di G.
Hai un acquitrino
sotto il pancino
hai un acquitrino
Adrián N. Bravi
Georg Duperron, l’allenatore di calcio della nazionale russa dell’epoca presovietica, aveva un amico di nome Vladimir Kozlov che faceva parte della dirigenza della Federazione calcio di tutte le Russie e andava sempre a vedere le partite. Gli piaceva il calcio in un modo inaudito per quei tempi e discuteva con tutti su come doveva essere formata la squadra. Se avesse avuto qualche anno di meno, diceva spesso, avrebbe voluto giocare anche lui o si sarebbe candidato. Nel 1912 aveva accompagnato la squadra di Georg Duperron in Svezia, alle Olimpiadi, la prima Olimpiade in cui aveva partecipato la Russia zarista. Era un mondo che stava crescendo, quello del calcio, senza sapere bene verso dove. Si racconta che Vladimir Kozlov, dopo l’ultima partita della Russia, giocata contro una Germania devastante che aveva massacrato i russi con sedici reti, era andato da Georg Duperron e gli aveva detto:
– Stammi a sentire, caro mio allenatore, hai visto quel tedescaccio di Fuchs che da solo ha segnato dieci reti? –
– Ho visto -, disse Georg Duperron.
– Be’, avresti dovuto guardarlo di più e farlo marcare meglio se non volevi prendere tutte quelle reti o pensi che puoi andare avanti così? –
Avevano giocato nello stadio di Tranebergs IP di Stoccolma, inaugurato l’anno prima per le Olimpiadi (oggi al posto dello stadio c’è un parco verde dove qualcuno ancora gioca a pallone) e Vladimir Kozlov, dopo la partita, aveva camminato per un paio di ore, attraversando ponti e strade alberate, fino ad arrivare alla vecchia città. Nel frattempo si fermava a ogni bar a prendere una vodka. Appena la finiva faceva una smorfia e ripartiva alla ricerca del prossimo bar che trovava lungo la strada. In uno di questi, dentro la città vecchia, la Gamla Stam, aveva incontrato un tizio dall’aria sofisticata. Portava una giacca impeccabile color panna, le scarpe tirate a lucido, la cravatta e beveva del cognac. Vladimir Kozlov aveva chiesto una vodka alle erbe, tanto per cambiare, e siccome alle erbe non c’era, aveva detto che andava bene una al coriandolo, ma non ce l’avevano neanche al coriandolo, allora aveva detto, giusto per non uscire a gola secca, che andava bene qualsiasi tipo di vodka, anche secca, purché fosse buona. Poi aveva cercato di spiegare al tizio sofisticato, quello con la cravatta che beveva cognac, che la sua squadra aveva perso di sedici reti contro la Germania del Kaiser e che solo un giocatore della Germania del Kaiser, il maledetto Fuchs, aveva segnato dieci reti. Il tizio sofisticato annuiva con la testa, senza parlare. Vladimir Kozlov continuava la sua lamentela, che non si era mai vista una squadra così scarsa, che se ci fosse stato lui in campo avrebbe saputo fare meglio di quegli undici russi grossolani. Alla fine, quando l’uomo aveva chiesto un altro cognac al barista, in svedese, Vladimir Kozlov si era accorto che aveva parlato in russo per tutto il tempo e quando aveva chiesto al tizio sofisticato se lo capiva, lui, come aveva fatto finora, aveva annuito con la testa, come farebbe uno che conosce molto bene la lingua in cui gli stai parlando e non ha bisogno di dimostrarlo; oppure, il gesto in questo caso coincide, come farebbe chi non ha capito nulla, che molto probabilmente era il caso del tizio sofisticato.
Undici anni dopo si era formata la nazionale dell’Unione Sovietica e nel 1958, per la prima volta, sempre in Svezia, aveva partecipato ai mondiali di calcio (era la sesta volta che si giocava il mondiale ed era un evento unico, memorabile per certi aspetti). Il nipote di Vladimir Kozlov, che si chiamava anche lui Vladimir Kozlov, era un tifoso dello Zenit, cresciuto insieme a suo nonno, perché suo padre lo avevano mandato a lavorare a Mosca, mentre lui era nato e cresciuto a Leningrado. Anche lui era andato in Svezia ad accompagnare la nazionale, come aveva fatto suo nonno quarantasei anni fa. Voleva compiere lo stesso viaggio, perché pare che Vladimir Kozlov, nonno di Vladimir Kozlov, avesse raccontato diverse volte quell’avventura in Svezia al nipote, anche se ripeteva sempre le stesse cose, che la sua squadra aveva perso sempre, che gli svedesi non sanno il russo e che sono tipi misteriosi, perché non ti dicono che non sanno il russo, o non lo vogliono dire perché temono che uno possa rimproverarli. Come il nonno, anche lui era andato alla città vecchia e aveva incontrato pure lui diversi tizi sofisticati che bevevano cognac e non sapevano il russo. E poi, bisogna aggiungere, era felice di vedere in campo il suo giocatore preferito, Aleksandr Ivanovič Ivanov, dello Zenit, che in quel mondiale aveva segnato due bellissime reti.
Anche il nipote di Vladimir Kozlov aveva un nipote che si chiamava Vladimir Kozlov, in onore al nonno, e anche lui, come suo nonno in Svezia e suo trisavolo in Svezia anche lui, 28 anni dopo, era andato a vedere la sua squadra, questa volta al mondiale di calcio in Messico. Era felice come una pasqua quando la Russia di Lobanovsky, nella prima partita, aveva vinto sei a zero contro l’Ungheria nello stadio di Irapuato, la città delle fragole. In quel periodo, Vladimir Kozlov abitava da più di dieci anni a New York, nel quartiere di Brooklyn. Nel 1972 lo avevano espulso dalla Russia con l’accusa di parassitismo. Frequentava l’Università di Leningrado e aveva iniziato a scrivere due trattati, uno sulle bugie che diventano vere, perché alla fine tutti ci credono; l’altro, invece, dove immaginava che in un futuro non lontanissimo gli uomini avrebbero potuto programmare i propri sogni, intesi come produzione onirica, a fini terapeutici. Quest’operazione, secondo la sua teoria, avrebbe aiutato l’umanità a riconciliarsi con il prossimo e con la natura in generale, perché il sogno, sosteneva Valadimir Kozlov, sapendolo guidare attraverso il linguaggio onirico, potrebbe sedare le manie di potere e di egemonia. Aveva sposato una paraguayana che era andata a vivere a Brooklyn anche lei. Si chiamava Concepción, ma lei voleva essere chiamata Panambi, che in lingua guaranì significa farfalla, perché così la chiamava suo padre da piccola. Aveva vissuto fino ai diciotto anni in un piccolo villaggio ai confini con il Mato Grosso. La sua famiglia era stata espulsa dal paese durante la dittatura di Stroessner e dopo una lunga peripezia tra il Brasile e il Venezuela era andata a finire negli Stati Uniti. Ballava la cumbia muovendo il bacino di qua e di là e beveva sempre il mate. Panambi e Vladimir avevano due pappagalli e tre figli, Ramona, Elizabeth e Vladimir Kozlov. Nessuno dei due, né Vladimir padre né Panambi, parlava bene l’inglese, ma era l’unica lingua che avevano a disposizione, perché lui parlava solo russo e francese, e lei solo spagnolo e guaranì. Quando Vladimir Kozlov aveva saputo della vittoria della Russia contro l’Ungheria e poi del pareggio contro la Francia di Platini e poi ancora della seconda vittoria contro il Canada, era andato sulla Cento-ottava Strada a casa di un suo amico russo, esiliato anche lui, e gli aveva detto:
– Dobbiamo stare qua a marcire a New York o vogliamo darci da fare per questi russi? –
– A me, di andare tra i messicani per vedere una partita di calcio, dopo che i russi ci hanno pure mandato via, non va più di tanto. Io stavo bene là, davanti alla Fontanka, vedevo i battelli che attraversavano il canale…, ma se vogliamo andarli a vedere, io ci sto, chiedo ad Andrejkin se mi presta qualche soldo per il viaggio. Quando giocano? –
– Tra cinque giorni -.
Si erano organizzati alla meglio ed erano partiti spendendo le ultime risorse economiche. La Russia era stata la prima classificata del girone e da lì a poco avrebbe giocato contro il Belgio, che si era classificato al terzo posto. Vladimir si era portato il colbacco di suo nonno Vladimir Kozlov, quello che era andato in Svezia nel 1958, nonostante fosse giugno e facesse molto caldo. Quel colbacco era passato di mano in mano, di generazione in generazione, e adesso doveva esibirlo davanti alla sua nazionale, anche se apparteneva al paese che lo aveva espulso. Colbacco e occhiali da sole, cosi si era presentato allo stadio León quel 15 giugno 1986. La partita era finita tre a tre, ma nei tempi supplementari i belgi hanno avuto la meglio.
– Cara Panambi -, aveva detto alla moglie quando le aveva telefonato, – ci hanno rubato la partita con due fuorigioco, colpa di uno svedese, un arbitro di nome Fredriksson, maledetto lui. Fino a quando questi svedesi continueranno a tormentarci? –
Vladimir Kozlov non solo era amareggiato perché la sua squadra aveva perso agli ottavi di finale, ma perché dopo che si era tolto il colbacco per protestare contro l’arbitro, e lo aveva lasciato accanto a sé, non lo aveva trovato più:
– Gerasin, Gerasin -, diceva al suo amico, – qualcuno mi ha fregato il colbacco di mio nonno Vladimir Kozlov che, oltre al nome, è l’unica cosa che mi è rimasta della mia famiglia -.
– Non è possibile -, rispondeva amareggiato Gerasin.
– Invece sì -.
Infine, e per concludere con la storia dei Vladimir Kozlov, raccontiamo solo che anche Vladimir Kozlov aveva un nipote di nome Vladimir Kozlov, figlio del Vladimir Kozlov nato a Brooklyn, che, come avevano fatto quasi tutti i Vladimir Kozlov della famiglia, anche lui era andato a vedere la nazionale russa, ma questa volta in Brasile, insieme al padre, e sembra che adesso l’ultimo Vladimir Kozlov, ormai ventenne, si stia organizzando per tornare in Russia, a vedere qualche partita del mondiale, la tomba e quel che è rimasto del primo Vladimir Kozlov che abitava a San Pietroburgo, che nel 1912 era andato in Svezia a vedere le Olimpiadi.
*
Da I compagni non perdono mai. Storie di pallone dalla Russia sovietica a oggi, a cura di Daniele Comberiati, Prospero Editore, 2018.
di Federica de Paolis
Una masseria in Salento, una festa, estate. Una Puglia arsa dal sole, meravigliosa e impenetrabile,
colonizzata da ricchi milanesi e romani e dalle loro case di villeggiatura, abitata da personaggi astuti e
imprevedibili.
Appena edito da Mondadori, “Notturno salentino”, il nuovo romanzo di Federica De Paolis. Di seguito un estratto.

Ero ferma sotto al patio, il sole filtrava tra gli ulivi, e nonostante l’estate incandescente del Salento tra le foglie frusciava un’aria azzurra. La mano mi tremava. Per quanto non si trattasse di un vero e proprio furto, se Antonio Locandido mi avesse visto intascarmi il suo cellulare sarei morta di vergogna. Immobile, osservavo la porta chiusa della camera di Cynthia, la nostra tata nigeriana che da due anni viveva con noi a Roma, stipata in una stanza di sei metri quadri nella quale snocciolava le sue ore libere guardando il soffitto. Ora era chiusa nella sua camera con Antonio: aveva cominciato a flirtare con il ragazzo salentino da qualche settimana; lui era il fabbro che stava costruendo il cancelletto della nostra casa, un bamboccio di una trentina d’anni, un metro e ottanta di testosterone che girava con un pastore tedesco, osservando il mondo femminile come se potesse succhiarlo e sputarlo in un solo colpo. Ero ferma davanti alla porta, e come un cecchino guardavo il cellulare di lui poggiato sul tavolo nel patio: bastava fare due passi, allungare la mano e appropriarmene; per scherzo, per vendetta.
trad. isometra di Daniele Ventre
Dopo che sotto il Pelide cadde Ettore simile a un dio
e lo corrose la pira e terra coprì le sue ossa,
se ne restavano sopra la rocca di Priamo, i Troiani,
trepidi al valido ardore d’Eàcide d’animo audace;
come di mezzo alle selve le vacche non vogliono uscire
ad affrontare un feroce leone, anzi sono atterrite
e se ne stanno acquattate in massa tra i fitti cespugli;
essi così nella rocca temevano il truce guerriero,
nel ricordare di quanti già prima recise le teste,
quando per le correntie dell’Ideo Scamandro infuriava,
e quanti ancora abbatté fuggitivi sotto il gran muro,
come prevalse su Ettore e intorno alla rocca lo trasse,
e tutti gli altri che ancora stroncò per il mare mai stanco,
sin dal principio, da quando portava ai Troiani rovina.
Nel ricordarsi di loro, restavano dentro la rocca:
e nel frattempo d’intorno un amaro lutto aleggiava,
quasi che Troia nel fuoco piangevole già divampasse.
Ecco che Pentesilea sin dal corso del Termodonte
vasto di guadi arrivò, vestendo bellezza di dee:
doppia ragione, di guerra piangevole c’era in lei brama,
ed evitava del tutto un’odiosa e ignobile taccia,
che con accuse nessuno fra il popolo la bersagliasse
per la sorella di sangue, per cui il pentimento in lei crebbe,
per quell’Ippolita che trucidò con lancia crudele,
ma non di sua volontà, tendendo il suo colpo a una cerva:
per tali cause raggiunse la terra di Troia gloriosa.
Anche oltre a ciò meditava il suo animo valoroso
d’essere infine mondata da lugubri macchie d’eccidio
e racquietare così con offerte le fiere Erinni
che la seguirono occulte, in collera per la sorella,
sin dall’inizio: da sempre intorno alle tracce dei rei
vagolano, né è possibile al reo evitare le dee.
Anche con lei altre dodici andavano, tutte stupende,
tutte covavano brama di guerra e terribile ardore.
Erano sue servitrici, per quanto superbe di gloria:
ma sopra tutte spiccò di gran lunga Pentesilea.
Come nel cielo spazioso fra gli astri la splendida luna
quando rifulge e si mostra perciò luminosa fra tutte,
dopo che l’etere è rotto da nuvole grevi di tuoni,
solo che dorma aspra forza di vènti dal soffio impetuoso:
sì, così quella fra tutte brillò, mentre andavano in fretta.
Clonia era lì, Polemusa con lei e Derínoe non meno,
quindi anche Evandre nonché Antandre, e splendente Bremusa
e così Ippòtoe e al suo fianco Armòtoe occhi-cerulei,
quindi anche Alcíbia, nonché Antíbrote e Derimachea,
e Termodossa con loro, gloriandosi assai della lancia:
tante seguivano lei, l’animosa Pentesilea.
Quale s’avanza calando da sopra l’Olimpo mai stanco,
fiera com’è per i suoi fulgenti cavalli, l’Aurora,
l’Ore seguendola, belle di trecce, e fra tutte costoro,
anche se prive di pecche, rifulge il suo splendido lume:
tale alla rocca troiana era giunta Pentesilea,
prima com’era fra tutte le Amazzoni. Corsero intorno,
per ogni dove, i Troiani, con grande stupore, a vederla,
lei figlia d’Ares mai stanco, fanciulla dagli alti schinieri,
lei somigliante ai beati, poiché tutt’intorno al suo volto
doppia beltà, formidabile e splendida, si diffondeva
con un soave sorriso, amabili sotto le ciglia
le rifulgevano gli occhi, eguali a bagliori di sole,
ma le arrossò pudicizia le guance, e su entrambe le guance
le discendeva, vestita di forza, una grazia divina.
Erano liete le genti, benché da principio angosciate;
come allorché i contadini hanno visto dalla montagna
Iride che si solleva sul mare dai vasti cammini,
quando la pioggia divina si attendono, mentre le vigne
sono oramai disseccate e bramano pioggia da Zeus,
tardi il gran cielo si viene oscurando ed essi al vedere
segno felice del vento e dell’acqua che s’avvicina
giubilano –da principio piangevano sulle campagne:
sì, così i figli troiani, vedendosi giungere in patria
Pentesilea valorosa, con impeto tesa alla guerra,
n’ebbero gioia: ove scenda in animo d’uomo speranza
per alcun bene, addolcisce la pur lamentosa sciagura.
Solo per lei anche il cuore di Priamo, che molto gemeva,
anche fra grandi afflizioni ebbe infine lieve conforto.
Simile un uomo se molto per gli occhi malati soffriva
nel desiderio di scorgere il sacro lucore o morire,
per mano d’un guaritore impeccabile o anche di un dio
che gli dischiudono gli occhi, rivede il brillio mattutino,
certo non più come prima, e comunque ha un po’ di conforto
dopo la grande sciagura, e ancora ha gravame di pena
truce annidatosi sotto le palpebre: tale sembrava
Pentesilea valorosa al figlio di Laomedonte:
questi gioì, pur di poco, e ancora era molto angosciato
per i suoi figli caduti. In casa guidò la regina,
e le accordò grande onore, benevolo, come a una figlia
che da una landa lontana al ventesimo anno ritorni,
le apparecchiò d’ogni cibo una cena, quale i gloriosi
principi sogliono darne, se mai, sopraffatta un’armata,
offrano in festa un banchetto, gloriandosi della vittoria.
Doni stupendi le offrì, magnifici, molti promise
che ne darebbe, se offrisse difesa agli afflitti Troiani.
Ella promise un’impresa che mai spererebbe un mortale,
di sopraffare anche Achille, straziare l’armata d’Argivi,
vasta com’era, e dall’alto appiccare il fuoco alle navi:
stolta, né certo sapeva di Achille di valida lancia,
quanto spiccasse supremo in mezzo alla lotta omicida.
Ma non appena la udì, la nobile figlia d’Eezione,
sì, lei, Andromaca, allora pensò dentro l’animo suo:
“Misera te, perché parli così, la superbia nel cuore?
Per contrastare il Pelide impavido no, tu non hai
forza, egli in breve su te vibrerà l’eccidio e la strage.
Quale follia, sciagurata, hai in cuore? Ah, senz’altro ti sono
prossimi il cerchio di Morte e la volontà del Destino.
Ettore fu di gran lunga più forte di te con la lancia:
pure, anche saldo qual era, morì, troppo afflisse i Troiani
tutti, che nella città guardavano a lui come a un dio;
nobile gloria a me dava e ai parenti eguali agli dèi,
quando era vivo. Una tomba m’avesse ingoiata sotterra,
prima che fosse caduto anche lui di lancia alla gola!
Ora assistei con dolore a un inconsolabile lutto,
quando d’intorno alla rocca lo trassero svelti cavalli
del doloroso Pelide, che d’uomo legittimo rese
vedova me, quest’atroce angoscia è con me tutti i giorni”.
Disse così nel suo cuore l’Eeziona di bella caviglia
nel ricordare lo sposo, poiché gran dolore s’accresce
nelle consorti pudiche, ove mai lo sposo perisca.
Ma nel frattempo, volgendosi in orbite rapide, il Sole
scese nel corso profondo d’Oceano: il giorno finiva.
di Francesco Staffa
Le assaggiatrici, dieci giovani donne che ogni giorno entrano nella tana del lupo per assicurare che il grande dittatore non muoia avvelenato. Dieci cavie che attraverso il loro corpo garantiscono la salvaguardia del corpo del lupo e con esso quello del corpo sociale che lui rappresenta e ha creato. Dieci donne che ingerendo cibo permettono la vita.
È tutto qui? Ovviamente no! Questo è solo uno dei livelli del romanzo di Rosella Postorino, ispirato alla vicenda di Margot Wölk, ultima sopravvissuta delle assaggiatrici di Hitler. L’autrice l’ha scoperta leggendo un trafiletto e quando è riuscita a trovare il suo indirizzo, intenzionata a incontrarla, ha avuto la triste notizia che nel frattempo la novantaseienne era deceduta. E probabilmente, non me ne voglia la povera Wölk, proprio questa è stata la fortuna del romanzo poiché Rosella ha potuto creare una narrazione di pura fantasia che le ha permesso di andare oltre la vicenda umana e scandagliare temi ben più profondi a partire da quello del corpo. Un corpo declinato in diverse sfumature: quello femminile, prima di tutto.
di
Gigi Spina

Non si deve per forza essere stati rapiti da un dio in forma di toro – ed essere magari una graziosa ragazza fenicia, di nome Europa -, né ci si deve credere un Minotauro che ha smarrito la strada per rientrare nel labirinto e vuole tornare a casa.
A Creta si può andare, con più profitto, se si hanno amici archeologi.
Io ci sono andato, nei primi anni 2000, con un archeologo straordinario, Enzo Lippolis, e la sua famiglia: Isabella, archeologa anche lei, Anna Sofia ed Elena.
Enzo è morto nel pieno della sua appassionata attività, qualche mese fa, dopo una apparizione televisiva che tutti ricorderanno per la capacità di testimoniare con semplicità e misura come sia appagante fare bene il proprio lavoro. ( qui l’intervista )
A Creta aveva scelto di vivere le sue vacanze, ma forse qualcosa di più, Antonio Aloni, con Chiara e Sofia. Antonio era un filologo classico ‘dal volto umano’. Due anni fa l’abbiamo salutato per l’ultima volta a Milano. Mi chiedo ora se Enzo e Antonio si conoscessero: un Cretese del sud e un Cretese del nord.
Ora, che ho appena finito di leggere un giallo affascinante, Operazione Mercurio, Società Editrice Milanese 2018
, una sorpresa che Antonio ha lasciato come eredità significativa del suo ‘volto umano’; un romanzo scritto insieme a Paolo Colonnello, responsabile della redazione milanese de La Stampa, sassofonista (la notizia ci tornerà utile alla fine).
Creta, scriveva Aristotele (Politica 2.1272b 17) a proposito della costituzione politica dell’isola, gode di una posizione geografica favorevole, lontana da altri centri greci, che la rende meno esposta ad aggressioni, a invasioni di ‘stranieri’ (cioè di altri Greci ostili).
La natura, insomma, rendeva inutile, per i Cretesi, quello che gli Spartani era abituati a fare senza batter ciglio: cacciare gli stranieri, difendersi dagli immigrati.
Eppure, oggi, a Creta, gli stranieri abbondano, conoscono ogni angolo delle meravigliose spiagge, scavano in ogni luogo significativo dell’isola con prestigiose scuole di Archeologia.
E dunque, non sembri strano che molti archeologi compaiano nelle pagine del romanzo, di cui non dirò nulla che possa far pensare a una recensione, se non che è stato un piacere intenso leggerlo, avendo in mente Enzo e Antonio, gli scavi di Festo e Il ritorno di Tornatore, una brillante lettura che Antonio fece di Nuovo Cinema Paradiso, in un volume collettivo di studi sul ‘nostro’ Omero [E. Cavallini, (cur.), Omero mediatico. Aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea, Bologna: d.u.press, 2007], con il recupero di tutti i possibili richiami all’Odissea.
Un amore per la cultura greca, antica e moderna, che Antonio portava scritto sul volto.
A Creta sono sempre accadute cose strane, da quando si vide arrivare un toro che galoppava sulle acque portando in groppa una ragazza scarmigliata (L. Spina, Il ratto di Europa), a quando, in una piccola polis che potremmo chiamare Spennata (Aptera), le Sirene sfidarono le Muse a una gara di canto. Le Muse accettarono – anche se forse una di loro era addirittura la madre delle Sirene – e non ebbero problemi a vincere. E per punizione della loro tracotanza le spennarono: sì, perché ai tempi della sfida le Sirene erano donne-uccello, mica donne-pesci, come le abbiamo conosciute qualche secolo dopo (M. Bettini, L. Spina, Il mito delle Sirene, Einaudi 2007, pp. 62-64).
E dunque a Creta, invasa nel corso dei secoli da eserciti nemici e difesa da eserciti partigiani e resistenti, possono operare, in un romanzo, poliziotti e spie, divinità reincarnate, personaggi che portano nei loro nomi un destino epico. E un simpatico commissario può chiamarsi come un inventore di commissari e poliziotti: Markaris.
E a Creta può essere smentito clamorosamente un motto romano famoso, che invertiva il rapporto fra vinto e vincitore: Graecia capta ferum victorem cepit (Orazio, Epistole 2.1.156); non è detto che a conquistare (capere) le ricchezze greche non siano stati, alla fine, proprio i Romani.
E poi, a Creta, si pescano i polipi: li pesca il commissario e sono sicuro che li pescasse, con gran gusto, anche Antonio. I polipi, coi loro tentacoli e col modo di gestire la propria ‘identità’ nel mondo che li circonda, suggeriscono metafore a tutto campo. E di una ‘norma del polipo’ parlava (e scriveva) uno dei riferimenti sicuri di filologi dal volto umano, Bruno Gentili (Poesia e pubblico nella Grecia antica, ormai un classico Laterza del 1984 giunto alla terza edizione e più volte ristampato). I poeti greci, fin dai più arcaici, erano affezionati a questa metafora: adattare il proprio animo a quello degli altri come fa il polipo con la pietra, rendendosi quasi irriconoscibile, una sorta di polipo-Zelig. Una chiave per frequentare il mondo.
Insomma, per chi è stato almeno una volta a Creta, la lettura di Operazione Mercurio aprirà ricordi di nomi suggestivi di località dell’interno o della costa; per chi ha studiato un po’ di greco, nomi di divinità e di eroi, portati da cretesi moderni, faranno riaffiorare magari righi di versioni complicate; gli appassionati di archeologia e di decifrazioni di lingue e oggetti ancora difficili da interpretare troveranno citati uomini e luoghi protagonisti di una stagione pionieristica di studi sul mondo greco antico (e non solo) e potranno riflettere sul fatto che scavi e guerra si sono spesso intrecciati con esiti non sempre felici; e, naturalmente, gli appassionati del giallo troveranno pane per i loro denti, fino all’ultima pagina.
E poi, a un certo punto – a pagina 194, per la precisione – il commissario Markaris riaccende il motore. E cosa fa, certo su suggerimento di Paolo Colonnello? Mette una cassetta di John Coltrane (siamo a metà degli anni ’80, e i CD muovevano i primi passi) su cui ha registrato A Love Supreme, il capolavoro del sassofonista. E come l’adattabilità del polipo, la musica del sax ‘impazzito’ di Coltrane, nel preludio di Acknowledgement (che è il primo movimento), si offre come una metafora dei suoi pensieri ingarbugliati di fronte ai misteri di Creta. Bastava “scoprire che tutto, in fondo, si riduceva in una sola, ostinata, frase di tre note in Fa, lo stesso mantra su cui poggiava la sua inchiesta”.
Il mondo greco, che Antonio ed Enzo hanno voluto conoscere meglio, per farlo conoscere come è giusto a centinaia di giovani, scavando nella profondità della cultura antica, ha bisogno spesso anche di voci moderne, di colonne sonore inedite, per affermare e mettere a disposizione di tutti la sua ricchezza umana.
di Antonio Sparzani

Non son bravo a scrivere recensioni di libri e anche questa non sarà certo una recensione come si deve. Però quando in un libro si trova qualcosa di molto inaspettato, direi in questo caso straordinario, vale la pena di farlo sapere ad altri. Il libro di cui parlo è Quatre-vingt treize, in italiano Novantatrè, di Victor Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885) che lo scrisse nell’ultima parte della sua vita, nel 1872 (pubblicato nel 1873). L’argomento è ovviamente l’anno terribile della rivoluzione francese, il 1793, l’anno del terrore, cui Hugo dedica un’analisi per nulla scontata, nella quale mette in luce con notevole lucidità le ragioni della Repubblica e le ragioni dei ribelli realisti della Vandea e di qualche altra regione circostante. L’intero romanzo è una lettura affascinante e spesso sorprendente, tanto da arrivare spesso al suspense. Ma, come dicevo, quello di cui intendo parlare è un solo passo del romanzo, nel quale, siamo alle ultime pagine, vi è un serrato dialogo fra i due protagonisti principali della storia. Uno è Cimourdain, alfiere e portavoce ufficiale della Repubblica, plenipotenziario del Direttorio, dunque della Rivoluzione e di tutte le sue precise caratteristiche e ordinanze, mentre l’altro è Gauvain, anch’egli fino a quel momento strenuo difensore della Repubblica, tanto da aver guidato per mesi l’esercito repubblicano contro la ribellione vandeana. E allora qual è il contesto del dialogo che vi voglio far leggere? E’ questo: Gauvain ha salvato dalla ghigliottina il capo dei vandeani, il marchese di Lantenac, perché costui è stato protagonista di un gesto di straordinaria umanità: ha salvato da un incendio in cui sarebbero certamente morti tre bimbi affidati alle truppe della Repubblica, consegnando così se stesso nelle mani del nemico.
Gauvain, dopo riflessioni attentissime, cui Hugo dedica un intero capitolo, decide di liberarlo – permettendogli così di fuggire e di tornare a riorganizzare il suo esercito – e di mettersi lui in cella al suo posto, danneggiando così gravemente la causa repubblicana.
Cimourdain è legato a Gauvain da un rapporto molto forte che risale ai tempi in cui il primo era stato precettore del secondo, di lui più giovane, ed è quindi straziato dalla prospettiva di dover condannare il suo antico allievo alla ghigliottina, per alto tradimento, aver cioè liberato non solo un nemico, ma il vero capo dei nemici.
Per cui l’antico precettore va a trovare di notte l’antico pupillo nella sua cella e sollecita un dialogo nel quale Gauvain ha modo non solo di spiegare le ragioni del suo gesto, ma offre, per la penna di Hugo, una sua visione del mondo, o meglio un suo progetto di umanità futura. Qui ve ne voglio offrire un frammento, in una traduzione italiana che ho trovato in rete, senza sapere chi sia il/la traduttore/trice. Ecco qua, comincia Cimourdain:
– Vorrei l’uomo fatto da Euclide.
– E io, – disse Gauvain, – lo preferirei fatto da Omero.
Il severo sorriso di Cimourdain si fermò su Gauvain, come per tenere a freno quell’anima.
– Poesia. Diffida dei poeti.
– Sì, lo conosco questo detto. Diffida degli zefiri, diffida dei raggi, diffida dei profumi, diffida dei fiori, diffida delle costellazioni.
– Nulla di tutto questo dà da mangiare.
– Che ne sapete voi? Anche l’idea è un nutrimento. Pensare è mangiare.
– Niente astrazioni. La repubblica è due e due fanno quattro. Dato che io abbia a ciascuno quanto gli spetta…
– Vi rimane da dare a ciascuno ciò che non gli spetta.
– Che intendi con questo?
– Intendo l’immensa concessione reciproca che ciascuno deve a tutti e che tutti debbono a ciascuno, e che è tutta la vita sociale.
– Non c’è nulla, all’infuori dello stretto diritto.
– C’è tutto, invece.
– Io non vedo che la giustizia.
– Guardo più in alto, io.
– E che c’è, dunque, al di sopra della giustizia?
– L’equità.
Tratto tratto, facevano delle pause, come se passassero dei lampi.
Cimourdain riprese:
– Ti sfido a precisare.
– Sia. Voi volete il servizio militare obbligatorio. Contro chi?
contro altri uomini. Io, invece, di servizio militare non ne voglio.
Voglio la pace, io. Voi volete che i poveri siano aiutati, io voglio che sia soppressa la miseria. Voi volete l’imposta proporzionale. Io di imposte non ne voglio affatto. Voglio la spesa comune ridotta alla sua più semplice espressione e pagata dal plus-valore sociale.
– Che intendi con questo?
– Questo. Sopprimete innanzitutto il parassitismo; il parassitismo del prete, il parassitismo del giudice, il parassitismo del soldato.
Cavate poi un profitto dalle vostre ricchezze; voi gettate il concime nelle fogne, gettatelo nel solco. I tre quarti del suolo nazionale sono incolti; bonificate la Francia, sopprimete i pascoli inutili; dividete le terre comunali. Che ogni uomo abbia un pezzo di terra, e che ogni pezzo di terra abbia un uomo. Centuplicate la produzione sociale. La Francia, in questo momento, non dà ai suoi contadini che quattro giorni di carne all’anno; coltivata a dovere, nutrirebbe trecento milioni d’uomini, tutta l’Europa. Utilizzate la natura, immensa ausiliaria disprezzata. Fate lavorare per voi ogni soffio di vento, ogni cascata d’acqua, ogni effluvio magnetico. Il globo ha una rete di vene sotterranee, dentro questa rete c’è una circolazione prodigiosa di acqua, di olio, di fuoco; bucate le vene del globo, e fatene zampillare quell’acqua per le vostre fontane, quell’olio per le vostre lampade, quel fuoco per i vostri focolari. Riflettete al movimento delle onde, al flusso e riflusso, all’andirivieni delle maree. Che cos’è l’oceano? una enorme forza perduta. Come è stupida la terra, a non valersi dell’oceano!
– Eccoti in pieno sogno.
– Che è quanto dire in piena realtà.
Gauvain riprese:
– E della donna, che cosa ne fate?
Cimourdain rispose:
– Quello che è. La serva dell’uomo.
– Sì, a una condizione.
– Quale?
– Che l’uomo sia il servitore della donna.
– Ci credi tu? – esclamò Cimourdain. – L’uomo servitore! Mai. L’uomo è padrone. Non ammetto che una regalità, quella del focolare. L’uomo, in casa sua, è re.
– Sì, a una condizione.
– Quale?
– Che la donna vi sarà regina.
– Sarebbe come dire che tu vuoi per l’uomo e per la donna…
– L’uguaglianza.
– L’uguaglianza! ci pensi? sono due esseri diversi.
– Ho detto l’uguaglianza, non l’identità.
Ci fu un’altra pausa; una specie di tregua tra quei due cervelli che si scambiavano lampi. La ruppe Cimourdain.
– E il figlio, a chi lo dai, tu?
– Dapprima al padre che lo genera, poi alla madre che lo mette al mondo, poi al maestro che lo educa, poi alla città che lo virilizza, poi alla patria, che è la madre suprema, poi all’umanità, che è la grande avola.
Non credo siano necessari tanti commenti; ricordo che si tratta non di una contrapposizione tra realisti e repubblicani, ma, all’interno del campo repubblicano, di una opposizione tra diversi modi di progettare la società futura; e osservo che, oltre ad una visione sociale certamente assai avanzata per quei tempi, c’è una chiara preveggenza della possibilità di energie alternative, senz’altro quella eolica, quella idroelettrica e quella che proviene dal movimento delle onde e delle maree dell’oceano. Non è poco.
di Andrea Inglese
[Questo testo d’occasione, mi è stato commissionato dalla rivista “PO&SIE”, che ha dedicato i suoi ultimi tre numeri al tema dell’Europa: Trans Europe Éclairs, n° 160-161, e Trans Europe Éclairs 2, n° 162. Nous les européens è apparsa in francese in quest’ultimo numero. Ne propongo qui la versione italiana. Io non credevo si potesse scrivere una poesia sull’Europa, invece – bene o male – è successo. Il numero 162 include anche testi poetici di Michel Deguy, Michael Battala, Jacques Demarcq, Benoit Gréan, Sophie Loizeau, Valerio Magrelli, Jacques Roubaud e Martin Rueff. Tra i personaggi evocati dai diversi interventi saggistici: Walter Benjamin, Thomas Mann, Paul Valéry, Herman Melville, la poesia modernista, György Kurtág, Beatrice Cenci e Artemisia Gentileschi. A. I.]
di Giorgiomaria Cornelio
Seconda parte

Trinity College Dublin – 2 Febbraio 2018.
Direttori: Dr Giuliana Adamo (Professor in Italian, School od Languages, Literatures
and Cultural Studies, Trinity College Dublin) / Bianca Battilocchi (Ph.D. candidate).
Direttori Artistici: Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi
Il 2 febbraio si è tenuto, presso il Trinity College di Dublino, l’evento “Performative Arts Today: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star”, luogo eletto a raccolta di “vicinanze, avvicinamenti, concatenazioni, carteggi, disgiunzioni, proposte d’etimo, corrispondenze tra l’Italia e l’Irlanda ordite nel segno del sasso e della stella, del labirinto e del tappeto.” Trovate la prima parte del compendio qui.

Un secondo momento della giornata è stato dedicato al teatro come studio della polifonia scientifica e come passe-partout a rimedio delle mortificazioni settoriali. L’incontro, tenuto dal regista e direttore del Minimo Teatro Maurizio Boldrini a partire dalla sua “Lezione su Carmelo Bene” (Nazione Indiana si era già occupata di questo volume), è stato introdotto da un intervento di Gianluca Pulsoni (ricercatore e giornalista del Manifesto) indirizzato a restituire il timbro degenere di Carmelo Bene oltre le demarcazioni geografiche. L’opera di Bene è pressoché ignorata nei paesi anglofoni dove pure il suo studio sulle partiture shakespeariane andrebbe a costituire un’indicazione fondamentale per superare la rivisitazione consolatoria e mortifera di testi oramai sepolti nel repertorio delle rappresentazioni storiche (perdipiù spesso diluite in riletture sociali del tutto incoscienti della scrittura di scena). Proprio sulla necessità di una orchestrazione dello studio riflette Maurizio Boldrini, rivolgendosi così agli ascoltatori della sua “lezione”:
“[…]Spero che anche i “teatranti” possano ricavarne qualche indicazione utile a interrogare il loro personale fare. Mi appello principalmente ai “sarti finiti” in ambito medico, antropologico, matematico, fisico, architettonico, politico, ingegneristico affinché si trovino a convegno e inizino finalmente ad orchestrarsi. Ciò che ha indicato Carmelo Bene è troppo importante perché sia esiliato nell’ambito artistico o peggio sia ricoverato nelle teche asettiche dei capolavori. Al termine di questa lezione spero rimanga appunto almeno questo: il complesso operativo di Carmelo Bene non può essere ridotto al solo ambito teatrale. È lunghissimo l’elenco di coloro che insistendo su un ‘genere’ hanno indicato, più o meno coscientemente, nuove possibilità di lettura e di edificazione umanistica e scientifica, anzi, proprio loro, con la sapienza dell’arte, hanno mostrato, tra l’altro, che è necessario farla finita con questa distinzione categorica tra l’umanistico e lo scientifico.”
Nella sua introduzione, Gianluca Pulsoni ha fatto riferimento ad una sua conversazione con l’antropologo Piergiorgio Giacchè (a dieci anni dalla morte dell’autore di Nostra Signora dei Turchi), di cui di seguito pubblichiamo un frammento a proposito della “morte dell’attore”, anche come attestazione di un altro modo di guardare all’opera di Bene (marcando così il timbro di questo dialogo monologante tra Boldrini e Giacchè/ Pulsoni):
Sono dieci anni che Carmelo è morto. Ma la morte non c’entra con la fine, che è invece assoluta. La morte fa subito pensare alla memoria, all’eredità, a ciò che resta di qualcosa o di qualcuno che invece è finito e – in qualche caso raro e per così dire fortunato – “ha finito”.
Io preferisco festeggiare il suo compleanno, il natale o la sorgente di qualcuno che tutto sommato ha appena compiuto settantacinque anni, anche se “ha finito” di vivere e di operare. Il natale però vale ancora per gli altri come apertura, curiosità, interesse che in ogni senso è ancora lontano dalla “fine”.
Di Bene ci sono ancora molte sue opere (film e video e dischi e libri…) che, viste dalla parte della nascita e non della morte, non sono un lascito o un deposito ma un regalo da scoprire e riscoprire. Non sono resti da conservare ma tracce da inseguire, finché sembrano spingerci “oltre” a dove noi siamo. La commemorazione in mortem spenge queste tracce invece di valorizzarle; la morte è più consolatoria della fine ma molto meno rispettosa. Infine, consegna – alla terra e non alle persone, alla memoria e non alla fruizione – opere che sono ancora in vita; la morte seppellisce nel tempo e nel luogo tutto quello che è nato ed è finito in Carmelo e per Carmelo, che ancora ci riguarda ma non ci appartiene.
Le tracce di CB ci portano molto più avanti di noi stessi e del nostro tempo. Quando guardo o ascolto le tracce di visioni e suoni, di parole e pensieri di CB, non posso negare che la sua fine è al di là del mio sguardo e perfino del mio stesso fine.
Più concretamente e semplicemente: il suo teatro resta senza classificazione e ancora è di là da venire, il suo cinema dà la sensazione di qualcosa di ancora inattuale. La sua voce “eidetica”, il suo canto “poetico”, il suo gesto “mancato” sono intuizioni ancora da interrogare e inseguire.
Non ha avuto maestri né allievi Carmelo Bene, non ha fatto metodo ma soltanto merito. C’è qualcosa nella sua arte di vivere e vita dell’arte che pare coniugarsi soltanto al “futuro anteriore”, un sarà stato che è difficile da tradurre negli altri tempi presenti e passati, tutti imperfetti; e – per proseguire con la grammatica, lo stesso modo verbale di Bene è ancora più imperativo e ottativo che congiuntivo (il modo verbale del teatro, secondo Victor Turner, legato al “come se” del teatro della rappresentazione, da Bene odiato con ostinazione ma anche evitato con cura).
Il suo teatro – come lui ha detto – non è più tolemaico ma copernicano: la rappresentazione è morta davvero da tempo e non ha più né senso né un fine. Il suo è il teatro dell’irrappresentabile, com’è a suo avviso, il solo vero teatro.
La sua rivoluzione copernicana è ancora di là da venire eppure c’è stata? In verità si può dire solo usando il futuro anteriore: “sarà stata!” e molti sono in grado di testimoniare questo passaggio nel futuro di una volta.

Alla lezione su Carmelo Bene ha fatto seguito la presentazione del film “Nell’insonnia di avere in sorte la luce” di Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi, secondo capitolo di una ipotetica “trilogia dei viandanti” inaugurata nel 2016 da “Ogni roveto un dio che arde” come proposta di cinema che s’apre in immagini proprio laddove decide di disabitare i luoghi certi della sua circoscrizione, tra attrito, inviluppo e divagazione. Cos’altro resta da fare, per il cineasta e per lo spettatore, se non rifiutare le galere del finito, che guardano al cinema come a un’ora d’aria dello sguardo? Cos’altro, se non proporre un voto di stupefazione e “d’incredulità verso l’onnipotenza del visibile”? (come quando, nel 1732, fuori dal cimitero di Saint-Médard la folla in rivolta pose un cartello alle porte in sfregio alla tirannia del sultano che aveva bandito l’accesso ai Convulsionari: “Per ordine del re si vieta a Dio di compiere miracoli in questi luoghi.”)
Di seguito, pubblichiamo tre tavole dall’atlante di preparazione del film, in continuo dialogo con i materiali della mostra parallela all’evento e congiunta al progetto Mnemosyne di Aby Warburg.
L’esposizione ha incluso annotazioni e opere originali di: Corrado Costa, Silvio Craia, Mario Diacono, Franco Ferrara,Osvaldo Licini, Magdalo Mussio, Nuvolo, Remo Pagnanelli, Pinuccio Sciola, Stefano Scodanibbio, Aldo Tagliaferri, Emilio Villa, Andrea Balietti, Bianca Battilocchi, Giuditta Chiaraluce, Vincenzo Consalvi, Simone Doria, Valentina Lauducci, Elisabetta Moriconi, Mariano Prosperi.



A conclusione della giornata, un concerto del maestro Cosimo Colazzo e del soprano Patrizia Zanardi ha sigillato la riflessione sul continuo slittamento delle discipline, come se la poesia fosse quanto persiste a volersi nel bordo delle cose. Solo in questo ventilare di innesti è possibile finalmente perdere il filo del discorso, dimenticando a memoria i rispettivi campi d’appartenenza e tornando a nutrire quello che Didi-Huberman ha chiamato una volta “il funzionamento epidemico delle immagini”:
«La grande domanda è quella che vuole conoscere come avviene il trapasso, nel caos dei dati giunti fino a noi, come una risacca, in un amalgama fonetico baluginante ma senza luce ferma e fisso riverbero, il trapasso, in diagonale, da mito a concezione cosmologica, da mito a teologia, da mito a leggenda, e da storia a mito o da mito a storia; o non forse trapasso mai, ma come si determina il flusso degli incroci e degli attriti: una peripezia di cicli, di parabole, di invenzioni, di aperture, di inclinazioni» (Emilio Villa)

di Jamila Mascat

Nella famosa “scena del balcone”, quella in cui Giulietta supplica Romeo di rinnegare per amore i propri natali, l’appassionata protagonista della tragedia di Shakespeare, interroga il valore dei nomi: “Oh Romeo Romeo, perché sei tu Romeo!? Rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome, o se non vuoi, giura che mi ami e non sarò più una Capuleti. Solo il tuo nome è mio nemico: tu sei tu”. Del resto, prosegue fiduciosa Giulietta, “Che vuol dire ‘Montecchi’? – “Non è una mano, né un piede, né un braccio, né un viso, nulla di ciò che forma un corpo”. E “Che cos’è un nome?” se in fondo “quella che chiamiamo ‘rosa’ anche con un altro nome avrebbe il suo profumo”? Da cui l’implorazione reiterata all’amato: “Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per quel nome che non è parte di te, prendi me stessa”.
Artificio, convenzione, costrutto fonetico evanescente, “designatore rigido” privo di senso secondo il logico Saul Kripke – e contrariamente a quel che sostengono Frege, Russell e i paladini delle teorie descrittiviste – il nome per la romantica eroina di Shakespeare non intacca né significa ciò che nomina. Nomen non est omen, direbbe dunque Giulietta, d’accordo con John Stuart Mill – il cui System of Logic (1843) fu per Kripke fonte d’ispirazione – nell’affermare che i nomi propri non sono connotativi, cioè non dipendono dagli attributi dei soggetti/oggetti a cui si riferiscono. Infatti, quand’anche fosse necessario ammettere, con Mill, che “dobbiamo aver avuto qualche ragione per dare […] questi nomi invece di altri”, sarebbe altrettanto necessario riconoscere che “il nome, una volta dato, è indipendente dalla ragione” e che “un uomo può essere chiamato ‘John’ perché quello era il nome di suo padre; una città può essere chiamata ‘Dartmouth’ perché è situata alla foce del fiume Dart”, ma al tempo stesso “non è parte del significato della parola ‘John’ che il padre della persona così chiamata aveva lo stesso nome; né che la parola ‘Dartmouth’ sia situata alla foce del Dart”.
Tuttavia, se accettiamo l’ipotesi di Giulietta, secondo cui il nome denomina ma non determina, che cosa resta della valenza biblica della nominazione o, per dirla con Hélène Cixous, di quella “sovradeterminazione significante” implicita nell’atto di nominare che fa del nome “una forma di lavoro segreto” e accomuna battesimo e rivoluzione?
Non è un caso che le rivoluzioni di tutti i tempi, dalla Rivoluzione francese a quella d’Ottobre passando per Haiti, abbiano ribattezzato con nomi propri lo spazio e il tempo, reinventando mappe e calendari. A conferma della pregnanza creatrice e insurrezionale del nome, di cui si tratta di smentire la valenza puramente metafisico-derivativa, con buona pace di Dante per cui (Vita Nova, XIII, 4) “li nomi seguitino le cose nominate, sì come è scritto ‘Nomina sunt consequentia rerum’”, per coglierne invece l’esuberanza visionaria.
Proust, inventore nella Recherche di memorabili toponimi, uno per tutti quello dell’inesistente cittadina di Balbec, la cui altrettanto finta etimologia viene illustrata lungamente nelle pagine di Sodoma e Gomorra, ci aiuta in questa impresa. Nell’ultimo capitolo del primo dei sette volumi che compongono la sua opera – Du côté de chez Swann – il giovane Marcel discetta del potere evocativo dei nomi propri di città, città sognate, agognate e mai viste. Per risvegliare quei sogni, spiega Proust, “bastava pronunciare quei nomi: Balbec, Venezia, Firenze, dentro i quali aveva finito per accumularsi il destino ch’essi designavano”. Balbec, ancora una volta, non richiama soltanto la visione di spiagge normanne battute dall’acqua e dal vento, ma ridesta il desiderio vivo di architetture gotiche e tempeste sul mare. Il suo nome – per Marcel un composto di “sillabe eteroclite” – è desiderio.
Ma cosa direbbe Proust della toponomastica coloniale che popola la sua Parigi, di quei toponimi che non desiderano né sognano e piuttosto perpetuano il passato che fu, celebrando i carnefici – ministri e avventurieri, intellettuali e imprenditori, banchieri e militari – dell’impero francese? Sono oltre duecento le rues, places, e avenues della capitale e dintorni battezzate in memoria della grandeur coloniale che vengono rintracciate e raccontate nel volume curato da Didier Epsztajn et Patrick Silberstein, Guide du Paris colonial et des banlieues, pubblicato recentemente in Francia da Syllepse. Gli autori hanno deciso di “far parlare i muri”, e in particolare le inconfondibili plaques de rue in bianco e in blu ovunque inchiodate al muro, perché confessassero i crimini celati nei nomi dei criminali a cui rendono omaggio. Come già Roma negata (Ediesse, 2014), il libro scritto da Igiaba Scego e illustrato dalle fotografie di Rino Bianchi, la guida parigina nomina, e dunque evoca, i tormenti malsopiti della memoria coloniale. Ribattezzare quei luoghi segnati, proprio nel nome, da trascorsi secolari di torture, eccidi e massacri, di certo non servirebbe a riparare né riscattare la storia: Roma non potrebbe cavarsela come Romeo onorando gli auspici di Giulietta. Ma se invece, ribaltando Dante, i nomi non fossero consequentia bensì causa rerum, una piazza Omar Al-Mukhtar, dedicata al “leone del deserto”, il guerrigliero che fu per quasi un ventennio alla guida della resistenza libica contro la dominazione italiana, risveglierebbe tra le sillabe eteroclite del nome, come suggerisce Proust, il desiderio di tutt’altra storia. Ai nomi, finalmente, il compito di insorgere per dire storie interdette e nominare passioni impensate.
[Questo articolo è stato pubblicato sul supplemento di aprile dell’Indice dei Libri del Mese dedicato al Festival delle donne e dei saperi di genere di Bari con il titolo “Far parlare i muri”]
di Antonella Falco

Un racconto fatto di suggestioni letterarie. Un lucido delirio che chiama a raccolta gli eroi di un mondo di carta tenebroso e inquietante ma proprio per questo denso di misterioso fascino. Monologo interiore (più che racconto reale) che a tratti si fa vero e proprio flusso di coscienza – quella coscienza che rimuove la memoria dei misfatti perché ‹‹non ne vuol sapere d’essere sporca›› – Dannazione per delega è una raffinata plaquette uscita per i tipi di Babbomorto editore. La stessa casa editrice è frutto di un arguto esperimento di microeditoria scaturito dalla mente geniale di Antonio Castronuovo, scrittore e saggista, che in tal modo ha voluto produrre opuscoli caratterizzati da un’estrema cura grafica e dalla preziosità di testi brevi dal tono ironico o satirico o surreale, stampati in un numero limitato di copie e numerati a mano: insomma operette che si traducano in piccole rarità per appassionati bibliofili.
L’autore, Edoardo Fontana, colto, estetizzante, decadente quanto basta per circondarsi almeno sulla carta, dell’aura di scapigliato maudit, chiama a raccolta in questo racconto le sue ossessioni letterarie dando vita ad un caleidoscopio di immagini che sembrano nascere l’una dall’altra in un gioco potenzialmente infinito. È un ‹‹inabissarsi in spirali di parole››, cedere all’incanto di un ‹‹mondo ricreato di nuovo››, nel quale gli elementi di realtà sono destinati a perdersi ‹‹durante il transito da un altrove››.
Non resta che unirsi ‹‹al circo della notte››, prendere ‹‹la via delle tenebre›› di cui l’autore sembra essere un bizzarro e tuttavia sapiente conoscitore. E anche la notte, che può essere lunga e solitaria, sembra sapere tutto di lui e a tratti pare avvolgerlo amorevolmente e ricoprire col suo manto brumoso la coscienza in cerco d’oblio: ‹‹la dannazione esiste solo per chi la vuole››. Le ombre che si aggregano nel buio possono anche rivelarsi figure amiche per quanto inquietanti, non stupisce dunque l’avvicendarsi nel testo del Grillo Parlante, di mister Hyde, del suo creatore Robert Louis Stevenson e della di lui consorte Fanny Osbourne, di un misterioso scorpione che potrebbe pungere ma non lo fa e di un Dorian Gray adombrato nell’immagine di ‹‹una giovinezza infinita senza rughe e carne che si decompone››.
D’altra parte ‹‹senz’anima non si può morire›› e si può anche essere disposti a venderlo, questo ‹‹inutile›› fardello. Quelle citate sono solo alcune delle figure presenti nel testo, non veri e propri personaggi quanto, il più delle volte, fugaci apparizioni, icastici fantasmi di una ‹‹città irreale›› che è tanto vera quanto lo sono i labirinti dell’inconscio da cui scaturiscono i sogni. Sogni o più propriamente incubi? Il discrimine è vago come quello che nell’amante separa la felicità dalla disperazione. C’è dunque una donna amata, e attesa, in questa storia, una ‹‹lei che non arriva mai››. Spettro che ammalia con la sua assenza; essenza stessa, forse, dell’amore come arma a doppio taglio, come la mitologica lancia di Achille dotata del potere di curare, essa sola, le ferite che infligge. Del resto Rudyard Kipling scrive dell’amore in termini non dissimili: ‹‹Se qualcuno non mi avesse detto cosa è l’amore/ avrei creduto fosse una spada nuda››.
Verrebbe da chiedersi se vi sia una morale in questa favola di ispirazione gotica e decadente, in questo delirio affabulatorio che sembra figlio dell’assenzio, o se non sia meglio abbandonarsi all’inquieta vividezza delle immagini e all’oscura marea delle parole che seducono, senza farsi troppe domande, senza cercare significati reconditi, tanto ognuno ne troverebbe di diversi, né d’altronde andrebbe dimenticato quanto Oscar Wilde insegna, ossia che ‹‹la vita morale dell’uomo è il materiale dell’artista, ma la moralità dell’arte consiste nell’uso perfetto di uno strumento imperfetto››. E se è vero che art for art’s sake, se fondamentalmente l’arte è fine a se stessa, allora è l’autore di questo racconto ad imitare l’arte di cui è imbevuto, in un esercizio calligrafico che eleva l’estetica (della parola) ad etica.
di Gianni Biondillo
Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin, Adelphi, 2018, 311 pagine
Sembra non si riesca a fare a meno di Curzio Malaparte. Come un fiume carsico, non ostante ostracismi e amnesie, la sua opera torna, riaffiora, si mostra nella sua pienezza. Scrittura, diciamolo subito, di qualità indiscussa. “La miglior penna del regime” ebbe a dire di lui l’amico/avversario Piero Gobetti.
Malaparte, l’individualista, l’arcitaliano, fascista della prima ora, anarchico e liberale, comunista convertito al cattolicesimo sul letto di morte, strapaesano e stracittadino, l’esteta e il popolano, il realista e l’espressionista. Tutto e il contrario di tutto. Più amato all’estero, scevro da pregiudizi ideologici, autore di almeno due romanzi che lo pongono al centro della letteratura nazionale del novecento. E di quel secolo è, a modo suo, esemplare irrinunciabile e inimitabile.
Giornalista e viaggiatore, a pochi anni dalla morte del più famoso rivoluzionario dei suoi anni, con il corpo imbalsamato già parte della mitologia e del culto comunista, Malaparte, dopo il fortunato Technique du coup d’etat, decide di scrivere per Grasset, direttamente in francese, questo Il buonuomo Lenin che vedrà luce in italiano solo dopo la sua morte.
Cos’è questo libro? Saggio storico, romanzo, pamphlet, biografia, reportage giornalistico? Tutto questo assieme? È, inutile dirlo, un libro di Malaparte. Un libro, cioè, che nasce da una intuizione, da una provocazione che si dipana inesorabile lungo il corso dell’intera scrittura. Il ritratto imperante di Lenin in quegli anni, e siamo negli anni trenta, visto dalla parte delle democrazie avanzate europee lo raffigura come un uomo violento, brutale. Un Gengis Khan del proletariato, sbucato dal cuore dell’Asia, al di là del mondo razionale dell’Occidente, vissuto oltre il confine della ragionevolezza, un mongolo pronto a portare il caos nel mondo civile.
Ma per Malaparte Lenin è tutto il contrario di questa ideologica iconografia. Ai suoi occhi, ecco la profonda provocazione, Lenin è semmai l’emblema, quasi didascalico, del buon piccolo borghese europeo, capace, nella sua grigia esistenza, di costruire teorie slegate dalla realtà, ma con l’ordine e la disciplina del travet che, giorno dopo giorno, si occupa della ragioneria della rivoluzione a venire.
La Storia non lo vede mai anticipatore o condottiero. A questo ci pensando ribelli romantici, altrettanto denigrati da Malaparte, come Lev Trotsky. Compito del piccolo borghese Lenin, talmente vile che durante i giorni dell’insurrezione si tiene sempre da parte, nascosto, o ridicolmente travestito, è essere pronto quanto gli eventi, inesorabili, gli si porranno di fronte. Eliminando i nemici interni, facendo del partito il suo campo di battaglia, superando Karl Marx per, in realtà, esautorarlo.
di Giancarlo Maria Costa
E mentre me ne andavo – e me ne andavo col treno perché la famiglia di B. stava diventando una specie di famiglia povera e povera stava diventando la mia che era una famiglia come quella di B – mentre, dicevo, andavamo via da Gela, io e B., avevamo le parole dei nostri papà nelle orecchie, parole dette ogni sera prima di andare a dormire. Le parole venivano pronunciate dopo Indietro Tutta ed erano: tu da qua devi andartene.
Fu trasportando le valige pesantissime da un sedile all’altro di un bus per la Germania che B. che era un gigante alto quasi due metri mi disse ma che cazzo c’hai messo dentro le tue valigie i cadaveri ? E solo dopo diversi anni, tornando a quella partenza, dentro le valigie io pensai che si, c’erano i cadaveri, c’era la mia città e c’ero io che avevo respirato e dovevo avere addosso l’odore insopportabile della decomposizione anche se allora credevo di avere la vita in ebrezza – una vita di appena diciott’anni – la decomposizione era la luce della mia ebrezza
Io B. e gli altri avevamo diciotto anni nel 1993. Nel 1993 c’erano un sacco di bancarelle di vestiti al mercato di Gela e i vestiti per i ragazzi della sala giochi Nevada le madri li compravamo al mercato del martedì. Invece all’ospedale io e papà c’andavamo l’indomani e c’erano un sacco di metastasi, metastasi che sembrano tramonti, pensavo, tramonti di persone che non sarebbero risorte come mia madre che era già malata da prima che nascessi tant’è che come un cagnolino chiamavo mamma le cose rimaste al suo posto e cos’era rimasto al posto di mia madre?
Al posto di mia madre erano rimaste un un mucchio di cose che erano male – cose come le pistole sparachiodi o le ciminiere del Petrolchimico – e in mezzo, mi dissi, in mezzo c’era stato il nascere nella carne e adesso carne ero io, carne macinata con le ossa e il sangue, perché io ero figlio della città di petrolio che era sangue e di rovine come ossa.
Mia madre era distratta come distratto è il ventre della terra, ma lucente e oscura come un velluto nero. Era la madre di un sacco di assassini e niente era più semplice che capire gli assassini fratelli miei, ragazzi che indossavano vestiti El Charro e guardavano Beverly Hills 90120 e solo dovevano salire su una moto Enduro e uccidere altri ragazzi per continuare a guardare.
Nel mentre la terra sotto il bus scorreva come un fiume e giuravo che non sarei più tornato a Gela e il Nord era la terra promessa e la terra promessa era la giovinezza e indietro restava un mare sensuale, un mare profondo e ostile dove i cani nella notte come sospesi a mezz’aria abbaiavano dietro al bus.
Credono di poter fermare il bus e dissi a B.: ti rendi conto quanto sono coglioni i cani che abbaiano al bus? B. a quel punto disse che il bus prima o poi si sarebbe fermato e i cani sarebbero stati convinti di aver cambiato il mondo. Allora guardai B. e gli chiesi se aveva portato una cassetta con i Modern Talking. B. mi mostrò la cassetta e mi chiese se in Baviera avremmo mangiato i migliori hamburger della nostra vita, dopo mi raccontò che una volta in Germania c’era stato da suo cugino e aveva mangiato hamburger molto alti, hamburger alti almeno tre dita, disse, e lui era più che altro per quel tipo di panini e mi chiese se secondo me c’erano hamburger più grandi di quelli e io gli dissi che c’erano hamburger molto più alti di quelli McDonald, che sono piccoli, e ne servono sette o otto per saziare la fame di un ragazzo di Gela.
– anche se di quelli del Burger King, di quelli ne basterebbero cinque – mi disse – però se mi dici che a Baden Baden invece con due hamburger ti sazi ti credo. Sarà un viaggio lungo ma ne varrà la pena, l’importante è che dormiamo. –
Io sugli hamburger non mentivo, veramente avevo pensato di non mentire mai agli amici e che mentire agli amici fosse sbagliato. Questa era la regola dei ragazzi della sala giochi Nevada. Non rubare la donna a un amico. Non mentire. Prestare le sigarette. Farsi i fatti propri. Non rullare a bigliardino.
Quasi ogni mattina Io B. e gli altri giocavamo al videgioco Golden Axe oppure a Extreme Soccer mentre il pomeriggio giocavamo a biliardo e fumavamo erba fino a sera, io ero al quinto livello di Golden Axe, il livello in cui Ax Battler può salire su un dinosauro, quando B. disse vado a fumare mezza canna e torno e quando tornò le moto Enduro erano ferme davanti l’ingresso e i due ragazzi con i rayban erano saliti sopra il tavolo del biliardo e il gestore della sala giochi Nevada, un pedofilo di nome Nenè Connery, disse che buttana miseria fate su quei tavoli? ma nessuno potè sentirlo perché la musica era troppo alta e i ragazzi con i rayban uscirono il fucile a canne e una pistola revolver, una pistola di quelle che io e B., durante ricreazione all’Istituto Chimico, dicevamo: cazzo sarebbe bello averla.
Era autunno e c’erano tutti i miei amici: Jason Cosenza che si è preso le pallottole nelle budella sopra i coglioni e Brandon Lauretta, e Dylan Scicolone con buco nello sterno. Poi c’era Marylin Di Dio con il ferro nella pancia e nelle cosce ed era quella più viva, ma viva come una marionetta, come una marionetta era quando nella sala giochi colava la carne dei miei amici dalle pareti e io strisciavo fra i tavoli e i vetri rotti e sussurrano: amore mio sei vivo? E Marylin era viva ma si muoveva a scatti ma non capiva più d’essere Marylin Di Dio, né una ragazza di Gela, e io stesso non riuscivo a capire cos’era lei e cos’ero diventato anch’io.
Poi vennero i poliziotti. Mi afferrano per il collo come un gatto mentre fissavo le pareti. Nella stanza del commissariato ( una stanza che per me adesso è sospesa nella notte accanto alla luna) mi domandarono cosa avessi visto. Io rimasi zitto e alla fine dissi che avevo visto proprio un cazzo. Loro dissero ragazzino è importante, non avere paura, ti mandiamo lontano, però dicci cosa hai visto. E io dissi un super minchia ho visto, un grande cazzo di nessuno e niente. Allora il poliziotto X diede un calcio al cestino dell’immondizia e il cestino si rovesciò per terra. Dentro il cestino c’era un poster dell’attrice porno Fili Houtman tutto accartocciato e io dissi allo sbirro: c’hai ancora da farecon quello? E loro dissero va bene basta più per ora fallo riposare al ragazzo ma quando stavano per uscire io, non so perché, chiamai lo sbirro e dissi :Io non ho visto però ho sentito dissi. Allora loro si voltarono perplessi e mi vennero vicini, si misero in ginocchio alla mia altezza e chiesero: cosa hai sentito?
E io dissi: ho sentito così… you’re my fire, the one desire..belive when i say, i want it that way. …
Dopo rimasi solo. Ero solo e continuavo a cantare.
Solo nella stanza continuavo a cantare. Cantavo un sacco di pezzi inventando le parole. L’ultimo pezzo che ho cantato: Memories dei Netzwerk. Le parole dicevano : you know my world, this is my right, you can take my love but not my life. Non conoscevo l’inglese e non avevo idea di cosa volessero dire. Io, B., Marylin Di Dio, Jason avevamo ballato questa canzone in una discoteca che si chiama Pasta Club. Scoppiai a piangere. Ripensavo ai pezzi di carne dei miei amici sulla parete della sala giochi Nevada. Prima o poi, pensai, avrei dimenticato e pregavo chiunque di fare in fretta, perché mentre dimenticavo, c’era da vivere ed ero come inseguito, sentivo che presto sarebbe toccato a me, che sarei scomparso e sarebbero scomparsi i bare i lidi in riva al mare, gli amici come B. e i bus verso la Germania, il Petrolchimico deserto l’avrebbe spazzato via il vento come erba secca.
B. sul bus si era messo a dormire e russava. Io ogni tanto gli davo un gran calcio alla caviglia, allora lui su svegliava e si addormentava subito con la bava alla bocca . Sul treno per il nord ascoltammo, Be my lover dei La Bouche, Rythm of the Night di Corona, Around the World (la la la la la) degli ATC. Via via che il Bus avanzava sentivo un po’ di fastidio allo stomaco, non saprei dire se dovevo cacare, rimasi a lungo con questo dubbio e poi compresi che doveva essere la separazione, il modo in cui avveniva di separarsi dalle cose e il modo in cui le cose erano state assorbite.
Poi arrivò The Colors Inside dei Ti.Pi.Cal. B. agitava il capo segnando il ritmo. Il testo parlava di un colore che hai dentro, un colore nascosto come un cielo segreto
Poi arrivò la mia piccola Marylin, gli ultimi gironi di liceo e le passeggiate a ridosso delle rovine, davanti al mare e al Petrolchimico.
Sono nata nel posto sbagliato disse Marylin.
Il posto era il posto che l’avrebbe ammazzata presto, una discoteca chiamata Pasta Club, il liceo, un lungomare, il pomeriggio a casa dei genitori di Marylin con Super Vicky su un tv color da dieci pollici, la casa dove aveva aperto le gambe mentre sua madre pregava Padre Pio spolverando l’atrio miserabile con incredibile dedizione.
Me ne andavo dalla città senza vedere ed essere visto. A B. lo dissi. Dissi mi mancava Marylin. e B. mi disse di non pensarci.
– e come faccio a non pensarci?come si fa a dimenticare le cose successe? – chiesi
– Per esempio devi pensare che ora ti scopi un’altra, che andiamo in una città diversa, fai così fratè, pensa che ora vengono le cose belle, la vita è fatta di cose belle e cose brutte e quindi le cose belle devono succedere tutte adesso…
di Gian Piero Fiorillo
e poi che m’importa, scopriranno che sono comunista, non m’importa se lo scoprono, non gl’importa di scoprirlo, ho settant’anni cosa vuoi che mi accada, al massimo mi catturano, catturano forse la mia anima? invaderò i social media di germi del comunismo, scriverò che uno spettro si aggira per il mondo, farò proseliti sul web – virtuali, direte, ma non sarebbe già una buona cosa se la linea fosse attraversata da questi germi, nembi di virus «avanti popolo alla riscossa» «proletari di tutto il mondo unitevi» – non esistono forse ancora i proletari? ci hanno detto che la lotta di classe era finita e adesso che l’hanno vinta gridano con orgoglio: la lotta di classe esiste e noi stiamo trionfando! ci hanno fregati, ma io no, ho continuato a ripeterlo, a gridarlo, mi sono preso gli insulti di tutti i soloni che sanno e mi dicevano di smetterla con l’ideologia, troppo semplice dividere il mondo in ricchi e poveri, ti sfugge la complessità – ora i ricchi se ne fanno un vanto, ora che non possono più perdere, che hanno conquistato la terra e l’hanno riempita di cannoni e scorie atomiche, ora che del bel paese hanno fatto una piattaforma militare nel Mediterraneo, un portamissili, un grande magazzino sputafuoco e presto inizieranno ad evacuare la popolazione civile uccidendo tutti i resistenti – a me che me ne importa, morirò, bisogna pur farlo una volta «meglio morire che vivere servi» «morire morirò morir bisogna» sono avanti negli anni e non possono rubarmi più molto – disseminare la rete di memi capaci di replicarsi mille e mille volte quando tenti di cancellarli «non è che un inizio riprendiamo la lotta» voglio invadere il mondo virtuale «se non abbiamo il pane prendiamoci le rose» «rose rosse del web» allestiamo una bomba di idee, una fortezza mobile, un carrarmato virtuale, proiettili a espansione e mandiamoli in giro per le autostrade immateriali così che tutti sappiano: esistiamo! c’è una nuova generazione da formare, ribelle, perduta per il capitale, refrattaria alla riduzione economica e schiavistica degli esseri, una generazione combattente «grande è la confusione sotto il cielo la situazione è eccellente»
non dovete stancarvi, disse l’infermiera
voglio riempire il web con le mie parole virus
quali parole?
comunismo per esempio
comunismo, e che vorrebbe dire?
voglio mettere sul web tutto il pensiero di Karl Marx
karl marx, è straniero?
no, lui non è mai straniero, è planetario
adesso datemi il braccio che vi devo mettere la flebo
le mie parole virus non l’appassionano, non è così, infermiera?
ancora virus? non vi bastano quelli che avete in corpo?
ne ho molti?
tutti ce l’avete, quasi tutti
non è così, ne ho solamente due
davvero, e quali?
la vecchiaia e la malinconia
non ve la prendete, non siete sconfitto, scegliere è già vincere
no, non sono sconfitto, posso ancora seminare nel web l’idea che un tempo pochi uomini abbandonarono la pelle di serpente o di tigre o di avvoltoio e indossarono vestiti nuovi, aderenti, così aderenti da sembrare costrittivi ma che regalavano possibilità di movimento, agilità, indipendenza dell’intelletto e capacità di vedere oltre l’inganno – esistevano, gli uomini, ve lo giuro, non è una fantasia di vecchio né delirio di malattia o frutto velenoso del rimpianto – erano dappertutto e parlavano e discutevano e distribuivano foglietti con parole di transito «corri coniglio il mondo ti sta stretto» «apriamo le porte dei manicomi delle galere delle scuole dei nidi d’infanzia» «nelle gabbie dello zoo mettiamoci i maiali» erano slogan forti, lanciandoli nel mondo virtuale acquisterebbero nuova forza, melius est abbondare che deficere «vivere è un urlo se lo soffochi crepi asfissiato» vede infermiera, morirò senza sollevarmi più da questo sudario sporco della mia parte immonda – ma c’è altro, non lo vede lei, infermiera? sì, gli affetti, sì, le emozioni, sì, la casa e il mutuo che non finirò di pagare, sì, ma c’è altro, non lo vede, infermiera? è così difficile diventare Alice, cadere dal letto, sprofondare oltre il pavimento, dieci piani d’ospedale, raggiungere la terraferma e scoprire che oltre quella ci sono altri mille piani inesplorati, andare, proseguire, continuare con l’ostinazione di una perforatrice, scendere scendere scendere avvitarsi su se stessi e scendere ancora fino a trovare
là sotto c’è l’inferno perché volete trovare l’inferno?
il centro del mondo, arrivare al centro del mondo dove tutto è possibile
le fiamme dell’inferno
anche quelle perché tutto è energia laggiù, energia purissima, nient’altro
dovete pensare a riposarvi
voglio dare l’assalto al cielo
quanto siete presuntuoso, il centro della terra, l’assalto al cielo, vi pensate Dante Alighieri?
sono modi di dire
ah, ecco
eppure bisogna andare al centro della terra e da lì dare l’assalto al cielo
ne dovete fare di strada
ne ho fatta tanta ma non è bastata
avete visto? riposatevi
mi basterebbe andare al centro di me stesso, capire
che cosa?
come fa questo corpo, questa carcassa addolorata, ad avere ancora un desiderio
e qual è questo desiderio?
il comunismo, no, di più, la comunione
siete religioso?
essere una cosa sola, una grande cosa cosciente che si muove nell’universo, una sola anima collettiva, fatta di tutto e del contrario di tutto, delle parole del capitalista e delle parole virus che sapremo opporre, ci diranno folli sabotatori terroristi, ce lo diranno e non sarà l’ultima volta, ma questi attacchi insensati, queste manganellate, queste serrate e serrande virtuali abbassate, questa paura, ecco, saranno testimoni del nostro essere vivi, proprio quando la lotta era data per defunta, hanno commesso l’imprudenza di sentirsi al sicuro, burlarsi di noialtri «comunisti ora e sempre» come dicemmo assaltando il cielo pieno della loro spazzatura, velenoso come le spire della mandragora, potente come quelle dell’anaconda, noi avevamo solo peli urticanti di processionaria, ci muovevamo in fila o in gruppo incollati l’uno all’altro – cosa speravamo? irritare chi ci attaccava o diventare farfalla, una sola gigantesca farfalla grande tutto il gruppo delle processionarie – ci colpirono, uccisero, sterminarono – quelli che sopravvissero diventarono farfalle senza gruppo, ciascuno volò per sé – gli altri kaputt in un modo o nell’altro – kaputt mundi, fine, zero tagliato e molte illusioni, liberazione delle donne nirvana droghe sintetiche viaggi, in qualche modo, in mondi ultrasensibili perché il mondo sensibile faceva troppo male, lo vedo anche adesso, lo vedi anche tu infermiera, non è vero?
dormite adesso non vi agitate
dormire? è l’ultima cosa che vorrei
solo chi dorme sogna
sognare da svegli invece
voi siete bravo, ma non li avete saputi realizzare i vostri sogni da sveglio
ha ragione infermiera
perché?
è stato il dolore a fermarci
la nostra paura di aggiungere dolore al dolore, paura che quello che andavamo cercando e predicando invece di renderci liberi ci avrebbe legati ancora di più, condannando chi ci seguiva a lunghe traversie – non l’avevano già fatta la Rivoluzione? non l’avevano già fatta la Resistenza? e cos’era rimasto di tanto dolore, di tutte le pene che avevano sopportato i nostri mitici riferimenti? mondi senza respiro, morti atomiche da ogni parte, l’atollo di Bikini e Chernobyl facce di una sola medaglia, forse proprio la stessa faccia mentre l’altra parte rimaneva oscura e sconosciuta – si pensa solo a morire quand’è così, liberaci dal male amen, e però morendo vorremmo lasciare qualcosa, colonizziamo la rete che ci ha colonizzati, inondiamola di parole virus, miliardi e miliardi, un residuo d’anima resterà vagante frantumata atomizzata ma reale immateriale immortale andrà ad intasare i loro computer come uno zoccolo negli ingranaggi un bastone fra le ruote – incespicano, cadono, si riprendono ma dovranno ancora fare i conti con la massa di informazioni distruttive, dovranno inventare un’altra rete, un terzo mondo virtuale e poi un’ altro ancora fino a che di quello reale sarà scomparsa ogni traccia, finito tutto, morto, funzionano solo le particelle subatomiche e quel momento realizzerà l’utopia dell’abolizione del dolore e del bisogno – pura trasformazione dell’energia, informazione zero
volete un sedativo?
troppo dolore stroppia
con chi ce l’avete, che v’hanno fatto?
sono contro l’algoritmo del capitale
ma perché volete morire?
non esisto, l’altro mondo è la mia sola casa ormai
di dove venite? non ce l’avete dei figli?
tutti, sono tutti miei figli e miei fratelli
vostri vostri, dico, che vi accolgono, non ce l’avete un’itaca dove tornare?
no, è troppo tardi, da Itaca sono scappato tanti anni fa
siete ancora in tempo
no, è tutto deciso, ho toccato la boa tanto tempo fa e ho virato, un lungo percorso è compiuto
raccontate, vi ascolto
Nausea, vomito, nient’altro. Itaca l’ho raggiunta ma non so che farmene. Guardo il paesaggio, il tramonto laggiù, oltre l’orizzonte marino, è bello ma ho il mal di terra, male dei pensionati. Itaca è la morte. Spegne volontà entusiasmo movimento passione paura coraggio. Chiuso. Fatto. Deciso. Non ci sono altre decisioni da prendere, ho i piedi per terra io. Un tempo mi mancava la terra sotto i piedi ed ero felice, ubriaco di felicità. Presto sarò sotto un piede di terra. Che cosa mi manca per vivere ancora? denaro? Pensavo: il mondo è un immenso sacco pieno di denaro, bisogna svuotarlo e vivere solo di mondo. Sbagliavo, è il denaro un sacco pieno di mondo. Il mondo soffoca sotto una spessa coltre di denaro. Invisibile. Impalpabile. C’è. Il denaro c’è ma non si vede. Alcuni lo vedono di più, altri meno, altri mai. Ma in fondo anche quelli che ne vedono molto vedono solo carta moneta, che è per il denaro quello che i pigmenti sono per il colore. Il denaro è impalpabile? anche il mondo lo è. La prima volta che sono salito su una nave ho vomitato l’anima, che deve trovarsi fra lo stomaco e la gola, in qualche punto da quelle parti, altrimenti non avrei potuto sputarla e poi ringoiarla. Ma non potevo scendere, la nave era partita. Mi sono dovuto adattare, non avevo scelta, e sono stato meglio. Se ce la fai una volta ce l’hai fatta per sempre. Ho nostalgia del mal di mare, di quella ventata di perdizione che mi aprì le porte del fascino. Del futuro che allora avevo e adesso non ho più. Guardo le colline della mia Itaca: un parco in città. Che farsene? Camera con vista, beh? La cercammo tanto, io e lei. Immaginata, scelta con cura. Dipinta, arredata. Sedemmo in camera a guardare la vista. Molte sere e molte notti, quando la luna rischiarava gli alberi e le alture del circondario, verso Sud. Il muraglione di pietra che chiamavamo la falesia. Poi ci siamo abituati. Lei s’è stancata ed è partita per un’Itaca definitiva. Non poteva accettare una busta con dentro i soldi della pensione, come ho fatto io. Invidio il suo coraggio. Nessuno l’ha rimpiazzata, nessuno avrebbe potuto darmi il mal di mare che solo lei. Ho nostalgia del mare aperto. Cavalloni, fracasso, pericolo. Ho nostalgia del vento contro le vele, sul viso e sulle braccia. Le mani ghiacciate che si sforzano di tenere le cime. Nostalgia della tempesta. Del respiro della Balena. Della fiocina. Del timone e della spada. Della frustata d’acqua, della sconfitta e della vittoria. Della calma, infine, che ti trova spossato e felice. Sarcastico e colto: Demoni e meraviglie, venti e maree, chi siete voi per sfidare il Navigante? Guardo il parco, le collinette, la falesia: le vedo persino da questo fondo di letto ospedaliero. Mi giro ed ecco la città, tutta davanti a me. La guardo e torna il pensiero ossessivo: denaro. Il denaro per imbastire una nuova partenza. Non ho più l’età per fare il mozzo, non posso ricominciare da zero. Ma ci vuole denaro. L’imbarcazione l’ho venduta per due soldi, per pagare le ultime rate del mutuo. Ora non ho più niente, una pensione piccola piccola, bastante per sopravvivere e stop. Guardo la città, tre milioni di abitanti davanti a me. Quante case? Quanto denaro c’è in quelle case? Qualcuno lo cuce ancora nel materasso? Qualche vecchio o vecchia, forse. Lasciamo perdere, non è tempo di Raskolnikov. Assurdo. Ho sempre odiato il denaro e ora che sto per morire vorrei essere una pompa aspirante, immensa, capace di succhiare denaro dalle casseforti, dai depositi, dagli scrigni chiusi e aperti di tutte le persone che hanno denaro e lo accumulano. Denaro morto. Avventura zero. Tre milioni e mezzo di persone, se potessi scucire ad ognuno un solo misero pietoso merdosissimo dollaro potrei mettere insieme adventures finché campo. Ma è inutile pensarci, non ho l’animo del mendicante e non sono una sanguisuga. Inutile pensarci. E comunque troppo tardi. Meglio pensare al cielo, le nuvole rosse come il grande capo. Arie del Giudizio Universale. Buonarroti parlava con Dio. Lo vedeva prender forma e diventare materia davanti ai suoi occhi. La mia epoca è ben più meschina, se pensa a una resurrezione pensa agli zombie. Variazioni marcescenti del conte Dracula. Agli appunti di meccanica celeste il presente millennio ha contrapposto spremiture d’ossa e intestini. È l’epoca del frullatore. Della disintegrazione. Dell’Esposizione del Cadavere. Uno sporco dollaro spillato a ogni rappresentante del cadavere in divenire e sono a posto. Ma nessuno mi darà mai un dollaro, nemmeno un cent, perché non starò lì a chiederlo. Preferisco la sconfitta, una ritirata indegna piuttosto che chiedere un dollaro. Odio il denaro, tiene la vita in ostaggio. Morirò al tramonto. Non ho paura della morte. Di morire, forse. Come sarà il trapasso? Vorrei sapermi quando sarò cenere leggera sollevata dalle onde, spazzata dal vento, un fuscello nelle aule aperte e severe della perditudine e il mondo sarà inutile, non vedo Noè all’orizzonte
dormite adesso, riposatevi, la flebo sta facendo il suo dovere
di Giorgio Mascitelli
Alla manifestazione milanese del 25 aprile scorso ( 2017) ha destato disappunto e ironia il cartello portato da un militante del PD che inneggiava a Coco Chanel come madrina spirituale dell’Europa unita, dati i trascorsi antisemiti e collaborazionisti della celebre stilista che evidentemente gli estensori del cartello ignoravano. Se torno sull’episodio ovviamente non è per rinfocolare le polemiche politiche che da qualche anno in qua accompagnano la festa della Liberazione, ma perché questa gaffe è il sintomo di un certo quadro di idee diffuse nella nostra società non solo tra i sostenitori del PD. Nel commentarlo alcuni hanno tirato in ballo l’ignoranza dei tempi e che lo spirito dei tempi abbia qualche cosa a che fare con la vicenda è indubbio, anche se non sarei così draconiano nell’ascrivere a pura ignoranza la genesi dell’episodio.
In primo luogo, infatti, il cartello per Coco non era isolato ma in compagnia di altri dedicati a personaggi famosi, personalmente ne ho visto uno per Jane Austen e un altro per John Lennon, che, sebbene abbiano condotto vite onorevolissime e immuni da pecche così gravi, con l’Europa unita non c’entravano molto. Diciamo che l’unico criterio che può accumunare insieme personaggi così diversi tra loro in una manifestazione di questo genere è quello di aver goduto di grande successo nei rispettivi campi e nelle rispettive epoche. Insomma essi erano in quel contesto quelli che nel linguaggio pubblicitario si chiamano dei testimonial. Ora è probabile che il meccanismo logico che ha prodotto la gaffe si situi a questo livello: essendo stata Coco una persona di successo e dunque una perfetta testimonial, non occorreva controllare i dati della sua biografia perché si presume che questo genere di personaggi di successo possano avere idee politiche magari vaghe e anodine, ma comunque sempre presentabili. L’idea di dare una controllata su Wikipedia alla sua vita presupponeva uno scetticismo rispetto alle logiche correnti dell’immaginario e una consapevolezza storica della diversità del passato che difficilmente si trovano nei contesti sociali odierni.
E’ chiaro che questo tipo di mentalità ha molto a che fare con la dimensione del politicamente corretto. Oggi, infatti, il politicamente corretto si presenta in primo luogo come una serie di affermazioni a carattere eticopolitico che costituiscono una sorta di standard per poter essere ammessi sia nel circuito mediatico mondiale sia in quella che potremmo chiamare la sfera globale della società. Coloro che hanno necessità impellente di esservi ammessi, d’altra parte, sono le personalità di successo o aspiranti tali in tutti i campi dell’umano agire. Se dunque tuttora Coco Chanel resta un’icona internazionale, non potrà che avere avuto comportamenti e posizioni compatibili con quegli standard. Ecco verosimilmente l’errore logico, che senza neanche troppo sarcasmo potrà essere ribattezzato paralogismo di Coco o anche paralogismo numero cinque, causa della gaffe.
La natura di questo paralogismo ci permette di illuminare quella che è la funzione sociale del politicamente corretto. In questo senso è possibile paragonare il politicamente corretto alla morale vittoriana, naturalmente non dal punto di vista dei contenuti normativi ( basti pensare alle prescrizioni sessuali di cui quella era generosissima che in questo sono sporadiche), ma nella sua funzione di indicatore universale e onnipresente di ciò che è appropriato. Come spiega Franco Moretti ne Il borghese, nella morale vittoriana “ciò che conta non è tanto il contenuto del codice ( una prevedibile miscela di cristianesimo evangelico, immaginario ancien régime ed etica del lavoro) quanto la sua inaudita onnipresenza”, che è quanto si può dire del politicamente corretto. Questa sua onnipresenza è dovuta al fatto di essere l’indicatore di appartenenza a una classe o, se si preferisce, a un ceto, quello dei gentiluomini allora, quello dell’èlite globale oggi. Come ieri lo era il vittorianesimo, così oggi il politicamente corretto è funzionale alle esigenze di autorappresentazione ideologica dell’organizzazione produttiva della società. L’enfasi posta sulla lotta contro ogni discriminazione, salvo quelle di status economico e competitività, è una forma di universalismo necessaria al dispiegamento del mercato globale, non tanto in senso geografico, ma in quello biopolitico nelle vite di ciascuno, come dimostra il contestuale rifiuto di una percezione dei problemi sociali in termini storici.
Ritengo, ma mi potrei sbagliare, che l’abbrivio decisivo per questa diffusione universalistica del politicamente corretto sia stato dato dai grandi concerti evento tipo Live Aid che, a partire dalla metà degli anni ottanta fino a qualche anno fa, hanno contrassegnato la nostra vita pubblica arricchendo di una coloritura di impegno sociale le tradizionali attività di beneficenza del mondo dello spettacolo.
Come tutti i generi mediatici di successo il politicamente corretto genera anche un sottogenere d’opposizione dagli accenti populistici, oggi particolarmente in voga dopo Brexit e il successo di Trump, che rivendica la funzione salvifica di alcune forme di discriminazione rivolgendosi a un pubblico tradizionalista disorientato dal progressismo globalista e offrendole come succedaneo della lotta di classe ai ceti impoveriti dalla globalizzazione: si tratta di due fenomeni complementari, che partono dalla premessa comune di accettare la subordinazione alle istanze del mercato, allo stesso modo che sul mercato musicale alle stelle più sofisticate della scena pop internazionale si contrappongono cantanti legati a tradizioni locali o a versioni pop meno aggiornate, che però in un singolo mercato nazionale possono avere più seguito dei primi.
Il fatto che i due generi siano complementari non deve però trarre in inganno sul fatto che solo il politicamente corretto è in grado di assolvere a quelle funzioni, fondamentali per il neoliberismo, di elaborazione di un senso individuale nell’interiorizzare i meccanismi di competitività, di “riscrittura etica delle relazioni sociali” ( Moretti) e di fornire un galateo per una vita trascorsa perlopiù in nonluoghi; in breve è solo questo che ha capacità egemoniche. In questo senso allora se la critica del politicamente corretto è un compito primario, esso non può coincidere con l’opposizione ai suoi contenuti, nella maggior parte dei casi difficilmente contestabili per la loro genericità, che è già prevista nel gioco della contrapposizione populista, ma consiste nella capacità di porre al centro ciò che non è dicibile nel discorso politicamente corretto.
( questo articolo è apparso su Alfabeta 2 il maggio scorso, lo ripubblico perché mi sembra che i problemi che sollevava siano ancora più evidenti oggi, g.m.)
di Lorenzo Pompeo
La frase di apertura compare in Sogni, seconda sezione del Racconto didattico di , dedicato allo storico dell’arte e critico Mieczysław Porębski (fu compagno di studi del poeta a Cracovia), scritto nel 1959 e pubblicato nel 1962 nella raccolta Nic w płaszczu Prospera (trad. it. “Nulla nel mantello di Prospero” ). In Sogni. Różewicz si immagina di raccontare in sogno al suo amico pittore Andrzej Wróblewski, morto di infarto nel 1957 a soli quarant’anni, suo compagno di studi di storia dell’arte a Cracovia nell’immediato dopoguerra, le impressioni tratte dalla sua passeggiata per le sale della XXX Biennale di Venezia (Wróblewski fu una delle figure di spicco nella scena artistica dell’immediato secondo dopoguerra, solo apparentemente legato alla poetica del realismo socialista, nelle sue opere testimoniò la sofferenza sua e della sua generazione, sopravvissuta agli orrori dell’occupazione nazista e costretta a fare i conti con i dictat del nuovo Regime). Nella prima parte della poesia ritornano i ricordi del periodo bellico, che lasciarono un segno indelebile nella biografia intellettuale e nella creazione artistica del poeta polacco. Tra le nebbie finalmente appare Venezia. Il poeta passando attraverso le sale della mostra dedicata ai futuristi ne raccoglie le impressioni, che riferisce al suo amico, legate ai giochi verbali e agli slogan del futurismo italiano e del dadaismo tedesco (“dadamax ernst” è uno degli pseudonimi di Max Ernst) e finalmente giunge alle sale dove sono esposte le opere di Alberto Burri, l’artista che più di tutti lo colpì (“è vicino al mio cuore/l’immondezzaio della grande città/”).
La figura e l’opera del grande artista italiano non era passata inosservata in Polonia. Era stato lo stesso Mieczysław Porębski, a cui l’intero Racconto didattico è dedicato, a menzionarlo in un suo appunto del 1960 nel quale faceva notare che gli artisti italiani Burri, Fontana e Vedova “avevano qualcosa di vero da dire” . A questa osservazione dello storico dell’arte polacco si rifà il poeta. Il quale, profondamente colpito dalla poetica dell’artista, nel tentativo di comprenderne il senso della sua originale creazione artistica, conia il concetto di “immondezzaio”, che tuttavia egli allarga fino a ricomprendervi anche la propria creazione poetica. Il concetto di “immondezzaio” in Ròżewicz prescinde l’opera di Burri e diventa per il poeta in questi anni una vera e propria ossessione. Nella prima strofa di, Walka z aniołem (trad. it.: Lotta con l’angelo), del 1959, aveva scritto: “Cresceva l’ombra delle ali/ l’angelo canticchiò in falsetto/ le sue narici/ umide mi toccavano/ gli occhi le labbra/ lottavamo sulla terra/ battuta di giornali/ in un mondezzaio dove/ sangue saliva e fiele/ si mescolavano a sterco di parole”[1], mentre così si chiude Biancore: “L’agnellino è disteso/ sul tavolo della vivisezione/ addobbato di verde/ infarcito di speranza/ attorno seggono mucchi di sporcizie/ adorni di pennacchi bianchi/ mossi/ dal vento della storia”[2]. Questo concetto di “immondezzaio” fu uno dei principi compositivi di Kartoteka, pietra miliare del teatro polacco del ‘900, presto tradotto e rappresentato in tutta Europa, che risale proprio a questo periodo (l’opera venne pubblicata e rappresentata nel 1960), caratterizzato da una struttura incongrua, frammentaria e caotica (è abolita l’unità di tempo, spazio e azione) nella quale il protagonista assume diverse età, nomi e mestieri “un signor nessuno che le esperienze della guerra hanno svuotato interiormente e reso incapace di qualsiasi contatto umano”[3] Il linguaggio di Kartoteka, basato su cliché e scimmiottamenti di vari di vari registri stilistici e retorici e l’uso di materiali di risulta della comunicazione (stesso principio adottato anche nel citato poema Racconto didattico), ci ricorda molto da vicino i principi compositivi e la poetica delle opere del grande artista italiano.
Le improvvise aperture nella vita culturale determinate dai cambiamenti del 1956 (il cosiddetto “disgelo”) non avevano scaldato troppo il cuore del poeta, il quale non fu un entusiasta del nuovo corso. Tuttavia l’edizione delle sue opere complete, nel 1957, rappresentò senza dubbio la consacrazione della sua creazione poetica, a cui venivano tributati gli onori di un classico. Nello stesso anno perse la sua amattissima madre e partì per Parigi, dove incontrò Czesław Miłosz (il quale dal 1951 aveva interrotto i suoi rapporti con la Polonia comunista). Malgrado le grandi distanze che li dividevano sia dal punto di vista stilistico che da quello politico-ideologico i due mantennero un vivace rapporto intellettuale e umano per tutta la vita. Al suo ritorno in Polonia, profondamente depresso, comprende che la sua creazione poetica non poteva essere una stanca ripetizione delle sue prime raccolte di poesia, con le quali si era guadagnato una posizione di rilievo nella scena letteraria polacca.
Il volume Formy (“forme”), del 1958, rappresenta sia una rottura nei confronti con le esperienze generazionali sia una apertura verso nuove ispirazioni estetiche riconducibili alle istanze delle neoavanguardie («Quelle forme un tempo così educate/ ubbidienti sempre pronte ad accogliere/ la morta materia poetica/ spaventate dal fuoco e da odore di sangue/ si sono rotte e sparpagliate»[4] dichiarava in Formy). Le impressioni ricevute dalla visita alla XXX Biennale, e in particolare dalla figura umana (nel poema vi sono anche riferimenti alla biografia di Burri) e dalla poetica del grande artista italiano ebbero quindi un ruolo del tutto particolare nella vicenda intellettuale e artistica del poeta polacco, il quale vide e trovò nell’artista di Città di Castello consonanze e ispirazioni che metterà a frutto nella propria creazione artistica.
SOGNI[5]
I miei sogni sono comuni
il mio scialbo vicino mi porge un pacco
avvolto in un giornale legato con lo spago
sciogliamo lo spago a lungo a lungo
poi si mangia il brodo coi vermicelli
e si parla del bel tempo
vestiti di abiti un po’ dimessi oramai
mi capitano dei sogni realistici
una volta sola una mia conoscente
prese a mutarmisi tra le braccia
in un mio compagno di ginnasio
aveva occhi azzurri e capelli chiari
labbra leggermente rigonfie
ci univa l’odio
s’intrufolava fra le mie braccia
nel mondo reale divenne un delatore
e a quanto dicono morì condannato
quasi tutti i miei sogni
sono costruiti su i principi
della drammaturgia tradizionale
Disorro con Adrea W.
vale a dire parlo a me stesso
poiché lui morì tragicamente
quel piccolo foro sul volto
l’ingresso al sottoterra
si aprì il terzo giorno
o cieca talpa
quella cintura d’oro nel fumo è Venezia
cielo nugoloso corallo roseo il Palazzo Ducale
Andrea ti vuoi riscaldare
hai costruito di notte una castello di vento
tracce di sangue sulle dita
sei volato fin qui nel sud
ti racconterò
della XXX Biennale di Venezia
Moto Luce Rumore
futiristi anno 1912
pensarono d’essere demoni del movimento
nell’inferno della grande città
Automobile e Rumore
le loro automobili vedute
al Musés du Cinema
risvegliano salve di risa
il loro areoplano ricorda
l’incrocio di uno scaleo con un angelo
Parole in Libertà anno 1915
Marinetti Balla Boccioni
Cavalli Correnti Mattoli
Guerre Belle Léger Lourbimbim
Mort aux Boches traac craac croc tatatata
anno 1919 Esplosione Simultaneità
verdi tam tumb isonzo
paak piing
poi dadamax ernst
von minimax dada max
selbst konstruiertes maschinen
für fruchtlose bastäubung
weiblicher saugnäpfe zu beginn
der wechseljahre u. dergl. Fruchtlose
verrichtungen
così
spassandosela passarono
nella storia dell’arte
Jean Huizinga dice nell’«Homo ludens»
un bimbo che giuoca non manifesta infantilismo
il padiglione del Regno del Belgio
la scritta
EENDRACHT MAAKT MACHT
sul deretano di bronzo di una donna
resa realisticamente un bagliore di sole
quella dama proviene dalla fine del XIX secolo
sembra che allora il Congo fosse proprietà privata
del Re
entrano i custodi con le uniformi grigie
tengono d’occhio i quadri
dai giardini giunge il canto di un uccello
nella prima sala le sculture negre
si accoppiano con gli pseudoclassici esco
nella seconda sala Launduyt
vomita sulla tela le sue interiora
embrioni uova ovaie sangue
i tumori divorano tessuti
i custodi si annoiano
alle dieci esco fuori
sulle natiche ralistiche
della donna di bronzo
– ognuna di quella natiche mostrata
a parte potrebbe passare
per una scultura astratta –
il sole depone un bacio
EENDRACHT MAAKT MACHT
è vicino al mio cuore
l’immondezzaio della grande città
il poeta degli immondezzai è più prossimo al vero
che non il poeta delle nuvole
gli immondezzai sono colmi di vita
di sorprese
tu mi chiedi Andrea della XXX Biennale
vi ho visti organizzati
gli immondezzai di Burri
laceri sacchi di stracci
guardaroba da signara spaghi cartacce
Burri
affamato nel campo dei prigionieri
ha plasmato di spazzature
un mondo nuovo
fra quelle morti e quelle spazzature
ha creato il bello
ha dato prova di nuova integrità
Burri
ancora una volta rammento gli elementi del quadro del suo mondo
grandi sacchi rappezzati su fondo nero
reti più la vita di Burri
buchi di grandezza diversa legati da spaghi
da fili i cinque sensi di Burri
pezzi di camicie sporche
di vestaglie sacchi gesso
tele di sacco
nelle quali ripuliva qualchuno pennello e mani
l’etichetta di bronzo la scritta
Gift. of. G. David Thompson 1957
più oltre decomposizione sviluppo dei tumori di Burri
sportelli di un vecchio armadio tolto dal fuoco
compensato impiallacciato assi affumicati coperti da uno strato
di escrementi bianchi d’uccelli la terra di Burri
un altro quadro su sfondo rosso un lenzuolo sbrendolo
un fazzolettino da signora
tutto in rosso la fame e il fuoco di Burri
una solida ragazza in camicetta a merletti ride serena
guardando gli immondezzai di Burri
un altro quadro di pezzi di metallo silenzio e ruggine di Burri
Più oltre sono appesi immobili quasi già belli
Romiti Spazzapan Sadun
Music premio Unesco Gonzaga
Peverelli Leoncillo Vedova Dorazio
Corpora Fabbri Afro Lardera
[1]Tratta da: Le parole sgomente, a cura di Silvano de Fanti, Metauro edizioni, 2007 Pesaro.
2Da: Colloquio con il principe, a cura di Carlo Verdiani, Mondadori, Milano 1964, p. 279.
3Silvano De Fanti, Dal 1956 al nuovo secolo, in: Storia della letteratura polacca, a cura di L. Marinelli, Einaudi, Torino 2004, p. 449.
4Da: Tadeusz Różewicz, Le parole sgomente. Op. cit., p. 19.
5T. R., Colloquio con il principe, a cura di Carlo Verdiani, Mondadori, Milano 1964, pp. 283-288.
1 micro festival, 1 giorno, 24 artisti,
7492 parole, 5647 fotogrammi,
258 piccoli rumori,
5 installazioni, 46 immagini
Il 20 Aprile 2018, a Firenze, il Chiasso Perduto – Galleria d’Arte ospiterà la prima edizione di PartesExtraPartes, rassegna di musica sperimentale, scritture e arti visive.
Durante la serata, dalle 18 alle 22, il programma offrirà al pubblico progetti e ricerche di alcuni artisti contemporanei volti alla sinergia tra linguaggi artistici, tra materiali sonori, proiezioni video, installazioni, scritture, readings, sonorizzazioni.
Il progetto a cura di Alessandra Greco, Simona Menicocci, Roberto Cagnoli e con la collaborazione del collettivo artisti StudioLab di Firenze, ospita in uno spazio libero ventiquattro tra artisti, videoartisti, scrittori, musicisti e fotografi che propongono in modo diversificato riflessioni sul tempo storico, sul tessuto e sulla tessitura del sistema umano, realizzando una macchina espositiva esperita non per se stessa, ma per gli altri, in cui i dispositivi sonori, lo scavo verticale della scrittura nella materia organica, i cut up linguistici e visivi dello scenario contemporaneo e sociale e delle sue criticità, sono elementi volti essi stessi all’interrogazione di ciò che ci circonda, spostando le consuete modalità di sguardo, di comprensione e di attenzione, verso nuove proposte di immaginazione e codifica critica del contesto attuale.
Programma della serata a cura di Alessandra Greco:
In permanente:
Sezione Opere/Installazioni a cura del collettivo artisti StudioLab, Firenze:
Sebastiano Benegiamo, Takako Ishii, Leonardo Magnani, Jacopo Rachlik, Emiliano Renzini, Marco Zamburru. Fotografie in esposizione di Andrea Amorusi.
Sezione Video a cura di Simona Menicocci:
Le opere proposte nella sezione video sondano in vario modo i rapporti tra mondo e uomo, tra percezione ed esperienza, attraverso un approccio critico del mezzo visivo volto a una profanazione delle strategie visive odierne, a una messa in crisi del dominio della narrazione, della rappresentazione e delle forme del discorso dominanti, per costruire e mostrare un loro uso differente.
Saranno proiettati video di:
Pietro D’Agostino, Marco G. Ferrari, Nicco Furri, Alessandra Greco, Mariangela Guatteri, Salvatore Insana & Alessandra Cava, Andrea Leonessa, Luca Matti, Simona Menicocci, Luca Rizzatello, Silvia Tripodi.
Comunicazione e grafica a cura di Roberto Cagnoli
www.facebook.com/chiassoperduto/
www.facebook.com/events/895893147257674/
Chiasso Perduto, Via dei Coverelli 4R, Firenze
20 Aprile 2018
dalle 18.00 alle 22.00
