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Il giorno della riconsegna del bagaglio

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di Caterina Iofrida

L’uomo era seduto nel bistrot da un paio d’ore, ormai si era fatto buio. Sul tavolino rotondo c’erano qualche briciola e le macchie circolari lasciate da ogni boccale di birra che si rispetti. L’uomo, però, stava bevendo un bicchiere di vino bianco, accanto al quale, incurante della sporcizia, aveva posato il telefono. Con la mano destra, con calma e continuità, digitava, mentre con la sinistra si portava di tanto in tanto il calice alle labbra. L’uomo non staccava gli occhi dallo schermo né quando beveva, né quando era raggiunto dal rumore sordo della porta d’ingresso che si richiudeva. Le persone intorno all’uomo parlavano una lingua diversa dalla sua, che lui conosceva appena. Avrebbe forse compreso qualche frase se si fosse impegnato, ma così, mentre era preso da altro, quelle chiacchiere giungevano alle sue orecchie come una musica di sottofondo, la quale, lungi dal distrarlo, lo aiutava invece a mantenere la sua incredibile concentrazione. Più tardi, l’uomo aveva lasciato il bistrot con un discreto quantitativo di Chardonnay in corpo e una gran fame. Dopo le nove di sera non era il caso di mettersi a cercare un posto per mangiare, avrebbe finito per impiegarci un sacco di tempo. Si era infilato nel primo minimarket che aveva incontrato e aveva comprato mezza baguette, una confezione di Camembert e una bottiglia di Chablis, poi si era diretto a casa. “Casa” non era sua, ma in prestito, e si trovava sul Boulevard Richard Lenoir, a pochi passi dal canale Saint-Martin. Appena arrivato, senza nemmeno sfilarsi il cappotto, aveva tirato fuori le sue provviste dalla busta e le aveva disposte sul tavolo della minuscola sala da pranzo, tra i libri e i giornali che lo ingombravano. Quella fame urgente lo aveva assalito dopo avere inviato il messaggio. Aveva divorato pane e formaggio ed era stato invaso da una sensazione di tranquillità e da una grande stanchezza. Era andato a dormire presto, a un orario in cui, in genere, non era in grado di prendere sonno.

 

La donna stava controllando la pentola, l’acqua non era ancora arrivata a bollore. Avrebbe voluto cenare prima, a lei piaceva mangiare presto, ma non era riuscita a rincasare prima delle otto e mezzo. Amava la sua città, ma i tempi da impiegare per spostarsi, sempre più lunghi del previsto, non mancavano mai di irritarla. Sulla metropolitana le persone si dedicavano a ogni sorta di occupazione concepibile, dall’ascoltare podcast al tagliarsi le unghie, lei, invece, riusciva solo a osservare gli altri, controllare le fermate, l’orologio, poi di nuovo le fermate, poi il telefono. Non era tempo, quello; eppure lo diventava quando si accorgeva di essere a casa due ore dopo essere uscita dall’ufficio. Nonostante avesse lasciato il telefono in camera da letto, il suono di un messaggio l’aveva raggiunta. Chi poteva averle scritto? Tra le opzioni che aveva in mente non c’era nessuno di interessante; nonostante ciò, o forse proprio per questo, la curiosità l’aveva avuta vinta sulla pigrizia ed era andata a leggere. Alla sola vista dell’anteprima del messaggio aveva avuto un leggero sussulto; stando attenta a non staccarlo dal caricatore, si era seduta sul letto per proseguire la lettura con una maggior concentrazione. Alcune vite, come quella della donna, si dipanano senza troppi colpi di scena nel costante, istintivo tentativo di barcamenarsi fino a quando non arriva una delusione. In quel tempo, la Grande Delusione si era presentata un paio di anni prima, e lei si stava abituando a farci i conti e a organizzarsi di conseguenza. In quello spirito, cogli altri esseri umani aveva assunto una condotta sostanzialmente coerente di curiosità e avvicinamento fino al primo momento in cui provava noia. La noia, aveva scoperto, pur apparentemente innocua, portava con sé una serie di altre faccende insidiose che avrebbero finito per accumularsi mettendola all’angolo e, in ultimo, lasciandola sola. In linea di massima, non era più disposta a lasciare che accadesse. Dopo aver riletto il messaggio tre volte, aveva deciso di rispondere con calma, dopo cena, per poter mangiare compiacendosi di ciò che aveva appena letto, e pregustando la propria risposta, di cui aveva precisamente in mente i contenuti e i toni.

 

Un messaggio vocale si annuncia come un dialogo monco, che non ammette interruzioni volte a una contribuzione altrui, e si può effettivamente esserne sopraffatti. La prospettiva di otto minuti di ascolto passivo avrebbe, di norma, indotto l’uomo a cancellare tutto e confermare senza rimpianti una certa reputazione che si era creato, tuttavia in questo caso aveva finito per ascoltare prima ancora del primo caffè del mattino. La moka era sul fuoco e lui si radeva mentre una voce femminile squillante accompagnava la sua routine mattutina al posto della radio, che in genere accendeva senza poi prestare troppa attenzione. In questo caso, invece, era teso ad ascoltare, tanto da tagliarsi più volte con il rasoio e non farci caso. “…è ovvio che il motivo per cui ti trovi là non è quello…”, la moka aveva cominciato a gorgogliare, l’uomo aveva spento il fuoco e si era versato il caffè in una tazza grande, del tipo americano, mentre la voce seguitava a parlare. La voce della donna era allegra, contenta di avere occasione di parlargli —quest’ultima cosa la poteva soltanto supporre, avendola incontrata di persona una sola volta. Certo, avevano parlato a lungo, in quell’occasione; avevano cenato assieme, l’una di fronte all’altro, e sebbene al loro tavolo ci fossero altre sette-otto persone era stato loro possibile avere una conversazione che non le coinvolgesse. Scegliersi un unico interlocutore a una tavolata numerosa era un’abitudine che aveva da sempre, lungi dall’essere frutto di una scelta, semplicemente gli accadeva, e qualcosa gli aveva fatto immaginare che per la donna seduta davanti a lui funzionasse allo stesso modo.

 

Il killer non aveva dormito bene e si era svegliato mal disposto, solo per scoprire di avere dimenticato i biscotti per la colazione a casa. Nella stanza c’erano soltanto un bollitore e un pacco di caffè tenuto chiuso con una molletta per panni. Aveva deciso di scendere in strada e comprare un croissant, nonostante ciò costituisse una deroga alle regole deontologiche che si era dato, da che si era messo in proprio. In qualche modo doveva rimediare a quell’inizio di giornata. Il lavoro che lo aspettava si prospettava semplice e di sicura remunerazione. La donna che aveva deciso di avvalersi dei suoi servizi era infatti piuttosto abbiente e, soprattutto, affidabile. Il killer sentiva di capirla. Aveva sempre condotto una vita ben ordinata, fino a qualche tempo prima, ed era decisa a vendicarsi di chi, in questa vita, aveva portato scompiglio: la persona che qualche tempo prima l’aveva lasciata. La cosa aveva una sua logica. Non che al killer questa logica interessasse particolarmente, nondimeno le persone ordinate e con le idee chiare gli piacevano. Per lei era venuto fino in Francia, dall’Italia, seguendo l’obiettivo. Quello, l’obiettivo, non si era accorto di lui nemmeno per sbaglio. Probabilmente era partito per Parigi del tutto inconsapevole dei rischi che correva nella sua città, aveva semplicemente deciso di fare una vacanza. Sarebbe stato semplicissimo. Il killer aveva dato un morso deciso al croissant. Più tardi, con calma, si sarebbe diretto al Café Tourville dove sapeva, ormai, che avrebbe trovato l’obiettivo, intento a pranzare con un club sandwich, e gli avrebbe sparato. Ci sarebbero certamente state molte persone per strada, e il killer si sarebbe confuso tra loro, dileguandosi in pochi minuti.

 

Il ragazzo, quella mattina, aveva qualche linea di febbre. Al café, però, mancavano già due cameriere. Come avrebbero fatto senza di lui? Aveva indugiato per un po’ nel letto, poi aveva risolto di prendere del paracetamolo e buttarsi sotto la doccia. Era al lavoro da tre ore buone quando l’uomo era arrivato e, dopo averlo salutato, gli aveva domandato di poter sedere al solito tavolo. Il ragazzo avrebbe voluto rispondergli di no, a dirla tutta. Sempre lo stesso tavolino. Lo stesso club sandwich. Lo stesso bar. Quell’uomo non era francese, tantomeno di Parigi, era evidente, e già non aveva intenzione di cambiare le sue abitudini a pranzo, appena prese, per giunta. Come poteva vivere così? Ma si era trattenuto. Dopotutto, che sedesse dove preferiva. Forse avrebbe fatto meglio a restarsene a casa lui dal lavoro. Sentiva salire la febbre e con essa il rimpianto di non essere rimasto sotto le coperte. Era andato in cucina a chiedere di preparare il club sandwich, invece. Beh, almeno sarebbe stato facile, glielo avrebbe portato, assieme a una birra chiara, e poi avrebbe potuto ignorarlo fino al primo pomeriggio. L’uomo avrebbe consumato il suo pranzo con calma, poi avrebbe tirato fuori il suo libro e avrebbe cominciato a leggere. Ma l’uomo, quel giorno, sembrava aver voglia di conversare con lui. Dopo qualche domanda di troppo sulle tipologie di birra disponibili, era passato con naturalezza, a fargli domande sulla sua vita: da quanto lavorava lì e via dicendo. Come capita in questi casi, in breve tempo era passato a parlare di sé, naturalmente: aveva conosciuto una donna, che viveva in Italia, come lui. Nonostante il ragazzo non desse alcun segnale di interesse nel racconto e si limitasse ad annuire educatamente di tanto in tanto, l’uomo lo aveva invitato addirittura a sedere sulla sedia davanti a lui, solo per qualche minuto, aveva detto. La richiesta era insolita, ma il café era semivuoto e il ragazzo aveva deciso di accontentarlo per poi rialzarsi qualche attimo dopo con una scusa. Certo che erano dure, quelle sedie: se ne era quasi dimenticato. Mentre cercava di sistemarsi in una posizione comoda, aveva sentito chiamare un nome. Aveva gettato uno sguardo all’uomo ma lui, distratto, stava osservando una giovane coppia di passaggio, dall’aria graziosa. Un’esplosione assordante aveva squarciato l’aria, poi il ragazzo era caduto riverso in avanti.

 

— E quindi, una telefonata —. La donna era distesa sul letto, a pancia in su, e stava faticando a trovare una posizione comoda.

— Mi pare avessimo deciso così, — aveva detto l’uomo, seduto su una panchina, cogli occhi che vagavano tra la chiusa del canale e le persone sedute per terra sulle sue sponde, intente a consumare aperitivi al tramonto con birre prese al supermercato — io sono pronto.

— Io pure. Beh, — aveva un principio di crampo al piede — allora, da quanto sei a Parigi?

— Da circa due settimane. Ma non è la prima volta che ci vengo.

— Sai il francese?

— In effetti no. Ho cercato di impararlo, qualche anno fa, ma mi sono reso conto che avrebbe richiesto un sacco di tempo. E poi non avrei avuto modo di esercitarmi, non ci ho mai vissuto. Ci sono sempre stato per periodi brevi, in vacanza.

— Una vacanza, allora. Ecco che cosa stai facendo.

— Lo sai che non è così.

— A me non sembra di sapere granché, — era scoppiata in una risatina — dimmi tutto.

— Beh, proprio non mi andava di rimanere in Italia, tantomeno a casa mia. Qua, invece, mi sento bene, al mio posto. Non è solo la città delle mie vacanze. È anche quella dei “miei” film, io la guardo, mi ci muovo come gli americani dell’epoca d’oro di Hollywood. Loro non avevano certo bisogno di parlare francese per sapere di appartenere a Parigi e che Parigi apparteneva loro. Love in the afternoon, An american in Paris, Funny face, e via dicendo. Audrey Hepburn poteva essere figlia di Maurice Chevalier e parlargli in inglese, a Parigi. Mi segui?

— Suppongo di sì. E pensi di restarci ancora molto?

— Certamente non ho voglia di pensare a tornare, se è questo che intendi.

— Ma seguiti a scrivermi. Lo sai che vivo a Roma.

— Questa sì che è mancanza di fantasia, mia cara. Primo, puoi venire a trovarmi. Secondo, poi, nel caso… le relazioni a distanza non mi dispiacciono. Ti dirò che ne ho avute più d’una. Non che le cerchi di proposito, capita però che mi ci ritrovi coinvolto. Non ho mai voluto limitarmi nella curiosità, le persone importanti per me sono sparse. Poi, non mi piace affatto l’idea di uscire con gente la cui vita si svolga abitualmente nei miei stessi luoghi, che parli con la mia stessa inflessione, e via dicendo. Se proprio devo essere sincero, lo trovo innaturale.

— Una sorta di incesto.

— Proprio così.

— Non ci avevo mai pensato. In ogni modo, è difficile stabilire le giuste distanze. A volte, quelle fisiche aiutano.

— È così.

— A patto di non esagerare.

— Giusto anche questo.

— Anche se la distanza New York-Seattle, almeno stando al cinema…

— …Quella sì, è ottimale. Ma non generalizzerei.

— Concordo.

— Comunque, ancora non ti ho raccontato quel che mi è successo oggi. Formidabile. Sei pronta? Stavo pranzando al Café Tourville — fanno un club sandwich magnifico — e, non so come, mi ero messo in testa di fare delle confidenze al cameriere.

 

Le feste che funzionano

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di Walter Nardon

Si definiva una donna semplice e certo, osservando la gamma del suo abbigliamento, lo poteva sembrare; ma i suoi desideri, tendendo com’è nella loro natura a realizzarsi, suggerivano di completare il quadro con dettagli più nitidi, recuperando elementi che aveva liquidato in fretta come trascurabili. Che in quella noncuranza ci fosse dell’altro, e che vi si potesse dunque scavare più a fondo – per quanto in genere non ci si facesse caso – non poteva restare un segreto. Così, quando si sparsero le prime voci di una sua storia con Riccardo Precy, qualcuno commentò che da qualche parte, nelle ampie tasche dei suoi vestiti informali, doveva aver trovato posto anche l’ambizione.

Lavorava da quasi due anni al Servizio Acque, dove aveva conservato la sua invidiata disciplina di studentessa. Se un tempo questa disposizione ne avrebbe fatto un modello ora, pur senza farla scomparire in mezzo alle amiche e nonostante i suoi luminosi occhi neri, la relegava in una posizione di outsider. Dal suo angolo, rispondeva a una battuta di spirito ridendo con un pudore che nascondeva un equilibrio conquistato a fatica, e per quanto sapesse spendersi generosamente con gli altri, davanti a un favore inatteso non riusciva a rispondere ed esitava, lasciando sul volto di chi le aveva fatto del bene un’espressione interrogativa.

Il venerdì pomeriggio tornava a casa in bici. Staccando un’ora prima, a volte si fermava a fare la spesa ma in alcuni casi, vestita in modo più sportivo e con tanto di casco bianco allacciato, andava a farsi una decina di chilometri sulla ciclabile. In una di queste occasioni, verso la metà di ottobre, pedalava da circa un quarto d’ora quando d’un tratto, dietro una curva a sinistra quasi interamente coperta dagli olmi, si trovò davanti un uomo in divisa da ciclista e occhiali da sole che rimetteva a posto la catena di una costosa bicicletta da corsa. Non si trovava proprio in mezzo alla strada, aveva avuto l’accortezza di mettersi sul ciglio, ma la casacca arancione, la bicicletta antracite e insomma, la sorpresa, l’avevano indotta a frenare, o per meglio dire a fermarsi.

Si trattava proprio di Precy, il noto imprenditore e quasi-celebrità social. Incontrarlo sulla ciclabile non era un evento raro, dato che vi percorreva dodici chilometri al giorno, andando e tornando da una delle sedi delle sue società. Nessuno ne discuteva il successo; ma la superiorità del suo fascino – la cui estensione riteneva tendenzialmente indefinita – era in questione da circa un anno, ossia dal tempo in cui aveva deciso di tornare a risiedere più stabilmente in città. Le più strette collaboratrici ne discutevano con sofismi che tendevano ad attenuarne le pretese conservando però la correttezza di fondo dell’osservazione (sia pure, precisavano, «fra quelli come lui»); i dipendenti invece ne ragionavano più in breve: a loro modo di vedere, tolto di mezzo il conto in banca, non restava altro di cui discutere. Lui non se ne curava, certo che i migliori – e soprattutto le migliori – avrebbero saputo cogliere in un istante la differenza. Procedeva senza badare alle voci, ignorando gli altri imprenditori a suo avviso troppo attaccati ai soldi per saperli fare davvero, privi di visione, di prefigurazioni che invece in mano sua assumevano la consistenza materiale di un baule; di un baule pieno, si intende.

Quando la vide rallentare davanti a sé, scorse una donna che gli sembrò passabilmente attraente, ma non al punto da costringerlo ad abbandonare la verifica delle parti meccaniche. Continuò pertanto a controllare la tensione della catena e, finito l’esame, alzò gli occhi verso di lei più che altro perché, con le mani sporche di grasso, si augurava che la ciclista avesse con sé un fazzoletto di carta. Lei si sfilò lo zaino e gli passò quello che la circostanza richiedeva ossia, oltre a un pacchetto di fazzoletti, una bottiglietta di soluzione idroalcolica per pulirsi le mani che portava sempre con sé (in caso di necessità). Il modo in cui le sorrise sarebbe rimasto per qualche giorno al centro dei suoi pensieri. Benché sapesse per esperienza di lettrice e spettatrice quanto queste suggestioni vengano suscitate dalle circostanze ambientali di un determinato istante –  la luce che si rifletteva sulle foglie dei ligustri disposti in siepe dietro di lui, i profumi del parco vicino dove alcuni bambini giocavano chiassosamente a rincorrersi – e per quanto avesse altrettanto chiaro che questi dettagli offerti alla fantasia diventano un’opportunità di sviluppo quasi sfrenata, aveva intuito un’attrazione non preventivabile, la possibilità che qualcosa di meno fortuito potesse svilupparsi. In effetti, due giorni dopo lui le telefonò.

2.

In certi casi non si può neanche parlare di ambizione: si sente crescere in sé un sentimento e si decide di seguirlo investendoci quasi inavvertitamente una somma di energie che tende ad aumentare sempre di più finché il giorno risulta d’un tratto occupato quasi per intero da una questione esigente. Cinzia cercò di non darlo a vedere. Al lavoro, per tre giorni mise in atto la strategia che in determinate circostanze aveva sempre funzionato: faceva domande alle colleghe sulle loro scelte, le lasciava parlare. Poiché gli esseri umani hanno sempre voglia di esprimere le proprie preferenze, dando spazio alla conversazione poteva rifugiarsi nell’interiorità: le amiche la apprezzavano perché sapeva ascoltare e lei custodiva il suo segreto.

La condotta di Precy invece non aveva bisogno di ventagli metaforici dietro ai quali rifugiarsi. Aveva l’abitudine di pensare a sé, come se la sua voce su Wikipedia, già stata abbozzata, aspettasse solo un oscuro estensore per risistemarla. Qualche imprenditore malevolo sosteneva che la sua fortuna fosse fondata su un apprezzabile capitale iniziale, donatogli dalla famiglia, sul quale aveva poi costruito il suo gruppo in modo neppure troppo febbrile, con l’aiuto dei collaboratori di maggiori competenze e di risorse finanziarie insufficienti; ma su un punto erano tutti d’accordo: ci sapeva fare.

L’aveva chiamata per ragioni di lavoro e lei, sentito il modo in cui si era presentato – senza farsi annunciare dai suoi collaboratori – aveva rotto gli indugi e chiesto se avesse risistemato la bicicletta. Lui si era fatto una risata.

«Sì, grazie. Una volta ad Amburgo dopo aver forato sono rimasto quasi tre ore in mezzo al nulla, senza nessuno a cui telefonare. Quello è stato un pomeriggio come si deve, ma qui, sulla ciclabile, a pochi chilometri da casa, la bici me la sarei portata anche sulle spalle. Comunque ti ringrazio di avermi soccorso».

«Non ho fatto niente».

«Ma è bello sapere che c’è qualcuno pronto a darti una mano».

«È stato un piacere. Poi, davvero, non ho fatto nulla di speciale».

«Posso ricambiare la cortesia con un caffè?»

E così era nato questo appuntamento. Precy aveva scelto un bar non proprio in centro, anzi quasi in periferia (faceva parte di una catena) e perfino lì un po’ defilato, con i tavolini in ferro battuto e le pareti coperte di lavagnette piene di frasi augurali scritte col gesso. Gli sembrava perfetto per l’incontro, tanto da fargli sopportare anche la proverbiale scomodità delle sedie: non era lontano dalla casa di Cinzia (gli aveva detto che viveva in quel quartiere). A lei non dispiaceva, benché fosse un po’ stereotipato. In fin dei conti, se nella realtà cittadina doveva per forza scegliere un posto che non avesse nulla di suo se non i graffi sui tavoli (e anche quelli, a volte, già definiti, nei cosiddetti mobili anticati), era meglio scegliere un posto romantico.

Al mattino, prima di uscire, aveva provato a indossare qualcosa di un po’ più elegante del solito e non era rimasta soddisfatta finché non aveva visto riflessa nello specchio una nota speciale: l’intimo delle grandi occasioni, un colpo di spazzola in più sui capelli neri, una giacca verde scuro sfiancata sopra la camicetta bianca portata aperta fino al terzo bottone. Sotto, pantaloni bianchi e scarpe nere, come la borsetta. Aveva tutta l’aria di chi, cercando di nascondersi, vuole apparire; abituata a non accennare ai propri desideri e a parlare di quelli degli altri, non riusciva a capire la misura oltre la quale cominciava a dar mostra di sé: a ben vedere, rispetto alla norma, nel dettaglio di quell’outfit per lei inconsueto perfino le sue colleghe meno audaci avrebbero dovuto dubitare che ci fosse qualcosa in ballo.

3.

E così si era avviata al grande giorno. Nonostante i suoi propositi, dietro il monitor in mattinata aveva trascorso tre quarti d’ora a fantasticare sui primi istanti dell’incontro, passando dall’immaginazione dei dettagli alla riflessione su ciò che questi suggerivano alla sua sensibilità, illanguidita davanti agli oggetti della scrivania per acuirsi invece dolorosamente al cospetto di quel che l’immaginazione esigeva. Comprendeva l’origine di questo stato d’animo, ma a differenza di quel che era accaduto in altre circostanze, in cui aveva fatto prevalere la saggezza, in questo caso sentiva, per così dire, “che era il suo turno”, e che per questo non avrebbe dato ascolto alla prudenza: si sentiva in forma e il suo corpo reclamava un bagno di sole.

Rispose ad alcune e-mail di lavoro, nel pomeriggio partecipò a una riunione ed ebbe uno scambio in chat a Margherita, un’amica che viveva a Castelfranco Veneto.

Poi, finalmente, venne l’ora di uscire.

Arrivò a casa con quaranta minuti di anticipo. Non aveva previsto di fermarsi, ma preferì sistemare la bici in garage e rinfrescarsi in bagno.

Poco dopo, camminando sul marciapiede, cercava di fissare nella memoria il riflesso del sole sulle siepi – così verdi e tanto diverse da quelle che aveva scorto vicino a lui –, dell’odore dell’erba nei dodici metri quadri di prato davanti all’ingresso dei vicini. Non era chiaro se il fatto di sentirsi desiderata si riverberasse sulle cose che incontrava o se non fossero invece queste, in quel momento, a mostrarsi a lei nel loro aspetto più complice e benevolo. Del resto, già il solo fatto di uscire prima dall’ufficio l’aveva messa di buon umore.

Tirò fuori il telefono e, dopo alcuni tentennamenti, si fece un selfie e lo spedì a Margherita.

Sei strafiga, vai benissimo.

Un incoraggiamento eccessivo.

Dopo due semafori arrivò davanti al bar.

Era proprio ciò che ricordava, la replica di un locale francese, con le sedie da esterno in ferro un po’ sgangherate e troppe gardenie finte sopra le irrinunciabili lavagnette piene di frasi incoraggianti, alcune in inglese come «Today is a Happy Day». Fra tante, la migliore era: «Il vaut mieux faire envie que pitié». Fece un giro dell’isolato per non accomodarsi troppo presto, ma già dietro l’angolo si sentì affaticata, respinta dai dettagli che ora trovava noiosi perché reclamavano attenzione sottraendole forza per tendere all’unica cosa sulla quale aveva bisogno di concentrarsi. Proseguì perciò il giro cercando di ripiegare su Alicia Keys (elementare, If I Ain’t Got You). Sarebbe stato bello incontrarlo in modo fortuito, anche se lui, ovviamente, non si vedeva.

E così, arrivata di nuovo davanti al Café Paris 38, entrò: c’erano tre persone. In effetti, le cinque e cinquanta non sono il momento migliore per un caffè; pur avendolo compreso quando lui le aveva offerto l’invito, non aveva avuto il coraggio di dire che l’ora si avvicinava di più a quella dell’aperitivo, perché lui avrebbe potuto equivocare interpretandolo come un cenno di apertura per una serata tutta da scoprire. Lasciarlo intendere sarebbe stato troppo audace? E poi, meglio dentro o fuori? Dentro, dava meno nell’occhio.

Disse alla cameriera che aspettava qualcuno che sarebbe arrivato a minuti, si sedette e tirò fuori il cellulare. Alla sua sinistra, su un tavolo, uno studente universitario dai capelli rossi finiva di bere un caffè col giornale davanti. Appoggiata la tazza, sempre con un occhio al giornale, col cucchiaino grattava lo zucchero dal fondo come se, avendo finalmente trovato la parte migliore, non potesse rinunciarci. Quell’operazione, che a dispetto di ogni attesa ragionevole andava avanti da circa un paio di minuti, la metteva a disagio: era così infantile, che per lo studente doveva per forza avere assunto qualche valore rituale. E non era neanche così giovane, il tizio. Ripensò alla sua carriera universitaria, alla fierezza con cui si accompagnava al bar con i professori dopo un seminario: quello stato d’animo aveva qualcosa a che fare con ciò che stava provando in quel momento, forse perché più che di attesa si trattava di speranza. Lui, intanto, era in ritardo.

A dire il vero Precy era già arrivato: se ne stava al telefono nel vicolo dietro il caffè, sporgendosi ogni tanto da una finestra posta nell’angolo solo quel poco da intravedere l’espressione di Cinzia. Appariva nervosa, ma sembrava che in lei prevalesse il desiderio. Lui era vestito in modo sportivo, camicia bianca, giacca tra il grigio e il blu, jeans decisamente costosi e sneakers bianche (edizione limitata).

4.

«Ciao, scusa, ma che ci fai qui dentro? Usciamo, dai, prendiamo un po’ d’aria».

«Ti stavo aspettando».

«Lo so, scusa. Ho sempre tante telefonate da fare».

Lei prese la borsetta.

Fuori, si sistemarono a un tavolino a sinistra, un po’ discosto dall’ingresso, scegliendolo dopo aver provato la solidità delle sedie, operazione che lui mise in atto scrollandone quattro o cinque per trovare le due con lo schienale giusto.

«Allora, che mi racconti?»

«Una giornata normale. Tu invece, devi avere una vita complicata».

«Beh, non saprei. Io devo correre dietro a quello che vogliono gli altri».

«E ti piace?».

«Più che altro mi tocca. Poi ogni tanto decido anche di lasciar correre, mi prendo i miei spazi».

«Beh, mi sembra già un passo avanti».

«Sì, ma non credere, anche in questo ci vuole dedizione».

«La stessa che ci vuole per andare alle feste?». Tutti sapevano che Precy, per così dire, non era per l’austerità.

«Ma dai», Precy rise, «non mi diverto mica alle feste. Lo sanno tutti che ci resto poco. I più dicono che lo faccio per snobismo e io li lascio dire. Tutto questo mi sembra così ridicolo, e infatti è niente rispetto a quello che ho provato quando studiavo a Leeds. Le feste non muovono più niente, come una serata trascorsa su un prato a suonare la chitarra con gli amici fino al buio completo. Bella, no? Forse perfino stimolante, ma se ci pensi è raro che lo sia davvero. Vedi, ho questa convinzione, che magari ti sembrerà un po’ fuori tempo (ma chi può dirlo?): perché riescano bene le feste devono servire a qualcosa; ossia l’invito e la conversazione degli ospiti devono essere orientati verso un fine, almeno quello di chi le ha organizzate. Una volta le cose andavano così: per questo le feste contavano. Alla festa si decideva un affare, si pensava a un fidanzamento, ma tutto questo naturalmente senza averne l’aria, perché in effetti, si decideva e non si decideva: diciamo che se ne parlava. Qualcuno potrebbe dire: ma non era tutto qui, alle feste si andava anche per la musica, per il ballo. Appunto, proprio perché le feste contavano, contavano anche la musica e il ballo. Contava suonare come si deve – e scrivere un pezzo come si deve – e poi saper ballare. Oggi, devo dirti la verità, mi annoio molto, soprattutto in quei locali minimal, con mobili più o meno di design, in realtà comprati sottocosto, e con la musica club o lounge insopportabile».

Presero entrambi un caffè. Per lui decaffeinato.

«E io che ho sempre creduto che una festa vera funzioni soprattutto se non ha uno scopo. Pensavo addirittura che avessimo fatto dei passi avanti perché possiamo incontrarci solo per il gusto di stare insieme».

«Beh, non voglio mica scoraggiarti. La festa si fa per stare insieme, senz’altro; poi però ti accorgi che in un angolo c’è sempre qualcuno che pensa ad altro. Un po’ come in chiesa.  A casa mia si è sempre detto che gli affari migliori si fanno in fondo alla chiesa durante la messa. Anche lì, in teoria, la maggior parte delle persone dovrebbe essere presente per altre ragioni. Per motivi più nobili, se vuoi».

«Non vorrai sostenere che è tutto strumentale. Non avessi avuto le serate con le mie amiche, che mi hanno presa per quella che sono, non so se avrei finito gli studi».

«Ah, ma su questo sono totalmente d’accordo. Sono a favore dell’amicizia. Dico solo che a una festa uno scopo ci vuole, non che ci sia solo questo. E intendo proprio uno scopo sociale. Anche una convention ha uno scopo, anche le presentazioni di un nuovo prodotto ce l’hanno, ma in questi casi è tutto così ufficiale e orientato al profitto che è difficile trasformare l’atmosfera in quella di una vera festa. Facci caso, anche i vernissage di una mostra il più delle volte sono ridicoli».

«Ma cosa vorresti? Il ritorno all’Ottocento?».

«No, basta anche una semplice festa di compleanno. Queste funzionano sempre proprio perché c’è qualcuno da festeggiare. Sono quelle spontanee, invece, a essere sopravvalutate: avrebbero successo solo se servissero davvero a far conoscere gli invitati. Il fatto è che abbiamo quasi sostituito i ricevimenti con le app di incontri, o con gli speed date. Che un po’ funzionano, ma sono troppo brevi e preordinati al risultato. Fingi un po’ che siano rilassati, che durino di più: se durassero una serata intera sarebbero perfetti. Perfetti per me, intendo, che ci andrei non con lo scopo dichiarato di conoscere qualcuno, ma solo con quello eventuale. Insomma, starei a vedere, potrei muovermi con libertà, mentre gli altri tendono scrupolosamente al loro fine».

La cameriera arrivò con i caffè, corredati da bicchierino d’acqua e biscotto offerto dalla casa. Dall’interno provenivano i rumori una conversazione animata: doveva essere arrivato un gruppo per l’aperitivo. Cinzia non era sorpresa dalla conversazione, quanto dalla franchezza. Ammirava la disinvoltura di Precy, a suo agio in quel bar come in un contesto più formale che in apparenza avrebbe richiesto un contegno decisamente misurato; era privo del tono leggero così diffuso fra le persone di successo, in grado di incantare le vedove degli imprenditori, rivelandosi però in seguito indizio di una depressione poco latente (che lei conosceva fin troppo). Lo sentiva vicino, affidabile. E sentiva di piacergli.

«Insomma tu vorresti dirmi che nelle occasioni sociali non bisogna mai avere in testa un obiettivo?»

«Certo. Lo sanno tutti che non bisogna scoprirsi troppo in fretta, ma al di là di questa vecchia massima, credo che non si debba proprio essere troppo determinati: bisogna lasciare le cose nel loro essere. Semmai assecondarle. Nient’altro».

«E tutto questo in contesto che ha un fine dichiarato, noto a tutti, quello che dà il nome alla festa».

«Esatto. Direi che è la condizione migliore per trascorrere un’ottima serata».

5.

Dentro la discussione si era fatta più chiassosa. D’un tratto, arrivò il rumore secco di bicchiere in frantumi.

«Ecco,» disse Precy «magari non proprio fino a questo punto. Ma del resto, una discussione è sempre meglio di una serata sul divano, con le ombre radunate davanti alla porta di casa».

Cinzia notò il tocco un po’ ricercato, ma poiché era un tema che aveva particolarmente a cuore, rimase sorpresa che lui si fosse lasciato andare al punto da sfiorarlo.

«Adesso non dirmi che le tue serate sono così grigie da cercare a tutti i costi una serie tv per fartela passare. Questo riguarda noi, non quelli come te».

«Ah, ecco, te lo dico subito. In generale le serie tv non mi piacciono: sono tutte uguali. Non importa che si tratti di poliziesco, o peggio ancora di quelle di un’epoca storica completamente inventata. Sono tutte costruite allo stesso modo. Guardo invece qualche film, a volte ne rivedo uno magari anche per la quarta o quinta volta: tanto per cercare qualcosa di diverso».

«E funziona?»

«Dipende. Non dico che ti tiri sempre su il morale, ma consola se non altro perché vedi qualcuno che fa le cose come si deve, senza farsi attrarre dalle tendenze del momento. Ti senti meno solo».

Cinzia intravedeva la realtà di un sentimento, una barchetta di sughero sopra l’acqua spenta delle proprie serate. Si era già trovata tre o quattro volte a consolare un’amica, ascoltando la sua sconfitta senza riuscire a parlare di sé. Mentre il comportamento tradiva una determinazione non comune, il discorso aveva continuato a creare nell’interlocutrice la sensazione epidermica di un’adesione che non si traduceva mai in partecipazione concreta. In quel momento stava scoprendo che la forza di Precy era in grado di superare le sue strategie di difesa.

«Ma senti,» proseguì lui, «vorresti dirmi che dobbiamo farcela passare stando davanti allo schermo col solo vantaggio di sentirci degli spettatori più esigenti? Mi sembra un po’ poco. I miei, i loro amici, avevano capito come ci si diverte: cantavano canzoni impresentabili, che io detestavo, ma è innegabile che si divertissero; ed era la loro vita, mica quella degli altri. A me non piacevano? Glielo dicevo? Se ne fottevano, se ne strafregavano, mentre ora stiamo sempre a vedere l’opinione che gli altri hanno di noi. Sì, certo, abbiamo una reputazione digitale da difendere, ma non una che ponga gli stessi problemi di quella di una star hollywoodiana. Noi possiamo anche permetterci di sbagliare».

Era forse stata educata anche lei a sentirsi una spettatrice sempre più esigente, una commentatrice, tutti aspetti utili per assecondare una vocazione gregaria? Osservava i piccoli secchi di latta sui tavoli, pieni di bustine dello zucchero bianche e beige. Il fatto è che sotto quei modi sentiva svolgersi un pensiero che non esitava a manifestarsi, privo dell’incertezza che nel suo caso si accompagnava sempre a ogni espressione, nel timore di turbare un equilibrio di relazioni senza il quale si sarebbe trovata in difficoltà. Aveva sofferto troppo la debolezza della sua famiglia; e proprio ora si accorgeva che quel timore non era indefinito: le diceva che aveva giudicato la sua condizione ingiusta e che avrebbe voluto di più, ma allo stesso tempo, rifacendosi vivo, si annunciava anche infantile e sterile, segno di un tempo che doveva lasciarsi alle spalle, rinunciando alle recriminazioni. Cercò il modo di riprendersi:

«Io non credo che sia un problema per le star di Hollywood, ma che lo sia invece per chi ha poco: se sbaglio io, nessuno è disposto a concedermi un’altra possibilità. Nel tuo caso, invece, tutti stanno a vedere quale sarà la tua prossima mossa, se riesci a riprenderti o meno. L’interesse, nel tuo caso, è vivo a prescindere. Il fatto che a nessuno interessi se io riesco a riprendermi ti dice che per l’opinione pubblica io – e quelli come me – non valgono niente».

«No. Non è che non vali niente,» Precy sorrise, «è che tu prendi troppo sul serio queste dinamiche, le prendi per definitive. D’accordo, dopo una caduta tutti starebbero a vedere la mia mossa successiva, ma sai cosa succederebbe se sbagliassi di nuovo? Che finirei anch’io nel grande calderone dell’irrilevanza, da cui per me sarebbe ancora più difficile risalire, perché si direbbe che in fondo io la mia occasione l’ho già avuta. Perciò non siamo poi così lontani, non credi?»

«Ah, beh, allora si tratta solo di giocarsi al meglio la propria occasione, sempre che ci sia».

«Ma anche qui ti sbagli. L’occasione si dà giorno per giorno in quello che fai, non arriva mica come un biglietto della lotteria. Se si tratta di un biglietto, ce lo abbiamo già in tasca, lo abbiamo già comprato. È che molti si dimenticano di controllarlo».

Se glielo avesse detto un motivatore in un corso di aggiornamento aziendale – e ci era andato pericolosamente vicino – Cinzia lo avrebbe detestato, ma davanti al timbro di voce di Riccardo si sentiva pronta ad accogliere l’argomento in modo meno ostile.

«Un bell’incoraggiamento, ma se sia valido o meno dipende, appunto, da quello che fai ogni giorno. Le dipendenti thailandesi dell’impresa di pulizie che lavorano da noi ad esempio non credo ne sarebbero entusiaste».

«Ecco, anche questa. Ma ogni occasione è sempre relativa al contesto in cui ti muovi, perciò non è affatto detto che a qualcuna di loro le cose possano andare meglio, o peggio, e che questo non dipenda in parte anche dalle scelte che avranno fatto. E ti anticipo subito: certo, tutto questo dipenderà anche dalla loro conoscenza della lingua, dalle loro relazioni, dalla loro salute, dalla capacità di intuire dove potranno essere più utili, ma non puoi venirmi a dire, in astratto, che questa limitata mobilità – pur drammatica, sono d’accordo, purtroppo il tempo che viviamo è questo – non sia anche minimamente dinamica».

Cinzia si affrettò a correggersi:

«No, d’accordo, non volevo arrivare a questo. Ma è vero che tanti si portano dietro studi più elevati rispetto al ruolo che ricoprono ogni giorno».

«Beh sì, questa, è un’altra faccenda, anche se non bisogna scambiare il mezzo, il titolo di studio, per il fine».

Cominciava a farsi più fresco. Precy controllò le notifiche sul telefono.

«Vuoi che ce ne andiamo?» chiese Cinzia.

«No, non preoccuparti, ho ancora un po’ di tempo».

Per quanto le fosse sembrato fin da subito di una cordialità inusuale, ora sapeva che il suo comportamento, superato il senso del dovere, seguiva abbastanza fedelmente i suoi desideri; in quella disponibilità a fermarsi doveva perciò contare anche il fatto di essere seduto con lei. Anzi, era sicuramente così. Confortata da questa opinione, Cinzia cercava di non trattenerlo oltre misura. Riprendere il discorso in un’altra circostanza avrebbe garantito una nuova opportunità.

«Non che mi dispiaccia proseguire, ma non vorrei che facessi tardi con qualche impegno».

«In effetti, ho ancora un appuntamento telefonico, ma non sono in ritardo. Vedi» continuò Precy appoggiando il cellulare, «sulla faccenda relativa a scegliere le cose da fare, a sfruttare le proprie occasioni, mi dico sempre che l’importante è di non assomigliare al mio primo capo. Forse nessuno ha mai capito cosa pensasse veramente, non dico a lezione – teneva anche corsi in università – ma proprio nella vita. Si preoccupava di mostrarsi, per così dire, nel punto di perfetta equidistanza fra due opinioni contrastanti. Anche con noi, che lo conoscevamo meglio, era tutto un “Non vorrei che pensassi…”: continuava a rinnovare questa prudenza a cui doveva la sua fortuna, a partire dagli incarichi vantaggiosi che ricopriva in tre o quattro società. Quando gli chiedevi un parere, ti faceva parlare per poi impiegare la sua indiscutibile intelligenza giocando di sponda, tentando di riferire questo suo metodo alla preoccupazione che aveva per i tuoi studi, mentre invece questa era ancora una volta orientata su di sé, sull’opinione che avevi di lui. Nonostante la fama conquistata presso i suoi colleghi, ho sempre creduto che abbia vissuto la sua vita col freno a mano tirato, finendo per sprecare le sue energie, a forza di tenerle da parte. E in effetti, l’impressione più duratura che ho di lui è che abbia combinato molto meno di ciò che avrebbe potuto fare e non perché facendo meno si sia potuto dedicare con maggior impegno alle cose importanti, ma al contrario, proprio perché a forza di mantenersi illusoriamente equidistante ha finito per mancare gli appuntamenti decisivi, limitandosi a contributi di minor peso. Non per umiltà, dunque, ma per il suo esatto contrario, per ottenere la gloria immediata di qualche carica e un conto in banca un po’ più sostanzioso, che secondo me invece sarebbe cresciuto molto di più se avesse fatto ciò che sapeva, e forse doveva fare. Ecco, con le mie risorse più modeste, mi sono sempre detto che avrei fatto di tutto per evitare di fare questa fine. E ci sto ancora lavorando».

«Credo che nessuno potrebbe scambiarti per lui».

«Ecco, appunto. Ma questo non vale solo per me».

Cinzia arrossì per un istante, giusto il tempo di riprendersi: «Perché non ne parliamo la prossima volta?»

Il fantasma di carta

2

di Stefano Solventi

Uno spettro si aggira nell’editoria: il rock come eredità culturale e ricettacolo di storie oltre la manifestazione sonora-

Sono tra coloro che al rock negli anni novanta ci credeva. Ci credevo tanto. Per motivi anagrafici, certo, dal momento che è stato pur sempre il decennio in cui si sono consumati i miei vent’anni (l’inizio e la fine, appunto). Ma anche per la situazione generale: il rock, nei novanta, sembrava una supernova sul punto di abbagliarci. E questo non malgrado, ma anche in virtù del buco nero che il terribile suicidio di Kurt Cobain aprì nel cuore stesso della nostra eccitazione rockista. Ebbene sì: avere venticinque anni ed essere appassionato di rock nel mezzo dei Nineties era davvero un bel vivere. Ogni giorno poteva essere quello buono per trovarsi nelle orecchie un nuovo disco in grado di farti svoltare la settimana, il mese, l’esistenza. Particolare non da poco: ciò valeva anche per il rock italiano, persino per quello in italiano.

In un gioco di reattività paragonabile a quello dei neuroni specchio (la cui esistenza nell’essere umano venne dimostrata, guarda un po’, proprio nel 1995), la scena nostrana vedeva nuove band guadagnarsi il centro del palco con sconcertante regolarità, quasi che ognuna costituisse la risposta a una determinata grande band internazionale (quasi sempre USA): sostenere che i Marlene Kuntz erano i nostri Sonic Youth, gli Afterhours i nostri Afghan Whigs e gli Scisma i nostri Smashing Pumpkins (o i nostri My Bloody Valentine), può apparire ingrato e riduttivo, e in effetti lo era, eppure questa specie di “tabella di conversione” rappresentava anche un varco tra noi – provincia marginale dell’impero rock – e il centro nevralgico del mondo. Il cuore elettrico della cosa rock non era mai stato tanto vicino. Lo sentivamo finalmente pulsare sul polso del presente.

E il futuro? Ecco: proprio a questo credevo, al futuro. Ci credevo tanto, non solo dal punto di vista del rock (in realtà, per quanto oggi possa apparire strano, non potevo concepire passato, presente e futuro senza rock). Ero convinto che finalmente il rock stesse per diventare un linguaggio diffuso, e che ciò valesse anche per quello (in) italiano. Si trattava di una novità, perché malgrado le eccitanti stagioni del post punk e della new wave (le famose scene di Bologna, Roma, Firenze…), fino ad allora non avevo potuto fare a meno di sentire nel nostro rock il rumore di un ingranaggio in ritardo e il fastidio strisciante di una pronuncia (anche solo un po’) sbagliata. Durante i tardi anni ottanta mi ero convinto che il rock come cultura non ci appartenesse davvero, che non saremmo mai stati in grado di padroneggiarne appieno la sintassi, o almeno non abbastanza da esprimere tutto quello che andava espresso. Con buona pace delle band di casa nostra, impegnate con un certo entusiasmo a dimostrare di esserne in grado, ma fallendo proprio per questo.

Insomma, la partita languiva senza rilanci significativi. Quando ecco che, tanto benedetta quanto inattesa, le onde d’urto del rock alternativo – a partire da quella con epicentro dalle parti di Seattle – rovesciarono il tavolo. Come già accennato, a finire scozzati furono anche i mazzi di carte nostrani, tanto che a partire dal ‘95 (un po’ di ritardo fisiologico andava come al solito messo in conto) la mia collezione di cassette e CD iniziò a popolarsi di titoli italiani in grado di mettere in crisi le gerarchie consolidate. Ancora oggi, colloco senza alcuna difficoltà album come Rosemary Plexiglas, Catartica e Hai paura del buio? (solo per fare tre titoli) sullo stesso piano dei Washing Machine, dei Mellon Collie And The Infinite Sadness, dei Loveless, dei Red Medicine e dei Gentlemen. A dirla tutta, volevo e voglio loro un gran bene anche per un altro aspetto: perché dimostrarono di saper utilizzare l’italiano come lingua rock senza abbeverarsi alla tipica prosaicità del cantautorato né agli espedienti adattivi/imitativi dell’epoca beat. A partire dai testi, capaci di sgomitare tra sintassi e lessico con stile personale (la ruvidezza letteraria di Godano, il cut up crudo di Agnelli, le iperboli sconcertanti di Benvegnù…) e di fatto consegnando alla generazione X italiana un linguaggio rock finalmente agile, evocativo, potente.

Non che fosse poi così indispensabile poter contare su una nostra scena, ma si trattava comunque di un fatto decisivo, il segno che la linea di confine era stata attraversata e che il rock anche da queste parti poteva finalmente fregiarsi del titolo di cultura diffusa, una vera e propria angolazione nei confronti dell’esistenza di cui tutti, ne ero certo, avremmo beneficiato. Sappiamo com’è andata: col nuovo secolo/millennio e l’avvento dell’epoca del web, il rock si è accartocciato, è come imploso sotto il peso del proprio stesso repertorio (prima con una massiccia campagna di ristampe e poi con la liquefazione dei supporti, ovvero il download – legale e illegale – e lo streaming), riproposto come catalogo smisurato e sempre più disponibile e simultaneo, in obbedienza alla pandemia retromaniaca immortalata dal celebre saggio di Simon Reynolds.

Dal 2000 in avanti pochi nuovi dischi rock hanno saputo distogliere gli appassionati dall’incantesimo rappresentato da oltre mezzo secolo di scibile musicale a portata di un paio di click, proprio mentre pop, neo-soul e hip-hop dimostravano invece di possedere i requisiti di elasticità necessari per adattarsi alle nuove modalità di distribuzione e fruizione, nonché – soprattutto – ai parametri estetici che ne derivavano. Il colpo di coda rock che fece seguito all’undici settembre (Strokes, Oneida, Yeah Yeah Yeah’s, Black Rebel Motorcycle Club, Interpol…) seppe guadagnarsi non senza merito una certa effervescenza mediatica, ma si trattò appunto di un colpo di coda.

Tirate le somme, gli anni Zero non furono un buon decennio per il rock, che vide ridurre progressivamente la presenza negli airplay radiofonici, i volumi di vendita (destinati in ogni caso a venire sconvolti dal formato digitale), la visibilità sui media e il peso nell’immaginario collettivo. Si trattò di un processo graduale, ovviamente, ma tutto sommato rapido. Il sogno di un rock finalmente invitato al desco della cultura popolare venne spazzato via nel giro di pochi anni, anzi di mesi. Fu un autentico shock da cui probabilmente devo ancora riprendermi.

Questo non ha nulla a che vedere con il tema ricorsivo – e perciò sempre più ozioso – della cosiddetta “morte del rock”. Il rock, sia detto a scanso di equivoci, è vivissimo. Dischi rock di buono e anche ottimo livello non hanno mai smesso di uscire. Ma sono usciti – escono – in un contesto che non li ritiene più un evento artistico e culturale primario, che di fatto non sembra disposto a farsi intrigare dalle novità rock al di fuori della bolla costituita dai media specializzati e dai perimetri social degli appassionati. A titolo di riprova, quando lo fa – vedi il recente, travolgente caso dei Måneskin o prima ancora dei Greta Van Fleet – si tratta di un fenomeno mediatico che utilizza cliché rock con finalità sensazionalistiche, rivolgendosi a un pubblico che del rock ha un’idea piuttosto approssimativa e potentemente stereotipata (se preferite: vecchia), un pubblico che in definitiva potrebbe fare benissimo a meno del rock. Un pubblico che, come il personaggio interpretato da Mickey Rourke in The Wrestler, non sopporta ciò che è accaduto al rock dai Nirvana in avanti. Un pubblico che, per farla breve, dopo i Guns N’ Roses il diluvio.

Eppure, ripeto, credo si possa sostenere che il rock – Kurt Cobain o meno – non sia affatto morto, e che nel medio periodo non morirà (come non è morto, ad esempio, il jazz). Ma è altrettanto lecito sostenere che il baricentro del rock sembra essersi spostato dalle parti di una sempre più puntuale riproposizione/rielaborazione di se stesso, come conseguenza della sistematica attualizzazione di un catalogo sterminato. Le campagne di ristampe iniziate con l’avvento del CD e la disponibilità pressoché totale resa possibile dallo streaming hanno cambiato significativamente lo scenario emotivo dell’ascoltatore, che da qualche anno si trova nella condizione di poter disporre di un disco o di una canzone di sessanta o quarant’anni fa proprio come di un lavoro appena pubblicato.

Per il rockofilo cresciuto all’epoca delle discografie da costruire con fatica, avvezzo ad affrontare distribuzioni problematiche, prezzi esorbitanti e lo spettro del fuori catalogo, questa situazione coincide in sostanza col paradiso a cui un tempo anelava e a cui oggi può accedere al costo mensile di un CD economico. Ma per l’ascoltatore più giovane, tutto ciò è la pura e semplice normalità. Si consuma qui una vera frattura sia generazionale che culturale: da una parte ci sono quelli abituati a strutturare i propri ascolti come un percorso, entro e tra le discografie, tenuto conto delle implicazioni storiche, sociali, tecnologiche eccetera; dall’altra, c’è chi si affida all’estro del momento o ai suggerimenti (algoritmici) di ascolto, galleggia sulle playlist una canzone via l’altra, perlopiù indifferente alla loro collocazione nell’ambito di una discografia e del contesto storico. I due “poli” così individuati vedono da una parte gli ascoltatori (per come li conoscevamo prima della liquefazione dei supporti fonografici), dall’altra gli utenti (delle piattaforme di streaming). Va da sé che si tratta di una distinzione estremizzata e probabilmente grossolana, di sicuro andrebbero messe in conto gradualità e sfumature, ma tutto sommato credo che renda bene l’idea.

Appare ovvio includere nella prima categoria i più vecchiotti, gli analogici, ma non è scontato: basti pensare ai molti giovani che frequentano le fiere del disco e che comunque risultano tra i più assidui acquirenti di vinili (quasi provassero nostalgia di una ritualità mai vissuta). Allo stesso modo, nella categoria degli utenti predominano chiaramente i cosiddetti nativi digitali, i quali non hanno letteralmente conosciuto altra modalità che l’ascolto via Youtube, Spotify e via discorrendo, e in ragione di ciò non riescono culturalmente a concepire l’album come entità espressiva (e – di conseguenza – la discografia in quanto sviluppo cronologico di un codice espressivo). Va detto in ogni caso che la capacità di penetrazione e la portabilità delle app ha conquistato molti rappresentanti della generazione X – per non dire dei famigerati boomer – appassionati di musica o meno, mutandone sensibilmente le abitudini oppure convertendoli in toto alle nuova modalità di fruizione.

A ciò si aggiunga che tutti, nessuno escluso, viviamo immersi in una brodaglia spettrale di passato, con i media impegnati a riproporre senza posa simulacri citazionisti funzionali allo spot, al programma televisivo, al film e via discorrendo. Il rock in particolare è sistematicamente utilizzato perché può contare su un appeal ancora ben radicato – seppur residuo – nell’immaginario, riconducibile ai temi della gioventù, della velocità, dell’energia, della ribellione eccetera. Ma si tratta appunto di cliché, già neutralizzati alla radice e inevitabilmente stralciati dal contesto culturale proprio del rock, vale a dire di “parti utili” con cui assemblare l’accompagnamento sonoro del caso: si tratti della sigla di un cartoon (vedi il punk-pop dei Teen Titans Go!), del tema d’accompagnamento di una sfilata di moda (tanto da indurre lo stilista Philipp Plein a intitolare una propria collezione Monsters Of Rock) o della soundtrack di una pellicola aggressiva/stilosa (come il recente Crudelia).
Il risultato è la situazione paradossale di questi giorni: il rock è pressoché ovunque, ma non se ne avverte realmente la necessità. È un accessorio gradevole ma per nulla cruciale, di sicuro poco generazionale: si veda ad esempio e appunto la penetrazione trasversale del fenomeno Måneskin, per i quali fanno il tifo – il tifo! – tanto i ragazzini che i loro genitori e persino i nonni. E come potrebbe essere generazionale, dal momento che decenni di musica vengono schiacciati in un catalogo presentificato, organizzato per tag non necessariamente musicali e il cui aspetto si adegua al profilo dell’utente? Tuttavia, come spesso capita, non tutti i mali vengono per nuocere. Credo infatti che si debba anche grazie a questo strano contrasto tra centralità perduta e ubiquità algoritmica la nascita (per reazione) di un fenomeno interessante come il boom dei libri dedicati al rock.

Molta saggistica, certo, ma anche qualche apprezzabile titolo di narrativa, vedi i piuttosto recenti Rovine di Mat Osman (già bassista dei Suede), Uccidi quei mostri di Jeff Jackson e Un diluvio di veleno di Jordan Farmer. In questi romanzi – a cui aggiungerei senz’altro il “nostro” Maida Vale di Michele Benetello – il rock è una specie di fantasma agonizzante, un relitto del passato che in qualche modo continua a esercitare fascino sul presente ma in una modalità chiaramente residua. Osteggiato, sfruttato, equivocato, il rock è una maschera indossata da personaggi struggenti e spesso logori che si trovano a fare i conti con il tramonto del fare e ascoltare rock, ma che proprio per questo sono animati da una nostalgia strisciante, a un passo dal diventare sterile, sradicata.

Proprio il tentativo di recuperare radici e dare un senso alla nostalgia sembra alla base dei molti saggi a tema musicale – e rock in particolare – usciti negli ultimi anni. Come fenomeno editoriale non è certo nuovo, ma a quanto posso ricordare la messe di pubblicazioni (sia in traduzione che di autori italiani) non ha precedenti, e riguarda editori specializzati o meno, quando non addirittura fondati da pochi anni proprio con l’obiettivo di inserirsi nel solco tra narrativa e critica musicale. Una caratteristica comune a molti titoli è l’impostazione storicizzante, ovvero la sensazione che i tempi siano ormai maturi per tirare le somme e riflettere su cosa stava accadendo quando ascoltavamo musica rock. In tutto ciò il punto di vista – esplicito o implicito – rimane comunque il presente, che di quel rapporto tra ascoltatore e rock è pressoché orfano: sembra un’affermazione scontata, ma non lo è.

Tra i volumi-capostipite di questo “movimento” occorre indicare necessariamente il già (quasi) citato Retromania di Simon Reynolds, uscito nell’autunno del 2010, definito dal suo editore (Faber & Faber) come “the first book to make sense of 21st Century pop”. Reynolds non è un critico musicale tout-court, il suo raggio d’azione sconfina sistematicamente nella filosofia sociale (tra i suoi punti di riferimento dichiarati ci sono Jacques Derrida e l’amico Mark Fisher), taglio che già conferiva a lavori precedenti (soprattutto Post-punk 1978-1984 del 2005) un’impostazione multidisciplinare pressoché inedita, nel quale rock, pop, avanguardia e hip-hop giocano il ruolo di prodotti e al tempo stesso di produttori di senso in una società sempre più complessa.

Se questo approccio gli aveva già consentito di coniare l’espressione sintetica più emblematica degli anni Novanta (“post-rock”, utilizzata nella recensione di Hex dei Bark Psychosis contenuta in Mojo del marzo 1994), con Retromania Reynolds ha azzeccato una chiave di lettura potente rispetto alla forma mentis dominante del nuovo millennio, ovvero quella del recupero/riciclo del passato come riabilitazione sistematica del presente. Una prassi che esonda l’ambito musicale, ma che nella fattispecie ricalca la particolare congiuntura in cui versa il rock e che ha finito per indirizzare sempre più lo sguardo delle uscite editoriali dedicate al rock e dintorni. Come se, venuta meno l’urgenza, fosse divenuto prevalente il bisogno di fare i conti, di tirare le fila di una narrazione che in tempo reale brucia troppo rapidamente per consentire analisi e riflessione. Una narrazione però il cui punto di fuga – talora vertiginoso – è comunque il presente: è nel qui e ora il perno della faccenda, è per gli utenti contemporanei – giovani o stagionati, nostalgici o meno – che le migliaia di pagine a tema rock tentano di raccontare storie appassionanti, suggestive, significative.

Limitandosi alla realtà italiana, mi pare un orientamento percepibile a partire dal catalogo della più nota tra le case editrici specializzate, la Arcana, a cui va dato il merito di avere tenuto botta negli anni, pubblicando sia traduzioni che opere firmate da autori nostrani, tanto da proporsi come punto di riferimento (nel bene e nel male) e pietra di paragone per il settore. Il catalogo recente mette in evidenza il tentativo di cavalcare l’attualità e il passato in maniera quasi simmetrica: sulla trentina di uscite del solo 2021 (tanti titoli, forse troppi: un loro vizio storico), oltre la metà riguarda nomi come Smashing Pumpkins, Nirvana, Rino Gateano, Cranberries, John Bonham, Frank Zappa o Marilyn Manson, per non dire delle analisi critico/storiche come quella sul 1991 di Paolo Bardelli o sul prog italiano di Massimo Salari, ma accanto a questi troviamo volumi dedicati a Salmo, Billie Eilish, Pinguini Tattici Nucleari o analisi sulla musica durante il lockdown e sul fenomeno degli youtuber “divulgatori di musica”.

Già da questo elenco sommario salta agli occhi un aspetto: se si focalizza sul presente, il rock scompare dai radar. Mancherebbero rock band o “scene rock” contemporanee di cui scrivere? Non proprio, come ben sa chiunque non abbia smesso di seguire le vicissitudini del rock negli ultimi, diciamo, venticinque anni. Ma si tratterebbe di operazioni sostenibili? Quale interesse susciterebbe un libro dedicato agli Idles, ai Protomartyr, a Courtney Barnett o – per rimanere dalle nostre parti – a Iosonouncane? Si arriva presto a una conclusione: l’interesse sarebbe piuttosto basso, o almeno non abbastanza alto da giustificare economicamente un’operazione editoriale del genere. Questo spiega tutto? Forse. Almeno in parte.

In ogni caso, l’editoria musicale non sta affatto trascurando il rock, ma del rock cerca la stratificazione, il sedimento nell’immaginario. In ragione di ciò non smette di effettuare carotaggi, ma appunto si tratta di analisi che se da un lato sono giustificate da un bisogno abbastanza fisiologico di storicizzare, nonché dalla possibilità di farlo grazie alla prospettiva – appunto – storica, dall’altro rappresentano una modalità sufficientemente remunerativa di affrontare la questione del rock, che come detto sopra è presente e vivo in quanto retaggio, come eredità culturale e catalogo estetico/semantico. Eredità che persiste, a dispetto del fatto che la sua manifestazione musicale sembri interessare poco e a pochi.

Detta in soldoni, se pubblico una biografia di Alex Chilton, una autobiografia di Robbie Robertson o un saggio sul rapporto tra rock e letteratura, posso contare su una platea di lettori non certo numerosa ma abbastanza significativa, perché generazionalmente stratificata, nonché vogliosa di mettere a bilancio una passione radicata. È quello che ha fatto ad esempio la Jìmenez, casa editrice romana fondata nel 2018, la barra da un lato orientata sulla narrativa statunitense contemporanea (Willy Vlautin, Melissa Anne Peterson, Nelson George…) e dall’altro, appunto, verso la saggistica musicale (rock in particolare), sia in traduzione che di autori italiani. Tra i nove titoli usciti nel 2021 troviamo Storie Sterrate di Marco Denti, un bella escursione tra musicisti che hanno saputo essere anche scrittori e viceversa, l’autobiografia di Richard Thompson e Mixtape Interstellare, l’intrigante vicenda della compilation che fu “allegata” alle sonde spaziali Voyager 1 e Voyager 2.

Una linea simile è riscontrabile anche tra gli editori non specializzati, come Minimum Fax (che pubblica Reynolds), e svariati altri , ma anche editori non troppo avvezzi si concedono un giro .

Dal punto di vista editoriale, quindi, il rock gode di ottima salute. È addirittura un tema caldo, tenuto conto di numeri – quelli della saggistica musicale – che non sono mai stati da best seller (nei casi migliori casomai, come dimostrano i casi di Retromania o di Come funziona la musica di David Byrne, dei long seller). Il che fa comunque a pugni con la progressiva, evidente marginalizzazione del rock in quanto genere musicale che si è consumata negli ultimi anni.

Se è lecito arrivare a una conclusione, non può che essere paradossale: il rock sembra sempre più spogliarsi della sua manifestazione sonora. Anzi, meglio: il rock è tanto più vivo quanto più se ne marginalizza il quid musicale e testuale, che rimane come aspetto residuo, accessorio, e perciò utile. Utile proprio in virtù di questa amnesia sonora che gli consente di diffondersi come catalogo di temi estetici nella moda, nella pubblicità, nei programmi televisivi e nelle soundtrack cinematografiche (serie tv comprese), situazioni per le quali occorre un rock evocativo ma a bassa carica virale, depotenziato, neutralizzato. Come abbiamo visto, a questo svuotamento sistematico, all’agitarsi incessante del simulacro (dello spettro?) del rock, a questa epidemia di rock “funzionale”, sembra corrispondere – quasi a titolo di compensazione – una riflessione piuttosto dettagliata e approfondita sulla sua eredità culturale.

Che i portatori di interesse per i libri (ma anche documentari, biopic e podcast, altri fenomeni di rilievo sui quali per brevità tocca sorvolare) dedicati al rock siano innanzitutto i famigerati boomer e quelli della generazione X, al limite pure i millennial, credo lo si possa affermare con ragionevole certezza (anche se non escludo e mi auguro intrusioni significative da parte dei cosiddetti “zoomer”). In ogni caso, mi prendo la responsabilità di affermare che questo interesse non sia rivolto tanto alla manifestazione sonora del rock, quanto alle storie che sa e può (ancora) raccontare, al suo retaggio culturale. In altre parole, la musica sta scivolando via dal rock, un po’ come ha fatto il colore dalle antiche statue dei greci e dei romani. Ma ciò che resta sembra essere comunque in grado di affascinare.

Anzi: quello che resta è la dimostrazione più lampante che col rock non ci si possa – non ci si debba – limitare alla scorza, agli aspetti stilistici e formali. Che il rock è una questione semplice ma non facile, non lo puoi confezionare né pianificare. Che il rock è fatto di storie che si srotolano, e che dipanandosi si sdoppiano cento volte, si intrecciano, si riannodano. Che il rock emerge sempre da una qualche profondità di cui porta segni visibili o invisibili, la cui sostanza è più importante della forma, forma che comunque determina e a cui partecipa. Che il rock quando vuole sembrare rock non è davvero rock, perché il rock è innanzitutto una conseguenza o al limite il frutto non necessariamente commestibile di un’ossessione.

Perché il rock somiglia più al muro dove vai a sbattere che a un target da raggiungere. Perché il rock è la benzina che fa rombare il motore ma è anche la sabbia che lo fa grippare. Perché il rock è ciò che non credevi di essere, molto più di quanto non sia ciò che vuoi dimostrare o il sogno che vorresti realizzare.

Cosa dedurne? Niente di importante. Tra queste cose di poca importanza, ne citerei due. La prima: ciò che sembra decadenza – per qualcuno addirittura morte – potrebbe rivelarsi in realtà trasformazione, preludio a una fase nuova, non necessariamente sovrapponibile a ciò che è stato. La seconda è molto più banale: attenzione a quello che luccica, perché dell’oro potrebbe avere – proverbialmente – soltanto l’aspetto.

*Stefano Solventi ha collaborato con il Mucchio Selvaggio, fa parte dello staff di Sentireascoltare. Ha pubblicato il saggio biografico PJ Harvey – Musiche maschere vita (Odoya, 2009) oltre ai romanzi La meccanica delle ombre (Cicorivolta, 2015) e Nastri (Eretica, 2017). L’ultimo lavoro è The Gloaming – I Radiohead e il crepuscolo del rock (Odoya, 2018).

 

In uno scompartimento ferroviario

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Tommaso di Tommaso Meldolesi

Era mattina presto. Fuori già faceva caldo e si prospettava una giornata bollente. “Meglio scappare da questo forno!”, pensai salendo sul treno delle sette meno un quarto. Ero convinto che una volta adagiato sul mio sedile sarei stato molto meglio grazie anche all’aria condizionata. Ma l’aria condizionata non funzionava. In compenso trovai seduto nel mio scompartimento un tizio assai strano che stava occupando il posto che mi ero prenotato. Visto che non c’erano altri viaggiatori, per evitare inutili discussioni, mi sedetti di fronte a lui. Lo scrutai attentamente. Non era giovane e aveva un fisico molto asciutto, il volto ossuto, i baffetti e gli occhialini un po’ retrò. Portava un completo di cotone a righe bianche e nere, sopra una camicia blu e una cravatta in tinta con il vestito. Vidi che sopra il sedile, nel ripiano adibito alle valigie, si trovava una bombetta che probabilmente gli apparteneva e provai per un istante a immaginarmelo con in testa quello strano copricapo alquanto démodé. “Chi è questo strano tipo? Che cosa ci fa su questo treno? Dov’è diretto e perché sta viaggiando proprio in quel giorno infrasettimanale?”, pensai.

Essendosi accorto che lo stavo osservando, accennò a un sorriso e mi disse in tono solenne:

– Forse le sembrerà strano con questo caldo, come vado vestito. In realtà questo è l’abbigliamento che più mi si addice, anche perché mi occupo di apparenza.

– Scusi? – chiesi basito.

-Sì signore. Ha capito bene. Di apparenza. E me ne vanto. In un mondo in cui l’apparenza ha conquistato tutto e tutti, nessuno sa più distinguere cosa è bello da cosa è brutto. Ma che cosa è bello e che cosa è brutto nella nostra società?

Mi parve di sognare. Dove voleva arrivare questo tizio così strano? Cosa stava cercando di dirmi?

Per un istante mi guardò stralunato, come se mi chiedesse implicitamente di trovare io una risposta ai quesiti che aveva appena esposti.

Subito dopo invece riprese a parlare:

– Vede signore, lei è molto giovane e forse non ha esperienza in questo campo; ma io di apparenza me ne intendo e le posso dire che nella società di oggi tutto ciò che appare ha preso il sopravvento in maniera arrogante e  molto conformista.

– Che cosa vuol dire? – chiesi incuriosito.

– Voglio dire che nel mondo di oggi siamo tutti sempre più condizionati dalle immagini che ci vengono proposte dai mass media a cui molti finiscono per sottomettersi.

– E questo secondo lei è un bene o un male? – chiesi curioso di seguire più che l’opinione del mio vicino, il filo del suo ragionamento.

– E’ un male! E’ un malissimo, signore mio! – esclamò alzando le braccia ed emettendo un sibilo stranissimo da sotto i baffetti argentati, simile a quello che emette il falco pecchiaiolo. –  La Belle Époque! Quella sì che è stata l’epoca d’oro delle apparenze! A quei tempi ci si poteva divertire davvero! Mica come adesso dove tutto è diventato un mercato e i prodotti commerciali hanno successo solo se hanno una bella apparenza! E gli uomini e le donne lo stesso!

Dopo di che tirò fuori una strana rivista dall’aspetto vetusto e s’immerse nella lettura, scandendo ora qua ora là dei gridolini di gioia e di stupore per taluna o tal’altra immagine che avevano attratto la sua attenzione.  Dopo un po’ però chiuse la rivista e si appisolò.

Io nel frattempo mi ero messo a  guardare, fuori dal finestrino, il paesaggio che scorreva inesorabile a una velocità sempre crescente. Era un paesaggio che conoscevo nei minimi particolari per aver percorso quella stessa tratta innumerevoli volte, eppure ad ogni viaggio mi sembrava di scorgervi qualcosa di nuovo: un muretto, una scritta o un cespuglio che forse non avevo notato le volte precedenti. Avevo la strana sensazione che, una volta passati dinanzi al mio sguardo immobile, quei muretti, quelle case, quelle scritte, quei disegni fossero destinati a scomparire per sempre dalla mia vista e chissà quando e semmai un giorno sarei ritornato a scorrerli velocemente  per poi vederli inghiottiti di nuovo dalla velocità del treno.

Di tanto in tanto gettavo un occhio sulla strana pubblicazione che il mio compagno di viaggio aveva lasciata aperta sul sedile vuoto di fianco al suo. Non sapevo di cosa si trattasse, ma mi sentivo incuriosito da quella rivista così insolita. La mia curiosità stava crescendo a tal punto che quando l’uomo si svegliò, fui lì lì per chiedergli se potessi darvi un’occhiata. Invece mi trattenni. Sentivo che se avessi ceduto al mio istinto sarei stato come risucchiato dalla stessa fantasia nostalgica e alquanto malsana che lo caratterizzava. E non avrei voluto per niente al mondo che questo accadesse. Volevo restare con i piedi ben ancorati sulla terra e capire fino a che punto quell’individuo si sarebbe spinto a rendermi parte di tutte le sue elucubrazioni sull’apparenza. Certo su alcuni punti poteva pure avere ragione, ma era il suo tono così enfatico e saccente che mi stava infastidendo.

Quando si svegliò, ricominciò a parlarmi:

– Lei saprà bene – mi disse sempre con un piglio d’arroganza – che i servizi e i beni di prima necessità, nel nostro disgraziato paese, sono sempre legati all’apparenza. Per vendere un prodotto lo si agghinda e lo si confeziona per bene, in modo che l’acquirente potenziale possa sentirsene attratto. Deve sapere, caro signore, che io, occupandomi di apparenze, presto particolare attenzione a  tutto quello che appare a prima vista ma che in realtà non è, ovvero a ciò che è molto diverso da come lo si potrebbe pensare.

E, prima che io mi fossi anche solo azzardato a rispondergli, continuò:

– Sa di apparenze ce ne sono un po’ dappertutto e sono molto più numerose di quante se ne possano immaginare.

– Mi scusi – osai chiedergli – ma quali apparenze?

– Tutte!

– Come tutte? – esclamai.- Mi spieghi un po’!

– Tutte! – mi rispose divertito. – Vede caro signore, noi viviamo nella società delle apparenze che ogni giorno ci sfiorano, ci colpiscono, ci sfruculiano la mente e finiscono per condizionare tutti i nostri comportamenti e a turbarci in profondità. Come dire? Anche lei si renderà conto che i vecchi princìpi di una volta adesso non esistono più, che tutto è diventato una moda, una vetrina, un prodotto da proporre a chi in questa società è ancora così ingenuo e stupido da farsi abbindolare…

– Ma lei è sicuro – lo interruppi –  di quel che sta dicendo?

– Ma certo signore. Ne sono arcisicuro!  – dopo un istante – ma lei, mi scusi, che lavoro fa?

– E’ proprio per questo che glielo sto chiedendo. Faccio l’insegnante alla scuola superiore.  Mi occupo dell’educazione degli adolescenti e non mi sembra che le cose stiano proprio così.

Vidi allora il mio interlocutore emettere uno strano fischio di disapprovazione e riprendere immediatamente a parlare.

-Uh uh uh signore mio, ma allora… ma allora… Eh sì, signore mio; se lei è un professionista dell’educazione, lo dovrebbe sapere… lo dovrebbe sapere ben meglio di me eh eh eh!

– Scusi, ma che cosa?

-Come ma che cosa? – esclamò quasi seccato – che tutti i ragazzi e specialmente gli adolescenti, si burlano degli adulti, non dicono mai la verità e le cose che uno tenta invano d’inculcar loro nella testa gli entrano da un orecchio per uscirgli immediatamente dall’altra parte!

– Ma non è vero! – ribattei seccato. – Ma lei che ne sa degli adolescenti di oggi?

– Ne so! Ne so! Io so tutto!

Questo tizio mi stava davvero facendo affiorare i nervi a fior di pelle. Non ho mai sopportato quelli che affermano di sapere tutto e il mio compagno di viaggio sembrava appartenere a quella scellerata categoria di persone il più delle volte arroganti e qualunquiste.

Inghiottì la saliva e continuò a parlare:

– Ma non li vede anche lei tutti i ragazzini con i telefoni cellulari e i vestiti firmati, tutti impomatati, costantemente assorbiti dai loro messaggini sui telefonini, dalla musica commerciale che ascoltano in continuazione astraendosi dalla realtà e da tutto quello che li circonda? E tutti questi extracomunitari che devono dare l’impressione di fare la fame per la strada e ogni tre per due fermano i passanti per farsi dare qualcosa in elemosina e poi possiedono anche loro dei telefoni cellulari di ultimo grido con cui comunicano con la loro famiglia oppure con chi hanno lasciato nel loro paese d’origine? Tutto nella società in cui viviamo è svuotato dei propri conteunti e ridotto a un accumulo d’immagini accattivanti! Basta dare una parvenza di democrazia! Basta far sì che la gente creda che  i diritti di tutti siano tutelati, anche se non è vero! Ci s’illude. Ci s’illude di un’apparenza che poi regolarmente finisce per schiacciare i più deboli!

Il mio compagno di viaggio aveva pronunciato queste ultime parole con un piglio talmente arrogante da farmi passare la voglia di starlo ad ascoltare. Certo, sui princìpi generali saremmo pure andati d’accordo, ma davvero cominciavo a non sopportarlo più.

Quando all’improvviso tacque, mi sembrò per un istante di tornare a respirare e, dopo un momento di silenzio, fui io a parlare. Cercai di controbattere, se non altro per spezzare la monotonia del suo interminabile monologo. Provai a riportare il discorso sui ragazzi adolescenti. Perché se è vero che si acconciano spesso nei modi più impensati seguendo ora questa, ora quella moda, è anche vero che il loro equilibrio è sempre più instabile. La loro incolumità è minata di continuo dalle opinioni espresse sulla rete e, in particolar modo sui social networks, da loro coetanei o da ragazzi di poco più grandi. E’ là che, a mio avviso, in questo momento storico, per lo meno nella società occidentale, tutto quello che riguarda il mondo dell’apparenza gioca un ruolo devastante, specialmente sullo stato d’animo e sull’equilibrio psicologico sempre più instabile degli adolescenti. Avrei voluto intavolare con lui un dialogo su questo argomento, ai miei occhi di scottante attualità, ma il mio compagno di viaggio non mi ascoltava, intento com’era a seguire soltanto il flusso dei suoi pensieri.

Fui allora io ad appisolarmi, per non so bene quanto tempo. Quando mi risvegliai, lo vidi in piedi di fronte a me, con un’espressione completamente diversa. Contrariamente a quanto aveva affermato, l’uomo dai baffetti s’era cambiato d’abito. Ora assomigliava a un normalissimo viaggiatore. Sembrava che il suo interesse per l’apparenza fosse completamente svanito.

Mi apostrofò in tono perentorio chinandosi verso di me:

– Sono stato uno statista. Sono un grande illusionista e oggi ho gabbato anche te!

Poi si allontanò, uscì allo scompartimento e sparì nel nulla.

 

Ogni tanto mi chiedo se l’incontro con questo personaggio così singolare non sia stato tutto un sogno. Eppure quel viaggio fatto ormai molti anni fa lo ricordo bene quasi nei minimi particolari. E questo mio strano compagno di viaggio magari è davvero esistito fuori dalla mia fantasia di curioso inventore di storie e d’illusioni.

 

 

 

esattamente 52 anni fa

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«Quella sera a Milano era caldo.
Ma che caldo che caldo faceva.
“Brigadiere apra un po’ la finestra”.
E ad un tratto Pinelli cascò.»

E poi guardatevi questa:

David Foster Wallace e gli incisi [#2]

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di Nicolò Cattaruzzo

Scelte incisive

Per questa analisi ho scelto The (as it were) seminal importance of Terminator 2, un articolo pubblicato nel 1998 che per campo d’indagine (cinema pop, mainstream) e per approccio (ironico e riflessivo) è paragonabile al reportage-saggio A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again del 1999. La scelta di un testo con molti elementi di comunanza con quello già analizzato permette di verificare la replicabilità del modello di analisi che ho proposto.
D. F. Wallace ricorre spesso all’uso di incisi nella prosa non narrativa, costruisce periodi interi attorno agli incisi tanto che se venissero rimossi il testo continuerebbe a funzionare ma risulterebbe scarno e arido.

Nella prima parte ho riportato degli esempi di incisi tratti dal testo in lingua inglese, mentre nella seconda ho riportato nello stesso ordine i brani scelti e ne ho analizzato la traduzione e in particolare la resa della sintassi e della punteggiatura in italiano.

Iniziamo dal titolo:

The (as it were) seminal importance of Terminator 2

L’inciso tra parentesi tonde aggiunge una traccia beffarda a un titolo che altrimenti potrebbe suonare serioso; inoltre conferisce un tono ambiguo all’aggettivo «seminal» che può significare «fondamentale» ma anche «seminale».

Traduzione italiana

La traduzione (Giovanna Granato, Einaudi 2013) presenta alcune piccole differenze rispetto all’originale anche se in linea generale ne rispetta la struttura sintattica, le scelte lessicali, di punteggiatura e l’uso delle note.
Un appunto sulla scelta del titolo e della copertina: si è scelto di intitolare Di carne e di nulla la raccolta che contiene L’importanza (per così dire) seminale di Terminator 2 come la versione originale, tuttavia l’articolo da cui è tratto il titolo della raccolta di saggi Both Flesh and Not non è presente perché pubblicato in Italia in un’altra raccolta. Inoltre, con scarsa fantasia o per desiderio di fedeltà (tradita in principio), la copertina è ingannevolmente la stessa della versione americana.

Iniziamo dal titolo: L’importanza (per così dire) seminale di Terminator 2, ricalcando nella forma l’originale, mantiene il tono beffardo ma perde in ambiguità, diventa più esplicito dal momento che in italiano «seminale» non rimanda, come in inglese, al significato di fondamentale.

Incisi per specificare e commentare

In questo esempio due diversi tipi di inciso (virgole e parentesi) vengono usati per specificare prima una data, poi il riferimento a una persona:

This also entails that meanwhile, up in A.D. 2027, John Connor has had to send the man he knows is his father on a mission that J.C. knows will result in both that man’s death and his (i.e., J.C.’s) own birth.

Qui le parentesi sono usate per ricreare un doppio piano temporale, quello di chi già sa come finisce il film e quello di chi ha appena iniziato a vederlo:

Its big-budget sequel adds only one ironic paradox to The Terminator’s mix: in T2, we learn that the “radically advanced chip”10 on which Skynet’s CPU is (will be) based actually came (comes) from the denuded and hydraulically pressed skull of T1’s defunct Terminator… meaning that Skynet’s attempts to alter the flow of history bring about not only John Connor’s birth but Skynet’s own, as well.

Tra parentesi si può trovare la spiegazione di un termine:

One of the most reliable of these formulae involves casting a superstar who is “bankable” (i.e., whose recent track record of films shows a high ROI).

Qui invece la spiegazione di un’espressione è contenuta all’interno di trattini:

I.e., a megabudget movie must not fail—and “failure” here means anything less than a runaway box-office hit—and must thus adhere to certain reliable formulae that have been shown by precedent to maximally ensure a runaway hit.

Nel prossimo esempio l’inciso si trova tra due punti fermi e mette in risalto un aspetto del ragionamento contenuto nel capoverso:

And there is no question that all the lab work paid off: in 1991, Terminator 2’s special effects were the most spectacular and real-looking anybody had ever seen. They were also the most expensive.

Annidamenti

Inciso seguito da punto fermo con inciso all’interno e annidamento semplice:

It’s not that T2 is totally plotless or embarrassing—and it does, admittedly, stand head and shoulders above most of the F/X Porn blockbusters that have followed it.

In questo caso particolare l’inciso tra parantesi contiene un commento e il rimando a una nota:

There’s the inspired casting of the malevolently cyborgian Schwarzenegger as the malevolently cyborgian Terminator, the role that made Ahnode a superstar and for which he was utterly and totally perfect (e.g., even his goofy 16-r.p.m. Austrian accent added a perfect little robofascist tinge to the Terminator’s dialogue5).

Da notare che la nota in questione è tra le più lineari: esprime senza incisi il pensiero di Wallace e potrebbe considerarsi una sintesi dell’intero articolo.

Incisi ingombranti

Inciso che contiene il cuore della frase:

Note, for example, the fact that Terminator 2: Judgment Day, a movie about the disastrous consequences of humans relying too heavily on computer technology, was itself unprecedentedly computer-dependent.

In questo esempio vediamo una struttura tipica di Wallace: un capoverso per la prima metà ricco di elementi collegati per polisindeto, seguito poi da un lungo inciso che occupa circa un terzo dell’intero capoverso (divertente la resa dell’accento di Schwarzenegger con «vhy» e «somesing», cosa che nella traduzione italiana manca):

Thus it is that the 85 percent of T2 that is not mind-blowing digital F/X sequences subjects us to dialogue like: “Vhy do you cry?” and “Cool! My own Terminator!” and “Can you not be such a dork all the time?” and “This is intense!” and “Haven’t you learned that you can’t just go around killing people?” and “It’s OK, Mom, he’s here to help” and “I know now vhy you cry, but it’s somesing I can never do”; plus to that hideous ending where Schwarzenegger gives John a cyborgian hug and then voluntarily immerses himself in molten steel to protect humanity from his neural net CPU, raising that Fonziesque thumb as he sinks below the surface,17 and the two Connors hug and grieve, and then poor old Linda Hamilton—whose role in T2 requires her not only to look like she’s been doing nothing but Nautilus for the last several years but also to keep snarling and baring her teeth and saying stuff like “Don’t fuck with me!” and “Men like you know nothing about really creating something!” and acting half-crazed with paramilitary stress, stretching Hamilton way beyond her thespian capacities and resulting in what seems more than anything like a parody of Faye Dunaway in Mommy Dearest—has to give us that gooey “I face the future with hope, because if a Terminator can learn the value of human life, maybe we can, too” voiceover at the very end.

Doppia enfasi, anzi tripla

L’avverbio «maximally» viene ripetuto all’interno dei trattini e scritto in corsivo con un effetto volutamente ridondante:

A film that would cost hundreds of millions of dollars to make is going to get financial backing if and only if its investors can be maximally—maximally—sure that at the very least they will get their hundreds of millions of dollars back11.

Elenchi – parentesi per specificare e ordinare

Le parentesi servono a specificare gli elementi che costituiscono l’elenco (che ho evidenziato per maggior immediatezza):

Thus it is that T2 offers us cliché explorations of stuff like the conflicts between Emotion and Logic (territory already mined to exhaustion by Star Trek) and between Human and Machine (turf that’s been worked in everything from Lost in Space to Blade Runner to RoboCop), as well as exploiting the good old Alien-or-Robot-Learns-About-Human-Customs-and-Psychology-from-Sarcastic-and/or-Precocious-but-Basically-Goodhearted-Human-with-Whom-It-Bonds formula (q.q.v. here My Favorite Martian and E.T. and Starman and The Brother from Another Planet and Harry and the Hendersons and ALF and ad almost infinitum).

Questo esempio è la parte conclusiva dell’articolo e costituisce un esempio nitido della complessità che la scrittura di Wallace può assumere. Troviamo un lungo inciso che contiene un elenco, gestito con i numeri cardinali tra parentesi, all’interno del quale ci sono incisi tra parentesi e tra due trattini. Terminato l’inciso, la frase riprende per una quindicina di parole dopo le quali si apre un nuovo elenco, questa volta introdotto dai due punti e gestito con sigle tra parentesi e lettere in sotto parentesi, che contiene a sua volta un rimando (non una nota) alle prime righe dell’articolo stesso:

The point is that head-clutchingly insipid stuff like this puts an even heavier burden of importance on T2’s digital effects, which now must be stunning enough to distract us from the formulaic void at the story’s center, which in turn means that even more money and directorial attention must be lavished on the film’s f/x. This sort of cycle is symptomatic of the insidious three-part loop that characterizes Special Effects Porn—
(1) Astounding digital dinosaur/tornado/volcano/Terminator effects that consume almost all the director’s creative attention and require massive financial commitment on the part of the studio;
(2) A consequent need for guaranteed megabuck roi, which entails the formulaic elements and easy sentiment that will assure mass appeal (plus will translate easily into other languages and cultures, for those important foreign sales…);
(3) A director—often one who’s shown great talent in earlier, less expensive films—who is now so consumed with realizing his spectacular digital visions, and so dependent on the studio’s money to bring the f/x off, that he has neither the leverage nor the energy to fight for more interesting or original plots/themes/characters.—
and thus yields the two most important corollary formulations of the Inverse Cost and Quality Law:
(icql(a)) The more lavish and spectacular a movie’s special effects, the shittier that movie is going to be in all non-f/x respects. For obvious supporting examples of icql(a), see lines 1–2 of this article and/or also Jurassic Park, Independence Day, Forrest Gump, etc.

Incisi per specificare e commentare

In questi due annidamenti l’originale e la traduzione coincidono. L’unica differenza è la traduzione di «the man» con «quello», scelta non obbligatoria fatta forse per evitare una ripetizione:

Questo implica anche che nel frattempo, nel 2027 d.c., John Connor ha dovuto mandare quello che sa essere suo padre in una missione che sa destinata a risolversi nella morte dell’uomo e nella sua (cioè di J. C.) nascita.

Anche qui la traduzione si appoggia all’originale:

Il suo sequel ad alto budget aggiunge un solo paradosso ironico al miscuglio di Terminator: in T2 veniamo a sapere che il «chip nettamente evoluto»10 sul quale la Cpu di Skynet è (sarà) basata, in realtà veniva (viene) dal cranio denudato e idraulicamente schiacciato del defunto Terminator di T1… nel senso che il tentativo di Skynet di modificare il corso della storia provoca non solo la nascita di John Connor ma quella dello stesso Skynet.

Tranne per una minuta differenza (la scelta di non mettere la virgola dopo «cioè») lo stesso vale anche in questo esempio:

Una tra le più affidabili di queste formule prevede di scritturare una superstar «bancabile» (cioè che nel curriculum abbia film recenti con un Roi alto).

Invece qui la virgola c’è

Nell’esempio che segue la punteggiatura rispecchia il testo in inglese, ma non gli effetti anaforici ottenuti dalla ripetizione di «were the most», sostituito nel secondo elemento con «nonché»:

Nell’esempio che segue la punteggiatura rispecchia il testo in inglese, ma non gli effetti anaforici ottenuti dalla ripetizione di «were the most», sostituito nel secondo elemento con «nonché»:

E non c’è dubbio che tutto il lavoro in laboratorio abbia pagato: nel 1991, gli effetti speciali di Terminator 2 sono stati i più spettacolari e realistici di tutti i tempi. Nonché i più costosi.

Annidamenti

Nel prossimo esempio l’inciso nell’inciso scompare, «admittedly» viene assorbito nel verbo:

Non è che T2 sia totalmente privo di trama o vergognoso – e bisogna ammettere che è nettamente superiore alla maggior parte dei porno-blockbuster a effetti speciali che lo hanno seguito.

In questa sequenza la traduzione segue l’originale (compresi i neologismi «cyborgiano» laddove però la «g» in italiano seguita dalla «i» non è gutturale, e «robofascista»):

C’è la scelta ispirata del malvagiamente cyborgiano Schwarzenegger nella parte del malvagiamente cyborgiano Terminator, ruolo che ha reso Ahnode una superstar e per il quale era in tutto e per tutto perfetto (per esempio, perfino il suo stupido accento austriaco a 16 giri/min aggiungeva una piccola sfumatura robofascista perfetta al dialogo del Terminator5).

Incisi ingombranti

L’esempio seguente ricalca l’originale, l’unica riserva è sulla decisione di tradurre «itself» con «a sua volta»:

Notate, per esempio, il fatto che Terminator 2. Il giorno del giudizio, un film sulle conseguenze disastrose dell’eccessivo affidarsi alla tecnologia informatica da parte degli umani, mostra a sua volta una dipendenza dall’informatica mai vista.

Il lungo elenco connesso per polisindeto e seguito da un grosso inciso rimane tale senza particolari variazioni tranne la resa del discorso di Linda Hamilton (evidenziato), probabilmente preso dalla sceneggiatura del film:

Ecco allora che l’ottantacinque per cento di quanto in T2 non siano sequenze con effetti speciali digitali allucinanti ci ammorba con dialoghi tipo: «Perché piangete?» e «Che fico! Il mio Terminator privato!» e «Puoi imparare roba che non hai in memoria per poter diventare, diciamo, più umano e un po’ meno imbranato?» e «Che ficata!» e «Non puoi girare ammazzando la gentecosì» e «È tutto ok, mamma, è qui per aiutarci» e «Ora capisco perché piangete, ma io non potrei mai farlo»; oltre al finale mostruoso in cui Schwarzenegger stringe John in un abbraccio cyborgiano e poi si immerge di sua spontanea volontà nell’acciaio fuso per proteggere l’umanità dalla sua Cpu a rete neurale, sollevando un pollice fonziano mentre affonda sotto la superficie17, e i due Connor si abbracciano e soffrono, e poi la povera Linda Hamilton – il cui ruolo in T2 richiede non solo che dia l’impressione di non avere fatto altro che il Nautilus negli ultimi sette anni, ma anche che continui a sbraitare e sfoderare i denti dicendo cose tipo: «Non fare lo stronzo!» e «I maschi come te […] non capirete mai cosa significa veramente creare!» e a recitare semi-impazzita per lo stress paramilitare spingendola ben oltre le sue capacità attoriali e dando come risultato quella che sembra più una parodia di Faye Dunaway in Mammina cara – è costretta a rivolgerci quello stupido: «Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi. E io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza. Perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi» con voce fuori campo a fine film.

Doppia enfasi, anzi tripla (o quadrupla?)

È curioso notare come alla ridondanza già marcata sia stato aggiunto un altro elemento, «e dico», che sottolinea ulteriormente la necessità di «avere la certezza assoluta»:

Un film che costerebbe centinaia di milioni di dollari11 avrà un appoggio finanziario se e soltanto se i suoi investitori potranno avere la certezza assoluta – e dico assoluta – di riavere indietro come minimo le loro centinaia di milioni di dollari.

Elenchi – parentesi per specificare e ordinare

In questo caso la traduzione non differisce dall’originale:

Così facendo T2 ci offre un’esplorazione stereotipata di aspetti come il conflitto fra Sentimento e Logica (terreno già minato fino allo sfinimento da Star Trek) e fra Umano e Macchina (terra zappata in ogni sua zolla da Lost in Space a Blade Runner a RoboCop) oltre a sfruttare la buona vecchia formula Alieno-o-Robot-Impara-Usanze-e-Psicologia-Umane-da-Essere-Umano-Sarcastico-e/o-Precoce-ma-Fondamentalmente-Buono-con-il-Quale-Stringe-un-Legame (vedi Il mio amico marziano, E.T., Starman, Fratello di un altro pianeta, Bigfoot e i suoi amici, la serie televisiva Alf, più o meno ad infinitum).

Nell’esempio che segue, come hanno poi fatto anche i traduttori di Una cosa divertente che non farò mai più (2017), il trattino che nel testo originale introduce un lungo inciso (con all’interno note, una citazione-riferimento a una delle pagine iniziali dell’articolo stesso, incisi e sotto voci) è stato reso con il segno grafico dei due punti ed è poi stato chiuso con un punto e virgola (invece che dal punto) cui segue il resto della frase:

Il punto è che roba insulsa da mettersi le mani nei capelli come questa carica di un peso ancora maggiore gli effetti speciali di T2, costretti a essere così strabilianti da distrarci dal vuoto stereotipato al centro della storia, il che a sua volta significa che richiedono ancora più denaro e attenzione registica. Un ciclo di questo tipo è sintomatico dell’insidioso triplice circolo che caratterizza il Porno a Effetti Speciali:
(1) Strabilianti effetti dinosauro/tornado/vulcano/Terminator digitali che consumano quasi tutta l’attenzione creativa del regista e richiedono un massiccio impegno economico da parte dello studio;
(2) Il conseguente bisogno di garantire un Roi da milioni di dollari, che comporta gli elementi stereotipati e un facile sentimentalismo tali da assicurare il gradimento di massa (che in più si traduca facilmente in altre lingue e culture, per le importanti vendite all’estero);
(3) Un regista – spesso uno che ha dimostrato grande talento in film precedenti e meno costosi – ormai così consumato dal desiderio di realizzare le sue spettacolari visioni digitali, e così dipendente dai soldi dello studio per ottenere gli effetti speciali, da non avere né la voce in capitolo né l’energia per battersi in nome di trame/tematiche/personaggi più interessanti o originali;
e perciò produce i due più importanti corollari alla Legge del Costo e della Qualità Inversi:(Lcqi (a)): Quanto più sono lauti e spettacolari gli effetti speciali di un film, tanto più quel film farà schifo sotto tutti gli aspetti che non riguardino gli effetti speciali. Come ovvio esempio a sostegno di Lcqi(a), vedi le righe 1-2 del presente articolo e/o anche Jurassic Park, Independence Day, Forrest Gump, ecc.

Incisi nelle note

Le note non deludono: troviamo quelle classiche tutte tra parentesi (1,3, 9, 10, 15, 17) ma anche parentesi quadre contenute nelle tonde (7 e 8):

(This is a ponderous, marvelously built-looking quality [complete with ferrous clanks and/or pneumatic hisses] that—oddly enough—at roughly the same time also distinguished the special effects in Terry Gilliam’s Brazil and Paul Verhoeven’s RoboCop. This was cool not only because the effects were themselves cool, but also because here were three talented young tech-minded directors who rejected the airy, hygienic look of Spielberg’s and Lucas’s f/x. The grimy density and preponderance of metal in Cameron’s effects suggest that he’s looking all the way back to Méliès and Lang for visual inspiration.)

(Cameron would raise the use of light and pace to near-perfection in Aliens, where just six alien-suited stuntmen and ingenious quick-cut editing result in some of the most terrifying Teeming Rapacious Horde scenes of all time. [By the way, sorry to be going on and on about Aliens and The Terminator. It’s just that they’re great, great commercial cinema, and nobody talks about them enough, and they’re a big reason why T2 was such a tragic and insidious development not only for ‘90s film but for James Cameron, whose first two films had genius in them.])

Due considerazioni vengono in mente:

1. in Una cosa divertente che non farò mai più nelle note erano state usate parentesi tonde dentro ad altre parentesi tonde;
2. perché usare le parentesi quadre dentro le tonde quando in matematica la gerarchia impone il contrario? Si tratta di un errore, di un’incoerenza o di uno sberleffo?

La nota 16 abbastanza intricata è tra i capoversi più lunghi dell’intero testo:

That’s the movie’s main plot, but let’s observe here that one of T2’s subplots actually echoes Cameron’s Schwarzenegger dilemma and creates a kind of weird metacinematic irony. Whereas T1 had argued for a certain kind of metaphysical passivity (i.e., fate is unavoidable, and Skynet’s attempts to alter history serve only to bring it about), Terminator 2’s metaphysics are more active. In T2, the Connors take a page from Skynet’s book and try to head off the foreordained nuclear holocaust, first by trying to kill Skynet’s inventor and then by destroying Cyberdyne’s labs and the first Terminator’s cpu (though why John Connor spends half the movie carrying the deadly cpu chip around in his pocket instead of just throwing it under the first available steamroller remains unclear and irksome). The point here is that the protagonists’ attempts to revise the “script” of history in T2 parallel the director’s having to muck around with T2’s own script in order to get Schwarzenegger to be in the movie. Multivalent ironies like this—which require that film audiences know all kinds of behind-the-scenes stuff from watching Entertainment Tonight and reading (umm) certain magazines—are not commercial postmodernism at its finest.

Le note 11 e 13 sono più lineari, di servizio, tecniche:

The Industry term for getting your money back plus that little bit of extra that makes investing in a movie a decent investment is roi, which is short for Return on Investment.

It augurs ill for both Furlong and Cameron that within minutes of John Connor’s introduction in the film we’re rooting vigorously for him to be Terminated.

Periodi privi di incisi

Negli ultimi due esempi la sintassi non è costruita con o attorno a incisi, vengono espressi concetti e pensieri in maniera meno mediata, più lineare e spontanea:

Think of the scenes we all still remember. That incredible chase scene and explosion in the l.a. sluiceway and then the liquid metal1 t-1000 Terminator walking out of the explosion’s flames and morphing seamlessly into his Martin-Milner-as-Possessed-by-Hannibal-Lecter corporeal form. The t-1000 rising hideously up out of that checkerboard floor, the t-1000 melting headfirst through the windshield of that helicopter, the t-1000 freezing in liquid nitrogen and then collapsing fractally apart. These were truly spectacular images, and they represented exponential advances in digital f/x technology. But there were at most maybe eight of these incredible sequences, and they were the movie’s heart and point; the rest of T2 is empty and derivative, pure mimetic polycelluloid.

There’s consequently a weird postmodern tension to the way we watch the film: we’re aware of what the bankable star’s demands were, and we’re also aware of how much the movie cost and how important bankable stars are to a big-budget movie; and so one of the few things that keep us on the edge of our seats during the movie is our suspense about whether James Cameron can possibly weave a plausible, non-cheesy narrative that meets Schwarzenegger’s career needs without betraying T1’s precedent.

Incisi nelle note

Come per il resto della traduzione, anche le note sono state accuratamente riprodotte e tradotte rispettando l’originale.

(È un aspetto ponderoso, dall’aria meravigliosamente costruita [con tanto di rumori metallici e/o sibili pneumatici] che – stranamente – piú o meno nello stesso periodo caratterizzava anche gli effetti speciali di Brazil di Terry Gilliam e di RoboCop di Paul Verhoeven. Era una ficata non solo perché gli effetti erano fichi di per sé, ma anche perché tre giovani registi talentuosi d’impostazione tecnologica rifiutavano l’aspetto aereo, igienico degli effetti speciali di Spielberg e Lucas. La stomachevole densità e preponderanza del metallo negli effetti di Cameron suggerisce un rimando addirittura a Méliès e a Lang per l’ispirazione visiva)
(Cameron avrebbe portato l’uso delle luci e il ritmo a livelli quasi di perfezione in Aliens, dove bastano sei stuntman vestiti da alieni e un montaggio ingegnosamente veloce a dare come risultato una delle piú terrificanti scene dell’Orda Sciamante di Rapaci di tutti i tempi. [A proposito, scusate se la faccio tanto lunga con Aliens e Terminator. È solo che sono film commerciali veramente magnifici e nessuno ne parla a sufficienza, e sono uno dei grandi motivi che spiegano come mai T2 abbia costituito uno sviluppo cosí tragico e insidioso non solo per il cinema degli anni Novanta ma per James Cameron, i cui primi due film avevano un che di geniale])
Questa la trama principale del film, ma osserviamo che una delle trame secondarie di T2 in realtà riecheggia il dilemma Schwarzenegger di Cameron e crea una specie di strana ironia metacinematografica. Se T1 aveva sostenuto un certo tipo di passività metafisica (cioè il destino è inevitabile, e i tentativi di Skynet di modificare la storia servono solo a consentire il suo corso), la metafisica di Terminator 2 è piú attiva. In T2 i Connor prendono una pagina del libro di Skynet e si sforzano di impedire il predestinato olocausto nucleare, dapprima cercando di uccidere l’inventore di Skynet e poi distruggendo i laboratori della Cyberdyne e la Cpu del primo Terminator (anche se perché John Connor per mezzo film si porti in tasca il letale chip della Cpu anziché buttarlo sotto il primo rullo compressore a vapore rimane poco chiaro e irritante). Il punto è che i tentativi dei protagonisti di revisionare la «sceneggiatura» della storia in T2 vanno di pari passo con la necessità del regista di strapazzare la sceneggiatura di T2 per poter avere Schwarzenegger nel film. Ironie polivalenti tipo questa – che presuppongono che gli spettatori del film conoscano ogni sorta di dietro-le-quinte per aver visto Entertainment Tonight e letto (uhm) certe riviste – non sono postmodernismo commerciale nella sua veste piú raffinata.
Il temine tecnico usato quando vengono restituiti i soldi con l’aggiunta di un piccolo extra che rende investire in un film un investimento decente è Roi, che sta per «ritorno sugli investimenti».
Porta male sia a Furlong sia a Cameron che a pochi minuti dalla comparsa di John Connor nel film tifiamo con tutte le forze perché venga Terminato.

Periodi privi di incisi

In maniera simile all’inglese (riproducendo anche i neologismi «frattalmente» e «policelluloide») sono resi in italiano i due capoversi più lineari:

T2, uno dei successi più clamorosi della storia, è uscito sei anni fa. Pensate alle scene che ricordiamo ancora tutti. L’incredibile scena dell’inseguimento con esplosione nel canale artificiale di Los Angeles e poi il metallo liquido1 con cui il Terminator t-1000 esce dalle fiamme dell’esplosione assumendo la forma corporea senza suture di un Martin-Milner-Posseduto-da-Hannibal-Lecter. Il t-1000 che affiora mostruosamente dal pavimento a scacchi, il t-1000 che si scioglie entrando con la testa nel parabrezza di un elicottero, il t-1000 che si congela nel nitrogeno liquido e poi cade frattalmente a pezzi. Quelle sì che erano immagini spettacolari, e rappresentavano progressi esponenziali nella tecnologia digitale degli effetti speciali. Ma di sequenze così incredibili ce n’erano a dir tanto otto, e costituivano la sostanza e la ragion d’essere del film; il resto di T2 è vuoto e derivativo, pura policelluloide mimetica.

Di conseguenza c’è una strana tensione postmoderna nel modo di guardare il film: sappiamo quali pretese ha accampato la star bancabile, e sappiamo quanto costa il film e quanto siano importanti le star bancabili per i film a grosso budget; e perciò una delle poche cose che ci tiene sulle spine durante il film è non sapere se James Cameron sia riuscito a tessere una narrazione plausibile e non dozzinale che assecondi le esigenze della carriera di Schwarzenegger senza tradire il precedente di T1.

Conclusioni

In T2, come in Una cosa divertente che non farò mai più, vi è un ricorso frequente agli incisi per espandere e ampliare la profondità dell’analisi, per dare spazio a commenti sarcastici e ironici, pungenti, per autocorreggersi, precisare, rettificare. Gli incisi servono ad allargare lo spettro della riflessione, a entrare nel dettaglio ma sono anche un modo diverso di interagire con il lettore, un modo di interloquire e di coinvolgere. Penso, per esempio, all’uso massiccio di note interne al testo e di come diventino parodia delle classiche note dei testi accademici presentando commenti molto personali, sarcastici, indispensabili; approfondimenti talvolta più pregnanti di quel che viene detto nel testo stesso: basti pensare che solo le note occupano quasi un terzo (6640 battute su 20750) del testo intero.

In Wallace gli incisi dettagliano e circostanziano quanto viene detto, specificano, delimitano, aggiungono, commentano: testimoniamo il pensiero acuto, mai statico, ironico, schietto e vivace dello scrittore; tramite gli incisi Wallace si prende gioco della complessità della ragione.

Il risultato dell’analisi è un modello di analisi funzionante (almeno con Wallace saggista) e potenzialmente replicabile.  Si rivela inoltre un buon strumento di revisione della traduzione, un modo per scandagliare il testo a partire dalle virgole e dagli altri segni di interpunzione che porta a un’accurata disamina del rapporto tra forma e contenuto.

La prima parte è qui David Foster Wallace e gli incisi [#1]

Nicolo Cattaruzzo Sono nato e cresciuto a Venezia, città in cui mi sono laureato in Lingue e letterature straniere con una tesi di traduzione di un romanzo polacco in italiano. Dopo una breve parentesi da dottorando, ho lavorato prima come cuoco e poi come insegnante di lingua italiana per stranieri. Nel 2019 ho seguito il corso di Oblique Studio per redattori editoriali e nel 2020 ho fatto alcuni mesi di esperienza nella redazione di Cliquot edizioni, proseguendo come redattore freelance. Sono direttore tecnico e responsabile informatico dell’Asd Salvioli, circolo scacchistico veneziano.

L’Anno del Fuoco Segreto: Gli impuri

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Claudio Kulesko

I

L’uccello color grafite se ne stava appollaiato sul lampione, la testa appena reclinata, lo sguardo vitreo puntato sull’albergo in rovina. Semicoperto com’era dalla luce artificiale assomigliava a un grumo d’acciaio, quasi un prolungamento naturale del lampione. Più grosso e meno maestoso di quanto ricordassi.
Rimasi a fissarlo per un po’ dal marciapiede, aggrappandomi a quel che restava della sigaretta. Più per abitudine, che per pretesto. Era la terza di fila. La mia regola prevedeva di non fumare fino a mezzogiorno e mai in camera da letto ma, quando attaccavo, ne dovevo fumare almeno due o tre. Nel gettare via il mozzicone, gli lanciai un’ultima occhiata.
«Tu sai chi è stato, vero?»
Sibilai tra i denti.
Rimase immobile, come uno di quei volatili impagliati che riempiono i musei.
Alzai i tacchi e mi diressi alla porta. Le grandi ante pendevano dai cardini, divelte e spiegazzate, come se una forza micidiale vi si fosse abbattuta contro senza esitazione.
Pensai subito all’impatto con un camion o un furgone blindato.
Entrando fui investito dall’odore di vecchio e dal puzzo di urina. Una miscela che pareva adattarsi alla perfezione allo stato di abbandono in cui versava l’ex-Fitzgerald.
Una miriade di frammenti di vetro, sparsi sulla moquette grigio topo, descrivevano un cono ideale che, dalla cornice della porta, si estendeva lungo tutta la prima parte della hall. Qua e là,  sparute macchie di sangue conferivano alle schegge un ché di astratto.
Peccato che i poveri stronzi investiti da quella cosa non potessero apprezzarne, al par mio, la sottile grazia formale.
In fondo alla hall, tra la reception e l’ascensore, due agenti di polizia piantonavano le scale.
Alzai una mano in segno di saluto, senza smettere di avanzare.
Lo sbirro più anziano e corpulento si girò a guardarmi, proprio mentre l’altro si faceva avanti, mano sulla fondina.
«Non può entrare, l’edificio è posto sotto seq…»
Il più vecchio lo agguantò per una spalla e lo tirò indietro, con la stessa facilità con cui avrebbe spostato un bambino. In una frazione di secondo, il novellino si ritrovò al punto di partenza, a un passo dalla carta da parati ammuffita.
«Dan, santo Peril, togliti quella scopa dal culo!»
Lo ammonì il più anziano. una mia vecchia conoscenza, Torvik. Per certi versi, mi era mancato.
«Ciao Vas, l’ispettore è di sopra con la scientifica. Che ti serve?»
Mi chiese, tastandosi la pancia prominente.
«In realtà sono qui per caso. La persona che sto cercando frequenta questo posto.»
«Frequentava, vorrai dire!»
Mi corresse, sfoggiando un sorrisetto furbo.
«Se n’è salvato solo uno. L’abbiamo trovato sul tetto, nascosto in una cisterna come un topo di fogna.»
Aggrottai la fronte e parve cogliere al volo la mia incomprensione.
«Squatter. Vivevano qui, tutti quanti. Se lo vieni a chiedere a me, i tossici se lo meritavano, eccome. Ma gli altri…», parve soppesare le parole, «…Non avevano nessun altro posto in cui andare.»
“Tossico”. Chissà quante volte si sarà rivolto a me allo stesso modo, negli ultimi anni, spettegolando coi colleghi nei bar dove si radunano gli sbirri.
Lanciò un’occhiataccia spaventosa al ragazzo e si fece da parte, indicandomi le scale con la punta del mento.
«Vai, e attento a dove metti i piedi. Pravus aspetta solo l’occasione giusta per sbatterti dentro.»
Annuii e imboccai alla svelta la ripida scala tappezzata di moquette. Gente del genere cambia idea facilmente.
Non avevo ancora oltrepassato la seconda rampa, che la voce di Torvik rimbombò per la tromba delle scale.
«Ehi! L’hai visto quel coso là fuori?»
Non mi degnai neppure di rispondere.
Come potrei non averlo visto, brutto panzone? È grosso come un tacchino.
 
 

Estratto da Vita di Gil. Avventura di uno spirito libero, di Gil Ramachandran, La Fenice editore, Domersk 257 d.I.

 

Mi spostai a poppa per scrutare il tramonto.
Il sole pareva liquefarsi nell’oceano, tingendolo di un rosso vivo e intenso che, per un istante, mi fece scordare di essere su di un rottame arrugginito, nel bel mezzo del nulla, in compagnia di un centinaio di altri disperati come me.
Per un attimo, mi sentii come uno di quei miliardari in yacht che avevo visto su Instagraph, anche se dubito che qualcuno di loro avesse mai patito la stessa fame che mi attanagliava lo stomaco in quel momento.
Alle mie spalle, udii un pigolio sommesso, esile rispetto al vasto silenzio che ci circondava.
Il pianto di un neonato. Neppure lui pareva in grado di strillare più forte di così.
Ripensai a una vecchia battuta di una sitcom domerskiana, I MacKlusky.
I due protagonisti, i fratelli MacKlusky, sono sperduti su un gommone in mare aperto, dopo una battuta di pesca finita male. Su di loro batte da ore un sole implacabile. Harry, il più sveglio dei due, solleva la testa. Negli occhi ha lo sguardo velato di chi muore di stenti. Harry si guarda attorno e con voce lamentosa fa: «Ho sete!». L’altro, Brandon, il più stupido, ancora intento a pescare con un filo di plastica privo di esca, si gira a guardarlo con aria supponente e dice: «Di certo qui non manca l’acqua!», dando il via a uno scroscio di risate preregistrate.
A pensarci bene, mancavano solo quelle per rendere la nostra situazione ancor più surreale.
Le voci inflessibili che, nei giorni scorsi, erano giunte dalla radio di bordo parevano una parodia di quella di Brandon. A ogni nostra richiesta di aiuto, la capitaneria di porto, i militari e persino i medici rispondevano: «Non ci vorrà ancora molto, abbiate pazienza. I soccorsi stanno per partire.»
I giorni passavano e ogni qualvolta chiedevamo «Come faremo per bere, dove prenderemo il cibo?», le voci rispondevano: «Dovete resistere». Ed ecco partire le risate.
Fui costretto ad affrontare la realtà dei fatti: tutto quello che internet, i libri e la televisione ci avevano detto del Domersk non era, a rigor di logica, falso. Peggio ancora. Era tutto vero, col solo intoppo che quella verità ci era preclusa.
Mentre i crampi della fame mi stringevano le budella in una morsa, realizzai di essere io Brandon, il fratello stupido. Avevo lasciato l’Ham’leh portandomi dietro solo uno zaino colmo di cibo e una zucca piena di illusioni.
Sognavo un appartamento a Zendar Park, le serate ai café, un lavoro part-time e la possibilità di scrivere e pubblicare, con la segreta speranza di poter, un giorno, diventare famoso come il mio idolo di sempre: Sigur Gilead, il sommo poeta delle Amare Vette.
Mi voltai da sopra la spalla a guardare il bambino, un fagotto avvolto in una modesta copertina grigia, ben stretto tra le braccia della madre. Aveva smesso di piangere.
Mi rigirai e puntai lo sguardo all’orizzonte, nel tentativo di cancellare dalla mente il barcone e tutti i suoi occupanti. Estesi il mio spirito lungo superficie dell’acqua e, subito, prese forma tra i flutti una distesa di sagome rettangolari di pura luce, attorniate da figure più scure, in perpetuo movimento. La proiezione mentale di un tramonto al Windsor Bar, la culla di alcune delle migliori penne del secolo; una sorta di teatrino d’ombre, composto da uno stuolo di organismi bioluminescenti.
Di colpo, mi vergognai dei miei effimeri sogni di gloria.
Domersk non ci voleva. E chi ero io per rifiutarmi di essere l’ennesimo cadavere in fondo all’oceano?
Ci avevano costretti a rinnegare i nostri  sogni, le segrete speranze che ci rendevano, a tutti gli effetti, umani.

II

 

La terza volta in una settimana. La prima poco dopo aver incontrato la mia cliente.
Saranno state le nove e mezza. Ero appena uscito dal supermarket, stringendomi per il freddo nel cappotto striminzito. Con la coda dell’occhio, vidi qualcosa, in fondo alla strada, appollaiato tra i tiranti del ponte. Poco più che una macchia nel buio.
Rimasi a guardarlo a lungo, sfidando il vento gelido, finché non dispiegò le enormi ali grige e svanì nella notte.
La seconda, mentre seguivo le tracce del mio uomo, tra la Ruther e la Consolare. Era in cima a un palazzo, in pieno giorno, immobile come una statua.
Lo riconobbi subito: il Roc, il traghettatore di anime in paziente attesa della sua prossima preda. Intuii di colpo che qualcuno, in quel preciso istante, era stato ucciso. Semplice come guardare un orologio.
Quando abbassai lo sguardo, nessun altro pareva avervi fatto caso. La vita continuava a scorrere come al solito, frenetica e indolente.
Due giorni dopo, scorrendo le pagine di un quotidiano, scoprii che si trattava di un vagabondo. Un vecchio alcolizzato, finito in mezzo alla strada per molestie sul posto di lavoro.
L’avevano strangolato con un cavo elettrico e lasciato lì, a marcire tra i cassonetti.

Quand’ero bambino, mia nonna me ne aveva parlato spesso. Fino a quaranta, cinquant’anni fa, non era poi così insolito incontrarlo, a quanto pare. Lo stesso si può dire delle naga, dei vortigan, delle silfidi e di chissà quante altre creature.
Ma oggi…oggi è diverso. Una manticora è abbastanza da far rabbrividire persino il criminale più incallito. Per non parlare dei nagual.
La gente si limita a far finta di niente. Si crogiola tra gli agi, in costosi appartamenti al ventesimo piano di un grattacielo vista skyline. Molti neppure immaginano che ogni televisore, ogni console, ogni singolo fottuto LED che risplende nelle loro case, è alimentato da elementali intrappolati in reattori da sei miliardi di quill.
Era questo che mia nonna cercava di dirmi, la ragione per cui mi imbottiva di favole e leggende di eroi e di mostri. “Non dimenticare, Vas, non dimenticare mai da dove veniamo”.
Mi ci erano voluti vent’anni per capirlo.

Mi strinsi nelle spalle e continuai a salire le scale del vecchio hotel, facendo mentalmente il punto della situazione. Le tracce dell’uomo che stavo cercando mi avevano condotto nel bel mezzo della scena di un massacro.
Quante possibilità c’erano che si trattasse solo di una coincidenza?

Da Il dono del Nagual, di Isaac Karelian, Sottobosco editore, Brugel 142 d.I.
 

[…] A quel tempo, i canalizzatori erano considerati messaggeri di un mondo “altro” e i nagual, i loro animali totemici, venerati al pari degli dèi. Tali creature, unitamente alla casta sacerdotale che ne interpretava e diffondeva il verbo, costituirono per millenni l’unico punto di contatto tra essere umano e magia.
[…] Sebbene, nel corso dei millenni, le scienze si siano andate a sostituire all’antica fede nelle forze primigenie della natura, ciò non deve trarre in inganno l’osservatore più attento. Le più recenti ricerche condotte dagli antropologi (cfr. Stinson, 122 d.I.; Malaki, 135 d.I.) hanno ormai dimostrato la profonda affinità di principi tra magia e tecnica.
Come i moderni scienziati, i canalizzatori erano soliti svolgere lunghi periodi di apprendistato, dedicando buona parte del proprio tempo allo studio empirico della biologia e del comportamento delle creature dalle quali traevano il loro potere. Una consuetudine conservatisi attraverso i secoli – nonostante la diffusione di surrogati chimicofarmacologici in grado di simulare lo stato di canalizzazione.
Vuole la leggenda che Shin-Kah, Gran Maestro del Culto del Basilisco, abbia trascorso due anni in un eremo montano, in totale solitudine, circondato unicamente da rettili. Stando al Libro della Medusa, ne ricavò la straordinaria facoltà di richiamare a sé, ovunque si trovasse, uno stuolo di serpenti, che era solito carezzare e vezzeggiare alla stregua di cuccioli di cane.
Allo stesso modo, Gebort il Rosso fu noto per la facoltà di elencare, rigorosamente in ordine alfabetico, i nomi delle migliaia di specie di aracnidi e artropodi che popolano il quadrante orientale del Domersk.
Fu solo in epoca imperiale che il popolo domerskiano cominciò a diffidare della magia. Lo strapotere dei canalizzatori, nonché l’indifferenza aristocratica di questi ultimi nei confronti della legge dell’Imperatore, giocarono un ruolo decisivo nella formazione di vari organismi di controllo.
Nel 572 a.I., l’Editto di Serath ‒ che regolamentò e sottopose a rigido controllo istituzionale i rapporti tra canalizzatori e Nagual ‒ costituì il primo passo in direzione di un superamento di quello che i ricercatori hanno denominato “Antico Ordine” (Tullen, 126 d.I.). La creazione di un primo ordine di “Cacciatori” (500 a.I.) fu l’inevitabile corollario di un conflitto che oltrepassa persino la fatidica soglia tra la caduta dell’Impero e la fondazione della Repubblica federale.
Il 118 d.I., anno di fondazione del Movimento Neo-Imperiale (di cui partiti politici quali Risorgiamo e Terra Pura non sono che emanazioni), rappresenta una sorta di spartiacque storico. L’ultimo trentennio, di fatto, ha visto la rapida diffusione di una nuova forma di emarginazione sociale, più violenta e più subdola delle precedenti. Mai come oggi, le creature magiche, i Nagual e i canalizzatori sono stati additati come fautori di una degenerazione sociale onnipervasiva.
È tuttavia necessario ricordare che la moderna diffidenza nei confronti dei popoli e degli individui che ancora fanno ricorso ai poteri dei Nagual ‒ quali gli Alioubor e gli Hamaliti ‒ non è che un prodotto tardivo del conflitto di cui questo libro indaga le origini.

III

Dell’antica gloria del Fitzgerald non restava che una vaga ombra. Ovunque, sulle pareti, i nuovi occupanti avevano lasciato segni della loro presenza.
Una scritta tracciata sul muro con la bomboletta spray, riassumeva la nuova natura dell’edificio in rovina: kibbah, “casa”.
Salii l’ultima rampa e mi ritrovai in un lungo corridoio costellato di porte.
Pravus era in piedi al centro dell’andito. Indossava abiti civili, con la cravatta allentata all’altezza del petto e le maniche della camicia aperte e rimboccate fin sopra i gomiti. Dovevano averlo buttato giù dal letto in piena notte.
Se la hall, al piano di sotto, era stata ripulita, lo stesso non si poteva dire del piano superiore. Ovunque, gli agenti della scientifica si affannavano nelle loro tute bianche, inciampando, di quando in quando, in brandelli di cadavere. Sparsi lungo il corridoio c’erano braccia, gambe, teste e organi non meglio identificati, come se qualcuno avesse fatto a pezzi un gigante e ne avesse sparpagliato i resti per tutto l’albergo.
Pur non essendo nuovo a scene del genere, mi sorpresi a ingoiare un denso grumo di saliva.
Mi fermai alle spalle di Parvus e annunciai la mia presenza.
«Sull’attenti, ispettore!»
Esclamai, sperando di risultare simpatico.
Quando Pravus si passò una mano tra i capelli brizzolati e si voltò a guardarmi, mi resi conto di aver commesso un errore. Era pallido, le labbra contratte in una smorfia di disgusto.
«Ci mancavi solo te!»
Notai che aveva gli occhi rossi.
«Guarda che casino…»
Aggiunse, tra sé e sé.
Ritentai, stavolta con maggior delicatezza.
«Cos’è successo?»
«Arrivi qua, coi tuoi modi da cinico bastardo, e poi mi chiedi “cos’è successo?” Cosa ci fai qui, Vasily, cosa vuoi da me? Chi ti ha fatto passare?»
Mi chiama per nome, gran brutto segno.
Riflettei, optando per una linea più morbida.
«È stato Torvik. Come ho già detto a lui, sono qui per caso. Sto cercando una persona, un tipo sulla tren…»
Mi interruppe di colpo, indicando il corridoio con la mano aperta.
«No, Vas. Stai cercando guai. Guardati intorno! Credi che siano finiti così giocando a Jenga?»
Tacque, per un lungo istante, quasi fosse tentato dall’ipotesi.
«No.»
Ripeté, scuotendo la testa.
«Questo non c’entra niente con le tue storie di corna e gatti smarriti. Non dovresti essere qui. E neppure io, se è per questo.»
Non si poteva di certo dire che Parvus fosse un tipo pacato, ma ben di rado lo avevo visto così su di giri. Ignorai le allusioni, decidendo di far leva sul senso del dovere.
«Perché un commando dovrebbe accanirsi contro dei poveracci del genere?»
Domandai.
«Non si è trattato di un commando.»
Mi voltai di scatto a guardarlo, incredulo.
«Cosa?!»
L’espressione con cui accolse il mio sguardo lasciava intendere che si fosse messo l’anima in pace già da un pezzo.
«Sono stati tutti uccisi a mani nude. Gli arti sono stati strappati all’altezza delle giunture. Costole rotte, teste spaccate…»
Spostai lo sguardo verso il corridoio, figurandomi la scena nella testa.
«C’è un nagual qua fuori.»
Sugerii, non sapendo cos’altro dire e sentendomi subito un idiota.
Ma Parvus non mi riservò lo stesso trattamento che avevo riservato a Torvik un minuto prima. Fece un cenno con la testa in direzione degli agenti in tuta bianca.
«Già, è per questo che hanno mandato loro.»
Mi ci volle qualche secondo per accorgermi che i distintivi appuntati sulle loro spalle non erano quelli del dipartimento di polizia. Sulle placche d’alluminio spiccava un martello, sorretto tra gli artigli da un’aquila avvolta da spire di saette.
«Cacciatori!»
Parvus annuì.
«Non si tratta di un banale regolamento di conti. C’è altro di mezzo. Roba magica, stronzate del genere, altrimenti…»
«…Altrimenti qui ci sareste solo voi. Un colpo di spugna e via, come ai vecchi tempi, no?»
Chiosai. Mi balenò in mente il motto di Torvik: “A chi importa, finché si ammazzano tra di loro?”.
Parvus arricciò le labbra, infastidito, ma non disse niente.
«Piuttosto, chi stai cercando?»
Domandò, facendosi di punto in bianco più calmo, come se si fosse appena ricordato di non essere più un mio superiore.
«Qualcuno che avrebbe dovuto trovarsi qua.» Replicai. «Jacob von Hilsegrund. Sulla trentina, alto, pelato, tatuaggi, precedenti per spaccio e aggressione.»
Parvus abbassò lo sguardo. Fece scivolare la mano nel taschino della camicia, ne estrasse un pacchetto di sigarette e me ne offrì una.
Dalle stalle alle stelle.
Pensai, accettando l’offerta.
«Dovresti andare a parlare con il testimone. Lo trovi in fondo al corridoio, ultima porta a sinistra. Dì all’agente di guardia che ti mando io.»
Mi accesi la sigaretta, riflettendo per un po’ sulla proposta.
Cosa c’entro io col testimone? Non sono mica un dannato poliziotto.
Parvus mi sfilò lo zippo di mano.  La luce della fiamma gli balenò sotto il naso, illuminandone il volto stanco e rugoso.
«Tra un quarto d’ora lasceremo tutto in mano ai cacciatori. Vedi di non metterti nei casini e, se scopri qualcosa, chiamami.»
Disse, restituendomi l’accendino. Poi, si allontanò, senza attendere una risposta.
Mi fu subito chiaro che aveva già deciso per conto mio.
Lo seguii con lo sguardo.
Raggiunse l’altro capo del corridoio e scambiò qualche parola con un tipo in completo marrone. Li colsi a lanciarmi delle lunghe occhiate. L’uomo in marrone, in particolare, pareva farsi sempre più interessato.
Ma che diavolo…?
Diedi loro le spalle e mi avventurai nel corridoio, tra le sagome tracciate sul pavimento con il gesso, ben attento a non ostacolare i cacciatori, tutti presi dai loro meticolosi e imperscrutabili rilevamenti. Riuscivo quasi a sentire i loro occhi da serpente scivolarmi addosso, carichi di sospetto. Ma dovevo sapere, dovevo scoprire in mezzo a cosa stavano per buttarmi. E, magari, sarei riuscito a cavarne fuori qualche informazione utile.

Da “Gimme back my wings”, di Sonjia Kossiakov e Klavu Babe, Vanity n. 46, Gelante 145
Per strada non c’è più traccia dei fan accalcati davanti al locale. Sono tutti usciti dal retro, dando l’impressione che l’intero evento non sia stato che una sorta di allucinazione collettiva.
L’ingresso del Triptych, scolpito nel cemento grigio polvere di un vecchio condominio, non anticipa nulla di quel che si nasconde dietro la porta a vetri.
Esito, per un istante, sopraffatta dall’idea di star per incontrare la più grande star aliou-pop del decennio, prima di afferrare la maniglia e spingerla verso l’interno.
Non faccio in tempo a mettere il naso nella hall che Erik, lo storico buttafuori del Triptych, mi si para davanti. Allungo una mano per mostrargli il pass, ma quando i suoi occhi color magnetite si posano sui miei, mi sembra di sprofondare in un lago ghiacciato. Rimango paralizzata, mentre lui mi sfila il pass dalle dita con un gesto delicato e ne tasta la consistenza con i polpastrelli, in cerca di segni di contraffazione. Il completo nero e i lunghi capelli bianchi lo rendono simile a un fantasma.
Non mi era mai capitato di provare sulla mia stessa pelle l’antica magia alioubor. Un piccolo show di mesmerismo, che mi lascia intendere di non aver ancora visto niente.
Il volto da gargoyle di Erik si infrange in un sorriso: «Prego, signorina Kossiakov, può passare». Lo ringrazio e ricambio il sorriso. Vorrei essere più cordiale di così, ma le gambe mi trascinano all’altro capo del corridoio più rapidamente di quanto vorrei.
Sciami di roadie e tecnici affollano la sala dove si è appena tenuta la performance di Klavu. Il palco è identico a quello che ho visto nelle foto: una specie di altare, cosparso di spuntoni dall’aria minacciosa e decorazioni floreali. Un arcobaleno di colori risplende sotto i riflettori, alternandosi a cupe scenografie nero pece; l’inconfondibile trademark di Klavu.
Sotto il palco, nascosto dietro a delle tende, avvisto il backstage. Attraverso la giungla di corpi, cavi, microfoni, amplificatori e, finalmente, la vedo. Se ne sta seduta a gambe incrociate su di un enorme cuscino, davanti a uno specchio rotondo. È intenta a struccarsi, anche se ha ancora addosso il costume di scena: un body rosa; cinghie di pelle verde acido; una criniera di treccine colorate cosparse di LED. Gli stivaletti borchiati che indossava fino a mezz’ora prima sono stati sostituiti da un paio di pantofole a forma di coniglio.
Resto sulla soglia, imbarazzata, ma lei deve avermi già scorto allo specchio. Si gira a guardarmi, sfoggiando il sorriso più sfavillante che abbia mai visto. Mi indica una poltrona in un angolo della stanza.

 

SK: Ciao Klavu.
KB: Hi, Sonjia! Ti stavo aspettando.
SK: Com’è andata?
KB: Alla grande, come sempre! (alza entrambi i pollici). Tutto merito dei miei piccoli mostri.
SK: I tuoi fan ti adorano.
KB: Sono meravigliosi. Non so come farei senza di loro.
SK: Da alcune vecchie interviste mi è parso di capire che hai un rapporto particolare con Domersk.
KB: Come non potrei? Sono cresciuta in un villaggio a nord dell’Alioub, tra le montagne. Ogni giorno, percorrendo la strada da casa a scuola, fantasticavo su come sarebbe stato vivere a Domersk. Mia madre, poi, è sempre stata una super fan di Anissa; quand’ero piccola l’ascoltavamo sempre insieme.
SK: Se non sbaglio, il tuo nome è un tributo a un suo brano?
KB: esattamente, il pezzo è “Dying for you”: “As the Roc flies on, I’ll meet my klavu babe”.
SK: Una frase decisamente sibillina.
KB: (Scoppia a ridere) Yeah! Non so perché ma non sono mai riuscita a togliermela dalla testa.
SK: Un segno del destino, forse?
KN: …Forse.
SK: Il tuo ultimo album, Misfits in Heaven, parla proprio di questo, no?
KB: Si, è un concept album su una silfide che si ritrova in città, da sola, con i Cacciatori alle calcagna. È lì che incontra un Nagual, la Salamandra, che la aiuta a ricostruire la Sorgente, il luogo da cui proviene, e a ritrovare se stessa.
L’idea è che il destino sia sempre con noi, anche quando ci sembra che non ci sia più via d’uscita. Sono le persone che incontriamo che ci aiutano a scoprire dove ci condurrà, un po’ come quando si osserva il collasso della funzione d’onda nella meccanica quantistica.
SK: Se non ricordo male, hai una laurea in fisica pratica…
KB: (ridacchia) No, no, ho mollato a due giorni dalla discussione della tesi. Per poco mia madre non si strappava i capelli. Però non ho mai smesso di studiare per conto mio.
SK: Ascoltando i tuoi ultimi album, direi che il tema delle differenze è diventato sempre più importante per te.
KB: Ci sono solo differenze. Nessuno è uguale a qualcun altro. Tutto muta costantemente. Dobbiamo solo aprire la mente, lasciarci invadere e comprendere che il nostro corpo è un veicolo di evoluzione interiore.
Oggi la maggior parte delle persone fatica ad ammettere che il movimento femminista e quello LGBTQ+ fanno parte di questa evoluzione, ma è così.
SK: Ne fanno parte anche i Nagual e le creature magiche?
KB: (Punta entrambi i piedi a terra, sporgendosi verso di me) Non solo ne fanno parte, ne sono la fonte. Sono loro la Sorgente! “Nich Sorgen um’lah, gesich’t fraü burd”: quando la notte esaurisce la Sorgente, si spegne il canto degli uccelli.
SK: Sono parole di Holger Kutsch, il poeta classico del terzo secolo.
KB: Si! Lui per primo ha intuito che stava succedendo qualcosa nell’animo umano. In molti, ormai, hanno capito che tecnologia e magia sono compatibili, e che la magia, il contatto con l’essenza più profonda del mondo, è qualcosa a cui tutti e tutte hanno diritto.
Il governo e i Cacciatori pretendono di poter essere i soli a controllare la magia, ma non ci riusciranno ancora per molto. Stiamo entrando nell’eone di un Nuovo Ordine, un risveglio collettivo che trasfigurerà il mondo.
(Alza le braccia al cielo, come se stesse pregando) venite, miei piccoli mostri!

[…]

IV
Il ragazzo si aggrappò con entrambe le mani alle maniglie della poltrona e schizzò indietro.
«È lui, cazzo! È lui!»
Bingo. Avevo fatto appena in tempo a mostrargli la foto del mio uomo. A quanto pare l’idea di Parvus stava dando i suoi frutti.
«Sei sicuro? Al cento per cento?»
Chiesi, sventolandogli la fototessera davanti alla faccia.
«Si!»
Mi fermai a riflettere e lo vidi roteare i grandi occhi verdi. Incastonati su quella pelle rosso vivo, tipica degli hamaliti, rassomigliavano a due smeraldi adagiati su un panno di velluto. Rotearono ancora, stavolta in senso opposto, percorrendo il soffitto da parte a parte.
Ora, ci sono due tipi di persone in grado di dirvi, con il minimo margine d’errore, se qualcuno è un tossico e di che roba si fa: gli sbirri e gli ex-tossici. E io ero tutt’e due le cose. L’avrei capito anche senza guardarlo in faccia, senza aver visto quella pelle solcata da innaturali venature celesti. Polvere di sogno.
D’istinto, mi portai la mano alla guancia, come se temessi che le stesse striature fossero ancora visibili sul mio corpo.
Sapevo bene cosa stava seguendo con così tanta attenzione. Le eccitazioni, i flebili spasmi che, per brevi istanti, fanno vibrare la materia, alludendo a qualcosa al di là della materia stessa.
È per questo che si prende la polvere. Per vedere la magia, con il tarlo costante, che ti scava nella testa, di non poterla mai toccare, di non poterla mai raggiungere. Così vicina, eppure così lontana.
Ai tempi, ero così infottato che a volte mi capitava di tirare direttamente col naso, “all’amazzone”, nel gergo dei tossici, senza neanche preparare la botta.
Guardai l’orologio da polso. Avevo solo undici minuti.
«Come ti chiami?»
Gli domandai a bruciapelo.
Di colpo, spostò lo sguardo su di me.
«Jeet, signor…»
«Vas, chiamami solo Vas. Come hai fatto a scappare, Jeet?»
Chiesi.
«Ero seduto in fondo alle scale, di sotto. Ero con mio fratello, Rashid, e Serhat, il suo miglior amico. Eravamo appena tornati da lavoro.»
«Dove lavori?»
«Al porto. Faccio lo scaricatore. Anche Rashid e Serhat erano scaricatori.»
«Poi, cos’è successo?»
«La porta è esplosa, come se qualcuno avesse lanciato una bomba. Volevo correre ad aiutarli. L’ho fatto, mi sono alzato, poi…»
Gli occhi gli si gonfiarono di lacrime.
Fu solo allora che mi resi conto che non doveva avere neppure vent’anni.
«Poi l’ho visto. C’era luce, tanta luce. E quell’uomo. Ha preso Rashid per il collo. Serhat ha urlato qualcosa, ha provato a colpirlo ma quello gli ha tirato un pugno. Serhat è caduto a terra. C’era sangue dappertutto. Non ce l’ho fatta, ho avuto troppa paura. Sono scappato e li ho…»
Fu attraversato da un tremito convulso, come se stesse rivivendo quel momento, e la voce gli andò a morire in gola.
«…li ho lasciati lì.»
Affondò le mani tra i lunghi capelli neri e scoppiò a piangere.
Spensi la sigaretta sulla gamba del tavolo e la lasciai cadere a terra. Attesi qualche secondo prima di porre la domanda successiva, vagando con lo sguardo per la stanza.
Su di un minuscolo tavolo c’erano delle pentole e un fornello a gas. Alcuni piatti sporchi giacevano ammassati in una bacinella piena d’acqua.
Mantenni un tono freddo, inespressivo, ignorando i violenti singulti che gli gonfiavano il petto.
«Non ha detto niente? È entrato e ha cominciato ad ammazzare la gente, e basta?»
Sollevò la testa, di scatto, le labbra contratte in un’espressione di puro furore.
«No!»
Mi sporsi in avanti, impaziente di udire il seguito.
«Era qui per noi. Era con noi che ce l’aveva.»
«Con voi tre?»
Domandai, confuso.
«Con noi dell’Ham’leh! L’ho sentito gridare dalle scale. Cose tipo “Schifosi rossi”, “Parassiti”, “Scimmie”.»
«Se ce l’aveva con voi, allora perché ha ucciso tutti quanti?»
Mi fissò per un lungo istante, perplesso, scavandomi dentro con quegli occhi lucidi e iniettati di sangue.
«Non lo sai? Qua tutti erano dell’Ham’leh.»
V

 

Eccolo il mio uomo, sullo schermo di un vecchio televisore appeso alla parete di un bar.
Nel video Jacob sorrideva. Un sorriso amaro, pieno di tristezza. I suoi occhi vagavano di continuo dall’obiettivo del telefono a un punto imprecisato alla sua destra, oltre il finestrino dell’auto. Come se qualcosa, fuori campo, lo stesse infastidendo. Si passò entrambe le mani sulla faccia e rimase a lungo immobile, in silenzio, coi palmi premuti sulle orbite. Le venature celesti sui suoi zigomi e agli angoli degli occhi si gonfiarono, come se stesse trattenendo il respiro.
Mi portai la tazza di caffè alle labbra, senza staccare neppure per un istante lo sguardo dallo schermo.
Dopo un’intera giornata di martellamento incessante da parte di TV e giornali, erano cominciati a trapelare i primi video pubblicati da Jacob sui profili social. Decine e decine di dirette, dalla durata complessiva di svariate ore. Ore nel corso delle quali, passo dopo passo, giorno dopo giorno, von Hilsegrund completava la sua tortuosa metamorfosi da tossico paranoico a soldato dell’Imperatore.
Tra i clienti del bar, nessun’altro, a parte me, pareva interessarsi alla cosa. Le immagini continuarono a scorrere sullo schermo, nell’indifferenza generale.
«Devo fare qualcosa. Non posso continuare così.»
Mormorò Jacob, rivolto alla fotocamera.
Per un attimo, mi parve quasi che stesse parlando con me.
«Devo fare qualcosa!»
Ripeté, in tono più deciso.
La cameriera attraversò il bancone e mi si parò davanti. Una hekret sulla trentina, dalle lunghe corna caprine che le spuntavano da sotto il berretto giallo.
«Dimenticavo, solo per oggi c’è un’offerta speciale sui pancakes, per sette quill…»
La bloccai con un cenno della mano.
«No. No, grazie.»
Il bello veniva proprio ora.
Di punto in bianco, Jacob scese dall’auto, scomparendo dall’inquadratura. In lontananza, si sentiva una voce sbraitare: «Chi è questo tizio? Ehi, pelato di merda…Che cazzo?!»
Rumori di colluttazione. Grida.
Dopo alcuni secondi, la sirena di una volante emise due brevi ululati.
Jacob riapparve al centro dell’inquadratura, trafelato, sporco di sangue, con un occhio nero. Il motore dell’auto si accese e il veicolo partì a tavoletta, scaraventando il telefono a terra.
A questo punto, il video si interruppe, sostituito dal volto posticcio e sornione di Thierry Duval, il portavoce di Risorgiamo, partito di minoranza vicino agli imperiali ma abbastanza ripulito da essere stato eletto al Consiglio.
L’inviata del telegiornale gli avvicinò il microfono alla bocca.
«Segretario Duval, cosa risponde a chi sostiene che il massacro di ieri sera è il frutto di anni di propaganda d’odio da parte di Risorgiamo?»
Il sorriso di Duval si allargò come una trappola per topi pronta a scattare.
«Jacob Von Hilsegrund non è uno di noi. Risorgiamo è un movimento politico non violento, legato ai valori democratici sui quali si fonda la Federazione. Prendiamo assolutamente le distanze dai fatti di ieri sera, unendoci a tutte le forze politiche nell’esprimere cordoglio nei confronti dei familiari e amici delle vittime.»
Il microfono guizzò dalla bocca di Duval a quella della reporter.
«Signor Duval, lei stesso, negli scorsi anni, ha espresso perplessità nei confronti delle occupazioni abusive, in particolar modo quelle hamalite. Non pensa che vi possa essere un collegamento tra le sue passate dichiarazioni, come quella del mese scorso, quando ha definito i profughi come “uno sciame di ratti, pronti a fiondarsi sulle nostre dispense”, e la strage compiuta da von Hilsegrund?»
Il sorriso di Duval assunse proporzioni inaudite, allargandosi fin quasi ai lobi delle orecchie.
«Gli spregevoli crimini di von Hilsegrund non rendono meno importanti la lotta all’immigrazione clandestina e ai crimini d’origine magica. Temi che Risorgiamo porta avanti ormai da più di vent’anni. Per quanto disgustose e deprecabili, le azioni di von Hilsegrund e di quelli come lui hanno come unico movente l’esasperazione. La gente è stanca e questo è il risultato.»
Lo schermo si oscurò di colpo.
Mi voltai verso la cameriera. Aveva ancora la mano sul telecomando.
«Meglio spegnere. Qualcuno potrebbe farsi venire in mente strane idee.»
Disse, distogliendo lo sguardo dal televisore spento.
Mi alzai e andai a pagare.
Fuori faceva più caldo del solito ma non avevo tempo di godermi la giornata. Montai in macchina, misi in moto e scivolai nel traffico isterico della Capitale.
La caccia era appena cominciata.
**

Immagine di Francesco D’Isa.

Claudio Kulesko è filosofo, traduttore e ricercatore indipendente. Suoi saggi sono apparsi su Aut Aut, Liberazioni – Rivista di critica antispecista e Studi Culturali, ma anche su riviste online quali Not, l’Indiscreto e Singola. E’ tra gli autori di “Demonologia rivoluzionaria” (Nero 2020). Assieme ad Andrea Cassini è autore di “Blackened” (Aguaplano 2021). Suoi racconti sono stai pubblicati su L’Indiscreto, Nazione Indiana e nel primo volume della serie antologica “Trema” (Arcoiris 2021).

Letteratura belga: “Cina” di Jean Jauniaux

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[Le edizioni Mincione hanno lanciato una nuova collana di narrativa dedicata al Belgio. Pubblico in anteprima uno dei Racconti trappisti (2021) di Jean Jauniaux, trad. di Thea Rimini. ot]

 

di Jean Jauniaux
traduzione di Thea Rimini

 

Andare in Cina, è facile.
La cosa più difficile è lasciare
Vilvoorde.
Jacques Brel

Nel negozio in riva al fiume Dietro
il banco assiso sta Mister Ying a
vender thè Viola prugna è il suo
gilet Mister Jing vende il thè
Il ginseng ed il saké
Max Elskamp, Il caffè, da Le dilettazioni morose dei mercanti d’Asia

Senza rendersene conto tutti i grandi viaggiatori, e anche i piccoli,
continuano a scappare da qualcosa che li attende ovunque. Loro stessi? La morte?
Maurice Maeterlinck, L’altro mondo o il quadrante stellare

 

Albert non smette di parlare della sua prossima partenza per la Cina fissata per sabato 15 giugno 2019. Tornerà a Bruxelles lunedì 12 agosto. Il povero giramondo non sa ancora che la scelta di quelle date saboterà il pietoso stratagemma che dovrà mettere in atto il giorno della partenza.

Attacca bottone con tutti per ore parlando dell’itinerario, delle città, dei libri, dei film, di tutto quello che già sa della Cina che si appresta a scoprire. La sua esaltazione stanca molti, ma Albert ha parecchi amici pazienti che si alternano nell’ascolto della sua prossima avventura. Comunica che sin dal primo giorno posterà su un blog, creato apposta per questo, una selezione di fotografie scattate sul posto. Non paesaggi o vedute turistiche, no, ma volti, sorrisi, la vita delle città, delle campagne e dei quartieri che visiterà. Se ne avrà voglia, scriverà anche un commento per insaporire – sono le sue parole! – le immagini. Parla del viaggio, lo prepara, rilegge l’itinerario dieci volte, controlla cento volte che tutti i documenti siano nel borsello da mettere al collo sotto la camicia: passaporto, biglietti per il volo Bruxelles-Pechino e poi per quello di ritorno Hong Kong-Bruxelles, biglietti dei viaggi interni in treno o in aereo. Più volte ha tirato fuori tutto, ha controllato e risistemato tutto. Poi lo assale un dubbio: “Ho tutti i visti?”, “È il passaporto giusto? Non è quello scaduto che ho conservato dal mio ultimo viaggio?” Fino alla vigilia della partenza, fino alla notte prima della partenza, non smette di controllare e rimettere a posto ogni oggetto, ogni indumento, ogni medicina che porta con sé. Non bisogna soprattutto dimenticare il collirio. Con l’inquinamento ci mancherebbe solo che debba essere rimpatriato d’urgenza a causa dell’occhio che, operato qualche mese prima, gli aveva già fatto annullare un primo tentativo di andare in Cina! Ma tutto è bell’e pronto. Esausto per l’angoscia di dimenticare qualcosa, non ha chiuso occhio fino alle cinque del mattino. Alla fine si è addormentato. Profondamente. Alle sei, quando il telefono si è messo a vibrare sussultando sul materasso, Albert non si è svegliato. Le ore sono passate. All’aeroporto di Zaventem un altoparlante ha probabilmente chiamato: “Il signor Albert Morrel in partenza per la Cina è richiesto alla porta d’imbarco 16”. E ancora: “Ultima chiamata per il passeggero Morrel. Porta d’imbarco 16”. Poi, più niente. L’aereo si è lanciato sulla pista, ha raggiunto una velocità di 160 nodi, il pilota ha sollevato la parte anteriore che è sprofondata nei nuvoloni neri, li ha attraversati e infine si è lasciata accarezzare dal sole.

Albert si è svegliato. Si è reso conto della catastrofe. I biglietti scontati non si possono cambiare. E non ha abbastanza soldi sul conto per pagarsi un nuovo biglietto a tariffa piena e ricominciare daccapo l’organizzazione del viaggio. Lo assale una grande vergogna. Cosa dirà a tutti quelli che ha stremato con il suo viaggio? Li tormenterà adesso con la storia della sua delusione? Depresso, Albert si fa un caffè, poi un secondo, poi un terzo. Accende il computer, va sul blog e dice a sé stesso che annuncerà il fallimento in questo modo. Per i suoi amici sarà meno penoso, e poi sarà più veloce.

Comincia a scrivere:

Non sapevo nulla della Cina. Ho deciso di andare a dare un’occhiata più da vicino, di recarmi laggiù, nel Regno di Mezzo, e di accostarmi a quel paese-continente o a quello che mi avrebbe voluto rivelare. Ecco la prima foto del viaggio: il mio bagaglio nell’ingresso di casa. Sono le sei di mattina e ho selezionato questa foto mentre si appresta a decollare il Boeing dove occupo il 24C sul lato corridoio, posto che ho scelto per distendere le gambe e preservare il mio ginocchio.

Descrivendo la foto della partenza presunta, Albert rinuncia alla confessione e decide di simulare il viaggio. Sì! si dice, piuttosto che perdere la faccia (è molto cinese non voler perdere la faccia), inventerò il mio viaggio, lo racconterò giorno per giorno, troverò molte foto per illustrare la mia spedizione. Dovrò solo resistere otto settimane e poi potrò riapparire a bordo di un taxi che prenderò alla stazione il giorno previsto per il mio ritorno. Albert gongola, anche se gli si attorciglia lo stomaco al pensiero di quell’impostura interminabile che diventeranno i prossimi due mesi della sua vita.

Bisogna organizzarsi: sistemarsi in soffitta o in cantina. Edmée, la donna delle pulizie, non deve trovarlo né quel lunedì né i lunedì seguenti quando verrà a innaffiare le ortensie. I vicini non devono vedere della luce. Bisogna occultare il lucernario della soffitta. Albert sceglie di nascondersi in soffitta: in cantina Edmée andrà sicuramente a fare il bucato o a stirare gli arretrati; nel sottotetto, invece, non ha motivo di venire, a meno che, spinta da uno zelo inaspettato, non decida di pulire la casa “a fondo” come ha già promesso di fare mille volte!

Albert sale allora in soffitta, mette una tenda nera sui due lucernari, porta delle riserve d’acqua e del cibo in scatola, installa un fornello a gas, sta quasi per dimenticare di nascondere la valigia e lo zaino ma se lo ricorda all’ultimo momento. Appoggia il computer su una porta messa su due cavalletti abbandonati in giro e controlla che il wi-fi arrivi nel sottotetto.

Inizia così il viaggio immobile di Albert alla scoperta della Cina. Sul sito di National Geographic, Le Routard, Continents insolites e altri, si mette a cercare fotografie che possano raccontare il suo viaggio… a partire dall’arrivo a Pechino. Sul blog e su Facebook i commenti non tardano ad arrivare (al suo ritorno dovrà spiegare come sia riuscito a sfuggire alla censura che da settimane impedisce a tutti di accedere al social network più popolare al mondo). Ben presto i suoi amici reclamano delle fotografie che immortalino lui, Albert, sul posto.

Quando scopre la richiesta ripetuta da decine di amici virtuali, crede di dover rinunciare all’inganno e rivelare la verità del suo fake trip. Sta già ticchettando sulla tastiera la lettera di scuse da postare quando un’idea gli attraversa la mente in preda al panico. Andiamo, Albert! Ci deve essere un modo per prolungare questo viaggio falso! La Cina non è solo in Cina! Del resto, non è andato lui stesso a rubare delle immagini cinesi dalla Chinatown di Los Angeles? Perché non andare nella Chinatown di Londra e farsi una serie di selfie che lo immortalino circondato da cinesi londinesi davanti a ristoranti, negozi di souvenir e altri luoghi che trarrebbero in inganno, e che potrebbe assemblare con immagini di celebri siti turistici?

Sale sul primo Eurostar e si rifugia per due giorni a Chinatown. Lì si fotografa in compagnia di cinesi di tutte le età davanti a vetrine grondanti di grasso di anatre appese al gancio, a negozi di alimentari e a un tempio buddista. Ha affittato una stanza a buon prezzo in un hotel di Gerrard Street. La receptionist lo guarda in modo strano quando rientra in hotel per cambiarsi, cosa che fa molte volte durante il suo breve soggiorno. Deve rendere credibili quelle foto che si suppone siano state scattate in un periodo di due mesi. Non commetterà l’errore di apparire vestito sempre allo stesso modo. Ha portato con sé una valigia piena di magliette e pantaloni di tela che indossa per quegli autoritratti sino-britannici.

Quando rientra a Bruxelles, per poco non si imbatte in Edmée: cosa ci fa di lunedì al binario dell’Eurostar con una valigetta in mano e la guida Routard, Un weekend a Londra, sotto gli occhi? Per fortuna non lo vede tuffarsi nella scala mobile che lo conduce nell’atrio della stazione e poi da lì in un taxi.

Ogni giorno Albert continua a inventare il suo viaggio a partire da immagini scaricate da internet, ritagliate con Photoshop e messe online. Completa il racconto del viaggio che aveva iniziato con “Non sapevo nulla della Cina…”, usando la stessa formula, questa volta al presente, e la modestia delle sue parole convince tutti i suoi amici che quell’avventura ha trasformato il chiacchierone impenitente in un uomo saggio, riservato, umile e lucido in materia di Cina: “Non so nulla della Cina che richiederebbe, invece di questo breve viaggio, anni di studio e di osservazione solo per conoscerne una minima parte”. Confucio non l’avrebbe detto meglio!

Il 12 agosto 2019 Albert comunica finalmente il suo ritorno agli amici. Pubblica “dall’aeroporto internazionale di Hong Kong” un messaggio che annuncia l’imminente partenza del volo. Rimane sorpreso dalle reazioni di molti preoccupati che lui, così attento a certe problematiche, non sia stato per nulla coinvolto nelle ultime manifestazioni anti-cinesi organizzate dai difensori dei diritti umani. Albert aveva firmato varie petizioni, in particolare del PEN e di Amnesty International, quando erano misteriosamente scomparsi cinque librai che distribuivano libri critici nei confronti della Cina. Per documentarsi, Albert si era naturalmente informato sull’evento che aveva sconvolto il panorama politico cinese, scorrendo attentamente le notizie del 1° luglio 1997. Le prime pagine erano dedicate agli accordi della Legge Fondamentale della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong e alle cerimonie storiche che avevano segnato il ritorno di quel territorio alla Cina comunista. Albert aveva postato varie fotografie che illustravano l’evento, tra cui una che mostrava il leader cinese Jiang Zemin mentre stringeva la mano al principe Carlo tra gli applausi dei primi ministri Li Peng e Tony Blair. Albert attirava l’attenzione dei suoi internauti sulla presenza di Margaret Thatcher nella tribuna ufficiale…

Invece, troppo occupato a inventare e illustrare le ultime tappe continentali del suo viaggio cinese, non ha prestato attenzione alle ultime manifestazioni contro il progetto di legge che permetterebbe l’estradizione in Cina dei cittadini di Hong Kong. Questa legge, se approvata, sarebbe un attacco intollerabile alla libertà di espressione e al principio “Un Paese, due sistemi”. E l’ultima manifestazione si è svolta proprio all’aeroporto internazionale di Hong Kong dove tutti i voli sono stati annullati il giorno del preteso ritorno di Albert. Così la sua bugia è venuta a galla alla fine dei due mesi di viaggio immaginario.

Sulla strada per il Trappiste, dove ha dato appuntamento ad alcuni amici per raccontargli di persona il viaggio mancato, si ricorda della frase di Jacques Brel che inconsapevolmente ha messo in pratica: Andare in Cina, è semplice. La cosa più difficile è lasciare Vilvoorde.

Cerca di farsi perdonare l’inganno richiamando i grandi viaggi immaginari di Hergé che aveva portato Tintin in Cina senza averci mai messo piede. Parla anche delle pagine del suo blog dove ha raccontato la costruzione della linea ferroviaria Pechino-Hankou e menziona il suo antenato Jules Morrel immortalato accanto all’ingegnere Jean Jadot. Probabilmente Jules è stato protagonista di quell’incredibile impresa che, alla confluenza dei fiumi Han e Yangtze, ha collegato la capitale imperiale alla città di Hankou e che i belgi hanno portato a buon fine nonostante le guerre e le intemperie.

Gli amici di Albert, ipnotizzati dalle chiacchiere dell’instancabile affabulatore, si dimenticano di essere stati ingannati. Si convincono presto della veridicità dell’antenato Jules Morrel, di cui sentono parlare per la prima volta, vedendo una foto descritta in modo molto dettagliato da Albert che s’inventa una nuova stirpe e un avo avventuriero.

Si convincono ancora di più della sua buona fede quando Albert esibisce il biglietto ferroviario che avrebbe dovuto portarlo a Hankou sul TGV che ha sostituito le locomotive a vapore sulla linea inaugurata in pompa magna nel 1905. Se non fosse stato per rendere omaggio a questo avo, che motivo avrebbe avuto Albert di andare a Hankou?

Albert promette agli amici di raccontare come il suo antenato Jules Morrel abbia permesso al maggiore Collon, un altro illustre sconosciuto che Albert tira fuori dal cappello, di lasciare il territorio russo nel 1918 e di imbarcarsi sulla nave che lo avrebbe riportato insieme ai suoi uomini da Vladivostok a Bruxelles passando per gli Stati Uniti. E questo era avvenuto dopo che la famosa spedizione degli autocannoni aveva tentato due anni prima di accerchiare le truppe tedesche in Ucraina. Ubriacati dal finto viaggio in Cina, i suoi amici si apprestano adesso ad ascoltare senza interruzioni un’altra favola che mescola verità e finzione.

Albert ordina un tè verde fumante.

– Dell’Oolong… in memoria del mio antenato Jules…

 

 

Dante e Forese, dopo la tenzone l’affetto

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Abbiamo già incontrato Forese Donati, detto Bicci (terzo cugino della moglie ufficiale di Dante, Gemma) qui dove trovate la prima parte della famosa tenzone. La seconda parte l’ho pubblicata qui, dove avevo anche accennato che Dante avrebbe ritrovato l’amico nel Purgatorio. A buon diritto dico “l’amico” perché, malgrado i toni duri e le insinuazioni provocatorie contenute nei sei sonetti della tenzone i due erano buoni amici e gli insulti di quel tipo (“Bicci novel, figliuol di non so cui”, ecc.) erano una specie di moda tra la jeunesse dorée fiorentina della seconda metà del ‘200. L’apparire della famiglia Donati è frequente nelle opere di Dante, la sorella di Forese, Piccarda, sarà incontrata nel Paradiso, tra i beati, mentre il fratello Corso, capo dei guelfi neri a Firenze avrà un ruolo importante nelle varie vicende guerresche tra guelfi e ghibellini – sarà lui, a quanto pare, l’artefice della vittoria dei fiorentini a Campaldino contro i ghibellini aretini – e sarà anche il maggior artefice della cacciata di Dante da Firenze, così che Dante metterà, come vedrete, in bocca a Forese un destino infernale per Corso.
Forese, morto nel 1296, è in Purgatorio fra i golosi, sesto girone, canto XXIII e inizio XXIV; costoro sono puniti, sempre per lo famoso ovvio contrappasso, con l’aver sempre fame e sete e a non riuscire né a mangiare né a bere, per cui sono quanto mai smunti, magri, pallidi e col viso scavato, come appunto descrive Dante nei primi versi che qui cito. Dante si stupisce che Forese sia già nel sesto girone e non nell’antipurgatorio, dove sostano a lungo quelli che si sono pentiti (o convertiti) solo all’ultimo minuto prima di morire, ma Forese spiega che è tutto merito della moglie Nella (leggete i vv. 87-90), la “vedovella mia”.

l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge ’omo’
ben avria quivi conosciuta l’emme.33

Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d’un’acqua, non sappiendo como?36

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,39

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”.42

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.45

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.48

“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora”, pregava, “la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;51

ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!”.54

“La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia”,
rispuos’io lui, “veggendola sì torta.57

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia”.60

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’io sì m’assottiglio.63

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.66

Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.69

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,72

ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ’Elì’,
quando ne liberò con la sua vena”.75

E io a lui: “Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.78

Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,81

come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora”.84

Ond’elli a me: “Sì tosto m’ ha condotto
a ber lo dolce assenzo d’i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.87

Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ ha de li altri giri.90

Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;93

ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.96

O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,99

nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.102

Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?105

Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;108

ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.111

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove ’l sol veli”.114

Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.117

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui”,120

e ’l sol mostrai; “costui per la profonda
notte menato m’ ha d’i veri morti
con questa vera carne che ’l seconda.123

Indi m’ han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che ’l mondo fece torti.126

Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.129

Virgilio è questi che così mi dice”,
e addita’ lo; “e quest’altro è quell’ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice132

lo vostro regno, che da sé lo sgombra”.

e fin qui arriva il primo intervento di Forese che proseguirà poi all’inizio del Canto XXIV, in cui dirà la sorte sia di Piccarda che di Corso, e presenterà a Dante un nuovo personaggio, goloso anch’egli, Bonagiunta da Lucca, ma di ciò alla prossima puntata.

IPERSENSIBILITÁ

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di Antonio Potenza

Da due mesi, ogni sera, la mia caviglia sinistra inizia a gonfiarsi come se qualcuno ci soffiasse dentro aria fresca. A guardarla dall’alto mi è subito parsa una zampa di elefante con quelle grinze orizzontali piuttosto scavate al livello del calcagno. Me ne sono accorto grazie agli occhi attenti di un mio amico, fisioterapista, o qualcosa di simile. Tra le strade di Otranto mi ha avvisato del mio arto gigante, chiedendomi se mi facesse male. Sorpreso ho guardato il piede rispondendo che no, non avvertivo nessun dolore. E la conversazione finì lì: se qualcosa non fa male, benché stramba, perché preoccuparsi?
O almeno, al momento pensai così. Quindi tutta l’estate ho continuato a gonfiarmi come un palloncino da festa, ogni sera. Alcuni giorni fu anche divertente aggirarmi tra la gente in ferie, come un freak. Guardavano la caviglia gonfia, talvolta costretta in una calza stringente rubata dal mobiletto del bagno di nonna, con un misto di curiosità e preoccupazione. Dal canto mio non me ne preoccupavo, né della caviglia né del pubblico. L’ironia mi parve una buona cosa, per questo inventai tecniche di approccio esilaranti nelle quali non mostravo i muscoli o la mia arguzia, piuttosto la mia zampa elefantina. I miei amici erano sicuri che avrei fatto colpo.
Ad ogni modo l’estate andò avanti tra pomata e calza stringente, nonché senza conquiste. La mattina un fuscello, la notte un pachiderma: dannata caviglia licantropa.
Il dottore a fine della stagione calda, a rientro dalle ferie, non fu divertito dal racconto. Nemmeno la tecnica di approccio gli strappò un sorriso. Non lo biasimavo, ma iniziavo a preoccuparmi. Lei ha un problema di circolazione sanguigna, disse. E allora esami a cascata: radiografia, ecografia, analisi del sangue, tac e altre cose dai nomi piuttosto complessi.
A distanza di un mese sono di nuovo qua, in sala d’aspetto, stringendo i risultati delle mie avventure cliniche. Non riesco a nascondere una certa apprensione. Immagino per un istante, nella mia mente un baleno piuttosto lungo, quello che potrebbe succedere da qui in poi. In questo nervoso vaticinio riesco a guardarmi dall’esterno e da lontano mentre zoppico tutte le sere della mia vita come uno stanco animale ferito, fuoriuscirà dalle caviglie sangue di quercia, sulla pelle cresceranno inflorescenze colorate e tracce di corteccia si abbarbicheranno sul dorso del piede, posso scorgere con una certa semplicità le difficoltà che mi aspetteranno da qui in poi, i miei genitori ormai canuti si curveranno su di me come infiacchite badanti con le occhiaie marcate, sbotteranno per i miei malati capricci, sbufferanno le sere in cui avrò il piede così grande da non poter uscire dalla porta – oddio, pensai, distruggerò gli infissi – i miei amici stufi di prendermi sotto il braccio sul lungo mare di Gallipoli mi abbandoneranno dietro il camioncino dei panini, quale donna, mi chiedo infine, vorrà uscire con me? Il sesso adesso è la mia prima preoccupazione: chi avrà il coraggio e la voglia di scarrozzarmi in auto con lo spirito umano di lasciare, ogni sera, ogni volta, ripetutamente, un gonfio pachiderma alla propria abitazione? Nessuna.
Ho un attacco di panico. Credo lo sia, perché la laringe si stringe in gola, poi in petto avverto l’occlusione dell’aria, la trachea comincia a rinsecchirsi. Lascio i documenti sulla sedia traballante della sala d’aspetto e mi getto nell’aria aperta. Penso che il sole sia eccessivamente chiaro, il cielo estremamente limpido. Un’eccedenza che però mi inietta tranquillità, così il respiro torna normale. Ho accesso quindi nuovamente alle mie facoltà cognitive e con passo disinvolto, incurante degli sguardi curiosi delle signore in sala, ritorno al mio posto.
Lancio un’ultima occhiata ai documenti, mentre sul collo inizia a bruciare un punto preciso all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Che fastidio, mi gratto con una certa insistenza. Che doppio piacere, il prurito termina quando il dottore chiama il mio nome. Poco dopo nel suo studio la sua espressione è ancora più interrogativa. Oggi ha anche la fortuna di vedere il mio piede gonfio, perché ¬– sorpresa – non ha deciso di sgonfiarsi. E quindi Dottore, dico, mentre sbatto la gamba sulla caviglia, oggi è fortunato: mi dica un po’, di cosa soffro?
Quello guarda i fogli. Poi il calcagno grinzoso e tumido e il suo sguardo passa da uno all’altro per un po’ di volte. Sono divertito, quanto spazientito.
Mi faccia parlare con uno specialista, dice e mi congeda.
A casa provo a rilassarmi, ma la mia abitazione è un posto meno comodo ultimamente di ciò che era solo pochi anni fa. Le imposte sono quasi sempre chiuse e la cucina o il salotto, che danno direttamente sulla porta principale, sono costantemente abitate da fila di ombre schiarite da quei pochi fili di luce che riescono a sgattaiolare. Stessa situazione nelle camere. La televisione è un elemento di disturbo, per chi abita questa casa insieme a me è solo un costante vociare. Anche a basso volume le risulta strillante.
Entro nello scenario grottesco in punta di piedi, ultimamente anche a causa del mio handicap ferino, ma soprattutto per una specie di preoccupazione intima. Attraverso la cucina e sul letto a due piazze ci trovo mia madre, distesa con il viso verso l’alto. Ha la pelle dello stesso colore dell’ambiente, i suoi occhi brillano a volte.
Come va oggi?
Risposta puntuale: come sempre. Ha il viso gonfio, gli occhi umidi. Credo abbia pianto. La mia presenza non la intima a muoversi, continua a osservare il lampadario, senza voltarsi. Ritorno nella mia camera ad aprire la finestra, lo faccio di nascosto come se fosse la mia prima sigaretta. Mi stendo sul mio materasso ad una piazza che non vuole crescere. Il mio corpo negli anni è cambiato ma lui rimane sempre così angusto. Dalla finestra appena aperta seguo una lama di luce che si allunga tagliando perpendicolarmente la stanza fino al cuscino e al mio viso. In uno sforzo d’immaginazione mi guardo dall’esterno: i miei occhi sembrano bicromi. Quello a sinistra, colmo di folgore mattutina, conserva i fantasmi dei sorrisi di mia madre, prima che partisse mia sorella, prima che mancasse mio padre, quando gestiva la casa tornando dal lavoro come se fosse il suo giaciglio fiorito. L’altro, traboccante di oscurità, guarda la realtà adesso: due esistenze slavate che rimpiangono il passato e rifiutano il futuro con angosciante esistenza del presente.
Sul collo inizia improvvisamente ad esplodere lo stesso prurito di questa mattina. All’attaccatura dei capelli sento come un formicolio bruciante, mi gratto con insistenza, senza che quello diminuisca. Attraverso la cattedrale d’ombre, in direzione del bagno. La luce esplode come una cometa sul soffitto, ora riesco vedermi chiaramente allo specchio. Mi contorco in una posizione scomoda ma che per un lasso di tempo piuttosto breve mi permette di vedermi il collo. I muscoli si contraggono, ma ce la faccio, la vedo: una grossa macchia si sta estendendo da sotto i capelli, ha la superficie puntinata, la tocco ed è rugosa, il suo colore è di un amaranto intenso. Faccio un pensiero: sembra una fragola. La sfioro nuovamente con le dita, la sensazione è la stessa che avvertirei accarezzando il frutto.
Un attacco di panico si impossessa di me come un arcaico spirito tribale: cammino per la stanza, consumo il pavimento, lavo le mani, bagno i polsi. Il bruciore continua e sento anche il piede gonfiarsi, posso avvertire un soffio che scorre attraverso le vene del mio arto. L’angoscia però si placa improvvisamente quando sullo schermo del cellulare vibrante appare il nome del mio medico: Mi raggiunga domani in studio, ho una teoria.
Intanto mamma non mangia. Questo è l’ennesimo problema della sua condizione. Il dottore mi ha detto che sta scivolando in una specie di stato depressivo, ancora non totale, ma non sottovalutabile. La causa? Mia sorella. Ha deciso di andare via da casa, senza alcun avviso o traccia, come rivoluzione alla vita borghese e ordinata. Le sue telefonate arrivano dalle quattordici alle quindici. Rispondo, è sorridente. Le passo mamma, continua ad essere felice, dice di esserlo, lo ripete spesso e a me questo puzza. Ad ogni modo ogni volta a chiamata terminata mia madre si ammutolisce, mi passa il cellulare e piomba nel mondo oscuro della sua mente. Il tuffo è così repentino che non faccio in tempo a trattenerla che è già saltata dalla scogliera. Posso solo vedere le gocce bianche del suo corpo che infrange l’acqua mentre se ne va in camera, a rifugiarsi nell’abbraccio caldo delle sue ombre e tra i rimpianti mielati delle foto della buonanima di Papà.
Il cibo, lo capisco, non riesce ad entrare in un corpo chiuso. Il suo organismo ha deciso di retrocedere verso un passato più luminoso. Tuttavia, visto che questo processo biologicamente non è attuabile mia madre rimane con la mente appena slanciata indietro e con tutto il resto è bloccata in un carapace ammuffito. Io la guardo, questo posso fare: lì dentro non entra cibo, tantomeno parole. Ci provo lo stesso, le preparo la cena, cucino i suoi pasti preferiti, se necessario la imbocco. Ma quella sbotta e se ne va. A volte ricorda me alle prese con le mie vecchie pene d’amore, solo che la situazione è molto più grave. Ciò su cui insisto maggiormente sono le pillole che le ha prescritto il dottore. Solitamente stazionano sul mobiletto in bagno. Caramelle al ripieno di serotonina.
Ho già presentato i miei dubbi al dottore. Le liquirizie alla dopamina non funzionano, ma tra i due non sono io ad avere una laurea in medicina. E tant’è: faccio il possibile qui, perché la condizione tetra di mia madre fa male di rimbalzo anche a me.
Ora colto da questo prudore lancinante corro in camera da lei, come facevo quando mi sbucciavo le ginocchia, quando piangevo, o ero triste. Lei mi coccolava, diceva che tutto poteva passare instillandomi quel senso di fiducia nello scorrere del tempo, nell’evoluzione delle cose.
Adesso mi guarda appena. Rimasugli del senso materno nei miei confronti. Ora ho la stempiatura ampia, il petto largo, uno stipendio e qualche capello bianco. Può smettere di preoccuparsi.
Passerà, dice solamente e sarà l’unica parola che dirà per tutto il giorno.
Ore dopo sono nel mio letto a leggere, guardo la caviglia che non ha smesso di crescere, conseguentemente alla mia ansia. Ho lo sterno sfondato dall’angoscia, una fragola sul collo e il piede di un elefante. Aspetto solo il circo, e mi addormento.

Il giorno dopo sono al 505 di Viale Aldo Moro. La sala d’aspetto è vuota alle sette del mattino. Dico buongiorno ad alta voce perché qualcuno mi senta. Sulla parete si incasellano poster con facce sorridenti, denti bianchi che consigliano di fare gli esami a tempo debito, di vivere bene, inni alla salute. Eppure, lo dico a me stesso, chi cazzo ci crede.
Buongiorno, ripeto.
Nessuno risponde. Scrivo al dottore e torno a casa.
Nella cattedrale d’ombre si allarga un pianto. Non lo localizzo per un po’, poi uno sferragliare convulso mi suggerisce di guardare in cucina. Lì mia madre come un golem rovista tra forchette e posate. Lo stridio della ricerca aumenta di volume, graffia nei timpani. Cosa fai, mamma. Fruga, rovista. Cosa cerchi, mamma. Il volume si placa: l’ha trovato. Lo punta al cielo come una lancia benedetta. Il grosso coltello da cucina brilla appena nell’unico raggio di sole che entra nella basilica di oscurità. Il dio nero delle angosce sta consacrando questa abitazione.
Ha lo sguardo vuoto, lo avvicina al braccio, ma le mie gambe scattano come due grosse molle ferrate, la blocco, non ha molta forza. Il coltello è di nuovo nel cassetto, ma ho negli occhi la lama che si avvicina alle sue vene, la pelle che freme al di sotto, il sangue allora inizia a irrorarsi nella gamba. La caviglia si gonfia, ma ho come l’impressione che non sia la sola. Sento il prurito che mi pervade, adesso accompagnato da un certo bruciore al petto, che scende giù per le braccia. Lievito, titanico sbotto, gigante avanzo verso quella bambina dai tratti stanchi e invecchiati. È così piccola adesso sotto il mio sguardo gigante, la vedo lontana, vicino al pavimento. Mi guarda dal basso con due grandi occhi grandi. Le grido parole di cui non ricordo il suono, di cui non capisco il significato. Immagino il mio viso rubicondo di furia, guardo il suo che invece è livido di paura. Con l’indice sono imperativo: in camera, e lei sgattaiola via.
Mi sgonfio, soffio fuori la rabbia nella solitudine della cucina. La sento singhiozzare di là. Mi accascio ai piedi del lavabo e piango. Nel frigno avverto un altro pizzicore violento, questa volta nell’avambraccio. Con le guance umide lo guardo: una larga macchia verde si sta estendendo verso il gomito. La scruto meglio, ha delle striature geometriche, ben tirate. Sembrano foglie, penso. Sono foglie, dico. Me ne da certezza nuovamente il tatto: l’indice passandoci su avverte una consistenza squamosa, ma più morbida.
Ho come l’impressione mi stiano crescendo delle felci sul braccio.
Lo passo sotto l’acqua. Quella, fresca, tiene a bada il dolore e chiarifica la consistenza di questo eritema eccezionale: sono decisamente delle felci quelle che vedo sul mio avambraccio.

Nella notte si accavallano le immagini di mia madre che con ghigno allegro si allarga la carne con il coltello, io sono lì che la guardo inerme, vorrei fare qualcosa, avvicinarmi magari, ma un’inflorescenza profumata si annoda tra le dita, cerco di aprirle senza risultato, perché – ora lo vedo – le radici doppie e coriacee si allungano fino a terra, il mio sforzo è vano, mia madre adesso ha le braccia aperte e ride di una felicità autentica, da quanto non la vedevo così solare, ma sanguina copiosamente, tra poco morirà, penso, ma le liane mi bloccano, alle mie spalle spunta il viso acuminato e biondo di mia sorella, dice solo due parole: è giusto così.
Mi sveglio in uno spasmo afono che mi decomprime il petto. Le mani che passo sulla fronte si inumidiscono di sudore perlaceo. Nel buio attraverso la casa, sento il respiro pesante di mamma che dorme. Non so che ore siano tanto gli occhi felini si sono abituati alla penombra, potrebbe essere l’alba come mezzogiorno. L’orologio in cucina segna le sei del mattino, piscio e mi sciacquo la faccia. Controllo le mie escrescenze con le quali sono sceso a patto: la caviglia elefantina, la nuca di fragola, l’avambraccio di felce. È tutto qui, a testimoniare non so cosa. Mi sembra si siano allargate, inspessite, mi stancano la pelle arrossata e infistolita.
Scrivo al dottore: mi chiami. E così fa dopo un paio d’ore. Ha la voce impastata, mi accorgo però che si sforza di mantenere un certo tono. Gli racconto tutto, dei miei eritemi floreali, degli attacchi di mamma. Sul secondo punto si defila scusandosi per non essere uno psicologo e subito dopo pronuncia nome e numero di un suo collega; sul primo punto invece dice solo che si tratta di ipersensibilità escrescenziale. È stato monitorato un solo caso nella letteratura.
E cosa dice questo caso, chiedo in un tono piuttosto piccato; spaventato.
Non dovrebbe morire, dice e il che mi consola.
Deve applicare una crema a base di cortisone, dovrebbe bastare.
Tutto qui. Penso. Ho una pianta sull’avambraccio, un frutto sulla nuca e basta del cortisone? La soluzione mi sembra sbrigativa, ma tant’è: il dottore mi saluta e riattacca, la sua giornata lavorativa è portata a casa. Mi guardo attorno, il mio avambraccio verdastro è la cosa più chiara in questa penombra gotica.

Chiamo mia sorella. Il cellulare suona a vuoto. Come sempre, sarà lei a richiamarmi quando ne avrà voglia o modo e la cosa mi disturberà, poiché in caso di necessità la sua presenza è soffusa, mitigata, quasi annientata. Quando penso che non si farà sentire, rispunterà la sua voce attraverso l’altoparlante dicendo che sta bene, che è felice, che si diverte. Dove, con chi, o per cosa, non lo sappiamo.
E così sull’ultimo squillo, decido di scriverle: richiamami, sto diventando una pianta.

Mia sorella non mi ha chiamato, per un tempo talmente dilatato che ho smesso di contare. La immagino felice nel suo idillio anarchico. Quanto è luminosa la sua rivoluzione, quanto di contro è scura la mia quotidiana monotonia. Guardo il soffitto su di me che si allarga in cupole scure, gargolla di carbone alitano zaffate di piombo, pronunciano bestemmie e bramiscono nell’aria. Mi sorprendo a pensare, in quelle lingue di fuoco nero che si allungano dai soffitti gotici della mia stanza, a mia sorella non più con rabbia o nostalgia. Sento irrorata nel sangue una nuova sensazione che si coagula nei punti del mio eritema, prudono di nuovo. Penso a lei con una specie di pacata rassegnazione nella quale il suo corpo che si allontana dalla cattedrale è sfolgorante di luce. La vedo allontanarsi verso un tramonto verdognolo, striato di smeraldi, posso quasi sentire la sua voce che mi avvisa che oltre l’orizzonte c’è un’oasi. Andrà lì, dice, così ammiro i suoi ultimi passi in direzione della luce come la più bella rivoluzione compiuta dopo Martin Lutero.
Mi guardo attorno, monolitico, e decido di aprire le finestre compiendo la mia personale azione sovversiva. Scaccerò le bestie sui soffitti e non mi chiedo quale possa essere la reazione di mia madre, penso sia adulta e che a tale sgarbo risponderà con una reazione matura. Le passerà, concludo.
Parto da quella d’entrata e la spalanco, oltre riesco a vedere il viso dei passanti, le case dei vicini. Mentre lascio che le persiane sbattano sul muro e che la luce mi bagni accecandomi, prima di richiudere la porta a vetri arriva anche un certo odore di aria fresca. Mi chiedo quale stagione sia, mentre avverto crescere il formicolio sugli eritemi, ma continuo ad ignorarlo. Benché spostandomi da una stanza all’altra mi baleni il dubbio che possano essere loro a muovere gli animi di questa rivolta.
Poi passo nella mia camera, in quella vuota e abbandonata di mia sorella, l’altra in cucina, quindi in salotto, infine arrivo nella stanza di mia madre. Nel buio chiaro riesco a vederla ancora una volta immobile a guardare il tetto, adesso sono sicuro che anche lei vede le gargolla, le sente ammansirla. La sorpasso con noncuranza, mosso da una certa cupidigia luminosa e ariosa. Mia madre con voce smorta e lineare mi dice di non aprire. Non l’ascolto perché sento un certo bisogno bruciante catalizzarsi lungo le braccia, nelle ascelle, al di sotto della mascella, quindi ripete: non aprire. Adesso ha il tono di un comando: non aprire, fa nuovamente, ma io ho come una sete bruciante in gola.
La ignoro, sto già aggeggiando con la maniglia. Un attimo dopo mi allungo verso la persiana, la spingo con le dita e nello stesso attimo sento mia madre che scatta dal letto. Con la coda dell’occhio la vedo balzare con un’agilità ferina, la stessa che hanno gli animali di fronte ad un pericolo. La luce inonda la camera da letto restituendomi i suoi dettagli assieme i ricordi della mia infanzia incastrati lì dentro. Per un piccolo istante chiudo gli occhi, potrei descrivere dettagliatamente la reazione carsica delle mie cellule, o piuttosto il loro movimento di apertura verso l’ossigeno luminoso, come una boccata dopo un’immersione, un timido ritorno alla vita.
Il maremoto di folgore però minaccia la stabilità di mia madre che come un animale notturno si nasconde nell’unico angolo d’ombra rimasto, dietro l’armadio. La guardo con una superiorità pietosa, inondato di aria e di luce. Avverto, mentre mi avvicino a lei con la stessa cura con cui ci si avvicina ad un puma, che le mie cellule vibrano adesso. La testa si alleggerisce, i polmoni si ampliano.
Mancano pochi passi, lei è un piccolo animale nell’angolo, accucciato con una banale illusione di protezione. Ha le gambe al petto, prima tremava, ma adesso noto che le sue mani si sono fermate. I suoi occhi mi fissano, le sue iridi si allargano ora irrorate da dopamina, bisognose di luce. Si muovono e individuo perfettamente ciò che stanno osservando: la mia caviglia, il mio avambraccio. Quindi improvvisamente si alza. Fuori dalla finestra sentiamo il fruttivendolo gridare che oggi ha cipolle fresche, con una cantilena ripetitiva. Si avvicina a me e mi sfiora il braccio, continuo a guardarle la testa dai capelli stanchi, bianchi e diradati. Poi si sposta alle mie spalle.
Sento un movimento netto, una specie di trazione, poi un piccolo rumore di qualcosa che si stacca. Mi volto e la sorprendo con una grossa fragola nelle mani.
Dovremmo lavarla prima, fa.
Sembra una bambina, vorrei abbracciarla, ma mi blocca dicendo: non devi preoccuparti più per me, altrimenti diventerai una pianta.
Mi pare di tranquillizzarmi con la stessa facilità con cui ho respirato aprendo le finestre poco prima, e mi sembra di sentire la caviglia sgonfiarsi improvvisamente. Succedeva anche a tuo padre, dice.
Ci guardo nello specchio dell’armadio adesso, abbracciati, cullando un’obesa fragola rossa. Vorrei porgerla al fantasma lucente di mia sorella, con un certo orgoglio e poi dirle: ecco, Amelia, la nostra fragile ribellione luminosa.

*Immagine di Vasco D’Ospina

Su Yasmina Reza: Arte, Il dio del massacro, Babilonia

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[Quest’anno il premio Malaparte è andato a Yasmina Reza. Quello che segue è il testo scritto da Giuseppe Merlino, membro della giuria presieduta da Raffaele La Capria, e letto in occasione della premiazione. ot]

 

di Giuseppe Merlino 

Sono consapevole della parzialità di questo elogio rispetto alla ricchezza dell’opera di Yasmina Reza. Farò una breve premessa in tre punti.
Un libro famoso, tradotto in Italia negli anni ’80, scritto da un sociologo polacco sfuggito alle stragi naziste, Norbert Elias, si intitolava La civiltà delle buone maniere, che venivano intese come una struttura fondamentale della “civilizzazione”: laboriosamente emerse nelle società di Corte italiane, si erano poi diffuse in tutta l’Europa, per imitazione.
Di recente un filosofo tedesco, impertinente, Peter Sloterdijk, ha scritto un libro dedicato all’ira e alle sue forme, Ira e tempo (2018), e ha formulato un nuovo incipit della nostra storia occidentale (e non solo), l’altro essendo quello del Vangelo di Giovanni: in principio erat Verbum; il nuovo incipit lo sostituisce con un in principio erat Ira: l’ira di Achille, certo, origine del poema omerico e della letteratura occidentale; ma anche l’ira di Dio, nella Bibbia, che si manifesterà nel Giudizio Universale, dies irae; e poi l’ira delle masse, capitalizzata storicamente dai giacobini (1789) e dai bolscevichi (1917), insomma dalla Rivoluzione, senza dimenticare il dimenticato Mao Tse Tung.
Ma rispetto a queste grandi “Banche dell’Ira” che ne è oggi della formidabile energia della Collera (da koléra=bile)? La situazione è molto diversa, e la risposta del filosofo è che, oggi, l’energia dell’Ira è dispersa, non organizzabile, e che la nuova Internazionale è un’Internazionale misantropica e malinconica; atrabiliare, con le sue articolazioni di malumore, carattere irritabile, permaloso (da: per male), suscettibile (da suscipere = prendere su di sé), e maniere brusche; e con i connessi sentimenti di superfluità sociale e di indifferenza. Altri hanno parlato di una guerra civile molecolare (Enzensberger), di un clima di avversione amorfa, di una competizione pulviscolare, e perfino di un nuovo cogito: irrito e mi irrito, dunque sono. Il paesaggio nel quale abitiamo è/sarebbe quello di un individualismo rancoroso, solitario e vendicativo: da lontano, forse, ci guarda stupito il conte di Montecristo che nell’ultima pagina del romanzo rinnega la sua calcolatissima vendetta e la giudica oltraggiosa: quis ut Deus? Insomma non si avrà una visione sociale consistente se non si riconosce come e quanto l’uomo disturbi l’uomo nella frizione continua di una vicinanza odiosa!
Per chiudere questa premessa, cito un solo verso da un formidabile testo teatrale, il Misanthrope (1666) – è Alceste, il misantropo, che parla: Je veux me fâcher et ne veux point entendre (atto I, scena 1, vs. 5) che tradurrei: “mi voglio arrabbiare e non voglio sentire ragione!”. L’ira, si vede, è una passione (perciò è anche un peccato capitale) e rimane un’energia anche se è isolata e depotenziata; non c’è galateo stoico che la trattenga.

Vengo subito a Yasmina Reza e a un suo testo teatrale perfetto, Arte (2009), nel quale mi è sembrato di leggere un Misanthrope dei giorni nostri.
Tra due vecchi amici, Marc e Serge, molto legati, si scatena un litigio violento, insolente, quasi inconciliabile, perché Serge ha comprato un quadro – un monocromo bianco – di un artista contemporaneo, esposto anche al Beaubourg, per una cifra considerevole per lui, se non per il mercato. Marc, il suo grande amico, giudica il quadro grottesco, risibile, e deplora vivamente che il suo amico sia vittima del grande snobismo in voga: diventare un “collezionista” d’arte contemporanea e godere anche di un upgrading sociale; fin qui il litigio è molto proustiano, ruota intorno al prestigio sociale, e penso all’amicizia tra Bloch e il Narratore nella Recherche. Marc denuncia, col furore di Alceste, l’impostura dell’oggetto acquistato (una “merda”) e delle ragioni di quell’acquisto; e, senza persuaderlo ma accusandolo con una sincerità feroce, vuole sottrarre Serge all’imbroglio dell’arte e riconquistare la centralità che lui, Marc, aveva ottenuto nella mente e nel cuore di Serge.
C’è un terzo personaggio: Yvan, sommerso da inquietudini matrimoniali, familiari (le donne che lo circondano sono tutte temibili primedonne) e professionali (cambiamenti di lavoro repentini). Da lui, come terzo, si pretende un giudizio sullo scontro in atto, e sempre più furioso. Yvan recalcitra e invoca la tolleranza, Marc la depreca: si scrive “tolleranza”, dice, ma si legge strafottenza o odiosa compiacenza. Yvan, per Marc, è un ruffiano servile, un’ameba (complice il suo psicanalista), un uomo spugnoso, ibrido, ambiguo, insomma un vigliacco. Ira e gelosia, alleate, esecrano i tiepidi, i riduttori di intensità!
Chi è Marc? È colui che resiste al proprio tempo, è intransigente (eroico?) nella sua solitaria opposizione al mondo così come va; è un virtuoso del sospetto; un teorico dell’amicizia come reciproca ammirazione, con un’asimmetria, però: uno dei due amici è più ammirevole dell’altro, e questo è lui, è l’amico magistrale. È l’Alceste del 21° secolo, con il suo esprit contrariant: «(Marc a Serge) C’è stato un tempo in cui eri orgoglioso di avermi come amico…Amavi la mia stranezza, la mia propensione a starmene appartato. Ti piaceva esibire la mia ruvidezza in società, a te che vivevi in modo così normale. Ero il tuo alibi. Ma… alla lunga, a quanto pare, questa specie di affetto si inaridisce… Con la vecchiaia, conquisti la tua autonomia… (…) E io odio questa autonomia. La violenza di questa autonomia. Mi abbandoni. Vengo tradito. Sei un traditore per me.» (Y.R., Arte, trad. Federica e Lorenza Di Lella, Adelphi, 2018, p. 83).
E Serge chi è? È un recente appassionato di arte contemporanea, usa categorie post-moderne come decostruzionismo; rifiuta l’idea di essere nel flusso di una moda; sacralizza l’arte (“idolatra”, lo accuserà Marc) pur riconoscendone i maneggi mercantili; e gode, tacitamente, di esordire come collezionista.
Insomma, al centro di Arte c’è la peripezia di un’amicizia possessiva e gelosa, in cui l’amico è il grande specchio “buono” in cui l’altro si riflette con piacere e si riconosce in un appassionato narcisismo. L’appannarsi dello specchio dell’ammirazione si chiama tradimento. Taccio il finale e la sua brillantissima soluzione; dico solo che l’amicizia tra i due ritrova un po’ di calore e il quadro monocromo viene reinterpretato come la traccia di un’assenza umana in un paesaggio innevato, addirittura come un quadro (post-) figurativo. Serge tiene più a Marc che al quadro? A costo di un piccolo inganno? Tutti sistemati? Così sembra!

Vengo a un’altra pièce perfetta e celebre, Le dieu du carnage, scritta nel 2007.
Siamo in una casa borghese, a Parigi, dove due coppie si incontrano per discutere e risolvere una vicenda che riguarda i loro figli undicenni: uno dei due, escluso dalla banda di compagni, guidata dall’altro, perché accusato di aver fatto lo spia, colpisce il compagno con un bastone; risultato: un labbro tumefatto, la rottura di due incisivi, e il nervo di un terzo dente scoperto.
La scena si apre con frammenti di consueta cortesia e di civile ovvietà, ma velocemente si arriva a ingiurie sanguinose, a gesti violenti contro gli oggetti (occhiali, borsa, portacipria, tulipani, libri…) che, nelle intenzioni, sono rivolti contro i corpi dei presenti; e le dichiarazioni di principio, lodevoli e progressiste, sono smentite nella pagina successiva, poi sbeffeggiate apertamente (Y.R., Il dio del massacro, trad. Laura Frausin Guarino-Ena Marchi, Adelphi, 2011, p. 86 «…Veniamo qui per sistemare le cose e questi ci insultano, ci strapazzano, ci fanno lezioni di cittadinanza planetaria, nostro figlio ha fatto bene a riempire di botte il vostro, e con i vostri diritti dell’uomo mi ci pulisco il culo!»), e si arriva alle percosse tra i coniugi (p. 73, «Véronique si avventa sul marito e lo picchia diverse volte, con disperazione scomposta e irrazionale»).
Véronique, la più rigorosa sostenitrice della civile convivenza (prepara un libro sui massacri nel Sudan ed espone dei table books molto sofisticati) è coinvolta in una doppia rissa: quella coniugale, e l’altra con i genitori del bambino violento; esasperata, però, teorizza la fatuità delle sue stesse idee: «Comportarsi in modo civile non serve a niente. La buona creanza è un’idiozia che ci rammollisce e ci rende deboli…» (p. 53), e si arruola tra i fedeli del dio del massacro.
Due forme di iracondia si intrecciano nella pièce: quella interna alla coppia («Michel. Io dico una cosa, la coppia è la cosa più terribile che Dio possa infliggerci.»; p. 66), riflesso di una più vasta inimicizia tra maschio e femmina (si pensi all’aforisma di Ceronetti, «i cristiani, aboliti i giochi dei gladiatori, inventarono il matrimonio»), e quella esterna, tra le due coppie di genitori.
Le posizioni non sono compatte: ci sono intese fugaci tra le due donne che irridono i modelli di virilità lodati dai mariti: Ivanhoe e John Wayne con la sua colt; e dall’altro lato ci sono le intese gradasse e labili tra i due mariti che si vantano di voler andare “fuori di testa” e di riuscirci, «Michel… Abbiamo fatto i simpatici, abbiamo comprato tulipani, mia moglie mi ha camuffato da uomo politicamente corretto, ma la verità è che sono del tutto privo di autocontrollo, sono uno che va fuori di testa.», (p. 57).
È un irresistibile strip-tease di brutalità millantata e di impulsività mascolina, incoraggiato da un ottimo rum invecchiato, Coeur de Chauffe (nome allusivo), che piace a tutti.
Nell’andamento dell’incontro, in cui circolano rabbia e disprezzo, irrompe la voce del corpo; Annette, madre del piccolo aggressore, colta da nausea, ha un violento conato di vomito; un getto prepotente e catastrofico investe suo marito Alain e i preziosi cataloghi sul tavolino: due bersagli del suo maggior disprezzo: la superficialità vile dell’uno e l’ostentazione vanitosa degli altri. È un segnale del suo disturbo interiore; è un’aggressione che non può essere punita perché è fisiologica; è un sintomo del più vasto disgusto che Annette ha di sé e dei suoi tre interlocutori; un tempo ci sarebbe stato uno “svenimento”, cioè un’assenza o un’evasione, qui c’è una presenza, attiva e nauseabonda, in perfetto accordo con la situazione.
I figli restano in ombra nel corso di questa visita: sono poco conosciuti dai loro genitori, gli “stronzetti” sono più tollerati che voluti; sono pretesto per enunciazioni morali e nobili principi; infine scompaiono dal campo di battaglia degli adulti!
Un’osservazione che ricavo da questa pièce, perfetta e crudele, è che la rissa (per i greci la Rissa era la dea Eris, dea della discordia, sorella di Ares, dio del massacro) non ha una conclusione, è un loop, non si estingue ma si esaurisce solo se e quando i contendenti soccombono esausti, letteralmente scarichi.

Vorrei solo accennare a un altro libro di Yasmina Reza, Babilonia (trad. Maurizia Balmelli, Adelphi, 2016), un romanzo, e nominare poi il suo libro più recente, Serge, del 2020 (Flammarion).
Sono due storie, ma soprattutto due voci che raccontano, una femminile e una maschile.
Elisabeth, la voce femminile di Babilonia, racconta la storia di Jean-Lino Manoscrivi (francese, di origine italiana, ebreo), un vicino di casa, a cui si è affezionata per la sua mitezza e la sorridente timidezza. È diventato un amico e lei ne intuisce il desiderio, mortificato, di dedizione e di amorevolezza; un desiderio senza destinatario: solo un gatto scostante e un bambino sprezzante. Il desiderio di prendersi cura di un “vivente”, represso e deriso, si ingorga ed è, forse, la causa del gesto automatico di Jean-Lino: dopo una discussione aspra, nata dalla permalosità di sua moglie Lydie, la soffoca fino a farla tacere e morire.
Elisabeth non si sottrae allo smarrimento di Jean-Lino, entra nella scena tragica, (contro l’opinione del marito Pierre che, constatata la morte di Lydie, torna a dormire), è disposta a compromettersi in un tentativo sconclusionato di occultare ciò che è accaduto. Ma, tra lo slancio verso l’amico e la tutela di sé, si fa strada il pensiero di abbandonare Jean-Lino al suo destino giudiziario.
Interrogata più volte dalla polizia, dal giudice e dagli psicologi, Elisabeth si trova a ricomporre la propria autobiografia, ritrovando immagini che credeva abolite; sono tutte immagini di situazioni, in situ, di paesaggi con figure; se scontorna le figure dal paesaggio esse si dissolvono; è un modo per dire che la vita è implicazione e interazione, e che la memoria è spaziale. Questo romanzo è dedicato, implicitamente, a due grandi fotografi di strada americani, citati ad apertura di libro: Garry Winogrand e Robert Frank! Il paesaggio illumina il personaggio, scrive Yasmina Reza.
La conclusione di Babilonia è una meticolosa ricostruzione, a fini giudiziari, della notte in cui Jean-Lino strangolò sua moglie, di ritorno dalla festa di compleanno di Elisabeth, al piano di sotto. È una replica maniacale, ricostruita fino all’eccesso, come se l’identico svelasse il vero. La replica del delitto viene fotografata con diligenza e didascalie, a fini processuali; ogni elemento di questa simulazione ne aumenta l’aspetto artificioso e surreale; la scena non è più tragica né comica; è solo non-umana, è un evento dissanguato, marionettesco. Jean-Lino, sensibile al “paesaggio”, sembra “impagliato”; questo è l’effetto della parodia quando non sa di essere tale!
Ma nello sguardo di Jean-Lino che viene riportato in carcere, ammanettato, nell’auto della polizia, e che ha giocato all’automa fino a quel momento, brilla una scintilla di malizia: è uno spiraglio di vita, momentaneamente interrotta ma non estinta. Valeva la pena di essere amica di Jean-Lino!

Infine, Serge: è il romanzo di una fratria, di tre fratelli ebrei non religiosi. Dietro di loro ci sono i genitori e davanti i nipoti, le tre generazioni necessarie per un romanzo familiare. I tre fratelli sono Serge, Jean e Nanà.
Jean osserva, aiuta, ironizza e racconta.
Nanà rispetta le regole della commozione, delle buone pratiche e del turismo della Shoà.
Serge: un uomo difficile, in difficoltà sentimentali, fisiche, economiche, è fobico, superstizioso, infingardo, bulimico, irritabile, incontinente, atterrito dall’ignoto che lo circonda e lo tiene in pugno, perdente senza gloria, guastafeste, e indimenticabile.
Una grande scena del romanzo è il viaggio collettivo ad Auschwitz, in pieno orrore turistizzato; il viaggio racconta molto più dei tre fratelli che non del campo di sterminio. Di quelle pagine ne segnalo due, perfettamente flaubertiane, sul disagio di una giornata passata in una Cracovia affollata, multietnica, turistica e canora. Un’ordinaria banalità con lampi di desolazione.
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Capri
Certosa di san Giacomo
3 Ottobre 2021

 

Petrolchimico

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di Carlo Alberto Frassanito

Un antroponimo e vagamente protorepubblicano, qualcosa come Arnaldo o Palmiro, ma meno esplicito, per non scivolare nell’allegoria prima e, dio ce ne scampi, nella satira poi. Enrico Rumor – ne si ignori pure la facile ironia.

Enrico, dunque, si avvide in un’afosa serata d’agosto, e si potrebbe indugiare sui particolari relativi al luogo in cui tale agnizione si avverò (una terrazza affacciata su un quartierino provinciale e ridicolo) oppure descrivere i gesti che si compivano durante la riflessione (l’accensione macchinale di una sigaretta); si avvide che l’ideologia di cui si era nutrito e che spesso e volentieri aveva rimpiazzato più usuali aneddoti da salotto, non tanto per épater ormai inépatibili presenti quanto per ostentare una tutta presunta genialità, quest’ideologia dico, contaminava la sua esistenza più di quanto si fosse mai concesso di ammettere. 

La merda, in sostanza, lo intossicava da anni, anni che gli apparvero come secoli in quell’epifania. Eppure mai gli stessi bisturi che con talento quasi accademico aveva posato sui cadaveri mediocri di quanti non lo circondavano, lui li aveva incisi nella sua propria carne. Il sangue già schizzava mentre Enrico, con esitazione puerile, conteggiava le ore che quell’idea, percepita sino ad allora così impalpabile e distante, ci aveva messo per avvicinare una tale lancinante concretezza.

Uccidere il padre, fare a pezzi la Legge da subito, senza lasciarla per gran dessert, onde evitare l’imbarazzo di apparire (ancora una volta) sofoclei. Cenni biografici su Romano Rumor: pollone di borghesi anche più minuti di lui, formazione classica per inerzia, sentimenti politici ma del tutto esteriori (un parka e una camiciola fregiata delle citazioni di Mao, in vista, s’intende, della Rivoluzione, malgrado l’autunno caldo lo avesse poi lasciato essenzialmente freddo – come Enrico, era d’altronde un uomo contemplativo), letture, queste sì meno sbrigative, dalla vulgata francofortese, e in special modo dall’erotodidattica frommiana. Gli anni del reflusso lo avevano infine relegato in un asfittico ufficio pubblico, dove era sopravvissuto non tanto negando per partito preso ogni ambizione privatistica, quanto vagheggiando un ritiro nella campagna sabina.

Enrico si sforzava di odiare quella figura dalle mani così benevole e così detestabili, eppure l’unica affezione che lo percorreva era la nostalgia per un ricordo mai vissuto: Romano, febbricitante e incappottato fino ai denti, nell’inverno del settantatré, l’anno in cui aveva fatto la pleurite, ad aspettare al gelo la sua ragazza fuori da un cinemino in cui si replicava Il dottor Živago. Lo stava rammentando come in una visione, lo stesso leitmotiv e la stessa neve de Le notti bianche di Visconti, il volto della sua futura madre trasfigurato in quello di Maria Schell.

Dalla postura moralistica che aveva assunto, Enrico non poteva ora che sporgersi verso il basso, contro un baratro dal rancore sordo, senza spasimi. Se in passato non c’era stato verso, impossibile supporre un povero stronzo, un maschio incapace persino di allacciarsi le scarpe della festa, ripudiare quella santa donna – perdonare i cliché solo qualora autentici: tutte le madri del Sud sono o vergini addolorate o femmine in odore di canonizzazione – adesso tutta la vicenda, squisitamente in accordo con lo Zeitgeist, acquistava una dimensione esatta e incredibilmente ponderabile, uno schema quasi confortante nella sua cristallina intelligibilità.

Il tradimento del focolare non lo sconvolgeva poi tanto, lo imbestialiva piuttosto la beffa di essere sopravvissuto al padre, ma derubato finanche del conforto di un feticcio, per quanto castrante, di intatta esemplarità. Il Potere, e buona prassi obbligherebbe qui a impiegare una dizione se non altro meno naif, non si era limitato a cannibalizzarglielo – non ne avanzavano a riprova né scheletri né reliquie – gli aveva invece sfigurato i connotati con diligenza da macellaio. 

Ripensava al Philips, lasciato spento nel cuore degli anni Ottanta, e al silenzio sovrastato da una voce lievitata: replicava quella nuova di un piccinnu in preda ai perché. Non se ne sfornava che un enciclopedismo ingenuo, mai più in là di una socratica ammissione di insipienza, dalla poetica di Palombella Rossa alla meccanica dell’asciugacapelli.

D’altronde era proprio dall’ordine del discorso, già fatalmente sovvertito, che Enrico aveva presentito tutto, molto prima del disonore. Quel prendere umido frignandosi addosso, i «sogni mai realizzati», i «rifarsi una vita», le «occasioni mancate» erano soltanto il preludio di una Bovary riscritta, che ne so, da Boncompagni. Nel seguito, come da copione, il lessico paterno aveva semplicemente rivelato il suo debito con la Bolognina e non c’era davvero alcuna ragione di stupirsi, lavorando more geometrico, se l’amore coniugale e la paternità si erano assottigliati fino allo spessore di una brochure.

L’intera vicenda, e questo Enrico lo sapeva bene, poteva avere l’aria dell’ennesima banalità, della mera cazzata, confortata peraltro dall’esempio di innumerevoli e illustrissimi precedenti. In fin dei conti, a scandalizzarsi di un sessantenne bavoso che pianta baracca e burattini per una ballerina non restavano neanche più le professoresse di latino antiabortiste (otemporaomores), ed Enrico non era certo il tipo da concedersi il diritto o il piacere allo scandalo. Da buon intenditor di sé, lui stesso qualche momento prima avrebbe declassato quella sua privata rivelazione a buon pretesto per inedite recriminazioni, vecchia ma sempre godibilissima abitudine. 

E tuttavia l’aneddoto paterno lo penetrava ora con eccezionale violenza, quasi che lo rivivesse in sé per la prima volta dopo svariati anni. Era come avvertire, a tratti, il fiato corto, la grassa raucedine di una risata oscenamente sguaiata. Non si trattava di un imperativo o di un divieto, era un’esortazione untuosa, liberatoria e celerina insieme, l’apologia spudorata della possibilità, ecco. Godi, anima stanca di tacere (da leggere con fare perlomeno canzonatorio). 

A quest’altezza, pure il meno avveduto se non altro lo intuisce, l’eventualità che l’Enrico Rumor metta scarpe e cappotto, prenda e vada via, rappresenta in potenza un rischio reale. La tentazione, fuor di metafora, di cadere nella novellistica spicciola diventa forte, una volta incrociato, quasi per combinazione, materiale all’apparenza così promettente; e d’altra parte non esiste diritto più sacrosanto al domandarsi dove perdio si voglia andare a parare. 

Se non fosse che il temperamento riluttante, anzitutto nei confronti dell’azione, dell’Enrico Rumor in questione escluda de facto qualunque sviluppo non puramente teoretico, motivo per il quale la maschera potrà fare unicamente quel che in effetti poi farà: tirare la prima boccata di fumo, perseverare come statua di sale.

E, per l’appunto, Enrico già ricascava nei vecchi schemi, un’altra volta nella rassicurante autoreferenzialità, riprendeva a costruire i suoi castelli a quella sua maniera così volgarmente speculativa: la liberazione sessuale, il referendum del settantaquattro, miscelfucò etcetera. Questa volta però, si diceva, non avrebbe ceduto ai sentimentalismi, avrebbe profittato di quell’occasionale lucidità, almeno fin tanto che fosse durata. E non per coraggio, talmente distante dall’immagine che aveva di sé, piuttosto per disprezzo di quella particolare forma di apostasia che consiste nell’abbandonare le cose a metà. 

Un’occhiata, gettata in quel momento oltre la ringhiera, lo riportava d’acchito alla corporeità. Fissando dirimpetto i condomìni ingialliti nella penombra dei lampioni avvertiva una sensazione carnale di conforto – contraffatta ça va sans dire. Braccia e gambe si facevano più leggere, il respiro a poco a poco meno asmatico.

Si domandava – e ne rideva, cazzo se ne rideva – come la veglia che stava sperimentando avrebbe potuto esperirla in altro luogo, in altro tempo oltre a quelli in cui si trovava, se non fosse poi un’ironia persino troppo tragica quella di trovarsi a sfottere il secondino esattamente nel cesso, proprio durante l’intermezzo, che con generosità il secondino gli aveva concesso per pisciare. 

Per lui, del resto, così come per tutti gli altri mammiferi a contratto suoi pari, non esistevano che due stagioni, la bella e la brutta, entrambe insoffribili. Con che puerilità, adesso finalmente lo poteva sospettare, durante la brutta (e figurarsela nel gelo di una capitale nordeuropea o in mezzo al nebbione del varesotto poco importa ai fini del nostro ragionamento) si era costretto a desiderare la luce della bella, quanto talento era servito a ogni partenza per rimpiangere una terra biblica, quanta retorica per qualificare ogni rimpatrio un nostos.

Enrico non era un idiota, almeno non nel senso ordinario del termine, sapeva, se più per esperienza diretta oppure per cauto disfattismo non avrebbe potuto dire, ma sapeva che nella sua Colchide non restava che il puzzo dell’antico dolore, un rigurgito della passata amarezza. Eppure si ostinava, manco a farlo apposta, a vederci una landa obsoleta, una nazione preistorica, antistorica si sarebbe corretto, popolata ancora da Signori obesi intenti a comporre metafisiche e Servi zeppi di poppanti sfamati a latte di capra e limoni. (È vitale non farsi prendere la mano da vezzi di pure lontano gusto meridionalista, neanche per moventi di pretestuosa immedesimazione). 

Dimodoché, ogni qual volta rincasava e vi scopriva esultanti futuristi in luogo degli attesi idoli nudi e analfabeti, finiva immancabilmente per invidiare il Nord nella sua ripugnante, quanto scoperta, attualità. Quegli interminati grand tour, che nelle sue fantasie più spinte si fingeva sotto canicole di carne cruda oppure a costa di acque sbiancate e infeconde, si risolvevano sempre, e neanche troppo a malincuore, in un requiem in suffragio della fame sepolta sotto i villaggi vacanze e i parcheggi, del Frazer immiserito a folclore. – Tanto, va detto, aveva potuto la suggestione di certa narrativa bucolica consumata in età forse sin troppo precoce.

A fronte di quel richiamo per così dire politico, quindi, Enrico si limitava a riconoscere, con piglio un po’ grottesco un po’ eroico, di non essere poi molto meno di un vacanziere dentro a quel Paese di cui non sapeva più riprodurre il sì (due o tre vocali ostentatamente chiuse, la esse scempiata e un buon numero di calchi esteri innestati su di un marcato accento meridionale gli davano ormai l’aria di un apolide cresciuto dappertutto e dunque da nessuna parte) né ripetere le buone convenzioni di pessimo gusto. La sua, doveva concludere, non era stata che l’ennesima prova di autoerotismo, benedetta semmai dalla memoria di una stagione che con ogni probabilità non era mai fiorita, se non chissà per indurre un lutto a buon mercato o un’abdicazione definitiva.

Chiaro che a un simile stato di prostrazione poco o per niente giovava l’isolamento, al quale Enrico aveva aderito in ragione di una non meglio precisata urgenza di clausura, ancorché di reclusione si sarebbe in realtà dovuto parlare. E l’attardarsi in una vecchia cameretta con le sbarre alle finestre, tra libri del ginnasio e pile di Dylan Dog, avrebbe acuito il timido cinismo di chiunque si fosse prima convinto della necessità di proscrivere uno per uno i propri simili nel novero degli “altri” e solo in seguito capacitato che erano stati gli “altri”, invero, a buttarlo fuori dal consorzio umano a calci nel culo.

Gli ultimi incontri ravvicinati – andava a naso – risalivano perlomeno a una decina d’anni prima. Gliene sovveniva uno in particolare, di cui avrebbe volentieri smarrito il ricordo: una cena fra amici (si tratterebbe, a voler essere esatti, di quelli che si suol chiamare amici da una vita, per via del privilegio che hanno di non frequentarsi abbastanza) alla quale aveva preso parte mosso soltanto dall’ambizione di ritrovare per la prima volta in uno spazio materiale ognuno di quei braccianti d’alto bordo seminati per il mondo, da cui un tempo aveva ricevuto il saluto contraccambiandolo poi con l’offerta di un affetto servito, per strizza naturalmente, in telegrammi incostanti e stipati di collera. 

Dal convito, di rara inutilità, Enrico aveva avuto occasione di osservare da vicino quello che in gioventù aveva giudicato il meglio che dell’umano, nella misura di un criterio a suo dire morale, era riuscito a scovare. All’epoca dei fatti, stando agli scarsi risultati di quella privata selezione artificiale, non si era saputo decidere se fosse stata la sua moralità negli anni a irrigidirsi, oppure la vita-lontano-dalla-provincia a deturpare i visi sfatti, i capelli meno folti e i seni un po’ più avvizziti di quei carissimi terzaviisti che lo fissavano intorno alla tavola apparecchiata – in questa sua rappresentazione del divenire (revival della storia andata) resisteva, neanche a dirlo, una certa perseveranza a considerarsi estraneo, vale a dire, in più franche parole, superiore.

Tant’è, l’amena serata era trascorsa senza intoppi, filata liscia in mezzo a un coro di simposiasti moderatamente impensieriti, e non per questo meno giulivi, da (in ordine sparso): l’aggiornamento del curriculum, l’iscrizione della bambina in piscina, il rendimento di un pacchetto azionario, il bando di un secondo dottorato a Leida, una sgradevole allergia al lattosio. Per parte sua, Enrico si era deciso per un’opposizione di solidarietà nazionale, era intervenuto di rado e soltanto se interpellato, contentandosi di proferire, in tono né stanco né contrariato, qualche minchiata su quanto si sottovalutasse la pioggia e lo irritassero le molestie degli operatori telefonici. Per amor di patria si era astenuto da qualsivoglia rappresaglia verbale e ne aveva riscosso in cambio un attestato di stima per il modo in cui dimostrava la sua età. 

– Due parole su quella giovinezza di cui Enrico aveva pressoché piene le palle: non si parla di parteggiare per l’una o l’altra fronda del cosiddetto conflitto generazionale (padri/figli, pensionati/stagionali, partigiani/astenuti per intendersi), ma di attemparsi volutamente perché non si reggono più le opportunità, le canzoni sui vent’anni, il canone d’affitto e la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Si parla di volere indietro qualcuno di quei cari Catoni che ci credevano un branco di frocetti buoni soltanto a drogarsi, di auspicare una mozione alle Nazioni Unite per la decolonizzazione di cotesta età fiorita. Tutto qui.

C’erano pur state giornate di refrigerio in cui tenere lunghe disquisizioni completamente svestiti, Enrico le ripensava ora con rimorso. Ma vuoi perché sotto sotto se n’era fatto un vanto di quella fedeltà non richiesta, vuoi perché a un godimento plausibile aveva sempre anteposto un supplizio mancato, lo lasciava insensibile la prospettiva di trovarne di nuove. 

Preferiva di tanto in tanto, invece, compiacersi dello strazio che gli procurava la mancanza, un po’ come un buco nel cappotto che non ci si arrende ad accomodare con una toppa, dacché, in fin dei conti, l’inverno non viene che una volta l’anno e il gelo dopotutto rinfranca.

Quel buco, in effetti, aveva nome Anita, sebbene più volentieri Enrico lo menzionasse con gli appellativi di Eleonora, Livia o anche Lucio, a seconda del caso e dell’umore. Aveva cominciato all’università, quando lei bazzicava ancora le filodrammatiche e a lui era sembrato quasi naturale metterle le parole in bocca (il fatto che fosse una donna lo aveva reso solo più facile). 

Il gioco delle parti donava talmente a entrambi, che non avevano esitato a scimmiottare i morosi della Capponcina prima e a impiegare, senza accortezza alcuna, frasi da romanzo poi. Quindi la mimesi aveva preso il sopravvento e alla lunga le coppie illustri si erano moltiplicate: Mogol-Battisti, i coniugi Andreotti – mentre di Anita a mano a mano non era rimasta traccia. Rarefatta dietro le parole di un maschio, ne era diventata inconsapevole una sorta di epitome o, fa lo stesso, di amante.

Per innegabile vanità, allora Enrico non se n’era lamentato poi troppo, aveva semplicemente sospeso le sue convinzioni alla vista di cotanto servilismo; si può dire anzi che ne avesse approfittato, nell’ebbrezza onnipotente di fare del mondo a propria immagine e somiglianza. Se e quando l’impotenza logorava, avanzava almeno il rifugio di un duo che, a giudizio unanime, era il più affiatato sulla piazza. 

Adesso non poteva davvero biasimarla se in certe ricorrenze (feste comandate, giorni natali) non aveva voglia di rispondere o richiamarlo, tardi ormai per discolparsi. Avrebbe dovuto antivederlo che un altro prima o dopo sarebbe sopravvenuto, d’un genere meno epistolare e più d’appendice, uno che almeno non le si addormentasse al fianco. Tanta felicità, in fondo, andava scontata. 

E non c’era dubbio che pure avesse influito la proposta di una sessualità anticonvenzionale, non inquadrabile, in sintesi, nel piacere onnipervadente o nella copula capitalizzata; per questo, un giorno o l’altro, se l’aspettava di riconoscere nella buca delle lettere (a quale indirizzo poi) una partecipazione o l’annunzio di un battesimo.

Sul serio, non tirarla ancora per le lunghe e senza per questo pretendere di aver detto quanto c’era da dire, non millantare alcunché, in ispecie conclusioni. Qualora, a epilogo, uno si sentisse in debito di un colpo di scena, potrebbe trovare doverosa una conflagrazione universale, per finire in bellezza e senza tema di apocatastasi. Diversamente, se il lieto fine avesse fatto il suo tempo, non rimarrebbe che optare per l’attesa: un interminato piano sequenza su una sovrumana coda al casello o allo sportello delle Poste. Nell’uno e nell’altro caso, nondimeno, la svolta sarebbe interdetta e non soltanto per le ragioni sopracitate (nessun allegorismo, fedeltà alla dura cartapesta etc.), ma pure per il ben riposto terrore di averla già audita – la svolta – e già faticosamente peristaltizzata, in qualche antologia di narrativa generazionale per esordienti sotto i trenta.

Enrico, dunque, si arrese in un’afosa serata di agosto, e si potrebbe indugiare sulla superfluità di un’imbarazzante quanto fastidiosa composizione ad anello, ma si arrese e non sulla scorta di motivazioni di finanche vago ordine realpolitico (è bene ribadirlo), bensì in ragione di sopravvenute condizioni di debolezza in primo e più doloroso luogo morale. 

Nell’atto di prendere l’ultima boccata, allora, si figurerà nella memoria Fräulein Kassel, con tutto il suo scomposto corredo di musi lunghi, tagli corti, scarpe basse e alte aspettative, affacciata come al suo solito dalle stanze in Corso Càvour. Quando, invece, si deciderà a espellere i prodotti tossici e francamente stomachevoli di quella combustione, sarà il retrogusto amarognolo a precisare meglio i contorni di quella creatura filoteutonica, a inquadrarne l’ethos manzoniano, l’evangelismo reazionario ma di buone intenzioni. 

Così, al contempo, le feroci discussioni a proposito della volontarietà du clochardage, della rimozione cattolica dei conflitti materiali, della colpevolizzazione premeditata dell’individuo e di altre pari e simili stronzate passeranno vivaddio sullo sfondo. Riaffioreranno, piuttosto, i gesti forzatamente sgraziati, e giustificabili soltanto nel tentativo mal riuscito di occultare un impeccabile pedigree, il rigetto deliberato di qualunque arrangiamento consolatorio del credo cristiano o, fa lo stesso, la serena e rassegnata accettazione del Male in questa vita, la fede, quella sì incrollabile, in certe visite ai musei del posto nei giorni più torridi dell’anno. Il tutto, poi, accompagnato da un crescente sentimento d’invidia.

Per forza di cose, infine, ed ergo senza diritto alcuno al recesso, Enrico Rumor pesterà il mozzicone sull’intonaco scrostato del parapetto e, facendolo, si scoprirà colmo d’insospettata ammirazione, in qualche misura fors’anche commosso nel passare in incantata rassegna i mille e più sprovveduti progetti per l’avvenire della suddetta Fräulein. Probabilmente gli si stringerà il cuore alla prospettiva di un matrimonio in parrocchia con un pittore mortodifame, prima di – quanti? perlomeno due o tre parti senza epidurale. Per la lettura nuziale, a dimostrazione dell’assoluta mancanza di calcolo di una tale commedia, il giglio nel campo…l’uccello nel cielo.

David Foster Wallace e gli incisi [#1]

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di Nicolò Cattaruzzo

Scelte incisive

In A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again l’uso di incisi (racchiusi tra virgole, parentesi e trattini) per commentare, integrare e specificare è molto ricco, inventivo e variegato e se questi incisi venissero eliminati la narrazione risulterebbe scarna, priva della forza e dell’ironia che invece acquisisce grazie all’uso abbondante, pieno di inventiva e non dogmatico che Wallace ne fa.

Di seguito ho scelto e commentato alcuni esempi che ritengo tra i più significativi, iniziando dalla versione originale per poi analizzarne la resa nella traduzione in italiano.

Traduzione italiana

Riporto in italiano gli stessi esempi già citati in lingua originale per osservare le somiglianze e le differenze tra le due versioni. Anche se nella traduzione di Francesco Piccolo e Gabriella D’Angelo (minimum fax 1998) alcuni incisi sono scomparsi o sono stati resi differentemente mantengo l’ordine con cui li ho presentati in precedenza per poter seguire il confronto più facilmente.

Incisi per specificare e commentare

In questi casi Wallace usa tutti gli strumenti possibili: virgole, parentesi e trattini. Le frasi funzionerebbero anche senza gli incisi ma il loro significato e tono risulterebbero neutri, senza spessore e personalità.

Iniziamo con i primi esempi:

I have (very briefly) joined a Conga Line.

I have heard a professional comedian tell folks, without irony, “But seriously.”

I have now heard—and am powerless to describe—reggae elevator music.

And this authoritarian—near-parental—type of advertising makes a very special sort of promise, a diabolically seductive promise that’s actually kind of honest, because it’s a promise that the Luxury Cruise itself is all about honoring.

The ads promise that you will be able—finally, for once—truly to relax and have a good time, because you will have no choice but to have a good time.

In questo caso le frasi sarebbero autonome anche senza gli incisi ma Wallace li usa per commentare ciò che scrive e pensa:

The fact that contemporary adult Americans also tend to associate the word “pamper” with a certain other consumer product is not an accident, I don’t think, and the connotation is not lost on the mass-market Megalines and their advertisers.

Anyway, hence the atavistic shark fetish, which I need to admit came back with a long-repressed vengeance on this Luxury Cruise, and that I made such a fuss about the one (possible) dorsal fin I saw off starboard that my companions at supper’s Table 64 finally had to tell me, with all possible tact, to shut up about the fin already.

Qui mi chiedo se dopo il secondo trattino non ci vada una virgola (eliminando l’inciso la frase non sembra reggersi bene):

Some weeks before I underwent my own Luxury Cruise, a sixteen-year-old male did a Brody off the upper deck of a Megaship—I think a Carnival or Crystal ship—a suicide.

Ci sono incisi tra parentesi che sono inseriti al di fuori della frase, nei quali Wallace commenta ciò che ha visto o fatto:

(The glowing fish liked to swarm between our hull and the cement of the pier whenever we docked.)

(Actually it was more like I shot at skeet at sea.)

Questo inciso è decisamente più lungo della frase all’interno di cui è collocato:

It’s not even so much a good time (though it quickly becomes clear that one of the big jobs of the Cruise Director and his staff is to keep reassuring everybody that everybody’s having a good time). It’s more like a feeling.

Qui una parola già evidenziata in corsivo è messa ancora più in risalto dalle due virgole che la contengono:

The word’s overused and banalified now, despair, but it’s a serious word, and I’m using it seriously.

Incisi per specificare e commentare

Uguale al testo di partenza:

Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.

In questo caso l’inciso originale viene reso con una doppia operazione: l’uso del contrario («seriamente» al posto di «without irony») e il corsivo:

Ho sentito un comico professionista dire seriamente al pubblico: «A parte gli scherzi».

Qui la traduzione ricalca l’originale:

Ho sentito – e non ho parole per descriverla – una musichetta da ascensore in versione reggae.

E questo atteggiamento autoritario – simil-genitoriale – crea una promessa davvero speciale, una promessa diabolicamente seducente, che d’altra parte è quasi sincera, perché è una promessa che la crociera extralusso ha tutte le intenzioni di mantenere.

La pubblicità vi promette che sarete in grado – finalmente, almeno per una volta – di rilassarvi e divertirvi, perché non avrete altra scelta se non quella di divertirvi.

Volendo mantenere la parola inglese «pamper» la si spiega in un inciso. L’altro inciso viene restituito come nell’originale:

Il fatto che gli americani adulti degli anni Novanta tendano ad associare la parola pamper, «viziare», a un particolare prodotto di consumo non è casuale, non credo, e la connotazione non si perde in queste megacompagnie di massa e nelle loro pubblicità.

Nel prossimo caso viene aggiunto un inciso («devo ammettere»). Non sembra indispensabile, ma questa è la scelta dei traduttori:

Insomma, di qui il mio atavico feticismo per gli squali – che, devo ammettere, è tornato alla carica con un desiderio di vendetta a lungo represso, durante questa crociera extralusso – e per questo ho fatto tanto di quel casino per quell’unica (presunta) pinna dorsale che ho visto giù a dritta, che i miei compagni del tavolo 64 alla fine mi hanno dovuto dire, con il massimo tatto, di farla finita con questa storia della pinna.

Nella traduzione si è deciso di mettere i due punti (forse chiudere l’inciso col trattino seguito da una virgola era la scelta corretta):

Qualche settimana prima che mi sottoponessi alla crociera extralusso, un ragazzo di sedici anni fece un capitombolo dal ponte più alto di una meganave – mi pare della Carnival o della Crystal: un suicidio.

Gli incisi tra parentesi e fuor di frase sono rimasti tali:

(Per la verità, ho fatto tiro verso il piattello, sul mare.)

(Ai pesci luccicanti piaceva ammucchiarsi tra la carena e il cemento delle banchine ogni volta che attraccavamo.)

Inciso ingombrante

Questo inciso è decisamente più lungo della frase all’interno di cui è collocato:

It’s not even so much a good time (though it quickly becomes clear that one of the big jobs of the Cruise Director and his staff is to keep reassuring everybody that everybody’s having a good time). It’s more like a feeling.

Inciso ingombrante

L’inciso occupa anche in questo caso gran parte della frase che però è stata accorpata al periodo successivo usando i due punti (a differenza della versione inglese che dopo la parentesi termina con un punto fermo). Forse i traduttori sentivano il peso di un inciso che stritolava il resto della frase:

Non è neanche tanto il divertimento (anche se si capisce subito che uno dei grandi compiti del direttore di crociera e del suo staff è di continuare a rassicurare tutti che tutti si stanno divertendo): è più, come dire, una sensazione.

Inciso con corsivo

Qui una parola già evidenziata in corsivo è messa ancora più in risalto dalle due virgole che la contengono:

The word’s overused and banalified now, despair, but it’s a serious word, and I’m using it seriously.

Inciso con corsivo

Come nell’originale:

Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente.

Elenchi – parentesi per specificare

Le parentesi sono usate per specificare gli elementi di un elenco:

Basic 7NC’s go to the Western Caribbean (Jamaica, Grand Cayman, Cozumel) or the Eastern Caribbean (Puerto Rico, Virgins), or something called the Deep Carribean (Martinique, Barbados, Mayreau).

Elenchi – parentesi per specificare

Anche in questo esempio la traduzione non si discosta dalla versione inglese:

Gli itinerari base delle 7nc sono Caraibi occidentali (Giamaica, Grand Cayman, Cozumel) o Caraibi orientali (Portorico, Isole Vergini), oppure una cosa chiamata i Profondi Caraibi (Martinica, Barbados, Mayreau).

Annidamenti

In questi esempi troviamo incisi che contengono altri incisi: inciso con virgole dentro ai trattini e inciso tra parentesi dentro a un’altra parentesi:

They keep saying—on the phone, Ship-to-Shore, very patiently—not to fret about it.

The Albert Kogler fatality off Baker’s Beach CA in 1959 (Great White). The U.S.S. Indianapolis smorgasbord off the Philippines in 1945 (many varieties, authorities think mostly Tigers and Blues); the most-fatalities-attributed-to-a-single-shark series of incidents around Matawan/Spring Lake NJ in 1916 (Great White again; this time they caught a carcharias in Raritan Bay NJ and found human parts in gastro (I know which parts, and whose)).

Annidamenti

Qui invece la resa è diversa e non si può più parlare di annidamento:

Mi continuano a dire – con grande pazienza, al radiotelefono della nave – di non affliggermi per questioni del genere.

In questo caso, dopo il primo inciso tra parentesi, si è deciso di sostituire il punto con il punto e virgola. Certo, ha senso, il periodo funziona lo stesso, anche se la scelta pare arbitraria:

Albert Kogler a Baker’s Beach in California nel 1959 (squalo bianco gigante); il banchetto della Indianapolis nelle Filippine nel 1945 (molte specie diverse, gli esperti pensano soprattutto squali-tigre e squali blu); la serie di incidenti con più morti attribuiti a un singolo squalo nell’area Matawan/Spring Lake, New Jersey, nel 1916 (ancora uno squalo bianco gigante; questa volta catturarono un carcharias nella Raritan Bay con resti umani in gastro (e mi ricordo quali resti e di chi)).

Incisi nelle note

Anche le note, già di per sé usate per commentare, integrare e specificare, presentano a loro volta molti incisi. Due note si presentano direttamente tra parentesi:

(though I never did get clear on just what a knot is)

(apparently a type of nautical hoist, like a pulley on steroids)

In un’altra, la parte tra parentesi è preponderante rispetto al resto:

I’m doing this from memory. I don’t need a book. I can still name every documented Indianapolis fatality, including some serial numbers and hometowns.(Hundreds of men lost, 80 classed as Shark, 7–10 August ‘45; the Indianapolis had just delivered Little Boy to the island of Tinian for delivery to Hiroshima, so ironists take note. Robert Shaw as Quint reprised the whole incident in 1975’s Jaws, a film that, as you can imagine, was like fetish-porn to me at age thirteen.)

Incisi nelle note

La nota 1 non è tra parentesi mentre la nota 7 sì; probabilmente un refuso:

Anche se non ho ancora ben capito cos’è un nodo.

(che a quanto pare è una specie di ascensore nautico, come una carrucola anabolizzata)

La nota 5 non presenta grandi differenze rispetto al testo inglese:

Sto andando a memoria. Non ho bisogno di libri. Posso dirvi il nome di ogni singolo morto riconosciuto della Indianapolis, compresi alcuni numeri d’ordine e le città natali (centinaia di morti, di cui ottanta ufficialmente attribuiti agli squali, 7-10 agosto 1945; la Indianapolis aveva appena consegnato nell’isola di Tinian la «Little Boy» destinata a Hiroshima, come ricordano alcuni con sarcasmo. L’intero episodio fu ripreso, con Robert Shaw nei panni di Quint, nello Squalo del 1975, che per me, a tredici anni, come potete immaginare, fu un vero e proprio porno-fetish).

Un’eccezione

Mentre in quasi tutto il testo Wallace fa un ampio uso dei segni di interpunzione e di incisi, in questo esempio la punteggiatura è quasi assente, viene utilizzata solo nelle battute finali, dove si concentra l’acme della frase. Cambia anche il tono, si sente Wallace riflettere e lasciar scorrere i propri pensieri, personali e filosofici, in un flusso continuo e ininterrotto.

And I’m starting to see how as time gains momentum my choices will narrow and their foreclosures multiply exponentially until I arrive at some point on some branch of all life’s sumptuous branching complexity at which I am finally locked in and stuck on one path and time speeds me through stages of stasis and atrophy and decay until I go down for the third time, all struggle for naught, drowned by time. It is dreadful.

Un’eccezione

Questo passo mi pare reso fedelmente dal punto di vista della punteggiatura. (Mi sorge però un dubbio sulla traduzione di «for the third time»: perché diventa «per tre volte» invece di «per la terza volta»?)

E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato nel tempo. È terribile.

La seconda parte è qui David Foster Wallace e gli incisi [#2]

Nicolò Cattaruzzo Sono nato e cresciuto a Venezia, città in cui mi sono laureato in Lingue e letterature straniere con una tesi di traduzione di un romanzo polacco in italiano. Dopo una breve parentesi da dottorando, ho lavorato prima come cuoco e poi come insegnante di lingua italiana per stranieri. Nel 2019 ho seguito il corso di Oblique Studio per redattori editoriali e nel 2020 ho fatto alcuni mesi di esperienza nella redazione di Cliquot edizioni, proseguendo come redattore freelance. Sono direttore tecnico e responsabile informatico dell’Asd Salvioli, circolo scacchistico veneziano.

Da “Parte comune”

0

di Jacopo Masi

 

(ribaltamento) 

 

Tra i molti suoni e le possibili fanìe

questo anche: lo schiocco secco

d’elitre al pavimento, le zampine

nel vuoto remiganti dell’insetto

capovolto, minuscolo Atlante

che tenta a testa o croce di scrollarsi

il mondo dalla schiena.

Si consideri l’anomalo protrarsi della scena,

l’accanimento atroce della sorte: la tesissima

catena d’improbabile non spezzarsi

d’un colpo ma, a poco a poco,

di un niente ad ogni colpo, lentamente

rovesciarsi nel suo opposto.

*

 

(lungo la strada)

(interpretatio – del ruolo, del segno)

(estinto quasi il suo prestito, pagato

il pegno imposto a chi sta davanti,

a chi precede nello scollinamento…)

Data la conformazione del luogo

impossibile lanciare inequivoci segnali,

celesti indicazioni che non siano fuorvianti:

due tratti appena di vernice

su pietre e tronchi a dire

di qua siamo passati, la strada

è accidentata ma pervia; a lungo

provammo a contattarvi…

 *

 

(de rebus quae geruntur)

E quella a Parigi, nel café

tutta presa in una guerra

mattutina di fonemi e inibizioni

che di tanto in tanto alzando gli occhi

dallo schema del suo enigma

canard salé!” inveiva per dire altro

contro l’astante – l’assente nella sedia

vuota di fronte – che l’aveva tradita,

che (sic stantibus) le aveva

sabotato il rebus della vita.[1]

 *

(tra sé)

Nemmeno è da escludere

che sia questo il più sincero

quello che, solo, tra i tanti

se e sé, discute e si dibatte, a male

parole si apostrofa, disputa e si inalbera.

Che sia per lo meno il più serio

e meno altero anche quando – proprio

quando – di colpo ammutolisce e il ghigno

gli sale da sfottò, di quello che la sa lunga,

che con certa gente è inutile parlare.

 

 (circumnutazioni)

1.

Non fiuto da segugio

né memoria d’elefante.

L’esperimento aveva dimostrato

che la specie in questione, se disorientata

o dislocata, per ritrovare il luogo caro,

perlustra il terreno in cerchi

sempre più ampi, descrive una spirale

il cui centro è il punto in cui si è persa.

  

2.

Comportamento speculare era stato notato

nel glicine o pianta apparentata, slanciante

in ricognizione circolare il suo germoglio

più estremo. Non incontrando sostegno

il ramo, contrariamente alle apparenze,

non seccava: si faceva di legno, ricalibrava

il baricentro, mappava sbilenco da lì

la nuova ipotesi del mondo circostante.

3.

Circumnutazione, fedelmente

scomponendo alla radice, il ruotare

del capo (esempio solenne

del nodo è la civetta

dalla sua torre di controllo).

Manovra in senso lato di chi nel visibile

si è perso, o cieco cerca un appiglio

o guata l’intorno per la sua preda,

o preda si teme lui stesso

nel radar di ciò che non vede.

*

 

 (quadretti)

Avevano certo incontrato il gusto suo

o di qualcuno, se più d’uno ancora

siglato in un angolo e incorniciato

spiccava a interrompere il bianco

anonimato del muro. Quadretti

di dimensioni irrisorie – dieci

per dieci a dire tanto. Il tratto

di pennello sottile, minimale

non necessariamente indice

di esecuzioni sbrigative per quanto

chiaramente neppure laboriose miniature

ed anzi quasi l’opposto, minuscole

gigantografie del senza misura,

distanze senza orizzonte. Vizi

di rifrazione, ametropie.

[1] Soluzione: conard salaud.

*

I testi sono tratti dal volume Parte comune, Ancona, Italic, 2021.

Saffo, fr. 1

1

trad. isometra di Daniele Ventre

Afrodite eterna dal vario trono,
tessi-inganni, figlia di Zeus, ti prego,
non dannarmi con sofferenze e angosce
l’anima, dea,
anzi, vieni qui, se in passato mai
da lontano udisti e ascoltasti mie
suppliche e venisti, lasciando il tetto
d’oro del padre
e aggiogando il carro: alla terra nera
passeri condussero te, graziosi,
attraverso il cielo, con loro fitto
vortice d’ali;
giunsero in un attimo e tu, beata,
col tuo viso eterno mi sorridevi:
che più avessi, hai chiesto, e perché di nuovo
ti richiamassi,
che volessi avere più d’ogni bene,
nel mio cuore folle: “Chi più persuado
a tornare verso il tuo amore? Saffo,
chi ti fa torto?
Ma se fugge, ti inseguirà, fra poco,
se non vuole doni, ne darà lei,
se non ti ama già, ti amerà, fra poco,
lei, che non vuole!”
Vieni ancora a me, da pesanti angosce
Liberami, quello che il cuore vuole
che per me si compia, tu compi, sii
tu mia alleata.

Mots-clés__Coniglietti

0
from ALICE'S ADVENTURES IN WONDERLAND, by Lewis Carroll, with illustrations by John Tenniel. Macmillan and Co, London, 1898.

Coniglietti
di Orsola Puecher

Jefferson Airplane, White Rabbit -> play

__

__

Da: Lettera a una signorina a Parigi di Julio Cortazár, in Bestiario, trad. di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto, Einaudi, 1974.

Andrée,io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha. Non tanto per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine chiuso, costruito ormai fin nelle più sottili maglie dell’aria, quelle che in casa sua preservano la musica della lavanda, il volo di un piumino per la cipria, il gioco del violino con la viola nel quartetto di Rarà .[…]Lei sa perché sono venuto in casa sua, nel suo quieto salotto corteggiato dal mezzogiorno. Tutto sembra tanto naturale, come sempre quando non si conosce la verità. Lei è andata a Parigi, io sono rimasto nel suo appartamento di via Suipacha, abbiamo elaborato un semplice e soddisfacente piano di mutua convenienza fino a quando settembre la riporterà di nuovo a Buenos Aires e mi proietterà in qualche altra casa, dove chissà… Ma non le scrivo per questo, questa lettera gliela invio a causa dei coniglietti, mi sembra giusto che lei ne sia al corrente; e perché mi piace scrivere lettere, e forse perché piove.Ho traslocato giovedì scorso, alle cinque del pomeriggio, nella nebbia e nel tedio. Ho chiuso tante valigie nella mia vita, ho passato tante ore a fare bagagli che non portavano da nessuna parte, che giovedì è stato un giorno pieno di ombre e di cinghie, perché quando vedo le cinghie delle valigie è come se vedessi ombre, elementi di una sferza che mi colpisce indirettamente, nel modo più sottile e più orribile. Comunque, ho fatto le valigie, ho avvisato la sua cameriera che mi sarei installato qui, e sono salito nell’ascensore. Proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente, non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo, tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o facciamo accadere) nell’assoluta intimità. Non mi rimproveri per questo, Andrée, non mi rimproveri. Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Non è una buona ragione per non vivere in una qualsiasi casa, non è una buona ragione perché uno debba vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere.Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico, avviene in un brevissimo istante. Estraggo le dita dalla bocca, e fra di esse stringo per le orecchie un coniglietto bianco. Il coniglietto sembra contento, è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo, piccolo come un coniglietto di cioccolato ma bianco e in tutto e per tutto un coniglietto. Lo poso sul palmo della mano, gli sollevo il pelo con una carezza delle dita, il coniglietto sembra soddisfatto di essere nato e freme e frega il musetto contro la mia pelle, muovendolo con quella triturazione silenziosa e solleticante del musetto di un coniglio contro la pelle di una mano. Cerca da mangiare e allora io (parlo di quando tutto ciò accadeva nella mia casa di periferia) lo porto con me sul balcone e lo poso nel grande vaso dove cresce il trifoglio che ho seminato apposta. Il coniglietto rizza del tutto le orecchie, avvolge un trifoglio tenero in un veloce mulinello del musetto, e io so che posso lasciarlo e andarmene, continuare per un po’ di tempo una vita non dissimile da quella dei tanti che comperano i loro conigli nelle fattorie.Fra il primo e il secondo piano, Andrée, come ad annunciare quale sarebbe stata la mia vita nella sua casa, seppi che stavo per vomitare un coniglietto. Subito ne fui impaurito (o era meraviglia? No, paura della stessa meraviglia, forse) perché prima di lasciare la mia casa, solo due giorni innanzi, avevo vomitato un coniglietto, e pensavo di potermene stare tranquillo per un mese, per cinque settimane, forse per sei, con un po’ di fortuna.[…]Capii che non potevo ucciderlo. Ma quella stessa notte vomitai un coniglietto nero. E due giorni dopo uno bianco. E la quarta notte un coniglietto grigio.Credo che lei ami il bell’armadio della sua camera da letto, con la grande porta che si apre generosa, con i ripiani sgombri per la mia roba. Ora li tengo lì. Lì dentro. Pare impossibile; neppure Sara ci crederebbe. Perché Sara non sospetta di nulla, e il fatto che non sospetti di nulla dipende dalla mia orribile impresa, un’impresa che si porta via i miei giorni e le mie notti con un solo colpo di rastrello e mi va calcificando dentro e indurendo come quella stella marina che lei ha appeso sulla vasca e che ad ogni bagno sembra colmare il corpo di sale e di sferzate di sole e di grandi rumori della profondità.Di giorno dormono. Ce ne sono dieci. Di giorno dormono. Con la porta chiusa, l’armadio è una notte diurna solamente per loro, dormono lì la loro notte in placida obbedienza. Porto con me le chiavi della camera da letto quando vado in ufficio. Sara crederà che io non abbia fiducia nella sua onestà e mi osserva dubbiosa, glielo si legge in faccia tutte le mattine che vorrebbe dirmi qualcosa, ma alla fine tace e io ne sono ben contento. (Quando fa la camera, dalle nove alle dieci, cerco di fare rumore in salotto, metto un disco di Benny Carter che si diffonde in tutti gli ambienti, e poiché anche a Sara piacciono saetas e pasodoble , l’armadio sembra silenzioso e forse lo è, perché per i coniglietti è già notte e l’ora del riposo).Il loro giorno comincia dopo cena, quando Sara porta via il vassoio con un fitto tintinnare di mollette per lo zucchero, mi augura la buona notte – sì, me la augura, Andrée, la cosa più amara è che mi augura la buona notte – e si ritira in camera sua e improvvisamente sono solo, solo con il maledetto armadio, solo con il mio dovere e la mia tristezza.Li lascio uscire, lanciarsi agili all’assalto del salotto, ad annusare vivaci il trifoglio nascosto nelle mie tasche e che ora crea sul tappeto effimeri ricami che essi alterano, smuovono, divorano in un momento. Mangiano bene, silenziosi e corretti, fino a quel momento non ho nulla da rimproverar loro, mi limito a osservarli dal sofà, con un libro inutile in mano – io che volevo leggermi tutti i suoi Giraudoux , Andrée, e la storia argentina di López che lei conserva nello scaffale in basso -; e si mangiano il trifoglio.

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Mattia Tarantino: dalla crepa tra le leggi

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Ospito qui alcune poesie tratte da L’età dell’uva di Mattia Tarantino (Giulio Perrone Editore), insieme a un frammento dall’introduzione che ho curato per il libro.

 

***

 

La tua lingua è un palindromo interrotto

a metà dell’alfabeto e mai risolto.

 

***

 

In ogni osso cresce

un tuo osso; in ogni

vena si aggroviglia

il tuo sangue con il mio:

 

a sangue unito siamo casa e profezia.

 

***

 

Provengo dalla crepa tra le leggi,

dove i nomi usurano la voce, e la fortuna

è l’unico salario. Provengo

dal latte delle spine rovesciate:

nient’altro so del mondo e delle cose.

 

***

 

[…] La poesia è questo: cordoglio e dirottamento, senza coincidenza, senza precisa distanza. Cavità, carie, convulsione, e anche rimedio, pianta medicinale, veleno purificato, buona vendemmia; tuorlo nella chiara dell’uovo; fossa delle più istantanee contraddizioni. Quando funziona, funziona come capovolgimento di ordini e gerarchie fra terra e cielo. È l’imperatore Leone che, arrampicatosi sulla colonna, si prostra davanti a Daniele lo Stilita. È la lattaia regina che, in pariglia, porta in dono a chi la canzona una ricotta d’argento, conservata dentro un paniere d’oro.

 

Giorgiomaria Cornelio

 

L’indolente

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di Gian Piero Fiorillo

Nessuno se lo aspettava. Come fai ad aspettarti che un uomo grande, sano di mente, un lavoratore molto stimato nel suo campo, decida di asciugarsi i capelli mentre è ancora a bagno nella vasca e ascolta la musica, anche se la musica in quel momento è triste, così triste. Così triste da far venire pensieri di morte. È stato detto che un grand’uomo costringe gli altri a spiegarlo. Anche un gesto inspiegabile. Un suicidio. E se invece fu un incidente? Come fare a saperlo, non ci sono biglietti di spiegazioni o d’addio. La polizia indagherà. Valuterà anche l’ipotesi dell’omicidio, visto che l’allarme è stato dato in ritardo. Chi c’era in casa al momento dell’accaduto? Chi avrebbe avuto motivo di uccidere, chi un simile coraggio? Un uomo benvoluto da tutti. Da tutti? Davvero? si chiederanno gli inquirenti. I poliziotti. I giudici. Racconteranno la cosa ai loro familiari, una volta tornati a casa? Sapessi, cara. Oh, caro. Che cosa terribile. Ne ho viste tante, ma questa volta è diverso.

A noi non interessano i commenti fatti a casa propria. Di chiunque siano. Siamo così abituati a non sentirli che non riusciamo neppure a immaginarli. Un giudice istruttore, la sera, vuole parlare con i figli, cosa hanno fatto a scuola, se hanno preso un buon voto o vinto una gara, non ha certo voglia di raccontare morti misteriose. Anzi, vuole dimenticare. Fino al giorno dopo, quando tornerà in ufficio e ricomincerà a pensarci. Se vai alla Feltrinelli di Largo Argentina, a Roma, vedi una scritta sul muro: Il cinema è la vita meno i suoi momenti noiosi. La frase è attribuita a Hitchcock. E in fondo abbiamo imparato a vivere la vita come se fosse un cinema: non ci interroghiamo sulle cose noiose. Anche se queste ci inseguono: pagare la bolletta, cosa c’è di più noioso? Forse solo doverlo fare via internet, neppure più quella bella fila di due ore in cui ci si conosceva, si imprecava, ci si indignava collettivamente contro la pubblica amministrazione, il sindaco, lo Stato. Neppure più quei momenti di svago per anziani, di sguardi furtivi o incontri inaspettati. Quel rito minimo della fila allo sportello.

Dunque lasciamo stare i commenti di casa, chi li fa, chi no, i poliziotti sì, i giudici no, i medici che hanno constatato il decesso no, gli infermieri sì. O forse tutto il contrario, che ne sappiamo, dipende da troppi fattori, lasciamoli al loro farsi e disfarsi, alla trama fitta e densa della vita, noi stiamo scrivendo e la scrittura ha maglie larghe. Dunque perché un uomo grande, sano di mente, un professionista, uno stimato dirigente si infila nella vasca da bagno con il fon acceso o lo accende mentre è ancora dentro quella vasca, coperto d’acqua e di schiuma? (Noi stiamo scrivendo?! Io sto scrivendo e chi leggerà starà leggendo: com’è impreciso il linguaggio!) (Ma neppure questo interessa alla nostra storia, ci sono un sacco di interferenze, qui, che non si riesce a controllare). Torniamo al nostro uomo che sempre ci sfugge, che mi sfugge mentre invece lo voglio afferrare. Tenere. Tenere in mente, tenere in mano. Averlo, cavolo! Perché s’è ammazzato, se s’è ammazzato, poi, chi lo sa. Certo, anche se non dovesse trattarsi di un gesto volontario, anche se fosse solo una fatale distrazione resterebbe inconcepibile: un errore che potrebbe fare un adolescente troppo sicuro di sé, non uno stimato cittadino. Che lavoro faceva? Mi tocca rileggere l’articolo. Ah, no, ecco, c’è già nei titoli. I titolisti vanno pazzi per questi particolari, il mestiere, il colore della pelle, la regione di provenienza.

Paola, che è stata l’ultima a vederlo in ufficio, ne dà una descrizione più che positiva. Il giornalista però lascia trasparire il sospetto di una relazione. Non dice, il giornalista, Paola invece si esprime in termini molto lusinghieri, un uomo unico, e scoppia in lacrime. Quello che lascia intravedere Paola senza dirlo è che fra l’uomo e la moglie la situazione era tesa. Questo avrebbe potuto spingere l’uomo, conclude il giornalista, a farla finita. Una tragedia amorosa: forse l’uomo era innamorato di Paola quanto lei di lui, insinua il giornalista, e la situazione s’era fatta insostenibile. Ma non bastano le lacrime a suffragare questa ipotesi. Erano colleghi da tanti anni, erano amici, si stimavano. Qual era lo stato patrimoniale della coppia, si chiede allora il giornalista, c’erano problemi di soldi, liquidità, debiti? Su tutto questo, risponde, stanno indagando i magistrati. In questo modo il giornalista ha sparso un po’ di veleno, sicuro di catturare qualche lettore per l’edizione successiva, ma poi s’è chiamato fuori. Tira il sasso e nasconde la mano, se lo fanno i bambini piove biasimo da ogni dove, se lo fanno i giornalisti o gli uomini politici è tutto normale. Nella norma: statistica, etica. Che vuoi che sia, il mondo va così. Doppia morale, doppia logica, doppio cappio. Poi qualcuno impazzisce, non regge il gioco. Era intrinsecamente predisposto, geneticamente? Era un uomo fragile? È per questo che l’ha fatta finita, era stanco di fare il doppio gioco o di sottostare a un doppio dovere, a ordini e ricatti contrapposti? Oppure è morto per indolenza, ha visto il pericolo ma non ha fatto niente per evitarlo? Era stanco?

Lasciala, non la ami.
Se mi lasci m’ammazzo.

Alla fine ce l’ha fatta a portarmelo via la puttana.
L’ha spinto alla disperazione la stronza.

Così non è più di nessuno.
Così siamo vedove tutt’e due.

È stato un incidente, lui non l’avrebbe mai fatto, era un uomo gioviale.
Ultimamente era così triste, ma non al punto di farla finita.

Gli inquirenti intanto scavano. Hanno il dovere di cercare fatti, prove, non possono certo basarsi su dichiarazioni estorte dai giornali alle due donne. Seguono tutte le piste. Che non sono molte per un uomo normale, serio lavoratore, adulto, sano di mente. Pista gelosia: per quanto rari in rapporto ai femminicidi, anche i maschicidi sono una realtà. Ma la pista è improbabile: una cosa tipo il postino bussa sempre due volte a ruoli invertiti? il comportamento della moglie non dà adito a sospetti. O è un’attrice nata oppure è sincera. Gli inquirenti optano per la sincerità, una donna irreprensibile che insegna ai ragazzi delle medie e ha la stima e la solidarietà di tutto l’istituto. No, niente da fare. Lei non è stata, non siamo al tenente Colombo. Nè può essere stata l’amante. Come avrebbe potuto entrare in casa a quell’ora, con la moglie fra i piedi, e inscenare l’incidente? Impossibile. Niente tracce, niente di niente. Pista scartata. Pista fantasiosa.

Pista patri-matrimoniale: i coniugi se la passavano bene, avevano scelto la comunione dei beni, nonostante tutto si volevano bene.

Pista depressione. In fondo anche un uomo adulto, sano di mente, lavoratore, può andare incontro a una crisi depressiva. Quattrocento milioni di persone soffrono di questa subdola patologia nel mondo, senza distinzione di reddito, di classe, di genere, e sono cifre ufficiali, c’è tutto un sommerso che non viene mai a contatto con gli specialisti. Quattrocento milioni sono comunque un bel numero, dieci milioni solo in Italia, secondo le stime del Ministero (che va bene, si sa come le fanno, le stime, ma dobbiamo pur tenerne conto) (non rientrano in quelle stime le cosiddette depressioni sotto soglia, che però possono esplodere da un momento all’altro) (raptus? da quando in qua un raptus suicida? più comune di quanto si creda, si prepara a lungo nella mente dell’individuo, nessuno se ne accorge, nessuno sospetta, poi d’improvviso è troppo tardi). Se ne vedono in giro, se ne sentono tante.

Ma noi inquirenti abbiamo bisogno di prove e per il momento non ne abbiamo.
Non sanno che pesci prendere.

Seguiamo tutte le piste.
Brancolano nel buio.

Pista cherchez la femme. Una terza? O forse una quarta, nuova o venuta da un lontano passato. L’uomo era uno stimato professionista ma anche uno stimatissimo rubacuori. Un playboy? Non proprio, non lo faceva alla luce del sole. Ma di tresche, molte. Il suo lavoro lo favoriva. Incontrava tanta gente. Sembrava preferisse le clienti. Ma questo non è un indizio, al giorno d’oggi metà dei maschi del pianeta sono dipendenti dal sesso, reale o virtuale. Nei suoi computer con c’è niente di anormale, considerando che la sfera della normalità è ormai praticamente informe. Si allarga da più parti per farci entrare cose che un tempo restavano fuori. Ha un sacco di gobbe e cunette: chi può più dire cosa è normale e cosa no, solo la statistica, ma la statistica non è una prova.

Pista: io lo conoscevo bene. Io lo conoscevo bene, al lavoro faceva il suo, era anche bravo, ma non era felice. Si tratteneva ore con Don Luigi, il cappellano, e con le donne delle pulizie. In quelle occasioni, a volte, lo si vedeva perfino ridere. Si illuminava quando parlava con i deboli, i diseredarti, i malati di mente. Con lo staff era piuttosto freddo, tranne con le colleghe carine, allora si rianimava, diventava un burro sciolto, tutto miele latte panna, sorridente, ironico. Non era falso, no, ma dormiva, ecco. Lo svegliava il profumo di donna, una gonna stretta, un paio di gambe. Quasi nient’altro. C’era altro, sì, che lo vivificava improvvisamente, una partita a tennis, una discussione tirata. Non guardava la televisione e per questo non partecipava ai nostri discorsi perché parlavamo di cose di cui non aveva nessuna cognizione. Leggeva, sì, leggeva molto. Cose difficili: ma chi te lo fa fare, gli dicevamo. Ma chi me lo fa fare, sorrideva. Aveva un certo fascino. Io lo conoscevo bene, s’infervorava per un romanzo, piangeva per una canzone, un tipo strano, capace di dolcezze. Stava sulle sue ma era dolce. Aveva, come posso dire, la tempra dell’adolescenza. Infatti tutti gli davano meno della sua età, e se non era d’accordo su una cosa non c’era verso. Non si piegava, come gli adolescenti. Testardo, cocciuto. Forse ha pagato tutto questo, forse non ce ne siamo accorti. Non l’abbiamo capito.

Pista circolo del tennis. Era un buon giocatore, ma indolente. Se aveva una chiusura facile facile la sbagliava, diventava molle, sembrava dire questo punto qua è già fatto, neanche vale la pena chiuderlo. E sbagliava. Se lo mettevi sotto pressione incominciava a reagire e allora erano guai per tutti, ma durava poco, dopo aver vinto un game s’ammosciava e ricominciava con quell’indolenza dei posapiano che tanto che fa, vinco o perdo che mi cambia? Gli piaceva la terra rossa, ci strofinava le mani per asciugarsi il sudore e diceva che quello era il bello di giocare a tennis. Glielo chiesi una volta, e fu la sola volta che mi sembrò preciso, accurato come non era mai, sempre distratto, sempre all’altro mondo, pace all’anima sua. Ma se non ti piace giocare lascia perdere, gli dissi una volta. Al contrario, rispose, mi piace moltissimo, ma se gioco intensamente tutto un match mi perdo il bello del gioco. Come sarebbe? Il bello non è fare punti, vincere o perdere un set, ma il sudore, l’odore delle magliette bagnate, il sudore puzza quando si secca, ma sotto il sole, nel mezzo della foga agonistica è meraviglioso. Di quale agonismo parlasse non ho capito, di quello degli altri, forse, certo non il suo. E che dire della terra calda, continuò, lavorata e strapazzata dai nostri piedi, dalle scivolate, è allegra quando t’asciughi il sudore delle mani con quella polvere rossa, non credi? Quando morirò, disse una volta, sotterratemi nella terra rossa. In quel momento diventò rosso come la terra, una cosa che non t’aspetti da un uomo adulto, sano di mente, stimato professionista, ma che professione faceva, poi? Mi sembrò strano, a vederlo non lo avresti mai detto capace di sensualità. Forse era questo che piaceva alle donne, forse a letto si trasformava, diventava un adoratore di dee carnali, un cartasciuga di sensazioni, che ne so, io sono solo quello che gli controllava lo stipetto, voleva che tutto fosse in ordine. Era gentile, se ti faceva un’osservazione si scusava lui per te.

La verità non venne a galla. La verità non viene mai a galla, non tutta, almeno. Non sappiamo se l’uomo ha deciso di chiuderla lì. Né, eventualmente, perché ha preso quella decisione. Non ha lasciato biglietti né saluti, non ha perdonato nessuno e a nessuno ha chiesto perdono. Quanto a me, non so nulla di lui, nemmeno che lavoro facesse. Ma non ho inventato niente, tutto quello che ho scritto viene dall’esperienza e l’esperienza è sempre reale. Anche se i punti di vista e i modi di vivere le esperienze sono diversi, l’esperienza è vera oppure non c’è niente di vero a questo mondo. Lo dico senza addentrarmi in discorsi filosofici, non di questo mi sono messo a scrivere. Ce ne andiamo all’inferno portandoci i nostri segreti, mentre i fantasmi ci abbandonano e tornano nel mondo in forma di ricordi, per torturare i nostri cari. Ancora non si sono svuotate le vene, ancora non sono avvizziti gli organi, ancora non abbiamo perso il sembiante umano e già loro ci hanno lasciato. Ci sono fantasmi che nessuno conoscerà mai. O si ripresenteranno in altri luoghi, in altre forme, in un tempo altro, nuovi e insospettati? Ci sono torture senza scadenza?

 

 

Buena Vista Social Club: Zerocalcare, autobiografia di una generazione

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Questa  rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Me so’ ingarellato… dalla newsletter del Corriere
(spoiler alert)
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Zerocalcare, autobiografia di una generazione
di
Alessandro Trocino
Repubblica ci ha fatto pure un delizioso dizionarietto (se fracica, «si bagna»), intitolandolo manuale for dummies (e forse serviva un dizionarietto inglese anche per il titolo, «per principianti»). La polemica è deflagrata in rete, per la gioia di Guia Soncini, che ci ha costruito un impero di carta, sulla suscettibilità. Ha scritto che guardando la prima puntata della serie di ZeroCalcare – «Strappare lungo i bordi» – non ci ha capito una parola. Poi i romani, dice, «si sono offesissimi per il mio aver notato che, fuori Roma, ci vorranno i sottotitoli». E lei, che ha appena sfornato un libro sulla suscettibilità e su chi sbrocca («si arrabbia») e se pia male (ci resta male), ha scapocciato di piacere al flame (la fiammata web). Anche perché poi, quello che succede invariabilmente, è lo slittamento di senso. La sua critica ironica si è slabbrata in una valanga di commenti social e tutti sono accorsi a difendere l’onore infangato di ZeroCalcare e sono arrivate le truppe cammellate di indignados pronte ad accusare i milanesi bauscia di disprezzare la romanità, con tutto il seguito di trite polemiche campanilistiche e l’eterno dualismo Roma-Milano più o meno divertente («Milano è una Sutri che si crede Londra», «hanno solo un blocco di cemento ricoperto di muffe da presepe che chiamano bosco verticale», cit. Giacomo Giubilini).
C’è poco da dire sulla questione del dialetto, anzi della lingua. Come ha replicato lo stesso Michele Rech, 37 anni, in arte ZeroCalcare: «Madonna regà, ma come ve va de ingarellavve su sta cosa?». E’ come se avessimo contestato, perché incomprensibile, il biiv di Gomorra (bevi), il che casso de misure xe? del Pojana-Pennacchi a Propaganda, il Quaranta dì, quaranta nott, a San Vittur a ciapaa i bott di Jannacci, ma pure lo scappellamento a destra del Conte Mascetti e il gramelot di Dario Fo. Siamo tutti foresti in questa giungla di lingue, di slang e di supercazzole e non c’è da organizzare nessuna resistenza, solo provare a barcamenarsi e a uscire dall’analfabetismo funzionale e reale che ci attanaglia, oppure cambiare canale (anzi, programma o piattaforma). Poi è ovvio che la polemica sul romanesco ha senso solo per i telegiornali nazionali e per i doppiaggi di film girati in Piemonte o in Liguria, dove ci sono attori che dicono «borza» invece di «borsa» e dove il sempre ottimo Marinelli, nelle vesti però di Fabrizio De Andrè, parla come Totti.
Infine, in «Strappare lungo i bordi», in certi passaggi c’è davvero un problema di comprensione, ma è dato più che dalle espressioni gergali dal parlato rapido e trascinato, efficacissimo ma effettivamente a volte un po’ faticoso.
Insomma le chiacchiere stanno a zero, come diceva spesso Walter Veltroni nei suoi comizi, suscitando qualche perplessità nei non romanocentrici, l’arte è arte e il dialetto, lo slang, gli accenti, i modi di dire vernacolari sono strumenti meravigliosi se e quando si adattano al testo e al contesto e perché raccontano l’infinitamente piccolo con una precisione e una ricchezza che l’italiano ufficiale da Treccani se lo scorda. Ed è anche vero quel che dice Soncini sul romano, che «è inconsapevole di parlare romano, convinto che quella roba lì che parla lui, quello strascinamento fonetico, quello scempio della logopedia sia italiano corretto». Per il resto, il provincialismo del romano che ti dice «busta?» al supermercato è speculare a quello del milanese che ti dice «sacchetto?». Ed è anche vero che poi sotto il Cupolone prevale sempre il chittese…, il e fattela ‘na risata, lo stacce, perché il romano de Roma non sopporta gli accolli (i pesantoni) e gl’arimbalza (non gli fa né caldo né freddo) chi se la sente calla («chi ha un eccesso di fiducia in se stesso»). Zero permalosità, se non retorica, di posizionamento, ma l’eterna digestione nel grande minestrone plurisecolare, sin troppo saporito, di una città che non si stupisce di niente e assimila tutto.
Più interessante sarebbe invece parlare del fenomeno ZeroCalcare, glorificato lo scorso anno da un’imbarazzante copertina dell’Espresso, che lo sparava in prima con il titolo: «L’ultimo intellettuale». Lui è un campione di ironia e di autoironia e naturalmente all’epoca ci ha scherzato sopra, ma forse sarebbe il momento di chiedersi se questi nuovi monumenti che erigiamo poggino su fondamenta abbastanza solide da resistere nel tempo. Non è nostalgia da boomer degli intellettuali novecenteschi alla Eco e Pasolini, è solo perplessità per quando si sentono certe iperboli. Come quando leggi Rivista Studio e trovi il titolo: «Marracash è l’ultimo intellettuale?». E va bene, nell’ultimo album e nelle interviste cita Mark Fisher e Raffaele Alberto Ventura, ma poi scrive cose come «c’è sempre un maiale in mezzo come il McBacon», «la corruzione è l’unico vero made in Italy», che non sono proprio un capolavoro di profondità (al netto di una forma d’arte, il rap, che richiede anche questo linguaggio).
Tornando a ZeroCalcare la sua serie è bella e divertente, piena di invenzioni e di citazioni, e mischia in un flusso di coscienza torrenziale il sentimento precario, nevrotico, ironico e pieno di sensi di colpa per i mali del mondo che è proprio di molti giovani (il suicidio di Alice è un’evidente metafora del suicidio di una generazione). Piace molto soprattutto a quei giovani che frequentavano i centri sociali (nella serie si vede La Strada della Garbatella) che un tempo si sarebbero detti di sinistra e ora forse solo antifascisti e contro le «guardie», culturalmente fluidi, tra Manu Chao e Tiziano Ferro. Ben lontani dalla Ztl, più vicini a Rebibbia e Pigneto, non hanno più una rappresentanza politica a sinistra, da quando Rifondazione ha perso smalto. E alcuni di loro, avendo preso una sbandata lampo per i 5 Stelle, hanno ripudiato da tempo il Pd o lo accettano malinconicamente, quasi vergognandosene.
Quella sinistra che non sa più bene cosa pensare, ha smarrito l’ideologia, è attratta dalla marginalità periferica perché non è riuscita a integrarsi nel centro o si è integrata ma fa finta di non esserlo. Non a caso il Rech campione della borgata romana, approdato sulla regina delle piattaforme borghesi post moderne, Netflix, un po’ se ne vergogna e ci scherza su, per lavarsi la coscienza e mostrarsi ancora un po’ disadattato e coraggiosamente irriverente. Ma ZeroCalcare non ha la forza nichilista e ribelle di Andrea Pazienza, del suo Zanardi. Il suo flusso – un po’ auto indulgente e consolatorio – si può definire (parafrasando Gobetti) l’autobiografia di una generazione, oltre che di una città. Di una generazione precaria, disadattata, che non ce la fa, che non trova una posizione nella società, che si è presa male e non ci sta dentro, per dirla in milanese.
Luca Valtorta su Repubblica dice cose piuttosto condivisibili, anche se un po’ enfatiche: «Zerocalcare coglie nel segno perché usa un nuovo linguaggio, potente per molti motivi ma soprattutto perché, prima di tutto, è sincero e poi perché coglie lo spirito dei tempi: parla ai depressi, agli schizzati, a chi soffre, a chi non ce la fa più, a chi è stanco, a chi vorrebbe un po’ di giustizia, di pace, di tranquillità. Parla a tutti noi. O almeno alla maggioranza di noi che fa sempre più fatica a riconoscersi in una categoria o in un partito. Ma quello di Zerocalcare non è qualunquismo: è il suo contrario. È sensibilità sociale, senso di responsabilità, voglia di cambiare le cose. In meglio. Una narrazione potente in cui c’è forza perché c’è innocenza, gioia, inconsapevolezza, dolore, rabbia. E c’è pietas».
Tutto vero, anche se ci sarebbe qualcosa da dire sulla parte finale del ragionamento. Prendi l’ultima striscia di ZeroCalcare pubblicata sull’Essenziale. Parla del green pass, con accenti critici, perché «è stato trasformato in uno spartiacque valoriale assoluto». Racconta della guerra santa che viviamo nella nostra società, tra gli amici, in famiglia. «Butta giù quella nazista bavosa di tua madre», dice un uomo al figlio, sopra una torre. Lui commenta: «Così me pare estremo». Poi spiega che quelli che «rompono er cazzo contro il Green pass» sono «le persone che hanno animato l’opposizione sociale in questo Paese in questi anni», «collettivi, reti antifasciste, sindacati conflittuali, femministe». Stiamo uscendo dalla pandemia, dice, «senza avere minimamente messo in discussione il modello con cui ci siamo entrati». Cioè «vi licenziano come cazzo vi pare» ed «eravate più tonici quando vivevate con l’ansia della terza settimana».
Rech è spaventato che «a questo appuntamento con la catastrofe si arrivi con questa spaccatura», dove l’unica soluzione pare «la pulizia dei kontatti» social. Il finale è questo: «Se dovessi rispondere alla domanda, perché non dici nulla su quello che succede vigliacco maledetto, le risposte sarebbero due». La prima: «Uno, perché non ce sto a capì un cazzo». «Due, perché in questa lacerazione profonda e orizzontale, io non penso di averci un ruolo come singolo. Ma se proprio me lo vuoi trova’, sono sicuro che non dovrebbe essere quello di spaccare ulteriormente il campo mio. E mi viene da chiedere, a chi questo ruolo se lo sta assumendo e smania per accollarmelo a me, quale campo pensa di stare aiutando. Bah».
Lo diciamo anche noi «bah». Perché poi sarebbe triste se davvero l’autobiografia di una generazione fosse questa, gente confusa che non si vuole «accollare» la responsabilità di prendere una posizione su un tema fondante, come i vaccini e il green pass, e quindi l’altruismo, il rispetto della comunità e delle vittime che ci sono state e ci saranno. Sarebbe del tutto legittimo non esprimersi per un artista, che non è un politico. Ma Rech fa di più. Non solo non prende posizione, ma rivendica la necessità di non prendere posizione per non «spaccare ulteriormente» il campo suo. Che poi quale sia, il campo suo, non è chiaro. Come se la generazione che si sente rappresentata da lui fosse «un campo» unico. E come se «né con lo Stato né con i no green pass» fosse una posizione accettabile per «l’ultimo intellettuale».

Le Croci

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Le Croci, Kresty Centro di isolamento giudiziario n. 1 della città di San Pietroburgo

di Luca Vidotto

[ Ancora una volta ho mescolato realtà e finzione: ho scavato e ruminato il terreno della storia, per poi ricrearla nella mia immaginazione. Complicando le cose, però. Ai fatti storici e alla finzione narrativa, infatti, ho aggiunto le inesauribili lenti della narrazione biblica e del mito antico. Entrambe mi sono servite per cavar fuori dal sottosuolo della vicenda che coinvolge Anna Achmatova tra il 1935 e il 1940 – quando il terrore staliniano raggiungeva il suo culmine e lei scriveva il poema Requiem, vera spina dorsale del racconto – delle immagini nuove, capaci di ridonare forza a una storia dai più dimenticata. ]

Anche quest’autunno unumidità placida e spessa serra San Pietroburgo sotto a una cupola soffocante. Concentrica alla cupola grigia del cielo si erge quella mostruosa del carcere, che noi chiamiamo, semplicemente, le Croci. Sì, al plurale, perché in essa si affastellano le piccole croci che ognuno dei nostri mariti, dei nostri figli e dei nostri uomini sono costretti a portare.

Il carcere è immenso e tutto ricoperto di mattoni rossi slavati dal tempo, che, placido, continua il suo corso come la Neva, il nostro fiume, pesante e largo, incapace di riflettere sulle sue acque alcunché. È un’armonia perversa il gioco di simmetrie e di calcoli che hanno dato vita a questo luogo. Di metallo è la sua anima. Precise architetture disegnate da pilastri e reticolati di travi di ghisa e scale che scendono e salgono, si biforcano, si allungano, si aprono su vuoti e sbattono su muri d’acciaio, compongono un dedalo di linee rette che si moltiplicano in ogni direzione, fino a creare un labirintico deserto di forme .

Le sue linee agghiaccianti disegnano il profilo di una tigre di divampante fulgore , che digrigna i denti affilati verso la città – sempre affamata. Questa enorme ragnatela, tessuta dalla bava della tarantola del potere, tiene intrappolati non uomini, ma insetti miserabili, senz’anima e senza speranza, sradicati come sono dalle carezze e dal tiepido abbraccio della donna amata, dagli sguardi e dai volti dei propri cari, e dalle piccole insensatezze della quotidianità. Racchiude fra i suoi muri una babele di voci senza voce. Un’umanità mostruosa. Tutto è impastato di lugubre silenzio, lì dentro. Tutto. Solo lo stridore dei chiavistelli, il rumore dei passi e i tonfi sordi dei portoni incrinano la sua quiete sepolcrale . Novecentonovantanove le celle . Il numero perfetto, il tre, moltiplicato tre volte, e ripetuto tre volte. Novecentonovantanove. La quintessenza della perfezione geometrica. Già! E non è il carcere un’impeccabile simmetria di ghiaccio e di morte ? Ma tra le pieghe di quest’ordine geometrico si annida il cuore del caos : l’asimmetria dei corpi offesi; la deformità delle anime in decomposizione; la cacofonia delle angosce inascoltate; e le troppe, troppe rabbie mal digerite… Quando ti ritrovi legato al soffitto per i piedi, e la frusta inizia a battere il suo ritmo cadenzato sul tuo corpo, quando lo strazio ti toglie il fiato, e le gocce di rosso rubino imperlano la schiena e il ventre, in quell’istante comprendi la natura di quel numero perfetto. A testa in giù, capovolto, è il numero della Bestia. Non deve essere un caso che la planimetria del carcere sia una grossa croce ribaltata a terra, calpestata dal pesante grigiore di quest’umido cielo d’autunno.
Un ventre enorme gravido di future vedove solitarie e di madri afflitte è il piazzale che avvolge, come una cisti, il carcere. Ogni giorno questo feto malato si spinge fino alla soglia delle Croci, ritualmente, come a una messa . Ogni mattina attraversa la navata gelida del cielo, la cui volta è affrescata dal rosso doloroso e sanguigno di un’aurora che lo strazia per poi lasciarlo soffocare nel grigiore spesso dell’umidità, che sale fumante dalla Neva, ignara di tutto. Cosa conta chi sono, io? Cosa conta la mia fama? Cosa conta chiamarsi Anna Achmatova, qui ? Ovunque siamo sempre le stesse . Un unico corpo sofferente: il volto infossato si stringe attorno al nostro lutto; le labbra docili vedono il sorriso appassire, divorato da un ghigno arido tremante di terrore; le nostre membra si sfibrano disperate alla sola idea di rientrare a casa con il nostro misero pacco di cartone in mano, piangendo perché più nessun corpo potremo piangere ancora .

Anna Achmatova con il figlio Lev Nikolaevič Gumilëv

Cosa succede al di là del nostro coro muto, impossibile conoscerlo: il silenzio delle Croci è serrato in un’abside invisibile. Perduto tra gli altri dannati, ci sei anche tu, Lev , figlio mio e mio incubo. Non le hai potute sentire le mie grida. O forse non hai voluto. Ti ho chiamato. Ti ho pianto. Ti ho desiderato. Ho rotto le dure simmetrie del mio volto spigoloso nella smorfia dei singhiozzi. Ho ammorbato la mia levità aristocratica gettando i piedi nudi nel fango e nel ghiaccio, vestita di stracci. Ho venduto la mia anima inginocchiandomi ai piedi del boia, per implorarlo. Sono arrivata a idolatrarlo, con la mia spada sporca d’inchiostro, l’odioso potere .
A cosa è servito? Mi è tornato tra le braccia un mostro. Non si fissa l’abisso impunemente – avrei dovuto capirlo subito. Avrei dovuto avere la forza di uccidere la memoria, e lasciare che la mia anima si pietrificasse, e di nuovo imparare a vivere . Avrei dovuto lasciarti al tuo destino, mio dolce carnefice. Così, almeno, non mi sarei resa conto che il giorno radioso della tua scarcerazione non avrebbe scalfito la solitudine della mia casa vuota. E che la tua felicità avrebbe moltiplicato il mio dolore . Mia la colpa. Ti ho tradito, mi hai detto. Ti ho incarcerato, con le mie poesie. Ti ho messo in croce, col mio canto. Non sono che il dolce frutto del tuo seno avvelenato, mi hai ripetuto. Ma il mio silenzio è rimasto inascoltato. Sei rimasto cieco di fronte alla mia vergogna. E al mio dolore .
Ti ho visto cadere dentro all’inferno della perfetta simmetria di quelle precise architetture, stritolato da pilastri e reticolati di travi di ghisa e d’acciaio, nel labirinto osceno delle Croci. E tu mi hai gettato il tuo inferno in faccia. La prima volta che mi è stato concesso rivedere il tuo volto, ho tremato. Ho tremato mentre ti stringevo la mano, sperando di poterti guidare nella risalita da quell’abisso. Ho tremato per la paura che non ci fossi tu stretto a quella mia mano. E quando ti ho guardato, tu non c’eri.
Ho lasciato la presa e ti ho lasciato cadere. Sappi, Lev, che non fu una disattenzione: incarnavi una morta stagione della vita, lo sbocciare di una primavera che non sarebbe mai più potuta tornare . Il mio bimbo giocoso e gaio era perduto per sempre. Al suo posto un’ombra impastata d’inferno. La mia colpa è l’averti visto così: sfigurato, con gli occhi iniettati di odio, e la lingua colma di bave avvelenate. La mia condanna fu di impietrirmi in una statua più dura del sale , in questo piazzale gravido di dolore di fronte alle Croci, perseguitata dal ricordo, dal rombo dei neri chiavistelli, dall’odioso sbattere degli enormi portoni, dall’ululare feroce delle vecchie che su queste pietre consumano le loro vite, dal lamento affilato del vento.
Sotto alla cupola grigia del cielo, nel cuore di una notte che non conosce aurora so che a ogni inverno seguirà un’altro inverno. E mentre il gelo lascia che sulle mie guance la neve si confonda con le mie lacrime

bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato
.

Anna Achmatova ritratta da Nathan Altman [1914]

Nostalgie della terra

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di Mauro Tetti

Ogni cosa vissuta o immaginata continuava a ingannarmi trascinandomi dabbasso in qualche buco sconosciuto della vita. Sentimento che avvertivo più forte durante e dopo il primo incontro con Salif. La sera passeggiavo solo nei vicoli male illuminati della Marina e mi nascondevo nei locali alla moda. La marcia sferragliante dei soldati e dei loro mezzi ci costringeva in quei posti luridi, umidi di alcolici, dove i marinai intonavano un canto scialandrone, che vuol dire scialo, o imitavano il fischio agonizzante della balena che spiaggia. Poi li guardavo danzare fino a tardi. Alcuni sfioravano le chitarre. Gli arpeggi e i giochi da tavola con le clessidre, le locandine dei film tedeschi anni Venti o i pasticci che oscuravano le pareti: tutto pareva il risultato di qualche gesto disperato. Da quelle stesse sale si poteva scendere nella città sotterranea, fatta di cunicoli e pietra, di labirinti dove i turisti si riparavano dai fuochi dell’esercito. L’incontro aveva gli stessi contorni evanescenti del sogno. Lui mi ha detto, porgendomi la mano, che tutti lo chiamavano Salif. Aveva l’aria stanca e puzzava in modo ripugnante, i lobi delle orecchie dilatati e un anello sul labbro inferiore. Non so cosa fosse: forse erano gli anfibi, quel modo di tenere i calzoni arrotolati fino alle ginocchia, la camicia, il gilè, il fazzoletto rosso sul collo, una specie di cresta floscia di capelli che si posava sulla tempia, o vaiecerca cos’altro lo facesse sembrare parte di quel sogno. Respingeva e attraeva allo stesso tempo. Come se lui fosse una parte di me nascosta e latente, magari per pudore. Mi ha guardato come per dirmi che non eravamo tanto diversi io e lui. Tra un po’ mi esibisco, ha detto Salif. Bravo, ho risposto. Non parli molto tu, eh. Eh. Tra poco faccio il gioco delle corde, ha detto. Poco dopo ho capito cosa intendesse. Immerso e legato in un vascone pieno d’acqua, si è liberato con un trucco stupido. È riemerso appena prima di annegare e schiumare davanti al pubblico irrequieto. I marinai applaudivano e non sapevano nemmanco il perché. Poi Salif si è lanciato nel vuoto del locale, ha oscillato come un impiccato appeso a un finto scorsoio che si è sciolto all’ultimo senza torcergli il collo. Giocava coi nodi e pareva tanto sicuro. Qualche marinaio si offriva di legargli i polsi e lui non si tirava indietro, ma riusciva ogni volta a liberare i legacci e a disfare i nodi. Schioccava le funi come fruste a pochi centimetri dai nostri piedi. Quando è venuto giù il sipario, Salif ha raccolto le corde con agilità ed è fuggito via. Non prima di sorridermi e mostrarmi pollice e mignolo della mano. Cercami, chiedi di me, devo parlarti del cubo e so che puoi capire. Di che cubo?, ho chiesto io. Poteva essere la prima volta che ne sentivo parlare da estranei, e dopo tanto tempo. Un cubo è un cubo. Sorrideva. È un cubo prezioso? Ha trattenuto il respiro e ha parlato. Mi pensar que sì, ha detto così. Poi è sparito in qualche altra fredda galera della Marina.
Le mattine andavano e io continuavo a non fare niente. Avevo letto su una rivista che l’età migliore per l’attività intellettuale è dai quindici ai trent’anni. E io avevo deciso di sprecarla guardando il soffitto, c’erano numeri e formule matematiche, onde silenziose su isole di oceani di pianeti sconosciuti, donne e uomini importanti immersi nell’immaginazione. C’erano re e regine da incatenare, fuochi e fiamme nelle piazze dei villaggi. Accumulavo idee bizzarre e le segnavo sull’agenda: le avrei forse sfruttate dopo i trent’anni. Naira lavorava tutto il giorno e la sera andava alle lezioni di danza per diventare una ballerina professionista. Lei pensava che stessi sprecando il mio tempo ma non capiva che invece stavo accumulando idee per il futuro. «Non fai niente tutto il giorno», mi ha detto un giorno. «Non facciamo una passeggiata da secoli». Io non ho risposto. Io non rispondevo mai perché mi sembrava inutile. Quando per strada incrociavo un amico facevo finta di non vederlo. Quando ero costretto a fermarmi cercavo un modo per dileguarmi.
«Ehi, carissimo».
«Ehi».
«Come stai? A casa tutto bene? E il lavoro? E questo l’hai visto? E quell’altro?».
E io dicevo: «Sì sì, infatti; devo andare, si è fatto tardi».
A volte dicevo anche: «Guarda che cielo meraviglioso oggi»; oppure indicavo uno sciame di sagentarrubia, che vuol dire fenicotteri, ma che meraviglia quando nel buio accarezzano il cielo come aerei silenziosi, volano come tramonti viventi della Tanzania; e mentre lui alzava lo sguardo io filavo via. Così mi sono reso conto di non avere più amici. E dopo non avrei avuto né amici né Naira. A guardarmi bene potevo sembrare uno a cui non era rimasto niente, invece ero pieno di idee grazie al sistema che attuavo da mesi: non fare niente.
Una sera passeggiavo con Naira nei moli sovrastati dal promontorio della Sella del Diavolo. In quel punto Dio chiese agli Angeli di prostrarsi davanti a tanta bellezza della natura, tutti obbedirono e nacque il Golfo degli Angeli. Tutti tranne uno, che disse: La mia luce è intensa quanto la tua, e posso costruire mondi altrettanto accoglienti, ciocche di erbe selvatiche, mari e monti e uomini a giustificare la straordinaria varietà degli esseri viventi. E Dio disse: Cal Lo Ni, che voleva dire sciocco. Schiacciò Lucifero sul promontorio fino a scavare la roccia e a formare una sella. Naira rideva delle mie fantasie. Era lì, nella torre spagnola del Puerto, che ci eravamo uniti per la prima volta. E insieme congiunti alle stelle nell’unico modo in cui è possibile farlo: sognando. Ogni volta che passavamo di lì mi prendeva la voglia di tenerla stretta e baciarla in continuazione, poi la lama dei sorrisi le sfiorava il viso. Sarebbe stato ridicolo. Sei ridicolo se fai una cosa così, pensavo tra me. Quindi non la toccavo mai.
Quella stessa sera ho provato a spiegarle tutto: «Ho intenzione di partire».
«Come?», con gli occhi lucidi.
«Per mare».
«Non come, ma, che significa?».
«Significa quello che ho detto».
«E io?», ha detto Naira. «E il lavoro? E poi la vita?».
Non ho risposto perché non mi piacciono molto le domande a trabocchetto. E poi cos’era questa storia della vita? Che cosa voleva da me? Naira mi ha guardato e ha preso a piangere.
«Spero che fai naufragio», ha detto.

 

Testo tratto da: Nostalgie della terra di Mauro Tetti (INCURSIONI 8, Italo Svevo, 2021)