corollario del grande passo di Tristano nel cuore di Evelina. E poi se l’uomo era stato capace di arrivare sulla Luna, anche gli altri problemi pian piano sarebbero stati risolti. L’amore di Evelina e il progresso dell’umanità andavano a braccetto.
Intanto Tristano Corzé continuava a fissare la teca e fatalmente dopo un po’ altri occhi fissavano lui. Si sa che la vita spesso va altrimenti dai desiderata della giovinezza, si sa che ciò è fottutamente vero. Anche se non è che ci si possa soffermare a descrivere minutamente gli inconvenienti di ogni cristiano che sta su questa terra, va precisato che a Tristano Corzé luccicavano un po’ gli occhi nel fissare come uno stoccafisso le medagliette nella vetrinetta. Da quanti anni non pensava ad Evelina: che nostalgia canaglia, che graziosa luna, che fottutissimo ricordo disseppellito inconsultamente da una normale iniziativa commemorativa della zecca di stato. La sua discesa sulla Luna, il suo piccolo grande balzo era stato la scoperta con l’amore di Evelina dell’esistenza di un futuro ( radioso? Abbastanza) e invece poi… poi c’era stato un Poi. Logicamente non poteva ascoltare in quello stato le domande e i richiami vieppiù incalzanti del personale.
Fu giocoforza, dato il suo persistente e inspiegato mutismo, restituirlo all’ardente strada da cui era giunto lasciandolo esposto al vento di malinconia, quantunque non spirasse nemmeno il più piccolo alito di vento fisico. Se anche i progressi con Evelina dalla bianche mani non ci furono in quella maledetta storia del Luglio ’69, è d’altra parte innegabile che i progressi per l’umanità dopo il primo allunaggio sono stati patenti e numerosi; e tra questi merita di essere segnalato Big Data. E allora se consultassimo Big Data alla voce Corzè Tristano, scopriremmo che nei giorni di Luglio del 1969 egli prestava servizio militare di leva presso la caserma XXIV maggio di Sacile e in particolare nel giorno in cui il comandante della missione Apollo 11 toccò il suolo lunare egli si trovava addetto a un picchetto armato ordinario presso la predetta installazione militare. E’ probabile che le rimembranze relative ad Evelina fossero relative all’estate di uno o due anni dopo. Ma questo naturalmente non cambiò nulla nella malinconia di Tristano e neanche nell’afa di quel maledettissimo luglio.
Quanti siamo?
Difficile dirlo. Non è mai stato realizzato un censimento. E poi siamo sparsi per il mondo. Il “Piccolo Popolo” degli amanti di Proust è transnazionale, variegato, ma unito da un aspetto singolare: abbiamo letto tutto di lui, o quasi, compreso Contro Sainte Beuve. Fu redatto come un libro singolo, in realtà è collegato con l’opera collettiva, come tanti altri raggi di luce che hanno nutrito la fotosintesi della Recherche. Sappiamo come il nostro autore abbia contestato il “metodo Sainte Beuve”, ovvero il collegamento stretto tra l’opera e il suo creatore; il critico deve studiare le sue abitudini, i suoi gusti, le sue amicizie. Letto e condiviso, eppure, curiosamente, agiamo esattamente in senso contrario. Vogliamo sapere TUTTO di Marcel Proust.
Nevicava da due notti. Il gelo aveva sommerso i pali della luce interrompendo la corrente in tutto il quartiere. La gente rimaneva in casa come in attesa di un mistero. Il mio vicino di tanto in tanto mostrava un occhio attraverso la tenda, come a spiare un omicidio. La neve aveva sommerso la mia auto, riuscivo a vederne, dalla finestra della cucina, solo alcune parti. Nel cofano c’è un cadavere. L’ho messo lì dentro un giorno fa. Non ho il coraggio di riscoprirlo. Mi limito a studiarne solo i piedi, ritti come la base di una croce. Non so cosa farne. Gettarlo in un vallone? Abbandonarlo in una discarica? Non sono una persona decisa, è da tutta la vita che sono ridotto a succhiare il coraggio altrui. Prima quello di mia madre(ora seppellita nel cimitero di questa città), poi quello di mia moglie che è fuggita con il suo amante. Mi è rimasto da succhiare tutto me stesso. Mi servo della mia ombra come unica fonte di forza. Quando sto seduto alla poltrona la guardo allungarsi sopra la tv, procreo l’atmosfera adatta avvicinando due lampade come se si reggessero a vicenda. Nel momento del sonno, invece, metto l’abatjour sdraiata sul comodino così da ammirarne l’ombra che dorme anch’essa. Non appena so dove si ferma allora la fisso con tutta la concentrazione, e la inserisco dentro di me. Una volta che mi attraversa ho la potenza di tutte le cose sconosciute. Vi spiego… Tutti noi facciamo caso alle ombre, tuttavia nessuno sa che queste hanno una loro vita. Io, invece, ne sono convinto! La loro vita è mistica. Riescono a regalarti, solo se conosciute, una prima sensazione di ciò che proveremo nell’aldilà. È una droga, quindi, cibarsi d’ombre. Eppure era da tre giorni che la mia ombra non bastava al mio spirito. Così, prima che iniziasse a nevicare, vagai tutta la notte in cerca di un’ombra più potente. Nonostante avessi percorso con l’auto le strade deserte, e avessi ammirato ombre bellissime, come quelle dei negozi, dei cani randagi, dei semafori, dei lampioni, non trovai quella giusta. Allora mi diressi verso il bosco. Ricordo che le stelle mi facevano paura. Credo che rilascino più ombre loro sulla terra, che tutta la terra stessa nella propria galassia. Nonostante ciò, non posso rubare l’ombra a Dio… Arrivato nel bosco, ansioso cominciai la mia ricerca. La luna piena permetteva alle ombre di uscire dai loro corpi. Le ombre dei tronchi però erano troppo spente e immobili. Le ombre delle piante, troppo sottili e deboli. Le ombre degli animali, troppo istintive, come gli animali stessi. Non erano quelle giuste per il mio scopo. Allora percorsi un sentiero che portava ad un ruscello. Lì scorsi una meravigliosa ombra appoggiata ad una roccia, ne vedevo la schiena e i piedi ritti come una croce che si scioglieva nell’acqua. Era l’ombra di una donna. Dormiva con la schiena rilassata. L’ombra era potentissima. Me ne innamorai a prima vista. Incominciai a mangiare l’ombra con grande foga. Ero con le mani poggiate alla corteccia di un abete, a cento metri dalla donna. Dovevo avvicinarmi per assaporarla, meglio, faccia a faccia. Mi mossi lento, e così fece pure la mia ombra, dietro di me, che mi seguiva e non se ne andava. Via via si gonfiava. Fu talmente grande da soffocare la donna, io invece ammazzai quest’ultima, a mani nude. A occhi chiusi. Non gemeva. Non gridava. Lo accettò senza emettere nulla. Lontano qualcuno applaudì. Sentivo che alcune case stavano perdendo la corrente perché la neve stava arrivando. E, intanto, mi dicevo: “Non posso lasciare un’ombra bellissima nel corpo di una donna bellissima, soprattutto in vita, perché prima o poi mi abbandonerebbe”. Tutti mi lasciano da solo! Raccolsi il cadavere della donna coprendole il volto con un sacco nero. Pesavano tanto, lei e l’ombra. I piedi le strisciavano. I piedi avevano l’ombra ritta come una croce. Ogni dieci secondi mi giravo per paura che corresse via nelle profondità del bosco. Sentivo così tanta pace. Mi dissi: “Dio sarebbe fiero di me. Amo così tanto al punto di ammazzare l’ombra del mio nuovo amore”. Un gufo mi guardava da un ramo. Il suo sguardo mi pedinava. Aveva gli occhi gialli. Ho paura dei gufi da quando ho capito che hanno l’ombra a punta per via delle orecchie. Penso ce l’abbia così pure il diavolo. La bocca della donna perdeva saliva che scintillava nel pietrisco. Affannato raggiunsi l’auto. Aprii il cofano con il pulsante sulla chiave di accensione. Con il braccio destro adagiai il corpo sulla tappezzeria sporca all’interno del cofano. Entrai in macchina. Cadde la prima neve dell’anno. Il vento ne portò lentamente un’abbondanza. Accesi l’auto. I fari fendevano la neve. Nel sedile del passeggero era proiettata la mia ombra. Oltrepassai le strade. A occhi aperti vidi la montagna sopra la città addormentata. Il semaforo rosso mi costrinse a frenare. A occhi chiusi la neve fu nera. Accesi di nuovo la macchina non appena lampeggiò il verde. Superai i quartieri che stavano imbiancandosi. Vidi le finestre delle case, di colpo, spegnersi. La corrente abbandonava tutti i quartieri della città. La neve vorticava e si aggrappava ai cavi elettrici che emettevano scintille bianchissime. Non acceleravo. Sembrava trasportassi il feretro di mia madre. Raggiunsi casa mia. Premetti il pulsante perché si sollevasse la saracinesca del garage. Posteggiai l’auto nel garage. Inspirai tanta aria chiusa. Indugiai un minuto nel silenzio perché capissi cosa stava succedendo. Non lo compresi. Estrassi dal cofano il cadavere. Una volta arrivato in casa lo stesi nel mio letto matrimoniale. Presi di fretta tutte le lampade della camera da letto, le misi in fila, l’una accanto all’altra, ai lati del letto. Poi ne rubai altre dal soggiorno e le disposi davanti al letto. Quelle rimaste le posizionai, infine, dietro il letto, dopo averlo spostato due centimetri dal muro. Ottenni quell’ombra bellissima di cui godetti nel bosco! Per due giorni me ne cibai. Felice. Mi genuflettevo all’interno di tutte le dimensioni che l’ombra rifletteva. Mangiavo. Eppure dopo due giorni, d’un tratto ne fui sazio. L’ombra mi appariva dimagrita. Come senza più carne. Non seppi cosa farne. Quella cosa inutile! Quel corpo morto che dormiva nel mio letto! Mi faceva schifo. Non aveva più potenza. Frattanto nevicava, e non voleva smettere. La corrente non tornava.
Ora, nella terza notte, dopo aver nascosto il corpo della donna nel cofano, non so cosa farne. Lo studio spaventato. I piedi sono sempre ritti come croci. Mi impressionano. E la maledetta corrente non riparte. Siedo di tanto in tanto sul divano dove la televisione è spenta. Da quella posizione guardo fuori e so che nevica ancora. Se ci fossero stati i lampioni avrei potuto vedere la neve. Adesso non vedo neppure questa. Mi alzo. Non mi rifletto nelle invetriate della finestra principale. “Il vicino giocherà ancora con la tenda, e si chiederà le mie stesse cose”, penso. Fisso la mia auto. È un’auto funebre. Ed io sono colui che ha ammazzato l’ombra e la sua donna. “Va bene. Il cadavere rimarrà nel cofano”, sibilo. Ritorno alla poltrona. L’ombra alle mie spalle è quella che mi farà più paura. Starà lì per sempre. La mia ombra.
*(racconto tratto da Stelle ossee (LiberAria) di prossima pubblicazione in autunno sul primo numero di “The Shoutflower” – rivista letteraria di Philadelphia – tradotto da Anne Milano Appel).
Non ci voleva tanto, per capire che Alice non ci stava con la testa. Innanzitutto era grassa, e quando sei così grassa c’è qualcosa che non va. Ci deve essere per forza, altrimenti ti prenderesti cura del tuo corpo e saresti magra. Infatti io mi prendo cura del mio corpo e sono magra. Chi non si prende cura del corpo è malato: su questo non ci sono dubbi. È una questione di salute, nient’altro che una questione di salute. E Alice era grassa, e dunque non gliene importava niente della salute, e visto che non gliene importava niente della salute, era malata. Io non ho niente contro le persone malate, intendiamoci. Ma essere grassi non è proprio come avere un tumore. Quello, non lo scegli. Invece scegli di ingozzarti fino a diventare un quadro di Botero. Con tutto il rispetto per Botero, s’intende.
Io le persone grasse proprio non le capisco, e quindi non capivo Alice. Arrivava a scuola con un paio di jeans sformati, sempre gli stessi, e un dolcevita nero che sembrava un sacco. Almeno il maglione se lo cambiava, ma il modello era sempre lo stesso. Anche il colore era sempre lo stesso, e cioè nero, e cioè un non colore. Di sicuro credeva di sembrare più magra, vestita di nero. Ma quando si è grasse come Alice, non c’è nero che tenga. Comunque, almeno il maglione se lo cambiava. I jeans invece non li lavava mai, perché quando si lavano si restringono e allora bisogna indossarli due o tre volte prima che tornino normali. Cinque o sei volte, nel caso di Alice. Non so dove avesse trovato un paio di jeans della sua taglia, a dire il vero, perché sopra la quarantadue nei negozi normali non si trova quasi niente. Sopra la quarantadue c’è poco da fare: bisogna dimagrire. E anche la quarantadue non è proprio una bella taglia. Io porto la trentotto e a volte anche la trentasei: dipende dal modello. Il metabolismo ce l’ho veloce per natura: anche mia madre è così. Per il resto, faccio danza tutti i giorni e mangio come si deve, e cioè insalata, petto di pollo, fiocchi di latte. Poco olio, niente dolci. L’importante è seguire un’alimentazione sana e fare sport. Voglio dire, non mi sembra difficile. Ma lei niente: durante l’intervallo, si portava un panino col salame e lo mangiava davanti a noi. Alice a me non faceva pena, devo ammetterlo. Mi faceva rabbia. Era grassa e pretendeva di uscire con noi. Questo non me l’ha mai detto, sia chiaro. Ma era ovvio che ci sperava. Se almeno si fosse truccata un po’, se almeno si fosse lavata i capelli, sarebbe stato diverso. Cioè, era grassa e sembrava che non le importasse, ma la cosa peggiore era la sua faccia. Aveva i brufoli, gli occhiali e i capelli unti. Capisco la faccenda dei brufoli, ma non del tutto. Anche Melissa aveva l’acne, ma sua madre l’ha portata dalla ginecologa e da quando ha iniziato a prendere la pillola ha sistemato tutto. Ha la pelle liscissima, ora. Se hai un problema, cerchi di risolverlo. Ma Alice no. I brufoli se li teneva. Per non parlare di tutto il resto, e cioè degli occhiali e dei capelli unti. Gli occhiali li portavo anch’io, una volta, ma adesso mi metto le lenti a contatto, altrimenti non posso truccarmi gli occhi come si deve: problema risolto. I capelli unti, basta lavarli. Oltretutto, puzzava. Non voglio essere cattiva, ma è un dato di fatto. Puzzava di vestiti non lavati, e quando aveva il ciclo non era neanche possibile avvicinarsi. Nessuno si sedeva nel banco con lei, questo è vero, ma cosa pretendeva? Non ti lavi: cosa ti aspetti? Abbiamo cercato di farglielo capire, e anche questa è stata descritta come una cattiveria. Per il suo compleanno, le abbiamo regalato un bagnoschiuma dell’Erbolario. Pensavo che avrebbe capito, e invece non solo non ha capito, ma ha rincarato la dose. Sembrava che facesse apposta, a non lavarsi.
Poi è successa la cosa del mio diciottesimo. Io vorrei vedere voi, che cosa avreste fatto. Era il mio compleanno: avevo pure il diritto di invitare chi volevo io, o no? Ecco, perché è facile parlare, col senno di poi. È facile dire che sono una stronza. Ma non è vero. La stronza era lei. Era lei, quella che non ci stava con la testa. Era lei, quella che non ha mai fatto il minimo sforzo, non dico per essere come noi, ma almeno per integrarsi. Comunque no, Alice non l’ho invitata. Ho invitato tutta la classe, ma non Alice. E sì, lei l’ha saputo. Fosse stato per me, mica gliel’avrei detto. Ma la voce le è arrivata. Non so da chi, ma le è arrivata. Si deve essere lamentata con sua madre, sua madre è andata dai professori, i professori se la sono presa con me. Capite? Se la sono presa con me perché alla mia festa non ho invitato Alice. Poi, non si sa come, è saltata fuori anche la storia del bagnoschiuma. Non poteva stare zitta, quella serpe: no. Doveva proprio raccontare anche la storia del bagnoschiuma. Che poi, a ben vedere, voleva essere una cosa carina. Okay, tornando indietro non l’avrei fatto, ma insomma: se avesse capito che l’intenzione era buona, se avesse capito che noi volevamo soltanto aiutarla, allora l’avrebbe usato, quel bagnoschiuma, invece di andare dritta da sua madre. Lamentarsi non ha mai risolto nessun problema. E Alice di problemi ne aveva parecchi.
Comunque, dopo la cosa della festa, anche i miei si sono incazzati. Mi hanno detto sei stupida, devi farti furba, cosa ti costava invitarla? Cosa te ne frega di quella grassona, ha detto mia madre, chiedile scusa e basta. Quella è una stronza. Va in giro a dire che tu e le altre la bullizzate. Io quando ho sentito la parola bullismo, sono saltata sulla sedia. Voglio dire, proprio non ci credevo. Da quando in qua cercare di aiutare una persona significa bullizzarla? Allora mi sono incazzata. Ammetto che mi sono incazzata. Non l’ho presa bene, ma proprio per niente. Insomma, mettetevi nei miei panni. Io Alice non la odiavo mica: semmai era il contrario. Non era colpa mia, se ero una bella ragazza. Non era colpa mia, se lei era brutta e grassa. Non era colpa mia se non si lavava. E mi toccava anche sentire le lamentele dei professori. Io non avevo fatto niente. Non c’entro niente, io. Non c’entra niente, Thomas. Le altre, nemmeno. Ma devo dire che sembrava una buona idea, in quel momento. Non dico che lo sia stata – avremmo dovuto capire che Alice non ci stava con la testa – ma sembrava una bella idea. Quando gliel’ho proposto, Thomas ha detto di sì. Neanche lui la sopportava, Alice, perché aveva detto alla Corradini che la chiamava cessa, scaldabagno e roito, e la Corradini lo aveva fatto sospendere. Thomas non vedeva proprio l’ora, anche se da un certo punto di vista non ne aveva affatto voglia. Si capisce, del resto: chi avrebbe avuto voglia?
E non è stato facile, non è stato facile convincere Alice, non è stato facile convincerla che Thomas voleva uscire con lei. All’inizio era diffidente, diceva non ci credo, all’inizio diceva non ci penso neanche, ma poi ha detto non lo so, magari posso dargli una mano coi compiti, magari posso dargli una mano, visto che è stupido, è proprio un asino, e magari grazie a me è la volta che prende sei in latino, perché no, vediamo cosa posso fare. Era diffidente, la stronza, ma alla fine si è lasciata convincere, alla fine ha ceduto alla vanità, la stronza, alla fine ci ha creduto. E lo ammetto, tornando indietro non lo rifarei, ovvio che non lo rifarei e anzi, a ripensarci era uno scherzo di cattivo gusto, era proprio uno scherzo di merda, ma un’altra ci avrebbe riso su, io ci avrei riso su, chiunque ci avrebbe riso su, Thomas è un bel ragazzo, chiunque avrebbe pensato: ma quando mi ricapita? Chiunque tranne Alice.
Lei no. Lei ci ha creduto. Lei ha creduto che uno come Thomas potesse guardarla e desiderarla e dirle ti amo. Bisogna essere proprio matti e ciechi e fuori di testa come Alice per credere all’impossibile. Non è colpa di nessuno se l’ha presa così. Nessuno l’ha costretta a fare quello che ha fatto. Poteva dire no, grazie, Thomas, vai via. E invece no. Ha fatto tutto quello che lui le ha chiesto, la vacca, l’ha fatto senza battere ciglio. E quando il video è girato, quando ha saputo che tutti l’hanno visto, sembrava che non le importasse niente. Noi ridevamo e a lei non importava. Noi la chiamavamo troia, e a lei non importava. Io mi son detta: non gliene frega niente. L’ho quasi invidiata, a un certo punto. Era superiore, lei. Era migliore di me, di Thomas, di tutti noi. Era grassa e non le importava; aveva i brufoli e non le importava; aveva i capelli unti e non le importava; nessuno si sedeva accanto a lei, e non le importava; quel video lo aveva visto tutta la scuola, e non le importava.
Durante l’intervallo, ero in bagno a fumare. Parlavamo del video, e ho sentito un botto. Tutti l’abbiamo sentito, ma io ci ho pensato subito. Non so perché, ma lo sapevo che era lei. Allora mi sono affacciata e l’ho vista. Ho visto il rosso dei capelli mischiato al sangue. Ho spento la sigaretta e sono tornata in aula.
Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi
In Charlie Hebdo c’è una rubrica molto famosa che s’intitola «les couvertures auxquelles vous avez échappé» dove sono raccolte le copertine della rivista scartate dalla redazione. Mi riveleresti i tre titoli alternativi a quello che avete deciso alla fine per questa tua ballata degli anni ottanta? Groviglio o pasticciaccio?
Il libro ha preso forma sotto un titolo che mi sono portato appresso dalla fine degli anni novanta e che si riferiva ad un progetto mai realizzato, uno di quei progetti attorno al quale mi sono arrovellato così a lungo per poi accorgermi che non mi apparteneva più. Alla fine è rimasto come intestazione della cartella di lavoro del mio computer. Ne sopravvive una traccia nel sottotitolo: nati troppo tardi. Un tema post rivoluzionario, nel senso letterale del termine, legato alla memoria della Rivoluzione francese. Si trova in Carrion Nisas nel 1820, come privilegio della nascita tardiva, di cui avevo letto in un bel saggio di Sergio Luzzatto sui giovani ribelli e rivoluzionari. Il tema attraversa tutto l’Ottocento e, nel caso italiano, approda alla critica post risorgimentale dei molti “delusi” della rivoluzione nazionale. Uno di questi era Luigi Bertelli, il padre di Gianburrasca. A partire da qui, volevo scrivere una storia che non ho mai scritto. Il libro è nato (è proprio il caso di dirlo), quando mi sono liberato di questa idea iniziale. Ci ho messo vent’anni. Un altro titolo, decisamente più brutto, era Generazione ottanta. Una storia sentimentale. Ma questo me lo sono bocciato da solo. Alla fine si è trattato di scegliere tra “labirinto” e “groviglio”. Nel groviglio c’era una concretezza che non mi dispiaceva.
Com’è nata l’idea dell’immagine in copertina?
Ha scelto l’editore e devo dire è stata una scelta particolarmente azzeccata. Perfetta. È un particolare della casa di Giulietta a Verona. Mai tema fu più legato alla sentimentalità del decennio. Tra Romeo and Juliet dei Dire Straits e la Verona beach di Leonardo di Caprio si svolge un bel pezzo della storia della generazione.
A proposito di icone devo confessarti che quando mi sono chiesto quale immagine potesse rappresentare “i nostri anni ottanta” con la stessa trasparenza/opacità della foto dell’autonomo in via manzoni a Milano, (vd il bellissimo capitolo il ritorno dell’eroe) me ne sono venute in mente diverse, Pertini che alza la coppa del mondo, Mstislav Rostropovich che suona il violoncello davanti al muro di Berlino, Live Aid, lo studente cinese, Tank Man, che blocca i carri armati a Tiananmen. o più semplicemente il cubo di Rubik. Tu quale sceglieresti? E perché non farne una copertina?
Pertini disegnato da Andrea Pazienza. Era affettuoso e protettivo. Un vecchio pronto a comprenderti e a consolarti. È una copertina possibile.
C’è un passaggio in cui citi Buffalo Bill di Francesco De Gregori, canzone che apriva una lunga intervista rilasciata il 12 maggio dell’80 a Mixer. Mixer ebbe un ruolo importante nella “cronaca” di quegli anni di cui parli. Di De Gregori a me è rimasta in testa da quando la sentii per la prima volta, questa sua risposta a un giornalista che gli chiedeva del riflusso. Questa è una camicia, questi sono pantaloni, queste sono scarpe. voglio sapere dov’è il riflusso. Tu cosa avresti risposto?
Io che avrei risposto? Non avrei saputo rispondere. Non così, sicuramente. Anche perché sentivamo che il riflusso era ovunque e che dovevamo contrastarlo con tutto noi stessi. Sono cambiate le cose? Non credo, se pensi che il primo movimento studentesco del ventunesimo secolo da noi prese il nome di onda. Il riflusso è una parola dell’ingegneria, della chimica, della medicina. Poi diventa una parola politica. In questa accezione è una metafora. Dunque appartiene ad una dimensione del linguaggio in cui l’attenzione viene spostata da quello che si vuole significare a quello per mezzo del quale la cosa viene significata. Si allude e non si dice. O meglio,si dice alludendo. Praticamente una trappola, in cui siamo finiti un po’ tutti. Parlando del mare, il riflusso è la bassa marea. La Treccani, con riferimento all’accezione economica e politica, specialmente del linguaggio giornalistico, dà, a proposito del significato di disimpegno conseguente alla caduta delle grandi tensioni politiche e sociali, di aspettative deluse, connesso alla parola “riflusso” intesa in questa accezione politica il seguente esempio: il riflusso (nel privato) dopo il ’68, degli anni ’80 del Novecento. Il 1980 è l’anno del riflusso. La parola comincia a comparire in questo significato tra il 1978 e il 1979. John Travolta e la Febbre del sabato sera sono figure del riflusso. Il riflusso è dunque andare a ballare. Il riflusso sono anche i sentimenti, le cotte adolescenziali, l’amore. La Boum, Il tempo delle mele e così di seguito. Riflusso è lo sport, ma anche il Nome della rosa di Umberto Eco, che scrive un giallo ambientato nel Medioevo talmente zeppo di storia e filosofia che personalmente ci preparai una parte del mio esame di storia medievale all’ Università. Ma riflusso è anche l’intuizione di Pier Vittorio Tondelli che dentro ciascun individuo abita l’autore di un romanzo e a maggior ragione in un adolescente. Di qui l’idea di Under 25, l’inchiesta su giovani e scrittura letteraria, che propone un nuovo modello al rapporto intergenerazionale: il fratello maggiore diventa l’esperto del mestiere; crescere è un apprendistato, non più della vita bensì del mestiere appunto della scrittura. Il mondo è una questione di competenza. Vince chi conosce la professione. Il riflusso gravava sulla nostra generazione come un giudizio morale. Eravamo la generazione del riflusso come se fosse colpa nostra. Abbiamo perciò atteso il nostro turno come un riscatto. Perché il riflusso resta legato all’idea di ciclo. Onda, riflusso, nuova onda. Dunque, noi abbiamo atteso l’onda. Questa ripoliticizzazione della parola, tuttavia, non sposta di molto la questione. Si resta comunque prigionieri della metafora. Qualche anno fa le edizioni del Manifesto hanno mandato in libreria un libro dal titolo quanto mai altri sintomatico: C’era un’ Onda chiamata Pantera. Se dovessi rispondere oggi, direi: non c’è riflusso, ci sono solo sconfitte. Gli anni ottanta sono cominciati con una sconfitta, o meglio a partire da una sconfitta. Una sconfitta in due tempi: primo, il 1976-1978; secondo, la marcia dei quarantamila. Sul piano globale, come si dice oggi, la Thatcher e poi Reagan. Dopo che si poteva fare?
Il 1989 segna la fine della Domenica del Corriere. Che si trasformerà in Visto. La storia abbandona le masse trasformandosi in cronaca rosa e nera. L’abito diventa costume. Del resto Guy Debord ci aveva messo in guardia almeno due decenni prima della trappola della grande festa. Dalla Domenica del Corriere alla Domenica delle Salme di De André. Quel videoclip girato da Salvatores – sicuramente un regista sul pezzo degli anni ottanta e novanta – è un po`il manifesto della fine delle ideologie di cui parli tu. Della catena di trasmissione che si inceppa nel passaggio da padri a figli e che si ricostituisce con i nipoti. Pensa per esempio a come nel film Terra e libertà di Ken Loach, l’eroe inglese delle Brigate Internazionali David Carr rivive grazie alle ricerche di sua nipote.
Sarebbe bello se fosse così, se per così dire si potesse saltare una generazione, con i nipoti che vanno a cercare dai nonni le risposte che padri e madri non sono in grado di dare loro. Se fosse così, sarebbe come è sempre andata in fondo. Ma dubito che vada così. Bisognerebbe però fermarsi su questo incepparsi della catena della trasmissione generazionale al passaggio degli anni Ottanta, perché lì stanno molte cose che ci riguardano, la politica, la scuola, l’educazione. Una immagine troppo corriva del Sessantotto enfatizza il conflitto edipico: i figli che si ribellano ai padri. In realtà il Sessantotto è zeppo di passato e in particolare fitto di rapporti intergenerazionali. Senza questo passato, senza i maestri, non ci sarebbe stata la rivolta. La solitudine dei giovani degli anni Ottanta è invece pressoché totale. Abbiamo lavorato con poco.
Adesso ti propongo dei passaggi del tuo libro a cui seguono delle domande specifiche.
La fine dell’adolescenza, scrive Péguy, è l’inizio dell’apprendistato. Ed è questo il momento in cui gli anziani del mestiere, e i migliori tra essi, si fanno «maestri» dei piú giovani. Questa relazione, come tutte le relazioni educative degne di questo nome, non ha per fine la trasmissione del mestiere ma l’abilitazione nell’apprendista della capacità di fare da solo: fare in modo il più presto possibile che i giovani diventino bravi operai cosí da non avere più bisogno di alcun maestro. E i maestri, aggiunge Péguy, non sono mai cosí felici come quando i loro apprendisti diventano migliori di loro, sono i maestri e non i rivali dei loro giovani allievi. È in questo che consiste il dovere del fratello maggiore. È questo il valore rivoluzionario della fratellanza.
Riunione TQ, Roma 29 aprile 2011, sede Laterza. Nella foto da nord a sud, Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Antonio Scurati.
C’è come il tradimento di tale valore, nei fatti ,dei fratelli maggiori ed è un sentimento che attraversa un po’ tutto il libro. Quando una decina di anni fa c’è stato il movimento TQ, (lo avevi seguito?) nel manifesto redatto per lo più da trentenni (Raimo, Lagioia, Vasta, Cortellessa) era questione dei padri (generazione ’68) e dei figli. Io che ne facevo parte come fuori quota ebbi chiara come mai questa tua percezione, ovvero che la nostra generazione brevissima (leva calcistica 66-73) fosse stata bypassata dalla storia. I nostri fratelli maggiori erano diventati padri e quelli minori figli. Ti va come traccia?
Avevo seguito il lavoro di TQ da lontano. Ho letto i suoi manifesti, il primo più lungo e impegnativo e i due successivi su editoria e spazi pubblici. Poi basta, non saprei se hanno prodotto poi altro. Intanto siamo tutti invecchiati e quella prospettiva Trenta-Quaranta che corrispondeva ad un dato anagrafico all’inizio degli anni Dieci è stata superata dal mero scorrere del tempo. Ognuno ha fatto carriera a modo suo e oggi la posizione di chi si sente tagliato fuori riguarda altri, non certo quella generazione. Ma si può costruire una posizione pubblica sulla base di un sentimento di esclusione? Non mi ha mai convinto TQ. C’era nel suo modo di definirsi un tanto di corporativo che mi disturbava. Già il definirsi “lavoratori della conoscenza” e la pretesa muoversi sulla base di una “concezione operativa della cultura”, a parte il tono buro-sociologico che è una vera e propria sventura di certi ambienti intellettuali, tradiva un’intenzione poco chiara. Per certi versi quel documento sembra una deliberazione congressuale della CGIL scuola, che mi pare si sia rinominata come Federazione dei lavoratori della conoscenza. A dispetto della richiesta di confronto, quei manifesti contenevano piuttosto scoperta una richiesta di associazione. Era il loro uno spazio pubblico concepito privatisticamente, a partire da una rivendicazione di specifico professionale e quel tanto di orgoglio giacobino nella formulazione stentorea di “siamo cittadini” mi pare contraddetto nei fatti di un’argomentazione che ha altri presupposti. Non si capiva bene, per la verità, nemmeno su che base dovesse avvenire il confronto con i propri maggiori. Che non venivano nemmeno esplicitamente individuati, essenso scontato per tutti che fossero latamente dei “sessantottini”. Si dava perciò per scontato che i fratelli maggiori avevano fatto degli errori. Ma questo è un modo di procedere per assunti. Non c’era nessun serio tentativo di fare i conti con quegli eventuali errori. Quali fossero, chi li avesse commessi e in quale contesto non era dato saperlo. Insomma, come al solito si restava sulla soglia di una enunciazione puramente metodologica. Di fatto di quel gruppo, i più noti e combattivi hanno fatto quello che volevano, legittimamente, ma non hanno costruito nessuna “posizione pubblica”. Tutto il loro impegno si è svolto sul piano privato della professione.
Mentre vero era il tema dell’interruzione del legame generazionale. A chi guarda agli anni Ottanta da una certa distanza non può sfuggire come le occasioni e le condizioni di dialogo si interrompano bruscamente. Non ci sono più luoghi, non ci sono più temi. Manca l’audacia di proporne di nuovi. Manca innanzitutto la preparazione culturale per individuarli e discuterli. Io insisto su questo, non si può lamentare la crisi della scuola pubblica se ci si ostina a cogliere questa crisi, diciamo così, sul terreno del welfare e della mobilità sociale. Non che questo non sia vero, ma la difficoltà della generazione è innanzitutto legata alla disarticolazione dei linguaggi culturali e con questo il crollo delle ideologie, il tramonto del marxismo, c’entrano solo fino ad un certo punto. Altrettanto e forse più decisivo è l’atteggiamento generale della generazione nei confronti della comprensione del mondo attraverso strumenti intellettuali. Il sessantotto non è mica nato dalla spinta soggettiva dei sessantottini. Scuola, università, editoria, per non parlare di alcune componenti che attengono alla sfera dei rapporti morali, a cominciare da una certa disciplina giovanile. Dopo è stato tutto un gran casino, ma l’operaismo italiano in tanto ha esercitato un ruolo in quanto era innanzitutto una disciplina. Dopo, invece, questo ce lo siamo voluti dimenticare e l’accento è stato messo solo sulle pratiche controculturali, ma su queste basi nessuno mai ha imparato niente. Sarebbe stato un bel tema questo per la generazione TQ, a partire dal quale tra l’altro si sarebbe potuto impostare in modo più rigoroso e meno vago il problema del rapporto generazionale che è anche un rapporto di allievi e maestri. Non mi risulta che sia mai stato all’ordine del giorno della parte pensosa della generazione Trenta Quaranta.
Il Risorgimento, il Fascismo, la Resistenza e la Repubblica, persino il Sessantotto, guardati al di là della frattura che separa la fine degli anni Ottanta dai due decenni precedenti stanno tutti sullo stesso piano come una terra remota, e diventano altrettante illustrazioni possibili della figura della estraneità. culturale.
Questo passaggio del libro riassume un po’ il piano dell’opera. Mi ha fatto pensare per esempio al film di Mario Martone, noi credevamo, in cui è tangibile la trasposizione temporale degli ideali e comportamenti giovanili degli anni settanta all’epoca del RIsorgimento. Mazzini al cuore della congiura dipinto come un cattivo maestro alla stregua di Toni Negri. Una domanda, perché in Italia non c’è mai stata un’amnsitia per gli anni di piombo?
La questione è, come si dice, complessa e riguarda la storia d’Italia e non semplicemente gli “anni di piombo”. E in modo particolare investe in pieno il significato dell’esperienza repubblicana dal 1945 in poi. Innanzitutto la formula “Anni di piombo”. Come è noto è un film che l’ha imposto alla rappresentazione del passaggio ’70-’80. La prima questione è la seguente: può il fenomeno di cui stiamo parlando, la violenza politica, restare confinato nel perimetro cronologico definito da quella formula? O, come d’altronde suggerisce lo stesso riferimento al film di Martone, non siamo di fronte, parliamo naturalmente del caso italiano, ad un fenomeno come anche in questo caso usa dire di “lunga durata”? Seconda questione: che giudizio dare dell’esperienza democratico-repubblicana? Siamo stati, nella seconda metà del Novecento, un paese di trame, non tutte vere certo, ma alcune molto ma molto verosimili. Eravamo un paese nel cuore del conflitto geopolitico e sul nostro terreno si sono confrontati tutti i protagonisti e i comprimari della guerra fredda. Se però guardiamo alla nostra storia post seconda guerra mondiale nel contesto geografico delle nazioni vicine, ebbene non possiamo non notare che al di qua della cortina di ferro, siamo stati anche l’unico paese mediterraneo, insieme alla Francia, che non ha dovuto subire l’oltraggio di una dittatura di destra o esplicitamente neofascista. E questo pure conta qualcosa.
Dai due quesiti e dalle considerazioni che vi sono legate discendono alcune conseguenze sulle quali conviene riflettere: primo, gli anni di piombo non sono il modo più perspicuo di inquadrare il problema del rapporto tra storia d’Italia e violenza politica; che al di là dell’esperienza vera e propria della lotta armata (che diamo per scontato, tra l’altro, essere solo quella delle formazioni marxiste-leniniste), esiste un problema più ampio di profonda legittimazione della violenza come forza storica agente nella formazione della moderna Italia politica: il brigatista sta al termine di una storia che comincia con il volontarismo risorgimentale, attraverso la mediazione della resistenza. Questo non vuol dire che il brigatista è un patriota, ma che il mito della rivoluzione è un elemento costitutivo del codice genetico della nostra identità storico culturale. La seconda questione che vorrei mettere in evidenza riguarda il valore della nostra esperienza democratica. La guerra civile, indipendentemente dal valore da attribuire a questa formula a cominciare dalla pertinenza della sua applicazione alla vicenda degli anni Settanta, intanto è legittima in quanto condividiamo uno stereotipo negativo di quella che ho appunto definito la nostra esperienza repubblicana e democratica. Se l’Italia repubblicana non è altro che un prolungamento dello Stato fascista che sopravvive alla frattura della resistenza e si riproduce in una serie infinita di trame nere e nerissime, allora la repubblica è illegittima, la lotta armata necessaria, la pacificazione giustificata. Ma veramente la nostra esperienza democratica è così pessima? Nella storia non esiste il bianco e il nero. Nel quadro molto difficile del mediterraneo della guerra fredda non siamo stati la Spagna franchista, né la Grecia dei colonnelli. Dovremmo considerare anche questo nella interpretazione complessiva degli “anni di piombo”. Nessuna democrazia ha dovuto subire un assalto di quella portata. L’Italia non è venuta meno alla fedeltà alle sue istituzioni democratico-repubblicane. Per me questo è molto importante sia come cittadino, che come studioso.
Certo sono anche consapevole di un’altra questione: come portarsi appresso sulla scorta delle riflessioni appena fatte il mito della rivoluzione? A mio avviso questa cosa non è possibile senza pensare contemporaneamente il “moderno principe”, senza cioè un’idea dell’egemonia. In questo resto un allievo di Antonio Gramsci (con buona pace di Negri e del Settantasette)
C’è una vera e propria colonna sonora che fa da tappeto alla tua narrazione. Un tapis roulant in cui ogni fase di ogni epoca sceglie i propri cantori. Se il cantautorato è passato dagli anni settanta agli ottanta abbastanza indenne: De Gregori, Guccini, De André solo per citarne alcuni, ho l’impressione che i nostri coetanei siano arrivati sulla scena solo negli anni novanta: 99 Posse, Alma Megretta, Assalti frontali, Sud Sound Sistem, Con il senno di poi, se penso agli anni duemila, ho trovato molto della nostra lost generation in Daniele Silvestri, Carmen Consoli, Max Gazzé. Del primo nostro coetaneo ricorderai il concerto “Cose che abbiamo in comune”.
Certo, le cose che abbiamo in comune le canto da sempre, da quando mi hai detto “ma dai, pure tu sei degli anni ’60”. È la grande questione della nostra generazione. Perché i suoi mitopoieti sono rimasti così profondamente legati agli anni Sessanta. SIamo nati negli anni Sessanta, alla fine, e i più giovani all’inizio del decennio successivo, ma siamo cresciuti nella grande ombra proiettata dal decennio ribelle, quello dell’ orda d’oro codificata da Nanni Balestrini e Primo Moroni. Lì sta il paradigma del giovane come forma di vita. In realtà entrambi i modelli, l’originale e il derivato, non sono altro che l’estremo prolungamento dell’arco della cultura romantica nel pieno, estremo, Novecento. Semmai è prendere atto di una frattura, di una interruzione della tradizione a cui il Sessantotto aveva dato un nuovo, straordinario, impulso. Quando si è prodotta questa discontinuità, dove dobbiamo collocarla cronologicamente e dunque quali sono le sue coordinate storico-culturali. Il Sessantotto ha usato elementi romantici per dare forma ad una figura che era maturata lentamente a partire dalla fine dell’ Ottocento e che la fine della seconda guerra mondiale aveva trasformato in un nuovo protagonista della società occidentale: l’adolescente. È agli anni Ottanta-Novanta del diciannovesimo secolo che risalgono i primi tentativi da parte delle scienze sociali, psicologia in testa, di decifrare una figura che le trasformazioni della società industriale ritagliavano in forme nuove nello svolgimento lineare delle età della vita. La rivoluzione francese, come brillantemente mostrato da Franco Moretti nel suo Romanzo di formazione, aveva fatto emergere il giovane come forma simbolica del moderno. L’ultimo ottocento conosce l’adolescente come forma simbolica delle classi pericolose. La cultura romantica ha contribuito a rivestire questa figura di un’aspirazione alla ricostruzione della vita su basi rinnovate che il Sessantotto ha fatto propria, contribuendo da parte sua a rilanciarla nell’ultimo quarto del XX secolo. Bisogna prendere atto che questo ciclo è finito e che l’adolescente è oggi una figura sempre più sbiadita culturalmente. Vi contribuiscono in particolare la delegittimazione dei processi formativi, quella che chiamiamo di solito la crisi della scuola, della scuola secondaria come terreno di coltivazione dell’adolescenza, è la disoccupazione strutturale di massa che da quarant’anni ha trasformato il lavoro in un’ ossessione e ha finito per esercitare una pressione vittoriosa nell’attrarre la giovinezza, età sognante e dei dubbi sistematici, sul terreno pratico operativo della professione.
A proposito dei maestri, io ho sentito nel tuo lavoro l’eco della “scuola napoletana” che va da Vico e giunge a Macry e Barbagallo. Una scuola per certi versi molto vicina a quella degli annales francesi.
Non c’è nessun legame tra passato e presente nella cultura accademica napoletana. La tradizione si è interrotta con Benedetto Croce e la nuova generazione ha preso, giustamente, altre strade. In mezzo ci sono stati i francesi, come giustamente ricordi. Ho davanti a me un libro di Fernand Braudel, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, così importante per il ripensamento di categorie centrali del discorso storico sull’Italia e sulla fine del suo primato nella prima età moderna. Ebbene, se sfoglio le pagine di questo libro, verso la fine, mi imbatto nel paragrafo del capitolo sul bilancio da fare della transizione 1633-1650, intitolato “Spiegare il caso di Napoli”. Fin dal primo capoverso chi legge, si imbatte in un elenco di autori “recenti”, tra i quali compaiono autori e professori della Federico II, a cominciare da Villani. Se richiamo alla memoria il ventenne che ero quando leggevo queste pagine, mi ricordo lo stupore, il fascino di muovermi in un mondo intrecciato di legami intellettuali prestigiosi e rilevanti. Non ero allievo di Villani, ho studiato con Aurelio Lepre, nei nostri anni Giuseppe Galasso non insegnava, era un politico di livello nazionale, personalmente l’ho incontrato molto dopo, ma c’era Ettore Lepore (e naturalmente tanti altri). Lepore teneva un piccolissimo seminario di Storia della storiografia (accanto al suo magistero di antichista). Lui sceglieva un autore, ne introduceva l’opera in un paio di lezioni, per il resto toccava a noi. Lettura e commento di un classico della storiografia o della sociologia otto-novecentesca, pagina per pagina. Prendeva diligentemente appunti. Sono conservati in attesa che qualcuno decida di custodirli come si deve, con il rispetto istituzionale obbligatorio nei confronti di un maestro di quella levatura, decine di taccuini che sono il prezioso documento di un modo di fare scuola. Negli anni si succedono i nomi e le osservazioni di studenti che sono diventati poi studiosi, professori universitari. Questa è stata la nostra università. Forse non c’erano più maestri, gli stessi professori che abbiamo incontrato non si sentivano autorizzati a considerarsi tali, ma abbiamo studiato con passione, con la profonda convinzione che quello che capivamo fosse un modo di condurre su altre basi una battaglia politica. La rivoluzione, per dirla in altro modo, per noi era un modo di continuare lo sforzo di penetrazione intellettuale della realtà. Se non si capisce questo, non si capisce niente dell’ultima generazione novecentesca, Pantera compresa.
Muoversi a partire dalla fine, senza perdere coscienza del modo in cui la fine si è prodotta, significa non accettare nessuna ipotesi riconciliativa sul passato, ma fare attenzione ai modi effettivi di esercizio del potere culturale nella società. Chi secondo te ha tentato e tenta quest’ipotesi riconciliativa?
Il discorso sull’eredità del Sessantotto resta largamente tributario di forme di rappresentazione autobiografiche. Non sorprende, chi è stato nel cuore degli eventi ne porta segni profondi nella memoria. Ma che dobbiamo fare noi che non abbiamo incrociato accadimenti significativi e che pure di questa assenza di una impresa abbiamo portato un segno altrettanto indelebile? Siamo stati iscritti d’ufficio all’interno di uno spazio dell’esperienza definito come “riflusso”, “ritorno del privato” e così via. Sembra che alla nostra generazione non restasse altra via che il racconto di una vicenda personale irrisolta, balbettante, indecisa. Io invece ho voluto raccontare gli anni Ottanta, l’ho voluto fare con gli strumenti dello storico, ho frequentato archivi, biblioteche, sfogliato giornali, ascoltato musica e rivisto film. Sono entrato nella carriera accademica molti anni fa con una tesi di dottorato dedicata alla storia dell’apparato culturale del fascismo attraverso un angolo visuale molto particolare, quello dei libri per l’infanzia e della politica della lettura. Mi pare di aver scoperto un conflitto nella sfera della ricezione a cui altri storici non avevano fatto caso. Quando si parla di cultura fascista si assume la rappresentazione totalitaria che il fascismo produce di sé, descrivendo l’apparato culturale in tutta la sua imponenza, secondo quanto il fascismo stesso ha voluto tramandare. Io seguii all’epoca un’altra strada. Mi interessai al lettore e considerai gli scrittori di libri per bambini a loro volta come dei lettori.
Di qui l’idea dell'”appropriazione imperfetta”, la constatazione cioè di un limite che il fascismo nella sua pretesa di inquadrare totalitariamente la società italiana non riuscì mai a valicare. Feci tesoro della lezione di Asor Rosa e la trasferì su un terreno che nessuno aveva pensato di arare. Con questo libro ho fatto lo stesso. Sono partito da un profondo scetticismo nei confronti della rappresentazione dominante degli anni Ottanta e mi sono chiesto: chi sono i protagonisti del racconto del riflusso? Non certo noi che il Sessantotto non l’avevamo fatto, che al limite ci eravamo nati. Di conseguenza, come apparivano gli anni Ottanta guardati non da quelli che negli anni Ottanta cominciavano ad invecchiare, ma dal punto di vista di coloro che nel decennio cominciavano appena ad affacciarsi alla vita pubblica?
Concependo e scrivendo questo libro non potevo certo fare finta di niente, dovevo tenere conto del fatto che io c’ero e degli anni Ottanta, già allora, avevo un’idea precisa, come di una terra d’esilio. Di qui la necessità di una scrittura che al tempo stesso cercasse di oggettivare la propria materia senza però fare, appunto, finta di niente. Ci sono riuscito? Lo diranno i lettori. Il punto è che una posizione del genere, inevitabilmente anfibia, tra rigetto programmatico della rappresentazione del decennio come “privato” e vibrazioni fatalmente personali dell’organo della scrittura a contatto con cose così vicine, deve fare i conti con questioni come nostalgia, rimpianto, dolore. Si può tornare sul passato, su un passato così intimamente legato alla propria formazione, senza per questo indulgere in atteggiamenti di autobiografismo compiaciuto o di luttuoso monocorde rifiuto come succede a tante rappresentazioni del paese mancato. Si può, ed è questa la proposta del libro, fare di questo passato, con tutta la consapevolezza intellettuale della frattura intercorsa nel frattempo, una postazione da cui guardare al presente in modo conflittuale, per sottrarre questa volta il presente al suo compiaciuto sentimento di “bastare a sé stesso”. Nessun presente, mai nella storia, è “bastato a sé stesso”. Che lo voglia o no, è il risultato del passato e assumere conoscitivamente il passato è un modo per sottrarre alle forze attualmente dominanti la propria sicumera. Io non conosco un altro modo di combattere.
Concluderei a questo punto con un interrogativo che ponevi in una discussione di gruppo qualche tempo fa.
Ma qui si apre un altro problema: potevamo fare quel che realmente volevamo fare, stare insieme, provare entusiasmo, senza illuderci di fare quello che era comunque impossibile fare? Questione: è possibile vivere senza rivoluzione?
È il cuore del libro. Bisogna arrivarci. La rivoluzione è stata la nostra forma.
C’è un luogo oscuro dell’anima in cui i sogni sono inghiottiti dalla paura. È lì che finisce l’amore. Volevo partire. Nulla mi tratteneva. Sentivo il caldo dell’isola come una prigione. Invadeva il mio respiro.
Senza dire niente a nessuno salii su un treno, poi su un aereo, su un altro treno e così di seguito, finché non mi resi conto che non c’era scampo dai pensieri.
Mi fermai in un paesino dal nome straniero. Affittai una casa sul lago. I pavimenti di legno e un pianoforte al centro del salone. Non suonavo da settimane e guardavo la tastiera come una nemica. Mi era ostile.
La musica era stata il mio inganno: promesse mai mantenute, ore spese a cercare ossessivamente quel suono. E il pensiero di lei, che avevo mandato via.
Scesi in strada; l’odore di roba da mangiare, i gas di scarico, il profumo dei fiori mi stordirono. C’erano donne che lavavano i piatti sui marciapiedi e bambini in bicicletta.
Entrai nel mercato pieno di colori e di rumori. Presi del riso e mi lasciai convincere da una ragazzina bruna che vendeva ogni tipo di spezia a comprare cose che non avrei usato mai.
Al banco accanto al suo, un uomo esponeva collane e anelli di argento lavorato come un ricamo. C’era un bracciale, di quelli alla schiava. D’un tratto pensai alle sue mani, i polsi sottili, la pelle dorata d’estate: avrei voluto vederglielo addosso.
Le dissi che l’amore non basta: «Forse può bastare ai ragazzini, ma noi, con l’amore, dove credi che andremo?» Lei mi guardò con i suoi occhi smarriti e increduli. Poi si voltò e uscì dalla stanza.
In quel momento mi sentii quasi sollevato: ero libero. Ora vorrei che fosse di nuovo accanto a me, ma non la so cercare.
La casa dei miei genitori affacciava sul mare, e quand’ero bambino, d’inverno, seduto al pianoforte, mi incantavo a guardare dalla finestra le onde infrangersi sugli scogli: il rumore della risacca mi teneva compagnia.
D’estate invece vedevo i compagni tuffarsi e giocare, ridere felici senza pensieri e avrei voluto raggiungerli, sentirmi anch’io leggero. Ma in me c’era una voce che mi chiamava:«Vieni qui, non la senti questa musica? Non senti com’è bella? Vieni a suonare!». Il metronomo era come un soldatino che per mano mi conduceva lungo la strada che avrei seguitato a scegliere, la sentinella che vegliava sui miei desideri di ragazzo. Non seppi mai tradire quella voce; non volli farlo mai.
Aggredii la tastiera con rabbia. Le note correvano veloci. Ero solo. Non pensavo a niente. D’improvviso però i ricordi si insinuarono.
Lei indossava un vestito leggero, di un azzurro chiaro, con tanti fiorellini bianchi simili a piccole campanule. Con un dito tracciava il percorso di un viaggio immaginario: «Dovremmo andarci in macchina, o in moto». «Sogni troppo».«Ma i sogni vanno fatti in grande! Ci pensa la realtà a ridimensionarli!».
Imboccai una strada piena di vento, l’oceano mandava il profumo del mare, l’immagine vista mille volte di gente che arriva a ondate, fuggita da chissà dove, per provare a vivere.
Camminai finché il sole non si fece rosso dietro le case, dopo il ponte. L’aria era dolce di primavera. Una donna dai capelli biondi e lunghissimi chiuse la saracinesca di un negozio, le passai accanto, mi sorrise.
È il senso delle occasioni perdute che mi fa così male ora: le cose che avrei potuto fare con lei e che ho buttato via. Ma forse tornerà il futuro che immaginammo insieme, e forse sarà di nuovo bello, ora che i sogni sono grandi e vicini, e mi sembra di sfiorare l’infinito.
Chiudo gli occhi e vedo le strade alberate, i campi, i teatri, i cortili, le chiese della mia terra, il nostro mare.
Il suo viso è impresso nella mia mente, o forse è davvero lei, fra quella gente che in piedi ci applaude. La macchina ha il tetto scoperto. La strada è dritta davanti a noi, lucida di sole, con gli alberi e i fiori che si affacciano ai bordi. Siamo pronti. Partiamo.
L’altro amore
di
Maria Luisa Putti
C’è un luogo oscuro dell’anima in cui i sogni sono inghiottiti dalla paura. È lì che finisce l’amore.
Volevo partire. Nulla mi tratteneva. Sentivo il caldo dell’isola come una prigione. Invadeva il mio respiro.
Senza dire niente a nessuno salii su un treno, poi su un aereo, su un altro treno e così di seguito, finché non mi resi conto che non c’era scampo dai pensieri.
Mi fermai in un paesino dal nome straniero. Affittai una casa sul lago. I pavimenti di legno e un pianoforte al centro del salone. Non suonavo da settimane e guardavo la tastiera come una nemica. Mi era ostile. La musica era stata il mio inganno: promesse mai mantenute, ore spese a cercare ossessivamente quel suono. E il pensiero di lei, che avevo mandato via.
Scesi in strada; l’odore di roba da mangiare, i gas di scarico, il profumo dei fiori mi stordirono. C’erano donne che lavavano i piatti sui marciapiedi e bambini in bicicletta. Entrai nel mercato pieno di colori e di rumori. Presi del riso e mi lasciai convincere da una ragazzina bruna che vendeva ogni tipo di spezia a comprare cose che non avrei usato mai. Al banco accanto al suo, un uomo esponeva collane e anelli di argento lavorato come un ricamo. C’era un bracciale, di quelli alla schiava. D’un tratto pensai alle sue mani, i polsi sottili, la pelle dorata d’estate: avrei voluto vederglielo addosso.
Le dissi che l’amore non basta: «Forse può bastare ai ragazzini, ma noi, con l’amore, dove credi che andremo?»
Lei mi guardò con i suoi occhi smarriti e increduli. Poi si voltò e uscì dalla stanza.
In quel momento mi sentii quasi sollevato: ero libero. Ora vorrei che fosse di nuovo accanto a me, ma non la so cercare.
La casa dei miei genitori affacciava sul mare, e quand’ero bambino, d’inverno, seduto al pianoforte, mi incantavo a guardare dalla finestra le onde infrangersi sugli scogli: il rumore della risacca mi teneva compagnia. D’estate invece vedevo i compagni tuffarsi e giocare, ridere felici senza pensieri e avrei voluto raggiungerli, sentirmi anch’io leggero. Ma in me c’era una voce che mi chiamava: «Vieni qui, non la senti questa musica? Non senti com’è bella? Vieni a suonare!». Il metronomo era come un soldatino che per mano mi conduceva lungo la strada che avrei seguitato a scegliere, la sentinella che vegliava sui miei desideri di ragazzo. Non seppi mai tradire quella voce; non volli farlo mai.
Aggredii la tastiera con rabbia. Le note correvano veloci. Ero solo. Non pensavo a niente.
D’improvviso però i ricordi si insinuarono.
Lei indossava un vestito leggero, di un azzurro chiaro, con tanti fiorellini bianchi simili a piccole campanule. Con un dito tracciava il percorso di un viaggio immaginario: «Dovremmo andarci in macchina, o in moto».
«Sogni troppo».
«Ma i sogni vanno fatti in grande! Ci pensa la realtà a ridimensionarli!».
Imboccai una strada piena di vento, l’oceano mandava il profumo del mare, l’immagine vista mille volte di gente che arriva a ondate, fuggita da chissà dove, per provare a vivere. Camminai finché il sole non si fece rosso dietro le case, dopo il ponte. L’aria era dolce di primavera. Una donna dai capelli biondi e lunghissimi chiuse la saracinesca di un negozio, le passai accanto, mi sorrise.
È il senso delle occasioni perdute che mi fa così male ora: le cose che avrei potuto fare con lei e che ho buttato via. Ma forse tornerà il futuro che immaginammo insieme, e forse sarà di nuovo bello, ora che i sogni sono grandi e vicini, e mi sembra di sfiorare l’infinito.
Chiudo gli occhi e vedo le strade alberate, i campi, i teatri, i cortili, le chiese della mia terra, il nostro mare.
Il suo viso è impresso nella mia mente, o forse è davvero lei, fra quella gente che in piedi ci applaude.
La macchina ha il tetto scoperto. La strada è dritta davanti a noi, lucida di sole, con gli alberi e i fiori che si affacciano ai bordi.
Edward Hopper, Chop Suey (1929), collezione privata.
___
Da: Fu Pei Mei, Pei Mei’s Chinese Cook Book [Pei Mei Shi Pu], Chinese Cooking Class Ltd., Taipei, 1969; traduzione in italiano di Giuseppe Sofo.
Chop Suey
Ingredienti
85 grammi di carne di maiale; ½ rene di maiale; 1 seppia o calamaro (opzionale); 170 grammi di gamberetti sgusciati; 85 grammi di maiale arrosto o una fetta spessa di prosciutto cotto; 1 germoglio di bamboo (cotto); 1 carota (cotta); 1 peperone verde; 50 grammi di cipollotti; 140 grammi di germogli di soia; 60 grammi di spaghetti di riso o vermicelli di riso; 2 cucchiai di salsa di soia; 2 cucchiaini di sale; 1 cucchiaino di olio di sesamo; ¼ di cucchiaino di pepe nero; 1 litro d’olio di semi di arachide.
Ricetta
Tagliate tutti gli ingredienti a striscioline, eccetto i gamberetti;
Scaldate l’olio finché diventa ben caldo, friggete gli spaghetti di riso fino a quando prendono volume e assumono un leggero colore dorato (bastano solo 3 secondi per lato). Toglieteli dal fuoco, disponeteli in un piatto e frantumateli.
Usate lo stesso olio per friggere il maiale, il rene, la seppia e i gamberetti per circa mezzo minuto, poi rimuovete il tutto dalla padella e fate asciugare l’olio in eccesso.
Riscaldate cinque cucchiai di olio in una padella e fate saltare il prosciutto cotto o il maiale arrosto, il germoglio di bamboo, la carota e il peperone verde. Aggiungete i germogli di soia e fate saltare per ½ minuto. Aggiungete gli ingredienti fritti precedentemente (maiale, rene, seppia e gamberetti) e i cipollotti; mescolate bene, aggiungete la salsa di condimento, saltate in padella fino a fine cottura, e versate sopra agli spaghetti di riso fritti. Servite caldo.
NOTE:
Molti di questi ingredienti sono opzionali. Aggiungete ciò che preferite.
I germogli di soia e i cipollotti non vanno fritti molto a lungo, fate in modo che restino croccanti.
Il nome di questo piatto in Cina è “Lee Gone Chop Suey” ed è un piatto cantonese. Fu servito per la prima volta al Generale Lee Hon Chung mentre si trovava in Giappone 74 anni fa. Era sera, ed era troppo tardi per servire un vero e proprio pasto. Il cuoco ha riunito tutti i resti che aveva in una miscela da saltare in padella. Questo nuovo gusto piacque così tanto al Generale che diventò il suo piatto preferito e prese il suo nome.
___
[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
[Da pochi mesi è uscita per Einaudi l’antologia bilingue Un male strano. Poesie d’amore di Ausiàs March, a cura di Cèlia Nadal Pasqual e Pietro Cataldi, corredata da un’introduzione e da un ampio commento, oltre che da apparati sulla ricezione e le traduzioni di March. Pubblico in anteprima il canto II, seguito dal testo in lingua originale, ringraziando i curatori. ot]
Statua di Ausiàs March a Gandia
a cura di Cèlia Nadal Pasqual e Pietro Cataldi
Mi accade come al marinaio che in rada
ha il suo naviglio e lo crede un castello;
vedendo il cielo tanto chiaro e bello,
crede per fermo che un’ancora basti.
E sente d’improvviso un temporale
tempestoso, e un tempo insopportabile;
cambia giudizio: se molto durasse,
un porto, e non resistere, gli vale.
Molte volte che un vento è fortunale
non c’è salvezza se non muta lato,
e quella chiave che ci chiude nell’armadio
la stessa porta non la riaprirà.
Cosí è per me, che mi trovo innamorato
per l’eccesso di piacere che da te mi viene, amore:
del non amare, il dispiacere ha la via,
ma un passo mio non ci si troverà.
Finché i pesci non troverai nel bosco
e i leoni nell’acqua avranno albergo,
il mio amore non ritornerà indietro,
purché ti sappia contenta di me;
e confido che ben saprai conoscermi,
e, conosciuto, non sarò scontento
di tutti i mali che ho per te sofferto;
vedrai le fiamme lí d’amore crescere.
Se il desiderio ti ho mostrato male,
credimi, amore vero non mi è lontano;
più caldo del sole nel mese di giugno
arde il mio cuore fragile senza un dono appagante.
Altri non io di ciò porta la colpa;
tu odialo, se un servitore umile
per una sua mancanza a te nasconde;
ed è l’Amore che me, amante, incolpa.
Il mio volere si avvolge della ragione
e in accordo la qualità perseguono
con atti che vanno il corpo privando
di tanta sua carne in piccolo tempo.
Il sonno scarso dà magrezza al corpo,
raddoppia il pensiero per contemplare Amore;
un corpo grasso, abbandonato al sonno,
non muove un passo in questa aspra salita.
Piena di senno, donami una crosta
del pane tuo, che l’amaro mi tolga:
di ogni cibo mi ha preso gran disgusto,
se non di quello che tanto amor mi costa.
___
Pren-me’n axí com al patró qu·en platga
té sa gran nau e pens aver castell;
vehent lo cel ésser molt clar e bell,
creu fermament d’un·àncora ssats haja.
E sent venir soptós hun temporal
de tempestat e temps incomportable;
leva son juhi: que si molt és durable,
cerquar los ports més qu·aturar li val.
Moltes veus és que·l vent és fortunal,
tant que no pot surtir sens lo contrari,
e cella clau qui us tanqua dins l’armari
no pot obrir aquell mateix portal.
Axí m’à pres, trobant-m·anamorat,
per sobresalt qui·m ve de vós, m·aymia:
del no amar desalt ne té la via,
mas hun sol pas meu no y serà trobat.
Menys que lo peix és en lo bosch trobat
e los lleons dins l’aygu·an lur sojorn,
la mi·amor per null temps pendrà torn,
sol conexent que de mi us doneu grat;
e fiu de vós que·m sabreu bé conéxer,
e, conegut, no·m serà mal grahida
tota dolor havent per vós sentida;
ladonchs veureu les flames d’amor créxer.
Si mon voler he dat mal a paréxer,
creheu de cert que ver·amor no·m luny;
pus que lo sol és calt al mes de juny,
ard mon cor flach sens algun grat meréxer.
Altre sens mi d’açò merex la colpa;
30 vullau-li mal, com tan humil servent
vos té secret per son defaliment;
cert, és Amor que mi, amant, encolpa.
Ma volentat ab la rahó s’envolpa
e fan acort, la qualitat seguint,
tals actes fent que·l cors és defallint
en poch de temps una gran part de polpa.
lo poch dormir magres·al cors m’acosta,
dobla’m l’engýn per contemplar Amor;
lo cors molt gras, trobant-se dormidor,
no pot dar pas en aquest·aspra costa.
Plena de seny, donau-me una crosta
del vostra pa, qui·m leve l’amargor;
de tot mengar m’à pres gran desabor,
sinó d’aquell qui molt·amor me costa.
“In che peccai bambina?”
La domanda semplice di Saffo è quella che gli/le adolescenti si pongono quando si sentono rifiutati per ciò che sono, con genitori fratelli e cugini che dicono di amarli, ma che in effetti amano un’altra persona, non loro così come sono. Amano una persona che non esiste, perché non possono e non vogliono accettare quella che c’è, così come è.
La domanda semplice di Saffo corrisponde al grido d’ogni adolescente omosessuale che scopre l’esistenza del Caino sociale.
Come scrive Giacomo Leopardi: “Qual ne la prima età (mentre di colpa nudi viviam), sì che inesperto e scemo di giovanezza il mio viver corresse”.
In altri termini: essere omosessuali non è una scelta; essere omofobi oggi sì.
Il fattore “O”
Si tratta – semplicemente – di porre anche l’omosessualità nel novero delle opzioni, delle possibilità. Se gli americani hanno messo in gioco tale fattore per Melville e Thoreau, e gli inglesi per Tennyson e Swinburne, non si capisce perché noi italiani non dovremmo farlo per Leopardi e Pascoli.
Conosco bene le due obiezioni di fondo.
La prima: che prove hai?
Lo si chiederebbe supponendo eterosessuale un autore?
Certo che no! Perché quella è considerata la “norma”, non essendo ancora penetrata nel costume italiano la delibera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 maggio 1990 che definisce l’omosessualità “una variante naturale della sessualità umana”.
Non a caso quel giorno è ufficialmente ricordato nei paesi civili* come “Giornata mondiale contro l’omofobia”.
Seconda obiezione: che cosa cambierebbe nella nostra comprensione dell’opera se si dimostrasse che l’autore era omosessuale?
Significa semplicemente non voler comprendere che – per un autore omosessuale in un contesto sociale omofobico, come quello del nostro Otto-Novecento – il fattore “O” non è una questione di gusto personale, ma la questione centrale della sua esistenza e quindi della sua opera.
Come ha scritto Goffredo Parise: “Ogni uomo, uno scrittore, un poeta, un artista è quello che è la sua sessualità”.
A mia volta domando: per quante generazioni ancora gli studenti italiani dovranno sorbirsi tesi assurde? Il figlio del conte Monaldo restò celibe perché era infelice nell’apparenza fisica? In un tempo in cui il matrimonio era considerato anzitutto un accordo economico tra famiglie?
Ecco così stagliarsi il Leopardi segreto, quello ancora non accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere Ranieri con il mensile che gli passa Monaldo. E a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”. Napoli era pur sempre la città che in tutta Europa, come ha scritto Arbasino, “suscitava l’ammicco e il sorriso del connaisseur quale sinonimo ed epitome di sessualità a buon mercato e bisessualità disponibile ad ogni angolo di strada”.
Neutro accademico eterosessuale
In Italia non sono ancora penetrate in profondità nel tessuto critico-accademico istanze di studi di genere e di cultura omosessuale. E ancora appaiono nella loro stolidità i valori di sopravvivenza del neutro accademico eterosessuale, spacciato per universale, secondo la sapida definizione della ricercatrice Eleonora Pinzuti. Me ne resi conto nel 2012 in occasione del centenario pascoliano, quando tentai di includere l’omosessualità nel paradigma delle “possibilità” di lettura della biografia e dell’opera del poeta dei Canti di Castelvecchio. Ma l’eguale potrebbe accadere con Cesare Pavese. E potrei continuare con Clemente Rebora, Marino Moretti o Libero De Libero. Quante biografie di autori italiani appaiono irrisolte per via del pervicace rifiuto a rompere il velo di quell’indistinto grigiore.
E che non ci si permetta di speculare sull’esistenza di un’ipotetica “letteratura omosessuale”! Perché la radicata presenza nelle coscienze di un disvalore intrinseco al termine omosessuale ancora provoca un senso di svilimento e di ghettizzazione: lo stigma sociale. Con conseguenti censure, autocensure, necessità di mascheramenti e mistificazioni.
Ci sono migliaia di persone figli e nipoti di omosessuali. Solo che si trattava di gay velati e dunque attenti a non trasmettere la cultura omosessuale da loro vissuta in clandestinità.
Purtroppo non si hanno le testimonianze degli operai gay, dei fattorini gay, ma solo degli scrittori gay. O almeno di quel poco che hanno lasciato: Carlo Emilio Gadda distrusse tutto ciò che riguardava la sua sfera privata; Aldo Palazzeschi, pure. Così si rimane senza le testimonianze del popolo perché non sa scrivere (a meno che non vada sotto processo: allora sono visite mediche legali, referti da compulsare, verbali di polizia). E senza gran parte delle testimonianze degli scrittori, che decisero di “preservare” la propria immagine.
Oggi i più giovani forse nemmeno riescono a immaginare a che livelli potessero giungere nell’Ottocento e nel Novecento le censure e le autocensure. Leopardi, per esempio, si sentiva costretto ad autocensurarsi persino sul copernicanesimo e sul processo a Galilei, come egli stesso ammette nella lettera all’editore Stella del 27 settembre 1826. Figurarsi sulla sessualità!
Laicità
Giacomo Leopardi, mentre dalla Germania riceveva offerte di cattedre – rifiutate per timore del freddo, e nell’ultimo decennio anche perché sapeva che Ranieri non l’avrebbe seguito – a Roma avrebbe potuto ottenere cospicui benefici ecclesiastici, grazie alle conoscenze di Monaldo, che – avendo ben intuito la vera indole del figlio – desiderava proteggerlo, saperlo al sicuro. Sarebbero bastate la tonsura e l’abito, la quotidiana recita dell’ufficio… Ma Giacomo rifiutava sdegnato l’idea di mostrarsi “credente”. Come scrisse nella lettera a Luigi de Sinner del 24 maggio 1832: “E’ assurdo l’attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa”. E se nell’inno Ad Arimane Leopardi pare riconoscere l’esistenza di un dio del male (“arcana malvagità”), subito corregge l’impressione affermando di avere abbozzato tale divinità solo per poterla bestemmiare (“ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà”), perché in definitiva “mai io non mi rassegnerò”.
E a Napoli Leopardi non sopportava i letterati che si incontravano al Caffè d’Italia e avrebbero tanto gradito la presenza del “poeta”. Li trovava ridicoli con le loro metafisiche d’accatto, succubi di vacue filosofie e vuoti spiritualismi. Mentre egli era convinto che “d’ogni cosa terrena è rea solo ed unicamente la natura!”. La natura come unica fonte di male per i viventi. Nulla, assolutamente nulla di metafisico: e al centro della Ginestra c’è lo sterminator Vesevo, incarnazione della natura matrigna e indifferente, con una sola possibilità lasciata agli umani: lottare tutti assieme nella consapevolezza del loro reale stato di impotenza. Disperati ma unanimi: “e quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena”.
“Leopardi” – come scrisse Melville – “stoned by grief, / a young St. Stephen of the doubt”**.
O, come molto semplicemente scrive Giovanni Pascoli al cappellano militare Giovanni Semeria: “Io penso molto all’oscuro problema che resta… oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse”.
Pascoli, che più prosaicamente si conferma anticlericale al fratello Raffaele non appena giunge a Matera per insegnare al liceo nel 1882: “Ti dirò che né fetor di merda, né lezzo di prete potrebbe rendermi nojosa una città tanto quanto l’avidità schifosa dei suoi abitanti. D’un luogo lercio, che facea venire il vomito, con un letto tutto arrugginito e scacazzato, indovina quanto m’ha domandato un certo musetto tra di porco e di gesuita? Inorridisci… trentacinque lire”.
Annota Eugenio Montale nel suo diario del 1917: “Da tre giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle capriole della logica. Il dubbio è antifilosofico”.
E nel 1971 in Satura, scrive: “Tutte le religioni del Dio unico sono una sola: variano i cuochi e le cotture. Così rimuginavo; e m’interruppi quando tu scivolasti vertiginosamente dentro la scala a chiocciola della Périgourdine e di laggiù ridesti a crepapelle”.
Ma al riguardo lo scettro dell’icasticità spetta come sempre a Sandro Penna: “Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri di quel fanciullo io pregherò il mio dio. Ma il mio dio se ne va in bicicletta o bagna il muro con disinvoltura”.
E poiché entrerà anch’egli a pieno titolo nella nostra narrazione, ricordiamo l’anticlericalismo viscerale di Luigi Settembrini, il suo rifiuto in toto del cattolicesimo e del papato, la sua avversione per “quell’educazione fratesca che storpia l’anima e il corpo”, con il codazzo di “lascivie che sono in un convento di frati”.
Ricordiamo infine, a mo’ di sigillo a questa carrellata, i numerosi passaggi anticlericali presenti nell’epistolario di Leonardo da Vinci, volti a mostrare il subdolo inganno, la frode, persino non sempre pia: “Quelli che con vestimente bianche andranno con arrogante movimento minacciando con metallo e foco (alias: turibolo e incenso) chi non faceva lor detrimento alcuno”.
————————–
*Qualcuno ogni tanto mi chiede che cosa realmente io voglia dire quando scrivo “paesi civili”. Ebbene, il 28 novembre 2017 in parlamento il premier canadese Justin Trudeau chiese formalmente “scusa” alle persone Lgbt+ in passato oggetto di discriminazioni per il loro orientamento sessuale, stanziando cento milioni di dollari perché fossero – per quanto possibile – risarcite. Io definisco il Canada un paese civile.
Va da sé – per contro – ch’io definisca “eroiche” le persone che nei paesi con legislazioni omofobiche rischiano prigione e torture pur di affermare istanze Lgbt+.
**Leopardi impietrito dal dolore, giovane Santo Stefano del dubbio.
È uscito per Giometti & AntonelloBebuquin o I dilettanti del miracolo, romanzo dello scrittore tedesco Carl Einstein pubblicato nel 1912; in Italia, fu stampato per la prima volta dalle edizioni De Donato e troppo frettolosamente dimenticato. Oltre al romanzo, gli editori propongono in appendice alcuni saggi di Einstein a cura di Giusi Zanasi, che si è occupata anche della splendida introduzione.
Vi è, in queste pagine, una luminosa volontà di musicare la contraddizione, una forma superiore di conoscenza che consiste nel lanciare la scrittura fra i chiassosi avvitamenti del mondo per restituire uno sbigottimento da giostra del pensiero. Dopo più di un secolo di distanza, è giunto il momento di riconoscere l’importanza di Einstein, sommo e silenzioso infrangitore delle forme addestrate della visione.
«Se hai un desiderio agisci sempre in senso opposto […]. Non stia più a camminare su due gambe» viene sentenziato ad un certo punto da una delle figure del Bebuquin: ecco un esempio di gesto senza apparente cittadinanza, di istante in cui la ragione è chiamata ad inciampare contro se stessa per mostrare che il miracolo è la latente armatura della realtà.
Mi è sembrato opportuno, dunque, salutare questa ripubblicazione con un frammento da Credito italiano V.E.R.D.I di Carmelo Bene, scrittore particolarmente vicino a Einstein per l’umore delle invenzioni sulla pagina. Ospitati qui troverete inoltre il capitolo quarto del Bebuquin, e due frammenti dal saggio sulla totalità.
PRELUDIO (QUASI UN SALUTO)
da Credito italiano V.E.R.D.I di Carmelo Bene
Si svegliarono prima di domani, al suono del campanaccio delle capre, asfissiati dalla polvere tra le persiane, mentre l’alba versava all’illusione acqua rosa sugli orti e sulle case. Giacobbe, supino, intravedeva i nespoli rosati, e tutta una letteratura della miseria gli raccontava i peccati di mollica sulla tavola di un quotidiano patriarcale. Si rifugiava nel paradosso. Aveva avuto quello che non era; oggi era tutto quanto aveva perduto. Cominciò a dubitare del giorno dopo. Pensò di ricordare il suo avvenire punto per punto, e gli parve d’essere lui la sola persona capace di risolverlo, se non si fosse tolto di mezzo. Lo scoraggiava la sua stessa iniziativa: “quando uno ha fatto una cosa,” si convinceva sconsolato, “ne farà un’altra o, almeno, ne penserà un’altra da fare.” Poi simulava un maggior calore, “tutto questo perché non ho abbastanza fede,” dicendosi, “se avessi un dio di cui fidarmi, lascerei fare a lui, me ne starei disteso ad aspettare, lasciandomi morire qui, di fame, come ieri non ho voluto morire di sete!” Non era un anno, ormai, ma molto più, che gli era entrato in testa un chiodo fisso: che la fortuna lo perseguitasse, invereconda in una morsa di ferro. “Voglio vivere alla pari!” gridava tra i reclami dei vicini tutte le notti a Roma. “Voglio vivere zoppo se tu mi vuoi, ma di tutte e due le gambe, perché con una gamba sola si può volare.”
BEBUQUIN, O I DILETTANTI DEL MIRACOLO
Capitolo quarto
Da settimane Bebuquin guardava fissamente un angolo della sua stanza e voleva dare a quell’angolo della sua stanza una vita fuori di sé. Inorridiva nel dover dipendere da azioni incomprensibili e senza fine, che costituivano la sua negazione. Ma la sua esausta volontà non poteva produrre un granello di polvere; non poteva vedere niente ad occhi chiusi. – Deve essere possibile, proprio come prima si poteva credere a un Dio, che creò il mondo dal nulla. È penoso, che non possa mai arrivare alla perfezione. Ma perché mi manca persino l’illusione della perfezione?. – Notò allora che c’era ancora in lui una certa capacità di rappresentare il fattuale. Deplorò questa circostanza, benché gli apparisse del tutto indifferente. Non che in lui gli istinti in generale fossero morti. Diceva a se stesso che il valore era qualcosa di alogico, senza con ciò voler fare della logica. Non avvertiva alcuna forma di vita in questa contraddizione, ma solo annullamento, quiete. Non gli provocava nessun piacere la negazione. Disprezzava questi chiacchieroni pretenziosi. Disprezzava questa impurità dell’uomo drammatico. Diceva a se stesso che forse era solo la pigrizia a costringerlo a questa considerazione. Tuttavia le ragioni erano per lui fattori secondari. Si trattava del pensiero, il quale era logico, da qui venivano anche le sue motivazioni.
Böhm lo salutò a bassa voce e amichevolmente. Voleva, dopo la sua morte, tenersi un po’ da conto, poiché non sapeva ancora nulla di sicuro sull’immortalità. – È decoroso e la mette in buona luce il modo con cui lei, disprezzando la morte, si adopera per il logico. Ma purtroppo non le è stato possibile alcun successo, dal momento che lei accetta soltanto una logica e un non logico. In noi, mio caro, ci sono molte logiche in lotta tra loro e da questo conflitto scaturisce l’alogico. Non si lasci illudere da alcuni filosofi difettosi, che ciarlano continuamente sull’unità e sulle interrelazioni tra le varie parti, sul loro connettersi al tutto. Non siamo più così poveri di fantasia, da affermare l’esistenza di un Dio. Ogni vergognoso piegarsi ad una unità è soltanto un appello alla pigrizia dei nostri simili. Faccia attenzione, Bebuquin. Innanzitutto la gente non sa niente sulla costituzione del corpo. Si ricordi gli ampi mantelli luminosi dei santi negli antichi dipinti e abbia la compiacenza di prenderli alla lettera. Ma questi sono luoghi comuni. Il miracolo, mio caro, è ciò che le manca. Si rende conto ora perché scivola via da ogni genere di cosa? Lei è un visionario con mezzi inadeguati. Anch’io cercavo il miracolo. Pensi a Melitta, che cadde dal megafono, e come mi resi ridicolo. Le donne, in genere, servono solo per rendersi ridicoli. È una selezione giusta, proprio perché nella donna non c’è che stupidità. Perciò, per quanto la riguarda, si parla di possibilità e si finisce per pensare che la donna sia fantasiosa. Dopo la mia felice dipartita ho capito una cosa. Lei è un visionario; lei infatti non ha capacità sufficienti. Il fantastico è certamente una questione sia di contenuto che di forma. Ma non dimentichi una cosa. I visionari sono gente che non giungono alla definizione di un triangolo. Non si può dire che siano simbolisti. Ma in nome di Dio, a loro questo dilettantismo è necessario. Non hanno mai visto due esseri umani, mai una foglia. Pensi ad una donna sotto a un lampione; un naso, un ventre illuminato, null’altro. La luce, imprigionata da case e uomini. Ci sarebbe da aggiungere ancora qualcosa. Si guardi da esperimenti quantitativi. Nell’arte il numero, la grandezza sono del tutto equivalenti. Se hanno un ruolo, questo è senz’altro deviato. Lavorarsi l’immortalità è puro dilettantismo. Eccole un altro consiglio, che forse più tardi le sarà di stimolo. Kant avrà indubbiamente una importante funzione. Si ricordi una cosa. Il suo significato così carico d’attrattive consiste nel rendere possibile l’equilibrio tra oggetto e soggetto. Ma dimenticò una cosa, la più importante: ciò che fa il soggetto che si occupa di gnoseologia, la constatazione appunto di soggetto e oggetto. È forse una cosa in sé psichica? È questa la ragione per la quale l’idealismo tedesco ha potuto portare Kant alle sue estreme conseguenze. Il non creativo si esaurirà subito nell’impossibile. Non conoscere alcun limite, quanto di spirituale gli oggetti possono sopportare, giustificare. Ogni discorso di infinità viene da una informe, inoperosa energia dell’anima. È l’espressione dell’energia potenziale, quindi un elemento del forte non-potere.
Totalità
II
La psicologia non è altro che una reazione alla logica. Si è sperato di pervenire a risultati più precisi costruendo singole facoltà o funzioni. La psicologia ha fondato per lo più la sua conoscenza su fatti che stanno completamente al di fuori della sfera filosofica, che rappresentano parti costitutive del nostro Essere, ma non possono mai spiegare la particolare entità di campi totali conformi alla legge, poiché la psicologia esamina forse condizioni preliminari, ma non l’immediato esistente. (Bisogna aggiungere che essa opera spesso con concetti misti). Come la logica, incorre nell’errore di ritenere che una scienza sia capace di esprimere più di se stessa. Ciò dipende dalla mancanza di una metafisica universale che, esattamente come le altre scienze, non riuscirebbe a contenere regole di campi specifici e dovrebbe valere per le nostre facoltà come superiore realtà conchiusa, come l’autorità più intensiva, non estensivo-universale.
III
Ciò che separa tutte queste configurazioni del mondo spirituale e, quindi, contribuisce a conferire loro un Essere strutturato in modo preciso è la totalità. Esse sussistono soltanto quando sono evidenti, quando assumono una forma: solo la totalità nella sua conchiusività le rende oggetto di conoscenza e consente che possano essere realizzate. Ogni realizzazione e ogni conoscenza, infatti, rappresentano solo una delimitazione; la totalità non è altro che un sistema conchiuso di qualità specifiche, e questo è totale se la totalità è accompagnata da una sufficiente intensità. La totalità fa sì che lo scopo di ogni ricerca e di ogni conoscenza non stia più nell’Infinito, inteso come indefinibile obiettivo globale, ma sia minutamente circoscritto, poiché la totalità legittima l’Essere concreto dei singoli sistemi e conferisce loro il senso. La totalità consente di stabilire leggi qualitative, in quanto la conformità alla legge del singolo sistema non si fonda più sulla ripetizione variata e sul ritorno del sistema stesso, ma sulla natura di specifiche configurazioni elementari. Si perviene così alla determinazione di leggi qualitative che producono sempre un sistema conchiuso, che non variano per la quantità, ma per l’intensità e non ritornano all’infinito, ma si alternano qualitativamente, sicché è possibile applicare tali leggi al corso del tempo, per esempio alla biologia, senza essere costretti ad annullare la sostanza individuale dei fatti.
Sottolineiamo che il conoscere non rappresenta un atteggiamento critico, bensì la creazione di contenuti strutturati, ossia di sistemi totali. Per sistema non intendiamo più l’ordinamento di una molteplicità che presenta caratteristiche univoche e neanche un ordine quantitativamente determinato, ossia che contiene un certo numero di oggetti. Definiamo, invece, come sistema ogni totalità concreta che non può essere strutturata o articolata mediante strumenti esterni, bensì è già organizzata in sé. Definendo il conoscere come creazione di organismi concreti, sottraiamo la conoscenza alla teoria di un’universalità tautologica. In tal modo, la conoscenza è salvata dal suo isolamento teorico e dalla sua irrilevanza, il processo conoscitivo viene equiparato a quello creativo e si produce un’immediatezza che era latente, ma non rappresentata.
Non avremmo potuto attraversare primavera più cupa e malinconica di questa appena finita, e tuttavia il dolore, la privazione delle abitudini più consolidate e degli affetti più cari, la solitudine e l’incertezza del futuro, hanno reso, paradossalmente, ancora più perentoria la necessità di cercare nell’arte, nella musica, nella poesia una via di salvezza e un messaggio di speranza. Un anelito di vita che titanicamente si opponesse al senso di morte che ha pervaso i lunghi giorni del tempo sospeso.
Io resto a casa – Aspettando, è un progetto che si nutre di cultura e irradia cultura. Ideato dalla giornalista, scrittrice e drammaturga Chiara Pasetti, con la regia di Mario Molinari e l’adesione di Achille Lauro, dall’8 marzo 2020 vede la pubblicazione su You Tube, ogni settimana, di un videoracconto, un diario al tempo stesso intimo e condiviso, personale e collettivo, nel quale l’inquietudine e lo smarrimento, venendo espressi attraverso la potenza dolente ma insieme vitale ed energica della parola poetica, delle immagini e della musica, trovano un trascendimento e una catarsi. Sono testimonianza e documento di un momento storico che mai avremmo immaginato di trovarci a vivere ma al quale non vogliamo soccombere. Un racconto costruito non tanto sul dire quanto sul sentire, sulla fragilità e la forza delle emozioni, sulla capacità che ha l’arte di evocare mondi, di costruire ponti tra passato e presente, di cogliere assonanze e similitudini tra epoche e eventi distanti nel tempo e apparentemente privi di correlazioni. Già, i mirabolanti voli pindarici dell’arte, quelli che permettono, per fare solo un esempio fra i tanti possibili, di tenere insieme nello stesso cortometraggio – nella fattispecie quello intitolato Senza cognomi, uscito il 27 aprile – il brano Dio ricordati di Achille Lauro e alcune sequenze dell’ultimo capolavoro di Roman Polanski J’accuse.
A fare da filo conduttore di tutto il progetto è l’emergenza Covid-19 e ogni video ruota intorno a un tema diverso in base al quale vengono scelti i brani e le immagini. Il fil rouge che tiene unito l’insieme è a volte talmente sottile e impalpabile da rendere più facile credere che tutto quel materiale audiovisivo sia assemblato solo in virtù dello scopo precipuo dell’Arte, ossia, come sosteneva Flaubert, il Bello. Ma come dissociare la Bellezza dalla Verità? E come separare questa dall’Universale? Ecco dunque che il fine ultimo di questi corti è probabilmente quello di affrontare tematiche tanto vere quanto universali, che, ammantate dal velo dell’Arte, risplendono di Bellezza anche quando non mancano di drammaticità. Ulteriore filo conduttore è la musica di Achille Lauro che – con i suoi testi spesso sofferenti, mai scontati, assolutamente alieni da qualsiasi retorica perché sempre figli di un dolore e di un disagio vissuti in prima persona – fa da colonna sonora al progetto. Il che non significa che il cantautore romano abbia composto nuovi brani appositamente per questi corti, ma che nel suo già ampio repertorio siano presenti canzoni perfettamente in grado di esprimere la vasta e a volte contraddittoria gamma di sentimenti che tutti noi stiamo vivendo nel corso di questa pandemia. Come a dire che quando si scava a fondo dentro sé stessi, come fa Achille Lauro nello scrivere i suoi testi, quasi la scrittura fosse una forma di analisi e di psicoterapia, un processo di autoconoscenza e un’ancora di salvezza, alla fine si trova una storia che è comune a quella di tutti quanti gli altri. «Descriverò i miei stati d’animo: universali, comuni, qualcosa che mi legherà profondamente con chi mi capirà, perché proviamo tutti le stesse emozioni», scrive l’artista nel suo secondo libro, 16 marzo. L’ultima notte, edito da Rizzoli lo scorso 19 maggio. Delle sue canzoni Lauro De Marinis (questo il suo vero nome) ha autorizzato l’utilizzo dimostrandosi ancora una volta sensibile e attento verso tematiche di stringente attualità e di forte pregnanza sociale.
Io resto a casa – Aspettando si è per forza di cose intrecciato con i più importanti appuntamenti calendariali di questa primavera, dalle ricorrenze del 25 aprile e del 1° maggio alla Festa della Repubblica, passando attraverso il ricordo della strage di Capaci che vide la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. In particolare il corto Povera Patria, dedicato alla ricorrenza del 2 giugno, mette in luce come tale progetto, nato come invito alla prudenza per fronteggiare l’epidemia di coronavirus (da cui il titolo originario di Io resto a casa), si sia evoluto di settimana in settimana al punto da travalicare i limiti del lockdown (il titolo infatti è mutato, con l’inizio della Fase 2, in Aspettando) e affrontare temi di grande rilevanza civile. In Povera patria vi sono le grandi stragi degli ultimi settant’anni di storia italiana: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, da Piazza della Loggia a Ustica e Bologna, e poi la morte di Enrico Mattei, Aldo Moro e Walter Tobagi. Vi è la tragedia del Vajont e l’incidente di Seveso, il disastro ferroviario di Viareggio e il crollo del Ponte Morandi. Il pestaggio nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001 e il massacro silenzioso e incruento degli anziani falciati dal covid nella Lombardia dei nostri giorni. Ma vi è anche lo spot pubblicitario della Vespa in piena atmosfera da boom economico anni Sessanta e Vittorio Gasmann che fa il gesto delle corna sfrecciando a bordo della spider ne Il sorpasso, e Alberto Sordi nei panni indimenticabili del Marchese del Grillo. C’è dunque uno sguardo che si allarga e che abbraccia l’Italia del lavoro e quella della disoccupazione, quella della Resistenza e quella del sovranismo populista. L’Italia che sognava e correva e l’Italia che spera e attende. Un modo diverso, insolito, non banale, di celebrare l’anniversario del referendum che segnò il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica.
Nel momento in cui scriviamo questo articolo il videoprogetto conta sedici corti e sta riscuotendo sempre maggiore interesse da parte di pubblico e critica.
Abbiamo rivolto alcune domande alla sua ideatrice Chiara Pasetti.
Com’è nata l’idea di realizzare il videoprogetto Io resto a casa – Aspettando?
L’idea del progetto è nata nella notte tra il sette e l’otto marzo. Ero preoccupata e angosciata, era ormai chiaro che le scuole sarebbero rimaste a lungo chiuse ed ero in ansia per i miei studenti e per mio figlio, che ha appena terminato il secondo anno di Liceo Classico. Sono abituata a comunicare scrivendo, anche se negli anni ho cominciato a scrivere per il teatro (il mio primo lavoro portato in palcoscenico è stato Moi, un monologo sulla scultrice Camille Claudel, per la regia di Alberto Giusta, con Lisa Galantini nel ruolo di Camille), rendendomi conto delle diverse potenzialità della scrittura e dell’emozione che suscita il fatto di sentire le proprie parole in teatro. Non avevo però mai fatto un video (anche se nei miei progetti e sogni c’è sicuramente un film, anzi diversi film). Quella notte pensavo che volevo dare un contributo alla drammatica situazione che stavamo vivendo, e soprattutto che volevo farlo coinvolgendo i giovani, in quel momento i più “deboli” sotto certi aspetti, perché ancora scarsamente informati, e al contempo coloro che potevano avere un ruolo determinante nel contenere i contagi. Non si era ancora tenuto il discorso del Presidente del Consiglio, dal titolo diventato virale “Io resto a casa”, e durante la notte ho capito cosa volevo-dovevo fare: un video in cui i miei studenti, e anche altri ragazzi di diverse età, ripetessero il messaggio IO RESTO A CASA. La mattina dell’otto marzo (in cui avrei dovuto partire per Genova, la sera era programmata la mia nuova lettura teatrale dedicata ad Antonia Pozzi, sempre con Lisa Galantini, ovviamente rimandata), dopo aver realizzato che la mia città era stata dichiarata “zona rossa”, ho cominciato a sentire via whatsapp i miei studenti di terza, quarta e quinta liceo. Ho chiesto loro di fare dei video in cui, semplicemente, dicessero nome e scuola, e il messaggio uguale per tutti “io resto a casa”. Ho esteso l’iniziativa anche a studenti di Finale Ligure, Genova, e altre città, grazie alla collaborazione di amici che abitano appunto in Liguria. Nel giro di poche ore avevo già ricevuto una dozzina di video. Tra la domenica e il lunedì, quando ormai l’hastag #iorestoacasa era stato lanciato e rimbalzava sui social e sui giornali, raccoglievo idee e video. Inizialmente ho pensato di montare i contributi con la collaborazione di un’amica giornalista televisiva di Novara, ma come spesso capita ai miei progetti c’è stata qualche difficoltà (non imputabile alla mia amica). Temevo che l’idea fosse destinata a naufragare… Invece così non è stato, e fortunatamente ho pensato di parlarne a Mario Molinari, che è un amico giornalista (dirige il quotidiano online “La Nuova Savona” con cui collaboro anch’io, dopo aver lavorato dodici anni, fra gli altri, a “Striscia la notizia”) ed è regista e autore di molti lavori di pregio (cito solo Crisi complessa del 2019 realizzato insieme a Mimmo Lombezzi e il docufilm Tonino, dedicato a Tonino Guerra, (qui i rispettivi link per chi volesse vederli: https://www.youtube.com/watch?v=CSCcUyPUB2Y&t=1467 / https://www.raiplay.it/video/2017/12/Speciali-di-storia-Tonino-b09b4515-82dc-4a3f-96dc-160fc30e4988.html). Ma soprattutto è una persona da sempre attenta e sensibile al sociale e alla narrazione, anche dura, del reale. Da subito si è entusiasmato nei confronti del progetto ed è nato il primo corto, in cui ha montato i video degli studenti. Nel primo corto ci sono anch’io, che mi unisco all’appello dei ragazzi per dare maggiore forza alla comunicazione, dal secondo scompaio e per me parlano i poeti, le immagini, ecc… Dopo il primo video io e Mario ci siamo confrontati e abbiamo pensato che fosse importante andare avanti a raccontare l’emergenza covid, sempre con i contributi dei giovani. Insomma da allora non ci siamo fermati, e il progetto è ormai arrivato al sedicesimo video, ossia uno alla settimana. Sono infinitamente grata a Mario e anche all’amica Giovanna Servettaz, oltre a tutte le persone che hanno creduto da subito nell’idea, perché senza di loro forse avrei realizzato un solo video e mi sarei arenata di fronte alle tante difficoltà che un progetto di questo tipo comporta. Invece le abbiamo affrontate e superate e stiamo andando avanti.
Questo progetto ha visto il coinvolgimento attivo di un gruppo di studenti e la partecipazione fissa degli attori Lisa Galantini e Massimo Rigo a cui sono affidate le letture tratte dai vari autori di volta in volta citati. Fra i tanti nomi ricorrono spesso quelli di Gustave Flaubert, Camille Claudel e Antonia Pozzi. So che per te sono dei punti di riferimento culturali particolarmente importanti…
La scelta dei brani è in genere sempre in linea con il tema trattato ogni settimana, ma i miei studi si concentrano principalmente sul periodo di fine Ottocento-inizio Novecento e in particolare di area francese, per questo spesso ho scelto i miei autori del cuore. Quindi Camille Claudel, a cui come dicevo ho dedicato un libro e un monologo teatrale, Antonia Pozzi, poetessa che studio da molti anni, oggetto del mio prossimo lavoro teatrale, e poi Baudelaire, Nietzsche, negli ultimi Montale, Leopardi, e altri ancora. Gustave Flaubert merita ed è un discorso a parte. Lui è il mio “faro”, umano e artistico. È l’autore che da sempre accompagna ogni mio lavoro creativo e ogni articolo, saggio, ecc. Anche quando non parlo direttamente di lui, lui c’è sempre; come diceva Antonia Pozzi, che ha svolto la sua tesi di laurea nel 1935 proprio su Flaubert, «io sono, per forza di cose, molto flaubertiana». Leggo e studio il padre di Madame Bovary praticamente da trent’anni; è un universo, ha scritto più di 4000 lettere. A volte ho anche discusso (in modo sempre rispettoso e fecondo) con Mario, che giustamente mi definisce un po’ troppo “fissata” con Flaubert! Nei video ci sono moltissimi suoi brani, anche inediti in lingua italiana, da me tradotti. La scelta degli attori (Massimo Rigo, Lisa Galantini, Alberto Giusta, nell’ultimo corto Federico Vanni, ma anche studenti) che interpretano i brani che vengono scelti per ogni capitolo viene condotta insieme a Mario a seconda dell’età degli autori, della difficoltà dei brani, o anche solo di suggestioni personali. Lisa Galantini ha sempre interpretato parti femminili, quindi Camille Claudel, Antonia Pozzi e in un corto una poesia di Alda Merini. Sono molto grata agli attori e agli amici che prestano la loro voce e la loro arte agli scrittori che scegliamo, perché credo che l’inserimento di brani in prosa e in poesia, alcuni noti e altri meno, rendano i corti più poetici ma aiutino anche tutti coloro che guardano i video, e gli studenti in particolare, a capire quanto i grandi autori siano sempre attuali e legati alle situazioni che stiamo attraversando.
Perché per la parte musicale hai voluto proprio Achille Lauro?
Achille Lauro, lo confesso, per me è stato un po’ come Flaubert o Camille Claudel… Un colpo di fulmine! Da anni ascoltavo le sue canzoni ma non lo avevo mai studiato in modo approfondito. Sono stati proprio i miei studenti a incoraggiarmi a conoscerlo meglio, prima dell’ultima esibizione di Sanremo. È scattato qualcosa di forte: i suoi testi e il modo di interpretarli toccano corde profonde di me, oltre al fatto che vi ritrovo echi e citazioni (non solo nelle sue canzoni ma anche nei libri che ha scritto) di autori, poeti, personaggi e film anche a me molto cari. Trovo che i suoi testi parlino a tutti, pur essendo estremamente personali. Certamente parlano a me. In alcuni casi sono profetici, come la canzone scelta per il corto dedicato agli esami di maturità Senza gli scritti, una frase contenuta nel brano Dio c’è di cinque anni fa. Ma anche il pezzo Dio ricordati inserito nel video sulla Resistenza, uscito in occasione del 25 aprile, è davvero perfetto per raccontare le emozioni, il dolore, le speranze dei partigiani e in generale di chiunque abbia vissuto per un ideale, a volte a rischio della propria vita. Scherzando (ma non troppo) dico spesso che Lauro è il mio alter ego maschile, e questa sensazione l’ho provata solo nei confronti di Flaubert.
Chiedere a lui l’adesione per un progetto che raccontasse l’emergenza nei suoi tanti risvolti umani, sanitari, psicologici, economici, mi è parsa un’idea non solo emozionale ma anche funzionale al fatto di catturare l’interesse dei ragazzi, perché molti di loro lo conoscono e lo apprezzano. E lui stesso da marzo ha diffuso appelli a sostegno degli ospedali e ha invitato i giovani alla prudenza e al rispetto delle regole, quindi sapevo che sarebbe stato sensibile al tema, come del resto lo è in generale. Ho discusso con tanti amici (non giovanissimi, per lo più della mia età) “a causa” di Lauro, rendendomi conto che chi non lo conosce bene lo giudica con superficialità se non addirittura con ferocia, e questo mi fa capire che non lascia indifferente nessuno. Un po’ come Caravaggio, Van Gogh, Baudelaire, Poe, per usare paralleli alti. In altri casi invece questo progetto e la stima nei confronti di Lauro mi ha fatto incontrare persone nuove, come la giornalista Cinzia Donati, la prima che si è interessata ai corti e mi ha fatto un’intervista per il suo blog, e poi i gruppi fb nati da tempo su di lui, in particolare “L’Arte di Achille Lauro” (io ero molto poco social e non li conoscevo, lo ammetto). A me comunque non interessa il personaggio Achille Lauro (anche se in molte performance mi piace molto), i vestiti di Gucci, le polemiche e tutto ciò che giustamente o meno gira intorno a un artista famoso, mi smuove e talora commuove il ragazzo di trent’anni che scrive poesie da quando è ragazzino (come me), canta e compone, e persegue un ideale: l’arte, la musica, i suoi sogni. Questo mi emoziona e me lo fa sentire non solo vicino ma fortemente affine. Il resto lo lascio al gossip.
Quanto impegno richiede la realizzazione di ciascun corto e come è suddiviso il lavoro fra te e Mario Molinari?
Anche per questa domanda ti ringrazio perché in effetti penso che chi vede questi corti non si renda davvero conto del lavoro che c’è dietro. Ogni settimana Mario ed io scegliamo il tema del video successivo, la canzone di Lauro, e cominciamo dal lunedì (i video vengono diffusi in genere la domenica) a raccogliere idee, contributi, e Mario a selezionare filmati, foto e altro materiale. Per lui si tratta di un lavoro enorme, che richiede circa cinquanta ore di montaggio (mal contate!), che sarebbero molte di più se non avesse un’esperienza di anni sul piano registico. Per quanto mi riguarda, io traduco i brani in francese che scegliamo, penso alla parte di scrittura e poesia, ma in generale i nostri compiti si incrociano e lui consiglia me sul piano letterario, io visiono sempre le sue scelte sul piano delle immagini e dei filmati. Quindi direi che è un lavoro di squadra, anche se poi la parte più dura, quella appunto del montaggio, resta assolutamente la sua.
Ora che finalmente riaprono i cinema avete pensato all’eventualità di una proiezione in sala?
Certo, abbiamo pensato a una proiezione nei cinema o in spazi all’aperto e anche alla partecipazione a eventuali festival di corti. Ci rendiamo conto, riguardandoli dal primo in avanti ma anche in ordine sparso, che ognuno racconta una storia, la nostra, ma tutti insieme, da marzo a oggi, sono una testimonianza, uno spaccato di vita, che intreccia anche l’onirico. Si tratterà ora di selezionare le parti più importanti di ciascun corto (ad oggi siamo a più di quattro ore di filmati, se messi tutti insieme), e farne un montaggio adatto a essere proiettato. A questo proposito credo che la prima proiezione pubblica la faremo all’interno della rassegna estiva di Varigotti (Finale Ligure) che da tre anni curo con la collaborazione del Comune e dell’Associazione Varigotti Insieme. Ancora non sveliamo la data ma la saprai prestissimo.
Quali altri progetti hai in programma per il futuro?
Tra i progetti immediati c’è appunto la rassegna estiva di Varigotti, in agosto, che malgrado le difficoltà connesse all’emergenza abbiamo deciso di ripetere per il terzo anno consecutivo e ne sono davvero felice. È un appuntamento per me prezioso, che unisce arte, teatro, musica, e tantissimi amici (tutti i miei amici più cari vivono in Liguria, praticamente). Poi il monologo su Antonia Pozzi, per la regia di Alberto Giusta, con Lisa Galantini, prodotto dal Teatro della Tosse di Genova (dovrebbe debuttare a marzo del prossimo anno). Sicuramente due libri che sto finendo… E poi mi piacerebbe continuare questo video progetto, magari dopo una pausa estiva necessaria anche per riprendere le forze. Mario ed io pensiamo che ci sia ancora molto da raccontare, sia che l’emergenza, come tutti ci auguriamo, finisca del tutto, sia, viceversa, se il covid dovesse purtroppo continuare a circolare dopo l’estate. Ma al di là del virus, ormai il progetto è una narrazione del e sul nostro tempo e sulle «magnifiche sorti e progressive» (o regressive), quindi finché avremo idee e desiderio di esprimerle, lo porteremo avanti.
I progetti, per una persona che sogna tutto il giorno, sono ancora tantissimi a dire il vero, ma su alcuni mantengo un po’ di segreto anche per scaramanzia.
C’è una mano che stringe la tua, le dita intrecciate nella presa degli innamorati.
Il divano-letto è un vascello di sconfinati ricordi, assorbe il sudore del tuo corpo e si tende sotto la calura estiva, che filtra dalla finestra spalancata sul cemento della corte interna.
Quel cemento coperto di catrame sta ribollendo silenziosamente e tu hai ancora l’orecchio destro tappato. Il divano-letto sembra respirare, sotto di voi.
Questa è la vostra ultima notte, lì.
Un sottile strato di sudore lubrifica l’anulare scivolando tra la pelle e la fede. Le vostre mani saranno intrecciate da un paio di ore e inizi ad avvertire un leggero formicolio.
Guardi lassù. Il ventilatore da soffitto vortica furibondo, eppure non può far altro, se non disperdere l’odore acre dei vostri corpi nudi e appiccicaticci.
Dici l’ufficiale giudiziario col fabbro e compagnia bella arriverà per le nove. Il marito di tua sorella ci passa a prendere alle otto.
Il formicolio che avverti alla mano si estende al dito medio, che ti è stato amputato dopo l’incidente.
Lisa fissa lo schermo della tv e dice ogni cosa importante per qualcuno ha zero valore per qualcun altro. E tu sai che non sta parlando di nulla in particolare, o forse sì, ma non hai la forza di approfondire la questione.
Passi la mano libera sulla fronte, scosti i capelli dagli occhi.
Il dito fantasma, anche lui ogni tanto soffre il solletico. Il dito fantasma a volte si alza per mandare a fanculo la gente e poi tu te ne resti così, come se ancora non credessi al vuoto tra indice e anulare.
Dici mi dispiace per come sono andate le cose. Ho fatto davvero tutto il possibile e ho dato tutto me stesso, ma sai che il capo non mi ha mai avuto in simpatia.
La pancia di Lisa si solleva e si abbassa e una gocciolina di sudore disegna un sorriso sul suo fianco.
La tv proietta in quattro terzi un documentario sui grossi felini della savana, ma avete azzerato l’audio.
Le onde di luce della tv irradiano di bianco i vostri corpi spiaggiati, e il bianco diventa giallo e azzurro o blu scuro, a seconda dell’immagine trasmessa.
State fissando da un po’ quei felini ruggire e sbadigliare e appostarsi; le mani intrecciate bagnano di sudore il lenzuolo e Lisa dice sono loro che stanno guardando noi. Non sembra anche a te che siano questi animali a guardare noi?
Lisa ha le gambe accavallate, il piede destro penzola ritmicamente, nel lieve tintinnio della cavigliera in rame.
Dici davvero, non so cosa pensare, cristoddio, dì qualcosa, fammi capire che mi capisci.
Lisa distende le gambe appoggiandole sulle lenzuola e distoglie lo sguardo dalla tv. Stinge la tua mano, producendo un leggero ciaff.
Inspiri e concentri il tuo sguardo sugli scatoloni ammucchiati un po’ ovunque, isole di preoccupazioni ai bordi del monolocale. Sul posacenere colmo di mozziconi. Sulle bottiglie di birra vuote. Sul mucchietto di solleciti che non avete mai aperto.
Dici e poi era ora di cambiare casa, questa davvero non ci merita. Non capisco come siamo riusciti a farci stare tutta sta roba.
Lisa torna a fissare lo schermo. Chiede possiamo cambiare canale? Questi animali continuano a fissarci.
Guardi anche tu la tv, e vedi piccoli uccelli appollaiati sul dorso dei rinoceronti, sulla loro testa, che beccano dentro le orecchie dei rinoceronti. Pasteggiano. Fissi l’occhio nero dell’animale riflesso sullo schermo.
Dici gli animali non ti guardano. Non gliene frega un cazzo di noi, credimi.
Lisa ha i capelli raccolti in due trecce. Dice io mi alzo, non ne posso più di questi animali che ci fissano. Molla la tua mano. Afferra il pacchetto di Camel e si avvia verso la finestra, che dà sulla corte interna. Si piega in avanti e si appoggia con i gomiti al balcone, poi fa scattare l’accendino. Guardi la sua figura parzialmente illuminata dallo schermo. L’odore di fumo si insinua nella stanza.
Ti alzi e raggiungi Lisa e la stringi in un abbraccio, da dietro. Le tue carni contro le sue carni e il sudore fa scivolare il tuo petto sopra la sua schiena, ma solo di qualche centimetro.
Lisa chiede dove andremo non ci saranno più animali a fissarci, vero?
Volti la faccia verso lo schermo poi lo sguardo scivola al divano-letto su cui fino a poco fa tu e Lisa eravate distesi.
I vostri corpi hanno lasciato impronte di sudore e pelle invisibile ovunque. Con un po’ di fantasia, puoi indovinare il culo di Lisa, tra quelle macchie. La testa di lisa, la sua schiena, le sue gambe. Cerchi l’effige della tua mano e lo spazio che il moncherino dovrebbe aver lasciato, un’impronta a quattro dita, ma poi rammenti che la mano era intrecciata alla mano di Lisa e così cerchi la macchia lasciata da quelle nove dita congiunte. Infine lasci perdere.
Sposti lo sguardo nuovamente sulla tv e ti accorgi che tutti quegli animali, leoni e giaguari e rinoceronti della savana, stanno in effetti fissando il divano-letto. Sono reali e si chiedono dove siete finiti.
Fissano le impronte di voi che fissavate gli animali. L’idea degli animali che fissavano voi è la verità adesso, lì. Quando, tra poco, tornerete su quel divano-letto per l’ultima volta, prima di chiudere gli occhi, forse sentirete davvero l’umidità di quelle lenzuola impregnate di fumo, o forse no, e tutto sarà scontato e disincantato.
Il divano-letto scricchiolerà, lo sai, e il materasso liso sprofonderà leggermente. Spegnerete la tv e la stanza sarà buia e vi addormenterete. Buonanotte.
Giri la testa e appoggi la faccia sulla schiena di Lisa. Le dai un bacio sulla pelle nuda. Dici no, dove andremo non ci saranno animali a guardarci.
La figlia piccola è matta da legare. L’altra è viziata e altezzosa. Ho imparato l’arte della calma. Verso brandy e firmo assegni, conosco ogni nuance del generale Sternwood. Se non ci fossi io qui dentro andrebbero tutti a gambe all’aria. Il capo ha chiamato un detective perché Carmen, la piccola, è finita nella merda un’altra volta. Ma li ho sentiti parlare anche di Regan. Regan è sparito. Non si sa dov’è Regan. Regan era come un figlio. Il generale ci muore senza il suo Regan.
Chiede al detective Marlow di togliere dai casini Carmen, quella stronza che si succhia il pollice. Dietro la storia della piccola ci è finito in mezzo anche Regan. Perché? Perché il generale è ricattato. Due anni fa ha dato 5.000 dollari a un certo Joe Brody perché lasciasse stare la piccola Carmen, di quella faccenda se n’era occupato Regan.
– E adesso? – Chiede Marlowe.
– Adesso Regan è sparito. Un mese fa, senza dire una parola – bisbiglia il vecchio. Quando c’era Regan nessuno osava darmi noie, ora invece… Stava qua con me a bere brandy, era un amico, capisce? Prima di tutto era un amico. Speravo almeno mi dicesse addio.
Ecco come è sbucato Regan dalla conversazione, ma adesso il punto è levare Carmen dai guai. Sento i passi di Marlowe e mi allontano dalla porta d’ingresso. Lo attendo al centro del salotto.
– Vivian, la grande, l’ha vista dalla finestra, sono stato costretto a dirle chi è, insomma le ho detto che lei è un detective, dico. La Signora vorrebbe vederla prima che vada via.
Lo accompagno all’ingresso della stanza. Mi allontano di poco per origliare. Voglio sentire cosa dice Vivian, cosa preoccupa la Signora? Perché immagino fino a che punto può arrivare l’azzardo alienato e maniaco di quella donna. Gli domanda se suo padre lo ha ingaggiato per cercare Regan. Il detective le consiglia di non perdere tempo nel tentativo di farlo cantare.
– Lo rintraccerebbe se glielo chiedesse? – Domanda lei.
– Può darsi, fa Marlowe.
È furba, la ragazza. Sono certo che stia fingendo lo sguardo addolorato. Dice che Regan aveva preso la macchina un pomeriggio, era partito senza dire una parola. L’auto è stata ritrovata in una rimessa privata. Brava, lo sanno tutti.
A sto nòst fioeu bislacch
tegnuu in scòssa
che foeura l’ tireva
on vent bastard
fagh mai mancà
la cà, on foeugh,
la man del pader,
on gutt de vin,
de quel mes’ciaa
cont al nòster sangh.
La benedizione
A questo nostro figlio balordo/ tenuto in grembo/ quando fuori impazzava/ un vento di tempesta/ non fargli mai mancare/ la casa e un fuoco/ la mano del padre/ un goccio di vino/ di quello mischiato/ con il nostro sangue.
***
Nissun
Mì som no brau, som no
cattiv, mì som quell che
m’han faj diventaa. Nissun
destin, fòrsi ‘n fulmin,
làver, niul, mì som quell
che l’è rivaa e l’è scappaa.
Nessuno
Io non sono buono, non sono/cattivo, io sono quello che gli/altri m’han fatto diventare/nessun destino, forse un fulmine/labbra, nuvole, io sono quello/ che è venuto ed è scappato.
***
Coeur scorbatt
Coeur ner ‘me ‘n scorbatt
ch’el puccia semper lì
do’che han massaa al nimal
e ‘l sangh l’è giù sguttaa
den’ quella Terra chì.
Per tì anmu quel bas,
intant che ‘l buja ‘l broeud
con den’ tajaa a tocchel
la pell, al mus, al ciapp,
al mej de st’ amour chì.
Cuore corvo
Il cuore nero come un corvo/ s’intinge sempre/ dove hanno ucciso il maiale/ il sangue è gocciolato
su questa terra./ Per te ancora quel bacio/ mentre bolle il brodo con pezzi di pelle, il muso, il culo,/
il meglio di questo amore.
***
L’Agnes e ‘l Lucianin
Sta a l’oeucc, che ta vee den’…
sacrament d’ona vita a l’incontrari.
Al giuin quell pussee fòrt
l’è andaj per prim.
Giù in del bus cont i sparg
i oeuv i verz l’ostia e ’l vin
quella su’ gran’ facciascia
de ciapaj tucc quanti per ‘l cuu,
i nòtt, i slepp, al temporal,
al sorris de la scarògna che gh’emm
den’ num che vegnom del paes.
De’ con luu gh’è rivaa
anca l’Agnes. On scappusc
e giù d’on bòtt anca lee
la s’è desfaa. La resenta
fazzolett al cassùu ficcaa
den’de la polenta qji su oeucc
che piangia o rida sa sa no.
Ormai l’è nòtt. La carezza
al Lucianin la gha dis
che l’è ‘n malnatt, cià
gha scalda on poo de latt.
“Bev!” Gha fa “ E de’
riposes. Che semm tucc stracch.”
*Liberamente tratta da – Agnese e Luciano – di Elena Cattaneo
L’Agnese e il Lucianino
Stai attento che ci finisci dentro…/ Maledetta vita all’incontrario./ Il giovane quello più forte/è andato via per primo./Giù nel buco con gli asparagi/le uova le verze l’ostia e il vino/quella sua faccia/che tutti prendeva per il culo/le notti gli schiaffi il temporale/il sorriso sfortunato che abbiam /noi che veniamo dal paese./Ora con lui c’è/anche l’Agnese. Una caduta/ e giù che di colpo anche lei/è morta. Stira/fazzoletti il mestolo nella/polenta quei suoi occhi/che piangono o ridono non si sa./Oramai è notte. Carezza/ il Lucianino, gli dice/che è un disgraziato/gli scalda un po’ di latte./”Bevi!” Gli fa “E ora/riposati. Che siam tutti stanchi./
***
‘Me l’è andaj
La m’è andaj ben no la sulfa, la suppa, ran
ran ‘l malaa ‘l porta al san,‘me quell
che in bucca a l’è minestra fata, risòtt
senza la saa, la straa che ta finissa
per poeu tornà puu indree. Son mì sicur
con dent’ sto sangh marscì de quan’sevi
fiurin a curr tra ‘l praa e ‘l canal, fin
quand a l’è passaa quell tren a cent a l’ora
che tucc a laurà e mì che resti lì, canela
disperaa, a usmaa al mè fiur streppaa.
Come è andata
Non mi è andata bene la solfa, la zuppa, la lagna/ quotidiana, come quello/ che in bocca è insipida minestra, risotto/ senza sale, la strada che finisce/ per poi più non tornare. Son io sicuro/ con dentro questo sangue marcio di quando ero/ bambino a correre tra il prato e il canale fin/quando è passato quel treno a cento all’ora/che tutti andavano a lavorare ed io sono rimasto lì, stupido disperato,/ad annusare il mio fiore strappato.
***
Fòss
Piangia no. Se vegna la stria
coi su tett e minga ‘l latt,
che la vosa ‘me ‘l nimal
ch’hin ‘dree massaa, piangia
no. Gh’è la bissa cont i pee,
la lumaga coi oeucc grand,
la pigòtta che la brusa con
la crapa ficcaa den’ d’on
paltòn de merd e rugh. Mì
l’è lì che som borlaa, som
s’ceppaa, hoo mai piangiuu.
Già gh’è ‘l ciel ch’el suta fall,
lì in del fòss tucc quei ch’hin
mòrt. Che voeuren nass.
Fosso
Non piangere. Se viene la strega/ con le tette senza latte/ che grida come il porco/ ammazzato non piangere./ C’è la biscia con i piedi/ la lumaca con gli occhi grandi/ la bambola che brucia con/ la testa giù ficcata in una/ fanghiglia di merda e immondizia./ È lì che sono caduto sono/ rotto non ho mai pianto./ È già il cielo che continua a farlo/ lì nel fosso tutti quelli che son/ morti. Che vogliono nascere./
***
Den’
De quan’ m’han brancaa
del venter de la stria
‘na bissa semper quella
sa rampéga su in del coeur.
L’è lee che la ma ciama
l’eterna di gamb vert
l’è den’ in quella crenna
den’ l’oeuv al gius al bus,
in scòssa al mè disaster.
Dentro
Dal giorno in cui mi hanno acciuffato/ dal ventre della scrofa/ una biscia mi si arrampica per il cuore./ E lei che mi chiama,/ l’eterna dalle gambe aperte./ È dentro in quella crepa/ nell’uovo la melma il buco/ in grembo al mio disastro.
—–
Notizia: il dialetto usato è quello di Abbiategrasso/Biegrass nel parco del Ticino/Tesinn
Il tema del male, declinato nelle variabili della malattia, della mortalità e della follia, alimenta i testi, i ritratti e i corpi di questo libro multiforme, strutturato in un dialogo tra le arti, in cui la pittura, il disegno e la parola si passano e travasano religiosamente la buia sostanza della poesia. Linguaggi che rappresentano gli strumenti di una stessa orchestrina espressionista minimale, fragile e parca, a mimare la dimensione della povertà e della necessità, un pasto frugale che ricorda, se vogliamo, il teatro di Beckett. Questa dimensione dialogica arricchisce vicendevolmente le arti messe in gioco e la portata comunicativa di una poetica contrassegnata dalla senescenza e dal tragico. La follia, come alterazione dal consueto e dallo schema obnubilante della salute del progresso, in questa antropologia rappresenta classicamente l’elezione e la condanna, il processo degenerativo che porta insieme la ribellione del corpo e la sua identità, determinata come storia e distorsione di una fisiologia deragliata dai binari della legge dello scheletro e della sintassi.
Restando in questa prospettiva, la struttura del mondo rappresenta una gabbia insensata di stringenti poteri, ai quali, kafkianamente, come in un film di Cronenberg, si oppone la cieca dedizione alla propria tela di ragno, tessuta in un buco o in una cantina sfuggita all’occhio di Dio, all’ombra del proprio lavorio, sottratto alle grinfie della specie. Il poeta, attraversando questa condizione, nel caso di De Vivo, sottrae, mangia al tessuto consueto linguistico delle funzioni, trattando il testo stesso come un corpo mangiucchiato dal morbo del tempo, imprimendo alla lingua il negativo delle propria identità; così il poeta diventa tarlo di se stesso, si sabota volontariamente, dall’interno, si innamora e stringe un patto col verme che lo logora e lo alimenta, tenendosi reciprocamente in vita. Il lume della follia si contrappone dunque al lume della ragione o meglio ci mostra un’illuminazione ulteriore, perduta dal logos razionalistico, amplificando e legittimando una proliferazione periferica di pulsioni creative irrazionali, autodistruttive e sacrali. Le figure rappresentate portano dunque scritto in volto i segni di un destino soccombente, il marchio della differenza, dell’affermazione del proprio linguaggio poetico, di cui coltivano le stimmate come una ricompensa. Gli incontri del poeta si inscrivono spesso in una dimensione onirica e simbolica del quotidiano e in queste ambientazioni si ripresenta il tema di un offeso candore che la vita porta con sé, nel suo necessario compromettersi, di un’inevitabile macchia che nessuno esclude, richiamando anche in questo una connotazione religiosa e un’antropologia cristiana.
Questa poesia, tuttavia, anche sfiorando le pratiche medievali del masochismo mistico, la dimensione tragica e il solitario culto della morte, non si esaurisce nella sterilità, rappresentando innanzitutto una forma di dialogo, apertura che oltrepassa i secoli e insieme si rivolge alla prossimità delle figure amate. Nel dialogo con i morti riconosciamo una richiesta d’amicizia verticale, all’ombra degli eventi. L’autore, rivolto al passato, lancia l’amo di questo pugno di versi nel mare rimosso della storia, alla ricerca di fratellanze, parentele nella dissonanza dal mondo, nello sradicamento e nell’estraneità, conservando, come possibilità relazionale, la pietà e il riconoscimento della propria caducità. La voce del poeta si rivolge a un cimitero di ombre, di figure artistiche di cui si ricerca la voce e l’appartenenza. Le numerose dediche, ora a F. Nietzsche, ora a Vincent Van Gogh ecc.. e a tutto un universo riconducibile a una poetica del negativo, da Kafka a Ceronetti, rappresentano lo strumento privilegiato di questa richiesta. In quest’ottica ogni poesia potrebbe essere paragonata a una missiva imbucata in un’ipotetica casella postale dell’aldilà, i cui destinatari sono ideali compagni di viaggio, coloro che secondo l’autore “hanno amato Dio nell’incoscienza e nel delirio”, quelli che “hanno abbandonato la vita per ritrovare se stessi”. Ma oltre al respiro nascosto della storia, a una verticalità e una corrispondenza misurata nel tempo dei secoli, è altrettanto vivo il sentimento della vicinanza, della prossimità delle figure care, familiari e non, verso le quali si instaura un legame di partecipazione al dolore, da cui scaturisce la compassione per il ritratto precario della persona umana, nella restituzione della sua dignità; in una delle poesie più riuscite, “L’abbraccio di tua sorella Gina”, da sottolineare è anche l’utilizzo del dialetto napoletano, che aggiunge un aspetto sepolcrale della lingua di De Filippo, l’odore della Napoli del cimitero delle Fontanelle. Non è un caso dunque se il volume presenta in esergo due dediche “In memoria di zio Gaetano e zia Olga” e “Ai cani sciolti, ai vagabondi pii e santi che muoiono folli” sintetizzando le polarità verso cui tende il libro, ovvero il riconoscimento nella distanza, nel destino vocazionale dell’artista e dei suoi fratelli e l’individuazione dello stesso sentimento nella vicinanza di alcune figure umane predilette.
La cifra estetica di questi versi brevi, netti, spezzati, riesce a tenere insieme passionalità e oscurità, l’incontro dei due elementi in una dolcezza lugubre, un’eleganza nella tenerezza degli occhi di un bambino senza patria, che ai margini, nel deperimento, tra i dimenticati dal progresso, riconosce il residuo autentico e terribile della vita nella sua nudità. Sperimentando sulla propria pelle quella caduta dal tempo di cioraniana memoria, questo libro prova a rielaborare la lezione, tra i poeti contemporanei un po’ accantonata, di Giuseppe Ungaretti, mescolandosi ad echi di altri poeti dal vissuto tragico, come Paul Celan, Georg Trakl e Sergio Corazzini. Il recupero delle affermazioni lapidarie ed assolute, l’utilizzo del silenzio, dei vuoti spaziali come elementi plasmanti e la scarnificazione linguistica fanno pensare al poeta della prima guerra mondiale, degli altri poeti citati risentiamo l’eco nell’espressionismo tragico e il culto della morte da angelo nero, da fanciullo ammalato e crepuscolare. Tuttavia, nonostante le tinte oscure, questo libro cela una sua leggerezza, un inatteso spiraglio, come se anche il nero contenesse in sé una dimensione nascosta della grazia, un principio speranza attraverso il quale potersi aprire alla dimensione sconosciuta dell’altro.
La genesi di questo testo risale alla prima metà degli anni Novanta, quando lavoravo a Milano come fotografo. Poiché ero sempre alla ricerca di nuove avventure (fotografiche) mi recai a Firenze, in una villa sui colli, dove gli Hare Krishna tenevano un festival, per realizzare un reportage. Ero attratto dal tripudio di colori che i ragazzi e le ragazze portavano con sé durante gli Happening per le strade della città. Erano ancora molto attivi, era possibile vederli in azione coi loro canti, balli, e fantasie floreali.
Fu un’esperienza interessante. Parlai con molti di loro, ma soprattutto conobbi un uomo, un devoto con l’abito bianco, cioè un monaco, un illuminato. Subito scattò un rapporto che non esito a definire inaudito. Ancora oggi non so perché gli raccontai i miei trascorsi romagnoli e romani, quando ero finito in una spirale autodistruttiva dalla quale mi salvai per miracolo. E lui mi raccontò il suo passato criminale, quando era un assassino su commissione, una spirale altrettanto autodistruttiva – oltre che distruttiva – dalla quale si salvò grazie all’illuminazione. Disse che per lui non ci sarebbe mai stata salvezza, per il suo karma così negativo, se non fosse diventato un bodhisattva, cioè un risvegliato, colui che carica su sé stesso il karma degli altri e lo consuma per loro.
Restai nel campo degli Hare Krishna tre giorni, dormendo nel campeggio che avevano allestito nel parco della villa. Scattai delle foto spettacolari, che l’agenzia Grazia Neri vendette a varie testate, e nel tempo libero non feci che parlare col devoto in abito bianco. Penso che molte persone abbiano notato un uomo coi pantaloni militari, il gilè da fotoreporter e due macchine fotografiche al collo, seduto di fronte a un illuminato con l’abito bianco mentre lo ascoltava parlare a testa bassa.
Durante il viaggio di ritorno, in treno, il suo racconto continuava a infuriarmi nella mente. Non sapevo se crederci, ma non era importante. Quella era la sua verità, e io volevo fermarla, questa verità. Volevo trascriverla.
Infatti, appena tornato a Milano, ricominciai a scrivere. Era un’attività che avevo sostituito con la fotografia, ma risaliva ai tempi dell’adolescenza, quando ero invasato con Jack Kerouac e Henry Miller. Buttai giù in pochi giorni un testo fatto più che altro di appunti, di personaggi, perché il flusso narrativo del devoto in abito bianco era impresso nella mia memoria ed ero convinto che ci sarebbe rimasto per sempre.
Passò del tempo, passò qualche anno. Il mestiere di fotografo lentamente implose, andò verso l’estinzione, come spesso avviene coi lavori da freelance. Intanto attinsi dal racconto del devoto in abito bianco e scrissi alcuni racconti, le missioni del killer, che pubblicai su riviste e sul blog letterario Nazione Indiana.
Avevo deciso che volevo svilupparli, rifinirli e farne un libro. Il materiale c’era. Ma non era farina del mio sacco. Inoltre avevo la necessità di chiarire molti punti, soprattutto quelli relativi all’illuminazione di un assassino che cambia vita e cerca di riscattare tutto il male che ha causato. Per cui, sfruttando l’addestramento e i contatti del giornalista, che riesce a trovare chiunque ovunque si trovi, iniziai la ricerca.
Lo trovai. Viveva in un Paese del Nord Europa, ma non era più un Hare Krishna. Era diventato un monaco Shaolin. Disse che era una cosa abbastanza frequente, nel loro mondo. Disse che aveva in programma un viaggio proprio a Milano, di lì a due settimane. Sarebbe stato lieto di rivedermi.
Ci incontrammo in un centro di yoga e arti marziali, non lontano dalla stazione centrale. Sapevo che era un esperto di kung fu, ma dopo la sua conversione a Shaolin, disse, aveva vinto i campionati mondiali in Cina.
Shaolin. Non sapevo molto di loro, salvo che negli anni Settanta seguivo la serie televisiva Kung Fu interpretata da David Carradine nella veste del monaco.
Gli parlai del libro. Lui annuì, ma disse che non intendeva partecipare in alcun modo. Ora la sua era una vita nuova, il suo impegno era totale e i suoi obiettivi chiari e precisi. Disse di scriverlo, e di pubblicarlo se volevo, ma a mio nome.
Io accettai. Sapevo che tra me e lui era inutile discutere. Quello che diceva, quello era. Senza nessun ‘ma’ o ‘forse’ o ‘però’.
Così, dopo l’intervista che mi serviva per chiarire i punti in sospeso, a cui seguì un fitto scambio di lettere e poi di email, tornai non a Milano, ma a Bologna, dove mi ero trasferito e dove era nata mia figlia, e iniziai la stesura.
Veniva bene. Usciva gagliarda. Dietro c’era una materia vivente. C’era un vero racconto, che dovevo sistemare, rifinire, completare. Quando mi sembrò di essere pronto lo spedii a Sergio (Alan) Altieri, che avevo scoperto con un libro formidabile, Magdeburg. L’eretico. Ero entusiasta di quella scrittura nera apocalittica, poi avevo letto altri suoi libri che avevo recensito su Nazione Indiana e Carmilla, ed eravamo diventati amici. In un certo senso anche lui era uno Shaolin. Era un uomo sincero, e totalmente generoso. Mi inviò la prefazione che è pubblicata qui, dicendo che mi apparteneva, e potevo farne ciò che volevo. Anche cambiarla, se era necessario. Gli sono particolarmente grato di quella precisazione, perché ho potuto modificarla, sostituendo il mio nome con lo pseudonimo del monaco Shaolin che nel romanzo è lo Specialista.
Perché è uno pseudonimo, anche se è un nome ‘vero’. Gli Shaolin non scelgono i nomi a caso, ci sono delle regole che si basano sulle diverse generazioni. Per cui il nome del monaco che racconta le sue avventure, Shi Heng Wu, l’ha creato lui, il mio monaco. Così come i nomi degli altri maestri.
Il libro, dopo varie traversie e le solite lunghe attese che caratterizzano il mondo dell’editoria, fu pubblicato nel 2013 da un editore indipendente, Edizioni Anordest.
È passato altro tempo, altre traversie, e ora ho deciso di ripubblicarlo, in una edizione rinnovata, migliorata e potenziata, anche se la struttura originaria è la stessa.
Non sono più riuscito a mettermi in contatto col mio monaco. Non so dove sia, né cosa stia facendo. Però non mi andava di ripubblicarlo a mio nome. Mi sembrava un’operazione non del tutto corretta, anche se avevo la sua autorizzazione. Così ho deciso di utilizzare il nome del personaggio narrante, che diventa autore.
Ma è vero? È tutto vero?
Io non lo so, né posso saperlo. Ma per me lo è. Lo sentivo dalla sua voce, traspariva dal suo volto mentre lo raccontava. E poi come avrebbe potuto un devoto Hare Krishna conoscere quei luoghi, e quei personaggi? E quelle armi? E tutta quella violenza?
E ci ho messo del mio? Certamente. Questo non è un testo di verità assoluta. È un romanzo con una solida base di verità. Diciamo che potrebbe essere un’autofiction trascritta da me. Diciamo che sono stato il produttore, il regista e il coreografo del grande shifu Shi Heng Wu, campione mondiale di kung fu e del suo gigantesco alter ego, lo Specialista: i veri narratori di questa storia.
NdR: questo testo (“Nota del curatore”) di Mauro Baldrati racconta la genesi de “Lo specialista”, edito nelle settimane scorse da Fanucci