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Ritirare la Gioconda dalle collezioni del Louvre ?

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[Petizione lanciata dalla SIES – Società degli italianisti dell’insegnamento superiore, Francia, che ha già ottenuto numerose adesioni, in Francia e in Italia, e che vi invito a firmare e diffondere]

https://www.change.org/p/jean-michel-blanquer-faut-il-retirer-la-joconde-des-collections-du-louvre

 

Ritirare la Gioconda dalle collezioni del Louvre ?

Leonardo da Vinci è morto in Francia, a Amboise, 500 anni fa, il 2 maggio del 1519. La storia della Francia e quella dell’Italia sono strettamente legate da moltissimo tempo, e l’amicizia franco-italiana è il risultato non solo dei fecondi scambi economici tra i due paesi, ma anche della loro storia culturale. Se l’Italia continua ad essere il secondo partner commerciale della Francia, l’insegnamento dell’italiano in Francia è però colpito molto severamente dalla nuova riforma del liceo, che scombussola l’insegnamento di una terza lingua vivente. Inoltre, il numero dei posti messi a concorso conosce da un paio d’anni una caduta senza precedenti: negli ultimi due anni, all’agrégation esterna questo numero è stato dimezzato (con soli 5 posti nel 2019), e quello del Capes esterno è passato da 28 a 16. I posti erano ancora 35 nel 2016, 2015, 2014, e 64 nel 2013. Nessun’altra lingua vivente, nello stesso periodo, ha subito amputazioni tanto violente, che mettono in pericolo l’esistenza stessa di una rete disciplinare fin là destinata a soddisfare una domanda che non sta invece diminuendo. Questo crollo del numero di posti non corrisponde dunque a nessuna disaffezione dei giovani francesi per la lingua italiana; questa politica vessatoria non riflette in nulla la situazione sul terreno, ma anticipa forse la programmazione della fine dell’insegnamento di una terza lingua, che costituisce il vivaio dell’italiano in Francia.
Noi, firmatari di questo testo, donne e uomini affezionati più che mai all’amicizia franco-italiana, convinti che essa deve essere sostenuta politicamente poiché essa è cruciale per il destino dell’Europa, esigiamo un gesto forte da parte del Ministero dell’Éducation Nationale, cioè il ristabilimento di un numero di posti tale da consolidare l’insegnamento dell’italiano (almeno 12 all’agrégation esterna, 35 al Capes esterno), e un progetto di accompagnamento della riforma in favore dell’italiano come lingua di specialità. Chiediamo anche che si metta fine alla politica di eccessiva concentrazione geografica dell’insegnamento dell’italiano e che esso sia proposto nelle scuole pubbliche di ogni dipartimento francese: il numero degli studenti che vogliono cominciare l’italiano all’università è in fortissima crescita, poiché questi studenti non hanno avuto la possibilità di studiare alla scuola media o al liceo la lingua che avrebbero voluto scegliere.
Lasciar morire l’insegnamento dell’italiano in Francia è tanto insensato quanto ritirare la Gioconda dalle collezioni del Louvre, o espungere Dante, Machiavelli, Galileo, Verdi o Eco dal nostro patrimonio culturale. Distruggere l’insegnamento dell’italiano in Francia significa cancellare una parte della storia e della ricchezza della Francia, spezzare i legami preziosi che uniscono da sempre i due paesi: l’amicizia tra Francia e Italia è una necessità vitale, e la cultura ne è il cuore pulsante.

Primi firmatari

Corrado AUGIAS, Jeanne BALIBAR, Julie BERTUCCELLI, Gianni BIONDILLO, Françoise BRUN, Graziella BONANSEA, Lucia CALAMARO, Andrea CAMILLERI, Luciano CANFORA, Ascanio CELESTINI, Annie CHAZAL, Françoise CIMAZ, François CIVIL, Emma DANTE, René DE CECCATTY, Jacques DALARUN, Gérard DARMON, Daria DEFLORIAN, Thomas DUTRONC, Mathias ENARD, Davide ENIA, Paolo FABBRI, Jean-Pierre FERRINI, Roberto FERRUCCI, Elvira FROSINI et Daniele TIMPANO, Julie GAYET, Carlo GINZBURG, Lisa GINZBURG, Eugène GREEN, Stéphane GUILLON, Claude HAGEGE, Giorgio INAUDI, Luigi LA ROSA, Dacia MARAINI, Jean-Yves MASSON, Pierre MICHON, Andrea MOLESINI, Antonio MORESCO, Hilaire MULTON, Florence NOIVILLE, Michel ORCEL, Jean-Baptiste PARA, Michel PASTOUREAU, Ernest PIGNON ERNEST, Daniel PERSONNAZ, Hélène PERSONNAZ, Micheline PERSONNAZ, Renaud PERSONNAZ, Jérôme PRIEUR, Lina PROSA, Francesco RANDAZZO, Vincent RAYNAUD, Ryoko SEKIGUCHI, Raffaele SIMONE, Antonio TAGLIARINI, Valerio VARESI, Catherine VIRLOUVET…

Johannes BARTUSCHAT (Univ. de Zurich), Michele CANONICA (Président de la Dante/Paris), Barbara CARNEVALI (Ehess), Enrico CASTALDI, Lynda DEMATTEO (Ehess), Alain GRAS (Ancien Directeur de l’École Française de Rome), Niel HARRIS (Univ. d’Udine), Jean-Marc de LA SABLIERE (Ambassadeur de France), Yves HERSANT (Ehess), Marielle MACE (Ehess), C. MARAZZINI (Président de l’Académie de la Crusca), Paolo MODUGNO (Sciences Po.), Ivano PACCAGNELLA (Univ. de Padoue), Giuseppe PATOTA (Univ. de Sienne), Giandomenico PILUSO (Univ. de Sienne), Aniello PLACIDO, Roland RECHT (Collège de France), Stéphane SALVETAT (Président du Syndicat des Transitaires de Marseille Fos et sa région), Dominique VALERIAN (Président de la Société des Historiens Médiévistes de l’Enseignement Supérieur Public)…

I delegati della SIES : J.-L. NARDONE (Université Toulouse II Jean Jaurès), S. AMRANI (Université Paris 3), L. BAGINI (Université de Poitiers), D. BISCONTI (Université Clermont auvergne), I. CHIONNE (Université de Nantes), S. CIMINARI (Université Montpellier 3  Paul Valéry), T. COLLANI (Université de Mulhouse), C. COLLOMP (Aix-Marseille Université), R. DESCENDRE (ENS Lyon), V. D’ORLANDO (Université Caen Normandie), L. FOURNIER (Université Paris 8), M. JORBA (INU Champollion Albi), F. LANDRON (Université de Corse Pasquale Paoli), C. LASTRAIOLI (CESR Tours), C. LE LAY (Université Lyon « ), M. LUCARELLI (Université de Savoie Mont Blanc), B. MEAZZI (Université Côte d’Azur), Ch. MILESCHI (Université Paris Nanterre), E. MONTEL (Université de Lorraine), M. NOTA (Université de Bourgogne), C. PANZERA (Université Bordeaux III Montaigne), M. PAOLI (Université de Picardie Jules Verne), A. ROBIN, (Université de Lille), E. SANTALENA (Université Grenoble Alpes), F. SPAGNOLI (Université de Franche-Comté), S. TROUSSELARD (Université Lumière-Lyon 2), I. VIOLANTE (Université Paris I Panthéon Sorbonne), C. ZUDINI (Université de Rennes 2).

Calafiore – Arturo Belluardo

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Incipit del secondo romanzo di Arturo Belluardo

Quando ho aperto gli occhi, gli occhi non mi si sono aperti. Eppure sono certo di aver sollevato le palpebre, ma davanti a me solo un muro nero. Ho difficoltà a respirare, come se un foglio mi si fosse appiccicato alle labbra e alle narici. Provo ad alzare una mano per passarmela sul viso, ma le mani non ne vogliono sapere di muoversi, quasi fossero tenute ferme dietro la schiena da una morsa di ferro. Anche i piedi sono bloccati e il culo, il mio enorme culo roseo, non riesce a spostarsi da questa sedia. Ne sento il metallo attraverso la ridicola djellaba che Mauro mi ha costretto a indossare.

Mauro, quel finocchietto bastardo.

Mauro: ma è stato lui a portarmi qui?

Mi sento stringere la pancia in rotoli, come quando provo a farmi entrare a forza i pantaloni della stagione precedente.

Non posso muovermi.

E sono sveglio, sono sveglio, non è un incubo.

Grido, ma riesco solo a proiettare un rantolo impastato, zucchero filato dalla paura, terrore distillato in purezza.

Tremo, scuoto i miei muscoli, il mio grasso, cercando di liberarmi.

Mi sento di nuovo feto nel ventre, minacciato dalla madre che contrae la placenta per schiacciarmi, per espellermi da sé, per condannarmi alla luce.

Voglio piangere, per oppormi di nuovo alla nascita.

Invece rantolo.

Poi, d’improvviso. Poi, daccapo.

La bocca e gli occhi mi si spalancano, accecati da un neon verdastro. E uno schiaffo, che mi fa colare saliva e sudore.

Dove sono? Dove sei? Mamma?

“Adesso statti muto, se non ne vuoi un altro”.

La voce è femminile, giovane, quasi affettuosa.

Non distinguo le figure, la luce è violenta, non mi accoglie.

“Apri la boccuccia, da bravo”.

Un batuffolo di ovatta mi danza davanti, giro la faccia di scatto.

“E su, non fare i capricci”.

La ragazza cerca di artigliarmi le guance, ma il sudore le impedisce la presa.

“Ma come?”, con il tono stucchevole di chi si rivolge a un neonato. “Ti sei mangiato tutti quei tramezzini e fai tante storie per un po’ di cotone? E no, no, no, non si fa così”.

Mi chiude il naso con le dita e mi costringe ad aprire la bocca.

Il cotone idrofilo mi arriva quasi in gola e le labbra mi vengono incollate con il nastro adesivo marrone da imballaggi. Come quando chiudevo gli scatoloni di pratiche estinte da mandare all’archivio remoto di Anticoli Corrado. Dieci anni, poi il macero.

Respiro rumorosamente dal naso, mi cola muco grigioverde, mi sembra che il cervello mi stia uscendo dalle frogie, gocciolando dai peli sporchi di caccole.

Lo sguardo mi si va schiarendo.

Sono in un deposito per mobili, enorme, la saracinesca chiusa, un telo impermeabile sotto la sedia a cui sono legato. Cavi elettrici dall’anima di rame mi insaccano davanti e dietro, dall’alto in basso, torno torno la mia pancia, mi chiudono in un viluppo agganciato a un anello di ferro del pavimento.

Vicino alla parete, un ragazzo sta affilando un grosso coltello con una pietra rotonda e grigia, sembra pomice di Lipari. Le labbra increspate rivelano una fessura tra gli incisivi, zigomi e mento dolci, alla Kurt Cobain.

La ragazza mi guarda con un sorriso di scherno, la testa inclinata di lato, i ciuffi di capelli, azzurro improbabile, raccolti a ballonzolare, le orecchie curiose, quasi triangolari, da elfo. Sembra la fotocopia in piccolo di Cersei Lannister, una dea crudele nel corpo erotico di una nana. Mi sta riprendendo con un iPhone a pochi centimetri dal mio naso.

“Non accendi il fuoco?”, le vocali dilatate e strascicate del ragazzo me ne fanno riconoscere l’origine. È siciliano come me. E questo mi aumenta la confusione, la paura.

“È presto ancora, vero tesoro?”, mi fa la ragazza puntandomi sulla pancia un piede rivestito da un calzino di spugna girocalcagno. Mi ha usato la gentilezza di togliersi l’anfibio bordeaux Dr. Martens. Ciononostante.

Mi piscio addosso.

Le dita di Cersei stringono l’inquadratura sulla pozza gialla che si forma ai miei piedi, sulle gocce che si intersecano ai peli e alle varici dei polpacci.

“Che cattivone. Alla tua età ancora non trattieni la pipì? Hai bisogno dei pannolini? Un omone così grande, immenso. Hai paura?”.

La ragazza piega la testa, scende con il suo sorriso alla mia bocca, i ciuffi di capelli che mi asciugano il sudore sulle sopracciglia. Faccio di sì con la testa, dilatando gli occhi.

La ragazza scoppia a ridere, poi il sorriso si contrae in un ghigno, a lasciare scoperti canini di perla.

“E fai bene”.

Il neon si riflette sulla lama che mi scorre sulla pancia aprendosi un varco sulla tunica di cotone grezzo, sui peli, sulla pelle. E l’iPhone a due centimetri dallo squarcio che riprende tutto.

Alla prima riga di sangue, cerco di gridare, svengo.

E nel buio che mi risucchia all’indietro, dall’artiglio che mi trascina per la nuca, sento ripetere, soffice, il mio nome.

“Calafiore. Calafiore…”.


 

Arturo Belluardo è nato a Siracusa. Vive e lavora a Roma. Suoi racconti sono apparsi in antologie edite da Nottetempo e dal Goethe-Institut e sulle riviste Lo Straniero, Mag O, Succede oggi e Nazione Indiana. Con la sua opera prima, Minchia di mare (Elliot, 2017) è stato finalista al POP 2017, al Premio John Fante e al Premio San Salvo.

La poesia come esercizio d’estraneità

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di Andrea Inglese

[Il testo che segue è stato incluso nell’antologia curata da Gian Maria Annovi e Thomas Harrison Ends of poetry per la rivista “California Italian Studies”, Volume 8, Issue 1, 2018]

Non credo troppo alla fine della poesia, anche se tutto prima o poi finisce, a partire dal sole stesso, che come tutte le stelle dell’universo ha una data di scadenza. Non ci credo, perché esattamente come facevo io più di vent’anni fa con un poeta più vecchio e affermato di me, oggi un giovane trentenne mi spedisce il suo primo libro, o delle sue poesie inedite, nella speranza che io gli fornisca un mio giudizio o le pubblichi sulla rivista in rete a cui collaboro. Più di vent’anni fa non c’era la rete, e tutte le riviste erano cartacee, e inoltre era un poco più facile capire chi fosse o meno un poeta affermato nell’ambito della poesia.

Gli stati del racconto

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di Nicola Passerini

 

(disegno dell’autore)

 

L’inizio, evidentemente, non può che aver la forma della prima lettera dell’alfabeto, così come la piazza che fa da scenario alla vicenda, che quindi si può senz’altro dire che la piazza è l’inizio, e dopo la piazza, subito dopo, non può che esserci quello che succede in questo luogo, importante al punto che potrebbe essere l’effettivo inizio, rimandato e nascosto dagli altri, per questa esigenza di cui ora siamo impossibilitati a dar ragione che pretende l’introduzione anticipata di quello che in effetti, ed a tutti gli effetti potrebbe rimanere lì, non è che contorno, che, certo, finché c’è tanto meglio, ma anche anche non ci fosse tutto potrebbe reggersi altrettanto bene, che so, nell’aria, in una cristallina aria chiara per quanto difficile, così si legge continuamente sui giornali, difficile da trovare, a costo di doversi spostare di molto dai propri luoghi, e quindi dalla piazza, che ora che ci penso meglio, sembra proprio indispensabile, e che per fortuna c’è, e che, visto che c’è, tanto vale far cominciare tutto da qui. Dunque, l’inizio avviene nella piazza, con la piazza che prima di ogni altra cosa si mostra, della stessa forma della prima lettera dell’alfabeto.

La misura la si può prenderla com’è che la sia. Cioè tu vai giù di là, lungo il lungo corso ch’è poi piazza, un lato di essa, con al centro il corpo triangolare del palazzo del Municipio ch’è un cuneo che si slancia verso la città, la penetra al punto di farla soffrire e giunto al capo estremo, là dove si congiungono i corsi sotto l’arco, dove le due parti della piazza trovano finalmente il proprio corpo unico, mi getti una voce, ma che sia chiara al punto di poter calcolare la distanza, quell’eventuale differenza tra suono e luce, che prima ti vedrò aprire la bocca e solo poi udirò la voce, che poi se passa qualcuno, se s’intromette un qualche corpo, è evidente che bisognerà operare dei ritocchi, apportare le correzioni del caso. Oppure la si può esprimere in centimetri, o meglio in metri, giusto per contenere la cifra entro limiti dicibili, facilmente immaginabili, mediante l’utilizzo di uno spago mettiamo, che si tenderà da qui, dove il corso comincia dal nulla, non essendoci dietro di noi altro che l’alto muro dalle piccole aperture un tempo adibito a carcere, in cui ora studia tristemente un nugolo di adolescenti informi, che una volta in forma chissà cosa ti diventeranno, se avvocati, dottori, ladri o assassini, ma comunque si ricorderanno sempre della piazza che si intravedeva dalle finestrelle, e non gli riuscirà mai di spiegarsi perché hanno passato tutto il tempo al cospetto della forma della prima lettera dell’alfabeto, quando poi in effetti il loro ingresso avveniva da una porta situata in un vicolo stretto che se ne allontana tortuosamente seguendo il proprio corso indifferente. Comunque dalle mappe catastali, te lo dico io questo, risulta che il lato misura la bellezza di centodiciannove metri e sessantatré centimetri.

I personaggi, chi più ne ha più ne metta, e se non li si ha ci si rinuncia, fatto salvo il caso in cui ciò avvenga per un improvvisato sciopero, che sia mio o tuo poco importa, tanto è sempre la stessa barca quella che si trova in balìa del mare, che per portarla finalmente a terra, oh finalmente!, bisognerà trovarlo un marinaio qualsiasi, ed una volta trovatolo non è mica che si possa metterlo lì così com’è che bisogna pur dargli nome, dirgli delle cose ed altre farsene dire, ed en passant, visto che ormai ci si è entrati in contatto tanto vale farci pure amicizia, con tutto il carico di problemi che questo comporta, che tanto li portano tutti dei problemi sulle proprie spalle, a pacchi che s’accalcano sulla schiena, e poco importa se l’eroe principale di quella vicenda per cui sei venuto a chiedermi qualche personaggio, oh, a proposito, ti servono ancora?, sia grande condottiero o piccolo tamburino, venga dall’ovest o dalla piazza a forma di prima lettera dell’alfabeto che mi sembra sia stata indicata altrove come probabile inizio di una storia, quella stessa piazza da cui, una volta che sia stata ben bene misurata, con la massima accuratezza possibile al momento data la ristrettezza dello spazio libero su questo tavolo, possano partirsi alcuni figuri che a tutt’oggi risultano ancora ignoti, sconosciuti. Oserei dire invisibili. Ma non te ne devi rammaricare. Pensa che tanto nessuno potrà mai vederli apparire nel corso di questa avventura, che non sarà un caso che se ne va dritta dritta a finire intrecciata nella giungla.

L’ironia è, e non può essere altrimenti, quella acida corrosiva che sola riesce a pervadere una scena vuota, che non è in grado di applicarsi ai particolari, anzi la rifiuta, la minutaglia fatta di tante piccole prese di posizione ironiche su questo e quest’altro, che so, un personaggio oppure un luogo deputato all’azione, o l’azione stessa che dovrebbe a conti fatti contenere o mostrare l’estro ironico dell’attimo che tuttavia alla fin fine sfugge, e quindi niente più attimo, niente più ironia. Non l’ironia quella crassa di una battuta del dialogo, né quella ricercata di una acconciatura buttata là, sulla testa, giusto a creare quel non so che di perturbante, e ci si passi l’uso del termine, giocato com’è sulla testa di un povero sconosciuto, bensì quella inutile e persistente, pesante se vuoi, che entrata in azione, si fa per dire, si posa su tutte le cose, ristagna al punto di creare vuoti d’aria in cui s’avverta il suo odore, quel greve caratteristico puzzo che accompagna l’ironia ogni qual volta la si costringe al chiuso di una stanza, come per esempio quella dove sei adesso tu, e non venirmi a raccontare del tuo tetto di stelle, dove la puoi finalmente toccare, la tua ironia, quella particolare dose personale che ti accompagna, appollaiata nelle pieghe dei tuoi abiti, anche quando sei all’aperto, convinto di averla finalmente abbandonata al proprio destino, sicuro di non dovertene più preoccupare, di questa ironia della vita.

 Il pathos molte volte lo si va a rintracciare in alcuni, più o meno grossi, stravolgimenti del vivere quotidiano, quelli che più di ogni altro sfuggono alla meccanica della vita, quelli per cui ci si inventa una propria interiorità, una sorta di via d’uscita provvisoria, nel senso che poi ci si rientra, nella vita come nel pathos, che se dovessimo renderlo in maniera visibile, come dire nel suo farsi sostanza, non ci viene niente di meglio che indicare un purè di patate, quel piatto in ci tutta la sofferenza possibile si è travata a lottare contemporaneamente con se stessa con un passino con il ribollire dell’acqua che lessa i sentimenti, con la incurante semplicità dei movimenti rudi di mia nonna che sminuzza con una forchetta quell’una volta tondeggiante tubero che ora grida la sua disperata passione nel ridursi ad una melma indecisa tra solidità e liquidità. E non è stato per caso che una volta finito nel mio piatto io continui a modellarlo e rimodellarlo nella forma della prima lettera dell’alfabeto, incredulo della sua duttilità, incapace di creare quel distacco necessario a cibarmene, lamando quella paccottiglia al punto di farne la piazza centrale di una città, luogo d’incontro e di fuga di una numerosa congrega di invisibili testimonianze della passione di vivere a questo modo, iniziando cose di cui bisogna poi prendere le misure, perché non svaniscano, lasciando i personaggi a vagare nel vuoto, così colmo d’ironia da poter esplodere da un momento all’altro dando modo alla passione di presentarsi, e presentarsi ancora una volta.

L’intreccio ha molteplici funzioni, ed ogni volta ci si trova costretti a specificare ciò a cui ci si riferisce, come ad esempio, giusto per prenderne uno tra i più vicini, nelle sedie impagliate, in cui esso dà sostegno a chi la utilizza, ed allo stesso tempo la tiene insieme, evitando che torni a dividersi nelle parti di cui è composta, le quali finirebbero per mostrarsi prive di senso, come provare a servirsi della gamba di una sedia, di cui poi si potrebbero dare un’infinità di usi senza riuscire più a toccare, soltanto sfiorare, quello per cui si è preparata per tutta la vita: spaccare la testa, ad uno ad uno, a tutti questi personaggi che continuano ad affollarsi qui intorno, senza per altro mostrarsi, privi di ironia per se stessi come sono, incapaci di uscire allo scoperto rivelando finalmente le proprie passioni, a farne l’unità di misura di una storia ambientata in un posto qualsiasi come potrebbe essere una piazza del Municipio a forma di prima lettera dell’alfabeto o questa giungla umida e contorta in cui mi trovo da parecchio tempo, privo di ricordi ormai se non quell’assillante immagine di una piazza in cui poter incontrare gente da poter riconoscere, con cui dipanare lo stretto intreccio delle mie passioni, un grumo denso e scuro, privo dell’ironia necessaria a prendere la misura della distanza da qui a quello sconclusionato inizio.

 

(disegno dell’autore)

L’effimero che fonda il perenne. Sciamanesimo, Arte, Letteratura

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di Giuseppe A. Samonà

 

Le nove porte, riflessione a più voci sulle relazioni fra lo sciamanesimo e l’arte contemporanea, è un libro sontuoso eppure discreto, e brillante, unico: proprio come Romano Mastromattei, l’autorevole studioso di sciamanesimo – nonché finissimo conoscitore di arte contemporanea – che con le sue ricerche ne è stato il principale ispiratore; e anche, materialmente, l’autore di ben quattro dei quattordici contributi che lo compongono, insieme a molte delle foto che li accompagnano. Lo sciamanesimo, con le manifestazioni estatiche e di possessione che lo contraddistinguono, è in senso largo una galassia che secondo non pochi studiosi (uno su tutti: Mircea Eliade) ha un’apertura, una vocazione universale.

Scuola o mai più

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di Pino Tripodi

Gli studenti, i giovani – a sentire i tempi e i padri – appaiono anestetizzati, una carovana di moribondi in viaggio verso la fine. Sono inetti, ignoranti, sciocchi, superficiali, maleducati, delinquenti, fannulloni, narcisisti.

La sciocchezza del paradigma passatista li tratteggia così. I passatisti hanno sempre raccontato  frottole simili per brillare di una fiammella fatua prima di scomparire sotto l’incalzare delle nuove generazioni.

Il vecchiume tenta di resistere alla propria morte. Ci sta, ma chi è affetto da vulgata passatista scoraggia ogni anelito di vita non solo perché non sopporta di diventare vecchio ma per la semplice ragione che non è mai stato giovane. Nella non esistenza dei figli trova motivo di vitàlità, pretende dai giovani ciò che da giovane non è mai stato.

 

Il secondo paradigma, altrettanto sciocco, è quello scientista. La scuola, il lavoro, sono residui arcaici di un mondo che scompare sotto la forza progressiva del cloud, dell’infosfera e delle tecnologie. Le vite amorfe, la retorica e i costi della formazione permanente, i mille lavoretti in attesa di qualcosa che assomigli a un lavoro, la fatica di Sisifo per acquisire autonomia e indipendenza sono solo transitorie pagliuzze che si traformeranno in oro colato appena il nuovo avrà finito di trionfare.

Intanto a ciascuno è richiesto di lavorare gratuitamente giorno e notte, veglia e sonno, scuola e tempo libero, nel consumo come nella produzione, volontariamente o involontariamente, non per se stesso, per gli amici, per la famiglia, per la comunità o per il Paese – tutti residui preistorici – ma per facebook, amazon, google, alibaba e altri vettori lesti a istigare e a catturare il desiderio compulsivo globale.

 

Prima che le scioccheze si autoavverino è tempo di ribellarsi allo stigma in cui la contemporaneità si è vista cacciare. Senza l’immediata pretesa di distruggere un nemico impalpabile. Il ribelle prima ancora di trasformare il mondo desidera trasformare se stesso, la propria vita, le proprie condizioni materiali e spirituali. Senza trasformazione del sé il mondo diviene sempre peggiore.

 

E allora per prima cosa occorre controvertire le sciocchezze precotte del passatismo e dello scientismo.

Non è vero che gli studenti, i giovani sono più maleducati, sciocchi, fannulloni, ignoranti, narcisisti di queli di ieri.

Non è vero che gli studenti e i professori sono meno preparati.

Non è vero che sono tutti dipendenti dalle droghe e dallo smartphone.

Non è vero come non lo è qualsiasi generalizzazione.

Dire tutti è un modo stupido per colpire la dignità di ciascuno.

Non è vero, soprattutto, che la scuola non serve a niente. Che sono altre ben più potenti le agenzie formative che contano.

 

Occorre invece rivendicare con orgoglio un’idea: mentre tutte le altre istituzioni rischiano di sciogliersi nell’acido muriatico dell’insensatezza e della confusione, la scuola, le università devono riprendere ad avere il ruolo che gli è stato spesso consono: territorio franco di formazione della soggettività prima e oltre il suo utilizzo come mera macina di lavoro, di profitto, di consenso, di conformismo, di strapotere, di macchina del desiderio compulsiva tanto più egoica quanto più servile.

Prima di ogni altro prima c’è il sapere, ci sono le scuole, le università.

Occorre rivendicare alla scuola e all’università le funzioni di argine che ripara dall’ignominia, di luogo teso ad unire ciò che nel resto della società viene diviso, di palestra in cui ci si allena a cooperare anziché a competere, ad attutire le ingiustizie anziché a esaltarle, a far leva sulla differenza proprio mentre si esperisce l’eguaglianza.

Nonostante tutti i difetti, le malefatte e i vuoti le scuole e le università rimangono il migliore dei mondi possibili.

 

Il resto della società non se n’è ancora accorto.

Sputa continuamente sulla scuola, la considera, al pari dell’Europa unita, l’origine di tutti i mali. Da decenni tutti gli sciocchi, al potere e all’opposizione, fanno gara per anestetizzare la scuola e gli altri luoghi del sapere. Il perché prescinde dalla volonta, ma è evidente. Solo una scuola inerte e ignava garantisce l’alta velocità dell’oppressione sociale, rende possibile a tutti gli incapaci di sollevare la clava della meritocrazia per acquisire clientele e potere.

 

Tocca a chi vive nella scuola e nelle università acclarare l’evidenza. Basta poco. Basta togliere alcune pagliuzze che rendono impossibile osservare la verità. Basta realizzare ciò che per i più è più che ovvio. Basta interdire ogni scambio simbolico tra perfezione della legge e orrenda miseria della sua consustanzazione.

 

Basta che gli studenti e i professori, i singoli e gli organismi collettivi, i collegi dei docenti e le assemblee degli studenti si decidano – pur anche in conflitto tra di loro – a re/agire. A riprendere in mano il corso della propria vita, ad abbandonare l’inerzia, lo sconforto, la depressione, l’accondiscendenza, la rassegnazione, l’attesa della fine.

 

Per ri/cominciare, di seguito vengono presentate delle proposte immediate e semplici.

Si tratta di una piattaforma minima emendabile, bisognosa di ulteriori ragionamenti e proposte magari più efficaci, creative e sovversive.

Non è importante condividere tutto.

Essenziale è gettare un sasso nello stagno. L’importante è ribellarsi alla morte sociale nella quale il sapere è stato relegato.

La colpa più grave che si ha quando si è oggetto di uno stigma così diffuso è quella di non ribellarsi.

 

 

Per iniziare

 

1) Rendere scuole e università libere da smartphone. Studenti, professori, tecnici, all’ingresso delle scuole e delle università depongono le armi, cioè consegnano il loro dispositivo e ne riprendono possesso solo al termine delle attività.

Rifiutiamo di vivere nello smartphone e per lo smartphone.

 

Ogni tecnologia produce un tipo umano, un’antropologia specifica. Lo smartphoner è un individuo sempre disponibile e volontariamente connesso, un lavoratore gratuito per il quale ogni cosa del mondo è tanto a portata di mano da renderla distante anni luce, ogni presenza è distanza abissale, ogni informazione concorre a formare un’ignoranza pregenetica.  La connessione perpetua è alienazione pura.

Anche dal punto di vista affettivo, la disponibilità 24 ore al giorno è devastante.

Per limitare la dipendenza, la distruzione di massa e i disturbi dell’attenzione questa pratica è magari individualmente dolorosa ma socialmente inderogabile.

 

2) Al di là delle valutazioni classiche – dei professori, degli studenti, sempre a garanzia d’arbitrio –,  e delle autovalutazioni – da incentivare per favorire la corrispondenza tra obiettivi e risultati, non per incutere sensi di colpa -, fondare un sistema di valutazione dei gruppi classe/corso e dell’istituzione scuola/università nel suo complesso.

 

Le valutazioni sia degli studenti sia dei professori dell’intera classe/corso e della scuola/università tendono a dare maggior rilevanza al fattore di relazione, di socializzazione e di cooperazione, vere chiavi del processo formativo.

 

3) Scuola aperta anche di pomeriggio e spazi universitari disponibili per attività volontarie e autogestite di studio, laboratorio, sport, musica, produzioni multimediali.

 

4) Stop alla medicalizzazione degli studenti. Basta con  PDP, PEI,

BES, DSA. Le sigle come le file aumentano in misura direttamente

proporzionale alla stupidità e all’oppressione.

 

  5) Esodo  di massa dai social network esistenti e fondazione di  altri

media non proprietari, non invasivi e non distruttivi per la mente e

per i corpi delle generazioni al presente e a venire.

 

6) Assegno crescente per gli studenti che superano la soglia dell’obbligo scolastico. Anzichè pagare – e indebitarsi a vita come succede se si frequentano certe università o master post laurea – si viene retribuiti per studiare. Inoltre, più si procede negli studi più si guadagna.

 

La proposta tende a rovesciare la piramide delle priorità degli ultimi decenni, a cambiare paradigma sociale e temporale.

A dispetto delle norme vigenti, e dell’ideologia meritocratica imperante, si va tornando rapidamente alla scuola di classe. I ricchi accedono a un livello formativo alto, i poveri inferiorizzati e medicalizzati si vedono confinati nello stagno nel neoanalfabetismo. Inoltre, chi riesce con grande fatica a superare gli sbarramenti sociali accedendo a livelli formativi alti, ha la necessità di indebitarsi fino alla follia nella speranza che al ventesimo master possa trovare un simulacro di lavoro.

I governi si preoccupano di pensioni. Pensioni che nel rovesciamento della piramide sociale proposta andrebbero limitate a esclusivo beneficio della popolazione che indipendentemente dall’età è impossibilitata a svolgere qualsiasi attività.

La vecchiaia non è solo un problema anagrafico. La vecchiaia che fa male all’Europa è quel mostro che divora i propri figli.

 

7) Istruzione, cultura, ricerca nel budget degli stati diventino la prima voce di spesa in rapporto al PIL. Quando ciò accadrà, il presente sarà migliore.

 

Le proposte avanzate e le altre che matureranno non sono oggetto di nessuna richiesta, di nessuna trattativa.

Chiedere a qualcun altro di cambiare il mondo è ridicolo.

Non chiedere niente è il modo più efficace per cambiare tutto.

 

Pino Tripodi

                  

 

 

 Nota Bene: I lettori di questo testo sono vivamente pregati – per utilizzare una parola antipatica: diffidati – di non farlo circolare su facebook, watsapp, linkedin, instagram, twitter.

Il contenuto si squaglia nel mezzo.

Possono a loro piacimento discuterne direttamente in colloqui, riunioni, assemblee, manifestazioni pubbliche, occupazioni, insorgenze. Possono beninteso diffonderlo liberamente via posta, mail, giornali, riviste, radio, volantini, manifesti murali.

 

 

La metà di bosco

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di Edoardo Zambelli

Laura Pugno, La metà di bosco, Marsilio, 2018, 139 pagine

…Salvo si sentiva stranamente sereno, come non gli capitava da giorni. Sapeva cosa doveva fare, ed era come se fosse passato in un altro mondo, retto da altre leggi. L’ospedale, Lili, Adele, la sua vita, tutto ora era presente e sfocato allo stesso tempo, come una fotografia, qualcosa che ha fissato su carta, o fermato nella materia viva e impalpabile degli schermi, un tempo che è accaduto ma che non per forza continua ad accadere o esistere ora.

Salvo è un medico, lavora all’Unità del Sonno, e da qualche tempo non riesce a dormire. Ha una moglie da cui è separato e una figlia che vede poco. Costretto a prendersi una pausa dal lavoro – la mancanza di sonno inizia a comprometterne l’efficenza -, su suggerimento di un amico decide di fare un viaggio, di andare a stare per qualche tempo su una piccola isola greca, Halki, che ha visitato da giovane e di cui conserva piacevoli ricordi. Il ritorno all’isola sembra fargli bene, ricomincia a dormire, e bene gli fa anche la vicinanza con Nikos e Cora, due adolescenti, anche loro lì in vacanza.

Questa è la situazione d’avvio dell’ultimo romanzo di Laura Pugno, La metà di bosco, che parte con un passo lento e dimesso – ma un po’ tutto il narrare di Laura Pugno è così -, descrivendo un piccolo microcosmo in cui sempre è centrale il rapporto tra l’uomo e la natura che lo circonda, portando avanti una routine – quella del protagonista – fatta di piccoli gesti, comportamenti ripetuti, rapporti sfumati.

La quiete del recupero di Salvo – e della vita sull’isola – viene spezzata dall’improvvisa morte di Cora, uccisa durante un gita notturna al vicino isolotto di Krev in compagnia del fidanzato, Nikos. Inutile qui continuare a raccontare una trama che da lì in poi prende una piega che sconfina nel fantastico. È importante però segnalare che l’evento delittuoso non è di per sé il motore della trama, lo sono piuttosto le sue conseguenze: il confronto di Salvo, e Nikos, e di tutti i personaggi con la morte. Anzi, con i morti.

Guardandosi indietro a romanzo finito, si ha quasi l’impressione di aver letto una favola, la cui morale è da ricercare nella risposta ad una domanda: quanto è bene rimanere attaccati a una persona perduta? Quello che all’inizio può essere sollievo diventa, a lungo andare, veleno. In buona sostanza ci racconta una storia universale, abitata dalle presenze che tutti, in un modo o nell’altro, siamo prima o poi costretti ad ospitare: le presenze di chi non c’è più.

A confrontarsi con la perdita, Laura Pugno mette in scena tutto un insieme di solitudini. I personaggi, anche quando sono insieme, non sembrano mai davvero “appartenere” l’uno all’altro, si incontrano – e in certo modo si scontrano – ma solo per brevi momenti, pur lasciandosi addosso segni importanti.

Tutto questo per Nikos faceva parte del lutto, pensò Salvo, era un modo di lottare con il dolore, di sentire una vicinanza con Cora, come se non l’avesse abbandonata e lei in qualche modo, in quel luogo lontano da tutto, quell’isolotto dimenticato, fosse ancora con lui. Presto Nikos sarebbe tornato in sé, avrebbe capito l’inutilità del tentativo. Non c’era modo di insegnargli la morte, doveva impararla da solo.

La metà di bosco è un romanzo splendido, la bravura di Laura Pugno sta sempre, a mio avviso, nella capacità di unire la ricerca linguistica ad un forte senso della trama e del romanzesco. La narrazione non è mai frenetica, le svolte, anche quelle più drammatiche, arrivano quasi come carezze – questo anche grazie ad una lingua che è sempre precisa e tersa, non fa mai troppo né troppo poco. Il suo è un raccontare che è un prendere per mano il lettore e con passo lento portarlo in un mondo altro, fatto spesso di dolori profondi, di lutti, un territorio selvaggio (per citare il titolo di un saggio della stessa Pugno, uscito per l’editore Nottetempo) in cui, proprio per la delicatezza del narrare, viene voglia – e direi addirittura che viene facile – perdersi.

 

L’amore nella terra guasta. Su Fuoco al cielo Di Viola di Grado

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di Marilena Renda

Robert Del Tredici, Maids of Muslyumovo

Muslyumovo, negli Urali del sud, è uno dei posti più radioattivi al mondo. Per anni, le scorie nucleari prodotte dal vicino impianto di Mayak sono state gettate nel vicino fiume Techla, da sempre utilizzato dalla popolazione per bere, lavarsi, irrigare i campi, pescare, fare il bagno d’estate. Nel 1957 un incidente a Mayak ha contaminato un’area all’incirca di 20.000 chilometri quadrati; una tragedia nucleare seconda solo a Chernobyl, che spinse le autorità sovietiche a mantenere il segreto su quanto stava succedendo nei dintorni della loro centrale nucleare e a creare una vera e propria “città segreta” i cui abitanti erano pagati per mantenere il silenzio sull’accaduto. La nuova Muslyumovo sorge a pochi chilometri dalla vecchia; i suoi abitanti ricevono un sussidio dal governo, ma la media dei malati di cancro è molto più alta della media nazionale e altissima è la percentuale di bambini che nascono con difetti congeniti o ritardi mentali.

Tamara e Vladimir vivono insieme a Muslyumovo, che come tutti i villaggi intorno alla città segreta è un villaggio chiuso. Vladimir è un infermiere che viene da Mosca e dopo aver incontrato Tamara ha scelto di restare malgrado le radiazioni. Tamara ha perso i genitori molti anni prima; i suoi genitori dragavano il fiume e si sono ammalati, lei è sopravvissuta. Tamara insegnava scienze nella scuola di Muslyumovo: dopo aver incontrato Vladimir ha smesso, e adesso la scuola è in stato di abbandono, le piante crescono tra le assi del pavimento. Tamara e Vladimir sono i protagonisti di Fuoco al cielo, l’ultimo romanzo di Viola Di Grado (La nave di Teseo, pp. 233, 19 euro), e finora il più estremo, il più radicale.

Cercando notizie su Muslyumovo, mi sono imbattuta in una foto di Robert Del Tredici che ritrae un gruppo di ragazze del villaggio. Sono eleganti, un po’ rétro, guardano con aria preoccupata altrove rispetto all’obiettivo tranne una, magra, dal volto affilato, che guarda dritto in camera. Qualche anno fa un altro fotografo, Robert Polidori, fece un importante reportage nella zona d’esclusione di Chernobyl, i trenta chilometri attorno alla centrale da cui la presenza umana è stata bandita. Quello che le foto di Polidori mostrano è un prevedibile paesaggio di case, scuole e luoghi di ritrovo abbandonati; quello che non mostrano è come la natura – lupo grigio, lontra, aquila americana, specie animali da tempo scomparse da quei luoghi – abbiano ricominciato a ripopolare la zona d’esclusione, decretando di fatto una rivincita della natura. Tamara e Vladimir si amano come due sopravvissuti all’umanità, come due che sanno che non c’è più spazio per un amore sano in una terra guasta.

“Vladimir doveva saperlo. Doveva saperlo, Cristo santo.
Nel suo corpo non poteva crescere niente di buono. Il suo corpo aveva il DNA marcio, era come un vecchio stupido albero, abbandonato dal sole e dalla terra, un albero che aveva succhiato plutonio tutta la vita. E poi aveva trentanove anni”.

Nel Novecento, l’archetipo della terra malata era La terra desolata di Eliot, con il senso di minaccia di cui si fa portavoce l’indovino Tiresia, l’uomo-donna veggente cieco capace di predire il futuro. C’è un cieco anche qui, l’ex direttrice dell’orfanotrofio accecata dal diabete. Rimasta anche lei per amore nel villaggio, cominciò a sognare “ombre nere che riempivano le strade”, e diventò lo spauracchio dei bambini, che la scambiavano per un fantasma.

Per Tamara e Vladimir il punto di non ritorno è la nascita di un bambino nato morto di Tamara, che all’inizio è riluttante ad accettare la gravidanza, ma dopo la morte del neonato non riesce ad elaborarne la perdita. Smarrita negli incubi e infragilita, trova nella foresta un essere mostruoso e inizia a prendersi cura di lui, fino al tragico epilogo. L’amore nella terra guasta è così, produce frutti che provocano insieme gioia e spavento.

“Dopo un mese Vladimir le chiese di trasferirsi da lui, ma lei disse: “Assolutamente no”. Voleva restare nella casa in cui era cresciuta, in cui sua madre le aveva raccontato la sua ultima favola della buonanotte, quella del corvo che rivela agli inuit che nel resto del mondo esiste la luce. Nella casa vicina al cimitero, così suo padre e sua madre non erano mai veramente lontani e le sue preghiere notturne arrivavano a loro tutte intere.
L’ultimo giorno del 1992 Vladimir si trasferì da lei, nel quartiere vecchio, nella casa dei suoi genitori e dei suoi nonni. Una casa cadente a centocinquanta metri dal fiume maledetto, dove il vento graffiava il vetro sottile delle finestre e il pattume radioattivo saliva dal fondo dell’acqua, rimestato dalle vacche che ci andavano a bere.
[…]
Si trasferì e non se ne andò più.
Quando lei usciva per andare al lavoro, il fondotinta sulla faccia, l’ombretto glitterato, lui sentiva uno strappo, come se fosse tornato bambino e non avesse modo di stare solo.
Sedeva sul divano, una rivista di automobili addosso, senza riuscire a leggerla, pensando alla bocca scura di Tamara e alle sue gambe lunghe, alla sua risata rauca, alle sue mani fredde, sentiva una miscela confusa che era gioia, ma non poteva saperlo, perché la gioia si riconosce solo da lontano, quand’è passata per sempre”.

Viola Di Grado ha un enorme talento, visionario e struggente. Il libro precedente, Bambini di ferro, metteva insieme infanzia e fantascienza in modo molto originale; Fuoco al cielo viene da lì, ma va molto oltre, a partire dalla scrittura, che rispetto ai libri precedenti è rastremata ed essenziale in modo direi brutale. Leggerlo, soprattutto nella parte iniziale, è stata una vera sofferenza fisica: Fuoco al cielo è un libro che fa male al lettore (ricordati l’ascia di Kafka, mi ha detto giustamente l’autrice). Mi sono fatta forza nonostante il disagio fisico, sempre tenendo in mente l’ascia di Kafka, ma il disagio non è diminuito, segno di un’ascia andata perfettamente a segno. D’altra parte, anche Kafka è una medicina amara ma prodigiosa.

controversoincontro (#2)

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di Giacomo Sartori

Dimmi ch’è successo

dimmi ch’è successo
qui tutti schiattano
o s’ammalano
da quando hai fatto
irruzione
è un eccidio
in men che non si dica
Andrea è andato
(mollando tutto a mezzo!)

ATLANTI INDIANI #02 Terrae Motus [Aquila 2009-2019]

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A dieci anni dal terremoto dell’Aquila abbiamo raccolto in questo Atlante gli articoli pubblicati da Nazione Indiana sul tema. Dopo tanto tempo la rabbia e la dignità offesa degli aquilani sono le stesse che nel breve cortometraggio “L’Aquila è nostra” di ⇨ Luca Cococcetta li spingono ad abbattere le transenne della zona rossa e a gridare con sdegno contro gli speculatori che ridevano all’idea dei profitti da ricavare con la ricostruzione, in questo stesso paese corrotto, con gli stessi governi inadempienti che si sono succeduti negli anni.


Autoritratto con sisma di Gianluca Gigliozzi

«Ma in quelle ore di lunedì 6 aprile io ne vedo le rovine e le macerie da spettatore, e a tratti non la riconosco nemmeno come la mia città: la città delle mie lunghe passeggiate, dei dislivelli e dell’eterogeneità spaziale che mi hanno segnato e formato nel profondo.» [16 Maggio 2009]


«“Recupero beni”, si chiama, quando, un po’ umiliata, ti metti in fila aspettando che i pompieri, come si chiamavano una volta, ti accompagnino nelle tue quattro mura trafitte, e speri che ti lascino un po’ di più, un po’ di più dell’altra volta, a strappare ai calcinacci qualche pezzo della tua vita precedente.» [22 Giugno 2009]

Ho dovuto prenderla di Anna Tellini


Terremoto di Elena Rapisardi

«Cosa succede quando persone, le più eterogenee e disparate, da parti diverse del paese, si trovano, si incontrano, dormono con persone sconosciute, maschi e femmine, stanno insieme, lavorano per raggiungere un obiettivo comune e condiviso?» [28 Giugno 2009]


«Noi aquilani siamo stati gl’involontari – e sino ad ora almeno in parte inconsapevoli – protagonisti dell’apicale esplicitarsi della forza, dell’influenza e della capacità di distorsione che i massmedia hanno raggiunto in Italia.» [13 Luglio 2010]

Cos’è L’Aquila oggi di Enrico Macioci


La rivolta delle carriole di Riccardo Pensa

«Era il 28 febbraio 2010, la prima manifestazione delle carriole, un’iniziativa spontanea, fisiologica, con la quale gli aquilani hanno voluto esprimere, in un senso molto materiale, la volontà di riprendere in mano il proprio destino.» [22 Luglio 2010]


«Prevedibile, non è prevedibile mai», così il Sismologo di Fama, il Direttore dell’Istituto deputato ad occuparsi di terremoti e dei movimenti interni del nostro pianeta in generale. Così sì che si sintetizza bene la scienza della sismologia, quella che si vorrebbe invece sentir dire «questa zona è sicura», «quest’altra meno.» [29 Maggio 2012]

. . . non è prevedibile . . . di Antonio Sparzani


Le (r)esistenti STORIE DI 27 DONNE AQUILANE

«Una giornata a L’Aquila 27 donne raccontano: «Non te ne vorresti andare mai. Anche se devastata, l’Aquila è ancora così bella che amiamo pure le sue cicatrici (Anna Lucia Bonanni)» [22 Aprile 2012]


«Sei anni fa la catastrofe che tutti conosciamo. E la città fu prontamente soccorsa da eserciti nazionali, eserciti di volontari, invasa, quindi. Oltre che le casette rusticane nei paesini, i condomini impersonali delle periferie e agli antichi palazzi che adornavano il suo centro, la sua identità s’è danneggiata, compromessa, s’è persa.» [13 Giugno 2015]

La città di frontiera #0 di Alessandro Chiappanuvoli


Hai sentito il terremoto. Memorie dal sottosuolo di Davide Orecchio

«Si potrebbe cominciare dalla notte. E da una ragazza. Sei anni fa. All’Aquila. Esce dalla Casa dello studente. È aprile. La primavera già lenisce il freddo e il buio dove s’incammina quando le appare “un fenomeno molto strano”, e lo ricorderà, e lo riporterà: verso Coppito affiora la luce intensa di un colore blu, ma una luce “che non viene dall’alto”, come un fulmine che sgorghi dalla terra, rovesciato.» [20 Aprile 2016]


«Per suturare le ferite del territorio il governo italiano deve partire dalla ricerca. Ricostruire per ricostruire, nell’emozione dell’emergenza, senza una visione, una pianificazione che copra l’arco di almeno due generazioni, non serve a niente. Che me ne faccio di un borgo riedificato dov’era e com’era se non so garantire l’economia che lo tiene in vita? » [11 Settembre 2017]

Abitare l’Italia fragile di Gianni Biondillo

[ a cura di ⇨ Orsola Puecher]

 

ATLANTI INDIANI

Lettera a scrittori, aspiranti scrittori e presunti critici

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di Lettore Anonimo

(Un giovane lettore, 19 anni, che vuole restare anonimo, ha inviato questa lettera chiedendone la pubblicazione su Nazione Indiana. Anche il titolo è dell’autore. La pubblico aggiungendo due righe di considerazione alla fine. d.o.)

Gentili Signori e Signore,

l’anonimato che mi garantisce la qualifica di Lettore Anonimo mi permette di parlare a nome di un intero esercito di lettori, e di farlo con schiettezza. Farò in questa sede quanto voi ambite a fare nelle vostre opere: parlare a nome di tutti. Rinuncerò al mio nome per amore della verità – che è sempre qualcosa di più grande di noi, del nostro misero nome – e rinuncerò così a qualsiasi forma di narcisismo. D’altronde, perché vi affannate tanto a sognare il vostro nome pubblicato in grandi lettere su una qualche copertina? Cosa sono i nomi, se non squallidi sudari, soprattutto quando il corpo che ricoprono è cadaverico e senza vita? Potrete persino ricoprire i libri che scrivete con i vostri nomi, ma se nessuno li legge, chi potrà perpetuarvi nella memoria dell’umanità?

La verità è questa, cari autori: noi, esercito di lettori senza guida e senza comandante, vogliamo un re da incensare, un uomo di cui tramandare il ricordo e le gesta. Ma mi duole deludervi; non mi riferisco a voi, al vostro nome, bensì a un libro. Noi vogliamo che siano i libri a guidarci. Le pagine, la carta, vogliamo che ci indichino una strada, che ci dicano “Là, umanità, è dove siete diretti”. Vogliamo delle nuove tavole della Legge, smarriti come il popolo ebraico nel deserto. Mai come ora percepiamo l’assoluta necessità di comprendere l’anima del mondo, e chiediamo che sia un libro, un vero libro, a mostrarcela, a mostrare cioè la nostra immagine riflessa nello specchio.

Nel retro di copertina, cari scrittori, non vogliamo le vostre facce, le vostre barbe da intellettuali, o le vostre chiome sensuali. Non sappiamo che farcene. Noi vogliamo la nostra faccia rappresentata nel libro, la nostra anima, chi siamo e chi saremo. Vogliamo che ci rappresentiate. Se volete, è una sorta di voto di scambio: noi compriamo la possibilità di essere rappresentati in un grande parlamento. Ogni lettore avrà le sue esigenze, e avrà diversi interessi, e chiederà a voi autori, ad alcuni di voi, di rappresentarli in questo parlamento che sono le librerie. Così fra voi vi saranno giallisti, vi saranno poeti, e autori di romanzi rosa, di formazione e storici. E noi, cari scrittori, noi esigiamo che siate all’altezza delle nostre aspettative, perché voi siete al nostro servizio.

E voi, uomini e donne dalla dura cervice, vi chiederete cosa vogliamo di preciso in un libro, poiché probabilmente non l’avete ancora compreso. Non abbiatene vergogna, noi lettori siamo pazienti, altrimenti ci saremmo già fermati agli incipit dei vostri romanzi, e non saremmo stati in grado di leggere oltre la prima pagina. Cosa vogliamo allora? La vita. Niente di più che la vita. Questa cosa un po’ tragica, contraddittoria, questa materia che brucia e che non riuscite a toccare senza mettervi i guanti, questo istinto insaziabile che non si lascia governare dalle redini della vostra scrittura. Questa cosa che vi fa paura, e di cui non c’è traccia nelle vostre opere. Perché siete pavidi, o non siete all’altezza del nostro più intimo desiderio.

Scrivete con la stessa lemma boriosa e annoiata di un notaio o di uno scribacchino, come se fosse un lavoro fra tanti. Vi rifugiate in questo ruolo professionale, e a volte accademico, perché in fin dei conti avete paura. Di noi, della tragedia, della vita. Soltanto quando avrete paura di quello che state scrivendo, e ciononostante proseguirete nella scrittura, soltanto allora saremo certi che state scrivendo un buon libro. E noi vogliamo buoni libri.

Vedete, voi ricercate l’originalità, cercate a tutti i costi di essere originali. Ma questa vostra ossessione è l’ennesima conferma del vostro narcisismo, perché così facendo volete solo dimostrare di essere stravaganti, unici. Della qual cosa, in tutta franchezza, non ce ne può fregar di meno. Per una volta abbandonate voi stessi, la vostra identità, diventate folli! Lasciate che sia la vita a dettarvi le parole, la trama, e non la vostra storia personale, la vostra infanzia, vostra suocera. Per questi problemi hanno inventato gli psicanalisti, tormentate loro e lasciate in pace noi.

Dimenticatevi di voi, ricordatevi di noi! Di noi che siamo qua smarriti, senza guida e perseguitati. Perseguitati dai costi astronomici dei vostri tomi, dalle pubblicità asfissianti e menzognere, dalle recensioni mercenarie. Perseguitati dalle classifiche, da una babele di titoli e nomi, da premi campagnoli, perseguitati dall’attesa trepidante di un’opera vera, autentica, vitale!

Ma noi siamo pazienti, e attenderemo.

****

(Lascio ad altri commentare la lettera, se vorranno. Da parte mia segnalo solo alcune figure – “re da incensare”, “voto di scambio” – che, soprattutto in questa stagione politica infelice, mi paiono un filo eccessive. Aggiungo poi, da lettore, che la letteratura autobiografica mi è sempre piaciuta. Senza lo Zibaldone di Leopardi o i Diari di Gombrowicz o la Lettera al padre di Kafka non saremmo tutti più poveri di spirito? Ma mi rendo conto che forse mi sto rifugiando in dettagli rispetto alla Critica mossa dal Lettore Anonimo. d.o.)

Mots-clés__Crescita, equilibrio

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Glenn Ligon, Condition Report, 2000, Tate Gallery -> https://www.tate.org.uk/art/artworks/ligon-condition-report-l02822

 

Crescita, equilibrio
di Alice Colantuoni

He Yong, 我的家 Wo De Jia (trad.: la mia casa; titolo internazionale: Drum Bell Tower) -> play

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Glenn Ligon, Condition Report, 2000, Tate Gallery – https://www.tate.org.uk/art/artworks/ligon-condition-report-l02822

 

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da Yona Friedman, Comment habiter la terre? / How to Settle on Earth, Vancouver, 1976, pp. 12-15; 28 (versione francese ristampata per L’Éclat Éditions, Paris, 2016; traduzione in italiano di Alice Colantuoni)

 

Che cos’è un habitat?

L’habitat non sono le case, non è l’architettura. L’habitat non è la città, e non è l’urbanistica.

L’habitat umano è l’insieme delle tecniche con le quali l’uomo usa la terra.

Di quale uomo parliamo?
Di tutti gli uomini. Ciascun gruppo sociale abita in modo differente la stessa terra.
Ciò genera talvolta dei conflitti.

Possono questi conflitti essere evitati?

L’habitat umano comprende allo stesso tempo l’uomo tra gli altri organismi e l’uomo tra i suoi simili.

L’uno è la campagna, l’altro è la città.

L’uno e l’altro non possono essere separati.

L’habitat umano è sottomesso alla legge dell’equilibrio
(come tutto ciò che fa il nostro mondo).

Se la città si ingrandisce
O se la campagna diviene troppo popolosa
Una nuova situazione si è creata
Ed esige un nuovo equilibrio.

Questo nuovo equilibrio può stabilirsi da sé
(Al prezzo di quante vite umane?)
O in alternativa può essere cercato da noi, riflettendo
(Evitando le vittime e i sacrifici).

[…]

L’ecosistema (l’uomo tra gli altri organismi viventi)
E il sistema sociale (l’uomo tra i suoi simili)
Sono entrambi soggetti alla legge dell’equilibrio.

Quando un equilibrio si rompe,
Gli ecosistemi si trasformano, a volte si auto-distruggono.
Anche ai sistemi sociali
Accade lo stesso.

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Ricordo di Melita Richter

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Il 1° marzo 2019, a Trieste, è improvvisamente mancata Melita Richter, sorella di pensiero e di poesia. La Compagnia delle poete piange in coro la sua assenza con il lamento plurilingue generato dai suoi versi.

MELITA RICHTER

Il flauto

Flauta – A flauta – Το φλάουτο – La flauta – Flöjten – La flûte – Flautul – La flauta – The flute – Die Flöte – Flet

La canna recisa
piange
il suono sale lento
un uomo la stringe tra le labbra
s’avvolge di lamento

La profonda provincia a Capalbio

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intervista di Marino Magliani a Andrea Zandomeneghi

MM Una cosa che di solito dicono agli esordienti – non un rimprovero – è che in quel libro sta provando a metterci tutto quanto. È la sensazione che si ha leggendo Il giorno della nutria, di Andrea Zandomeneghi. Un torrente di montagna che sbatte e si calma, arriva al piano e trova anse, contiene altre cose oltre all’acqua, e uno lo guarda passare dalla riva, ma d’un tratto succede qualcosa: ci si accorge che non c’è eccesso, anzi, il torrente, così pieno di cose, è ben dosate. Un cielo pieno di stelle. Non è esagerato, è la sua misura. Più di quel numero di stelle non si potrebbe trovare. Come ci sei arrivato?

AZ È un romanzo che ho scritto in cinque anni, non di getto, ma per successive stratificazioni.

Vista dalla luna

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di Giorgio Morale

Un canto all’infanzia sterminata. Vista dalla luna di Chandra Livia Candiani

Con una copertina rosso fiammante Vista dalla luna di Chandra Livia Candiani (Salani, marzo 2019) è un libro terribile: comprende due raccolte, “Vista dalla luna”, composta tra il gennaio 1999 e l’aprile 2000, e “La porta”, composta tra il dicembre 2005 e il gennaio 2006, accomunate dal tema dell’infanzia . “Puttana vestita di nero”, “Ti ammazzo di botte”, “Ti spezzo in due / te ne dò tante da levarti il fiato” sono alcune delle imprecazioni che ci colpiscono nelle prime pagine. Ciò è inusuale in un libro di poesia, e in particolare in un libro di poesia in cui si parla di infanzia, e per questo determina quella “esplosione di senso” tipica della scrittura poetica.

Non è la prima volta che la poesia dà voce ai dolori dell’infanzia, che convivono con la sua
mitizzazione. Sin dalle origini della concezione moderna di infanzia, nella temperie romantica, Novalis dice nei “Frammenti”, che “Dove ci sono bambini c’è un’età dell’oro” ma pressappoco negli stessi anni Hölderlin scrive: “Quando un pargolo io era, sovente dal frastuono / dalla sferza
degli uomini / in salvo un dio mi trasse”, facendoci intendere molto con quella reticenza: “sferza
degli uomini”. Ma non ricordo un componimento poetico in cui la sofferenza dell’infanzia sia
espressa così nudamente, con una chiarezza disarmante, senza nulla di semplice e fanciullesco,
nulla di grazioso, senza mediazioni culturali, senza teorizzazioni o artifici; ma esaltata dalle
caratteristiche del dettato di Chandra Livia Candiani: necessità del dire, espressa dal presente
atemporale in cui si colloca la voce poetica; concretezza delle situazioni, delle dramatis personae,
delle voci; attenzione al dettaglio e vocazione alla “precisione” che infondono energia alle parole e
fanno sentire la palpabile violenza che può crescere nell’ambiente familiare; estrema naturalezza
che va alle cose stesse liberandosi di scorie ideologiche e di poetiche sovrapposte al vissuto, che
dopo aver dominato il Novecento ancora oggi da molti vengono anteposte ai testi; il nitore del
verso, non edulcorato, non allusivo, non estetizzante, sostenuto dal coraggio di chi nella poesia
scommette la propria vita, “arrischiante”, come dice Heidegger dei poeti, i quali “osano spingere
l’esperienza umana fino al suo limite”. E anche in questo come negli altri libri di Chandra Livia
Candiani c’è un “io leggero” ottenuto tramite una forma di distanziamento e di alleggerimento della
soggettività: in questo caso protagonista delle due sezioni del libro, “Vista dalla luna” e “La
porta”, sono prima un “Io” di cui si parla in terza persona e poi “la bambina”.

Le parole di Io dentro il petto” sono “un fuoco d’alfabeto”.
Leopardi scrive che, poiché “la vita è sventura”, una volta nato il bambino, “La madre e il genitore /
il prende a consolar dell’esser nato”. In “Vista dalla luna” le violenze e le angosce terribili sofferte
dalla bambina che si chiama “Io” sono provocate da una “normale” situazione familiare tra le mura
di una “normale” casa borghese, l’inferno che la psicanalisi dice da un secolo. L’immobilità di
tempo e spazio in una situazione coercitiva e compressa diventano nella poesia concentrazione della
parola: “Forchetta sedia tavolo / sedia tavolo forchetta”. Intanto “i grandi si sbranano”. Il padre “è
l’orco”. La madre non è “angelo della casa” e della casa non è “se non l’uragano”, semmai degli
angeli ha “l’indifferenza”. Essa “ha un cancello / nero e acuminato ferisce / le dita dei bambini
imprevisti”, essa non vede nemmeno la bambina mentre l’accompagna a scuola, la esclude dalla
“reggia / della sua visuale”, la bambina per la madre è “il numero sfuggito all’ultima / delle sue
somme, la cifra / che non torna”. La bambina è “quel buco bianco” che “fa sbattere il quaderno contro il muro / e urlare”. Ha solo “le carezze di farina della luna / madre imprestata”: la luna – la natura – come l’equivalente del dio che trasse in salvo Hölderlin pargolo.

È terribile la preghiera della bambina all’“uomo della polverina del sonno” perché l’aiuti a superare
la paura della notte: “non mandarmi prego la mamma / non mandarmi ti imploro il papà”. Invoca
invece: “mandami il lupo / che mi insegni ad attraversare / il corridoio di casa / che mi trasporti / in
cima al mattino / senza la vertigine delle ore, / mandami prego / l’orco che mi inghiotta / in un
boccone e non mi imbocchi / ferendo la forchetta di rossa / rugiada”. Invoca “un ripostiglio di sogni
caldi”. Questa infanzia è “una lunga ripetuta / ferita”, sottolineata dal commento dei familiari:
questa bambina “Non vuole essere capita”. D’altra parte “da sole non si tossisce / e non si piange,
ma si ricama / con le mani nell’aria / lievi trine / di paesi sognati, / laghi di ghiaccio e cioccolato, /
pareti innamorate, / silenziose sciocchezze”. A completare il quadro di questa infanzia viene ciò che
è fuori dalla casa e che ha la stessa indifferenza e la stessa insignificanza: c’è il “niente è accaduto /
dell’asfalto”, “la Messa in cui sgozzano i cerbiatti”, la scuola in cui “si imparano / le case dove non
abita nessuno / gli alberi in fila come soldati”. Dappertutto “nessuno arde, mentre “le parole di Io
dentro il petto” sono “un fuoco d’alfabeto / senza lingua senza / senso”.

“Un minuscolo poema lungo una notte”
Allo stesso modo ne “La porta” incombe nella vita domestica “l’assassino, / Senza nome. / Dal
nome troppo conosciuto”, che sta dietro la porta. “Ogni anno una nuova cicatrice”. Ma anche qui “il
buio / … diventa un nido”. E come dice Rilke nella quarta Elegia, nell’infanzia si vive “cosí,
nell’intervallo ch’è tra il balocco e il mondo”. Per sopravvivere la bambina “mette in fila sul banco /
giovani / animali di zucchero”, “disegna un puma” e “attraverso il puma / la bambina / consente al
cuore. / La velocità”. Finché

Dorme.
La parola.
La bambina
la prende.
Sulla lingua.
Come un fiocco
di neve.
Un alfabeto.
Gelido.
Si scioglie.

E la bambina “Conserva le parole in un sacco / buio / apre le parole al vento. /…/ parla con l’aria”,
scrive “un minuscolo poema / lungo una notte”. Un vascello leggero che arriva fino a noi.

Ha ragione una scrittrice colta e raffinata come Cristina Campo quando ne “Gli imperdonabili” dice
che l’infanzia è l’età a cui si torna sempre, e lo conferma Chandra Livia Candiani nella introduzione
a Vista dalla luna: “L’infanzia è un luogo assoluto, senza tempo, luogo di transito, in cui non si può
sostare, ma tornare sempre”. Ha ragione Cristina Campo quando dice che “la vecchiezza, spesso
dimentica di tanta parte della vita trascorsa, ricorda con limpidità sempre maggiore l’infanzia”, che
l’infanzia è “non già il proprio passato, ma… il futuro”. Il futuro di “Io” è “un fuoco d’alfabeto”,
“le parole… dentro il petto”, le “silenziose sciocchezze”. Così si invera anche che l’infanzia è “la
storia delle proprie verità” come dice Marina Cvetaeva, ed è l’età delle vocazioni: da Esiodo che
racconta che da fanciullo si vide affidare l’investitura poetica dalle Muse, a Leopardi che scrive:
“fanciullo io venni / A pormi con le Muse in disciplina”. Non sempre è vero però ciò che scrive
Cristina Campo, che l’infanzia è una condizione estatica, e non sempre chi racconta la propria
infanzia “sembra dotato… di potere augurale” e provoca un rapimento che sospende “il moto delle
sfere”, da cui ci si ridesta “con una desolazione più feroce del rapimento”, al punto che la
vecchiezza “può chiamarsi anche esilio”. All’infanzia si ritorna sempre, ma non sempre essa è “uno
stato di felice natura” come la definisce Garcia Lorca.

“Sterminata… significa sia smisurata che annientata”

Va nominata infatti, per completare il quadro del libro e dell’infanzia che è in esso contemplata,
l’introduzione della stessa Chandra Livia Candiani che ricorda “l’infanzia sterminata” di oggi.
“Sterminata è un aggettivo a doppio taglio” leggiamo nell’introduzione. “Significa sia smisurata che
annientata”: annientata dalle guerre, dalle migrazioni, dagli abusi, dai crimini familiari. In un tempo
in cui “nelle scuole si insegna… a non sentire” e in cui “le bambine e i bambini guardano nel vuoto
mentre i grandi affondano nel cellulare”. Anche con questo Chandra Livia Candiani ci dona un libro
necessario, che tocca un elemento decisivo della nostra umanità.

“Vista dalla luna” è la genealogia de “La bambina pugile” (Einaudi 2014) e di “Fatti vivo”
(Einaudi 2017) e rappresenta una parte di quegli inediti che nel 2005 Vivian Lamarque lamentava
non vedessero la luce. Il lettore di Chandra Livia Candiani può capire da “Vista dalla luna” perché
la bambina pugile “Ha lottato tutta la notte / contro la notte” e trovare la ragione del “sonno della casa” di
“Fatti vivo”. Può comprendere da quale ferita viene quella apertura al mondo che ha ispirato la
dedica de “La bambina pugile”: “… ai vivi, ai morti, e ai mai nati, ai sopravvissuti, a tutti gli
oggetti del lavoro umano, tavoli, sedie e letti, e pane e vino, e orti, e a tutti i cari, furiosi o delicati,
animali,… agli alberi vecchi e giovani, solitari e socievoli, al fondo del mare, alle onde una a una, ai
granelli di sabbia, alle nuvole, alle montagne, ai sassi, alle conchiglie, ai fiumi, alla terra terra,…
alla notte, alla luce, all’universo che non finisce…”.

I poeti appartati: Nadia Campana

2

Nota

di

Alida Airaghi

Di Nadia Campana (Cesena,1954-Milano,1985) l’editore riminese Raffaelli ha pubblicato nel 2014 due volumi: Visione postuma e Verso la mente.

Il primo (curato da Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci) raccoglie testi critici rimasti a lungo inediti, talvolta incompleti o allo stato di abbozzo: registrando gli interessi letterari della poetessa romagnola, essi rivelano la sua ricettiva empatia soprattutto nei riguardi della scrittura femminile. Infatti, se le brevi recensioni finali sono dedicate ad alcune letture, spettacoli teatrali ed esperienze didattiche compiute negli anni ’80, è in particolare nei saggi iniziali che si esprime la sua straordinaria competenza critica nei riguardi della parola poetica delle donne.

Se per poesia si deve intendere (come afferma nel testo che dà il titolo al libro, Visione postuma) il discrimine “tra mondo interpretato e assenza del mondo”, comprensione del caos da trattenere in “una misura stretta”, conoscenza che aumenta “il dolore come esercizio” con “furibondi attacchi di malinconia”, e infine “sfracellamento contro gli scogli del quotidiano”, è specificamente nella scrittura femminile che Nadia avverte la possibilità originaria di un’autoesclusione, non solo dalla vita concreta, ma addirittura dal proprio corpo, per una sorta di dissoluzione del desiderio quando questo si scontra con la banalità del reale, e produce stanchezza, “voglia di essere inerti… precoce invecchiamento”.

Nei due testi dedicati a Emily Dickinson, di rara perspicacia interpretativa e introspezione psicologica, si mette in luce essenzialmente la rivoluzione linguistica effettuata dalla poetessa americana, la sua invenzione di un nuovo inglese, di una inedita sintassi espressa nell’utilizzo della concisione, di un ritmo musicale rapido, e di elementi linguistici inediti, che Nadia Campana da esperta traduttrice ben sapeva individuare (predilezione del congiuntivo, arcaismi, tecnicismi, voci dialettali, accelerazioni e pause, soppressione di congiunzioni-pronomi-ausiliari, sostantivazione del verbo, scambio soggetto-oggetto, fusione di metri diversi, sostituzione della punteggiatura con la lineetta…). Una rivoluzione linguistica pagata dalla Dickinson con la sua eccentricità rispetto al mondo, con la devianza dai valori comunemente accettati nel puritanesimo ottocentesco del New England. “La sua goffaggine svela l’estraneità al commercio mondano e una sordità a ogni luogo comune. Ella rifiuta di sostenere la funzione di civiltà che alle donne è sempre stata affidata: quella di seguire le inclinazioni emotive, le regole amorose e cosiddette naturali… sceglie di essere un’asceta”. Orgogliosa della propria “posizione di monade, l’unica cosa che la salda alla storia è la parola”, intuita come luogo di indipendenza e di pace, di autonomia differenziante, di consapevole ribellione alla vacuità della chiacchiera invadente.

Una poesia, quella dickinsoniana, lontana dalla fisicità dei fatti, dalla fenomenicità, dal fascino dell’incontro partecipato con gli altri, e invece tutta protesa verso la vertigine della riflessione, dell’intelligenza delle cose, nella conquista di significati cruciali capaci di oltrepassare psicologia e morale: “La scrittura al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile, mostrata”.

Nadia Campana polemizza violentemente contro una critica votata al pettegolezzo, tendente a ridurre Emily Dickinson alla sua biografia, e a descriverla come “una figuretta inerme, schiacciata sotto il peso di una vita vuota, di una nevrosi che la costringeva nella sua cameretta a rimuginare e a rifiutare in contatto col mondo se non attraverso bigliettini fatti passare sotto la porta”. Tale meschinità da rotocalco si intromette nelle vite private in modo ammiccante e indiscreto, insinuando che la verità di un poeta vada cercata al di fuori della sua poesia. “Il mito di un poeta-donna spesso finisce col far passare in secondo piano i valori letterari e l’indagine critica si risolve in una ricerca di disastri emotivi di cui la poesia non sarebbe che una citazione”.

Quale disastro emotivo avrebbe allora portato un’altra grande artista, Marina Cvetaeva, al suicidio? In due saggi Nadia esplora ‒ con un’immedesimazione quasi presaga della propria drammatica scelta finale ‒ il dolore e l’amore che hanno animato e reso eterni i versi della poetessa russa, nella cui morte volontaria sembra iscritto il destino ineluttabile di chi si getta “contro le cose, fuori dall’adeguamento e dalla registrazione, per toccarle con l’incandescenza”.

La dedizione generosa e appassionata con cui Marina Cvetaeva interiorizzava ogni altro da sé aveva qualcosa della sacralità del sacrificio, dell’abnegazione di un’offerta che sa annullarsi, non essendo più desiderio o possesso, ma tenerezza, affetto, fratellanza, sym-patheia priva di qualsiasi opacità.

“La sua scrittura, come la figura tragica del saltimbanco di Zarathustra, compie un ultimo volteggio nel vuoto, come un ultimo dono, senza richiesta di contraccambio né tantomeno di ammirazione o pietà. È già oltre, nel territorio puro dell’aria che le darà nuovamente la forza di uscire dalla deriva del mondo privato e di abbandonarsi a una forza sorgiva”. Forse non è improprio ricordare che Nadia Campana scelse anche lei, il 6 giugno del 1985, un salto nel vuoto, cercando l’infinito.

E sul tema del suicidio, proprio in questi due testi si sofferma con parole che hanno la durezza e la trasparenza del quarzo: “Il suicidio è l’atto di cancellazione del passato, quando il ricordo non si dà se non sotto le forme del fallimento e della stanchezza. C’è una stanchezza anche dell’essere tristi: allora il racconto della sofferenza non trova più dichiarazioni d’amore, fiabe, immagini, se non quella della migrazione nel più puro territorio dell’anima. L’itinerario della mente alla perfezione si svolge ora nella fuga verso la dimora di ciò che non ha forma, di ciò che è semplicemente schiarito e che non deve più misurare il peso dell’avvilimento. Là tutto può essere perfetto, bello, elevato. L’immaginazione non incontrerà alcun ostacolo e il sogno sarà onnipotente e senza difetto”.

Nostalgia di un passato irrecuperabile, malinconia per un futuro che si teme, logoramento del presente, estraneità alla “mascherata” del mondo. Cvetaeva nel suo biglietto di addio scrisse: “Come si dice, / l’incidente è chiuso. //… Con la vita ora sono pari”.

Nadia Campana in una poesia sembra farle eco: “Avendo già avuto a che fare / con la resa, scelgo / le processioni del riposo”.

La sua produzione poetica, quantitativamente esigua, è stata raccolta, con un’interessante introduzione di Milo De Angelis, in Verso la mente; qui si ribadiscono sia l’esigenza di un lavoro assiduo di rinnovamento del linguaggio, sia il continuo richiamo alla morte, temi presenti anche nei saggi critici che abbiamo esaminato (“già veduto già rotolato / già rimandato il corpo sospeso / tra le rocce lacerato”, “è il tempo di arrendersi al contagio / covato dalle solitudini / disarmarsi per le ferite”).

Stilisticamente, questi versi franti e fortemente caratterizzati da simbologie, possono ricordare lo sperimentalismo di Amelia Rosselli, le invenzioni lessicali di Antonio Porta, l’autobiografismo scomposto di Sylvia Plath o di Anne Sexton: “poesia del contrasto”, la definisce De Angelis, perché nei temi si alternano caldo e freddo, nero e bianco, esuberanza e tristezza, sogno e verità, mito e cronaca familiare. Affiorano qua e là colori vivaci, campi assolati, acque di torrenti e mari, uccelli e altri animali, presenze giovani e vocianti; eppure ogni immagine ritorna quasi strozzata da un’invincibile angoscia, un’implacabile e minacciosa inquietudine.

Sempre ricompare quindi l’aspirazione al tiepido riparo di un approdo, all’affettuosità di un abbraccio protettivo: forse quello del padre, perduto nell’adolescenza per un incidente sul lavoro, o quello di un “eroe mattutino e chiaro”: “Per te, io ti, io te sono / che mi contiene nel tremante ricorso / del tuo silenzio vienimi incontro / orizzonte e allarga esso”, “l’estate occupa tutto lo spazio / come te / e lì io ti chiuderò”, “io vengo a farmi in te / vuoto fedele”, “pregavi le cose che davo / se volevo bere / le gobbe dell’oceano / si rifugiavano sotto le tue braccia / quando il sole se ne andò mi nascondesti”.

In una delle ultime composizioni antologizzate, la previsione luttuosa si fa infine scongiuro e preghiera: “il più lento morire dei pulviscoli / capogiro / che occupa molto / mi sento sparire continua / i fianchi trionfano in gara / balzano contro i fondi inermi / nella fretta / neve giovane e sonno resta / dicono scendi mitezza / venissi a temperare la sete”.

I due ritratti fotografici nelle quarte di copertina (entrambi di Giovanni Turci, curatore dei volumi) ci mostrano una Nadia bella e dolce, con i capelli scuri a caschetto e la frangia che le copre la fronte, un pullover a collo alto e una lunga collana bianca. Nella foto più intensa, la giovane donna guarda l’obiettivo con un sorriso sospeso tra timidezza e ironia, quasi rivolgendosi a noi lettori per chiederci: “Avete capito qualcosa del mistero della poesia e della vita? E di me, avete capito qualcosa?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sragionamento sull’anarchia

2

di Paolo Morelli

Raggrumiamo un po’ le idee.
Una dottrina anarchica propriamente detta non esiste, è più che salutare l’antipatia naturale degli anarchici per le teorie. Essendo un pensiero legato strettamente all’azione appare chiaro che l’anarchia è qualcosa che va messa in pratica sbagliando, su questo punto non ci piove. Dato che non piove possiamo farci un giro, con l’intento più o meno fermo di sbagliare.

Penultimi ( note fuori dal coro )

8

 

 

Nota (continua)

di

Francesco Forlani

 

 

I

Può capitare alla fine dei corsi
quando mi aggiro tra i banchi
vuoti, di ritrovare dei tappi di penne
righelli sbrecciati, piccole carte selvatiche.
Come quando l’Oceano di certe spiagge
in Bretagna o in Alta Normandia
si ritira lasciando per miglia e miglia
di sabbia, monili incerti dei fondi, fossili
o allora creature viventi che il moto d’acqua
ha sorpreso e fatto prigionieri.
Così appoggiando l’orecchio a quelle
dimenticanze, quasi ne senti le voci ed il mare.

 

 

II

Alla Gare du Nord nella Hall principale e lungo i corridoi disseminati i secchi – alcune decine- in corrispondenza di fessure o tratti di tetto che l’acqua non trattiene ed allora fa acqua nei giorni di pioggia, da tutte le parti. Ho pensato a te penultimo fabbro domestico, ti ho immaginato fare in lungo e in largo la Gare con un palmo di mano rovesciato per sentire le fughe d’acqua e riporre la bacinella, azzurra per le gocce maschie e per le femmine la rossa, in modo da preservare il passo,talvolta rapido o al trotto dei passeggeri diretti ad Amsterdam a Lille o nelle ricche e povere – soprattutto queste- periferie. E ho pensato che lo stesso accada anche a noi quando il pensiero fa acqua da tutte le parti e la mano lo sente e ripara l’anima che s’era guastata d’un tratto, per via delle nuvole pregne di pioggia e grigie di certi inverni.

 

 

III

 

L’assedio.

Dobbiamo riconoscere ai nostri nemici la forza e la costanza dell’assalto alle mura, alle torri da cui un tempo osservavamo le stelle incantati – il piccolo e il grande carro nitidi e astrali- ora che lo sguardo sanguina dalle feritoie. Quando è cominciato tutto questo? Quando è iniziato l’assedio che ci stringe in una morsa che rende irrespirabile l’aria del tempo e che strozza l’anima con un colpo di tosse che vorrebbe risolvere un discorso tracciato in partenza cambiandolo, si proprio quello che dice che non c’è via di scampo, non un’uscita dall’impasse. Ammettere che la pietra gettata ha scalfito il tratto, ridotto il camminamento, costretto a levare i ponti e ficcato la mente nello specchio d’acqua putrida del fossato che ci separa e unisce a loro da lembo a lembo delle forze schierate in campo. Noi credevamo che tutto alla nostra storia e a tempo debito fosse stato detto e insegnato, che il solo ricordo della pena sarebbe bastato a rifuggire l’errore, la tentazione di ritirarsi di fronte all’onda che il crollo del lessico comune ha d’un tratto liberato per mare e per terra. La ruggine ha saldato le campane al batacchio e nessun suono riverbera che non sia lo sfregolìo del vento sul bronzo o il graffio dell’ala migrante e distratta che lo sfiora. Asserragliati intanto facciamo la conta lasciando che i numeri nero su bianco dicano alla maniera loro, senza cedimenti, nudo e crudo lo stato delle cose.

Ed è strano e insieme meraviglioso che proprio in quell’attimo di scoramento senti rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della tua forza, sapere che più inespugnabile è il diritto meno la forza potrà e che basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembravano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire vita, ehi vita mia, urlare, grazie.

 

 

IV

 

Caro penultimo quest’oggi più forte
era il canto, l’unisono di terra e cielo,
-‘sta cosa degli alberi e degli uccelli-
ma in forma di rosa poco più avanti
del tratto di strada tra Station Verlaine
e Tolbiac, in un soffio di vento nella
galleria sulla banchina è apparso
un angelo con la colla e con la carta,
che salendo e poi precipitando dalla scala
– la teneva in braccio come le ali sul dorso –
dispiegava il foglio tirando via gli angoli
e su mezzi quadrati spalmava la colla
come un bambino all’alba fa con la nutella.

E apparivano i santi, le madonne, le grazie,
il miracolo del progresso, i numeri magici,
la vie en rose, paradisi per morti di fame,
perfino terre promesse con tanto di account.
Noi come al solito si stava ad un solo passo
dalla linea gialla che separa la terra ferma
dal convoglio, e ci siamo scambiati uno sguardo
solo quando l’Arcangelo, s’è sfilato dal coro
novello Mercurio, che l’aveva stampato in faccia
il pensiero vero, l’oracolo- il affichait un sourire –
Tutto era oro, tutto era loro, solo e nient’altro.

 

Entracte

 

Car, s’il est vrai – ca fausso nun l’est mica-
que de toute sta masse en mouvance
du west à l’est et viceversa réciproque
du nu capo du mundo à l’otro, attraque
na sfaccimme é énergie se libère pe force

Or, que sera? Nu ciel en tempête? N’atomique?
n’horda d’oro qui va et ravage la planura?
Na nubila de Tchernobila, n’aurore boréale?
Tuti sti passi , pam pam, du metro et du treno
de la gare a chest’ora apprestata, a staziuna,

de sti pauvres christi, de christiani, au senso largo
car il y a aussi el muslim, le buddist lo istemmatore,
toti sti pasi, bon, stano toti amuchiati, entassés,
addunuchiate dans la grande salle des pas perdus?

 

 

Dimenticavo. Qualche mese fa feci un appello qui. Nelle settimane successive mi furono recapitate alcune decine di quelle cartoline. Come promesso le distribuii a Natale, sulla linea 6 della metro alle 5h40. Le ho sparpagliate tra i sedili dei passeggeri con la speranza che i più misteriosi ne potessero leggere e perché no, a loro volta, farne dono. Non ho avuto ancora occasione di ringraziare quanti, in tutto una cinquantina, si son presi la briga di cercarne una, fabbricarne una, comprare un francobollo e trovare una buca della posta. Lo faccio ora accompagnando “la cosa” con una didascalia a un’immagine rubata quel presto mattino.

Ci siamo lasciati passando la mano. Ciao care compagne di viaggio, bello sapervi in giro anche se la vostra leggerezza mi mancherà. Dopo avere salutato per prime, quelle in banchina alla fermata, qui il secondo gruppo ha appena preso posto nel primo convoglio della linea. effeffe

 

Quintessenza. Gio Ferri su Maria Grazia Galatà

0

[Pubblico un estratto da una nota inedita di Gio Ferri dedicata a Quintessenza di Maria Grazia Galatà, raccolta uscita  per Marco Saya Edizioni nel 2018. Il testo costituisce l’ultima produzione scritta di Ferri, “sperimentatore instancabile e indefesso” (come lo definisce Vincenzo Guarracino) scomparso a dicembre dell’anno scorso. In appendice, tre poesie tratte dalla raccolta.]

La quinta essenza dell’essere

 

  è nei piani del tempo

    quell’avvicinarsi ambiguo

    all’innocenza…

 

L’ambiguità è forse la chiave di questa esperienza poetica. Soprattutto quando, con W.Empson (“Sette tipi di ambiguità ”, Torino 1965), nel linguaggio poetico si nasconde la diffusa figura polisemica dell’incerta speranza… la solita impervia salita / che appena appena tocca… / un sonno inquieto…

 

C’è un lungo intermezzo prosastico in forma di monologo a metà della raccolta, Poco fa nel silenzio, che dopo storie fra nostalgiche e turbate (anche sognate?), ripara in quella ribadita dismisura misterica eppure pur sempre dichiaratamente utopica nella volontà di un tempo in parte forse consolante: che tempo è questo tempo? Di preghiere. 

La “quintessenza” ? E’ il 5° elemento, la quinta essenza dell’essere, dei corpi celesti immutabili e incorruttibili. Essenza purissima, sostanza ultima e prima, fondamentale delle cose. Natura superiore all’umana.  Per gli alchemici sostanza distillata, dotata di qualità portentose: la pietra filosofale. Ottenuta per ripetute distillazioni fino al profumo. Pirandello racconta: “…Nicola Petix arrivò presto a questo tutto/nulla quintessenza della filosofia…”. De Roberto, di contro,  pensa a una suprema fioritura del linguaggio: «la rarità della poesia? Forma estrema di una passione silente.»

Ma se poesia è, lo è oggi in quanto refrattaria a una insistenza lirica del tutto sconvolta nella liricità (Vittorini). È la poesia di Maria Grazia Galatà, che si libera sovente di ogni dismisura abitualmente stilistica (metrica, rime, ritmica, accenti …):

 

   … ambrata è quella vita sepolta

       oltre il muro dell’innocenza…

 

   … c’è molto freddo qui senza evoluzione e

        la luce ha attimi di silenzio…

 

     …la prima luce dell’alba ruota

        attorno a uno scompiglio dorato…

 

      …quello che affiora

         fu un tempo di papaveri bianchi…

 

Questi casuali esempi, per altro insistiti, mettono piuttosto in rilievo la valenza esplicita, eppur sognante, dell’allusione, dell’anfibologia, dell’assonanza, l’articolazione  delle diverse figure, la segmentazione, l’allocuzione simbolica. E così via.

   Gio Ferri

 

 Quintessenza

 

e così ruppi ogni spigolo

del cuore – ogni punto salvato

solo per poco e per credere che

poi non è facile aprire la stanza

aritmica dove canteremo

l’inverno

 

***

tienimi nelle fughe di notte

alla quarta strada

[la parte tragica
di un confronto nascosto] o un terzo stadio
nei sensi affamati
e l’affanno
ferma
quell’ora

 

***

forse l’apparente e un apostrofo invisibile

una riga di memoria nel lato buio
o l’addio rovescio del sale
desolazione bloccata al quarto verso

le attese delle guance erano terra erano

aria e tempo di mille spose
leggendo tra voci basse al petto

quando i coralli hanno abisso

ed ebbero a dire nel sonno inquieto

oltre al fondo
oltre al mare
oltre la vita

da “La stagione della strega” di JAMES LEO HERLIHY

0

Belle Woods, Michigan
_______

Nel mio letto, 2 settembre 1969
A volte credo che mia madre ci azzecchi proprio quando mi definisce un biscotto freddo. Ho appena passato cinque minuti interi a osservare gli oggetti nella mia stanza sforzandomi di pensare a cose tristi tipo: oddio, quanto mi mancherà la bambola della principessa, oppure a ripetermi: “Gloria, questa sarà l’ultima notte che passerai qui” e cose così.
     Ma non succede niente. Magari penserete che abbia versato una lacrimuccia striminzita da ragazzina, giusto per la circostanza, ma i miei occhi sono asciutti come sassi. Provo soltanto sollievo, un senso di aspettativa, e mi sento così su di giri che potrei stare sveglia per il resto della mia vita.
     A meno che…!
   Ecco. Così va meglio. Ho appena trovato una cima d’erba nella borsa e ne ho staccati due bei tocchetti. Grazie al presidente e alla sua campagna proibizionista al confine con il Messico quest’estate stiamo patendo una terribile carestia di marijuana, e questa è la prima che fumo da giorni. Mi ero quasi scordata quanto mi piaccia. (Non è vero.)
     
     Ora torniamo al
     Blues della Partenza, in memoria di
   Nel medioevo della mia giovinezza ero convinta che avrei dovuto sposarmi per scappare da questa prigione di bambagia, invece non è andata affatto così, cari miei. John, l’amico con cui sto per fuggire, è omosessuale. Abbiamo fatto il punto sulla nostra relazione la prima volta che abbiamo preso insieme l’LSD. È davvero molto semplice: lui è il mio Guru, io la sua Madre Terra. Ciò significa che domani me ne andrò da qui senza essere schiava di qualcuno ma con un magnifico compagno spirituale. Senza equivoci, senza condizioni, senza stronzate, solo due anime libere (entrambi Pesci!) dedite soltanto alla purezza e libertà reciproca, che intraprendono insieme il loro viaggio verso la realtà.
     La realtà. Wow. E pensare che inizierà domani! Se non fossi vagamente fatta probabilmente perderei i sensi e mi trasformerei in una statua.
     
     *
     
     È stata un’estate davvero tetra, con John che controllava ogni giorno nella posta l’arrivo della cartolina con il ditone dello Zio Sam che lo chiamava alle armi, io che cercavo di aiutarlo a decidere cosa fare e nessuno di noi due in grado di trovare una soluzione.
     Poi, di colpo, venerdì mattina l’attesa è finita.
     Sento la voce di John dal cortile accanto, mi chiama alla finestra. Sbircio fuori. È appoggiato alla recinzione e agita una busta in mano. La riconosco subito.
     “Quando?” chiedo.
     “Lunedì, il ventidue.”
     “Come ti senti?”
     “Ho deciso di scappare. Vieni con me?”
     “Sì.”
     Quanto mi è piaciuto rispondere senza un attimo di esitazione. Mi sembrava davvero fico. Anche a John, come mi ha confessato dopo.
     
     *
     
     Scappare dove, però?
     Ne discutemmo con Delano, perché Delano sa tutto. Dico sul serio. Ho scoperto quel dettaglio quando eravamo amanti.
     L’idea di John era di vivere per un po’ in clandestinità proprio qui negli Stati Uniti. Poteva sempre andare in Canada in un secondo momento. L’unica domanda, perciò, era dove negli Stati Uniti. Proposi New York perché è dove vive il mio vero padre e dove muoio dalla voglia di conoscerlo da quando ho scoperto della sua esistenza a dodici anni.
     Delano pensava che New York fosse un’idea geniale. Disse che era l’unico posto in tutto il Paese dove potevi davvero fare perdere le tue tracce. Era deciso, il luogo perfetto per entrambi. Ma si sono compiuti altri miracoli.
     Un’ora fa, per esempio, mentre ero nel seminterrato di John a ripassare per la novantanovesima volta i nostri piani super semplici, Delano ha telefonato per avvisarci di avere trovato un acquirente per la Vespa. Questa sì che è una notizia. Significa che viaggeremo in posti di lusso sull’autobus invece di fare l’autostop. Sappiamo entrambi che un colpo del genere non può essere solo fortuna. È fin troppo inquietante. È chiaro che il nostro viaggio raccolga il favore di entità superiori. Io e John dobbiamo solo mantenere la rotta, essere sempre un po’ fatti e lasciarci trasportare.
     Domani ci sveglieremo con calma, prenderemo i nostri zaini e ci dirigeremo verso il cottage di zia June a bordo della Vespa. Poi, all’incrocio con Jefferson Avenue svolteremo a destra invece che a sinistra. Il compratore della Vespa ci aspetterà da Delano. Da lì, dopo esserci rilassati per un paio d’ore e avere corroborato le nostre splendide intenzioni con un po’ del sacrosanto hashish di Delano, proseguiremo fino in centro per prendere il Greyhound delle 16:30, e nessuno avrà più nostre notizie.
     Questo non è vero. Ogni tanto scriveremo a casa. Altrimenti ci sentiremmo in colpa.
     A proposito, sarà meglio buttare giù una lettera da lasciare sul tavolo in cucina.
     Oppure.
     Potrei mettere i Beatles sul giradischi al piano di sotto e suonare a ripetizione
     

She’s leaving home
after living alone
for so many years.

     
     Non è una buona idea, tutto sommato. Arrivata al verso “per incontrare un commerciante d’auto” mia madre esclamerebbe: “Ah, quella sgualdrina è scappata con un venditore d’auto usate!”.
     Ma perché divago tanto? Forse per evitare qualcosa?
     Certo, la lettera d’addio. D’accordo. Ecco qui.
     
     Cara mamma,
     sono andata via.

     
     Che incipit mozzafiato. Più banale di così è possibile?
     
     Cara mamma,
     quando leggerai queste righe

     
     E questo sarebbe un miglioramento?
     

Cara mamma, all’inizio non volevo lasciare una lettera perché tanto non credi mai a niente di ciò che dico, eppure ti devo una spiegazione anche se per te sono solo stronzate. Tanto per cominciare, non sono arrabbiata. Ti voglio bene, sul serio. Ero arrabbiata perché mi hai proibito di andare a Woodstock, ma adesso è acqua passata. Anche se perdere Woodstock è la ragione per cui me ne vado ora invece di aspettare di compiere diciotto anni, come abbiamo stabilito. È difficile da spiegare, forse impossibile. Woodstock non era solo un concerto, è il futuro e io devo andare a incontrarlo da qualche parte. Non ho dubbi che sarà pieno di fango e affollato, con poco cibo e senza un posto dove fare pipì, ma sono sicura che dove ci sono i miei compatrioti sarà pieno d’amore e pace, ecco perché devo andare a cercarli e vivere con loro e cercare di fare una vera

     
     Non va ancora bene. Non abboccherà mai. Per lei amore e pace equivalgono a sesso e droga. D’altronde chi voglio prendere in giro scrivendo di non essere arrabbiata?
     

Cara mamma,
me ne vado di casa perché sono incazzata. Ho perso l’appuntamento con Woodstock ma non perderò quello con la mia vita, non importa se non sei d’accordo. Prima di tutto, la ragione stessa per cui è nato quell’evento siete tu e altre cento milioni di madri come te. È improrogabile che la terra si salvi dalle vostre grinfie letali e conservatrici prima che riusciate a devitalizzarla completamente. Sono stufa marcia di abitare in questa casa e fingere di essere tua figlia solo perché mi hai dato alla luce. Ho visto chiaramente sotto effetto dell’acido che io sono tua madre e tu una ragazzina perfida, sconsiderata, viziata ed egoista. Ne ho fin sopra i capelli del tuo atteggiamento cieco, criminale, fasullo, aggressivo e dominante, così ho deciso di lasciarti da sola a crogiolarti in questo palazzo di plastica, che ha sempre rappresentato qualcosa più per te che per me.

     
     Brava, Gloria, adesso che hai sfogato la bile vuoi tentare di scrivere qualcosa di carino? Provaci!
     

Cara mammina,
La tua bambina scappa di casa perché è birichina. Ma ama tanto la sua mamma e promette di non assumere più droghe brutte e cattive, perciò per favore non stare in pensiero per lei.
Adesso è diventata grande, e se qualche capellone disgraziato cerca di infilzarla con il suo arnese lei chiamerà a gran voce i Berretti Verdi perché corrano a salvarla. Con amore, baci.
Gloria

     Forse domattina mi uscirà qualcosa di meglio.
     Buona notte, stanza. Buona notte, bambola di principessa.
     Buona notte fanciullezza, tu povero relitto. Non so come, ma in qualche modo sono riuscita a uscirne viva.
     
     
Più tardi
     Non mi addormento. Continuo a pensare.
     Fantasia: Il semplice fatto di fuggire di casa provoca cambiamenti miracolosi alla mia indole! Divento disciplinata.
Scrivo accuratamente tutto su un diario, ogni giorno. A partire dalle 16:30 di domani, appena l’autobus uscirà dai confini di Detroit, prenderò nota di tutto ciò che capiterà a me e John, le sue avventure da fuggiasco per evitare di trasformarsi in un assassino al soldo dell’esercito dello Zio Sam, e il primo incontro con il mio vero padre. Annoterò tutto, una semplice cronaca della verità, senza orpelli né stronzate. Per mantenere un approccio onesto, giuro solennemente di non avere alcuna intenzione di pubblicarlo. Poi un giorno, a New York, dopo avere raccolto materiale sufficiente per un bel volume, perderò il diario in metropolitana. Per fortuna lo ritrova un lettore professionista di una casa editrice e balle varie. Per Detroit News si tratta del “Documento Umano più Fantastico di Sempre”, la rivista Time pubblica addirittura la mia foto. (Magari in copertina?). Un successo pazzesco. Soldi a palate. Compriamo un appezzamento di terreno in America Centrale e creiamo una nuova nazione fondata su amore e pace. E vissero felici e contenti. Fine della fantasia.
     
incipit da “La stagione della strega
di JAMES LEO HERLIHY
Brossura con alette; 13,5 x 21
Pp. 400; € 17.50
Centauria, marzo 2018
Isbn: 9788869214011
     
[Traduzione di Massimo Gardella]
     
     

Tradotto per la prima volta in Italia, dall’autore cult di Un uomo da marciapiede, un romanzo on the road raccontato dalla voce sfacciata, comica e dolcemente libera di una diciassettenne immersa nell’America hippy del 1969, a Cinquant’anni da Woodstock.
Autunno, 1969. Gloria ha diciassette anni, è dispettosa, innocente, implacabile, dotata di un estro magico e dissacrante. Ha una madre che la ama un po’ troppo – che teme di aver messo al mondo un biscotto freddo – e un amico gay, John, che adora i notiziari, George Harrison e pensa che il papà, uno psicanalista, sia inspiegabile almeno quanto lui. Gloria decide di scappare da casa con John. Entrambi hanno una ragione per andarsene: lei desidera ritrovare suo padre, un professore comunista dal nome illeggibile, e il ragazzo non vuole unirsi all’esercito e partire per il Vietnam.
A rivelarcelo, in uno spiazzante e travolgente on the road americano, che dal Michigan porta a New York, è il diario di Gloria. La Strega, questo il nome con cui la ragazza decide di andare incontro alla vita, affronta il viaggio con un’irrefrenabile mancanza di autocommiserazione, da cui scaturiscono effetti bizzarri, esilaranti e profondamente commoventi. I suoi racconti, popolati dalle storie di confine di personaggi improbabili e incantevoli, dalla musica anni ’60, dallo Zodiaco, dal sesso, dalle droghe, e da lampeggianti visioni psichedeliche, tracciano anche la vicenda di una figlia e di una giovane donna che, convinta di avvicinarsi alla pienezza più felice e autentica, viene imprevedibilmente, e tristemente, smentita.
Tradotto per la prima volta in Italia, La stagione della Strega ci restituisce la voce di James Leo Herlihy, uno dei più importanti autori americani del Secondo dopo guerra. William S. Burroughs, Paul Bowles, Nelson Algren e Tenessee Williams hanno definito i suoi scritti luminosi, veri e perfetti, salutando Herlihy come lo scrittore più talentuoso che si fosse visto dai tempi di Carson McCullers.
La stagione della Strega affronta temi controversi con acutezza, ironia e generosa singolarità, ed è considerato, insieme, il primo grande romanzo dell’Era dell’Acquario e il ritratto, senza tempo, di una ragazza che, immersa in una società in rivoluzione, affronta, anzitutto, la rivoluzione con se stessa.

     
 
NOTE
 

Varda for ever

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Oggi, a 90 anni, è morta Agnès Varda, regista pioniera della Nouvelle Vague, autrice di film cult come Cléo de 5 à 7 e Le bonheur, artista, documentarista e in gioventù magnifica fotografa. Il suo ultimo film, Varda par Agnès, è uscito quest’anno; del 2017 invece la sua partecipazione a Visages, Villages, corealizzato con l’artista JR.

Mi piace omaggiarla con il ricordo, scritto anni fa, di un suo film meno noto, fra i meno apprezzati: Les cent et une nuit de Simon Cinéma. [ot]

di Ornella Tajani

Nel 1995, per il centenario della nascita del cinema, Agnès Varda porta nelle sale una pellicola che è una lunga, estatica citazione di film preesistenti, una caleidoscopica composizione di attori, personaggi passati alla storia, giochi mimetici, scambi di ruolo, frasi famose, aneddoti, commenti, ricordi cinematografici e colonne sonore inconfondibili. Un film che è al contempo un omaggio e una dichiarazione d’amore.
Les cent et une nuit de Simon Cinéma sarà stroncato con recensioni catastrofiche, la più gentile delle quali recita: «Piacevole solo per cinefili dai capelli brizzolati e dalla memoria resistente».
In scena Michel Piccoli, il quasi centenario Simon Cinéma, nella sua vita celebre attore, regista e produttore [“ma che ingenuità personificare il cinema!”, ha tuonato la critica], che sta perdendo la memoria e dunque assume una studentessa, Camille, moderna Shahrazād, per fare un ripasso di ciò che di importante c’è stato nel cinema sino a quel momento. Simon però è al contempo Michel Piccoli stesso, quando rammenta la scena in Le mépris dove fuma il sigaro nella vasca da bagno per somigliare a Dean Martin, o quando muore un attimo prima di suicidarsi in La grande bouffe, o quando si ingelosisce nel vedere Catherine Deneuve tra le braccia di De Niro, durante un surreale giro in barca in quella che è poco più di una pozzanghera – o, ancora, quando battibecca con Mastroianni, che interpreta «l’ami italien», ma anche l’amant latin o amant-lapin, come si chiosa nel film. I dialoghi sono tutti frammenti di citazioni, e qui il critico diceva bene, è una gara tra cinefili per riconoscerli tutti: «Non capisco più niente, chi recita cosa, adesso?», esclama esasperata la pur preparatissima Camille, che anche parla con parole di film, attingendo a Les enfants du paradis. «Aveva ragione Prévert, gli attori non sono persone, sono tutti e nessuno», s’inalbera, mentre Piccoli si diverte di volta in volta con Depardieu, Jeanne Moreau, i fratelli Lumière, che di tanto in tanto appaiono in scena, muti e pieni di lampadine appuntate sulla giacca; a un tratto piomba in scena Sandrine Bonnaire, l’autostoppista di Sans toit ni loi, celebre film di Varda, che si trasforma dapprima in principessa, per ballare un valzer col goffo protagonista, poi in Giovanna D’Arco, per fuggire a cavallo nel parco. Intanto Alain Delon viene mandato via dal singolare segretario di Simon: «Il suo valletto, prego: polimorfo e polivalente», spesso vestito da Arlecchino, al cui fianco troviamo un’acrobatica cameriera cinese che se l’intende col vecchio giardiniere, e che cammina sui bordi dell’enorme e coloratissimo letto al centro del quale troneggia Piccoli, o Nosferatu, a seconda del costume che adotta.
Si passa da Cocteau, a Buñuel e al suo occhio tagliato in due, a Orson Welles, «considerato geniale soltanto perché ha cominciato da giovane», a Hitchcock che campeggia in sagoma cartonata nella camera da letto, a una serie di figure che, una volta evocate, compaiono fisicamente o in foto all’interno del castello stregato: Gina Lollobrigida vestita da fata, Jean-Paul Belmondo scienziato, che dovrebbe aiutare Simon a recuperare la memoria, o ancora Jane Birkin, Anouk Aimée e molti altri, mentre il leone della Metro Goldwyn Mayer passeggia indisturbato in giardino.
Il finale pirotecnico si sposta da una sfilata circense nel parco della villa al più noto défilé sul tappeto rosso di Cannes; un attimo dopo, i titoli di coda, con la lista interminabile dei nomi di chi ha prestato la sua amichevole partecipazione al film, iniziano a scorrere su un campo di grano che cambia colore a ogni attore.
Goliardico, sgangherato, pasticcione: Les cent et une nuit non è un vero film, né ne ha l’ambizione; è un gioco orchestrato ad hoc per essere metacinematografico al parossismo, ed è l’opera variopinta e funambolica di una magnifica regista che sembra essersi molto divertita nell’offrire il suo personalissimo omaggio al cinema, con una pellicola che può ancora incuriosire e forse divertire più di qualche cinefilo attempato.