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L’eredità del corpo memoria nei libri di Goliarda Sapienza

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Ovvero il suo futuro siamo noi lettrici e lettori

Immagine di Watercolor

di Anna Toscano

Scavalcato il centenario della nascita di Goliarda Sapienza, ricordata in convegni, incontri, libri, letture e molto altro ancora, prende avvio la strada del secondo centenario. In questo maggio Goliarda avrebbe compiuto 101 anni, e la si ricorda ancora. Ma come la si ricorda? O come si vorrebbe ricordarla?  Di certo dando per assodato che L’arte della gioia è un capolavoro della letteratura, non solo italiana, va da sé, e che la sua autrice è una delle grandi scrittrici del Novecento.

Ci molto altri libri scritti da Sapienza che sono da annoverare tra le grandi opere della letteratura, e a oggi tutti i testi lasciati compiuti nel famoso baule al momento della sua morte sono stati pubblicati: alla “S” di Sapienza gli scaffali di librerie e case dovrebbero avere almeno un 84 cm di volumi sistemati uno dopo l’altro.

Questo centenario in entrata, il secondo, è pieno di libri scritti da Goliarda Sapienza, romanzi, lettere, diari, poesie, eccetera. Libri in cui si è travasata, come ha fatto nel grande romanzo, passando alla carta la sua memoria, divenendo da corpo umano a corpo memoria di carta.

Nella prima metà della sua vita corpo e memoria sono strettamente intrecciati alla pellicola, al cinema, al teatro. Si può riassumere la vicenda – il passaggio dal teatro e dal cinema alla scrittura – come un passaggio dal corpo come memoria filmica alla ricostruzione di sé attraverso la scrittura: la gioia del narrare come salvezza di una identità frantumata.

La gioia del narrare in Sapienza è la gioia del trasmettere, del mettere in condivisione, attraverso il cinema o attraverso la scrittura, è un mettere a disposizione il proprio corpo memoria alla narrazione, alla conoscenza. Tutto passa attraverso il corpo di Goliarda, un’autrice che si fa attraversare dalle storie. La sua storia è anche piena di corpi, grandi corpi e piccoli corpi, spesso corpi ingombranti, se pensiamo ai genitori, pure corpi che sono grandi assenti.

Partendo dal corpo di Goliarda, quello che in una recente immagine appare per la prima volta mentre si tuffa da uno scoglio: un corpo in movimento il suo che seppur fermato in un fotogramma racconta molto della storia di lei.

Di Sapienza, del suo corpo, si può parlare a lungo partendo dal corpo di una neonata, nel 1924, nata da una madre ultraquarantenne e da un padre anche non più giovane, una madre il cui corpo era già stato “spossato da parti tremendi / schiantato da lunghi congiungimenti”: due adulti che portano nel loro corpo parte della storia d’Italia e che già avevano avuto molti figli. Sapienza neonata corpo voluto fortemente dopo la morte del fratello, neonata amata e cresciuta libera in una Catania di inizio secolo; troviamo il corpo dell’adolescente Sapienza, già antifascista e impegnata nelle lotte dei genitori e dei fratelli e delle sorelle, ma anche grande amante del cinema e della sua vita libera; il corpo di Sapienza non ancora maggiorenne che prende un treno con la madre, Maria Giudice, alla volta di Roma dove ha vinto una borsa di studio per studiare all’Accademia di Arte Drammatica; il corpo che studia e che cambia per divenire attoriale, che piega sé stesso alle leggi del palco; un corpo sotto falso nome come staffetta partigiana in una Roma devastata dalla guerra; un corpo riconosciuto e riconoscibile negli anni ’50 come attrice affermata; un corpo che si inceppa, si spezza: è il corpo della depressione, non più un corpo memoria ma un corpo custode del passato, non più un contenitore dei ricordi,  ma con delle crepe da cui fuoriescono parti di memoria. Che cosa può spezzare, crepare, un corpo così allenato a custodire memorie?

Qui entra in campo un altro corpo, quello di Maria Giudice, la madre di Sapienza, un corpo che viene sepolto, nel ’52, dopo che per quasi tutta vita è stato a contatto con quello di Goliarda. Negli ultimi mesi di vita di Maria è Goliarda ad accudirne il corpo, possente un tempo e ora tornato bambina. Maria muore in casa. Goliarda e Maria sono sole in casa. L’indomani un funerale modesto, seppur in presenza di vecchi compagni, come Pertini e Saragat. Dopo il funerale Goliarda torna sola. Nella casa non c’è più il corpo memoria di Maria, il talismano di presente e futuro. Prima erano due corpi, due memorie spesso comuni. Ora al rientro il corpo è uno. E Goliarda lo scrive. Scrive il corpo mancante. Come dice un verso di Attilio Bertolucci “Assenza più acuta presenza”. Lo scrive. Lo scrive in versi. È la sua prima poesia, dal titolo “A mia madre”.

La morte di Maria apre una crepa, allarga una crepa, dentro la quale si inseriscono molte cose. E Goliarda scrive. Le prime cose che si inseriscono nelle crepe sono circa duecento poesie che scrive una dopo l’altra dopo “A mia madre”: le scrive, compone una raccolta, la intitola, siamo nel ’53, cerca di pubblicarla. Nessuno la pubblica. Ancestrale è il titolo, è il suo corpo parola, la sua memoria poetica. Finisce in un baule. Con tutti gli scritti che nessuno ha voluto pubblicare.

Il corpo di Goliarda è ora un corpo al buio. Dov’è: lo ritroviamo in ospedale dopo un tentativo di suicidio – ma lei dirà solo che voleva dormire-; lo troviamo squassato dagli elettroshock, scosso dalla terapia psicanalitica e da un altro tentativo di suicidio. La memoria è frantumata, scomposta, scardinata. La depressione occupa tutti gli spazi. Il corpo da amuleto e tempio diviene un qualcosa di lasciato sul divano al buio, un contenitore vuoto.

“Discernere nel cadere”. È un suo verso. È nella raccolta Ancestrale, che in questo momento giace in un baule. E mentre il suo corpo si sfalda così come la sua memoria, mentre cade, lei discerne. E mentre cade vede, comprende, che l’unica cosa che può ridarle la memoria, il suo corpo amuleto, la gioia di narrare e dunque vivere, è la scrittura. Inizia, in tal modo, un lavoro di ricostruzione di sé attraverso la scrittura, la ricostruzione della memoria attraverso il corpo e l’atto dello scrivere.

La sua vita diviene scrittura e con la scrittura ecco altri corpi. Qui giunge un altro corpo, dopo quello di Maria e quello di Goliarda, quello di Modesta. Un corpo che dapprincipio è solo immagine, presenza, vicinanza, e determina la svolta.

Goliarda capisce che l’unica strada per ricostruire la sua memoria e il suo passato, la sua storia, è scrivere, scrivere Modesta, di Modesta, con Modesta. Abbandona la sua vita di prima per vivere di scrittura, per scrivere di Modesta.

Il corpo di Goliarda diviene in tal modo custode di memorie vecchie e nuove. Diviene corpo di nuotatrice e tuffatrice a Gaeta, di donna che scrive. Che scrive di Modesta.

E Modesta prende corpo, prende forma, addirittura cresce e inizia ad avere lei stessa delle memorie, senza peraltro che il suo corpo venga mai descritto. Modesta diviene addirittura, ai giorni d’oggi, corpo filmico.

Sapienza nella sua scelta di vivere di scrittura scrive per sette anni L’arte della gioia, due anni di revisione, e altri anni in cerca di un editore che non troverà. Modesta, la sua figlia corpo di carta, finisce nel baule con tutte le altre parole scritte. Modesta non vede la luce.

Il corpo di Goliarda diviene, negli ultimi anni, anche un corpo recluso, incarcerato, dietro le sbarre, da punire. Ma il corpo di Goliarda ne esce forte nelle sue suture e nella sua accoglienza, accoglie in sé tutti i corpi reclusi che incontra divenendone custode e memoria.

Dopo molti anni – la vicenda è nota – dopo la morte di Goliarda e il suo corpo memoria sepolto, Modesta vede la luce: viene pubblicata, tradotta in molte lingue, letta in molto paesi. Il corpo di carta ha visto la luce e questo corpo di carta contiene molti altri corpi a loro volta contenitori di corpi: Modesta contiene il corpo di Goliarda, che in lei si è travasata, e contiene il corpo di Maria.

Modesta è il corpo memoria testimone, Modesta vive nel suo corpo di carta e viaggia in treni, aerei, macchine, vive in case, librerie e biblioteche in tutto il mondo sotto gli occhi di lettrici e lettori appassionati che a ogni voltar di pagina le danno ossigeno.
Il secondo centenario di Goliarda Sapienza sono Maria, Goliarda e Modesta che ora fanno parte della nostra memoria di lettrici e di lettori, del nostro corpo, del futuro.

Questo testo nasce dall’illuminante richiesta e dal gentile invito di Archivio Aperto e di Giulia Simi di inserire Goliarda Sapienza nell’edizione 2024 del Festival dal titolo The art of Memory.
https://www.archivioaperto.it/

Quando finirà la notte?

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Nota al cuore
di
Francesco Forlani

“Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce.”
Così Matteo racconta della metamorfosi del Cristo (trasfigurazione) che si raccomanda con i tre apostoli di non dire nulla di quanto appena successo e a cui loro avevano assistito.
Nei passati giorni di passioni, processioni, ceneri, costati aperti e crocifissioni, e convivi, incontri del passato, del non più presente, turbamenti dell’inimicizia, di passeggiare come andare a zonzo per le strade della tua città, delle tue strade, dove insieme ai ricordi appare il male di vivere dalla parola imbronciata di sottobosco, sottopopolo, facciate inermi di palazzi abbandonati- questa è Caserta, e altro che consiglio comunale sciolto per camorra, qui tutta la città dovrebbe sciogliersi, fondersi, sparire e trasfigurata riapparire- ho ripensato al Raffaello Sanzio e al suo dipinto.
Nietzsche ne era appassionato al punto di scriverne:
“La metà inferiore, con il ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: l’illusione è qui un riflesso dell’eterno contrasto, del padre delle cose. Da quest’illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo mondo illusorio, simile a una visione in cui quelli dominati dalla prima illusione non vedono niente. Un luminoso fluttuare in purissima delizia e in un’intuizione priva di dolore, raggiante da occhi lontani. Qui abbiamo davanti ai nostri occhi, per un altissimo simbolismo artistico, quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza del Sileno e comprendiamo per intuizione la loro reciproca necessità. Con gesti sublimi [Apollo] ci mostra come tutto il mondo dell’affanno, [la metà inferiore del dipinto con l’ossesso], sia necessario, perché da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice e poi, sprofondando nella contemplazione di essa, possa sedersi tranquillo nella sua barca oscillante, in mezzo al mare”.
Poi nel mio pellegrinare in solitaria ho incrociato sulla strada del rientro da mia sorella, la persona più mite del mondo che è anche il nostro cardiologo di famiglia. Ha nel nome, Cardillo, la parola cuore, però anche volo d’uccello, estasi ortesiana.
Sorpreso dall’inatteso incontro nell’ora d’aria e di crepuscolo mi diceva del bene che fa camminare da soli. Io della visita medica annuale appena fatta a Saragozza con il responso che pareva un avviso di garanzia per gli alti valori alcolici.  E ho condiviso con lui questa storia che stava facendosi racconto nella mente, questa nota che tu lettore hai appena sfogliato, della trasfigurazione, del pensiero a voce alta che mi aveva fatto compagnia lungo il lungo tratto dello stradone che costeggia tutto il parco della Reggia e la sua natura, viva, forestale oltre le sbarre delle inferriate.
E ho concluso dicendogli semplicemente che da non credente preferivo di gran lunga la trasfigurazione alla resurrezione, perché parlava di un risorgere da vivi e non da morti. Un’ esperienza che conosce bene chi sia stato, anche per un solo istante, veramente felice.

 

I sogni non parlano se li svegli – Alba Metaponte

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Tre poesie di Alba Metaponte dal libro

“I sogni non parlano se li svegli” (Edizioni Progetto Cultura, 2025)

 

Princìpi, precetti e regole

Io e mio padre arrivammo dal dottore. La sala d’aspetto era stracolma di gente. Non ci
sedemmo, ci sembrò superfluo. Se avessimo occupato altre due sedie, la nostra attesa si sarebbe prolungata. L’ergonomia ha fatto passi da gigante e il comfort delle sedute ci avrebbe procurato uno stato di relax eccessivo. Decidemmo entrambi di rimanere
protesi verso l’alto con il corpo eretto e gli occhi puntati al soffitto squamoso, un mostro di lana di vetro che raccontava con garbo, quasi in silenzio, tutti i discorsi assorbiti dalle pareti. Mio padre camminava avanti e indietro calpestando sempre le stesse mattonelle con un rituale antipatico. Io per conto mio tenevo la nuca al sole. Le entrate e i corridoi con molto traffico pedonale avevano semafori immaginari per evitare che le persone cozzassero in un calpestio senza sosta. La gente con problemi oculistici, vedeva solo il verde. Mi misi a contare i passi delle scarpe che uscivano, entravano e viceversa. La vita è piena di meraviglie come questa, la matematica dei passi. Le scarpe non lasciavano impronte, ma da una suola guizzarono esseri ricurvi a forma di cilindro o rotondi.
Alcuni disposti a cubo con colorazione di invertebrati marini. Correvano velocissimi in
tutte le direzioni lasciando una scia appiccicosa e multiforme. Una coppia formò una
pappetta grigia nel giunto aperto di un pavimento, si dibatteva e sembrava soffocare.
Non c’era ossigeno, solo frecce direzionali. Una si staccò, strisciò faticosamente
e finalmente si infilò nel taschino della giacca dell’infettivologo, salì pian piano per il
pomo d’adamo come scalando una montagna, ansimando plasticamente. Si fece
coraggio e con la leggerezza di un atleta si lanciò tra le fessure rosate dell’ugola. Il
medico ci chiamò per entrare.

 

Il mago

Il mago viveva in profonda solitudine, usciva solo per comperare cibo e rientrava
correndo per una strada decorata con docili alberi azzurri. A volte dimenticava qualcosa, ma non tornava mai indietro. Si vergognava molto della sua faccia da formichiere, per questo usciva con un mantello nero per nascondere il suo volto. Nessuno vide mai la sua faccia. Solo gli servivano gli occhi per non perdere la rotta. Le sue pupille si allargavano o si riducevano secondo le stagioni. La sua vita era una sequenza di colpi di scena, una liturgia senza regole che mutava in ogni istante adornata di candelabri, scritture sacre e varie decorazioni.
Il mago solo voleva essere mago e niente di più, però non confezionava figure di fumo
per chiunque, né faceva incantesimi per domare dragoni, e nemmeno innamorava
le api che gli pungevano il volto. Girava e rigirava fino a puntare la direzione opposta.
Il cappello gli rubava il giorno come un ladro, e lì solo appariva la sua notte, la sua
compagna con denti stellati, il suo nido affamato di buio. E mentre la luna ululava
ai lupi, lui faceva copie di se stesso.

 

Morte di un tasso

Giacevi dietro un sipario di asfalto, il tuo corpo era così pesante come imbottito di paura per qualcosa che non conoscevi. Macabra la primavera ti portava un feretro per il suo debutto. La morte è incantevole dicevano i corvi. “É laggiù, lo hanno lasciato sulla
strada”. Il silenzio non rispondeva e io neppure. Le voci non si fermarono: “É
circondato di formiche che accarezzano la sua immobilità, guardano le sue mani distese come croci, lo hanno lasciato solo come se non fosse mai nato”. La terra era imbevuta della stessa aura funesta che ricopriva la porta e le pareti della luna. La norte quel giorno cercava una forma per disegnare la sua immagine e la trovò nel tuo
mimetismo, nella tua intelligenza di architetto delle tenebre, nelle cavità del terreno, nel pianto dei tuoi fratelli. Sei diventato così piccolo come una goccia di sangue e le
mosche ballano davanti la tua bara di viaggiatore notturno. La notte come un sicario ti
fermò di colpo mentre con i tuoi piccoli passi di orso uscivi tra le ombre del mais a
cercare la tua libertà. Ascolta come si mescolano nel campo i venti, come piangono gli
uccelli verso il nulla creatore. La tua morte spaventò gli angeli che dormivano nella terra, sotto i tuoi corridoi di cieco, dove adesso le farfalle seminano vermi in un luogo
disabitato. Sotto il tuo corpo emerse la mia mano, ti ho guardato per un istante che
furono mille e le mie lacrime ardenti hanno bagnato il tuo corpo freddo, non ti
abbandonerò con questa cenere di ortica nel petto, con questo inganno dell’oblio.
Lascerò che i tuoi passi si propaghino nel ventre della terra, che spargano le tue radici, e aspetterò la prossima primavera per incontrarti nel fulgore di un fiore bianco di ciliegio, lo stesso fiore che ti ho lasciato un giorno di aprile imbevuta di pioggia e di lacrime.

 

 

 

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Alba Metaponte è nata in Calabria e ha vissuto a Bologna, Roma, Santiago del Cile.  Ha tradotto importanti poeti latinoamericani tra i quali risaltano i cileni Vicente Huidobro, Pablo Neruda, Nicanor Parra, Oscar Hahn e Jaime Huenún; le argentine Alejandra Pizarnik e Olga Orozco; la uruguaiana Marosa Di Giorgio; la peruviana Blanca Varela, la messicana Rosario Castellanos, e molti altri.

Il rituale servile

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di Paolo Morelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tempo fa dovevo recensire un libro dedicato a un sopravvissuto alla deportazione dal ghetto romano e alla Shoah. Lo presentavano al centro culturale annesso al Tempio Maggiore, lucente quel giorno più che mai, affacciato sul lungotevere. Un passo dopo i dispositivi di sicurezza sono stato accolto da sguardi interessati, intensi, anche cattivi, prima di tutto erano a casa loro, dicevano, e potevano seguirmi per tutto il percorso, anzi, almeno due di quegli sguardi, giovani, scuri, pressanti, si sono presi cura di me per tutto il tempo che sono stato lì a prendere appunti, quasi sentivo alla nuca il disappunto per non sapere le parole scritte. Solo dopo, alla fermata dell’autobus per tornare a casa, ho capito cosa volevano o sentivano quegli occhi: non li odiavo, neanche un po’, nemmeno nei fondi recessi, e questo veniva preso con estremo sospetto. Purtroppo da sempre sono uno che ha le cose scritte in faccia, ho pensato, si vede che hanno letto che odio la sopraffazione in maniera nevrotica, dei potenti sempre e prima di tutto, e l’impunità di chiunque, perfino la mia, fino allo schifo e alla pena la odio, e ci sto male poi da una vita per l’infamia di chi si crede vivo se straripa nell’ignoranza di sé e del mondo nel quale esiste o bene o male, quando si lascia abbindolare dalle formule e i rituali della vendetta infliggendo sofferenza, disgrazie e morte agli inermi, perpetrate senza scrupoli, quando abiura alla propria dignità e al suo ruolo intenso di vivente senza provare almeno uno scatto isterico di resistenza. Perché, dunque, non li odiavo?, questo dicevano quegli occhi, due avevo fatto a tempo a fissarli per un momento prima di uscire, un attimo solo perché non si insospettissero di più. Ma bastava, quell’attimo. Perché non li odiavo per niente quegli occhi, sebbene antipatici, se erano di chi si crede appartenente a coloro che stanno dando al mondo un esempio micidiale, forse esiziale? Di chi fa differenza tra le ossa dei morti per fame? Come tutti, quando crediamo di diventare più cattivi perché così bisogna fare, perché è giusto e necessario così ci dicono, e invece diventiamo solo più servi ancora; come uno che è caduto in una trappola e invita gli altri a venire avanti sperando che cadano anche loro, quegli occhi cercavano l’odio che non ci sarà mai e anzi lo pretendevano con arroganza. Io resto banale e non ci credo che uno Stato, qualsiasi esso sia, rappresenti una razza, un’etnia, peggio che mai un Dio o una religione, anzi nemmeno credo sia nel mio nome lo Stato, e finché vivo è sicuro almeno che nessuno riuscirà a farmici credere, nemmeno con la tortura di vedere occhi giovani accecati da un odio per procura, per delusione, per subdolo avvilimento dell’umanità. E che dopo, forse persino stavolta, diranno che non ne sapevano niente.

(NdR: la fotografia è di Hosny Salah, pixabay)

 

Ciò che resta o del verificare

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di Samir Galal Mohamed

KHALIL RABAH, Palestine (1961)

La comunicazione digitale è semplicemente ripugnante, inutile, narcisistica.

Comporta una vergognosa o scarsa dose di autostima. Risiedono qui le cause delle polarizzazioni: nelle sproporzioni. Come scrittore, visualizzo l’asimmetria tra le parole disponibili (reperibili, repertabili) e quelle impossibili da registrare senza risultare offensivo e ridicolo. Ma è tutto nelle cose, si dice – le giustificazioni –, anche questo:

«Io sono R., ventuno anni, del nord di Gaza. Vivo con la mia famiglia. Mio padre è un martire. Salvate la mia famiglia e me».

La biografia di un profilo virtuale, una vita tra le oltre 2 milioni di altre su una superficie di 365 km². Meno di 150 caratteri. È verificabile. Anche quello che dice lo è, o lo è già stato. Verificato. Che si sia verificato davvero, non ha giustificazioni.

Pesche e mandarini

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Foto di zullusim da Pixabay

di Isabella Ballarini

Là in fondo, sotto quella tettoia, c’era un chiosco che vendeva pesche e mandarini.

Non insieme, ovvio: pesche d’estate, mandarini d’inverno.

Se ne stava là da così tanto tempo, dannato cumulo d’immondizia, che nessuno ricordava più quando fosse apparso per la prima volta: un secolo fa? Di più?

Difficile dirlo: il chiosco non parlava. Chiunque gli passasse davanti percepiva il peso del suo silenzio e basta. Non aveva rabbia: accettava anche la più brutta delle cose senza fiatare, stupido banchetto di legno e segatura, con la bilancia piena di ruggine, la frutta posata sul piano. Lo si poteva ignorare, maledire. Non reagiva, non fiatava e il tempo gli passava accanto senza colpirlo.

Da bambino lo fissavo con curiosità. Mi voltavo verso il banco e piegavo le labbra: il piano era scrostato, le assi parevano marce. La frutta dava l’idea di essere andata a male.

A me non interessavano le pesche. E neanche i mandarini.

Non potevano competere con gelati, merendine e gomme da masticare. Pesche. Piramidi di pesche: troppo mature, troppo acerbe, piccole come una noce. Ricoperte di peli, schiacciate sul banco. Sulla buccia, i colpi della grandine. E mandarini: bitorzoluti, pieni di succo e ossa da sputare. L’odore intenso penetrava ogni pietra. Molti ricordano soprattutto quello. L’odore. Si incollava ai cappotti e non se ne andava più. Lo si portava via coi vestiti, con le scarpe, fin dentro le case.

Anch’io ho memoria di quel profumo. Era così forte che nemmeno i gas di scarico lo coprivano: io sgommavo con lo scooter e l’odore era là, nell’aria, nelle narici. Impennavo, per far vedere al chiosco quant’era bello avere sedici anni. E il chiosco nulla, immobile, ogni giorno più vizzo.

Sembrava guardarmi, però. Il giorno in cui iniziai a fumare, lo feci davanti al chiosco. Soffiai il fumo sulla frutta piena di vermi e scoppiai a ridere. Credi di farmi paura? dissi.

Sorgevano case belle, là intorno. Grattacieli, ville. Il chiosco se ne stava immobile nello stesso posto di sempre, ingoiato dal cemento. Io ero di fretta, gli occhi fissi sull’orologio.

Il chiosco camminava al mio fianco. Era là, il giorno del mio matrimonio. Avvolto nel silenzio, incastrato nel solito angolo. Attraversava il tempo senza che mi accorgessi della sua presenza.

Quando nacque mio figlio, era con me. Fermo, traslucido. Si nascondeva nelle piccole cose: nelle spaccature del muro, nelle venature del legno. Sembrava appartenere a un tempo che non era il mio.

Eppure era costante nella mia vita. Quando fondai la ditta, era là. Vide le mie speranze e le mie illusioni. Era accanto a me nei momenti felici, durante il buio. Quando litigai per strada con mia moglie, c’era. Muto e slavato, zitto. Con i palazzi che lo ingoiavano, che non gli lasciavano nemmeno una falce di luce. Mi vide passeggiare con l’altra. Fermo, con la sua frutta terribile sul piano. Cosa pensava, in quel momento sospeso? Non l’avrei saputo. Il chiosco non parlava. Restava immobile, a osservare in silenzio la mia vita. E il tempo passava e lui non si muoveva. Quando firmai le carte di divorzio, c’era. Lacrime e paura e dubbi: lui era con me. Vide il mio successo, la mia crescita infinita. Mi guardò licenziare brava gente, col cuore pieno di fango. Non c’era biasimo, nelle sue vecchie assi. Solo silenzio e frutta ammassata sul banco. Era accanto a me, quando mi innamorai di Lei. Giovane, bella. Ti lascerà, sembrava dire. Io lo guardavo marcire come tutte le cose vecchie. Lo ignoravo, sperando che un giorno il suo sguardo si posasse da un’altra parte. Ma il chiosco non se ne andava: legno scheggiato; pesche e mandarini a cataste, pieni di mistero. Quando sposai Lei, era con me. Piccolo. Vecchio. Sembrava restringersi, tanto era minuscolo. Il giorno in cui mi sentii male, c’era. Ulcera, si disse. Stress che mi perforava lo stomaco. Sputavo sangue e il chiosco era al mio fianco. Cosa vedeva, nel cuore reso duro dagli anni? Soddisfazione? Rimpianto? Impossibile saperlo. Il chiosco non giudicava. Lasciava che ogni cosa attraversasse la mia anima senza fare nulla. Mio figlio smise di cercarmi e lui c’era. Lei se ne andò e lui era là. Brutale. Eterno. Era nato per morire e non moriva. La sua lurida bontà usciva dalle assi. Sanguinava miele. E la ditta perdeva clienti e io non respiravo più. E il chiosco mi guardava. Pura indifferenza fatta di legno e spirito. Non mi dava nemmeno la soddisfazione dell’odio. Se almeno mi avesse detestato, avrei avuto un nemico da combattere. Invece il chiosco mi lasciava da solo davanti all’abisso.

Muori, dissi un giorno, sottovoce. Il chiosco non rispose.

E arrivò il tempo della fine. C’era il sole, quello strano pomeriggio. Lo ricordo a malapena, come se nella testa avessi la memoria di qualcun altro. Camminavo male, appoggiavo di continuo una mano contro il muro. Si sente bene? chiese qualcuno. Feci cenno di non preoccuparsi per me.

Andai verso il bar: i tavolini all’aperto erano pieni di gente. Io mi feci largo tra cappuccini e caffè, muovendomi come il vecchio che mi rifiutavo di essere. Tutti mi guardavano con curiosità: tremavo parecchio, le mani facevano fatica a stare ferme. Raggiunsi un tavolo, afferrai una sedia.

C’era un ronzio potente, nella mia testa, come se il cranio fosse pieno di mosche.

Mi avvicinai al chiosco barcollando sui piedi stanchi. Nessuno provò a fermarmi: tutti mi osservavano da lontano, immobili come pezzi di pietra. Io alzai la sedia fin sopra la testa.

Eppure sarebbe bastata una parola, una sola parola. Avevo bisogno che il chiosco mi parlasse.

Lui non fece nulla. Non aveva paura di morire, maledetto. Aveva vissuto abbastanza, aveva visto abbastanza. E ora sembrava ridere, tanto era pieno di silenzio e frutta.

Colpii il banco con la sedia. Le pesche volarono in aria. I mandarini rotolarono giù. Che stagione era? Pesche e mandarini insieme non si erano mai visti. Colpii. Frutta per terra, sul marciapiede, fin dentro il canale di scolo. Spaccai le vecchie assi: cedettero come ossa stanche. La tenda si strappò in più punti: i brandelli volarono nel vento caldo. Si fermi, gridarono in molti. Io colpivo. Ancora. E ancora. Legno, schegge, frutta. Tutto per aria, tutto in frantumi. Basta, sentii gridare.

Delle mani bloccarono il mio braccio: in molti intervennero per fermarmi. Mi tolsero la sedia dalle mani. Mi costrinsero ad allontanarmi. È malato, sentii dire, è matto. Mi lasciai guidare verso uno sgabello, docile come non ero mai stato. Si sieda, dissero.

Qualcuno mi portò un bicchiere d’acqua. Qualcun altro chiamò le forze dell’ordine.

Io rimasi lì, con le le labbra aperte. E con uno squarcio giù, fin nel fondo dell’anima.

Da “Una storia di sparizione”

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[Capovolte è una piccola casa editrice indipendente, nata nel 2019 con l’obiettivo di offrire una prospettiva di genere intersezionale, su tematiche di attualità e un focus sui femminismi neri. Pubblica prevalentemente saggistica, ma nel 2022 ha aperto una piccola collana di narrativa e poesia (LA PO’ RA – anagramma di “parola” – LAtitudini, la POesia non è un lusso, RAccontarsi), in cui pubblica opere di autrici in diaspora, in italiano o in traduzione. Tra le autrici pubblicate in quest’ultima collana, le brasiliane Djamila Ribeiro, Conceição Evaristo, la poeta italo-somala Rahma Nur, l’autrice luso-angolana Yara Nakahanda Monteiro, la poeta congolese Sarah Lubala e l’autrice italo-marocchina Amal Oursana.]

di Sarah Lubala

Traduzione di Gaia Resta

 

La litania di Maria

Stanno dipingendo le pareti della Collégiale Notre-Dame-des-Anges;
all’interno, 122 angeli dorati accompagnano la Vergine Maria al cielo.
Mentre il crepuscolo sanguina lentamente,
rimango sotto il suo tetto malandato,
sempre più vicina,
sempre più vicina.

Madre,
concedimi una lingua segreta che sia tutta nostra.
Dirò nevicata nella Old Québec e tu saprai cosa intendo:
l’uomo che mi ha trovata nell’oscurità,
il tramonto che si tramutava in tremolio,
i mesi che mi hanno frantumato le ossa.

Nostra Signora delle Sale d’Attesa,
ho vissuto trent’anni nel terrore della forca,
toccata da Dio o dall’amore o dalla pazzia, dipende.
Sono un’orfana della domenica,
figlia del Regno Fantasma,
imploro miele dalla roccia.

Disfattrice di Nodi,
sciogli le pillole segrete nei miei denti,
la buona medicina del significato,
dammi le parole che sono Dio
quando non posso vedere Dio.

*

Una storia di sparizione

Ci sono giorni
ai quali non possiamo tornare –
l’estate in cui il fiume si prosciugò,
una fila di jacarande bianche,
la bocca di marzo
graffiata dalla nostalgia.

Che sciocchi siamo stati
a rifiutare la nostra eredità;
la lunga corda degli uomini nel nostro sangue,
la debolezza dei nostri padri.

Come rubano i giorni tutto ciò che possono;
lo spazio tra i miei denti,
l’umorismo di mia madre,
volumi interi di poesie.

Tu
che chiedi troppo,
che mangi l’aria –
richiama i tuoi cani,
lasciami dormire

*

Canzone per la partenza

in memoria della mia bisnonna

Le mucche stanno morendo nei campi, kokolo;
niente carne quest’estate,
lei viene venduta a un vecchio capo, kokolo;
dalle sue gambe un canto di acqua e sangue.

Lei seppellisce due bambini, kokolo;
due fagotti avvolti nella mussola bianca,
il sudario si impiglia nel cespuglio di rovi, kokolo;
nessuno, solo Dio può ricucire lo strappo.

Lei ripensa a sua madre, kokolo;
ricorda le sue mani ossa d’uccello,
che scavavano sconvolte dalla fame, kokolo;
la terra non ha mai reso.

Queste sono fila di manghi selvatici, kokolo;
le attraversa toccandole con mani e ginocchia,
la notte diventa un canto, kokolo;
nulla può più spaventarla.

*

Febbre

In una stanza d’albergo a Bali
disperdo elettricità,
il farmaco, per un effetto strano, si tende e si incendia,
si infiamma contro di me.

Anche la lingua è un fuoco;
attraverso i denti lenti dell’anno
tutti i giorni della mia vita parlano contro di me.
Guarda il fuoco che mangia il fuoco.
Guarda mentre dà fuoco all’intero corso di una vita,
ed esso stesso viene incendiato dall’inferno.

Dico Walungu, Okapi,
Le Grand Boulevard
Ripercorro il vecchio quartiere:
cerco le donne agli angoli delle strade,
le barche a Maluku,
mi libero dell’erba alta –
lepre luminosa nel fumo della boscaglia.

Sul pavimento piastrellato del bagno,
chiamo un caro amico:
«Sogno fiumi», dico.
«E il fischio acuto delle quaglie blu».

Continuo a vedere mia madre;
è più giovane ora,
il suo corpo arenato su quello di mio fratello.
Lui ha soltanto quattro anni, la febbre lo sconquassa.
Lei supplica la memoria di sua madre.

Come muoiono gli incendi?
Arriviamo alla fine
e invochiamo l’inizio, urlando.

*

Domande che potresti sentire durante un colloquio per la richiesta di asilo

Da dove sei arrivata?

Pensa a un Paese,
smaltato di verde lussureggiante e incontaminato.
Ora immagina che tu abbia la forma di quel Paese,
la lunghezza del tuo corpo
il sogno di un uomo affamato.

Chi ti ha fatto del male o ti ha fatto temere di riceverne?

Là fuori,
il terrore cammina nella pelle degli uomini.
Sciacalli alla porta,
notti lunghe e un bisogno tenace,
il tanfo dei vicoli in ogni letto.

Perché ti hanno fatto del male?

Nessuna donna appartiene a se stessa,
sei una cosa presa in prestito –
oro per il corredo,
stralcio di canzone del fiume,
lo scialle consunto e sottile,
a digiuno sotto i loro sguardi.

Hai paura di tornare nel tuo Paese di origine?

La libertà è il tuo cuore nel vuoto della notte.
Prego di svegliarmi come un uccello;
un canto di tendini e piume,
con ali luminose e senza confini,
liberata da Dio.

 

* * *

The Litany of Mary

They’re painting the walls of the Collégiale Notre-Dame-des-Anges;

inside, 122 gold angels usher the Virgin Mary forward.

In the slow bleed of dusk

I stand below its battered awning,

ever closer,

ever closer.

 

Mother,

grant me a secret language that is all our own.

I’ll say snowfall in Old Quebec, and you’ll know that I mean:

the man who found me in the dark,

twilight turned to trembling,

the months that ground my bones.

 

Our Lady of the Waiting Rooms,

I have lived thirty years gallows-scared,

touched by God or love or madness, depending.

I am a Sunday orphan,

child of the Ghost Kingdom,

begging honey from the rock.

 

Undoer of Knots,

loosen the secret pills inside my teeth,

the good medicine of meaning,

give me the words that are God

when I cannot see God.

*

A History of Disappearance

There are days

we can’t go back to –

the summer the river ran dry,

a row of white jacaranda,

the mouth of March

bruised with longing.

 

How foolish we were

to refuse our inheritance;

the long rope of men in our blood,

our fathers’ weaknesses.

 

How the days steal all they can;

the gap in my teeth,

my mother’s humour,

whole volumes of poetry.

 

You

who asks too much,

who eats the air —

call off your dogs,

let me sleep

*

A Leaving Song

in memory of my great grandmother

The cows are dying in the fields, kokolo;

there is no meat this summer,

she is sold to an old chief, kokolo;

her legs sing blood and water.

 

She buries two babies, kokolo;

two bundles in white muslin,

the shroud is caught in the thorn bush, kokolo;

none but God can mend the tear.

 

She remembers her own mother, kokolo;

she recalls her bird-bone hands,

they dug in wild hunger, kokolo;

the earth never did yield.

 

There are rows of wild mangos, kokolo;

she moves hands and knees between them,

the night becomes the singing, kokolo;

nothing scares her anymore.

*

Fever

In a Bali hotel room

I shed electricity,

some quirk of the medication tends and stokes,

kindles against me.

 

The tongue is also a fire;

through the year’s slow teeth

all the days of my life speak against me.

See fire eat fire.

See it set the whole course of a life on fire,

and itself set on fire by hell.

 

I’ll say Walungu, Okapi,

Le Grand Boulevard . . .

Trace the old neighbourhood:

reach for the women on street corners,

the boats at Maluku,

slip the high grasses –

bright hare in the brush smoke.

 

On the bathroom’s tiled floor,

I reach a dear friend:

«I’m dreaming of rivers,» I say.

«And the high whistle of blue quails.»

*

Questions you are Likely to Hear in an Asylum Interview

Where have you come from?

 

Think of a country,

lush-glazed and untouched.

Now imagine yours is the shape of that country,

the length of your body

a hungry man’s dream.

 

Who harmed you or put you in fear of harm?

 

Out there,

terrors walk in men’s skins.

Jackals at the door,

long nights and dogged need,

the stench of back roads in every bed.

 

Why did they harm you?

 

No woman belongs to herself,

you are a borrowed thing –

gold for the dowry,

snatch of river-song,

the shawl worn thin,

fasting within their sights.

 

Mortacci mia

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© Doris Salcedo © Foto: Sergio Clavijo

di Piero Salabè

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo di Piero Salabè, “Mortacci mia”, La Nave di Teseo 2025

Colui che da giovane si era infervorato per il sacro fuoco della ricerca, non credeva più a nulla. Quella vita avvampata negli anni della passione, amore o scienza che fossero, ormai non gli apparteneva più. Aveva visto gli uomini come sono, non c’erano sorprese da attendersi. Era diventato difficile farlo uscire di casa, rinunciava alle proposte culturali, adducendo emicranie. Meglio, invece, le proposte culinarie. Adorava le ciliegie, ce n’era sempre una scodella in cucina, ed era particolarmente goloso del gelato al cocomero che andavamo a prendere a Corso Trieste nelle serate di giugno. Si sbrodolava come un bambino e mia madre lo rimproverava. Il gusto di quel mondo era inequivocabile, la fresca fragranza della frutta che si scioglieva in bocca senza essere interrogata. Di tutto il resto, i cosiddetti ideali, invece meglio tacere. Gli sembravano inafferrabili, falsi, fraudolenti. Non voleva parlarne con i figli per non influenzarli con il suo pessimismo. A volte lo spaventava scoprire nei loro sguardi una vena di risentimento: “Siamo così perché tu sei così.” Quel senso di colpa era alleviato dalla negligenza e dall’egoismo dei figli che in certi momenti riconosceva lucidamente. Sì, anche loro erano come gli altri, volubili ed egoisti. Anch’io, il letterato, che mi ripresentavo dopo mesi di assenze e telefonate poco affettuose, con iniziative riparatrici che di solito declinava: andare a un museo, al cinema. Ero orgoglioso di mostrargli certi interessi presi da lui, ma il mio entusiasmo si arenava contro l’abulia di chi aveva smesso di interessarsi delle cose. Lo volevo coinvolgere nelle questioni che mi agitavano, confidando in un focolaio ancora vivo del suo spirito. Provai a discutere con lui di Buñuel, del coltello a forma di croce in Viridiana, del rapporto fra eros e agape, ma lui faceva finta di non capire, “Sono troppo stupido per queste cose”. Una sera gli proposi di andare a vedere un film di Kiarostami. Pensavo che vedendo le insegne nell’alfabeto arabo, sentendo una lingua sconosciuta sarebbe scattata una molla in lui. Poco dopo l’inizio, mentre sullo schermo scorreva l’infinito viaggio in macchina dell’aspirante suicida per le polverose strade di Teheran, mio padre si era addormentato. Non c’era modo di risvegliarlo, e restai da solo a misurarmi con l’angoscia del personaggio che aveva già scavato la propria fossa. Dopo quella serata per me fu chiaro che con lui non ci sarebbero più state discussioni sul senso della vita, su “essere o non essere”: il sapore delle ciliegie, che nel film aveva convinto il protagonista a non togliersi più la vita accettandone la bellezza, non poteva più trasformare i giorni di mio padre, ma solo incatenarli a nuovi giorni. A me, invece, rimase una scodella colma di domande, tutte per me.

Anche Ostia, la nostra brutta e squallida Ostia, con le sue spiagge di sabbia nera, offre le dune a chi ha voglia di spostarsi verso i cancelli. Tutti al mare, a mostrà le chiappe chiare. Adesso però Ostia s’è rifatta, più squallida ancora, nessun grattacheccaro, ma solo ciofeche e discoteche. È lì che torneremo, Aič, sul litorale disprezzato e deprezzato, a noi basteranno quei pochi metri di sabbia, non potranno toglierci l’accesso al mare. Saliremo sul bus alla fermata Cristoforo Colombo, quello che non parte mai, e non importa se siamo senza biglietto, perché i controllori oggi portano le pinne, non uno che in trent’anni di carriera sia riuscito a fare una multa. Roma zozzona che tutto perdona. E poi cammineremo lungo il litorale, là dove ci sono i grandi di arbusti di pitosforo: se affondiamo il viso in quei cespugli potremo trovare tutte le cose perse, il campanello di ottone, il singhiozzo prima di dormire, il polso dell’orologio, Ali Agca e il coniglio mannaro, i petardi mai scoppiati, il grido di mamma, il fumo dietro cui lui traspare, le pesche della nonna che marciscono sul campo di bocce, le api dell’invisibile, l’alito di menta di zio Antonino, il borotalco della nonna, il tuffo di papà nel mare senza mai voltarsi, il primo pisello illuminato da una torcia, la sorca e le sise, il criceto suicida, il palo fatto con i maglioni, li porteremo in spiaggia Aič, faremo un gran mucchio accanto alla buca, ma prima ci tireremo l’un l’altro le bacche, perché sarà l’estate che non finisce, sarà come tutte le estati, il tempo incantato del corpo e della pelle, del sapore e del fiore, il tempo non esiste Aič, siamo noi così strampalati a fare susseguire le cose, noi eterni, eternamente incapaci di eternità, ma lasciaci provare, eccoci, ci siamo, scava qui Aič, la sabbia è un po’ meno acquosa, adesso gli facciamo una cella enorme, cosa mi dici Aič, che non sono aquiloni quelli lì in cielo, che la tela ocra che sventola è il Policlinico, un’astronave in miniatura che adesso vola via perché si è strappato il filo, quell’altro aquilone invece che resiste è la nostra casa, il labirinto di quindici stanze, tieni bene i fili altrimenti tutto cade, il tavolo apparecchiato, il servizio della nonna, la porta di servizio, l’opera completa del ricercatore, il basco mai usato e le vene varicose, la chiamata senza risposta, l’arrivo a Termini. Scava in fondo, non avere paura dei vermi rossi, mettiamo sul fagotto un’immagine ciascuno, come facevano gli egizi, mi dici, Aič, di portare tutti questi cimeli via da qui, perché l’acqua fa crollare la buca, ma noi dobbiamo scavare oltre, più in fondo, raggiungere il punto più asciutto e incandescente, rifare la casa lì, stanza per stanza, dove nessun verme può più mordere, senza il tempo di congedarsi, per recuperare la parola incomprensibile sepolta in fondo al mare, la perla in cui ancora e sempre ci possiamo trasformare.

Il labirinto che ci hai donato.

La montagna lui non l’amava, chissà come ha fatto a far finta su quella foto. A lungo ho creduto che fosse la più bella immagine della loro unione, lui già malato, nel bosco dietro a un ruscello che gli sopravviverà. Così piccoli, fragili, indifesi nella vecchiaia, eppure insieme, malgrado tutto, ridenti, contenti di aversi. Finché poi mia sorella Maddalena mi ha detto che è stata la peggiore delle loro vacanze, che sono rientrati in anticipo. L’ultima, perché nostra madre dopo non ha più voluto andare con lui in montagna. Adesso capisco, lui l’abbraccia sorridente per essere riuscito a imporre il ritorno a Roma, non ha concesso neppure quello alla consorte, di godersi le montagne da lei così amate. Non sono due che finalmente si trovano, dice Maddalena, ma due intenti ad abbellire il ricordo, costruire un’energia rispetto a tutto ciò li separa. Sforzo che molti fanno coincidere con l’amore. Forse è stato così anche per loro. Li vedo spersi, ma mi piace vederli così piccoli e indifesi. Le fotografie non sono la vita, se si sommano tutti gli scatti, non ammontano a più di dieci minuti, quei sorrisi genuini o impostati, sono tutto e nulla. Resta il compito infinito di trovare le vere immagini, più in fondo.

Non ho mai letto le sue lettere d’amore a mia madre. Erano in francese, lingua usata per necessità di comunicazione, ma anche per essere diverso – la vita, una lunga fuga. Nessuno ha voluto conservarle, c’è un’intimità che persino i figli non dovrebbero toccare. Penso che il loro inchiostro sia sbiadito presto, stipate in qualche astuccio, sotto al sotto più sotto della cantina, si saranno squagliate assieme agli angeli di cera del presepe tedesco nell’estate più calda della storia, prima di finire nel container dove tutto finisce. Per questo le devo inventare. Non so se conoscessero quella canzone di Modugno, per me nelle sue parole si trova la corta, immensa lettera che si sono scritti, Dio come ti amo. Corta perché la fiamma, l’invisibile che vede l’amore non può durare – non ci è dato di essere solo fiamma in vita. Poi c’è quell’altra lettera d’amore più grande e più vera, quella che non viene mai scritta ma solo vissuta, fatta anche di zozzeria, mute grida, risentimento, inenarrabili fantasie – se fosse, cosa sarei potuto diventare… Non esiste vita migliore, anche se ogni vita avrebbe potuto essere migliore. “Potere”, verbo maledetto che ci perseguita vita natural durante. Chi può cambiare l’amore? “Nel cielo passano le nuvole che vanno verso il mare.” Come potessero essersi trovate persone così diverse – ma non è ogni diversità sempre la massima, il dove che ci dovrebbe fare innalzare e volare, “sembrano fazzoletti bianchi che salutano il nostro amore”? Tutto il mondo come nessuno al mondo, Dio come ti amo. Non c’è una lettera che si sia conservata, solo alcune dediche nei libri in francese, Noces. Mio padre che regalava Camus a mia madre “non è possibile” – quel suo male di vivere un tempo era fatto di “sole, i baci e profumi selvaggi”. Luce su ruderi romani di una fondazione fenicia in cima al mare, mai visti, solo immaginati. Un fuoco di luce bianca, amore senza misura per tutti e per tutto, eterno ritorno all’origine. “C’è un tempo per vivere e un tempo per testimoniare la vita”, scrive Camus. Quanto più difficile è rendere conto della forza che ci ha infiammati, quando precipitati dalle altezze turbinose, restiamo muti a osservare sempre la stessa cosa – per quanti anni ancora? – che la vita null’altro è che la mancanza della propria vita. “Né se l’uomo cerchi rifugio presso la persona che egli ama…” scrisse chi si suicidò presto e piuttosto che fare il professore sarebbe voluto andare al mare, a Grado o Pirano. Invece lui cercò rifugio nella persona amata, nelle persone amate, e lo trovò, nonostante la solitudine, la zozzeria che non si raschia via, “un bene così caro, un bene così vero”, “avere fra le braccia tanta felicità”. Sì, caro padre tu ci hai toccato nel corpo e nell’anima, fa lo stesso, e io, qui adesso confesso, nella nostra più segreta stanza, non ti ho saputo toccare in quegli anni finali, come invece la madre, le sorelle, io che tanta paura ho dell’amore, quell’immensa paura… “Mi vien da piangere” canta Domenico, ha lo stesso baffetto di Rudy rubacuori. Mia madre non poteva resistere a quel fascino e a quelle lettere che io non ho mai letto, ma che ci hanno catapultato nella vita. Eccoci, tocca a noi. Chi può cambiare l’amore? Chi può fermare il fiume che corre verso il mare?

Il dolore secondo Matteo

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Gianni Biondillo intervista Veronica Raimo

Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo, Minimum fax, 2022

È un universo surreale, fatto di freak, quello che racconti nel tuo romanzo, o forse è il mondo che è così, pieno di personaggi estremi, quindi sei un’autrice realista?

No, non definirei proprio realista “Il dolore secondo Matteo”, forse potrei parlare di un realismo grottesco, se non è una contraddizione in termini.

A cosa devi la scelta di un protagonista come Matteo, anaffettivo, urticante, antipatico: si è presentato a te, epifanico, o l’hai costruito con dovizia?

Temo che i miei personaggi siano molto spesso non simpatici, o meglio non “empatici”. Non ho mai cercato l’empatia nella scrittura, ma in effetti Matteo è un po’ estremo in questo. L’ispirazione è venuta osservando un ragazzo che lavorava per l’agenzia di pompe funebri il giorno del funerale di mio nonno. Era un bel ragazzo, quindi lo guardavo. Ero devastata dal dolore per la morte di mio nonno a cui ero molto legata, eppure in quel momento commemorativo mi ero fissata su di lui. Quindi ho provato a immaginare la vita di un uomo che si ritrova ad assorbire giornalmente il dolore degli altri, diventando il centro di connessioni emotive non desiderate e finendo per restarne del tutto immune.

Il sesso nel tuo romanzo è costantemente presente e allo stesso tempo scostante. Non una liberazione, ma una prigionia. Sbaglio?

Sì, il sesso ha qualcosa di molto claustrofobico e codificato nel libro, persino il desiderio in sé finisce in questa trappola, così come la definizione di un codice amoroso, i rituali del corteggiamento. Questo è un tratto che mi porto dietro, decostruire l’enfasi di certe retoriche, o l’illusione della spontaneità.

Sono passati 15 anni (ormai 18, l’intervista è del 2022) dalla prima pubblicazione di Il dolore secondo Matteo. Com’è rileggerti? Quanto ti senti ancora vicina a questo libro?

È un libro che oggi non riscriverei probabilmente, ma ogni libro appartiene al momento in cui è stato scritto. Non lo rinnego, tutt’altro, ma ci vedo dentro anche una forma di rabbia che ha in sé qualcosa della giovinezza. Non so se è stato un bene o un male perderla, comunque non c’è più, almeno non in quella forma. Anche stilisticamente vedo delle distanze dalla mia scrittura di oggi, una certa ricerca per l’effetto che può tradire delle ingenuità. Ma ci sento dentro anche la spudoratezza e la l’immediatezza di un esordio, probabilmente mi facevo meno domande di oggi. Ad esempio, non mi sono posta nessun problema rispetto alla scorrettezza politica del linguaggio usato dalla voce narrante.

Una curiosità: il numero di cellulare esiste? Io ho avuto la tentazione di chiamarlo.

Non lo so, io non ho mai provato a chiamarlo!

(pubbicato su Cooperazione nel 2022, appunto, ma non ricordo il numero e il mese)

Il vergognoso silenzio dell’Occidente su Gaza – editoriale del Financial Times

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Foto: Ansa

 

Ricevo e pubblico la traduzione dell’articolo “The west’s shameful silence on Gaza”, editoriale apparso il 6 maggio sul Financial Times.

Dopo 19 mesi di un conflitto che ha ucciso decine di migliaia di palestinesi e ha indotto ad accusare Israele di crimini di guerra, Benjamin Netanyahu si sta preparando ancora una volta a intensificare l’offensiva di Israele a Gaza. L’ultimo piano prefigura la piena occupazione del territorio palestinese con l’intento di spingere i gazawi verso sacche sempre più ristrette della striscia distrutta. Porterebbe a bombardamenti più intensivi e le forze israeliane sgombererebbero e prenderebbero possesso del territorio, distruggendo le poche strutture rimaste a Gaza. Ciò sarebbe un disastro per 2,2 milioni di gazawi che hanno già sopportato sofferenze insostenibili. Ogni nuova offensiva rende più difficile non sospettare che l’obiettivo finale della coalizione di estrema destra di Netanyahu sia quello di rendere Gaza inabitabile e di cacciare i palestinesi dalla loro terra. Per due mesi Israele ha bloccato la consegna di tutti gli aiuti nella Striscia. I tassi di malnutrizione infantile sono in aumento, i pochi ospedali funzionanti stanno esaurendo le medicine e gli allarmi su fame e malattie si fanno sempre più drammatici.

Eppure, gli Stati Uniti e i Paesi europei, che propagandano Israele come un alleato che condivide i loro valori, non hanno pronunciato alcuna parola di condanna. Dovrebbero vergognarsi del loro silenzio e smettere di permettere a Netanyahu di agire impunemente. Domenica, in un breve discorso, Donald Trump ha riconosciuto che i gazawi stanno “morendo di fame” e ha suggerito che Washington aiuterà a portare cibo nella striscia. Ma finora il Presidente degli Stati Uniti ha solo rafforzato Netanyahu. Trump è tornato alla Casa Bianca promettendo di porre fine alla guerra a Gaza dopo che la sua squadra ha contribuito a mediare il cessate il fuoco di gennaio tra Israele e Hamas. In base all’accordo, Hamas ha accettato di liberare gli ostaggi in fasi successive, mentre Israele si sarebbe ritirato da Gaza e i nemici avrebbero dovuto raggiungere un cessate il fuoco permanente. Ma a poche settimane dall’entrata in vigore della tregua, Trump ha annunciato un piano bizzarro che prevedeva lo svuotamento di Gaza dai palestinesi e la sua acquisizione da parte degli Stati Uniti. A marzo, Israele ha fatto fallire il cessate il fuoco cercando di modificare i termini dell’accordo, con il sostegno di Washington. Da allora, alti funzionari israeliani hanno dichiarato che stanno attuando il piano di Trump di trasferire i palestinesi da Gaza. Lunedì, il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha dichiarato: “Finalmente occuperemo la Striscia di Gaza”. Netanyahu insiste che un’offensiva allargata è necessaria per distruggere Hamas e liberare i 59 ostaggi rimasti. La realtà è che il primo ministro non ha mai articolato un piano chiaro da quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha ucciso 1.200 persone e scatenato la guerra. Invece, ripete il suo mantra massimalista di “vittoria totale”, cercando di placare i suoi alleati estremisti per garantire la sopravvivenza della sua coalizione di governo.

Ma anche Israele sta pagando un prezzo per le sue azioni. L’offensiva allargata metterebbe a repentaglio la vita degli ostaggi, minerebbe ulteriormente la reputazione di Israele e approfondirebbe le divisioni interne. Israele ha comunicato che l’operazione estesa non inizierà prima della visita di Trump nel Golfo la prossima settimana, affermando che c’è una “finestra” in cui Hamas può rilasciare gli ostaggi in cambio di una tregua temporanea. I leader arabi sono infuriati per l’incessante ricerca del conflitto a Gaza da parte di Netanyahu, eppure festeggeranno Trump in cerimonie sontuose con promesse di investimenti multimiliardari e accordi sulle armi. Trump darà la colpa ad Hamas quando parlerà con i suoi ospiti del Golfo. È l’attacco omicida del 7 ottobre che ha scatenato l’offensiva israeliana. Gli Stati del Golfo concordano sul fatto che la sua persistente stretta su Gaza è un fattore che prolunga la guerra. Ma devono opporsi a Trump e convincerlo a fare pressione su Netanyahu per porre fine alle uccisioni, togliere l’assedio e tornare ai colloqui. Il tumulto globale scatenato da Trump ha già distolto l’attenzione dalla catastrofe di Gaza. Tuttavia, più a lungo si protrae, più coloro che rimangono in silenzio o che sono costretti a non parlare si renderanno complici. (traduzione di fd)

Morire di strati

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di Giovanna Conti

Pellicola 

Morire di strati

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Riferimenti

Pellicola

In Note per una pellicola, cito il nome Costanza avendo a mente la regista italiana
Costanza Quatriglio ed il suo recente film, Il cassetto segreto (2024), dedicato alla
memoria paterna. L’ingiunzione “decidere cosa tenere o cosa lasciare” viene dal
film, io l’ho modificata in versi.

I collage di questa sezione intrecciano una foto di un giovane Roland Barthes tratta
dal suo Roland Barthes (Vintage, London, 2020) e una fotografia di mio padre
bambino. Ancora sorrido alla somiglianza tra i volti.

una pellicola su (Jon) Giovanni dialoga col testo Notes Towards a Film About My
Father (Jon) della poeta americana Eleni Sikelianos, contenuto in The Book of Jon
(City Lights, San Francisco, 2004). I versi inglesi sono citazioni sparse di questo
componimento.

Morire di strati

Cirro comincia con una mia traduzione scartata/sbagliata di un passo di Mourning
Diary (Hill and Wang, New York, 2009) di Roland Barthes. Di seguito, per intero
con punteggiatura originale: “November 1 / What affects me most powerfully:
mourning in layers—a kind of sclerosis. [Which means: no depth. Layers of
surface—or rather, each layer: a totality. Units]” (p. 28). Stratificazione e spellatura
si intrecciano, come due facce allo specchio.

[…] L’immagine che ritrae mio padre e una ragazza sconosciuta seduti di fronte a un
quadro è stata scattata da me al Moma di New York nel gennaio 2023. Non ricordo
l’autore né il titolo del quadro. Si potrebbe trattare di un untitled di Cy Twombly
(secondo l’identificazione fatta da ChatGPT) a me, però, resta il dubbio.
Comunque, ho ritagliato la scena all’infinito e perso ogni piccolo appiglio…

*

Una nota dell’autrice

I testi poetici e le immagini che ho raccolto interrogano la figura di mio padre a partire dalla sua faccia difficile. Se il tentativo dell’io poetico è quello di una “spellatura” e sperata conoscenza della figura paterna, quest’ultima sembra, però, sottrarsi ad ogni contatto. La sua faccia ha aria di nuvola, tra le mani di figlia non resta, forma inconsistente si libera. Di fronte all’inconoscibilità reciproca, si muovono le mani dell’uno e dell’altra: padre e figlia si afferrano, tagliano, riprendono senza sosta. Apoesie più tradizionali ne ho affiancate diverse fatte di cancellature, sovrapposizioni, numeri che pungono. I collage sono ottenuti da mie foto di famiglia, documenti legali di divorzio, immagini di recenti alluvioni. La speranza è che i continui passaggi di stato—dall’Italia all’America e poi indietro, dagli sbuffi di mio padre alla sua rabbia dura—ci allontanino, modifichino, riuniscano in verso più pacifico. Controparte essenziale del taglio è forse il lavoro di cucito? Io sono il filo, il figlio, la figlia, ho la forza di un pollice incallito.

*

Giovanna Conti vive e lavora tra gli Stati Uniti e l’Italia. Sta facendo un dottorato di ricerca in cinema e letteratura contemporanea a Brown University, dove insegna nei dipartimenti di Italian Studies, Comparative Literature e Modern Culture and Media. Ha esposto alcuni suoi lavori di blackout poetry alla mostra “Unprecedented” presso la Brown Rockfeller Library (Providence, RI). Ha vinto il terzo premio di Italian Poetry Today dell’università di Oxford (UK) per poesie inedite. Questi estratti fanno parte di un’opera verbo-visiva inedita ancora in lavorazione.

“Raccontare il lavoro”, un’iniziativa verso il referendum

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Immagine tratta dal sito dei comitati promotori della campagna per i referendum: www.referendum2025.it

di Davide Orecchio

Manca un mese esatto al referendum. 5 SÌ per il lavoro e per la cittadinanza. E, su Collettiva, grazie a un’idea di Carola Susani, abbiamo messo in piedi un’iniziativa di militanza narrativa. Collettiva ospiterà storie di lavoro offerte da un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere. Come spieghiamo con Carola Susani in un pezzo di introduzione, “i racconti che saranno pubblicati da Collettiva da qui alle prossime settimane sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto”.

Nel primo pezzo che abbiamo pubblicato (Però non sono mestieri da fare da soli) Veronica Galletta dialoga con Sandro Vitale, operaio di una cooperativa storica di Palermo, esperto nella manutenzione di gru e carroponti per Fincantieri. “Quando guardo di sotto penso che siamo fortunati”.

Scriviamo con Susani:

Se – solo per citare i primi tre racconti in ordine di pubblicazione – Veronica Galletta […] scopre che è un noi, una voce collettiva, quella che è necessario raccontare, invece Daniele Petruccioli, ascoltando un portuale di Palermo, trova al cuore della questione proprio la sensatezza del lavoro, la necessità del riconoscimento e della messa a frutto della sapienza e dell’esperienza. Mariasole Ariot, raccontando l’emersione di Emanuela da una esperienza di precarietà e l’incontro con la Fiom, ci permette di capire di cosa abbiamo bisogno perché il lavoro faccia la sua parte nella sensatezza della vita.

Cosa chiedono i 5 quesiti referendari?

In estrema sintesi: il primo quesito chiede di cancellare le norme sui licenziamenti del Jobs Act, che consentono alle imprese di non reintegrare un lavoratore licenziato in modo illegittimo nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015; il secondo di proteggere dai licenziamenti i lavoratori di imprese con meno di 15 dipendenti; il terzo di interrompere l’abuso dei contratti a termine precari; il quarto di rendere responsabili della sicurezza e degli infortuni sul lavoro le grandi aziende committenti di appalti e subappalti. Il quinto quesito propone di dimezzare da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992.

www.referendum2025.it

Tornando ai racconti…

Ragioniamo ancora su Collettiva:

C’è, in questo momento storico, la sensazione di uno scadimento condiviso e pervasivo nel mondo del lavoro. Come fa un lavoro così ridotto a essere il tessuto della vita collettiva? Eppure sono poche le circostanze in cui una persona incontra il mondo, vario e complesso, si mette alla prova in azione di fronte agli altri, si rivela a sé stessa, incontra ceti sociali diversi dal proprio, altri stili di vita, altre prospettive culturali, dove le viene richiesto di affrontare le questioni, le difficoltà come essere umano in relazione ad altri essere umani. È il lavoro la circostanza principale in cui questo è avvenuto. Senza lavoro, il tessuto sociale si scolla, la vita, solitaria, appare insensata. A partire da queste riflessioni, per quanto qui accennate e incompiute, ci piacerebbe fare della campagna referendaria l’occasione per riflettere in controluce sul lavoro che vale la pena. Esiste? C’è ancora la possibilità di lavorare creando il tessuto della vita comune? Quali sono le condizioni perché questo avvenga?

Vi invitiamo a seguire questa iniziativa. E, soprattutto, vi invitiamo a votare SÌ il prossimo 8-9 giugno.

Cortile

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di Fabio Poggi

la manovra non precisissima vediamo a che ora veniamo via dalla discarica arriveremo sempre verso le undici in totale meno di due successi su quattro tentativi dipende perché se arrivassimo dove riverbera una forza è il più grande il più noto e di attesa venti minuti mezzora il problema è non so se ce la facciamo perché devi sempre tornare indietro poi veniamo qui triangolo verde lo vedi è qui un po’ poco per cantare vittoria era stato chiaro fin da subito chi ha fame si porta un panino dietro ci sono tre ore da girare luoghi che meglio di chiunque un po’ poco per la manovra poi ci sono tutti questi uccelli statue a questo punto partiamo alle cinque cinque e mezza sì le avevo parlato non deve temere l’arrivo di altri analisti sono rappresentati lo vedi che hanno preso piede tutte le esperienze pesano la vendita generalizzata e in maniera slegata magari lo sanno semmai la metto un po’ di lato ma non hanno capito non è libero magari lo sanno perché ti spiego una bellezza pensate se la vagonata alla base di interni domestici saturi quelli in cui potrebbe diventare libero è praticamente quasi di sotto aspetta quando torniamo indietro quando poi siamo qui ci infiliamo lo vedi sono strette e andiamo alla casa trattoria lo vedi triangolo verde a fronte di un simile andamento nello scorso anno dice sempre la piattaforma centralizzata che l’offerta focalizzata sì sì è bello si va da uno di questi giganti invece ribattono che la questione non può risolversi non buongiorno ciao franci

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la sabbia era vera e vulcanica e occorre aspettare una nuova finestra di allineamento consiglio la lettura del libro perché da un lato una dose troppo alta non perdona ma quando sei tornato esattamente in camera dici dall’altra bisogna riempire i serbatoi a braccio era più semplice come lei si allontana la chiama un’avventura lunga quella volta con la michi per limitare i rischi occorrerebbe accorciare il percorso espositivo che combina installazioni ma mica devono andare in profondità soprattutto per la salute segnalateceli basta lo screenshot per finire nei guai mica devono andare in un albergo che camera dici due ragioni che hanno reso probabilmente difficile la passeggiata che poi appunto non fa freddo in realtà la sabbia era vera e vulcanica la chiave dell’albergo che non funziona non era possibile arrivare e mi sono trovato di culo in centrale sto parlando del principio di opportunità per non parlare di altre caratteristiche fare propria una piattaforma entro una decina di anni dopo tutto in appena otto anni da quella volta con la michi un sacco di storie questo te l’avrà detto in camera dici o forse pensavano che reagire consiste nel allora che cosa possiamo fare sappiamo che perforano le rocce sappiamo benissimo come chiedere finanziamenti per l’esplorazione come lei si allontana la chiama e raccolgono campioni tutti i viaggi sono stati di sola andata la teoria non tiene sicuro che fosse possibile arrivare ma quando sei tornato esattamente la chiave dell’albergo questo te l’avrà detto ti ricordi è la prima cosa ti ricordi ma non succederà più forse non aveva ben chiari i problemi della michi

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l’assenza  verrà

il caso va visto

d’ora in poi in qualunque

scendere

i gradi

scompaiano moltiplicando

compaiano sottraendo

non prima di

una misura l’osservabile

può nel preciso stato

deve una rappresentazione

superiore a

sottinteso è di

zero

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che cosa è stato sbagliato

andiamo nello spazio

possibile arrivare

entro una decina d’anni

un fisico corpulento

il suo spazio

fu in primo luogo la discoteca

è a dir poco sorprendente

come si materializzano

intervenite

chiudiamo e apriamo

gli ordini dei palchi

intervenite numerosi

alle diciotto

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della scarica trovare l’oggetto

il disinvestimento dell’oggetto

strapperanno

dove si combatte

farli accompagnare

offra nuove fonti di

è sufficientemente simile

oggetto

o resto le significative

qualità disturbante del

camuffarsi non sai se con

lungo due

i prevedibili

*

alla mano di tutti

lei su cosa

capillare

sei stata proprio tu

accompagnata da ampio apparato

secondo te cosa segna

il servizio da liquore

in cui il famoso cimitero

intimo e diaristico

piuttosto la sua occupazione

la coppa scanalata

diffusione

da algos dolore

come mai non mi sono accorta

L’unico palestinese buono è un palestinese morto

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[Anche Nazione Indiana aderisce all’iniziativa: L’ULTIMO GIORNO DI GAZA 9 maggio – L’Europa contro il genocidio*. Si legge nel comunicato stampa: Una giornata solo per Gaza, la prima di un percorso per “rompere il silenzio colpevole” su quello che da un anno e mezzo, senza sosta, sta succedendo sulla Striscia e anche sulla Cisgiordania. “Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora”. La data scelta dai promotori di una lettera pubblica per un’azione diffusa, dal basso e online, ha un preciso significato. È il 9 maggio, la giornata in cui tradizionalmente si celebra l’Europa e il suo processo di unificazione. Non è certo casuale. “Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi, italiani, europei, umani.” Ci sembra importante aderire, tanto più che questo sito ha ospitato molto presto sia testimonianze provenienti da Gaza sia riflessioni intorno a quello che stava accadendo anche tra noi (occidente) e quella parte del mondo che, pur lontana, è intimamente e tragicamente legata alla nostra storia. a. i.]

di Andrea Inglese

1. L’inverno dell’anno 2024-2025 sarà ricordato da alcuni di noi, come l’inverno in cui abbiamo percepito la storia presente come un incubo da cui è impossibile risvegliarsi. Ci siamo cioè ritrovati in una condizione che conoscemmo alcuni anni fa, e precisamente durante la pandemia mondiale di Covid: una condizione d’inadeguatezza radicale nei confronti di ciò che accadeva nel mondo circostante. Questa inadeguatezza ha qualcosa di più destabilizzante dell’impotenza politica, ossia della percezione che la società a cui apparteniamo, nel suo insieme, stia imboccando una via pericolosa e distruttiva, e che forze ben più grandi delle nostre la spingono in tale direzione. L’inadeguatezza radicale non ci dice semplicemente che non abbiamo le forze necessarie per opporci a un’ingiustizia, a un avversario sleale ma più forte di noi; ci rende anche consapevoli di una nostra debolezza costitutiva, del fatto che comunque sia non siamo abbastanza forti come vorremmo. In una tale situazione, di sconfitta personale e collettiva, possiamo salvaguardare almeno qualcosa d’importante: ossia la responsabilità di dire che quel che vediamo, viviamo, ascoltiamo, è un incubo, e non una concatenazione normale di eventi. E inoltre dobbiamo anche riuscire a dire che questo incubo non è frutto di un fenomeno naturale, e al di sopra della nostra volontà, come la legge della gravitazione terrestre, ma un insieme di decisioni umane accompagnate da un insieme di discorsi, di frasi scritte o dette.

2. Questo inverno sarà memorabile per una regressione generale delle politiche sul clima, perché è il terzo anno di una guerra alle porte dell’Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina; perché ci siamo resi conto che, nel giubilo generale, i sistemi d’Intelligenza artificiale hanno iniziato a funzionare nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche, senza che i lavoratori o i cittadini abbiano avuto l’occasione di esprimersi su queste scelte; perché, con la nuova presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno radicalizzato la loro posizione di dominio mondiale senza egemonia, alimentando il caos a livello geopolitico. Infine questo è l’inverno in cui, anche i più recalcitranti di noi, i più scrupolosi nell’uso del linguaggio, si sono resi conto che il massacro della popolazione palestinese di Gaza esigeva di essere descritto attraverso l’uso del termine “genocidio”. E da due mesi questo genocidio si è fatto ancora più evidente, perché alla guerra delle bombe si è aggiunta la guerra della fame. Israele ha infatti imposto alla Striscia di Gaza un assedio totale (di terra, aria e mare), ossia il blocco di ogni possibile aiuto medico e umanitario destinato a sollevare la situazione di una popolazione di sfollati, stremata dalla fame e dalla sete, e sottoposta a massicci bombardamenti. Una popolazione che, secondo le stime più recenti, dall’8 ottobre 2023 conta 52.418 morti e 118.091 feriti.

La decisione del blocco completo è conseguenza della rottura unilaterale, voluta dal governo Netanyahu, degli accordi firmati tra Israele e Hamas il 15 gennaio, accordi che prevedevano l’uscita dal conflitto in tre fasi (Cosa prevede l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas a Gaza: quando scatta la tregua). Dopo l’insediamento di Trump, tali accordi non erano più considerati vincolanti, dal momento che lo stesso presidente americano, ricevendo Netanyahu alla Casa Bianca in febbraio, annunciava un nuovo piano incentrato sullo “spostamento” in Egitto o in Giordania della popolazione palestinese e l’occupazione statunitense di Gaza per scopi turistici e commerciali.

3. Nel 1868, durante le Guerre Indiane che conduceva spietatamente, il generale Philip Henry Sheridan, di fronte a un gruppo di capi delle tribù native, pronunciò una frase che divenne famosa: “Gli unici indiani buoni che abbia mai visto erano morti”. Oggi, l’azione del governo Netanyahu, dopo un anno e sette mesi di guerra praticamente ininterrotta contro Hamas, può essere letta attraverso un calco della macabra frase di Sheridan: “Ogni palestinese buono di Gaza è un palestinese morto”. Questa frase costituisce il nucleo ideologico e genocidario che sottende l’impresa di distruzione della Striscia (edifici e infrastrutture) e di uccisione, ferimento, denutrizione della sua popolazione. La guerra globale contro Gaza si è poi accompagnata all’annessione di sempre nuovi territori in Cisgiordania.

Dopo la strage del 7 ottobre, ogni volta che si parlava della sicurezza di Israele, si ometteva quasi sempre di dire che la sicurezza in questione non era quella di un paese con delle frontiere definite internazionalmente, ma quella di un paese occupante, minacciato di conseguenza da un popolo in lotta per l’autodeterminazione. Un circolo vizioso ha così giustificato per più di mezzo secolo il principio secondo il quale Israele, per poter esistere incolume, deve occupare dei territori palestinesi, anche se poi è innanzitutto questa occupazione che minaccia la sicurezza dei suoi cittadini. Dopo 57 anni di ciclica insicurezza, però, l’estrema destra e i sionisti religiosi al governo hanno deciso di affidarsi a un piano di pulizia etnica, che li metta per sempre al riparo da qualsiasi azione militare o terroristica perpetrata in nome della libertà del popolo palestinese. E l’equazione macabra che hanno stabilito non è un iperbole diffamante o antisemita, ma una formula che si situa nel cuore della propaganda governativa: 1) Hamas è un nemico assoluto da annichilire, in quanto ridotto esclusivamente alla sua componente terroristica e armata; 2) il popolo palestinese non annichilendo esso stesso Hamas, ne è complice; 3) il popolo complice di un gruppo terrorista è esso stesso terrorista. Durante i primi mesi di bombardamenti, quando ancora si poteva parlare in modo plausibile di obbiettivi militari, la propaganda israeliana presentava il popolo palestinese (i civili), come ostaggi e vittime di Hamas. E anche le istituzioni internazionali, entro certi limiti, concordavano con questa narrazione. Oggi, però, di fronte a montagne di detriti e montagne di cadaveri, appare chiaro che, per l’esercito israeliano, con il consenso di una maggioranza delle popolazione israeliana, ogni palestinese sulla Striscia di Gaza – che sia vecchio, donna o bambino – è considerato come puramente e semplicemente “annientabile” in quanto terrorista attivo o potenziale.

4. Forse noi, qui, nella zona di pace occidentale, siamo riusciti tutto sommato a dormire. I bombardamenti, gli incendi, i parenti sepolti sotto le macerie, erano cosa lontana, più intravista che vista. Ma non abbiamo dormito bene. Io non ho dormito bene. Gli stessi incubi notturni assumevano le fattezze di quello che il telegiornale non mi diceva del tutto, ma che la parte inconscia di me, inconscia e forse “sociale”, assorbiva con grande precisione. Passeggiate a Milano, in mezzo a palazzi che iniziano a crollare come castelli di carte e senza apparente motivo. Prigionieri che sbucano fuori da scale ripide e buie che portano in seminterrati; prigionieri con ancora le tracce addosso delle sevizie e dei giorni di fame.

La nostra inadeguatezza non ha smesso di seguirci come un’ombra cupa, e ha inevitabilmente avuto un tremendo effetto demistificante: ma a che servono, di fronte a tutto questo, i rituali di pace, i giorni della memoria, le nostre credenze su una giustizia possibile, su delle istituzioni almeno in parte affidabili, il rispetto per gli innocenti, l’amore per le opere d’arte o le opere letterarie? Ha qualche senso il vivere insieme? L’umanità è qualcosa d’altro che cecità, sonnolenza e furore?

Di fronte all’orrore della distruzione del popolo palestinese non ho potuto che toccare con mano la mia estrema impotenza. Ma chi può qualcosa di fronte a un esercito che non fa entrare a Gaza né i giornalisti né gli aiuti umanitari e che minaccia la vita delle ONG neutrali e disarmate o degli stessi impiegati delle Nazioni Unite?

Ma all’impotenza politica, in quanto cittadino isolato e insignificante, si è poi affiancata la vergogna di non poter dire, e quindi di non poter pensare quello che stava accadendo. Quello che Ilan Pappé, in un articolo del 24 aprile, definisce “L’Occidente ufficiale” ha cominciato a bloccare il discorso, a creare un sentimento d’incertezza diffusa e ingiustificabile, capace di minare anche le constatazioni, le reazioni emotive, i ragionamenti più evidenti. Pappé parla molto bene di questa cosa, introducendo il concetto di “panico morale”. Scrive Pappé:

“Questo fenomeno è noto nella ricerca recente come Panico Morale, molto caratteristico delle fasce più coscienziose delle società occidentali: intellettuali, giornalisti e artisti.

Il Panico Morale è una situazione in cui una persona ha paura di aderire alle proprie convinzioni morali perché ciò richiederebbe un certo coraggio che potrebbe avere conseguenze.”

Comunque sia, io ho sentito che almeno su questo piano qualcosa andava fatto. Sul piano del linguaggio, del discorso. Bisognava trovare un modo di entrare nel campo che l’Occidente ufficiale aveva “minato”, camminarci dentro, anche senza avere né arte né parte. È quello che hanno fatto anche gli studenti un po’ dappertutto nel mondo. Coloro che “mancano di sapere” e frequentano le istituzioni educative (scuole, università) per acquisirlo dai “detentori ufficiali” del sapere. Di fronte all’urgenza della situazione si sono detti che in quel campo minato avrebbero dovuto camminarci, a rischio di fare errori, di sbagliare parole, di concatenare male qualche argomento, di dimenticare qualche fatto importante.

Così, con la scrittura, ho cercato di fare anch’io, come un certo numero di altri individui che come me subivano l’impotenza politica, ma non volevano vergognarsi di non riuscire a pensare per eccesso di prudenza. Ognuno ha trovato un modo per fare esistere la popolazione palestinese e le sue sofferenze al di fuori del quadro troppo ristretto, troppo deformato, che l’Occidente ufficiale aveva reso disponibile.

Oggi anche Nazione Indiana partecipa a questo invito per fare esistere la sofferenza del popolo palestinese e per denunciare il genocidio in atto a Gaza.

Linko quindi di seguito interventi diversi già pubblicati. Abbiamo anche delle testimonianze dirette, come quella di Yousef Elqedra, poeta palestinese che ha vissuto a Gaza dall’inizio della guerra fino a poche settimane fa. I suoi testi sono stati tradotti da Sana Darghmouni e proposti da Renata Morresi.

La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #1 | NAZIONE INDIANA

La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #2 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #3 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #4 | NAZIONE INDIANA

Memorie da Gaza #5 | NAZIONE INDIANA

La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca | NAZIONE INDIANA

Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler | NAZIONE INDIANA

L’altro volto della resistenza | NAZIONE INDIANA

L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza | NAZIONE INDIANA

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Dal comunicato stampa di L’ULTIMO GIORNO DI GAZA 9 maggio – L’Europa contro il genocidio.

A promuovere la vera e propria ‘chiamata a raccolta’ sono, in ordine alfabetico, Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo. E a sostenere la lettera pubblica sono oltre centocinquanta persone che appartengono a diversi mondi professionali e culturali. Tutte accomunate dall’urgenza, dal tempo che sta finendo.
Chi vorrà partecipare a #UltimogiornodiGaza può inviare comunicazioni sulle iniziative a una e-mail
dedicata: 9maggioxgaza@gmail.com

Di seguito, la lettera pubblica.

L’ULTIMO GIORNO DI GAZA
9 maggio – L’Europa contro il genocidio
#ultimogiornodigaza #gazalastday
Il 9 maggio è la Giornata dell’Europa: ma è anche l’ultimo giorno di Gaza. Perché il tempo sta
finendo, per questa terra nostra. Questa terra del Mediterraneo, il mare che ci unisce.
Per questo, in quella giornata in cui ci chiediamo chi siamo, vi chiediamo di parlare di Gaza,
di farlo ovunque vorrete. E di farlo, tutte e tutti, sulla rete: su siti, canali video, social. E
sempre con l’hashtag #GazaLastDay, #UltimogiornodiGaza.
Senza il mondo Gaza muore. Ed è altrettanto vero che senza Gaza siamo noi a morire. Noi,
italiani, europei, umani.
Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui
possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza. Perché possano partecipare tutte e
tutti, anche solo per pochi minuti. Anche chi è prigioniero della sua casa, e della sua
condizione: come i palestinesi, i palestinesi di Gaza lo sono. Perché almeno stavolta nessuna
autorità e nessun commentatore allineato possa inventarsi violenze che occultino la violenza:
quella fatta a Gaza.
Sulla rete, e non solo. Per chi vuole mettere in rete ciò che succede nelle piazze e nelle
comunità che si interrogano, assieme, su come fermare la strage.
Con la consapevolezza che noi siamo loro. E che a noi – italiani ed europei – verrà chiesto
conto della loro morte. Perché a compiere la strage è un nostro alleato, Israele. Per ripudiare
l’Europa delle guerre antiche e contemporanee, per proteggere l’Europa di pace nata da un
conflitto mondiale, esiste un solo modo: proteggere le regole, il diritto, e la giustizia
internazionale. E soprattutto guardarci negli occhi, e guardarci come la sola cosa che siamo.
Umani.
Aggiungiamo tutte le parole che vorremo usare all’hashtag #ultimogiornodigaza
#gazalastday.
Senza scomunicarne nessuna, senza renderne obbligatoria nessuna. Per chiamare le cose con il
loro nome.
Ora è il momento di costruire una rete di senza-potere determinati a prendere la parola. E il
9 maggio è la prima tappa di una strada assieme.
Perché la strage, perché il genocidio, abbiano fine. Ora.
Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari,
Francesco Pallante, Evelina Santangelo

 

Il “Faldone”: un estratto

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[Questi testi fanno parte di una sezione di Faldone non ancora pubblicata in precedenza. Faldone, da poco uscito per il Saggiatore, raccoglie il lavoro di scrittura in versi di Vincenzo Ostuni dal 1992 al 2024, in un’edizione che si vuole “intera”, ma come l’autore stesso sottolinea “non completa”, perché il progetto stesso è costitutivamente interminabile. Il volume di quasi 800 pagine include, assieme a una nota dell’autore, anche un saggio di Luigi Severi, dal titolo “un monumento, un documento”. Il viaggio del Faldone verso la “comune presenza”.]

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Cûr

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Immagine generata da AI
Immagine generata da AI

di Giulia Zoratti

Oggi faccio guidare te. Passo le ore di autostrada a contare quanti chilometri mancano al nostro arrivo. Non voglio scendere. Gli interni di questa macchina sono un frammento di stabilità. Il nostro continuo cambiare case ha spezzato i confini dell’intimità domestica. Ci distendiamo in letti dove fino a poco fa dormiva qualcun altro, abbiamo finestre affacciate sempre su città diverse. L’unico posto dove possiamo sempre tornare, è in viaggio.

Senti il bisogno di riempire il mio silenzio di rassicurazioni.

«Se la pioggia è troppo forte ci possiamo sempre fermare».

La tua previsione è giusta. La notte si sporca di un nero più intenso, e siamo in un buio che i fari della macchina tagliano come lame.

Le strade che ci portano a casa scivolano nella campagna delle colline ma la pioggia sempre più forte rende il percorso incerto. I rilievi morbidi diventano ostili e noi siamo silenziosi. L’asfalto è indistinguibile dalla terra dei campi. Spegni la radio. I canali di scolo invadono la carreggiata dandoci l’impressione di navigare in un mare basso.

Cerco di anticipare un nostro incidente. Io e te insieme, sarebbe stato bello. I movimenti dei nostri corpi, sbalzati fuori, avrebbero ricordato un volo.

Non ho mai immaginato la morte come qualcosa di spaventoso, è solo un’attesa.

Accostiamo appena vediamo una tettoia.

«Finché non smette», mi dici mentre ti accendi una sigaretta. Con il motore spento l’unica luce che vedo è quel punto rosso che brucia.

Continuo a abbassare lo sguardo sul cellulare. Una chiamata persa.

Quando arriviamo nella mia stradina, Nives, la vecchia vicina, si accorge di noi. Esce di casa nonostante sia sera. Ti viene incontro appena scendi dalla macchina.

«Di cui sês tu?», di chi sei?, ti chiede, pensando a qualche cugino arrivato per il funerale. Una domanda che può esistere solo in quei posti dove tutti si conoscono.

Resti interdetto per quella lingua che non ti è familiare. Appena vede me, Nives capisce.

«Ah, le so frute…» dice toccandosi il viso, mortificata.

Frut è una parola che ti ha sempre incuriosito, non essendo cresciuto ascoltando questa lingua. Significa bambino, ma significa anche frutto.

Frute, dulà ise tô mari?, dov’è tua madre? mi chiedevano spesso, e io mi sentivo una pesca gonfia di succo. Una delle tante more di un gelso, che appena la tocchi ti sporchi le dita.

Nives mi dà un abbraccio.

«Farò tante preghiere», dice, come se mi dovesse rassicurare.

Mentre mi parla mi fermo sul suo viso.

Le facce del mio paese sembrano quelle di animali selvatici.

Entriamo in casa.

Mia madre ha fatto dei cambiamenti. Un nuovo colore per una parete, una cassettiera in più, l’ennesimo mobile invaso dai libri. Anche il tavolo della cucina è pieno di carte, appunti. Ogni angolo è un tentativo di fuga. Raccolgo tutto ma non trovo dove appoggiarlo.

Improvviso una pasta mentre tu accendi il camino.

Dopo cena rimaniamo seduti a tavola, una cosa che di solito non facciamo mai. In questo ambiente improvvisamente estraneo i nostri tempi si dilatano. Ci rilassiamo. Inizio a raccontarti la storia dell’incidente di mia madre. La chiamo storia, perché non sappiamo davvero come sia andata. Ogni volta cerco di aggiungere nuovi dettagli, immaginandoli e poi chiedendoti qualche conferma.

I suoi amici non ricordavano bene quando era partita, era una giornata festiva, nessuno badava all’orologio. Lei aveva portato il pane fatto in casa e le verdure del suo orto. Era una lunga tavolata di gente della sua età. Ognuno aveva raccontato dei propri figli andati lontano. Ho cercato di capire se fosse stata una serata allegra, con calici di vino scuro sempre pieni. L’ho chiesto alle sue amiche, ma loro, chiuse in un silenzio abbottonato, mi restituivano solo poche parole in lingua. Una lingua maledetta, dove il lessico non permette di divagare. O jerin ben, stavamo bene.

«Volevo solo capire perché mi avesse chiamata. Magari alla cena le era venuto in mente di dirmi qualcosa».

Mi guardi con aria stanca. Non hai mai compreso il rapporto che avevo con mia madre. Sei stato accolto con calore. Con te vicino tutto diventava più semplice. Si imbastivano discorsi, si apparecchiava la tavola, si passava la serata insieme accanto al fuoco. Tu facevi in modo che non si spegnesse, curando quella fiamma tormentata dal vento nella canna fumaria. E io di contorno vi ascoltavo, stupita dell’intreccio delle vostre voci. Quando ero sola in quella casa, invece, mia madre si muoveva come se io non ci fossi. Mangiavamo separate, non per volontà di allontanarci ma per abitudine. La sua indipendenza da tutti, il bisogno di prendersi i suoi spazi, di mangiare appena sentiva la fame, di dormire solo quando si era stufata di leggere. Un ritmo costruito per essere sola.

Una chiamata persa. Non cancello la notifica, così ho sempre la sensazione che mi stia cercando.

Era quasi arrivata a casa.

Una volpe era passata per strada.

Penso di aver trascorso talmente tanto tempo a osservarla, a indovinare i suoi movimenti, a interpretare i suoi sospiri, da poter prevedere ogni sua reazione di quella sera.

Lei aveva provato a sterzare, era stato inutile. Sono venuta a sapere che la sua auto era finita contro un albero, mentre il corpo dell’animale era stato trovato poco più in là. Mia madre era riuscita a liberarsi dalla macchina in fiamme, aveva mosso qualche passo, si era accasciata vicina alla volpe. Mi chiedo se le abbia fatto piacere non morire da sola ma vicino a quel corpo. Se ne abbia potuto ammirare la bellezza. Mi immagino il sangue di mia madre che si mescola a quello di un animale selvatico.

Quando ero bambina non era raro che la volpe venisse nei nostri campi. Spesso riusciva a intrufolarsi nel pollaio di Nives. Mamma mi svegliava all’alba per mostrarmi quella volpe nel nostro prato. Mi portava in braccio davanti alla finestra, e io con gli occhi fragili per la luce la guardavo, seguita dai cuccioli.

«È una mamma», mi diceva sussurrando piano come se l’animale ci potesse sentire, «è per sfamare i suoi cuccioli che rischia tanto avvicinandosi alle case».

Aveva ragione. Qualche tempo dopo quella vicinanza si era rivelata fatale. La volpe giaceva nell’erba. La si poteva vedere anche dalla finestra della mia camera, un punto rosso che si stagliava nel verde. Non c’era modo di nascondersi in quei campi. Mia mamma mi ci ha accompagnato, tenendomi per mano. Era raro poter vedere così da vicino un animale tanto bello, non voleva perdere quell’occasione.

La volpe aveva gli occhi spalancati. Le iridi verdi erano ancora lucide, ma già coperte di polvere e sterpaglie. Il suo sguardo sporcato mi sembrava una bestemmia scritta sul muro di una chiesa. Il pelo rosso, folto, mi dava la sensazione di volerlo accarezzare. Riparare con le carezze la pancia rotta, la pelliccia intrisa dal sangue, le viscere brillanti che i corvi avevano iniziato a rubare poco prima che arrivassimo noi.

Mamma si era stupita quando aveva visto che io, invece di rimanere affascinata, piangevo fino a farmi mancare il respiro. Pensavo ai cuccioli.

Togliamo le lenzuola dal letto di mamma. Letto rifatto da lei, con i bordi sempre piegati accuratamente e adagiati sotto al materasso.

Mi allontano mentre tu leggi qualche pagina di un libro trovato sul comodino.

Faccio una doccia. Indosso la maglietta di un vecchio concerto. Noto il profumo di mamma accanto allo specchio e me lo metto sulla t-shirt.

Torno da te. Invece di aprire la porta della camera da letto mi chino e provo a guardare dal buco della serratura. Lo facevo spesso quando arrivavo a malapena alla maniglia. Non osservo te ma questa casa.

«Ti piace il mio profumo?», ti chiedo appena entro.

È di una marca che era di moda molti anni fa ma che ora si trova nei piccoli supermercati. Lei lo ha sempre usato. Ricordo come mi appoggiavo sui suoi cappotti per sentirlo. Era mancanza. A volte lei viaggiava per lavoro. Altre volte diceva che andava da amici e io e papà restavamo a casa ad aspettarla. Non diceva bene quando sarebbe tornata. Certe volte passava un mese. Le telefonavamo.

Mi avvicino per farti sentire il suo profumo sulla mia pelle.

«Mi piace molto», rispondi.

Mia madre aveva un’eleganza misurata, intellettuale. Sempre essenziale, mai semplice. Difficile da dimenticare. Aveva sempre qualcosa da ridire su come mi vestivo. Chi te lo fa fare di andare in giro con quei tacchi? Tanto lei non capiva, era bella anche con le scarpe basse.

Non ce lo diciamo ad alta voce ma sappiamo entrambi perché sei il suo preferito. Quando mi hai sposata hai sfumato la mia presenza. Mi hai allontanata da questa casa. Lei te ne era grata.

Prima di addormentarci apro la finestra. La tenda trema. Entra l’aria fresca del temporale appena passato.

Non era un segreto che mia madre non mi avesse voluta. Anche quando era incinta non mi desiderava. Non provava a immaginare insieme a mio padre che aspetto avrei potuto avere. L’attesa stava solo nel potersi liberare del mio peso. Forse è stato per quello che si era trovata impreparata quando aveva scoperto che ero identica a lei.

Mentre mi sto addormentando sento che il mio corpo dimentica le sensazioni del giorno. Si rilassa con il tocco della tua pelle. Ti rigiri su di me e mi stringi. Era lì di fronte a noi, il telefono che squillava e tu che mi hai detto di non rispondere: “non roviniamo una bella serata”. E io che ti ho ascoltato.

Ti devo ringraziare.

Ci svegliamo che è il mattino del funerale. Ora che è estate la messa si celebrerà nella chiesa in cima alla collina. Più antica, più fredda, inghiottita da alberi sottili. E tra quegli alberi vedrò spuntare i musi allungati dei miei parenti, mutati nel dolore di chi ha perso una sorella, di chi una figlia.

Appena apro gli scuri noto che il bucato steso da mia madre è stato portato via dal temporale di ieri. Corro fuori. Pezzi di lei sono su tutto il giardino. Sembrano quelle chiazze di neve che faticano a sciogliersi nelle zone d’ombra. I suoi vestiti sono gelidi di quella pioggia fredda e rovinati dalla terra che li inabissa.

Tu mi raggiungi.

«Non ti trovavo», mi dici, affannato, «pensavo che fossi sparita».

Mi accorgo che nella fretta di arrivare non ho messo nemmeno un abito nero in valigia.

Trovo un vestito dall’armadio di mamma.

Mi guardo allo specchio. Sputade, ci diceva Nives quando ci vedeva insieme.

Sputate, una somiglianza violenta.

Giudici (Letteratura e diritto #3)

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di Pasquale Vitagliano

È davvero un giudice. Ritengo sia il complimento migliore che si possa fare a un giudice. Terzo per vocazione rispetto alle parti, voce della legge. Nell’immaginario dovrebbe concentrare le migliori qualità umane dell’equilibrio, della sobrietà e di una magnanimità non lassista. Ci sarà un giudice a Berlino? È l’ultima speranza per un mugnaio di sottrarsi alle angherie dell’imperatore di Prussia. La frase erroneamente viene attribuita a Bertold Brecht di Vita di Galileo. In realtà, si è trattato di una attribuzione giocosa del drammaturgo tedesco Peter Hacks nella sua opera Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese. Resta la contraddizione di un tale affidamento con una concezione marxista della storia, secondo cui la magistratura è una sovrastruttura funzionale al sistema di potere. Più coerente con questa realtà è il giudice di Pinocchio per Carlo Collodi, cioè uno scimmione della razza dei gorilla. Anche Fabrizio De André diffida dei giudici la cui altezza – allusivamente – non supera un metro e mezzo. Anche George Simenon non aveva una grande stima dei giudici. Infatti, l’alter-ego dell’ispettore Maigret è il giudice istruttore Ernest Coméliau, che si distingue per la sua ristrettezza di visione. Eppure, in uno dei libri più intimi e crudeli, Lettera al mio giudice, il protagonista, condannato a morte per l’uccisione dell’amante, si rivolge ad un giudice che porta quello stesso cognome. “Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Mi sono domandato se questa lettera sia stata un effetto, in qualche modo, della sindrome di Stoccolma.
All’angustia dei giudici di Maigret si aggiunge il loro carattere minaccioso in due autori molto sensibili al tema, Dostoevskij e Kafka. La figura del giudice assume un’immagine tetra e per niente rassicurante. La terzietà scompare. Il giudice svetta con la sua forza accusatrice rispetto all’imputato che si sente già colpevole e condannato. Il giudice diventa un persecutore. Con uno scritto del 1981, I burocrati del Male, Leonardo Sciascia, commentando la manzoniana Storia della colonna infame, mette in guardia dal pericolo anti-illuminista e totalitario di utilizzare la funzione giudiziaria come strumento etico. Punto di riferimento di una pura visione garantista, è stato, però, brandito, postumo, essendo lui morto nel 1989 prima della stagione delle stragi mafiose e dello scontro su Tangentopoli, come un’arma culturale contro la magistratura politicizzata. Eppure, con Porte aperte, proprio lo scrittore siciliano disegna una delle più lusinghiere figure di giudice. Il ‘piccolo giudice’, compromettendo la sua carriera, in un ambiente in cui tutti, popolo e regime, si aspettano che l’assassino sia giustiziato, si assume la responsabilità di non comminare la pena di morte, sorretto dalla sua cultura giuridica e letteraria.
Per orientarsi nella polemica attuale che ha portato il governo allo scontro con i giudici a causa della separazione delle carriere tra giudicanti e inquirenti, suggerisco la lettura di un’opera teatrale, Corruzione a Palazzo di Giustizia di Ugo Betti, che tutto sintetizza su questo tema. Il potere di sentenziare ha come vizio inerente la corruzione: la verità giudiziaria “corrompe” sempre la verità storica; quasi mai coincidono, della seconda la prima dà sempre una versione fattuale ma microscopica, parziale ma socialmente accettabile. Solo la virtù può legittimare l’autorità. Alla fine del dramma, solo il grande corruttore, il giudice Cust, lo comprende per il peso che si porta sulla coscienza. Dunque, qualsiasi riforma deve essere una auto-riforma per essere efficace. Una conclusione (etica) che non vale solo per i giudici e la giustizia.

Le lettere scarlatte (Letteratura e diritto #1)
Un genere anglosassone (Letteratura e diritto #2)

Pasqua

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di Maria Noemi Grandi

Nel recinto gli animali di zio non sono divisi per specie, ognuno trova il suo posto un po’ dove gli pare. Le galline e le oche beccano senza paura in mezzo ai cani, sanno dove ritirarsi a covare le uova e a nessuno degli altri verrebbe mai in mente di disturbarle. I conigli corrono per i fatti loro tra una fossa e l’altra del terreno. Le due pecore, Pasqua e Pasquetta, dormono nella grande cuccia di pietra del cane senza nome che quando serve chiamiamo Cane, che tiene tutto a bada e caccia le volpi quando provano ad attaccare. Mi avvicino all’angolo in ombra dove sta la cuccia. Zio ancora non si vede ma mi ha raccomandato alle cinque in punto e io alle cinque in punto sono pronta, che a scuola la maestra ci dice in orario è già in ritardo e io non lo dimentico. Mi accovaccio, batto sulla rete del recinto, i musi delle pecore e del cane sbucano fuori per il buongiorno. Infilo qualche dita tra le maglie di ferro e li accarezzo come posso.

– Sicura? – mi fa zio alle mie spalle, annuisco e mi rialzo – Vedi che t’impressioni.

– Non mi impressiono – aprile sembra già estate eppure in pantaloncini e canotta ho freddo. Non mi sono mai alzata prima a quest’ora, non la conoscevo la temperatura dell’alba, mi rannicchio per poco tra le mie braccia. Zio mi allunga una pila di ciotole e un mazzo di coltelli.

Che le nostre due pecore si dovessero chiamare Pasqua e Pasquetta io e i miei cugini lo abbiamo deciso il giorno stesso in cui sono arrivate in campagna, durante le vacanze di Natale.

– Queste tra qualche mese sono perfette – ci aveva detto zio – Quando tornate a Pasqua sono grandi il giusto e le ammazziamo – e allora era stata facile quella trovata. Un nome: un destino.

Zio apre il recinto e chiama Pasqua a sé – Andiamo, bella. Andiamo – quella si avvicina placida, pensa le abbia portato da mangiare i soliti resti. Pure Pasquetta si accoda ma zio la spinge indietro e chiude il cancello. Insieme ci allontaniamo di qualche passo sul prato. Pasqua si agita e zio allora la afferra per il collo, le serra il muso, cerca di trovare la posizione migliore per bloccarla e procedere ma Pasqua è forte, scalcia. Zio le sale in groppa, la stringe tra le cosce. I polpacci da vecchio pugile si tendono e tremano. Ora la tiene per le orecchie avvinghiate in un solo pugno. Chino sul suo corpo incredulo, zio mi tende una mano e con le dita veloci mi chiede il coltello stretto e corto. Pasqua si dimena, prova a disarcionarsi di dosso il suo padrone. Zio tira il muso verso di sé, le dispone comoda la gola. Pasqua cerca i suoi occhi, bela stridula in quella posizione innaturale, sembra interrogarlo e poi capire, cercare la sorella che intanto piange chiusa nel recinto – il muso appiccicato alla rete nell’angolo da cui può osservarci fino alla fine. Qualunque sia la lingua o il verso, un pianto lo riconosci. E oggi io so come piange una pecora: come mio fratello piccolo appena arrivato a casa dall’ospedale. Quelle urla acute, scattose, lunghe fino a svuotargli i polmoni e stridergli in gola, come se fuori dalle braccia di mamma ci fosse solo la paura dei boschi neri, la certezza di essere soli e morti.

Zio impugna sicuro il suo coltello – Buona – le dice – Buona! – da sinistra a destra, la sgozza. È stanco ma sorride. Resta curvo sul corpo di Pasqua, la scrolla leggermente per aiutarla a morire. Il sangue sgorga dalla gola spezzata sugli ultimi rantoli. La vita se ne scappa per le zampe che scalciano ancora qualche volta prima di cedere.

– Avanti, è finita, buona. È finita – la consola – Andiamo – mi dice con la voce rotta dallo sforzo mentre se la carica su una spalla e fa strada davanti a me. Lo seguo in silenzio con in braccio gli attrezzi che mi ha affidato. Giriamo l’angolo, ci fermiamo all’ulivo più anziano, bitorzoluto e spoglio ma resistente, appena dietro il recinto da cui ancora la sorella riesce a osservarci. Da uno dei rami più alti, pende già pronta una corda con un arpione. Zio prende Pasqua per una zampa, infilza l’arpione nel tendine del tallone che nonostante il peso non si strappa. Sparisce nella casetta degli attrezzi e io resto sola a fissare Pasqua dondolare nel vuoto a testa in giù. Quando torna zio ha con sé un compressore. Incide la pelle della schiena e appena sotto, nel piccolo taglio, ci infila la bocchetta del tubo. Lo accende, l’aria scuote violenta il silenzio dell’alba e il corpo di Pasqua. La sua pelle si gonfia come una zampogna, si scolla senza fatica dalla carcassa. E Pasqua, come una zampogna, suona. Suona e io mi spavento.

Zio ride – I fantasmi! – rido anche io ma non rispondo – Che fai, ti spaventi? È solo l’aria che passa nel taglio della gola – rido meglio.

– Tipo flauto – faccio. La risata comune ci assolve. Pasqua, tutta gonfia, ridicola, continua a dondolare mentre noi ridiamo.

Spento il compressore viene scuoiata in fretta – Togliamo il vestitino – le dice zio divertito di se stesso. Gli passo quello che chiama coltellaccio e lui si fa deciso, primitivo, le apre la pancia per il lungo. Mi fa cenno e mi avvicino pronta con le ciotole. Fingo, mi tolgo dalla faccia la tensione dello schifo. L’odore vivo del sangue mi punge le narici e la gola.

Zio mi sa e mi richiama – Sbrighiamoci. Arrivano le api – e allora torno vigile e veloce nel disporre ciotole, stracci e coltelli. Per prima cosa estraiamo l’intestino. Zio lo lascia scivolare, viscido e caldo, nella ciotola che tengo sugli avambracci per raddoppiare la mia forza. Scaccio le api attorno a me agitando la testa come una mucca. Passiamo alla sacca dello stomaco, poi ai reni, al fegato. Al secondo giro ho capito come coordinare il respiro. Trattengo quando mi avvicino al corpo, respiro veloce quando mi giro a cambiare la ciotola. Tocca al cuore. Zio si fa più lento, lo estrae con cura a due mani – Trifolato è magnifico. Oppure semplice: arrostito, olio e sale – annuisco, mi perdo da qualche parte e il peso del cuore buttato nella ciotola mi sorprende. In ultimo, i polmoni.

Mentre mi avvio verso casa con le prime ciotole piene di organi, budella e coltelli, lui rifinisce il lavoro. Mozza la testa di Pasqua, la aggiunge in una delle mie ciotole, fa cadere in un secchio i rimasugli che non servono. Poi sgancia Pasqua dall’ulivo, mi cerca lì attorno per mostrarmi fiero tra le sue braccia spalancate in aria sopra la testa, la carcassa nuda e vuota, tenuta per i piedi e per il collo. In casa intanto solo zia è scesa per la sua parte del lavoro. Il tavolo vuoto al centro della cucina è pronto, coperto di traverse e taglieri. Seguo zio al lavandino, lui si sciacqua velocemente le mani, io proseguo su per le braccia, sfrego bene tutte le macchie di sangue, salgo fino alle spalle che mi prudono, mi sciacquo anche le narici.

La carcassa scomposta di Pasqua è sul tavolo. Dai buchi della mandibola sguscia fuori la lingua e si abbandona. I fasci di muscoli e tendini che avvolgono il cranio, gli occhi lucidi e ora esposti, appena pinzati alle orbite, resistono a comporre il suo volto. Mi sembra sorridere, sto sotto la pelle e il pelo e ancora la riconosco. Zio pizzica la lingua tra indice e pollice – Questa al sugo è la morte sua – sorrido. Buona, penso.

Zia intanto prende i sacchetti Cuki e me li porge. Passo a zio l’accetta per separare le zampe dal busto, gli stinchi dalle cosce. Lui conosce le fibre della carne, la loro direzione e resistenza, tra le coste ci entra con la punta del coltello grande e lungo ben affilato. Pare il rumore della seta accarezzata di nascosto nell’armadio di mamma quando giochiamo a le signore del mercato. O no, il rumore dei fogli di pelle che ci stacchiamo a vicenda dalla schiena dopo esserci bruciati al mare. I colpi secchi e decisi dell’accetta tranciano le ossa con pulizia e cura. Nessuna scheggia finisce nella polpa. L’indecisione fa mangiare carne scarsa.

– A Pasqua quanti siamo? – ci contiamo e poi contiamo i pezzi di carne. Immaginiamo quanta fame potremo avere da lì a tre giorni. Zia mi passa i sacchetti e io li arrotolo come so, per aiutare l’imbustamento e far sì che i bordi non si sporchino di sangue. Mi appollaio nell’angolo di tavolo sgombro, gambe ripiegate sotto il sedere per arrivare meglio con i sacchetti alle sue mani piene. L’odore del sangue di Pasqua non lo sento più. Posso stare vicina senza trattenere il respiro. Appoggiata sui gomiti continuo ad arrotolare sacchetti. Sono stanca e gobba. Ma era giusto scendere presto, aiutare zio. Vedere tutto, cosa c’era nel corpo di Pasqua, infilare gli occhi tra gli organi e guardare finalmente da vicino come quelli se ne stanno lì accrocchiati, scoprire come sono fatti, quanto pesano un cuore, un paio di polmoni, lo stomaco lungo lungo di una pecora. Mi drizzo, ho in testa la voce di mamma che mi dice Stai dritta. La pancia fa le pieghe. Pure le cosce premono sull’orlo dei pantaloncini. Mamma li chiama i suoi prosciuttini. Saltare in camera per tutto il mese, tutti i pomeriggi, non è bastato. Quando in oratorio mi siedo devo fare attenzione alla maglia che se ne resta infilata nelle pieghe. Con questa pancia la canotta blu e rosa non la potrò mettere. La canotta blu e rosa però sarebbe stata importante. Il primo giorno di campo è importante. In oratorio tornano quelli di terza media, che ormai è un anno che non si vedono più, e fanno le squadre. Le vacanze di Pasqua non durano niente, ho poco tempo per farmi piacere da Luca. A quelli di prima oggi facciamo i gavettoni di acqua e pipì. Mi tiro i pantaloncini sulle cosce come a slabbrarli e illudermi di avere meno carne attaccata, meno grasso. Un filo di sangue mi è colato su tutto il polpaccio destro. Deve essermi sfuggito. Lecco due dita e lo sfrego ma quello è già secco. Corro su per le scale, busso e ribusso alla porta del bagno ma Chiara, mia cugina, è chiusa dentro e non apre – Mi devo lavare.

– Usa il lavandino di giù – ma nel lavandino di giù c’è l’intestino di Pasqua. Zia già lo sta lavando per bene con il sale, andrà avvolto attorno a tritato, uova, prezzemolo. Buono. Allora cerco di portarmi avanti, lecco le dita e sfrego ancora. Busso.

– Devo usare il bagno. Arriviamo tardi. Non so che mettermi – il sangue di Pasqua è duro a levarsi.

Fuori sua sorella Pasquetta piange. Piangerà senza pace per giorni e notti a cui ci abitueremo e che smetteremo di contare.

Fu Mina

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di Laura Mancini

Un pomeriggio d’autunno del duemiladiciotto mio marito apparve sulla soglia a un orario insolito. Lo guardai storto dalla scrivania sperando entrasse e uscisse in rapidità senza pretese di interazione, non avevo ancora concluso il lavoro del giorno ed ero irritata dal suo aspetto squinternato e fuori asse. «Elio» sospirai come si constata «piove…», ma lui restò chiuso nel suo. Esitava trafficando intorno all’attaccapanni Shangai di cui mi sarei presto disfatta come se stesse cercando di ricordare che cosa fosse tornato a prendere. Non volli dare peso alla cosa avendo smarrito ogni interesse nei suoi confronti da quando avevo appreso che mi tradiva leggendo uno scambio whatsapp – erotico nei contenuti, scabroso a voler proprio infierire. Era stata una scoperta un po’ patetica, dovuta alla presbiopia e all’istinto alla lettura, una deformazione professionale di cui di norma ci si bea ma non in casi come questo. La schermata della chat resa gigantesca dalla scala aumentata dello schermo del nostro computer mi aveva trasformato all’istante nel genere di moglie che spia – ma piuttosto: vede suo malgrado – il marito in tutta la sua semi-demenza, segno che il degrado imperversava sul nostro comune destino macellando in un sol colpo i fasti del passato, o almeno “il suo dignitoso ricordo”. Ne era conseguito un disincanto radicale verso l’entità biologica ancor prima che storica, l’essere umano ancor prima che il compagno di una vita. Ma ventidue anni non fanno neanche mezza vita, mi ero detta, quindi chi se ne frega. Da settimane mentiva istericamente sulla sua routine, i suoi spostamenti, i suoi impegni di lavoro e i suoi appuntamenti ricreativi che definiva stressati da irrimediabili questioni accademiche ed erano invece solo esplosi per via di una relazione extraconiugale che non sapeva gestire. Trovavo quasi comico il suo sforzo di fornire precise e credibili descrizioni degli eventi immaginari che lo trattenevano fuori casa sebbene non gli chiedessi conto di nulla. Annuivo a ogni informazione guardando la parete verde salvia del soggiorno che ora mi ricordava un ospedale psichiatrico e non più il padiglione di un museo come quando l’architetto ci aveva presentato la palette con fare spocchioso. E più io annuivo più lui farneticava. Mentiva con un atteggiamento che gli doveva sembrare navigato ed esperto, degno del traditore seriale che dubito fosse stato, negli anni precedenti a quel gotico exploit fedifrago. La questione più divertente – sì, uno spasso. Che cosa stava cercando frugandosi in tasca, una prova da occultare sotto i miei occhi? Povero tonto, il solo ricordo è uno strazio – era che mi sapeva a conoscenza di tutto per essere irrotto nello studio proprio mentre leggevo la conversazione amorosa, ma inorridito e pietrificato dalla contro-scoperta si era astenuto dall’appurare la mia effettiva comprensione dei fatti e lo stato emotivo in cui versavo alla luce del nuovo grande segreto che ci divideva. O univa… eravamo entrambi stupiti dall’indifferenza che opponevo alla sua slealtà. Proprio io, Fu-Mina, come mi chiamavano le amiche anteponendo una sillaba al mio ultimo nome. Fumina era stato il personaggio iracondo che avevo interpretato fino a quel momento: presa consapevolezza del torto, il torto si era fatto piccolo, il reo miserabile. Fu Mina, ora non più.

Di slealtà non si sarebbe trattato in fondo se solo Elio avesse deciso di spiegarsi, o almeno di rivelarmi l’intenzione-tentazione di intraprendere un’avventura sensuale con un suo amico, una persona a entrambi familiare che io stimavo particolarmente, uno dei pochi scrittori che frequentavamo ancora. Avevo appena letto il suo ultimo romanzo tutto d’un fiato trovandolo superiore alle prove precedenti e sorprendente per l’atipicità. Non era ascrivibile ad alcun genere, rifuggiva le etichette e mi conquistava completamente nonostante le caratteristiche del tutto antitetiche al mio modo di sentire e leggere la realtà – la prosa scarnificata che in quel periodo riempiva la bocca di tanti era solo una delle caratteristiche del romanzo, non la più significativa. Ero rapita dalla natura onirica del testo, ma ancor più dalla caratura artistica dell’autore che traspariva in modo tutt’altro che compiaciuto dalla prosa, librandosi in aria e planando sulla pagina attraverso torrenziali ma sorvegliati sfoghi verbali compatti senza che si potesse davvero decifrare il senso della storia o sovraccaricarla di significati accessori. Non pretendeva di averne, né tantomeno di spiegare, istruire, sconvolgere o lasciare un segno. Eppure era un libro di idee: di idee e non di trama, di idee e non di personaggi, un lavoro distante da tutto ciò che avevo apprezzato nella narrativa contemporanea fino a un minuto prima di essere sedotta e tradita dalla stessa persona, Didier Slimani. In un certo senso avrei preferito chiedere ragione del misfatto solo a lui: lo ritenevo più degno e assennato. Elio avrebbe affogato il fatto nell’imbarazzo riducendolo al ridicolo accidentale e continuando a cercare qualcosa di immaginario nelle tasche dell’impermeabile. Mi ero risolta per lasciarli sguazzare in pace nel loro amorazzo da vecchi dedicandomi agli strascichi di una vita destinata a un unico compagno fedele: il lavoro.

Un anno prima avevo lasciato un incarico ventennale come editor in chief della narrativa straniera per una delle maggiori case editrici italiane dopo l’acquisizione indiscriminata di diverse case minori da parte della stessa al solo scopo di monetizzare forsennatamente pubblicando letteratura pornografica, manga coreani e libri demenziali per adolescenti – tutta l’immondizia che andava di moda in quegli anni. «Mina ma perché», aveva biascicato l’editore mentre ragionava soddisfatto su chi invitare a sostituirmi. Le dimissioni erano state liberatorie, non rimpiangevo lo stile ibrido del mio ufficio con le lampade tiffany e le poltroncine frau, né i personaggi che vi transitavano – topi ragno, uomini bassi, per lo più, con mani piccole e delicate da preti. Da qualche mese, nella nonchalance della libera professione senile, collaboravo con una rivista culturale internazionale che stava improvvisamente prendendo una piega molto meno indipendente di quando ero stata ingaggiata con una lusinghiera proposta vergata su vera carta con vera penna dalla direttrice in persona. Era un’amica di amici, snob ed eccentrica, un’esteta nomadica che si era formata nella scena artistica dell’Europa meridionale dove aveva consolidato un profilo militante raro a trovarsi nell’ambiente in cui sguazzava raccattando fondi a destra e a manca. Purtroppo il suo personaggio, al pari della mia superata caricatura collerica, era stato smontato dalla crudezza del quotidiano e non mi avrebbe stupito essere liquidata dall’oggi al domani per incompatibilità dei nostri reali ego che avevano iniziato a confliggere dal minuto zero della mia partecipazione al progetto. Io volevo una chiusura sofisticata a decenni di lavoro letterario, lei voleva fare soldi senza perdere la faccia. Questo era invecchiare male, cadere dai rami più alti come foglie prosciugate dal tempo e sgretolarsi a terra in una polvere qualsiasi, mi dicevo fissando la dirimpettaia che stendeva o ritirava i tappeti dal terrazzo ventiquattr’ore su ventiquattro con un aspetto tanto più sereno del mio. Tornando al quadro più piccolo, la delusione che mi opprimeva alle riunioni della rivista presiedute da individui ignari dei contenuti culturali, ma molto edotti sugli spazi pubblicitari a disposizione, era un chiaro segnale dell’imminente scadenza del mio sodalizio con l’astuta manager e con una certa epoca dell’editoria. Ero stanca di recitare e ascoltare recite, badavo solo ai fatti e i fatti erano squallidi.

Non sono sicura di aver chiesto a Elio come mai fosse tornato a casa prima del solito o a che cosa fosse dovuto l’atteggiamento cogitabondo che lo tratteneva sulla soglia con una manica del loden sfilata e l’altra ancora addosso, lo sguardo perso sulla presa del modem, un’aria stralunata per la quale in tempi di minore estraneità lo avrei deriso. Al contrario ricordo perfettamente che un allarme proveniente da un interno del palazzo suonava senza sosta da ore rendendomi impossibile conferire qualità narrativa al pezzo sulla ceramista inglese in consegna per il giorno successivo. Dal profilo esangue che mi era riuscito di comporre mentre l’emicrania pulsava all’unisono con l’allarme emergeva un’artista poco affascinante, il suo atelier, i pavoni, il riferimento a Virginia Woolf e all’Omega Workshop: era tutto molto noioso e le due cartelle che avevo composto meccanicamente non rivelavano nulla di inedito, non vantavano un guizzo stilistico né il minimo trasporto. Ciò che feci di certo fu rivolgere a Elio un saluto stringato e offrirgli una tazza di tè. A quel punto lui si riebbe e mi rese uno sguardo diffidente, quasi fosse incerto della mia identità e delle ragioni ultime della nostra convivenza. «È morto», disse, «ieri era vivo e oggi è morto». Comprendendo all’istante a chi si riferisse ne pronunciai il nome in modo interrogativo. Ma non può essere accaduto davvero, pensai, è giovane come ormai dicevamo di chiunque avesse meno di ottant’anni, ha ancora tanto da scrivere, libri che sarò io a leggere. Poi una freddezza immotivata mi pervase allontanandomi da quanto accadeva. Tacqui a lungo finché Elio non ripeté «Didier» e poi: «ha avuto un infarto, non c’è stato niente da fare, mi ha telefonato la figlia». Niente da fare, mi dissi, e ancora una volta: niente da fare. Fuori l’allarme continuava a suonare.

Avevo conosciuto la figlia di Didier a una presentazione di un libro del padre, anni prima. Mi era parsa una giovane donna dallo stile insolito, con voluminosi capelli rossi e un paltò vintage che doveva aver pescato a caso in qualche mercatino. Si chiamava Emma, abitava a Montpellier e veniva a trovare il padre per brevi e sporadici soggiorni dovendo dedicare l’altra parte delle ferie alla madre che dopo la separazione era tornata a vivere in Inghilterra. Una donna di gran classe, la madre, alla Jean Rhys, magra, pallida e squilibrata, dall’intelligenza spaventosa, spesso alterata e isolata, una protagonista involontaria nata con la camicia, ma di forza. Theresa. Pur avendola incontrata un milione di volte, non avevo il suo numero di telefono né il suo indirizzo e-mail, di lei non mi era rimasta che una specie di ombra sottile. Tutt’altra storia era la giovane Emma. Ci teneva a definirsi “naturalizzata” francese e spiccava per il suo studiato grigiore, era algida, concentrata sul lavoro – insegnava antropologia all’università – e fredda come le persone che crescono facendo a meno dell’aspetto sentimentale delle cose. Non aveva nulla del fascino dei suoi genitori, non sembrava interessarle la realtà poco terrena a cui loro avevano ispirato le rispettive disperazioni. Non seppi immaginare in che modo avesse accolto la notizia della morte del padre, forse la tragedia le aveva tolto di dosso quel rigore con cui doveva spaventare gli iscritti al seminario monografico su Lévi-Strauss. «Che palle» fu quanto mi uscì stranamente di bocca mentre Elio continuava a fissare l’attaccapanni come un totem o un crocifisso. Lottava con l’indecifrabilità del destino, vecchio, stolto amico mio. Qualcosa, forse l’amore, si dimenava in lui, impedendogli di piangere.

Mi lavai i denti, infilai l’impermeabile e presi le chiavi della macchina che Elio aveva cercato senza successo. «No», disse al muro salvia prima che uscissimo di casa, «non serve». Non parlava da solo da quando aveva consegnato il lavoro che lo aveva demolito prima del grande rilancio, come chiamavamo il suo ultimo decennio di attività. Si mise alla guida e mi augurai che non andassimo a sbattere, non perché avessi cara la pelle ma perché detestavo l’idea di morire in modo stupido e inconsapevole. Per distrarmi setacciai il web a caccia della notizia. La casa editrice aveva già annunciato la fine di Didier come l’esito improvviso di un male di cui l’autore era stato inconsapevole e che lo aveva dunque sorpreso nel fiore dell’attività strappandolo al piacere della vita e alla febbrile attività letteraria. Tra le righe del comunicato si intendeva qualcosa come un infarto silente, un tumore fulminante. Parcheggiammo la volvo a due passi dall’ospedale e mentre camminavamo verso la camera ardente notai che a Elio tremavano le mani. Quando parlava il mento subiva un lieve sussulto alla base, come per un’imminente ischemia.

Ci accolse Emma in persona, senza sorridere ma neppure piangendo o mostrandosi più scossa del dovuto. Ci fermò sulla soglia della camera ardente per esporre in modo rapido e chiaro l’accaduto. Dopo la premessa sulle cause ufficiali della morte, passò a descriverci in modo minuzioso il suicidio del padre – «Alle ore xx ha ingerito le pastiglie, alle ore yy ha scritto una lettera che leggerò alla commemorazione. Si rivolge anche a lei, Elio». Mio marito palleggiava gli occhi da destra a sinistra a velocità supersonica. Emma proseguì il resoconto secondo per secondo fino agli ultimi respiri esalati e agli spasmi post-mortem. Doveva essere carica di odio, per qualcosa o qualcuno. Studiandola a fondo mentre esponeva i fatti in modo implacabile, come una campana che col sole o con la tempesta, per un matrimonio o un funerale, a quell’ora rintoccherà la mezza punto e basta, compresi che era la consapevolezza di chi fosse stato mio marito per suo padre a ispirarla. Quanto a Elio, l’unico dei presenti sconvolto dalla perdita, prese a oscillare il corpo intero tenendosi aggrappato a una colonna di porfido e poi a me, come un ballerino perso nel ripasso della coreografia prima di entrare in scena.

Un anno prima di morire Didier aveva depositato testamento presso uno studio notarile di Nizza, il che è insolito per un uomo di sessantaquattro anni, ma del tutto sensato per un aspirante suicida avverso ai lasciti irrisolti. Di ritorno a Roma aveva mischiato grappa e benzodiazepine in una tazza danese come una di quelle poete americane afflitte da problemi psichici – sulla porcellana era poi stato trovato un fondo vischioso di miele scuro. In quell’occasione di cui né Elio né io eravamo a conoscenza che aveva preceduto di dieci mesi il secondo e più riuscito tentativo, Didier era stato salvato nonostante l’imperativo “non rianimatemi” scritto a penna sul petto. Nulla di quanto aveva compiuto corrispondeva all’idea di lui che avevo coltivato leggendo i suoi romanzi o ascoltandolo parlare di Londra Parigi e Algeri, la soluzione a cui era giunto contraddiceva il suo distacco dagli oggetti e dalle pulsioni oscure che avevo creduto poterlo agitare solo a livello cerebrale e tecnico-letterario, come capita a un uomo immune alle meschinità, un artista che risponde a una poetica e scava senza mai sprofondare. Mi ero lasciata ingannare dalla veste sociale senza cogliere la reale persona, avevo letto il manifesto ma non il testamento. Il coup de théâtre arrivava col lascito: Didier ci aveva donato – venivo menzionata per esteso, con tutti i nomi e i cognomi che i miei genitori per pura megalomania mi avevano attribuito – una villetta in Costa Azzurra, a Saint-Paul-de-Vence, dove James Baldwin aveva trascorso i suoi ultimi anni. James e Didier, annotai mentalmente per il memoir che fino a pochi minuti prima non avrei avuto ragione di scrivere e ora forse sì.

Quando apprendemmo tutto questo – che era molto anche per gente disinvolta come noi – ci trovavamo ancora all’ingresso della camera ardente, a pochi metri dalla salma e da una decina di persone che non riuscivo a mettere a fuoco. Il forte vento da nord muoveva a battito d’ali il rever del cappotto di Emma – quinte impazzite dopo uno spettacolo assurdo ideato per provocare il pubblico. L’episodio a cui partecipavo senza sapermi opporre era permeato dal cattivo gusto e dal cattivo auspicio. A troncarlo arrivò una donna microscopica spettinata dal maestrale che Emma chiamò «nonna» allontanandosi finalmente da noi. Elio sbavava lievemente e pareva rimpicciolire sotto il peso del cappotto. Per spezzare il suo silenzio dissi «non male» in riferimento alla notizia della casa. Fremevo sperando di poter concludere quanto prima l’immonda situazione, l’ondulazione di Elio, il libro degli ospiti, quel mostro con gli occhi asciutti e il ghigno trattenuto, i fiori, l’odore di disinfettante, i miei grotteschi «che palle» o «non male», quel vento malato, venuto a confondere le idee. Emma incrociando il mio sguardo ammiccò come chi avesse appena chiuso a proprio vantaggio una trattativa complicata e avvicinandosi nuovamente mi soffiò nell’orecchio: «la casetta è un incanto, si fa perdonare la sua umidità». Ogni cosa intorno a noi si scontornava fino a svanire svuotando la stanza dagli oggetti e la mente da ogni significato.

A Elio che camminava come se fossero il vento ghiacciato e l’uragano di foglie a spingerlo a pedate verso il parcheggio dissi «me la ricordavo meno agitata», ma non ebbi risposta. Accese il motore e zappò a caso sui pedali, ogni minuto meno in sé, vicino al suo inferno, solo nel suo privato abisso. Lasciò squillare più volte il cellulare – chi lo chiamava, ancora quell’aguzzina con le scarpette da tango o il rettore per fargli le condoglianze? Frusto come uno straccio bagnato, aspettava che a ogni verde ci strombazzassero contro prima di rimettere in marcia col fare di chi sia sbronzo e stremato, stufo di sé, non rianimatemi.

Presi a rimuginare su tutti i romanzi non scritti e su come avrei fatto meglio a prendere ad accettate la mia scrivania per poi farla ardere in un caminetto di Saint-Paul-de-Vence interrompendo una volta per tutte le passeggiate tra gli scaffali delle librerie intasati da robaccia e le riunioni con l’editrice mercenaria, non erano migliori di quelle coi topi ragno. «Chi?», mi chiese all’ennesimo colpo di clacson, «la figlia» replicai, «Emma? Non è agitata, solo un po’», ma non finì la frase. «È un po’ agitata?», «Dura» riprese piatto, «Emma è molto dura». Fu quanto di più intimo ci dicemmo sulla vicenda durante il viaggio in macchina a sbalzi e inchiodate. Poi piombammo in un concetto di perdita permanente fatto di silenzi, lunghe sessioni di lettura e pasti separati. Non ne parlammo più, non decidemmo nulla e non facemmo altro che aspettare, fino all’estate successiva quando partimmo per Saint-Paul-de-Vence con un’idea comune e complementare, di pentimento e redenzione.

L’esodo da Gaza – non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza

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di Yousef Elqedra

All’amico Moheeb Barghouty,
là dove ti trovi,
là dove le anime continuano a dimorare tra le rovine del tempo, fra queste la tua.

 

 

La salvezza, un’altra ferita

Caro Moheeb,

ti scrivo non per annunciarti una salvezza, ma per raccontarti come la salvezza stessa possa essere un’altra ferita: una ferita antica che si rinnova.

Sì, abbiamo lasciato Gaza. Ma Gaza non ci ha lasciati. Tutto ciò che è accaduto è che ora la portiamo in noi, sotto forma di strati invisibili, come la linfa di un albero che conserva memoria di ogni tempesta, carestia e morte.

Abbiamo valicato il nostro carnefice, armato fino ai denti. Abbiamo valicato ma senza gli amici rimasti intrappolati. E quando abbiamo attraversato il mare, credevamo che l’acqua potesse lavare la memoria, tuttavia ho realizzato che la memoria non dimora nella pelle, per staccarsi da essa col sale, bensì vive nell’osso, nel suo midollo più segreto, laddove né le onde né il perdono possono raggiungerla.

Qui, a Marsiglia, il mare è diverso.

Il suo azzurro non somiglia all’azzurro del mare di Gaza.

Qui, il mare è quieto, adagiato come un’anziana stanca di raccontare storie.

Il nostro, invece, era un giovane mare impetuoso e tumultuoso, che scalciava la riva come chi tenta di evadere da una prigione.

Ogni cosa, qui, sussurra alle schegge del mio cuore: la vita è possibile.

La gente cammina con calma, parla con dolcezza, persino il dolore qui è sommesso.

Ma noi, venuti dal fuoco, portiamo nei nostri passi l’eco di un’antica esplosione.

Ora siedo al caffè accanto alla finestra, fumo come atto di rivalsa contro la privazione,
e fisso l’azzurro di questo mare estraneo, chiedendomi:

chi di noi si è davvero salvato?

Chi è rimasto laggiù sotto le macerie?

E chi di noi è sopravvissuto per morire lentamente qui, nel grembo di un esilio preso in prestito?

 

 

Una morte lenta, ma meno crudele stavolta

Moheeb,

non cercavamo la vita quando lasciammo Gaza.

Cercavamo un altro tipo di morte:
una morte lenta, meno crudele.

Una morte che non ti sorprenda sotto le macerie,
ma ti raggiunga sotto un albero,
su un marciapiede,
o tra amici che ridono ignari del fatto
che tu stai agonizzando da tempo
per la delusione, i silenzi inquietanti, le complicità.

Qui, l’assenza è più grande di ogni cosa.

Né i volti dei passanti colmano il vuoto,
né le risate dei bambini nei vicoli restituiscono all’anima la sua gioia.

L’esilio non è il luogo. È il tempo.
L’ho compreso da prima.

E qui, il tempo scorre in modo diverso,
come se fossimo stati tagliati fuori dalla linea originaria della nostra esistenza.

Siamo diventati parassiti di un tempo
che non riconosce il nostro dolore
né ci chiede conto delle nostre perdite.

Sai, amico mio, qual è la cosa più crudele?

Scoprire che la patria ti ha lasciato prima ancora che fossi tu a lasciarla.

Renderti conto che le case che amavi sono divenute polvere,
che le strade che conservavano l’eco dei tuoi passi
sono state rase al suolo.

E che, se mai tornerai,
tornerai al vuoto,
alle tue rovine.

 

 

Il fantasma di mia madre

Caro Moheeb,

non scrivo per lamentarmi.

Scrivo perché la scrittura è l’unico modo per convincermi di non essere morto del tutto.

Che una piccola parte di me ancora respira, soffre e scrive.

Nelle ultime notti, il fantasma di mia madre mi fa visita.

Non parla.

Si siede soltanto sul bordo del letto
e posa la mano sul mio capo,
come faceva quando ero bambino e tremavo per gli incubi.

Apro gli occhi,
scorgo solo tenebre
e capisco che il vero incubo
non è sognare,
ma svegliarsi.

A volte mi chiedo:

cosa significa essere umani dopo la devastazione?

Come si può piantare speranza in un pianeta avvelenato dalla disperazione?

Come si può sorridere,
quando i ricordi ti riempiono la bocca di cenere?

Qui, a Marsiglia, tra amici e sconosciuti, ho capito che l’uomo non sopravvive perché è il più forte,
ma perché è il più abile a fingere.

Finge di stare bene, per poter credere alla propria menzogna.
Finge di dimenticare, per reggersi in piedi.
Finge di amare il mare, per non piangere davanti ad esso come un bambino smarrito.

È forse questa la salvezza?
Una bugia ben recitata?

O forse la vera salvezza -come diceva un vecchio mistico, di cui non ricordo il nome-
è sapere di essere già morto,
e continuare a vivere comunque,
con un sorriso beffardo sulle labbra?

 

 

la terra che mi ha rigurgitato

Caro Moheeb,

So che è greve questa lettera,
ma tu, tra tutti, sei l’unico a sapere
che le parole, quando ti spezzano, diventano più vere.

E che il silenzio, quando si prolunga,
non è pace, ma perdita.

Tu lo sai, come lo so io:
il dolore non guarisce mai davvero,

le ferite più profonde non si rimarginano,
ma diventano galassie che ruotano dentro di noi,
tracciando l’orbita delle nostre anime intorno alla loro assenza.

Cerco la patria nei volti degli amici che mi somigliano nell’esilio,
nello sguardo dell’amato Moneim Adwan,
che intuisce senza bisogno di parlare,
in una triste canzone yemenita che fugge da una finestra aperta dell’amico Jamil Sabea.

Capisco che la patria non è una geografia,

è una memoria condivisa di dolore.

Sto imparando a essere figlio dell’esilio,
senza dimenticare di essere figlio della terra che mi ha rigurgitato.

Ti scrivo queste parole perché sento il bisogno di lasciare un’altra traccia,
non solo i miei passi tremanti sui marciapiedi di Marsiglia
ma un’impronta familiare ad un amico,
un amico che sa che dietro i grafemi infranti
si nasconde un desiderio folle di riconciliarsi con la perdita.

Moheeb,

non ti chiedo di rispondere.
Va’, fuma il tuo narghilè e maledici il mondo.

A me basta che tu sappia che ci sono,
che esisto nonostante tutto,

porto Gaza nel cuore come una ferita bella,
e Marsiglia sulle spalle come una croce leggera.

Resta laggiù, o vieni un giorno a vagabondare con me per le strade. È lo stesso.

Alla fine, siamo tutti intrappolati nel medesimo viaggio:

un viaggio alla ricerca di una piccola luce
in fondo ad un lungo tunnel.

Il tuo compagno tra due inferni,

Yousef

 

 

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Testi di Yousef Elqedra, con una sua foto del porto di Marsiglia, dove si trova oggi il poeta palestinese. “L’esodo da Gaza” è apparso su raseef22, questa traduzione è di Sana Darghmouni. Di Elqedra Nazione Indiana ha già pubblicato L’altro volto della resistenza e la serie “Memorie da Gaza”.

 

Homo Faber

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di Filippo Canoro

Se volete sapere di Marko, lui, era un amico che in quel periodo andavo a trovare quasi tutte le sere. Faceva il meccanico in un’autofficina sul limitare di Marghera dove si raggrumavano tutte le migliori puzze della zona industriale. Regione senza dio e senza legge, segnata su nessuna mappa––i posti del cuore non lo sono mai, del resto!––dove vigevano la legge del più furbo e la psicologia del miracolo. Stavano sempre tutti per fare il colpo grosso, a quelle latitudini: il lavoro, la ragazza, il carico che li avrebbe con un unico strattone tratti in salvo dall’affitto, dalla catena di montaggio, dal cinquantino acquistato a rate, dalla camerieranza a vita, dai sedili appiccicosi di un vaporetto pigioso del cazzo, dalla puzza di cavolo nella tromba delle scale: insomma il colpo grosso che li avrebbe portati a riva prima che annegassero in quel mare di merda che gli spettava per diritto di sangue. Si fa così in periferia, si spera nel miracolo dietro ogni angolo e intanto si vive. Mestre-Marghera, periferia della periferia, buco di culo del mondo.

Mi stava molto simpatico, sto Marko, non dico di no. Mi portava a mangiare dal Mei Lin, e vedendomi così povero in culo come ero pagava tutto lui. Rideva, ciarlava, beveva a canna litri e litri di birra. L’unica parola che capivo, di quel suo italiano tutto sbrindellato, era hashish: dopo cena ci giravamo una cannetta piena di grazia e vagabondavamo per il centro città. Un cristo grosso così, sto Marko, con una schiena larga come un contrabbasso e tutto raggiante di buone intenzioni. Faceva il meccanico, mi spiegava, ma arrotondava smazzando qualche tocco di afghano. Mi ha mollato una pacca sulle spalle da scancherarmi la clavicola: ci avrebbe pensato lui a rendermi indipendente! Manco a dirlo, stava anche lui per mandare a segno il suo colpo grosso: un grosso, grossissimo carico di fumo da Bolo. Per intanto mi ha allungato due panettine di carta argentata da smazzare all’uscita dei licei e tenermi su di morale.

Per il resto era un vero coglione. Sottoscolarizzato che era, i suoi discorsi brulicavano di lettere latine di seconda, terza mano, tutte consunte e stazzonate e puzzolenti e appallottolate come vecchi calzetti; gli uscivano a fiotti dalla bocca come le bestie da un formicaio: brulicavano, ti si appiccicavano addosso, te le sentivi passeggiare co’ ste luride zampette su per la colonna vertebrale, niente niente te le ritrovavi sul collo, su una guancia, dentro a un orecchio. Memento audere semper. Per aspera ad astra. Fino a che non ti scappavano dalla bocca anche a te. Un tatuaggio lungo uno dei suoi monumentali tricipiti diceva

 

E sì che Marko faceva il meccanico in una grande officina, tutto il giorno culo in basso a stringere e allentare bulloni, dadi, a sbrugolare di gomito colle mani nel radiatore, due manone così per dirla tutta, e poi la sera tornava in quella greppia d’una casa colle dita rosse e gonfie come luganeghe e ancora spataccate di grasso, polvere, olio motore; il grasso soprattutto si rincantucciava sotto alle unghie e non lo levavi neanche coll’acquaragia; mani grosse e sporche di meccanico, mani luride. Ma lui niente, anche così colle mani zozze, la schiena sbuccia e tutto pieno di bernoccoli e bitorzoli––perché il convento non gli passava neanche la sdraio sottomacchina per scivolare sotto i mezzi, e allora gli toccava strisciarci sotto a colpi di lombi fino a consumarsi tutta la tuta da meccanico––anche così, ecco, lui sognava d’imprendere, di fare il capoccia. Sognava di mettere su lo sputo d’impresa che l’avrebbe finalmente fatto sentire padrone di qualcosa: di più, signore e sovrano della vita sua e di quella di altri due o tre disperati cenciosi che avrebbero brucato l’erba col culo tanto ci avevano fame, e che per portarsi a casa un tozzetto di pane erano pronti a qualsiasi nefandezza, anche a consumarsi la schiena a furia di strisciare sotto alle macchine senza la sdraio…

Lo faceva mica il collegamento, lui. Già si vedeva dietro al suo banchetto di formica, a sera, nel retrobottega, colla sua visiera verde da ragioniere del cazzo, a contare la grana passandosi libidinosamente i ventoni lisci lisci da una mano all’altra, a impilare puntigliosamente le monetine, insomma, a far di conto… lo faceva mica il collegamento, lui.

Neanche un mese prima, il capoccia di Marko aveva avuto la bella pensata di accettare un lavoraccio, un furgoncino fiorino… nulla di difficile, giusto un cambio alla cinghia di trasmissione… eccettoché il ponte sollevatore era un po’ sotto portata per sto furgoncino… ma non s’era mai sentito che… e poi con un po’ di fortuna… e allora Aziz, il compare di Marko, dico, come aveva messo il becco sotto il fiorino sollevato…

Insomma, per pigliarla in breve, la piattaforma del ponte sollevatore aveva ceduto di schianto e il vecchio Aziz s’era ritrovato mille duecentosessantadue chili di furgoncino su una gamba, di punto bianco, e giusto perché era stato lesto a sfilarsi appena aveva sentito cric-iiiiiik, sennò… mille duecentosessantadue chili moltiplicati per dio sa quanto dalla legge di caduta dei gravi, si sa… mannaggia a Galileo!… mille duecentosessantadue chili che senza sforzo gli avevano spaccato tutta la gamba fino all’attaccatura, su su fino al bacino.

Cric-iiiiiiiik!!

Ma il bello era venuto quando erano riusciti a sollevarlo, sto fiorino. In fondo allo sfacelo della gamba, il piede, lui, non se l’era sentita di rimanere attaccato, con tutto che erano diciannove e rotti anni che se ne stava laggiù al suo posto, proprio in fondo alla gamba, e gli era scoppiato come un petardo, o come un grosso fico fresco spiaccicato sull’impiantito grigiomerda… rosso rosso, rosso vivo colla polpa tutt’intorno… un delirio di polta, ossicini, fluidi e schizzi di sangue dappertutto… una raggiera di schizzi di sangue aguzzi come aculei d’istrice… diabolica aureola… gli era proprio esploso, sto piede––pum! E Aziz che ululava, strepitava, piangeva, invocava allah, maometto, la mamma… ci avrebbero avuto un bel daffare anche loro a rimettere a posto quel casino d’un piede spappolato.

Ce l’hanno mica fatta, poi. Frattura scomposta  di più o meno tutto sotto l’anca (lato dx) e amputazione del piede fino al calcagno. Homo faber fortunae suae!

A un certo momento ad Aziz gli era anche saltato il grillo di farla pagare, al capoccia. Di fargli causa o qualcosa del genere. Ma il capoccia, lui, aveva agitato un dito per l’aere come una bacchetta magica e aveva pronunciato la formula: Permesso di soggiorno. Figurarsi se lui ce l’aveva il permesso di soggiorno, il vecchio Aziz. S’era tuffato a picchetto nel mercato del lavoro senza increspare né punto né poco il mare magnum della burocrazia nostrana. Ma gli era andata bene, alla fine, perché il capoccia, mosso a compassione, s’era impegnato a indennizzarlo al ritmo di duecento carte al mese per due anni, ovverosia duemilaquattrocento euri netti. Questo il valore di un piede a Mestre-Marghera nell’anno domini corrente, se ve lo stavate chiedendo. Piede di negro scappato di casa senza permesso di soggiorno, si capisce.

Aziz lo vedevamo strampolare tutti i pomeriggi sotto i portici polverosi della via Piave. Ta-tac facevano le stampelle, tac-ta.