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“La fabbrica dell’uomo occidentale” di Pierre Legendre

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[Pubblichiamo due estratti dal volume di Pierre Legendre La fabbrica dell’uomo occidentale seguito da L’uomo come assassino, a cura di Massimo Rizzante, Mimesis, 2025. Il primo estratto è parte del saggio introduttivo del curatore, e il secondo è tratto da L’uomo come assassino.]

Un ribelle conservatore

di Massimo Rizzante

Chi è stato Pierre Legendre?

La miglior definizione ce l’ha data lui stesso: “Un uomo del passato e del lontano avvenire”. Ergo: un uomo non troppo amato nel corso della sua vita. Un solitario con pochi amici, dispersi in vari continenti. Un uomo refrattario ai conformismi. Un intellettuale originale, versatile, polimorfo, un “animale parlante” difficile da classificare in quel parco umano di mode e spirito gregario che è il mondo universitario. E soprattutto uno studioso ai margini di tutti i movimenti composti da intellettuali in carriera, quasi sempre in vena di prediche.

Un ribelle, insomma, in aperto dissidio con il presente in virtù del suo sguardo profondo e ine- dito gettato su tutta la tradizione occidentale, da Atene a Roma, da Firenze a Parigi, allo scopo di conservarne i vincoli affettivi, morali e sociali contro la loro rapida dissoluzione – tanto dissennata quanto entusiasta – in nome di diritti, leggi, valori delle cui nozioni non si desidera più rintracciare né origini, né genealogie.

Ma un ribelle conservatore. Più che un para- dosso, una sfida, la sola possibile, nella nostra epoca dei “paradossi terminali” (Milan Kundera) in cui “l’animale che parla”, cioè l’animale diven- tato uomo attraverso la parola, sembra volersi congedare da ogni limite logico, semantico, istituzionale, per correre a briglie sciolte verso la libertà.

(…)

Mi chiedo: una volta aumentata artificialmente la nostra intelligenza, una volta privati di alcuni arti e organi e sostituiti da arti e organi biosintetici, una volta clonati, avremo ancora bisogno di una ragione per vivere? Avremo ancora bisogno del mistero? E di quel mistero chiamato alterità?

C’è una Urszene al centro dell’intera riflessione antropologica di Legendre: la scena dello Specchio:

Quando mi guardo allo specchio, si instaura una scena a tre: c’è un individuo che si guarda, il suo cor- po che si presenta; e poi, c’è l’immagine nello spec- chio, un’immagine che è la metafora dell’inaccessibi- le; e c’è il terzo termine, lo spazio insuperabile, che è la metafora del potere assoluto, lo Specchio.

L’universo umano è sempre diviso. L’uomo è “l’animale parlante” che coglie le cose attraverso il linguaggio. Mentre nomino una cosa, me ne separo e mi separo da me stesso. Il linguaggio è il nostro “sfregio”, come dice Legendre, il nostro marchio primordiale. Ciò significa che “l’animale parlante” intrattiene con il mondo un legame di identità e alterità e che ogni individuo intrattiene con sé stesso un legame della stessa natura.

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Mi guardo in una fotografia e mi chiedo chi sia quell’uomo con gli occhiali che mi osserva da lontano. Ascolto la mia voce registrata e non la riconosco. Chi è che sta parlando? Io sono la mia immagine (o la mia voce), ma anche un altro, uno sconosciuto. Chi tiene insieme questi due individui? Legendre afferma: un terzo termine, che però deve rimanere oscuro, inviolabile e che è “metafora del potere assoluto”, lo Specchio. Lo Specchio è il legame dogmatico e istituente che permette la relazione tra me e l’altro che sono e che non conosco. Ma, aggiunge, è anche il vinco- lo giuridico tra creditore e debitore che lega due individui e che fonda una civiltà. “La verità dello Specchio non si discute”. 

Che cosa succede in una civiltà la cui ideologia individualista distrugge tale logica ternaria? Che cosa accade quando questa civiltà si mette a discutere l’autorità dello Specchio, facendosi portatrice del tutto è possibile, dell’assenza di ogni limite, dell’abolizione del mistero?

Capita quel che descriveva poeticamente il mito di Narciso: lo Specchio è in qualche modo dissolto, la struttura dell’identità è compromessa. L’esperienza istituzionale del XX secolo prova che uno Stato, come un individuo, può delirare […] sotto i nostri occhi l’ideologia individualista funziona come un narcisismo di massa che fa dell’individuo “un mini-Stato” (Wim Wenders), vale a dire un essere che è tutto per sé stesso, che è Dio affrancato dalla logica dello Specchio.

*

L’uomo come assassino

di Pierre Legendre

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L’assassinio abita nello spirito dell’uomo. L’uomo pensa ad uccidere. Sogna di uccidere. Commemora i massacri.

Sin dall’inizio della storia dell’umanità e fino ai nostri giorni, l’assassinio fa parte delle abitudini sociali e delle grandi messe in scena religiose e politiche.

L’uomo lo sa, come sa che sorge il sole e che scende la notte.

Ma all’improvviso… Sì, all’improvviso! La terra interiore si mette a tremare. Ecco che l’individuo, un uomo come tutti gli altri, sente tintinnare i sonagli della follia: si suicida, uccide qualcuno, o uccide qualcuno e poi si suicida. E qui ha inizio, in tutte le civiltà, il mistero dell’assassinio.

Ricordo il mio stupore infantile. I gendarmi erano venuti nella mia scuola. Indagavano su un assassino, un ex alunno: che genere di bambino era? Quali erano i suoi voti? E le sue relazioni con i compagni? Un mondo, allora, mi si è aperto: il lato oscuro dei nostri atti – il marchio del sospetto, i segni premonitori del crimine, la vita del bambino criminale.

Mi domandavo: coloro che avevano crocefisso Gesù, avevano ricevuto bei voti? Erano bravi ragazzi? Le cose si confondevano nella mia mente di scolaro.

Qualcosa non quadrava. Presentivo vagamente che c’erano due specie di omicidi. C’è, infatti, omicidio e omicidio. Un omicidio che non è davvero tale: quello che esegue il boia, il soldato, il militante di una causa – un omicidio preventiva- mente giustificato, un lavoro, insomma, un gesto professionale. E c’è un altro omicidio, quello vero, commesso dall’assassino, che chiamiamo crimi- ne; c’è il gesto di uccidere, ma di uccidere per conto proprio.

Nella storia che racconterò – una storia tratta dalla cronaca – la frontiera tra l’omicidio che non è davvero tale e l’omicidio commesso da un assassino sembra venire meno.

Il giorno 8 maggio del 1984, un giovane caporale dell’esercito canadese faceva irruzione nel Parlamento del Québec con l’intenzione di ammazzare tutti i componenti del governo. Correndo attraverso i corridoi e sparando con un’arma automatica su tutti coloro che incrociava, Denis Lortie giunse ben presto nella Camera dei de- putati. Quel giorno, però, in Parlamento non si teneva nessuna sessione e la sala era vuota. Così andò a sedersi sulla poltrona del presidente. Ne seguì una trattativa per disarmarlo. Dopo la sua resa, si contavano tre morti e otto feriti.

Durante le prime ore, si parlò di attentato politico. L’attentato, per certi aspetti, risultava comprensibile; tanto più che, secondo un sondaggio realizzato da una radio locale, la maggioranza dei cittadini sembrava approvarlo.

Tuttavia, ci si dovette ricredere, arrendersi all’evidenza: il soldato-giustiziere non aveva agito per nessuna causa. Era appena salito alla ribalta commettendo un crimine assurdo. Armato fino ai denti, aveva ucciso in un contesto sontuoso e monumentale. Ma i morti e i feriti che giacevano a terra non erano attori. Esausto e ammanettato dai poliziotti a una sedia, Lortie non era altro che un relitto, un essere sollevato ma sconvolto, un ordinario assassino.

Era pazzo? Era sano di mente? L’affare Lortie aveva inizio. Un caso classico per la polizia e i giudici, un boccone prelibato per gli squali della cronaca, una vicenda oscura per tutti noi, perché racchiude la miseria del nostro tempo – la mise- ria dei senza legge del nostro tempo.

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Quando ho cominciato a interessarmi al processo istruito contro Lortie, ho aperto i diari di Dostoevskij e ho letto: “È possibile attraversare un fiume su una trave, ma non su un truciolo di legno”.

Allora ho pensato: quel che mi affascina è proprio questo: la catastrofe, osservare la catastrofe. Ho guardato Lortie come si guarda un naufrago dopo che è annegato. Guardiamo con compassione un essere umano che non c’è più; ma anche con il timore e la furtiva soddisfazione di non essere lui, di appartenere ancora al mondo dei vivi. C’è lui e ci sono io; l’assassino e noi, gli innocenti, che attraversiamo la vita su una trave senza andare incontro alla catastrofe.

Mi domando: che cosa ci lega, che cosa mi lega a quell’uomo?

Perché l’intera società – la società degli innocenti – si applica con tanta passione a scrutare l’assassino e a soppesarne il crimine, a mettere in scena, in quel teatro che è la Giustizia, la catastrofe di qualcuno?

Perché, ad ogni crimine, ad ogni assassinio, siamo colpiti nel nostro intimo più profondo, più segreto, più oscuro: nello spazio di un istante ci rendiamo conto che potremmo essere quell’uomo, quel naufrago, quell’assassino. Ad ogni crimine, ad ogni omicidio commesso, bisogna apprendere di nuovo il divieto di uccidere.

Ecco perché le società organizzano delle messe in scena in cui si recita il duello tra l’assassino e tutti gli altri.

Recitare tale duello significa, nella cultura occidentale, istruire un processo che ricordi, a nome di tutti, la scena dell’omicidio compiuto, e fare in modo che l’omicida risponda del suo atto davanti a noi.

Siamo davvero consapevoli che un processo contro un assassino non è un regolamento di conti, ma un rituale di separazione dal crimine? Siamo sufficientemente civilizzati per riconoscerlo? Orrori senza nome, vendette di massa, umiliazioni, enormità abolizioniste e autocompiacimento di coloro che, in nome della scienza, pretendono di gestire la violenza, abomini sui crimini e sui criminali; tutto ciò avrà mai fine?

Per l’assassino, rispondere del suo gesto vuole dire separarsi dal suo atto di morte e, come diceva Dostoevskij, che conosceva bene la crudeltà del suo tempo, riconciliarsi, foss’anche in carcere, con gli uomini.

Il processo Lortie ci impartisce una lezione su cui meditare.

Dato che la strage si era svolta nelle aule del Parlamento del Québec, diverse telecamere ave- vano registrato una parte dell’attentato. Durante il processo la trasmissione coinvolse Lortie in un faccia a faccia pubblico con sé stesso: il colpevole Lortie guarda qualcun altro, guarda l’assassino Lortie mentre dialoga con un funzionario del Parlamento che cerca di disarmarlo.

Estratto dalle riprese del video di sorveglianza del Parlamento del Québec

Lortie è seduto sulla poltrona del presidente.

Lortie: Sono pronto. Non esiterò, cazzo!

Lortie spara alcuni colpi di arma da fuoco.

Al questore del Parlamento René Jalbert che sta entrando:

Lortie: Signore, trovi un riparo. Jalbert: Come va?

Lortie: Sono un po’ fuori, cazzo. Non le pare? Jalbert: Beh, sì…

Lortie: Ti sorprenderò, appartengo all’esercito. Jalbert: Anch’io sono un soldato.

Lortie: Ne è sicuro? Jalbert: Sì.

Lortie: Che pensa dell’esercito?

Jalbert: Ho passato trent’anni nell’esercito. Lortie: Il mondo ride del nostro mondo, cazzo.

Jalbert: Che cosa ci fa lì?

Lortie: Cosa succede qui? Ci sono merde di poliziotti come lui. 1, 2, 3, 4, 5 … 29.

Jalbert: Vuoi che andiamo a parlare fuori? Lortie: Di che cosa vuoi che parliamo?

Jalbert: Volevo sapere perché distruggi tutto? Lortie: Non distruggo, volevo uccidere. Ma non c’è nessuno…

Jalbert: Ah! Sei arrivato troppo presto. Lortie: Che cosa vuol dire troppo presto? Jalbert: Oggi non cominciano prima delle 14. Lortie: Mi avevano detto alle 10.

Jalbert: No, alle 10 cominciano domani.

Lortie: Ah è così! E adesso che faccio? Che ne pensa come soldato?

Jalbert: Beh, come soldato, se fossi in lei…

Dopo un po’, Lortie accetta di lasciar uscire le persone che erano ancora nell’aula.

Lortie: Uscite. Jalbert: Esca, signora.

Lortie: Escano quelli che si sono nascosti. Jalbert: Uscite tutti.

Un poliziotto interviene dal balcone.

Lortie: Vuoi parlare con me. Come mai? Che cosa ho fatto?

Policier: Perché lo hai fatto? Lortie: Questa è la politica! Policier: La politica?

Lortie: Se ne vada.

Dialogo a bassa voce tra Lortie e Jalbert. Jalbert: Dai, andiamo. Denis, Denis, il tuo ber- retto.

Lortie: Ah sì, il mio berretto. È l’esercito. Jalbert: Così sei un buon soldato.

Nel corso del processo ci fu un momento in cui si raggiunse il culmine del pathos: Lortie si allontanava dalla morte sotto lo sguardo di tutti.

Un giornalista riassume così il cambiamento dell’imputato: “Mentre cercava le parole per spiegare al suo avvocato il significato di certe espressioni presenti nel video, Lortie, che era parso calmo per tutta la proiezione (circa quaranta minuti), è crollato a causa dell’eccessiva pressione. In piedi, al banco dei testimoni, ha prima abbassato la testa per alcuni secondi e, senza dire una parola, ha lasciato l’aula delle udienze piangendo e disperandosi, per poi dirigersi verso l’anticamera degli imputati. I due agenti della sicurezza che lo controllavano lo hanno seguito e, a un certo punto, lo hanno sentito emettere nell’arco di pochi secondi un grido acuto e alcuni suoni incomprensibili. Si è appreso più tardi che Lortie era stato isolato in una stanza e che si era a poco a poco calmato. Dopo una sospensione di quarantacinque minuti, ha riguadagnato il banco dei testimoni, apparendo più disteso”.

Così si è spezzato il giogo della follia.

Lortie, davanti al giudice, affermerà: “Non posso dire ‘non sono io’. Sono io. Che cosa vuole che le dica di più? Mi ha fatto davvero male quando ho visto il video. Bisognava che lo vedessi. Bisognava che attraversassi questo momento”.

(…)

Una festa è una festa è una festa è una festa…

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Note sulla Festa di Nazione Indiana, Bologna 2025

di Redazione

Bisogna pur incontrarsi, parlarsi, abbracciarsi e sorridere. Noi di Nazione Indiana, almeno una volta all’anno, cerchiamo di farlo con le nostre Feste. Quest’anno la Festa di Nazione Indiana si è svolta nello spazio di ⇨ Porta Pratello di Bologna, lo scorso sabato 14 giugno. Eravamo ospiti di ⇨ Grisù / Festival di scritture contemporanee – Lo Spazio Letterario, che ringraziamo per come ci hanno accolti e fatto sentire a casa in un luogo, Porta Pratello col suo cortile e i suoi chiostri, che l’accoglienza e l’ospitalità le ha nella propria storia. Questo è un pezzo in progress, seguiranno video e altre foto degli incontri.

Il talk del mattino

Per il momento confermiamo che nel talk mattutino abbiamo parlato di democrazia e pensiero critico rispetto alla scrittura sui social. Il tempo dei social: scrivere sulle piattaforme occidentali. Democrazia e pensiero critico nell’era di Musk. Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Mariachiara Brunetti, Giorgiomaria Cornelio e Helena Janeczek hanno discusso di tecno-oligarchi, idiozia o superomismo dei suddetti personaggi, il loro rapporto con Trump e con… noi. Ossia: come abitare le piattaforme social e digitali anche quando ti “shadowbannano”, quando ti rendono invisibile a causa dei tuoi contenuti non allineati o allettanti. Una soluzione potrebbe anche essere, come suggerito da Gianni Biondillo, quella di “fregarsene”.

Il dibattito del pomeriggio

Nel pomeriggio abbiamo tenuto il talk su Il tempo ereditato. Una nuova generazione e il “compito” di raccontare la Resistenza. Abbiamo parlato del concorso Staffetta partigiana per under 35, promosso da Nazione Indiana in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Abbiamo analizzato i temi dei racconti premiati, la presenza/assenza della violenza resistenziale, il rapporto con gli archivi e con i documenti, gli strumenti per costruire insieme storia e memoria, ossia per fare public history della Resistenza in un momento in cui la Resistenza sta, a suo modo – in forma di racconto, celebrazione, interesse – tornando nell’orizzonte comunitario di italiane e italiani che si riconoscono nei valori dell’antifascismo. Al dibattito hanno partecipato Gianni Biondillo, Davide Orecchio, Orsola Puecher e Davide Sparano dell’Istituto storico Parri. E ci ha raggiunti con la sua famiglia Alice Ghinzani, la più giovane tra le autrici premiate, per il racconto Jenide Russo.

Letture serali

In serata è scattato il momento performativo. La scena del tempo. Tra passato e presente. Performance e letture di:
– Mariasole Ariot, con Le sale operatorie di esistenze, ispirato dalla lettura di Guerra Totale di G. Gribaudi.
– Francesco Forlani, con Les quatre ciudades (dall’antologia Babele a cura di Enzo Campi) e Pazza l’idea, per Roberto Lordi nell’antologia La stessa cosa del sangue.
– Giorgio Mascitelli, col racconto inedito Il partigiano nella legnaia.
– Orsola Puecher, con ALICE VENTURA BATTAGLIA morta il 5.3.1945 a Ravensbrück “…per il suo ideale partigiano” nell”antologia La stessa cosa del sangue.
– Ornella Tajani, con Gli spazi del sonno di Robert Desnos.

La chiusura su Luigi Di Ruscio

La serata si è conclusa con la proiezione di La neve nera: Angelo Ferracuti ha introdotto il film su Luigi Di Ruscio, in dialogo con Davide Orecchio. Chiudendo così un discorso sul tempo del lavoro e letteratura operaia che era stato già tema del talk pomeridiano con Fabio Franzin, Stefano Modeo, e moderato da Stefano Colangelo.

Davide Susanetti: «Vertigine della soglia»

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di Davide Susanetti

È uscito per le Edizioni Tlon il viaggio iniziatico Vertigine della soglia di Davide Susanetti.

Ospito qui un estratto, in anteprima.

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Quando si pronunciano le parole mistica e mistero, un alone di vaghezza sembra sprigionarsi da esse. E la vaghezza, a propria volta, suscita incerti intrecci di fascinazione e di diffidenza. Eppure, a osservare l’etimo greco da cui esse si originano, un atto estremamente semplice le determina. Ed è in questa stessa semplicità che riposa il loro dono, la promessa cui fanno cenno. La radice di questi termini si connette al verbo mýein, che significa “chiudere”, “serrare”. È questo l’invito che le parole sussurrano. Chiudere gli occhi con cui, nella veglia, si osserva quel che appare mondo e se stessi. Chiudere la bocca da cui sprigionano le parole che sempre si pronunciano per chiedere o rappresentare quanto sta attorno e per dire, al medesimo tempo, chi e come si ritiene di essere. Chiudere è un gesto d’interruzione. Un atto con cui si produce uno strappo, uno scarto nel fluire dell’esistenza e delle occupazioni a cui abitualmente si attende o da cui si è presi. Il sigillo serra le palpebre e fa muta la lingua. Arresta e sospende, paralizza e disarticola. E in ciò si compie il transito di una soglia che allontana e separa nello spaesamento e nella vertigine, nell’assenza e nel vuoto. Una soglia al di là della quale tutto ciò che si vede, si dice e si pensa cade e dilegua così come l’azione si disorienta. Non c’è più ciò che c’era, così come non si è più ciò che si era. Non si sa dove ci si trova né se vi sia una direzione verso cui muovere. Nessuna parola soccorre dalle labbra impedite a ogni suono.

Ma la cessazione che il passaggio produce, l’inceppo che la chiusura impone non è che la condizione per riportarsi, con un’inversione, a un punto che preceda. Non è che il mezzo per disfare ciò che è stato, per scomporre ciò che si è fissato in un modo o in una figura, in un orizzonte o in un discorso. L’arresto che frange il continuo si rovescia in un movimento che è possibilità di riconfigurare e riplasmare ogni cosa da capo. L’assenza del buio e del silenzio si converte nel levitare di una presenza ulteriore, altra e diversa da tutto ciò che non ha, in nessun momento, conosciuto quel medesimo transito. La chiusura, che nella separazione e nell’isolamento segna una fine, è il gesto stesso che incessantemente apre alla virtualità di un nuovo inizio. Nel chiudere sprigiona ciò che infine dischiude gli occhi e la lingua alla visione che non è stata ancora vista, alla parola che non è stata ancora pronunciata. Un gesto semplice perché è semplicità ciò che sta all’inizio, prima che tutto si complichi e si confonda. Un gesto arduo e penoso perché la discontinuità che sospende è perdita e paura.

A ciò che mistica e mistero sottendono si lega anche un’altra parola preziosa, iniziazione, su cui occorre indugiare. Nel nostro dire, iniziare evoca il dar principio a qualcosa che è nuovo o semplicemente ulteriore, a qualcosa che prima non si era ancora tentato o che, fino a quel momento, non aveva avuto ancora modo di concretarsi e di essere. L’inizio di un’azione a partire dalla stasi o dall’abbandono di altro che si stava facendo. L’inizio di una stagione o l’inaugurarsi di un periodo che rechi eventi o colori differenti da quanto precede. Eppure, anche qui, l’etimo irraggia un valore che sposta la prospettiva. All’origine vi è il latino inire, “entrare”, “fare ingresso”. Iniziazione è quel movimento che conduce a varcare un confine, a compiere un passaggio. È ingresso in un dominio o in una sfera altri da quel che stava fuori. E altro è anche tutto ciò che là avviene ed è custodito. Un altro che rende altri, tanto decisivo è quell’entrare all’interno.

Ma, da capo, per comprendere, occorre intrecciare le lingue fra loro, osservando come l’una completi l’altra. Perché, quel che, da un lato, si dice come ingresso corrisponde, dall’altro, a quanto ne suggerisce il modo e ne fissa la direzione. In greco, infatti, quel che l’iniziazione comporta si stempera in due parole distinte a segnare il cammino. La prima, mýesis, viene sempre da quel chiudere da cui tutto si diparte. La seconda, teleté, in modo assai trasparente, indica quel che si raggiunge: il télos, il compimento, il fine e la meta, che mai neppure si immaginava.

Iniziazione è dunque l’atto stesso di entrare in quella dimensione di mistica chiusura che prelude alla propria compiutezza. Come forma che si cancelli e si disfi per ridisegnare la propria perfezione. Come ferita sanguinante che rimargini in nuovo e inaudito tessuto. Perché è ferita ciò che attende all’ingresso. Taglio che incide. E non c’è altro modo per generare e rigenerare ciò che è ancora e sempre imperfetto.

In che modo porsi sulle tracce di questa soglia? Forse si può farlo partendo da quell’orizzonte greco cui le parole e gli etimi appartengono. Il volto di un dio, alcune figure e posture dell’anima, le rifrazioni del simbolo, le immagini della mente e dell’uno possono costituire le tessere provvisorie di un viaggio, i segnavia di un territorio da esplorare. Un territorio che per sua natura predilige le allusioni e le forme indirette, i frammenti e le schegge, i discorsi che suonano, a loro volta, sospesi e inceppati.

Nel muovere da una stazione all’altra, le parole finiranno così per ondeggiare tra intensità e toni diversi, perché non tutto può essere evocato nel medesimo modo. Parole ora piane e pacate, ora mosse e scomposte in ciò cui rimandano. E le voci stesse di antichi sapienti, convocati implicitamente a fare da guida, diverranno talora risonanze ed echi della medesima voce che racconta e ricorda in un gesto di intima prossimità. Come figure, a loro volta, di un paesaggio interiore o di un senso che si spartisce nelle viscere per diventare cosa propria che agisce. Ventidue stazioni scandiranno il cammino. Ventidue come gli Arcani maggiori dei Tarocchi e le lettere della lingua sacra. Cenni e movimenti per ritrovare il seme di un inizio in quanto sembra finire e, in realtà, mai finisce. Un accelerato oltrepassamento dell’umano è quanto i tempi lasciano intravedere. Ma l’oltrepassamento non è ciò che, a loro modo, la mistica e l’iniziazione abitano e annunciano?

(Incamminarsi per queste vie è scelta individuale che comporta un radicale distacco dalla dimensione di quel che si potrebbe chiamare pólis, con tutto ciò che tale parola evoca in termini di dinamiche, rapporti e istituzioni. Un distacco dalle aggregazioni e dai modi del sociale e di quanto è ordinariamente comune e condiviso. Uno scarto dal linguaggio delle rivendicazioni e dal bisogno di essere riconosciuti. E tuttavia occorre chiedersi se non sia proprio questo l’unico modo per rigenerare, a un altro livello, qualcosa che sia pólis, ora che tutte le categorie usuali del politico mostrano la loro inane consunzione. Il salto e il vuoto del passaggio mistico come unica condizione possibile di fare comunità: a partire dal viaggio che ognuno, per sé, avrà compiuto).

Dagli Oscar a Cannes, il cinema che racconta il genocidio a Gaza

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Giuseppe Acconcia

In questi giorni la rappresentazione cinematografica della guerra a Gaza al festival di Cannes è passata per il tributo alla fotogiornalista palestinese Fatima Hassouni, raccontata nel documentario di Sepideh Farsi “Put your soul on your hand and walk”. Hassouni è stata uccisa dall’esercito israeliano il giorno dopo aver saputo della partecipazione del film al festival di Cannes dove era in gara anche il film palestinese di Tarzan e Arab Nasser “Once upon a time in Gaza” nella sezione Un certain regard. Il film-maker israeliano Yuval Abraham ci racconta il suo impegno giornalistico e di regista, insieme a Basel Adra e Hamdan Ballal, con il collettivo che ha realizzato “No other land”, il documentario sugli attacchi che non si fermano contro la comunità palestinese di Masafer Yatta in Cisgiordania ad opera di coloni e dell’esercito israeliano. Il film richiama i temi del roadmovieRoute 181 – Fragments of a Journey in Palestine-Israel” (2003) di Eyal Sivan e Michel Khleifi.

Come sono cambiate le cose dopo la vittoria di “No other land” agli Oscar del 2025?

Non avremmo mai immaginato di vincere l’Oscar e che avremmo fatto un film che sarebbe stato visto da milioni di persone. Eravamo sempre preoccupati che solo i nostri familiari l’avrebbero visto e che nessuno gli avrebbe dato importanza. È interessante perché abbiamo iniziato, sia io che Basel, come giornalisti, scrivevamo articoli per il magazine +972 e sui social media, ed eravamo molto frustrati. È in atto una politica di pulizia etnica dell’intera comunità di Masafer Yatta e sta succedendo nel tempo, inizialmente molto lentamente ora molto più velocemente. E i media non ne hanno parlato o non danno attenzione a quello che accade. Quindi non abbiamo mai neppure sognato che avremmo fatto un film e che sarebbe stato visto da così tante persone. La cosa triste è che la realtà sul campo sta solo peggiorando.

Si parla molto di Gaza ma molto poco di Cisgiordania, come vivono i palestinesi a Masafer Yatta?

Posso raccontare quello che è successo a Hamdan Ballal, uno dei co-registi. Due settimane dopo essere rientrati da Los Angeles, dagli Oscar, un gruppo di coloni e soldati sono andati nel villaggio di Hamdan. Hanno attaccato il villaggio e sono entrati nella sua casa, dove si era rifugiato per proteggere sua moglie e i suoi figli piccoli. Lo hanno colpito, lui ha detto che pensava che sarebbe morto. È stato portato dai soldati in una base militare, dove è stato torturato. E gli hanno detto che tutto questo stava accadendo a causa degli Oscar. Questo evento ha avuto una grande attenzione mediatica. Ma in realtà a Masafer Yatta questi attacchi avvengono sempre, contro palestinesi che non hanno vinto l’Oscar e nessuno ne parla. Questo sta accadendo da gennaio scorso. Ci sono stati circa cento attacchi di coloni e soldati contro questa comunità e in tutta la Cisgiordania. In quest’area, l’area C, il 60% della Cisgiordania, dove ci sono piccole comunità palestinesi circondate da colonie israeliane. Queste sono le comunità più vulnerabili in Cisgiordania. Sono sotto il diretto controllo militare. E l’obiettivo è molto chiaro: trasferirli e prendere il controllo della terra. Sono molto preoccupato per Masafer Yatta, con Trump al potere negli Stati Uniti fino al 2028, temo che questa comunità verrà completamente distrutta. Questo è il motivo per cui credo che l’attivismo dal basso e la pressione internazionale di cui abbiamo bisogno è molto importante perché stiamo parlando letteralmente della sopravvivenza di questa comunità in questo momento.

Come giornalista investigativo e regista, quale responsabilità personale ha sentito nel raccontare questa comunità?

È una storia molto personale. Credo che il cambiamento politico inizi sempre da qualcosa di personale, mi ha spinto a studiare arabo e a incontrare Basel, una persona che ha la mia stessa età. Lo guardo e vedo un uomo molto simile a me. Ma viviamo in un sistema in cui siamo controllati da Israele ma solo io posso votare per le leggi che controllano la sua vita. Basel vive sotto controllo militare, un diverso sistema legale, senza un aeroporto. Questa realtà va avanti da decenni con due gruppi di persone controllate da uno stato diviso in due sistemi legali. I palestinesi sono discriminati in ogni singolo aspetto della vita. Questo è completamente ingiusto, deve finire. Non parliamo di teoria politica, ma è Basel, il mio amico, a cui tengo, e vedo quello che succede alla sua famiglia. Mi colpisce, mi fa sentire responsabile, prima di tutto verso la mia società, di fare giornalismo in lingua ebraica così sappiamo cosa viene fatto a nome nostro. Ma è stato anche importante mostrare nel film il potere sbilanciato, lo stato di apartheid, la diseguaglianza in cui siamo nati, sperando in un futuro diverso, dove c’è uguaglianza, giustizia e libertà per tutti, israeliani e palestinesi. E non una situazione dove un gruppo ha la supremazia su un altro gruppo. Siamo uniti in questa battaglia, sono i nostri valori condivisi. Questo ha reso il film possibile. Parliamo di coesistenza tra israeliani e palestinesi, anche se questi ultimi sono minacciati nella loro stessa esistenza. Con questo documentario presentiamo una diversa visione di futuro non basato sulla supremazia ma su una soluzione politica, sull’uguaglianza, su diritti nazionali reciproci e sicurezza. E così questo film è in sé una forma di resistenza per noi.

Crede che il suo lavoro abbia creato una diversa consapevolezza nella società israeliana delle conseguenze dell’occupazione?

Onestamente penso di no. Abbiamo forse avuto effetto su alcuni individui, ma il sentimento politico generale nella società israeliana, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023, si è spostato molto di più verso destra. Sento che gli israeliani come me che difendono i diritti umani sono molto deboli all’interno della società israeliana, sono una minoranza. E credo che la comunità internazionale non ci aiuti, ci indebolisca, non ponendo alcuna pressione sul governo israeliano, nessuna linea rossa anche quando è chiaro quello che sta accadendo a Gaza dove in pochi giorni sono stati uccisi centinaia di bambini. Questa è una routine e sta indebolendo le persone che combattono per qualcosa di diverso. E così continuo a fare il mio lavoro, sono un giornalista, un film-maker, questa è la mia responsabilità, ma penso che senza aiuto esterno sotto forma di sanzioni e pressioni, il mio impegno non sarà efficace tanto quanto dovrebbe essere.

Eppure, il genocidio a Gaza va avanti, la vostra comunità è stata indebolita, è ottimista, pensa ancora che le persone che vedono questo documentario reagiranno in qualche modo?

Basel sostiene sempre che non c’è molta speranza perché è difficile averne in questo contesto. È come se ogni percorso sia bloccato. E ho questa terribile sensazione che le cose possano solo peggiorare. Penso che siamo in una situazione di sopravvivenza a questo punto. È difficile parlare di speranza, dobbiamo cercare di minimizzare il numero di bambini uccisi. Come israeliano sono in una posizione molto più privilegiata. E ho usato questo privilegio per dare un lato israeliano a questo film che lo ha aiutato a vincere un premio importante come l’Oscar. Però come Basel, continuerò a battermi perché non ho il privilegio di fermarmi. La mia speranza è più un sentimento di fede che ci siano cambiamenti nella storia e solo guardando in retrospettiva realizziamo che il nostro lavoro, questo lavoro collettivo, ha prodotto un cambiamento. Il momento più difficile è stato quando dopo il festival di Berlino mi hanno accusato di essere “antisemita”, ho sentito la violenza su di me e gli effetti sulla mia famiglia che ha dovuto per alcuni giorni lasciare la nostra casa. È stata la prima volta che ho sentito una violenza fisica nei miei confronti. Normalmente ogni volta che esprimi un’opinione in minoranza per la tua società vieni rifiutato più o meno fortemente. E non è facile. Sono cresciuto nella società israeliana, ne faccio parte. Sono persone che vorrei cambiare e ne sento la responsabilità. Quello che mi ha aiutato è la comunità di persone come Basel e Hamdan, altri palestinesi e israeliani con cui condividiamo gli stessi valori. Ma anche se siamo in pochi, anche una o due persone sono sufficienti per spingermi ad andare avanti.

gli EBOOK di NI: i racconti di STAFFETTA PARTIGIANA

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di Redazione

Nazione Indiana ha deciso di onorare l’ottantesimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo con ⇨ un concorso per testi inediti. Un concorso rivolto agli under 35 perché (citiamo dalla nostra call di autunno) “pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza“.

In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo.

I testi ricevuti condividono un pregio non irrilevante, una volontà civile di raccontare quelle storie di antifascismo che, di per sé, va premiata e merita il nostro ringraziamento.

Abbiamo deciso di raccogliere in un EBOOK i 12 racconti selezionati, per celebrare l’avvenimento e per rendere più fruibili tutti i materiali.

Del concorso e dei suoi risultati parleremo il 14 giugno durante la ⇨ Festa di Nazione Indiana 2025.

i racconti di STAFFETTA PARTIGIANA 2025 [formato epub]

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Les nouveaux réalistes: Anita Tania Giuga

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Sopraffatta

di

Anita Tania Giuga

Non avere limiti stabiliti ed essere dipendenti dalla propria autodistruzione è, con tutta certezza, conseguenza di un’infanzia vissuta in un ambiente tossico. I tossici sono maestri nell’arte della manipolazione, lo sai. Vengo da una famiglia disfunzionale, sono abituata a spegnere l’interruttore e fare quello che va fatto. Se sei nel ruolo della vittima, intrappolata nella parte del martire, non hai nessuna responsabilità su quello che sta avvenendo intorno a te. Essere sobri, senza niente di estraneo nel corpo, è la cosa migliore di sempre: non c’è sindrome del giorno dopo, né colpa. E qual è la lezione migliore che sono stata chiamata a imparare? Accettare me stessa e amarmi per quello che sono.

La vita la puoi raccontare sulla base delle esperienze che hai fatto, che avresti voluto fare e che vorresti fare. Questo è tutto. Di base, sapere di piacere, sentire un uomo che dice ‘Ti amo’, mi innervosisce, mi provoca disagio e finisco per chiedermi quando andremo al sodo. Voglio fatti, non parole, non inganni. Sono una buona persona, do più di quanto non prenda, e credo di meritare una vita appagante, anche se questo dovesse significare cambiare ambiente e abitudini. Mi sono trovata a prendere decisioni sbagliate in un tempo sbagliato. A fare quadrare le cose a ogni costo o a metterci tutte le risorse per andare avanti. Ho imparato che se vuoi arrivare da qualche parte nella vita, devi presentarti nella maniera in cui lo farebbe un uomo d’affari: quasi inorganico. Rispetto, responsabilità e lealtà sono parole, non significano niente se qualcuno prima non ti ha insegnato come si fa ad attivarle.

Quando non hai avuto un padre stabile nella testa, che ti dicesse che eri e sarai, qualsiasi cosa accada, la persona più importante, la sua principessa, e nessuno ha il diritto di oltraggiarti, come puoi farlo con te stessa? Sai, ero preoccupata di essere bella, a posto, di avere un atteggiamento spirituale verso la vita, e anche se adesso vivo dove vivo, non tornerei mai a fare quello che facevo prima, preferirei morire. Sono stata rapita, violentata, mi hanno rubato il telefono, i soldi, mi hanno strappato il cibo dalle mani mentre camminavo. Ho dovuto affidare le mie carte di credito a un ex vicino di casa per non finire in guai più seri. Ci sono state settimane in cui piangevo ogni giorno. Una sera ero fatta. Stavo guidando in una zona desolata e mi sono addormentata al volante. La cosa incredibile è che l’incidente ha fatto ribaltare l’automobile e lo scontro è avvenuto con un tipo che si è addormentato a sua volta al volante. Mentre ero morta ho visto mio nonno, che ha avuto un infarto un paio d’anni fa, e suo padre, che avevo conosciuto solo in foto, mi hanno detto che non era ancora arrivato il mio momento; devo compiere qualche missione prima di andare.

Il punto è che non mi ero accorta di niente, così ho chiesto al ragazzo di rimettermi in macchina, ed è stato lui a dirmi che mi ero ribaltata e a chiamare l’ambulanza intanto che lo guardavo ancora sotto choc. Sai, sarà durata in tutto dieci o quindici minuti, c’era la presenza di una ragazzina che stava in compagnia di altre due persone. Il giorno dopo, il notiziario ha parlato di un pirata della strada che aveva travolto qualcosa, senza fermarsi. E quel qualcosa era una quattordicenne insieme a un bambino. Sono passati tutti e due dall’altra parte. Ho capito il senso di questa esperienza quando in Messico ho fumato il veleno di rospo; tutte le fibre del mio essere urlavano e guarivano, risucchiate in un vortice di consapevolezza collettiva. Ho capito le mie vite precedenti, gli errori, il fatto di generare karma con le proprie azioni. Ho capito che senza principio non ci può essere fine. Mi sono vista come una fiamma priva di forma, libera dall’ansia, dalla preoccupazione, dall’abbattimento.

Quando ero più giovane, ero considerata la più bella qui. Ma sai una cosa? Non mi sono mai data il tempo di riconoscerlo. A dicembre anche Vinni è passato oltre. Ha chiuso la porta e ha lasciato fuori il cane. Un cane da caccia di quelli piccoli, con il pelo ispido, che scorreggiano e uccidono qualsiasi cosa si muova. Vinni diceva che era un angelo con le abitudini di un killer e la sua fedeltà agli umani era più di quanto essi meritassero. Sono stata una delle ultime persone a trascorrere del tempo con Vinnie, più o meno. Mi aveva accompagnato in ospedale per i controlli annuali. Avevamo cominciato a risentirci a ottobre, dopo il suo incidente, spiegando male quattro anni di silenzio. Parlavamo quasi tutti i giorni. Per ragioni difficili da capire, sono molto scossa. L’ho sognato, leggo tutto quello che riguarda questi ultimi maledetti giorni. Ero andata in viaggio, quindi le comunicazioni si erano bruscamente interrotte. Ti dispiace se te ne parlo? I tuoi consigli mi sono stati d’aiuto. I giorni con lui sono stati difficili, pieni di scuse, di monologhi, di rabbia improvvisa, di invettive ma anche di dolcezza, in qualche maniera. Non penso di potere aggiungere altro. Le cose vanno come devono andare. Questo clima mi riporta a un mio benefattore. Mi aveva pagato una pensione, trovato una macchina usata e un lavoro pomeridiano, una via di riscatto che non ho percorso. Ero impaziente. Ho ricominciato a farmi con il vicodin, a girare di notte, dormire di mattina, svegliarmi a pomeriggio inoltrato, fino a quando non ho perso il lavoro. Il resto te lo risparmio.

Le donne che ho incontrato dicevano di volere cambiare ma non le ho mai viste accettare una qualche possibilità di trasformazione. Restare intrappolati dalla strada per alcuni è l’inferno, l’unica forma di libertà, oppure, come immaginerai, una splendida fuga quando non hai altra scelta. Ogni cosa su questa terra vuole il suo tempo, non c’è cibo cotto in fretta che faccia bene alla salute. Non sto incolpando la famiglia per le mie scelte, almeno non completamente: se ho fatto quello che ho fatto, se fra due possibilità ho scelto la più facile, è stata una mia decisione. Oggi sono più onesta con me stessa, mi avresti vista indossare il costume delle circostanze avverse e pretendere per questo la tua approvazione e il tuo affetto incondizionato, anche per le azioni commesse a causa del lasciapassare che, le grandi aspettative riposte sul mio futuro, mi avevano obbligato ad assecondare. Una specie di mistica onnipotenza. Per vent’anni non ho mai pianto. Ero talmente ossessionata dall’idea di perfezione e mi vergognavo così tanto delle mie dipendenze, da cadere a un livello più basso ogni volta che perdevo l’integrità d’insieme alla quale ero stata educata. La camera degli errori non era contemplata e ribellarmi significava essere colpevole; ed essere colpevole voleva dire scendere un gradino infimo verso la perfezione dell’imperfezione. Il silenzio ha avuto un impatto disastroso: ha definito la mia vita. Dici che so è quindi posso cambiare, che sono diversa. Sapere e sapere come fare non sono la stessa cosa. Mio fratello entrava nella mia stanza quando avevo tredici anni. La parte peggiore però non è questa. Credo tu non sia pronta a sentire che uno strato di me lo aspettava e, in tutto questo tempo, ho vissuto la scissione, la separazione, come autodistruttiva funzionale. Ti è capitato che un collega di tuo padre avesse la possibilità di rimanere solo con te al mare? Il resto puoi immaginarlo. Credi davvero di capire cosa significa essere un oggetto inanimato?

Quando hai ricevuto quelle attenzioni e la stessa scena, la situazione così profondamente incisa nella tua memoria, ritorna da grande, la tua mente è spaventata e non funziona alla stessa maniera di come funziona per gli altri. Ho avuto paura della solitudine, uno spavento paralizzante che mi ha fatto dire di ‘sì’ quando l’unica risposta sarebbe stata scappare. Chi mi circondava, chi mi ha cresciuta, scommetteva che sarei finita male. Malata di HIV o senza tetto, in ogni caso vittima delle circostanze. Una vittima inerme nelle mani di altre vittime. Credimi, non è mia intenzione incolpare la società, né il cinismo della gente che mi opprimeva già a partire dalla scuola. È liberatorio massacrare il debole e scegliere di accompagnare il ragazzo d’oro nella sua scalata verso il successo, o la reginetta della festa all’incoronazione. Se ti avessi incontrata a quel tempo saresti stata l’amica che ti contiene, avresti portato pace e sono certa che non mi avresti giudicata. Ci sono giorni che non mi muovo dal letto, non guardo il telefono, non scrivo messaggi, non accendo la televisione. Ho troppo caldo sotto le coperte e troppo freddo se apro la finestra. Ho passato l’adolescenza guardando film su eroine sbandate, che finivano male e venivano beatificate per questo. Non potevo che fare la stessa cosa, non credi? Se puoi avere tutto quello che vuoi che importa da quale parte arrivano i soldi per ottenerlo? Di tanto in tanto la reginetta muore di overdose e il Golden boy vende le foto del suo corpo da qualche parte sul web. Sai, sono cosciente di essere una persona spezzata e di avere bisogno di aiuto. Ci ho provato.

Credo, nel fondo della coscienza, di meritare la merda per la quale sono passata. Per gli incidenti, le frodi, i furti, le molestie. Allo stesso modo, vedo nei tuoi occhi che hai dei dubbi. Queste ombre ti permettono di guardare il mio naufragio da una distanza di sicurezza. Non fraintendermi, so per certo che è un movimento impercettibile. Eppure ti attraversa e ti fa sentire in salvo e orgogliosa di te stessa. Avevo un piano. Molly, la vicina di casa diceva a mia madre che ero intelligente, graziosa, e avrei fatto fortuna, mia madre rispondeva che nessuno può guardare più lontano del proprio giardino. E il nostro era un giardino pieno di rottami. Avevo un piano, dicevo. A trent’anni avrei già avuto una casa mia, un figlio e un lavoro da assistente. Non riuscivo a visualizzare il tipo di marito, i suoi vestiti, l’odore, o lo sport che avrebbe guardato in TV con gli amici. Vedevo le mie mani curate, il guardaroba, ero certa che il boss mi avrebbe scelta per gli incontri di rappresentanza e avrei studiato il francese e lo spagnolo, anche il cinese se fosse stato necessario. Ma quello che ti dico ora è una copia deforme del reale, degli ostacoli che vedevo davanti a me insieme alla difficoltà necessaria a superarli. Avrei potuto diventare una benefattrice, invece sono caduta mille volte nell’autocommiserazione. Non vorrei che pensassi che mi sento vittima delle circostanze, ho capito di essere le circostanze, proprio per certe forme di interpretazione della realtà.

Marcel Proust, la bellezza, le atrocità

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di Mauro Baldrati

“Se leggendo la Recherche la realtà mi balzava agli occhi e mi prendeva la gola, cosa era stata allora la mia vita, se non una finzione?”

E’ solo uno dei tanti passi citabili di questo straordinario ibrido, una sorta di analisi, e al contempo di atto d’amore verso il grande libro, che si compenetra con una riscrittura reality dello stesso. Durante la lettura entriamo nei ricordi personali dell’autrice, discendente da un’antica famiglia aristocratica, i duchi di Luynes, (il bisnonno probabilmente è stato uno dei modelli del barone Charlus), il principe Murat, il re di Napoli bonapartista. Una macchina del tempo che, proprio come nella tecnica di Proust, ci introduce in un mondo fantascientifico fatto di ricerca ossessiva dello stile, di eleganza, di modestia esibita, di “tecnica del corpo e del controllo posturale, tutti elementi che rivelano a prima vista l’aristocrazia, un sistema fondato sull’ineguaglianza per nascita”. Ovvero: il sistema della Recherche, lo stesso dell’autrice.

La tenace lettrice di Proust è dentro l’opera, la vive oltre che leggerla e, proprio come il maestro, prima di entrare nel “mondo di forme vuote”, ne subisce il fascino, si abbandona con una dolce, perversa voluttà, all’attrazione del “levigato mondo nobiliare”:

A casa nostra i saloni di ricevimento vedevano sfilare il fior fiore della società gaullista, composta di aristocratici, politici e scrittori, da Ionesco a Gombrowicz. André Malraux e Louise de Vilmorin erano degli habitué, così come Corisande de Gramont, ingegnera di prodigiosa intelligenza, nipote della contessa Greffulhe (ispiratrice del personaggio della duchessa di Guermantes), nonché figlia di Armand di Guiche (grande e fedele amico di Proust) e figlioccia di Robert de Montesquiou (modello di Charlus). Non era la vecchia Francia antisemita e ultraconservatrice dei Courvoisier, piuttosto un compromesso tra Guermantes e Verdurin.

Attraverso i dialoghi, gli oggetti e i nomi emerge potente questo mondo separato, animato da una continua pantomima mondana, dove “il non-detto e il non-visto contano molto più della parola o del gesto, sempre misurati, calcolati, teatralizzati”. L’autrice, ancora bambina e ragazzina, già vive una terribile, silenziosa separazione dal sistema bloccato e sfavillante in cui il caso, la natura l’hanno fatta nascere. La sua omosessualità è una vergogna da tenere nascosta, una specie di dettaglio al quale mai si deve accennare. Come non pensare al triste stato degli “invertiti” del piccolo grande mondo proustiano? Un marchio dell’infamia che fa del narratore addirittura una voce omofoba, forse per godere di quella libertà espressiva concessa da una preventiva condanna?

Ma poi arriva la scoperta. La lettura. Marcel Proust, già esperto cronista mondano, meticoloso entomologo che classifica quelle farfalle multicolori, che registra quelle voci che sembrano filtrare dalle tombe di Spoon River, a partire dal secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, inizia l’opera di scavo. Dopo i giorni dell’infanzia, coi personaggi che entrano nel racconto coi loro fantasmi, i loro tic, e dopo quello straordinario romanzo nel romanzo che è Un amore di Swann, parte lo smantellamento dall’interno di quella “realtà che trapela sotto il lucente strato superficiale. Questa realtà è il vuoto.”

Laure Murat naviga all’interno delle Recherche, segue il narratore mentre esplora i territori desertificati del “bel mondo”, manipolando i personaggi qua e là isterici, volgari, crudeli e meschini che si nascondono dietro le maschere aristocratiche. Non lo fa con la denuncia, ma vivendoci accanto, affrontando le trappole della seduzione che esercitano le “differenze di trattamento tra le classi sociali”. Ne svela anche l’ignoranza, la cultura limitata e dozzinale (a parte Swann naturalmente, un suo esploratore particolarmente efficiente, e il Re dei Re, il terribile barone Charlus, che si staglia come una stella luminosa sulla flotta di supernove che vanno alla deriva). Scrive nel Tempo ritrovato: “Avevo frequentato abbastanza le persone di mondo per sapere che i veri illetterati sono loro e non gli operai elettricisti”.

Da questa navigazione, pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, la Murat capisce dove si trova. Prende coscienza che “Alla ricerca del tempo perduto è la più sottile e crudele critica dell’aristocrazia francese mai condotta dalla letteratura”.

Quel mondo è il suo mondo. Quei “personaggi che alla fine si rivelano tutto il contrario di come sembrano all’inizio” sono i personaggi del suo ambiente, i suoi parenti e i suoi genitori, che disvela con ritratti impietosi.

Questo era lo spazio – e la poetica – che mi offriva Proust in un solo libro: una riflessione in perpetuo divenire agli antipodi delle trite genealogie, la certezza della mia reintegrazione nel consesso umano a fronte di una esclusione dall’ambito familiare, un paesaggio dove evolversi di continuo al contrario degli immutabili soggiorni nel castello eterno. Passavo così da una lettura verticale del mondo, monolitica, gerarchizzata, autoritaria, ereditata dall’Ancien Régime e dal XIX secolo, a una lettura obliqua dell’universo, plurale, globale e a tre dimensioni. Dalla clausura all’apertura. Dal passato all’avvenire.

Arrivata al punto giusto, pellegrina e straniera, liberata e consapevole grazie all’esperienza letteraria della Recherche, Laure Murat abbandonerà per sempre il suo ambiente, rinunciando al titolo e all’eredità. Si trasferirà a Los Angeles, dove insegna all’Università, con la sua compagna.

Forse dalla commistione di analisi letteraria e autobiografia questo libro è anche una interessante novità nella sterminata critica proustiana, e si potrebbe collocare accanto a quel formidabile pamphlet senza tempo che è Marcel Proust e i segni di Gilles Deleuze.

E noi, anche da questa lettura nella lettura, capiamo che la Recherche non è un libro sull’aristocrazia, ma sulla vita stessa, e sulle persone, sulle maschere dietro cui ci nascondiamo, vivendo una vita a due dimensioni.

Uno sfregio doloroso

Però questo testo saggistico/narrativo redatto con una scrittura ricca e raffinata contiene una trappola. Mimetizzata e imprevedibile.

Marcel Proust frequentava il sordido bordello Hôtel Marigny, in rue de l’Arcade, gestito da Albert Le Cuziat, un tipo ambiguo, colto, raffinato, un “blasfemo di grande moralità” (che sarà l’ispiratore di Jupien). Mentre l’autrice descrive questa sezione del libro, commentando la diceria per cui Proust cedette i mobili di famiglia alle sale dell’Hôtel (falsa, a quanto pare li regalò a Le Cuziat, che li trasferì, con suo grande rammarico, nel bordello), il lettore ambientalista-animalista d’un tratto incappa in questo passo a pag. 185, che gli raggela il sangue nelle vene:

Le testimonianze riferiscono che all’Hôtel Marigny Proust, stentando ad arrivare a un orgasmo sostanzialmente onanistico, si facesse portare dei topi in gabbia chiedendo che venissero infilzati con spilloni da cappello, poiché solo questa messinscena gli permetteva di raggiungere l’obiettivo.

Il lettore che per trent’anni ha letto, riletto e studiato la Recherche stenta a credere ai suoi occhi. Non intende dare nessun giudizio morale, ognuno è libero di fare ciò che vuole di se stesso, del proprio corpo. Può praticare il sadismo, il masochismo (ma sempre con partner consenzienti), il voyeurismo, l’onanismo, e nulla di tutto questo incide sulla sua dignità e sulle sue opere. Conosce e approva il Contre Sainte Beuve, il libello nel quale Proust teorizza la separazione dell’opera dal suo autore. Ma provocare dolore e una morte atroce a creature innocenti e indifese per il proprio piacere è ignobile, un atto di assoluta vigliaccheria.

Tutta l’impalcatura trema. Dov’era il narratore, sensibile, poetico? Dov’erano i segni dell’arte? E le madeleine? Nel sangue e nei contorcimenti di quei topi in gabbia?

Il trentennale lettore ambientalista-animalista cerca una soluzione. Questa scena non può, non deve interferire con la maestosità dell’opera, non ha il diritto di infangarla. E’ una miseria del suo autore. Casomai occorre cancellare quella forma di adorazione verso il genio, che fa dei proustiani non dei semplici lettori, ma dei devoti. Disapplicando, di fatto, proprio il Contre Sainte Beuve. Oppure “perdonando” chi, come Hemingway, uccisore seriale di leoni, elefanti, rinoceronti, a un certo punto, avvelenato dalla violenza che si portava dentro, ha rivolto il fucile contro se stesso, raggiungendo le sue vittime. Così Proust, torturato dal suo demone fin dall’infanzia, è stato costretto ad ammalarsi di un’asma letale che lo ha portato a una morte prematura.

O ancora, consolarsi con la possibilità che quelle “testimonianze” siano in realtà maldicenze prive di fondamento, come il Rimbaud trafficante di schiavi, per il quale non esistono indizi certi. Purtroppo se a riportarle è Laure Murat, c’è il caso che siano attendibili.

Infine, il lettore devoto dopo una sofferta riflessione può concludere che, proprio grazie alla sua disperata, sadica perversione, l’uomo di nome Marcel Proust, ha potuto creare il suo capolavoro, prima della fine.

Ma che delusione però. Che dolore. E che rabbia, per l’amara consapevolezza che, dopo quella lunga, esaltante avventura letteraria, nulla sarà più come prima.

 

 

 

Viaggio nelle stanze, e nell’isola, di Rossana Rossanda

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Foto dell’autrice

di Anna Toscano

Un piccolo schedario da tavolo, di quelli rotativi, le lettere dell’alfabeto spiccano maiuscole bianche su fondo blu, è appoggiato, accanto a un abatjour a base esagonale, sulla pelle verde filettata in oro del piano di un tavolo in mogano con tre cassetti, la sedia poco scostata, ai lati pareti di librerie colme di volumi, davanti tre finestre che danno sul cielo. Il cielo sull’isola della Giudecca, a Venezia. Il tavolo è quello di Rossana Rossanda e di K. S. Karol, gli arredi sono appartenuti a loro, come la biblioteca e le suppellettili varie di questa stanza e di quella attigua in cui ci sono un divano, una poltrona, un tavolo basso e altre librerie. Non è difficile, nei giorni di cielo non troppo nitido – quando non c’è il fenomeno dello “stravedamento” che permette di vedere le montagne come fossero quasi a distanza di una carezza – travisare il panorama oltre i rami degli alberi, non è difficile nel silenzio di questa zona a sud della Giudecca confondersi, pensare di essere altrove, ovunque, o qui.

Le due stanze sono nello spazio più alto, all’ultimo piano, di Villa Hériot, una costruzione al di fuori del comune con una vicenda che non passa inascoltata. La storia fa un balzo all’indietro se pensiamo alla nascita di Rossana Rossanda, un secolo fa, e alla nascita di questa villa: lasciamo per qualche riga il tavolo di Rossanda lì dove l’abbiamo appena visto e guardiamo il terreno, la terra su cui è costruito questo luogo incredibile.

Siamo agli inizi del XX secolo in una fetta di terra, l’isola della Giudecca, territorio di fabbriche e di edilizia popolare ma anche luogo prediletto da stranieri facoltosi che cercano terreni per trasformarli in giardini e costruirci case per trascorrerci alcuni periodi all’anno. Tra loro il francese Hériot qui compra il terreno di una ex saponeria e vi fa costruire due edifici progettati da Raffaele Mainella, un architetto dalla preponderante vena artistica.

In un grande parco affacciato sulla laguna, con all’interno due grandi edifici in stile neobizantino, un neobizantino eclettico e bizzarro, una bassa costruzione per la servitù, una fontana, panchine, stanno le care cose di Rossanda. L’insieme costituisce villa Hériot: nel 1947 diviene proprietà del comune che ne fa una scuola pubblica votata all’accudimento di bambini con particolari problematiche di salute, sperimentando così, nella grande aerea all’aperto tra alberi e arbusti, curative lezioni all’aperto. Ora la villa è sede della Società Europea di Cultura, dell’Università Internazionale dell’Arte, della Casa della memoria del Novecento veneziano, e dell’Iveser, Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea.

Con l’Iveser ritroviamo Rossanda in un legame strettissimo e immaginabile, quello col territorio e la storia del territorio. Lei tra il 1930 e il 1937 vive a Venezia, al Lido, dove frequenta le scuole e instaura le prime amicizie, successivamente mantiene vivi i rapporti con la città e con molti veneziani, vi torna con una intensa attività politica negli anni Sessanta: tra frequentazioni con altri intellettuali e proteste studentesche la vive con passione e interesse. La città lagunare è nel suo cuore: lo scrive nell’autobiografia La ragazza del secolo scorso (Einaudi) e lo diceva spesso, come riporta Luciana Castellina, che Venezia era la sua città e quando ci tornava, tornava a casa; lo definiva “l’unico luogo” di cui era “nostalgica”. È stata questa sua dichiarazione ad aver persuaso Doriana Ricci, erede e interprete della sua volontà, a dire a Luciana Castellina “Dobbiamo fare qualcosa per Rossana Rossanda a Venezia perché Venezia è la sua città”. Da qui la donazione delle stanze di Rossanda e K. S. Karol, giunte nel 2021, con gli arredi e una biblioteca composta da circa tremila e cinquecento volumi comprendenti i libri scritti da loro, anche in diverse traduzioni, quelli su svariati argomenti di loro interesse e studio come saggi politici e filosofici sul mondo comunista, sulla storia politica italiana ed europea, sulla storia dell’arte e storia delle donne, molti i romanzi.

Foto dell’autrice

Dopo diverse iniziative su “Le stanze di Rossana”, nel giugno scorso c’è stata anche una mostra, sempre a cura dell’Iveser, con molto materiale trovato all’interno degli scatoloni della donazione. Non solo libri, infatti, ma documenti, reperti di giornali, lettere, album fotografici che ritraggono Rossanda nella vita privata e in quella pubblica.

Arrivare da una calle che finisce in laguna, fermarsi all’ultima entrata a sinistra, accedere attraverso un cancello di ferro, spesso cigolante, nel grande parco, la laguna a destra e a sinistra la prima delle due ville, procedere attraverso un altro spazio verde e poi la seconda villa. Entrare in questa, scalino dopo scalino, rampa di scale dopo rampa di scale, fino all’ultimo piano, alle due stanze, le sue due stanze, in cui non vi è nessun rumore se non quello dello scricchiolare del legno del pavimento, e sostare tra i suoi libri, quadri, suppellettili, fotografie, oggetti, è come una immersione nella vita di Rossanda, un’immersione per immagini e parole, una specie di “Romanzo di figure” alla Lalla Romano, ma anche un viaggio nella storia del paese e all’interno di villa Hériot.

Guardare lo schienale della sedia che è appena scostata dal tavolo e andare immediatamente con gli occhi a destra perché forse lì c’è lei, si è appena alzata e cerca una citazione in un libro. Lei che ha scelto Venezia per il tempo eterno, per l’aldilà, come la madre di John Berger che ha scelto Lisbona. Ce lo racconta Berger in Qui, dove ci incontriamo (Bollati Boringheri): nel primo capitolo narra che in un mercato di Lisbona, tra molta gente, ha scorto la figura della defunta madre e che l’indomani l’ha incontrata all’acquedotto nella calma del silenzio, lì lei gli svela che ha scelto la capitale portoghese per l’eternità: “Come fanno, i morti, a scegliere dove vogliono stare? Invece di rispondere, si è raccolta la sottana e si è messa a sedere sul successivo gradino della scalinata. Ho scelto Lisbona! ha detto, come se ripetesse qualcosa di molto ovvio”, e poco dopo gli svela che il padre invece ha scelto Roma, pare per il colore di una tovaglia.

Plausibile dunque che, come molte persone hanno scelto di vivere a Venezia e molte altre di venir seppellite nell’isola di San Michele, chissà quante avranno chiesto di trascorrere qui l’eternità. E non è difficile capirlo alla mattina presto al mercato di Rialto, quando solo i gabbiani fanno eco alle cassette che scaricano pesce, frutta e verdura, quando la scopa di saggina dei pescivendoli prepara i “masegni” per gli avventori e si ferma di fronte a sagome dalle sembianze note. Passa spesso un uomo con la sciarpa rossa, una donna col ciuffo bianco sui capelli neri, uno in tabarro e molti altri: Mario Stefani, Susan Sontag, Mariano Fortuny e chissà quanti si ritrovano qui, probabilmente attendono Rossanda Rossanda che dalle sue stanze nella parte sud della Giudecca ci mette un po’ ad arrivare.

Ho ancora le mani per scrivere, a cura di Aldo Nicosia

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“Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza” raccoglie 222 testi di numerosissimi autori di Gaza, scrittori, poeti, giornalisti o semplici cittadini. Il sottotitolo dell’originale sottolinea che si tratta di testimonianze min dakhil Ghazza (“dall’interno di Gaza”), cioè scritte da palestinesi che vivono nella Striscia.

Diffuse perlopiù dai social networks, sono riportate in ordine cronologico, coprendo un periodo che va dall’ottobre del 2023 fino al settembre 2024. Mutuando un’espressione tipica del linguaggio militare, esse sono state composte a “distanza zero” dal teatro degli eventi che li vedono coinvolti, non da semplici spettatori, ma da attori, testimoni oculari, auricolari e con tutti gli altri sensi, sensazioni ed emozioni.

Il ricavato del libro andrà a sostegno della popolazione di Gaza attraverso l’associazione “Gazzella”

Da “La luce inversa”

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[Pubblichiamo un estratto di Mota, La luce inversa, Wojtek, 2025]

di Mota

 

Martin

L’essenza di questa sorta di guerra sta nel non dimenticare mai quanto si sia arrivati vicini a perderla. Malgrado la vittoria stessa appaia impossibile; sono piuttosto l’assiduità di un compromesso, la desquamazione dovuta all’addestramento e all’autodifesa, che nel proteggere una cosa inevitabilmente ne portano in superficie il nucleo fragile o indebolito, lo strato sottostante che non fa in tempo a rigenerarsi, prima che un nuovo scontro venga a comprometterne e a distruggerne i vulnerabili equilibri.

Sto per infrangere tutte le regole, le promesse, le buone maniere. Sto per rompere gli indugi.

Perché tutti, tutti noi, traiamo origine e sostentamento da un trauma.

Ho inchiodato il ricordo al muro di ossa che mi porto dentro, come un manifesto, e l’ho dissacrato attraverso la fame più assoluta che si possa concepire. Ho imposto al ricordo l’inedia implacabile, con essa l’ho torturato. Ma non moriva. Allora ho accettato che tra di noi fosse guerra perenne. Così l’ho risollevato dalla sua carcerazione preventiva, perché non potevo accontentarmi di un nemico azzerato. Una volta ripresosi, quel ricordo falciò e divorò tutti gli altri ricordi, tutti quelli buoni e perfino quelli mediocri, intridendo la mia casa di voci spettrali che ne infangassero e ne potessero maledire i risvegli. Tentò di manomettere ogni forma d’amore, o di semplice affidamento, e probabilmente ha ottenuto un successo superiore alle aspettative. E dopo anni di ingannevole pace, con appena un grammo di me da lasciare al rimorso, mi sono visto costretto ad azionare la macchina d’assalto, la fiamma carnivora del linguaggio che vuole solo oltrepassare, e a impugnare strangoli di ghiaccio e forbici da potatura stellare e a salire su giostre di offesa perpetua e a vibrare all’unisono con i sistemi nervosi dei terremoti; quando un uomo è sempre pronto a morire padroneggia la via, che sarà il pellegrinaggio dell’occhio dell’anima, e la via dei guerrieri.

L’oscurità possiede un colore, un caratteristico colore denso, abissale, una tessitura che il buio ordisce e regola, come se numerose mani di vernice fossero state sovrapposte dapprima caoticamente e via via con sempre maggiore metodo; una specie di riflesso negativo, che a fissarlo troppo a lungo ti si appiccica agli occhi.

Sdraiato nel suo letto, il bambino sta osservando il buio. È voluminoso, sopra di lui, una gelatina oceanica che occupa tutta la stanza. Il fratello minore dorme, respirando regolarmente, nel letto a due passi dal suo, verso la parete. Il padre dorme nella camera al di là del muro; la mattina si alza molto presto, all’alba, malgrado non sempre sia necessario, è solo un’abitudine inveterata, prepararsi il caffè e andare a comprare il giornale e la focaccia per la colazione dei figli; la porta della grande camera da letto dei genitori è appena accostata. La madre dorme in salotto, sul divano, davanti al televisore acceso; ma l’audio è al minimo, le voci e le risate e gli applausi e le sigle divisorie e consolatorie di quell’irraggiamento radiotelevisivo notturno si disperdono per la casa, ingoiate dalle tende e dall’intonaco, come molecole di suono troppo deboli per sperare di sopravvivere a più di mezzo metro di distanza dallo schermo. Richiami lontani, di naufragio. E furtivi riflessi azzurrognoli di lavatrici ultraeconomiche e serial killer sadici, sul pavimento.

Sembra una di quelle notti in cui si vorrebbe solamente gridare.

Non può continuare a osservare tutto quel buio e quel silenzio. Il bambino socchiude gli occhi, facendo affidamento su esili spiragli tra le palpebre per assicurarsi che nessuno volteggi o cammini o strisci lì fuori, che nessuno possa trasportarsi con un fruscio scheletrico da un lato all’altro della stanza, minacciando lui o suo fratello. Però, anche così, la profondità di quelle ore inanimate lo soverchia, e il bambino non possiede i mezzi per opporvisi. Pur riparato dagli strati di due trapunte, completamente nascosto, coperto fin sotto il mento, unicamente la testa fuori, la testa con il naso e la bocca per respirare e gli occhi per sorvegliare e all’occorrenza spalancarsi di colpo, nonostante quello scudo difensivo comune a tutti gli eserciti di bambini privilegiati dagli albori della civiltà privilegiata, questo bambino sente freddo e sa che il freddo non proviene dall’esterno; strofina i piedi inutilmente, e se anche il leggero rumore dei talloni che sfregano contro il materasso lo conforta un po’, l’ombra continua a essere troppo reale, troppo dura e malsana e traditrice, quell’ombra infinita che opera per farlo soccombere. Ma forse una tecnica c’è. Esiste un modo per racchiudere il suo letto e la stanza e la casa e il cortile, e la strada fuori incantesimata dalla nebbia, e la città e le altre città e perfino l’intero pianeta, racchiuderli in un involucro energetico infrangibile. Il bambino, imprigionato tra le lenzuola, con il rimbombo delle tenebre che si estroflette dal pavimento e dalle pareti come un’orda di braccia da una forra per cadaveri, lui che non può far altro che starsene lì immobile, sudando e avvertendo tra le gambe il pizzicore di quando si finisce irrimediabilmente con il pisciarsi addosso, temendo che quell’attimo debba durare per sempre, o per sempre anche solo possa, ora quel bambino chiude gli occhi, serra con una severità statica gli occhi incattiviti che non riescono a prendere sonno, abbandonando ogni cosa al proprio destino.

Gesù, inizia a bisbigliare. Gesù mio, so che sei qui. So che mi stai ascoltando.

Prega il Figlio crocifisso e non il Padre onnipotente, perché non sussistono dubbi su chi ispiri maggiore simpatia, tra il Figlio e il Padre. E il bambino, senza che nulla possa ormai disturbarlo o affliggerlo ulteriormente, o distoglierlo, intimidirlo, né l’intercessione, né la domanda, senza esitazione di fronte ai vizi di forma, alle questioni aprioristiche, la potestà di Dio, l’autenticità evangelica, con il sussurro più impercettibile di cui sia capace, il bambino ora prega per raggiungere semplicemente uno scopo.

Da quel momento, sembra che tutte le costellazioni del cielo e le contrazioni cardiache prodotte da ogni bestia mai nata stiano pulsando all’unisono. Per lui. Per riscaldarlo.

Anche se non sono stato bravo, so che mi aiuterai. Ti prego, Gesù, aiutami. Ti prego. Ecco, ho fatto di nuovo l’arrogante, come dice la maestra. Perdonami. Tu mi aiuterai se vorrai aiutarmi, sia fatta la tua volontà, sempre. Gesù, Gesù, potrai mai perdonarmi, ora che ho sbagliato di nuovo?

S’incrina, qualcosa di colpo s’incrina. Immediatamente quel buio argilloso e rampicante, al quale vengono date in pasto le anime difettose, difettose come la sua, quel buio si allunga e si rafforza, incalzandolo. Per un istante la realtà torna viva; il sudore che gli incolla il pigiama al corpo, il sonno costante di suo fratello, i suoni spiccioli che dalla tv si consumano in una lontananza sleale.

È il colore, è la pressione atmosferica dell’oscurità. Il bambino vorrebbe accendere la lampada sul comodino, ma è tardi, teme di svegliare sua madre, ha ben presente come reagisca in quelle circostanze, lei, destatasi di colpo sul divano, con una corsa spazientita oltre la soglia della cameretta, lei che gli chiede bruscamente perché ancora non stia dormendo, quella domanda che non è una domanda bensì un’accusa, un modo a doppio taglio di esercitare la premura; per cui ci ripensa, e non fa nulla. Come se l’insonnia, quando riguarda i bambini, meritasse piuttosto una condanna senza appello che non un moto di empatia.

Non sbaglierò più, te lo giuro. No, giurare è peccato. Te lo prometto, così va meglio. Ho bisogno del tuo aiuto, Gesù, e sai che ti seguirò per tutta la vita, pregherò e sarò buono e non dirò le bugie e da grande diventerò una brava, bravissima persona. Ma adesso proteggimi e non farmi morire. Proteggi quel mio fratellino che dorme tranquillo, non permettere che apra gli occhi in mezzo a tutto questo buio. Proteggi me e mio fratello, e mamma, proteggila sempre e non farla morire, e papà, proteggilo sempre e non farlo morire. Gesù mio, so che mi ascolti e ti ringrazio per tutto quello che mi hai dato. Perdona mamma e papà, forse loro non ti ringraziano spesso per tutto quello che ci hai dato, ma anche loro credono in te e sono buoni nel profondo del cuore. Dona loro la grazia e la fede, come dice il parroco, sii misericordioso. Ti prometto che starò zitto in classe e non riderò durante la messa, da oggi in avanti starò sempre zitto e non farò l’arrogante. Proteggimi e rendimi forte, non farmi morire, Gesù. Proteggi e non far morire la mia famiglia. Proteggi la maestra, i miei compagni, il maestro nuovo che in fondo è simpatico, proteggi i miei zii e i miei cugini e quelli della mia squadra di calcio ai giardinetti e anche quelli della squadra avversaria, e non farli morire. Proteggi i nonni e… Gesù, proteggi gli altri nonni e non farli morire… ma

lui

no… lui no…

Gesù, ti prego e ti supplico… lo sai quello che intendo, hai visto quello che fa… io lo so che deve andare all’inferno, e se sono stato cattivo e sono sporco allora andrò all’inferno anch’io, perché ho fatto la stessa cosa che fa lui. Non la farò mai più, Gesù. Lo sai, lo hai sentito, lui ha detto che è normale, che è una cosa normale, una cosa solo tra noi due, lui mi vuole bene, però se lo racconto a qualcuno andrò all’inferno con lui. Dice che siamo uguali, ormai. Dice che siamo maledetti. Mi fa schifo questa cosa che siamo maledetti, mi fa venir voglia di vomitare e vorrei urlare, e non so nemmeno se è la verità, Gesù, se fa star male, se è una specie di malattia, ma so che è una cosa sbagliata. Posso parlarne solo con te, lui non saprà mai che ne parlo con te. È un segreto. Tutto è un segreto. E non so se mi piacciono, i segreti. Lui mi ha fatto vedere il pozzo dove finiscono i bambini che raccontano i segreti, però ci ha messo sopra una lamiera perché dice che mi vuole bene, che mi vuole bene più di tutti gli altri messi assieme, non vuole che mi succeda qualcosa e io non devo assolutamente avvicinarmi al pozzo. Tanto non lo so a chi posso dire questa cosa, solo a te, nessuno mi crederebbe, non so proprio come dire questa cosa a mamma, mi vergogno, quando stavo per parlare con lei che mi sgridava ho sentito la gola che si chiudeva e mi mancava il fiato, mi viene il singhiozzo, mi manca l’aria, sento che sto per piangere e soffocare, qualcosa mi schiaccia la gola e il cuore si stringe e si blocca. Lui ha detto che mi succede così perché non devo dire nulla, è da quello che capisco che non devo dire nulla. Quando mi parla a bassa voce e si avvicina a me con quella faccia… non mi succederà niente, se mantengo il segreto. Mi starai vicino, Gesù? Posso mantenere il segreto per tutta la vita, se tu mi dai la forza, Gesù, se mi proteggi e non mi fai morire per questo. E se lui non tocca un altro. Nessun altro, ma prima di tutti mio fratello. Gesù… lui non lo tocca, un altro, io lo controllo ma devi controllarlo anche tu. E intanto proteggi tutti noi, e non farci morire. Ma lui non proteggerlo. Fallo morire se puoi. Fallo morire subito. Se lui muore, il segreto scompare, tutto scompare. Fallo morire. Non devo dirlo, è vero, è un brutto peccato. Perdonami, Gesù, continuo a fare l’arrogante, come dice la maestra, e a commettere peccati orribili, ma mi ricordo cosa ha detto il parroco dei peccatori. Che tu avrai pietà dei peccatori, che lo Spirito Santo scenderà anche su di loro. Dammi la forza, insegnami cosa devo fare per non commettere più peccati. Io voglio venire con te in paradiso. E ti chiedo scusa, Gesù, non tenere conto di quello che ti ho detto, cancella tutto. È colpa mia, colpa mia, colpa mia. Ho paura di morire e di andare all’inferno, ma sono nelle tue mani, così il buio va via e tu puoi salvarmi. Guarda dentro di me, vedrai che sono sincero, però… guarda dentro di me, guarda dentro di me, solo questo, Gesù. Perché se guardi dentro di me non ci sono più segreti, ma solo la verità… grazie di avermi ascoltato, Gesù. Grazie. E adesso fammi addormentare, ti prego, fammi addormentare. Amen…

Il bambino, al centro del buio, sente le lacrime che gli sfuggono dagli occhi chiusi, scivolano tra le ciglia, vanno a bagnare il cuscino. Ha sei anni, forse sei anni e mezzo. E certi aspetti del mondo non si possono recidere e gettare via perché il resto continui a sembrare incontaminato.

Ma adagio, sorgendo quasi fosse un ruscello, un’interferenza pacifica che si riversasse nella stanza in opposizione a quel ristagnare di tenebre, la stanchezza finale permette al bambino di allentare la tensione del collo e del torace, delle mandibole, delle gambe, di tutti i muscoli e i nervi dell’organismo; e il suo pianto è davvero corto, infinitesimale. Qualcosa dilaga nel buio, trasformandolo in un buio normalissimo, un buio nel quale sarebbe possibile perfino dormire.

E il bambino è talmente fragile, adesso, da credere che la salvezza sia reale. E, se non la salvezza, almeno una cura. Temporanea. Un sentimento, breve e indefinito, le cui conseguenze tuttavia apparissero, a un primo impatto, identiche alla salvezza.

Nuotiamo in questo cielo terso, dove non ci sono direzioni più valide di altre.

Luce Inversa, è così che si chiama.

Lo stato di regressione più avanzato ed evidente è quello di Siddiq. Ogni tanto perfino i lineamenti del suo volto paiono ringiovanire. Ma dal punto di vista fisico è quello che ha reagito meglio; si muove con agilità e scioltezza, si libra negli spazi come erba che dopo lo sfalcio venisse trascinata dal vento, le braccia che si dibattono con invidiabile sincronia, sbucando quasi fossero modanature di una carrozzeria brunita dalle maniche della t-shirt arrotolate sulle spalle. È qualche metro avanti a noi, costantemente qualche metro avanti a me e Vanessa.

Lei, invece, non riesco a inquadrarla. Il suo timore di perdere tutto non si armonizza con quella che riconosco come un’innegabile forza. Se per ora resiste, se avanza con noi, immagino che sia a causa dell’improvvisa paura di rimanere sola; la paura di deragliare, di smarrirsi. Ancora una volta.

Vanessa è bella, bella in quella che sembra l’unica maniera della bellezza, ed è caparbia. Ma voglio soprattutto che sia consapevole.

Qui non ci stiamo giocando un’opportunità.

Ci stiamo banalmente giocando tutto.

L’amico chimico di Primo Levi

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di Pasquale Vitagliano

Chiamatelo Ferro. All’anagrafe è Alessandro Delmastro, nato a Torino il 7 settembre 1917. Chimico come Primo Levi, che a lui dedica il racconto Ferro de Il sistema periodico e La carne dell’orso, nel quale, però, porta il nome di Carlo. Amante della montagna e capo partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà.  Svegliarsi adulti. Vita di Sandro Delmastro, capo partigiano e amico di Primo Levi (Einaudi, 2025) è la biografia che Roberta Mori gli ha dedicato. Ricercatrice del Centro Studi Primo Levi, la Mori è riuscita a vascolarizzare la sua solida ricerca, tra documenti, corrispondenza e scritti inediti, con quella passione personale che può impegnare un’intera esistenza. Pertanto, questa biografia, in bilico tra personaggio letterario e drammatica testimonianza storica, irradia un luce aurorale generativa di nuovi sentieri di lettura e di studio. Non è solo la storia di Sandro, è la storia di un’intera generazione che ha arato e seminato il terreno della libertà.
Primo e Sandro si erano conosciuti all’università. Presto l’amicizia era nata tra loro. Eppure, non erano affini, non lo erano per origini, né per carattere. In comune, però, avevano l’amore per la montagna. Il padre di Sandro faceva il muratore, ma i suoi antenati erano stati fabbri e calderai nelle valli canavesane, dove d’estate da ragazzo aveva fatto anche il pastore. “Nella descrizione del carattere di Sandro”, scrive la Mori, “il confine fra realtà e letteratura si fa sottile”. La figura di Sandro risente dei personaggi avventurosi di Jack London, ma “è anche lontano parente del capitano MacWhirr, il protagonista di Tifone di Joseph Conrad”. Insomma, ci troviamo di fronte a un personaggio reale che proietta una sua luce speciale, quasi addirittura sapienziale e magica. Levi conserva una foto con Sandro che a tremila metri, a febbraio, mangia tranquillamente a torso nudo sotto il nevischio. Esprime una forza attrattiva che cancella tutto quello che sta intorno, anche i drammi della storia. Ad un certo punto Sandro scompare. Non abbiamo più sue notizie del periodo in cui egli è un ufficiale della Regia Marina. Lo ritroviamo, dopo l’otto settembre, in montagna, a 1480 metri in Val d’Angrogna, sopra Pra del Torno. In ottobre è stato nominato comandante del gruppo del Sap del partito d’azione. Anche Primo era in montagna, in Val d’Aosta, dove si era rifugiato con la madre e la sorella. Primo fuggiva, Sandro si nascondeva. Primo avrebbe voluto combattere, “ma non sapeva da dove cominciare”. Sandro, nella volontà di “dir no fino in fondo”, era diventato una “protesta vivente”. Arrestato dalla famigerata formazione fascista Ettore Muti, Alessandro Delmastro venne prima torturato, poi ucciso, nel tentativo estremo di mettersi in fuga, da un soldato bambino. Il cadavere venne lasciato sul selciato come monito orrendo. Quando considerarono terminata l’esposizione pubblica, gettarono il corpo inerte sopra un furgoncino dei rifiuti “con ostinato disprezzo”.
L’apparato fotografico confluisce dentro il percorso di ricerca, non ne è semplice corredo. Per quell’effetto che Sciascia seppe fissare con la parola entelechia, le foto proiettano il carattere di Delmastro, contestualmente ne prefigurano il tragico epilogo. Esemplare è la foto di copertina, con Sandro seduto su un sperone di roccia sulla Rocca Sella in Val di Susa; sembra rivolto verso “un altrove spazio-temporale”, come se guardasse la linea d’ombra della sua giovinezza che la guerra non gli consentirà di oltrepassare,
“Cara Ester, questo è il racconto dedicato a Sandro”. Tutto era cominciato il 24 maggio del 1974, quando Primo Levi spedì un breve messaggio alla sua vecchia compagna di Università Ester Valabrega, che di Delmastro era stata la fidanzata. Quel giorno Alessandro Delmastro era diventato Sandro. In un certo modo quella lettera segnava un dies natalis. La realtà, invece, vuole che egli sia sepolto a Zubiena, nella campagna piemontese. Ma il suo seme, davvero, grazie all’amicizia e all’amore per la memoria storica, è germogliato. “E’ stato raccolto e salvato”.

 

Sentimental journey

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di Carlotta Centonze

Provo ad aprire gli occhi, ma un dolore azzurro mi abbaglia. Quando calo di nuovo nel buio, come una molla le narici si allargano a far entrare più aria possibile. Il rumore della goccia di liquido che sento scorrere nel braccio è cristallino, il suo odore asettico mi punge fino alle lacrime. «Non si agiti, che altrimenti il liquido si riempirà di bolle.» La donna che mi parla ha un accento flemmatico, come se quello che ripete la annoiasse a morte. «Ci avevamo provato col primo occhio, ma lei è così ostinato. Le hanno dovuto azzerare anche il secondo.» Ora sento il suo profumo, un décolleté alla magnolia, ricco e carnoso. L’aria mi entra nel naso a fiotti, in risposta alla richiesta del petto su cui agisce una pressione costante, insopportabile. «La sterilizzazione parte dalla vista, è l’unico modo per mettervi alla prova prima dell’intervento definitivo.» Più parla, più ho la nausea. Appena la sento spostarsi, il suo odore viene rimpiazzato da quello troppo intenso di fiori recisi. Mi fa venire voglia di morire, su questo letto dalle lenzuola tirate e senza pieghe. Penso al mio corpo come a un imbuto, dentro ci passa un fiume schifoso, mi puntella e mi investe con la forza di un rigurgito acido e il suo puzzo marcescente mi cala in un sonno tondo come un uovo.

Il treno della metropolitana viene risucchiato dal buio della galleria, viaggiare è l’unico modo di sentire che i miei pensieri si spostano. L’aria che soffia dal tunnel è pesante del bruciato dei freni e dell’irripetibile mescolarsi delle nostre esalazioni.Sono in piedi vicino a un impiegato, ha la camicia zuppa di sudore e il fiato acre, diventa così insopportabile che mi sposto.
Mi siedo davanti a una ragazzina di tredici anni, è vestita per dimostrarne di più. Porta i capelli lunghi e folti sopra il viso, indossa un vestitino a quadri che sono sicuro sappia di sapone e sacchetti di lavanda.
Sono tentato di chiedere a sua madre di pagarla per lasciarmi la figlia a disposizione per una mezza giornata in studio.
Vorrei fotografarla, magari con Chiro. Poi cambio idea. Ultimamente appena concepisco un’impresa mi viene subito il desiderio di abbandonarla. Non credo sia rassegnazione o indolenza, piuttosto una persistente noia che mi impedisce di fare il minimo programma.
Il vagone piomba improvvisamente nel buio totale, l’aria si riempie di quell’olezzo ripugnante, mazzi di fiori che appassiscono.
Mi assale il panico, non so come farlo smettere.
Allora ho un’idea, apro la finestra, metto la testa fuori e poi mi lancio con tutto il corpo nella notte artificiale e profondissima.

Quando mi sveglio, mi ci vuole un po’ per capire dove sono. L’ospedale è dietro casa mia, non ho impiegato molto tempo ad arrivare e consegnare la busta che ho ricevuto nella buca delle lettere. Una convocazione d’urgenza ti piomba addosso e la giornata è da buttare. Ho maledetto il Ministero del Costume e ho preparato la borsa con un cambio.
Ora sono qui. Non vedo niente, se non nella mia testa, e finisco per pensare al passato, non avendo nulla da fare.
La donna di ieri non è ancora venuta. Mi rendo conto che vorrei fosse qui per coprire questo puzzo di fibra vegetale in decomposizione con il suo aroma familiare, di pane e olio di mandorle dolci.
Mi vengono in mente i suoi capezzoli, è lì che di sicuro si mantiene la nota più delicata del suo corpo. Pallide, maliziose, dolci roselline che solleticano il palato.
Ne ho visti di tutte le tipologie, li ho fotografati mentre il desiderio mi annebbiava la vista, ma questi non devo vederli per capirli, o almeno credo.
Mentre scatto delle immagini dei miei pensieri cercando di cristallizzare le pose delle sue gambe aperte verso di me, mi ricordo che ho sentito il suo odore nel buio della galleria, mentre sognavo.
Forse anche nel sonno le infermiere spiano per controllare l’esito della sterilizzazione?
Mi abbandono allo sconforto, e niente mi sembra più triste di non poter ammirare quei capezzoli.

Sto camminando sul lungomare inondato di sole.
Il mattino è gentile, canto una vecchia canzone, che forse ho appena inventato.
Mi ricordo che devo correre, gli altri mi aspettano. Quando arrivo al vicolo dove ci riuniamo sempre per tirare con la fionda, mi rendo conto che non vedo più nulla. Provo a urlare, ma non esce alcun suono.
Riconosco l’alito caldo di Abe, un fiato che sa di brodo di pollo anche se sta mangiando una frittella del venditore ambulante. Dietro al mercato, dove giochiamo, l’acqua si concentra in pozze tiepide che esalano i liquami degli scarti vegetali – cipollotti, funghi – ma anche delle budella animali – di galline, anatre e maiali.
Quell’odore mi commuove, per ragioni inspiegabili è come se creasse un tutt’uno olfattivo con le minestre bollenti della nonna, il vapore speziato che sale fino al soffitto in nuvole spesse.
Al buio non so usare le bacchette, allora provo a prendere gli spaghetti ficcando la mano intera nel piatto, sorprendendomi della mia stessa idiozia.
La mano, scorticata, puzza come una braciola di maialino da latte.

Non mi sono mai vergognato di dire che ho iniziato a usare la fotocamera per immortalare le donne con cui riuscivo ad andare a letto. Portavo poi le prove ai miei amici, che trovavo seduti nella nostra stanza, troppo piccola per starci in tre.
Ho sempre pensato che la vista conducesse tutte le mie azioni, ma non ne sono più sicuro.
«Lei reagisce benissimo alle cure, è uno dei migliori pazienti a sottoporsi alla prima fase del programma. Sta dando ottimi risultati.»
L’infermiera mi tocca dolcemente la fronte con la mano, il suo calore è rassicurante.
Vorrei che si sdraiasse vicino a me, per poter poggiare la testa sul suo petto e respirare il suo corpo, il collo, le ascelle.
Non so cosa dirle, le sue parole suonano false, come se le avesse ripetute troppe volte per dargli ancora un senso.
«Cosa succederà ora?»
Spero che non si sia accorta dell’angoscia nella mia voce.
Anche se quello che mi ha detto fosse falso, voglio coltivare l’illusione di essere davvero il suo paziente preferito.
«Non c’è fretta. Nei prossimi giorni le spiegheremo con calma la procedura.»
«Per quanto tempo dovrò stare ancora qui?»
«Per tutto il tempo necessario. Dovremo aspettare che la sua attività onirica si annulli, in modo da interrompere qualsiasi stimolo visivo del suo cervello. Vedrà, le piacerà e non vorrà più tornare indietro.»
Capisco che non era una coincidenza che i miei sogni fossero sempre più oscuri.
Non ci sono più dubbi che l’infermiera abbia visto le immagini prodotte dalla mia coscienza addormentata, e la cosa non mi dispiace.

Sono in un locale pieno di uomini.
L’unica ragazza che è nel bar è nuda e cammina da un lato all’altro del lungo tavolo, avanzando leggera, una vera coquette. Gli uomini la guardano e la toccano sulle gambe. Lei allora si china e le allarga. Loro scrutano in mezzo alla fica, schiusa come un frutto maturo, e avvicinano il naso e l’occhio alla fessura umida. Si spintonano per osservare, mentre la ragazza li lascia fare paziente. Un uomo le allarga le labbra tirando la pelle lucida e molle, vuole vedere meglio. Lì per lì non capisco cosa li attira, ma quando è il mio turno ne sono ammaliato e ci guardo dentro sperando di scorgere le mucose, di trapassare le viscere e scoprire infine l’ultimo segreto rimasto intatto, cioè il mistero del tempo.

La donna da una diventa molte, legate e vibranti. Calato nel buio d’improvviso, come un gattino cieco mi spingo anche io verso le loro cavità corporee, annusandone l’umidità stantia, cos’è questo odore di uovo? Una di loro partorisce una piccola sfera, e così tutte le altre. Lecco la pelle con i peli e il sudore eccitante delle ascelle e dell’inguine, le bocche piene emanano un lieve sentore di carne cruda, le nuche profumano di cuoio capelluto. Sto per lanciarmi sul culo e sui piedi di una ragazza bellissima, dopo che la vista improvvisamente è ritornata nitida e la vedo accucciata.
Fotografo quel momento in cui sembra che sia già morta: un feto, un uovo perfetto e bianco.
Ora che la vedo da vicino, la riconosco.
Un dolore dolciastro al petto e allo stomaco si espande in tutto il mio corpo.
Izumi.
Amore mio, sembri una barchetta sul fiume, il tuo alito di vegetazione mi sveglia il ricordo di tutta la vita insieme, ne ho scattato ogni momento, scoprendo che non potevo pretendere di conoscerti.
Vorrei abbandonarmi al tuo calore, al profumo dei tuoi angoli che è l’unica cosa che di te conosco bene.
Invece posso solo guardarti, e questo non basta affatto.

«Si svegli.»
Apro gli occhi, ancora intorpidito nel dolore ovattato del sogno. La vista mi è tornata, non è un buon segno.
Vedo l’infermiera per la prima volta, è brutta. Disprezzo le donne così poco curate e allo stesso tempo desiderose di attenzioni. Da quando sono qui non ha mai abbandonato quel suo tono accondiscendente, come se il trattamento riservato a me non fosse lo stesso che per tutti gli altri pazienti.
«È contento, vedo.»
«Veramente non so cosa pensare.»
«Meglio così, non c’è tanto da fare. Almeno ci abbiamo provato.»
Il suo viso non ha nulla di interessante, è una di quelle persone che danno l’impressione di non lavarsi mai i denti, il mio cervello ne ha già creato la puzza. Non sento più la fragranza di pane dei seni caldi. Tutta la sua figura mi crea una nuova nausea che mi schiaccia lo stomaco, non posso sopportare il suo patetico bisogno di essere guardata.
«Posso andare via quindi?»
«Nel pomeriggio le firmeranno le dimissioni. Sarà libero, almeno fino all’operazione definitiva.»
Mi sforzo di essere gentile e, anche se non so fingere, sembra essersela bevuta.
Resto da solo nella stanza che odora della mia urina, è da qualche giorno che non mi lavo.
Le luci mi infastidiscono, chiudo gli occhi e ripeto una parola qualsiasi come un mantra, per liberarmi da ogni pensiero.

Sulla spiaggia, il vento trasporta il fetore delle alghe depositate, la salsedine mi investe a zaffate scompigliando i miei pochi capelli.
Quando Izumi è morta, ho eiaculato cinque volte in tre ore.
Ogni volta mi sembrava di sentirmi meglio, di allontanarmi altrove.
Guardo il sole appoggiarsi sulle case vicino al mare, un tuorlo delicato sulle palazzine scolorite, la sua luce arancione è così bella che mi fa piangere. Ho attraversato la città per arrivare qui, e anche le camicie degli impiegati, milioni di camicie tutte uguali, persino quelle mi hanno fatto commuovere.
Il mondo è così bello che ti fa male.
Lo guardo e penso che, finché ci sono, ho un’intera città da fottere.

(l’immagine: illustrazione di Chiara Ghidelli)

 

L’ultimo uomo – racconto inedito di Arianna Starace

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L’ultimo uomo

di Arianna Starace

(illustrazione di Luca Dalisi)

 

– Crede che non sia giusto?

Il generale si era tolto la maschera.

Era la prima volta che succedeva, da quando il prigioniero era rinchiuso lì. Il prigioniero non aveva mai fatto domande. Il prigioniero non aveva mai dato risposte. La divisa in tessuto antitaglio aveva sempre difeso il generale da capo a piedi. Il prigioniero aveva sempre pensato che fosse una misura di protezione, una tutela contro l’imprevedibilità della rivolta.

Forse solo in quel momento il prigioniero comprese la reale entità della propria impotenza. Non avrebbe colpito quell’uomo nemmeno se avesse avuto un’arma tra le mani e lui fosse stato nudo, perché da lì non c’era modo di scappare. Erano troppe le guardie per il solo, unico prigioniero di tutto il mondo. Non sarebbe servito a niente. Perché è questo il vero potere: rendere sterile ogni atto di rivolta con la consapevolezza che dietro il volto del potere c’è solo un altro volto del potere.

– Se non prova pena per le persone a cui ha fatto quello che ha fatto, almeno…

Il prigioniero era abituato ai discorsi sospesi del generale, a quegli improvvisi silenzi tra le parole. Avevano lo scopo di condurlo all’esasperazione. Eppure continuava a non parlargli. Mai.…

– almeno non prova pietà per sé stesso?

Il generale si rimise la maschera, si alzò dalla sedia, uscì dalla cella.

Finalmente solo, il prigioniero sollevò per la prima volta lo sguardo sugli oggetti che il generale aveva poggiato sulla panca prima di togliere la maschera. E capì.

Il generale gli aveva lasciato il margine di una scelta; una scelta simulata, concessa: una scelta imposta come ulteriore atto di potere. Un bisturi, nel caso avesse preferito il taglio; una boccetta che conteneva presumibilmente un farmaco da trapasso; una corda ben spessa da non spezzarsi sotto il suo peso.

Il prigioniero non pensava più a cosa avesse fatto prima di essere condotto in prigione, né riusciva a provare pietà per altri o per se stesso, né a desiderare davvero quella fine. Da quando era rinchiuso lì la memoria era stata costantemente schiacciata dalla sua volontà di rivolta, dall’ossessione di riconquista della libertà.

Voleva soltanto sapere come era diventato il mondo in quei decenni: se andavano ancora di moda i pantaloni a campana, come la gente acconciava i capelli, sentire odori dimenticati. Vedere la luce del sole poggiarsi a terra senza l’ombra delle sbarre.

E non le capiva più le parole del generale. Quale delitto aveva commesso il prigioniero, quale delitto più atroce del condannare un uomo alla vita che lui conduceva lì? Non contava più niente ciò che aveva fatto prima, per lui.

Eppure, qualcosa doveva essere cambiato in quei giorni.

Erano almeno trecentocinquantadue anni che grazie al Nuovo Corso la pena di morte era stata abolita in tutto il mondo. Lo sapeva bene, perché anche lui da bambino aveva partecipato ogni anno alla parata della Liberazione tra i piccoli Gavroche. Almeno trecentocinquantadue, pensava, perché non era ben consapevole di quanto tempo fosse passato mentre era rinchiuso lì.

Quindi, quando sollevò lo sguardo su quegli strumenti di morte, la vita sembrò tornare. Potevano significare solo una cosa: che il Nuovo Corso era in crisi, che si erano rese necessarie azioni più drastiche, che bisognava in qualche modo eliminare il prigioniero. Forse era stata reintrodotta nel Codice la possibilità di una pena di morte, anche se solo suggerita: un segnale di cedimento.

Era paradossale nutrire speranze nella reintroduzione della pena di morte, ma se qualcosa della sua vecchia anima rimaneva era l’istinto verso la bellezza della deviazione.

Nessuno venne più a portargli da mangiare. Il sole era salito su in alto per tornare giù almeno tre volte. Animato dalla sua nuova speranza, il prigioniero attese.

E attese.

E attese.

Non aveva quasi più la forza di muoversi, ma finalmente sentì il rumore della sommossa dalla finestra della sua cella, sentì le esplosioni, e i colpi di pistola, e i rumori sordi degli scontri, e respirò l’odore di polvere da sparo e di incendio. E fu allora che, finalmente, ricordò bene perché era lì.

Il Nuovo Corso era quanto di più vicino alla perfezione potesse esistere. Il Nuovo Corso era scientifico. Era un fulgido esempio di illuminismo e razionalità. E proprio perché lo era veramente, proprio perché questa non era propaganda, ma una solida realtà, proprio perché aveva garantito più di tre secoli di pace e prosperità, il Nuovo Corso non rendeva più plausibile per nessuno la volontà di dissentire, non rendeva più necessaria la minoranza.

Da almeno trecentocinquantadue anni non esistevano omicidi, aggressioni, violenze, sopraffazioni. Non esistevano più le prigioni, se non quella creata appositamente per un solo ribelle: lui. Non esistevano guerre, non esisteva povertà. Nessuno avrebbe osato opporsi al Nuovo Corso perché sarebbe stato da folli non ammettere la sua ineluttabile, lampante, cogente pace. E nessuno ammetteva né cercava più la devianza, l’opposizione, l’errore, la corruzione, la crudeltà. Contro cosa l’uomo del Nuovo Corso avrebbe mai potuto indirizzare le sue parole, i suoi atti? Il Nuovo Corso aveva tolto agli uomini ogni possibilità di scelta: ciò che rende uomo un uomo.

E il prigioniero, invece, era stato un uomo. All’inizio, uno tra i pochi. Ma, a giudicare dai rumori della rivolta che sentiva sempre più vicini, per le strade, all’ingresso della prigione, e infine per le scale, fino quasi al suo corridoio, e fino alla sua porta, doveva aver nutrito un foltissimo gruppo di uomini.

Perché la rivolta l’aveva creata lui, tanti anni prima.

E nella riprovazione generale era diventato l’unico detenuto di un intero mondo felice.

Capì in pochi secondi che aveva dimenticato tutto, in quei lunghi anni, perché il suo oppressore non gli dava alcuna possibilità di scelta, costringendolo a indirizzare ogni suo pensiero contro l’oppressione stessa. E pensò improvvisamente ai racconti di come era il mondo prima, alla fame, alle ingiustizie, al caos, alle guerre. Non ripudiava il Nuovo Corso in sé – come avrebbe potuto? -, ma come lo faceva sentire: un essere senza volontà propria.

E capì che ora quel mondo felice che veniva a liberarlo si stava ribellando alla sua stessa felicità, come aveva fatto lui, per un vuoto che nessuna pace di secoli potrebbe mai riempire.

Quando la porta si aprì, lui fu libero.

Libero di giudicare da solo l’entità della sua colpa. E fu allora che afferrò il bisturi e se lo conficcò nel collo.

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Arianna Starace nasce a Napoli nel 1988: decisamente troppo tardi. Si laurea in lettere classiche; invece di scappare su un altro pianeta persiste nell’errore con qualche anno di ricerca. Fortunatamente riesce a fuggire in una scuola in terre remote, dove fa l’insegnante. Ha scritto diversi racconti, pubblicati su riviste online (Metatron, Nido di Gazza), un racconto illustrato pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera e un romanzo, ancora inedito. Gestisce un circolo letterario, L’Ippografo.

Empiricidio e accessibilità idiomatica. Note sull’irruzione dell’IA nell’ecosistema della conoscenza

2

di Angelo Vannini

Pubblichiamo qui un estratto – tradotto dal francese all’italiano dall’autore stesso – dell’introduzione alla seconda sessione del seminario del 2025 di Angelo Vannini al Collège International de Philosophie di Parigi. Il seminario di quest’anno, intitolato «L’urgence de la traduction», esplora come il pensiero della traduzione possa aiutare a comprendere i mutamenti attuali che interessano l’ecosistema della conoscenza, con particolare attenzione agli effetti legati alla diffusione dell’intelligenza artificiale.

NB: nel testo che segue l’autore oppone le espressioni «creazione idiomatica» e «generazione idiomatica» per designare, con la prima, i testi realizzati da un essere umano, e con la seconda i prodotti generati da un modello artificiale di linguaggio.

Come ormai sapete, spesso nei miei seminari con il termine «traduzione» non intendo il fatto di tradurre testi da una lingua a un’altra – un fatto che può essere oggetto di un sapere pratico o di una teoria, dei quali perlopiù non mi occupo – ma intendo, in senso lato, ogni processo di transizione idiomatica, cioè ogni processo che traduce una singolarità nei termini generali di una semiosi condivisa. Cosa vuol dire? Che con la parola traduzione intendo soprattutto il transito tra mondo vissuto e mondo nominato. È in questo ambito, in questa transizione a doppio senso, che si forma l’esperienza, in quanto esito di una traduzione complessa, per nulla scontata; l’esperienza è quindi in un certo senso eminentemente legata al linguaggio, anche se, in qualche modo, e in un altro senso, essa eccede sempre il linguaggio.

Quando l’anno scorso ho trasmesso il titolo del seminario di quest’anno al Collège, cioè ai colleghi che si occupano della programmazione, non ne avevo misurato tutta la portata, tutta la significatività. Intendevo «urgenza della traduzione» come una sorta di sinonimo di «necessità della traduzione», cioè il bisogno che abbiamo, nella situazione attuale, di ascoltarci gli uni con gli altri, di non sprofondare in separatismi identitari o epistemologici, e avevo a questo proposito in mente la riflessione del mio amico Souleymane Bachir Diagne, che considera la traduzione come una pratica centrale per fare umanità insieme. (Tra l’altro questa espressione, faire humanité ensemble, è una vera e propria traduzione; con essa Bachir esprime in francese il concetto africano di ubuntu). Resta però il fatto che non ho intitolato questo seminario la necessità della traduzione, ma l’urgenza della traduzione. Probabilmente perché abitava già in me la sensazione, anche se allora non verbalizzata, che ci troviamo – noi, parlo di noi che abitiamo a Parigi, Roma o Berlino – in una situazione di urgenza. Oggi questa urgenza bisogna esplicitarla. A prescindere dall’urgenza esistenziale di intere popolazioni votate al massacro sotto i nostri occhi e con la nostra complicità – a prescindere ma senza prescindere, perché le cose sono evidentemente legate – credo che essa riguardi in primo luogo l’organizzazione del nostro sistema produttivo, il rapporto tra capitale e lavoro, capitale e ambiente, capitale e politica. E il modo in cui questi rapporti si esprimono in tutte le sfere della vita umana o, se volete, in quello che una volta si chiamava la sovrastruttura. Da questo punto di vista non voglio fare mistero della mia inquietudine dinanzi, da una parte, ai cambiamenti della cosmotecnica in cui viviamo e, d’altra parte, al ritorno degli autoritarismi, anche e soprattutto in seno alle nostre cosiddette democrazie.

Siccome ci troviamo alla Maison de l’Italie, non posso esimermi dal segnalare che l’11 aprile scorso in Italia è stato pubblicato un decreto, cioè una legge emanata direttamente dal governo senza passare per l’approvazione del Parlamento, ed emanata in questo modo irrituale per ragioni, cito il testo, di «necessità e urgenza». Questo decreto contiene, tra varie cose, un certo numero di misure volte a scoraggiare o impedire l’organizzazione del dissenso civile o politico. E ci si dovrebbe interrogare su quale sia la «necessità e urgenza» che spinge un governo ad adottare siffatte misure. Tra queste compare l’istituzione di un nuovo tipo di reato per chi, nelle carceri, partecipa, organizza o semplicemente promuove forme di disobbedienza o di rivolta. Questo reato è punibile fino a vent’anni di reclusione a seconda della gravità delle azioni commesse. Un dettaglio importante è che tale reato non concerne solo le carceri, ma anche i centri di trattenimento dei migranti; inoltre, si intende che la promozione di forme di disobbedienza possa avvenire anche fuori da questi centri, non solo al loro interno. È altresì punita la resistenza passiva se impedisce l’azione degli agenti.

Un’altra misura importante volta a reprimere le possibilità di manifestare il proprio dissenso, che riguarda stavolta tutti i cittadini, è la seguente: quello che era l’illecito amministrativo per blocco stradale o ferroviario, finora sanzionato con una multa, diventa ora un delitto penale, punibile con un mese di reclusione se la persona è da sola, da sei mesi a due anni se si tratta di più persone riunite. Capite bene cosa questo significa e come rischi di entrare in conflitto con il diritto di manifestare, espresso dalla Costituzione italiana.

Inoltre l’articolo 22 del decreto consente agli agenti di polizia che sono indagati per crimini commessi in servizio di continuare a esercitare attività lavorativa durante l’indagine e di beneficiare di assistenza legale fino a diecimila euro per agente. Una misura che, come potete immaginare, rischia di favorire l’impunità rispetto agli abusi commessi dalle forze dell’ordine.

Potrei continuare ma mi fermo qui; scusatemi per questo excursus sull’attualità giuridica italiana, ma volevo fare un semplice esempio concreto, tra l’altro non più grave di altri, dell’aria che si respira nelle nostre democrazie.

Di fronte all’urgenza in cui ci troviamo, quello che questo seminario potrà fare, ne sono ben cosciente, è molto poco, ammesso e non concesso che riusciamo a fare qualcosa. Se modesti sono i mezzi e i risultati, ambizioso è però l’orizzonte in cui il seminario volutamente si inscrive. La sua visée consiste né più né meno nell’elaborare strumenti concettuali inappropriabili ai fini del fascismo; strumenti che possano contribuire alla costituzione di forme di resistenza contro i fenomeni contemporanei di disinformazione, omologazione ed epistemicidio.

La scorsa sessione abbiamo dialogato col professore Gabriele Gradoni sui problemi che la fisica contemporanea si trova ad affrontare in merito all’utilizzazione dell’intelligenza artificiale nelle pratiche di modellizzazione. Ovviamente non siamo giunti a nessuna conclusione, ma abbiamo potuto aprire due problematiche. La prima è quella dell’oppressione epistemica come rischio intrinseco all’architettura dei modelli di apprendimento profondo, in quanto basati sulla correlazione statistica; ho parlato a questo rispetto, seguendo un’intuizione di Gabriele, di una forma di ingiustizia epistemica rappresentazionale rispetto a visioni del mondo marginali, e di fenomeni di appropriazione ed esclusione epistemica (sono, come ormai sapete, nozioni sviluppate dall’epistemologia sociale che si occupa di ingiustizia epistemica, su cui bisognerà tornare nelle prossime sessioni). La seconda problematica riguarda invece il trattamento diverso, se non opposto, della singolarità in seno ai processi di produzione della conoscenza scientifica: mentre la modellizzazione per così dire tradizionale tiene in gran conto la singolarità attraverso il criterio di falsificabilità, le architetture di apprendimento profondo, a causa del loro procedimento statistico, neutralizzano le singolarità per rilevare soltanto andamenti maggioritari. Ho parlato di un rischio totalitarista a questo riguardo e di un comportamento in condizioni di contribuire a quello che chiamo empiricidio.

Per empiricidio intendo l’orchestrazione tecnopolitica dell’interruzione dell’esperienza storica. Ho cominciato a elaborare questa nozione l’estate scorsa ad Ancona, sulla terrazza della mia casa di famiglia, mentre leggevo Adorno, Fortini e Benjamin, e mentre realizzavo che la mia generazione è stata vittima di una forma specifica di ingiustizia che consiste nell’interrompere la trasmissione dell’esperienza. Pensavo allora a qualcosa di macroscopico come l’accesso a tutti quegli strumenti di interpretazione della realtà che erano patrimonio comune negli anni Cinquanta, Sessanta e forse ancora Settanta, e che invece sono diventati, a partire dagli anni Ottanta e soprattutto Novanta, a disposizione di pochi o pochissimi, cioè soltanto di chi se li va a cercare, perché sono stati, questi strumenti, volutamente silenziati dall’organizzazione tecnopolitica della società italiana (e non solo italiana). Questa era la mia riflessione leggendo, per esempio, la corrispondenza tra Fortini e Pasolini, o quello che questi autori scrivevano sui giornali dell’epoca e che chiunque fosse dotato di una cultura media era in grado di comprendere perché nel dibattito pubblico circolavano risorse ermeneutiche che erano la «traduzione» di una precisa esperienza storica. La trasmissione di tale esperienza e la disponibilità di tali risorse è stata progressivamente negata dall’organizzazione tecnopolitica neoliberale, in quello che non può essere interpretato se non come un progetto di imbarbarimento pubblico che ha progressivamente posto le basi per un ritorno spettrale del fascismo, a cui ora stiamo assistendo perlopiù inermi.

La nozione di empiricidio però non riguarda soltanto gli aspetti macroscopici dell’esperienza, cioè non riguarda soltanto l’esperienza di una società nel suo complesso, o di una generazione; ma può e deve essere intesa in senso anche microscopico, ogniqualvolta vi siano le condizioni tecnopolitiche per interrompere una specifica traduzione dell’esperienza. È in questo senso che ho potuto suggerire che le architetture di apprendimento profondo producono uno scarto rispetto al metodo scientifico galileiano nella misura in cui schiacciano le singolarità in favore della maggioranza statistica.

Fatemi precisare però, a scanso di equivoci, che queste considerazioni non vanno in direzione di un catastrofismo o di un allarmismo cieco. Se questo seminario formula delle critiche allo sviluppo attuale delle tecnologie di intelligenza artificiale, non lo fa a partire da un orizzonte di spavento, di difesa dalla novità, o di mantenimento dello status quo. Per riprendere, estendendolo, un motto di Adorno, è reazionaria ogni critica di qualcosa che non muova dalla decisione di volerlo salvare. Quello che si tratta di fare non è prendere una posizione pro o contro l’IA, ma sviluppare una comprensione del suo funzionamento attraverso strumenti concettuali che permettano di immaginare dei modi di sottrarne lo sviluppo al duplice ambito, da sempre consonante, dello sfruttamento capitalista e della repressione fascista.

È chiaro che la diffusione attuale dell’intelligenza artificiale ha assunto una dimensione così generalizzata e capillare perché essa risponde ai criteri capitalistici di ottimizzazione produttiva, che vanno nel senso di una riduzione delle risorse umane impiegate e di velocizzazione dei processi: più risultati in meno tempo e con costi minori. (Quando dico «costi minori» intendo ovviamente i costi monetizzabili dal punto di vista delle imprese, non i costi ecologici generali in termini di risorse ambientali per il sostentamento dell’intelligenza artificiale, per cui bisognerebbe aprire un intero capitolo). Tutto questo ha ovviamente pesanti conseguenze dal punto di vista epistemico sulla maniera in cui è condotto lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. La domanda che dobbiamo porci è allora la seguente: qual è la principale modifica che l’intelligenza artificiale di tipo generativo introduce nell’ecosistema della conoscenza?

Il punto centrale mi sembra essere quello dell’immediata messa a disposizione di artefatti epistemici. Con artefatto epistemico intendo un qualsiasi prodotto che è risultato di un determinato lavoro nell’ambito della conoscenza: l’email con cui rispondete a un cliente, il saggio che vi permette di passare un esame universitario, la traduzione di una scheda prodotto, la lettera di motivazione per una candidatura come supplente nell’éducation nationale ecc. ecc. Il lavoro epistemico è un processo che è naturalmente temporalizzato e spazializzato nella misura in cui un soggetto lavora per produrre qualcosa che è destinato, in un modo o nell’altro, a partecipare all’ecosistema della conoscenza. Nella storia dell’umanità ci sono state molteplici forme di colonialità epistemica, intendendo con questo tutte le forme di sfruttamento e di appropriazione del lavoro epistemico altrui a vantaggio di una popolazione o una classe dominanti. Da questo punto di vista la questione era ed è ancora quella della disponibilità degli artefatti epistemici attraverso logiche di dominio che permettono di delegare il lavoro necessario alla loro produzione per impossessarsi dei risultati, pervertendoli ai propri fini. In questo quadro l’intelligenza artificiale generativa costituisce un salto di qualità nella misura in cui essa permette di annullare la temporalità del lavoro epistemico, attraverso la messa a disposizione pressoché immediata dei suoi artefatti.

Le conseguenze di questo annullamento della temporalità restano da meditare, perché è il lavoro stesso in quanto processo che produce effetti cognitivi e conoscitivi, non solo i risultati di tale lavoro; detto altrimenti, non sono soltanto gli artefatti ad avere valore epistemico, ma è il processo stesso nella sua temporalità che possiede un intrinseco valore epistemico differente da quello del proprio risultato. Come questo annullamento della temporalità possa essere messo a servizio di interessi capitalistici è fin troppo evidente, quello che invece è meno evidente, e su cui occorrerà interrogarsi, è se e in che modo tale annullamento della temporalità possa essere mobilitato per disinnescare i meccanismi di colonialità epistemica, sottraendo così agli interessi dei gruppi dominanti se non lo sviluppo almeno l’impiego dei nuovi strumenti.

Oltre all’annullamento della temporalità del lavoro e alla messa a disposizione immediata degli artefatti, l’architettura dell’intelligenza artificiale generativa altera il significato dell’unicità dell’artefatto. Alla fine della scorsa sessione, quando evocavo la questione del trattamento della singolarità negli algoritmi di apprendimento profondo, Andrea Inglese mi aveva fatto una domanda importante: temendo che l’uso che facevo della nozione di singolarità fosse troppo legata a una visione tradizionale di stampo per dir così creativista, chiedeva se non dobbiamo invece riconoscere una singolarità anche ai prodotti generati dall’intelligenza artificiale. È una questione delicata e complessa. In via provvisoria risponderei così: sono certamente prodotti che hanno una loro unicità, ma questa loro unicità non traduce nessuna singolarità. In regime di creazione idiomatica, ogni artefatto ha una sua unicità che traduce la singolarità del lavoro epistemico effettuato. Perché definisco questo lavoro come «singolare»? Perché ogni volta esso prende forma traducendo quell’insieme di condizioni che caratterizzano l’hic et nunc dell’interazione tra soggetto e mondo. In regime di generazione idiomatica, invece, l’unicità dell’artefatto non traduce più la singolarità di tale interazione ma è semplicemente l’esito di un algoritmo di ordinamento casuale, o meglio, quasi-casuale, in quanto esso è orientato in senso predittivo da andamenti statistici e fondato sui dati di addestramento. Il valore dell’unicità dell’artefatto è quindi alterato precisamente in quanto non esiste più traduzione; c’è una vera e propria interruzione della transizione idiomatica. Tra parentesi, ora capite perché parlo di urgenza della traduzione: perché ogni volta che si interrompe la transizione idiomatica, si creano condizioni favorevoli all’empiricidio e all’epistemicidio.

L’intelligenza artificiale è una nuova tecnologia che sta facendo irruzione nell’ecosistema della conoscenza; come tale è suscettibile di produrre effetti progressivi o regressivi, che sarà nostro compito cogliere e mettere in luce. Per esempio, l’IA generativa ha un enorme potenziale progressivo nella misura in cui essa facilita un accesso idiomatico alla conoscenza. Che cosa intendo con questa espressione? Pensate un attimo al fatto che i modelli di linguaggio sono addestrati su una enorme mole di testi, perlopiù accessibili su internet. La fonte del sapere da cui muove Chat-GPT è quindi in un certo senso già presente in rete. Perché allora ricorrere alle confabulazioni di GPT quando con un semplice motore di ricerca possiamo accedere a del materiale, diciamo così, originale? Questo argomento è stato avanzato, in maniera più sofisticata da come lo sto esponendo ora, dallo scrittore americano Ted Chiang, in un bell’articolo uscito a febbraio del 2023 sul New Yorker, intitolato ChatGPT is a blurry JPEG of the web. Chiang fa un paragone tra i modelli linguistici artificiali e la compressione con perdita, proponendo di pensare a Chat-GPT come a una jpeg sfocata di tutti i testi presenti nel Web. Perché accontentarci di questo quando su internet abbiamo accesso agli originali non compressi, cioè i testi su cui il modello linguistico è stato addestrato? C’è un punto però che sembra sfuggire completamente a Chiang: quello che internet ha introdotto è una forma di accessibilità fisica della conoscenza. La rete ha difatti reso immediatamente disponibili le fonti a mano a mano che vengono digitalizzate. La grande novità dell’IA generativa è che essa permette un’accessibilità idiomatica alla conoscenza, attraverso la rielaborazione linguistica di quanto il modello ha potuto ricavare dalle fonti, con tutti i rischi che conosciamo di semplificazione, allucinazione, invenzione, errore, mancata corrispondenza al reale, appropriazione ed oppressione epistemica, di cui abbiamo parlato nella scorsa sessione con Gabriele Gradoni.

L’accessibilità idiomatica ha un enorme potenziale progressivo. Con un motore di ricerca posso sì trovare le fonti originali, non semplificate, ma le mie possibilità di accedere alla conoscenza dipendono dalla mia padronanza del gergo in cui tale materiale è redatto. Il potenziale democratico dell’IA generativa è tutto nella sua capacità di riformulare il materiale attraverso registri diversi che si adattano alle esigenze e competenze dell’utilizzatore, permettendo quindi un accesso idiomatico, e non solo fisico, alla conoscenza. Potete chiedere a GPT di spiegare la teoria dei quanti in modo che sia comprensibile a un bambino di dieci anni. Provateci, e vedrete cosa tira fuori. È impressionante. Ed è la prima volta nella storia che disponiamo di uno strumento in grado di facilitare l’accesso idiomatico alla conoscenza.

L’IA generativa ha però un effetto regressivo nella misura in cui oscura la genesi dell’artefatto stesso. Dinanzi a un artefatto epistemico, l’individuo può porsi in posizione giudicante – cioè può decidere se accettarlo o rifiutarlo – in due modi: o perché è in grado di verificarne la genesi o perché attribuisce una determinata autorità alla fonte. Ovviamente non sono due soluzioni politicamente equivalenti: la prima ha potenzialità progressive, la seconda regressive. Pensate ad esempio a come è nata e si è sviluppata la filologia, a tutto l’insieme di metodi che ha elaborato per ridurre l’arbitrio nel conferire autorità alle fonti, cioè ai testimoni della tradizione testuale. O pensate, più semplicemente, alla pubblicazione scientifica: quando scrivete un articolo scientifico bisogna citare le fonti e rendere trasparente il ragionamento per giustificare le proprie tesi; dire «le cose stanno così perché lo dico io» non funziona come argomento. Questo perché dal punto di vista della circolazione e verifica della conoscenza queste due modalità – l’autorità della fonte e la trasparenza genealogica – sono in un rapporto concorrenziale. Quello che sto suggerendo è che più un algoritmo opacizza il processo di generazione idiomatica, più esso rafforza la propria autorità, sottraendosi alla verifica; esso rafforza, cioè, il suo autoritarismo.

Il successo di questi algoritmi nella congiuntura presente ha un profondo significato sociale. Le masse, perennemente distratte dalla configurazione mediatico-sociale della vita contemporanea, interamente occupate, per non dire invase, da tale configurazione, non sono in grado di esaminare più niente, non ne hanno né il tempo né l’energia psico-fisica. La virata autoritaria delle nostre democrazie negli ultimi anni è in un rapporto di sostanziale omologia tanto con la maniera in cui queste tecnologie vengono sviluppate, quanto con la loro rapida diffusione nei diversi ambiti della nostra esistenza.

È qui che si inserisce, in questa articolazione tra effetti regressivi e progressivi, la problematica del simulacro, da cui siamo partiti nella conversazione con Gabriele la volta scorsa, e che certamente riprenderemo oggi con Sacha. Quando dico che l’IA generativa favorisce un accesso idiomatico alla conoscenza, si tratta veramente di conoscenza quello cui accedo, o di un simulacro di essa? La conversione delle configurazioni simboliche umane in vettori matematici, che è la base del funzionamento dei grandi modelli di linguaggio come Chat-GPT – il loro unico vocabolario, se volete – esclude di per sé che il modello abbia una qualche forma di comprensione in senso forte di quello che sta «dicendo» o che gli viene detto. L’algoritmo di questi modelli è veramente in grado di produrre conoscenza o quello che rigurgita è soltanto un simulacro di essa? Se tale questione non è per niente banale, e di difficile trattamento – perché difficile è, sia detto per inciso, tutto ciò che pertiene al simulacro, nozione forse illusiva quant’altre mai – ciò non toglie che la maggior parte di noi faccia ormai ricorso a questi modelli anche e soprattutto per accedere a conoscenze, e che tali algoritmi stiano prendendo un posto sempre più importante nella circolazione del sapere.

Vedete, ho parlato prima di creazione idiomatica e di generazione idiomatica opponendole. Esse però hanno almeno una cosa in comune, cioè sono entrambe configurazioni idiomatiche. La nostra relazione col mondo è difatti segnata dalla presenza del linguaggio, e lo è irrevocabilmente. Il linguaggio però da questo punto di vista ha uno statuto ambiguo. Da una parte ci separa dal mondo, nella misura in cui nominando non facciamo altro che produrre astrazioni, “cose” che esistono soltanto in una sorta di doppelgänger della realtà. D’altra parte è soltanto grazie al linguaggio che le “cose” diventano per noi conoscibili. Il linguaggio è dunque un presupposto della conoscibilità e si tratterà per noi di interrogarci su quale idea di linguaggio sia operante nei modelli generativi di intelligenza artificiale. Quello che propongo di fare oggi con l’aiuto di Sacha Carlson è mobilitare le risorse della fenomenologia per esplorare il funzionamento del linguaggio umano e per vedere se e in che modo tali risorse possono diventare utili nell’ambito dei nostri problemi. […]

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Diario di un uomo solo

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Immagine generata da AI

di Michele Muresu

La ragione genealogica di questi appunti che con molta spocchia proverò a far passare per un diario è una sola: benché sia un momento di grande rivalutazione terapeutica della solitudine, io non ho mai avuto il privilegio di stare solo. Mai fino ad oggi.

Il mio psicoterapeuta me l’ha detto senza giri di parole: in relazione alla mia presunta grafomania, un modo per mettere ordine alle sensazioni e ai pensieri può essere quello di tenere un diario. La mia mente ha vagheggiato, in fondo puzzava un po’ d’imbroglio. Ma lui mi ha esortato battendo la strada del tempo, quello utile a scrutare dentro me stesso – santiddio – al fine di dargli una forma, oltre che una sostanza nebulosa. Così abbiamo optato per questa soluzione, consapevoli che sin da quando avevo sedici o diciassett’anni ho sempre avuto una compagna ad annacquare la mia solitudine, ostacolare la discesa speleologica nella caverna del mio io – la rubo poco convinto di come suoni.

Quindi un diario per mettere ordine, dare una forma a un qualcosa di sostanza fumosa: solitudine come tempo, come lembo di oscurità palliativa. In genere nei diari si mette ordine con le date, secondo un paradigma per cui il quindici maggio può essere successo qualcosa di molto diverso dal quattordici. Per un umile uomo solo questo schema non può funzionare per via del ripetersi di giornate tremendamente uguali; così meglio optare per le tematiche come coordinate del mio insperato ordine. Già. Questa prima parte potrebbe essere un prologo, ad esempio. Lo scrivo dopo anziché prima: prologo.

Il mio psicoterapeuta. In fondo questa idea folle parte da lui e merita lo spazio dopo il prologo. Se fosse un quadro potrebbe essere L’Origine du monde di Gustave Courbet. Da lì si è originato, quasi la vagina corrisponda alla sua bocca, il pelo alla baffetta, il mondo che ne fuoriesce alle sue parole. Nel suo studio spoglio, brutalista perfino, caratterizzato dai colori freddi e pochi sparuti oggetti privi di significato sulla scrivania. Lui seduto dietro, baffa nera sollazzata dal pizzetto, che mi scruta come si scruta l’abisso e struttura la sua idea attraverso un paio di sedute. Usa la metafora del vaso – debolissima, peraltro, va detto – nel quale custodire questa solitudine e contaminarla il meno possibile. Il suo piano prevede che io stia solo ad assorbire me stesso, vedere dove slittano i pensieri, rispettare le sensazioni. Suggerisce di frequentare parenti e amici e mi esorta ad evitare in tutto e per tutto incontri occasionali con donne, almeno il primo periodo. La sua mi è sembrata un’ottima idea, se non fosse per la sua incuranza dei normali bisogni fisiologici di un uomo. In realtà vi ho trovato anche un altro dettaglio contraddittorio: per quanto probabilmente sbagli io a radicalizzare il senso dello “stare solo”, mi sono chiesto se sfruttare la compagnia di amici e parenti non vanificasse il mio scopo. Probabilmente sono un perfezionista o, come suggerisce lui, ho qualche tendenza ossessivo compulsiva. Ma torniamo al punto dei bisogni di questo povero uomo solo che sarei io, e lasciamoci volentieri alle spalle anche la metafora del vaso. Come con le 5W c’è sempre un dove. E il posto perfetto per custodire la mia solitudine è senza dubbio casa mia.

Che è bella. È quel tipo di casa dall’estetica fredda, minimalista e ricercata. È un posto perfetto in cui stare soli. Non ha fronzoli e i colori tendono a giocare sul contrasto tra bianco, nero, panna ed altre sfumature di questi. Ogni tanto compare un verde tenue a spezzare il conflitto tra il giorno e la notte. Nel salone concentra l’angolo cucina, il tavolo con le sedie, un divano dalle dimensioni e la forma simili a quelle di un letto da una piazza e mezzo, una tv di ultima generazione. Un uomo solo non necessita di nient’altro. È una casa perfetta in questo piccolo e trascurabile paese della periferia cagliaritana, una casa perfetta nel posto sbagliato, o nel posto perfetto se l’obiettivo è stare da soli; per l’appunto il mio. Pertanto, si potrebbe dire che casa mia giochi un ruolo collaborativo.

In questo piccolo e trascurabile paese non conosco nessuno, se non in modo labile e superficiale. La solitudine abbonda qui. La prima faccia familiare è a venticinque minuti d’auto. Il silenzio abissale. Essendo al secondo piano, la vista dalla finestra premia delle montagne in lontananza, altra trascurabile periferia cagliaritana a tantissimi chilometri di distanza. Il tempo così sembra non passare ed è facilissimo diventare ostaggio di me stesso, con buona soddisfazione del mio psicoterapeuta che dovrebbe esserne felice.

Non lo sarebbe invece di una delle mie prime uscite in qualità di uomo solo. Qualcosa che si potrebbe definire un intermezzo, per quanto abbastanza ravvicinato al prologo. E dunque per questa uscita con due amici in veste di uomo solo decidiamo di andare in un triste locale del centro, confacentissimo al mio corpus. Lo scenario: l’una del mattino, dj-set scadente, io e due amici in piedi, cocktail pessimo- tuonante in mano, gomiti poggiati ai tavolini. Io non ero molto in vena di uscire ma ho ceduto per via di quei convenevoli che si dipanano con la forza di un cliché, soprattutto in queste situazioni post separazione. Per trovarmi a mio agio dovevo mantenere una faccia tendente al triste, utile a darmi tono e postura opportuni per il mio stato d’animo. E questa donna più grande di me, più di una decina d’anni coi suoi quaranta lasciati alle spalle, si avvicina al mio tavolo. Probabilmente fatta, sicuramente fatta. Mi domanda cosa bevo, le rispondo benzina, imbarazzandomi e provando un poco pena per me stesso. Ma lei ride a dismisura e mi trovo a domandarmi se la battuta fosse davvero così divertente. Poi, d’improvviso, l’epifania, ciò che ha alleviato la mia paura di produrre un risultato miserabile al piano d’azione del mio psicoterapeuta. L’epifania di una speculazione basata su una conoscenza che andava avanti da cinque secondi, peraltro scanditi da un anoressico scambio domanda-risposta, ma pur sempre epifania: la sua compagnia era un ottimo modo per restare solo.

La donna ungherese. Lei. Con lei sto solo a meraviglia. Viene da me, scopiamo, va via. In realtà parliamo, anche. Qualcosa di labile e sfuggente, più che altro basato su giudizi sulla mia persona, il cui più ricorrente è che io sia un piccolo comunistello bastardo. Sostiene che noi intellettualotti spiantati qui facciamo i comunisti perché non abbiamo avuto il comunismo, e che nel suo paese gli intellettualotti non facciano i comunisti perché il comunismo l’hanno avuto. Io non riesco a capire, affacciato dall’altra sponda continentale sull’oceano che ci separa, se questa donna sappia cosa stia dicendo; se sia geniale o parli perché la sua struttura chimico-biologica glielo consenta. È il problema della solitudine, quel gustoso paradosso per cui nonostante l’intercorrere del tempo trascorso assieme io continuo a non conoscerla. Ed è presto detto il perché, consolidato dal ripetersi d’un paradigma fisso articolato in tre momenti: 1 viene da me, 2 fa sesso – per quanto possa non evincersi dalla formula ci sono anch’io, – 3 se ne va. Nei momenti di maggiore auto affermazione mi tira schiaffi. Una volta, presa da ruolo e situazione, ha insistito per mettermi un collare ordinato online, probabilmente pagato poco a causa della dozzinalità dei dettagli, per poi ordinarmi ora tu fa bau-bau. Com’è naturale non mi son prestato, consapevole dei pericoli insiti nel consegnarle le chiavi del gioco. Purtroppo ignoravo quanto fosse strutturato il suo problem solving, dettaglio che si è debitamente svelato quando ha ricorso ad un frustino di pelle sino a quel momento conservato nella sua borsa. Ho fatto bau-bau.

Il mio psicoterapeuta ha detto che non dovrei fare cose che non mi va di fare, ignaro della soggezione in cui ti può indurre, nel tuo stato di solitudine plastica, una donna ex sovietica con un frustino in mano e una parlata simile allo stereotipo da commedia americana. Farebbe tutto molto ridere ma lei non ha una struttura umoristica attigua alla nostra e per queste cose non riderebbe. Al mio psicoterapeuta, che ce l’ha, ha fatto ridere eccome. Non fosse per quel problemuccio con la deontologia avrebbe riso di più, ma la necessità di darsi un tono l’ha obbligato a ricomporsi al fine di redarguirmi circa la mancata osservanza del piano, per poi aggiungere che nelle mie derive ossessive compulsive ho sviluppato un interesse maniacale verso il sesso. Ha aggiunto che un uomo di più di trent’anni dovrebbe riuscire a trascorrere sette o dieci giorni senza farlo, senza considerarlo al pari di bisogni quali bere, mangiare, dormire.

Il mio psicanalista è molto simpatico. Dovrebbe essere un discreto baluardo contro la mia solitudine ma la sua parcella lo esenta da questo scopo. In fondo sono sessanta euro a botta. Quando l’ho detto a un mio amico mi ha subito fatto notare che aggiungendo dieci cucuzze potrei avere una vigliacca. Il suo discorso mi è sembrato abbastanza allietante nell’ottica di mantenere illibata questa placenta di solitudine nella quale sono avvolto, eppure per altre ragioni che la mia solitudine mi permetterà meglio di esplorare non ne sono attratto. Ci ripenso con un po’ di invidia per la sua capacità di auto compimento, semplicità nel mantenersi sano di mente e corpo. Eravamo da me, seduti nel mio divano con due bicchieri di birra in mano. Birra in lattina, pessima qualità, sfizio congruo allo status di uomo solo nella sua casa di periferia. L’odore era metallico e il sapore aveva un retrogusto – non troppo retro – di sapone. Una bevuta davvero comfort. E quindi eravamo nel divano con la dinamite nel bicchiere e lui divagava sconsolato per la situazione che avevo passivamente accettato. La sua tesi era semplice ma brillante: il mio psicoterapeuta per sessanta euro mi suggeriva di tenermi alla larga per un po’ dalle donne, ma con dieci euro in più, secondo lui, potevo tenermi alla larga dal mio psicoterapeuta. Avvertii nella mia mente un terremoto di magnitudo 6.8, ma tenni botta.

Il mio psicoterapeuta, ogni volta che vado a presentargli il resoconto delle mie macerie, mi disegna una torta nella quale proviamo a mettere in ordine gli elementi necessari e superflui nella vita di tutti i giorni. Analizziamo le emozioni e cerchiamo di contestualizzarle e assegnare loro uno scopo, nel tentativo di non buttare via nulla. Divaghiamo parecchio in questa stratificata pangea per razionalizzare quello che è successo ed evitare che si ripeta. Parliamo moltissimo ma credo che abbia pochissima fiducia in me. Non lo ammetterebbe mai e devo confidare che non mi peserebbe nemmeno se questa poca fiducia in me non mi costasse sessanta a botta. Forse con settanta si fiderebbe un po’ di più, non posso saperlo. Quello che so è che la mia frequentazione con la donna ungherese l’ha un po’ sconsolato. Vorrebbe mettere il discorso sul tavolo ma quando ci prova non riesce a ribattere la mia tesi per cui mi sento più solo quando sto con lei di quando sono sul water. Allora l’ultima volta, forse spronato dal pensiero della sua parcella, ha provato a rilanciare. E questo l’ho trovato davvero sorprendente perché si è comportato come un giocatore di poker che procede con un all-in a cuor leggero dinanzi una disfatta. Di qua la sua proposta, per cui a queste condizioni avrei potuto provare a comunicare con la donna che a questo punto frequentavo. È stato un colpo basso e da lui non me lo sarei aspettato. Se in ogni piano di crescita esiste un momento in cui abbandonare il rigore, nel mio caso mi sembrava senza dubbio ancora presto. Nella mia mente ha generato un magnitudo di 7.2 cui ho tenuto botta. Forse lo stoicismo del mio amico era più funzionale oltre che economico. Quando gli ho fatto notare che stavamo smontando un edificio che non aveva ancora le basi, ha tirato i remi in barca ed è tornato nella comfort zone del suo solito diktat, quello di passare più tempo con amici e parenti. Gli stessi che tendo a evitare per mantenere intonsa la mia solitudine, perché quando c’è di mezzo la salute probabilmente bisogna alzare l’asticella.

La stessa che la mia non compagnia ungherese da qualche tempo ha deciso di voler alzare. Non so il motivo, ma ho provato a formulare delle tesi, quali: noia a lavoro, nuova voglia di sperimentazione, psicosi da sesso, insoddisfazione latente. Tutte cose che possono rendere interessante una persona – pericolosissima speculazione. Quando è arrivata da me era un po’ sfatta dal lavoro, che non so quale sia, com’è ovvio. Era la prima volta che si lamentava con me della stanchezza, cosa che non aveva mai fatto. Invece quella sera ha tenuto a precisare da subito che aveva il morale a terra e che per questo non era proprio il caso di farla incazzare. Tutta questa premessa le serviva ad informarmi delle sue nuove idee; questo sproloquio disarticolato e scomposto è andato avanti per una quindicina di minuti in cui mi sono richiuso nel mio giaciglio di solitudine, deturpato appena dalla rivelazione delle sue reali intenzioni nei confronti del mio condotto anale. Le ho precisato che non se ne parlava nemmeno, trovando in risposta uno sguardo corrucciato. Dopo avermi riferito che tali pratiche le aveva testate su altri comunisti, le ho fatto notare che da un po’ di tempo il mio approccio con la politica era abbastanza disilluso, oltre che svilito dall’incapacità di trovare un partito in cui identificarmi. Non contenta ha insistito, al che ho ribattuto sul memorandum del mio psicoterapeuta, quella poesia violentata dalla prosa che mi esortava a non fare niente che non mi andasse fare. Al richiamo dello psicoterapeuta ha sbottato: pure frocio – ha detto.

Il mio sedere, manco a dirlo, non l’ha toccato. Dopo averlo fatto mi ha raccontato del suo odio verso i comunisti, scaturito da un matrimonio andato male con un dottorando dell’università di Debrecen, un ragazzo che stava lavorando ad un trattato su Trotskii. In quel momento, mentre mi parlava di quel ritaglio della sua vita, ho temuto parecchio per la contaminazione della mia solitudine. Fortuna ha voluto che dopo mezz’ora trascorsa con le gambe incrociate e la schiena appoggiata allo schienale del letto, per un piccolo impeto sguinzagliato di egocentrismo, l’abbia bloccata per informarla che stavo tenendo degli appunti sui miei giorni di solitudine nei quali figurava anche lei. Poi gliel’ho chiesto, le ho chiesto se lei acconsentisse ad apparirci, esattamente come tutti gli altri qui riportati, piegati al servizio dei miei biechi scopi. Fa come cazzo vuoi, ha risposto, per poi riprendere quel discorso alla ricerca di un contatto oltre quello fisico. E io mi sono sentito come il povero Lev, nel suo esilio in un paese lontano, tradito dopo aver fatto entrare la persona sbagliata in casa, nonostante i moniti del mio psicanalista, che presumo Lev non avesse. La fortuna – se di fortuna si può parlare – era che lei non teneva nessuna picozza nella mano, ed era più interessata al mio condotto anale che a spaccarmi il cranio, così rimasi sul letto ad ascoltarla ancora e ancora, scortato a passo lento e cauto all’interno del suo mondo.

A quarantadue anni

2

Di Yousef Elqedra

A quarantadue anni,
non si nasce più.
Le ossa, logore
il cuore, simile a un vaso riarso da una lunga estate.
Il vento mi attraversa la testa,
lasciandovi il lamento remoto
di una colomba che mai trovò il suo nido.

A quarantadue anni,
sono divenuto leggero come l’ombra
di un ragazzo morto prima ancora di ricordare il proprio nome.
Cammino su un marciapiede dimenticato,
conto le crepe come si contano le disgrazie.

Gaza:
una scalfittura nel cranio.
Ogni volta che muoio, rinasco.
E ogni volta che rinasco, perdo un frammento di me.

Le mie cerimonie
sono fotografie di me che sorrido,
con il vuoto sullo sfondo.

A quarantadue anni,
so che l’uccello che un anno fa ha sfiorato la mia finestra
ero io,
e che le pareti volate in aria,
nascondevano il sole.
Perciò ho dimenticato la forma del letto,
della finestra,
e dello specchio che un tempo mi riconosceva.
Ma ricordo con chiarezza di non essere un sopravvissuto.
I sopravvissuti non dormono con i fantasmi.
Io continuo a restare
nell’aria,
nella cenere,
nel nodo in gola di una canzone spezzata all’improvviso.

__________________

Yousef Elqedra è un poeta palestinese di Gaza, oggi rifugiato a Marsiglia. Qui nella traduzione di Sana Darghmouni. Su Nazione Indiana sono apparsi diversi suoi testi, come la serie Memorie da Gaza  L’esodo da Gaza e L’altro volto della resistenza. Oggi è il suo compleanno.

La foto in copertina è del fotoreporter Mahdy Zourob, pubblicata nel suo profilo lo scorso gennaio, quando si confidava in un vero cessate il fuoco.

Les nouveaux réalistes: Cristina Pasqua

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Eternate i ricordi | istantanee

di

Cristina Pasqua

 

Al mare

si esce dal bagno

si corre per asciugarsi

si tolgono le merende dai panieri

i piccoli si seppelliscono nella sabbia

Pubblicità Kodak, 1926

 

Addossata alle sue spalle, sbirciavo la pubblicità di un rullino fotografico, mentre lui, mio fratello Corrado, era intento a sfogliare l’albo illustrato di Canio, il figlio di primo letto di nostra madre. Ai tempi, Canio ci pareva parecchio più grande di noi, invece era solo un ragazzo, gli mancavano ancora sette anni per raggiungere la maggiore età. Scuro di capelli, alto e di fisico atletico, avevo un debole per la sua fronte spaziosa, il naso pronunciato, gli zigomi alti, gli occhi bui e la pelle olivastra, tanto che era abbronzato anche d’inverno. Con noi ragazzini era severo, rigido ma giusto, si vedeva che ci voleva bene, anche se eravamo imparentati solo per via della mamma. Il resto della famiglia lo viveva come un innesto mal riuscito, e nostro padre lasciava sempre intuire che poco lo digeriva. La mamma, per compiacere nostro padre, gli dava spesso contro, ma non c’era sera che non gli rimboccasse le coperte e lo baciasse sulla fronte. Era studioso e diligente, non dava problemi, a differenza di Cesare e Corrado, che oltre a far disperare tutti noi, papà non se la finiva mai di sgridare. Corrado, in particolare, nonostante avesse una mente fantasiosa, prendeva tutto alla lettera. Quando mi faceva arrabbiare e gli urlavo dietro che era un salame, in risposta cacciava fuori il Grande libro degli animali e mi spiegava, con il dito a indicare l’illustrazione di un maiale, che il salame da lì veniva e non dagli umani. Io portavo le mani alla bocca e giravo sui tacchi, c’era poco da fare. Certe volte mi tirava i capelli, allora correvo a rifugiarmi sotto le vesti di nonna Silvia, senza mai fare la spia, altrimenti papà a sera gliele avrebbe suonate di santa ragione. Cesare, l’ultimo arrivato, che di anni ne aveva solo tre, era sempre ammalato. Pallido e fragile, la mamma non se la finiva mai di rimpinzarlo di medicine e rimedi. Alla fine, era anche grazie a lui se ci spedivano al mare con la nonna. Il medico sosteneva che lo iodio lo avrebbe tenuto in salvo dai malanni almeno a fino a novembre, ma ogni anno, dopo i primi giorni di scuola, eccolo lì che si ammalava di nuovo, febbre alta, sudori freddi e pezzoline, l’aria ammorbata di aceto tutte le notti. Era una noia mortale anche per noi grandi. Lagnoso com’era, la spuntava sempre, non c’era volta che non ci toccasse portarcelo dietro.

Terital a fiori e golfini odorosi di talco e lavanda, d’estate era nonna Silvia, con l’aiuto di Canio, che badava a noi nella casa al mare. «Li guardi tu?» chiedeva ogni giugno Alida, sua figlia e nostra madre. «In spiaggia, se non hai voglia di scendere, li porta Canio. Allo stabilimento invece ha pensato Fausto». Tutti noi sapevamo bene che la mamma si liberava dall’ufficio solo nella seconda metà di luglio e che non ci avrebbe raggiunto prima del mese di agosto, seguita da nostro padre, ma mai prima del quindici.

Nonna Silvia, morti che erano i fratelli, aveva ereditato la casa di famiglia, la stessa dove noi trascorrevamo le nostre estati. Dopo la sua scomparsa, Canio, inaspettatamente suo unico erede, l’ha mandata in malora, o almeno così mi hanno riferito. Un paio d’anni fa l’hanno demolita e, dopo che il mio fratellastro ha svenduto il terreno per due spiccioli, recuperata la cubatura, ci hanno tirato su altro. Al suo posto, ora c’è un casermone azzurro, suddiviso come un residence in piccole unità immobiliari e, con la buona stagione, le affittano a prezzi modici. Un giorno ho perfino chiamato fingendo di prenotare, ho aspettato che la signorina mi dicesse il prezzo e ho messo giù. Ci aveva guadagnato meno di niente, Canio, per via dell’ipoteca che si portava dietro e, una volta venduta, squinternato com’era, si era ritirato a Pilera, in montagna, nella catapecchia di suo padre.

La casa, un tempo bianca, si era ammalorata d’inedia. Se l’era mangiata la salsedine e l’incuria. L’intonaco in alcuni punti era crepato per far largo al grigio sottostante. Canio, che già allora studiava la storia dell’arte, mi diceva che era di sapore neoclassico, per via della terrazza con pilastri in fila come soldatini e dei pochi fregi rimasti sulla facciata. Poco m’importava che sapore avesse, a me garbava la voce del mio fratellastro, il suono delle parole, anche se allora sapeva di niente. Sebbene fatiscente, la casa, che non distava poi molto dallo stabilimento, si trovava in una via traversa di palazzine rade e villini anni Venti, immersa nel verde luminoso dei tigli e delle tamerici in fiore. Era un luogo incantato, per noi piccoli una continua scoperta. Alla fine della scuola, quando ci si trasferiva lì, ancora accaldati di treno, io e Corrado ci ritrovavamo con gli occhi sgranati e lo stupore ad allignarci i denti, immersi nel miracolo del pulviscolo danzante nella penombra della controra. Intanto la nonna e Canio facevano volare lenzuola fantasma che coprivano poltrone e divani per proteggerli dall’inverno. Riaperta la casa, ci meritavamo una coppa alla vaniglia con panna, fragole e cialda, che consumavamo in silenzio, sporcandoci il naso, seduti nel giardino ombroso della pasticceria Reverberi, oppure giù, al chiosco in fondo in fondo alla via, dove i gusti erano strani, malaga e maracuja, e lo servivano con il cono, oltre all’immancabile cialda a decorare. Da quel punto, se allungavi lo sguardo e puntavi lontano, vedevi il faro. La nonna, quando era ancora in sé, vagheggiava di galeoni e marinai, di tesori sommersi, alghe e pesci corallo. A ridosso della strada, la staccionata correva lungomare, più avanti crescevano le siepi di ligustro e i gigli di mare spuntavano in disordine dalla sabbia. L’acqua era poco oltre, sul lato sinistro c’era una fila di cabine, a destra la doccia a un soldo e il bagno del Bordiga. Lo stabilimento Helvetia era un edificio di legno, pulito e curato. Alle sei del pomeriggio, per regola, bisognava recuperare le proprie cose e allontanarsi dalla spiaggia per dar corso alle operazioni di pulizia di cui si occupava Manlio, il figlio del proprietario, e l’Olindo, il fratello scemo. Sul bancone, di fianco alla cassa, certe mattine spuntavano cartoni con tranci di pizza rossa e focaccia, calzoni ripieni di mozzarella filante e ciambelle fritte profumate di limone. Per il resto, si serviva solo acqua di rubinetto. Ogni volta ci dicevano che con la prossima stagione avrebbero ottenuto la licenza per la somministrazione delle bibite, ma andava a finire che ogni anno era il successivo. Per bere una spuma si andava da un’altra parte, ma Canio ci dava il permesso solo al sabato, e meglio se c’era la mamma. Era convinto che ci agitasse fino a provocare le convulsioni, diceva che io ero ancora troppo piccola e stessa cosa, a maggior ragione, valeva per Cesare che lo era più di me. «Per voi, acqua liscia» diceva serio, in quel ruolo che interpretava, ma che in fondo non era il suo. Uguale se uno di noi due s’azzardava a chiedere una granatina con lo sciroppo d’amarena o una fetta di cocomero. «Non si digerisce. Poi non vi lamentate se non vi è permesso fare il bagno. Non avete ancora capito come funziona?»

«Cocco bello coccoooo» strillava Oreste a ripetizione. Sudato e annerito come un tizzo, si trascinava dietro un secchio azzurro. La lingua rinsecchita per la caligine rincorreva i passi e il fiato corto, con la saliva che per poco non gli andava di traverso e s’impuntava sulle doppie rischiando di fargli mozzare la testa alla parola successiva. Mi capitava di pensare che lo facesse apposta, per attirare l’attenzione e la voglia di rinfrescarci con la polpa bianca che si faceva largo tra le foglie di fico. Avanti e indietro sul bagnasciuga, tirava su due spiccioli per fare la giornata, e a noi, tutte le volte che ci passava davanti, veniva l’acquolina in bocca, ma la nonna non era mai dell’avviso.

«Sporcizia. Non vorrete rischiare di beccarvi un’infezione, no? Poi chi la sente vostra madre».

L’estate per noi era bagni di sole e salsedine, il mare calmo e tirato, uguale al mio letto al mattino dopo che era passata la nonna a rigovernare, trasparente come l’acqua della vasca con i piedini del bagno grande del secondo piano, cangiante come la sovraccoperta celeste sul letto matrimoniale della mamma. Ogni tanto sgattaiolavo via dalla mia stanza e, approfittando dell’ora sesta, quando Canio studiava e i miei fratelli s’appisolavano o s’accapigliavano per le figurine, mi rifugiavo lì, nella camera della mamma, di nascosto da tutti. C’era il suo odore, e io, a pancia in sotto sul lettone, tiravo su col naso per respirarlo tutto, gli occhi al comodino, all’abatjour con il cappello rosa, alla madonnina piena di acqua benedetta che le aveva portato in regalo una vicina al ritorno da un viaggio a Lourdes, cerulea pure quella, allo scrigno portagioie. Cesare, l’anno prima, mentre ero lì, aveva aperto piano la porta ed era saltato sul letto. «Fai piano, sciocco! Vuoi scombinare tutto?» Alla fine, gli avevo permesso di sdraiarsi vicino a me, ma mentre ero distratta a pettinare la mia bambola preferita, quello scimunito si era bevuto tutta l’acqua della madonnina. Mi ero infuriata, avevo alzato la voce, l’avevo sgridato e lui si era messo a frignare. Per fortuna, in camera della mamma c’era il bagno, così avevo rimediato al guaio, avevo aperto il rubinetto e l’avevo riempita di nuovo fino all’orlo, così era tornata tale e quale a prima. «Vedi che è tutto a posto?» avevo detto per provare a consolarlo, ma lui niente, non voleva saperne di smettere di piagnucolare.

Allo stabilimento, arrivato che era mezzogiorno, nonna Silvia faceva ancora un paio di giri con l’uncinetto, prima di far sparire il lavoro a maglia nella borsa. A vederlo così, srotolato sulle sue ginocchia puntute, faceva pensare a un centrotavola a catenelle e ventaglietti. Avorio, il filo di cotone sottile sottile, ogni anno era sempre lo stesso. A quel punto lanciava un’occhiata a Canio, si alzava puntando le mani sui braccioli della sdraio e, a fatica, con il nipote che la sosteneva, trascinava i passi sulla sabbia per raggiungere il camminamento. Lì, recuperata l’andatura, sulle assi appianate una all’altra, procedeva pian pianino fino all’uscita dell’Helvetia, e poi in strada. Delle volte capitava che noi si restasse lì, con Canio che tornava indietro per farci la guardia. Quando ci era permesso, era festa grande, si correva in acqua a schizzarci, si giocava a palla e con paletta, secchiello e formine si costruivano castelli e fossati sul bagnasciuga.

Nostro padre anche quell’anno non era partito con noi, era stato trattenuto in città per lavoro o almeno era quanto era stato comunicato a noi figli. «Gli affari non si fermano» ci aveva tenuto a dire serio, mentre aiutava nonna Silvia a caricare le valige sul treno. A me quella volta andò di lusso, mi salutò con un buffetto mentre con i maschi si limitò a una fredda stretta di mano. «Fate i bravi» disse ai miei fratelli, guardando sbieco Canio. Anche se non era suo figlio, cosa che non mancava mai di ricordargli, non se la finiva mai di raccomandarsi. Dal finestrino, lo vidi camminare veloce lungo la banchina e mi salì il magone. La mamma, che aspettava sempre che il treno si muovesse, quel giorno aveva la faccia stanca, ma forse era solo il vetro sporco a farmela vedere così. Quando la nonna tirò giù il finestrino, si rianimò subito e iniziò a impartire ordini ai fratelli maggiori e, alla fine, come ogni volta prima di lasciarci, salì su anche lei. Lo scompartimento era tutto per noi, l’aveva prenotato nostro padre, era sempre lui a occuparsi delle cose pratiche. Nonna Silvia si accomodò sul sedile vicino alla porta e tirò subito fuori una rivista di quelle che piacevano a lei, con i fotoromanzi, le notizie di attualità e i pettegolezzi sulle stelle del cinema, sugli attori del piccolo schermo e i cantanti famosi. A me, di nascosto, permetteva di leggere l’oroscopo e le pubblicità in fondo, ma prima mi faceva promettere di non dirlo alla mamma. Nelle ultime pagine trovavi gli occhiali a raggi X, degli strani attrezzi per far venire i muscoli e le Scimmie di mare, certi animalini buffi che nuotavano allegri in una boccia per pesci. Quella mattina, io e Cesare bisticciammo per il posto vicino al finestrino. Finì presto, perché quelli erano i posti loro, di Canio e Corrado. La mamma ci zittì con uno sguardo, ci soffiò quattro baci e scese dal treno. Canio prese in braccio Cesare, così che si potesse affacciare per bene. A vederla da lì, la mamma pareva striminzita, come sperduta, capitata per caso, chissà per quale accidente. La messa in piega era nascosta sotto il foulard, un fiore appassito con gli steli annodati sotto il mento. Teneva gli occhi bassi come se cercasse qualcosa ai suoi piedi. Nostro padre, che nel frattempo era tornato indietro, la prese sottobraccio con malagrazia e se la portò via. Intanto il treno prese a sferragliare e sbuffare, e io e Cesare alzammo la mano in segno di saluto, anche se loro erano già rimpiccioliti e di spalle. Nonna assestò il gomitolo nella borsa, aggiustò la portata del filo, afferrò il lavoro e infilò l’uncinetto nella prima maglia utile. Come per lei, anche per noi il tempo passava veloce, si guardava oltre vetro, si contavano certe volte gli alberi, altre i filari o i piloni della luce, finché non ci inghiottiva il buio delle gallerie che si fingeva notte fonda. Certe volte, io e Cesare, uscivamo in corridoio, tiravamo giù gli strapuntini e ci sedevamo lì, non erano neanche tanto distanti uno dall’altro, si poteva chiacchierare, il naso puntato su tutto quello che ci scorreva davanti. Poi, Cesare tirava fuori dalla tasca quello che restava di una tavoletta di cioccolata al latte, di cui era ghiotto, e si faceva a metà. «Meglio che niente» diceva, e io pensavo che aveva ragione.

 

«Alida vieni o no?» lamentò quel giorno la nonna, accalorata dal solleone. Mia madre s’assestò la tesa del cappello, recuperò la borsa da mare, ci salutò breve e s’incamminò tenendola sottobraccio. Canio, con indosso i pantaloncini di nylon, indossò la maglietta a righe, spolverò via veloce la sabbia da sotto i piedi, s’infilò i sandali e, recuperato l’asciugamano steso ad asciugare su uno dei raggi dell’ombrellone, s’accodò alle donne. «Vero, Corrado, che riesci a cavartela?» disse, con gli occhi a mio fratello. Sembrò più uno sprone che altro. Difatti, Corrado, che ormai di anni ne aveva undici, s’inorgoglì e, gonfio di petto, rispose: «E me lo domandi?» disse, e di contro mise su un’arietta spavalda e scosse la testa. Era la prima volta che ci lasciavano in spiaggia da soli, la prima volta che Canio si tirava indietro, come a dire che era finito il tempo di far la guardia. La mamma ebbe un attimo di tentennamento, ma fu solo il tempo di un baluginio negli occhi, un’esitazione momentanea che la spinse a stringersi nelle spalle per poi proseguire. Erano da un pezzo passate le cinque ma nessuno sembrava interessato a noi, né si azzardò a cacciarci. Manlio era partito dall’altro capo della spiaggia, seguito dall’Olindo che, mentre quello chiudeva ombrelloni, sdraio e lettini, appianava la sabbia con un enorme rastrello. A quel punto Corrado disse che gli era venuta una mezza idea, disse che era stato l’albo di Canio a inculcargliela in testa. Sarà divertente per tutti, aggiunse anche se a noi aveva già convinto. Io e Cesare, seguendo il filo dei suoi pensieri e dei suoi passi, abbandonammo lo stabilimento diretti al tratto di spiaggia libera.

Camminammo parecchio prima di fermarci. Cesare raccolse un osso di seppia e lo strinse tra i denti come un canarino, aveva i talloni neri di catrame, ma non gli dissi nulla, convinta che se ne sarebbe occupata la mamma una volta a casa, l’avrebbe fatto sedere sul bordo della vasca e glieli avrebbe puliti a dovere con l’olio. In quel tratto non c’erano scogli, il bagno si faceva facile, c’erano anche meno alghe. Sfastidiava entrare e uscire dall’acqua con quelle viscide che ti si appiccicavano addosso, ondeggiavano e ti leccavano i polpacci o s’aggrappavano impertinenti alle caviglie. Sulla spiaggia non c’era più l’anima di nessuno. Di mio, faticai parecchio, visto che mi toccò incollarmi per tutto il tempo la rete con le palette, i secchielli e i giochi. Mancavano due giorni al nostro ritorno, per questo Corrado si era portato dietro, di nascosto dalla mamma, la Polaroid, ricevuta due giorni prima dalla nonna per il suo compleanno. Voleva scattare le sue prime fotografie, erano istantanee non c’era mica bisogno di sviluppare la pellicola. Prendevano colore appena s’impressionavano con la luce, ed ecco che appariva l’immagine. La prima volta che vidi una di quelle fotografie, devo dire che m’impressionai pure io, perché prima non c’ero e poi ero lì, con il mare alle spalle e ogni cosa. Dopo aver steso gli asciugamani, ci eravamo buttati in acqua. Una volta fuori, ci eravamo messi a correre per asciugarci all’ultimo sole, anche se l’ombra continuava impertinente a inseguirci, e Cesare a fare i soliti dispetti. A un certo punto, Corrado se ne uscì con una frase degna di Canio: «È giunta l’ora di eternare i nostri ricordi». Con voce impostata, che non pareva manco la sua, prese a recitare la pubblicità del rullino Kodak che al mattino avevo sbirciato sull’albo illustrato di Canio. «Al mare si esce dal bagno | si corre per asciugarsi | si tolgono le merende dai panieri |i piccoli si seppelliscono nella sabbia». Finito di declamare, ci promise pure che al ritorno ci saremmo fermati al chiosco per rinfrescarci con una granatina e riempire i nostri panieri, proprio come annunciava la pubblicità. «I piccoli si seppelliscono nella sabbia» ci tenne a rimarcare, e sorrise, con gli occhi bassi ai granelli dorati, neanche si fosse messo in testa di contarli a uno a uno.

Mancava poco al tramonto, quando finimmo di seppellire Cesare. Io e Corrado scalciammo le ultime pedate di sabbia. A dire la verità, io feci ben poco, incontrai parecchie difficoltà a scavare, per via della piccola paletta di plastica rossa. A occuparsi di tutto fu Corrado. «Fermiamoci, guarda che luce» disse a un certo punto estasiato, una volta finito il lavoro. Allora tirò fuori dallo zaino la Polaroid, scelse con cura l’inquadratura, si piegò sulle ginocchia e scattò un paio di fotografie. Di mio fratello interrato spuntava ormai soltanto il naso, le fessure strette degli occhi e parte della bocca, ancora mezza fuori, all’aria. Nel tempo di uno scatto e dello sviluppo, dello scatto successivo e dello sviluppo ancora e di nuovo e di nuovo, non mi facevo ragione, pareva non finire mai. Le immagini non volevano prendere corpo, sbiadivano invece di apparire, erano sfuggenti. E intanto che noi si aspettava, mentre i colori s’addensavano e i contorni si facevano spessi, Cesare moriva. Sciagura volle che quella fu l’ultima estate spensierata. Dall’anno successivo, a me e a Corrado ci spedirono in colonia, perché la nonna era andata di testa l’inverno seguente. Canio finì in collegio, una specie di punizione, manco fosse stata colpa sua.

Adesso che ho superato i cinquanta, in vacanza vado da sola, sempre nello stesso posto, in una pensione lontana dal centro abitato. La spiaggia è privata, si raggiunge dall’interno della struttura, vi si accede dalla terrazza panoramica. In fondo, sulla sinistra, c’è la scesa al mare, una scala di porfido e una rampa asfaltata che le corre di lato, per facilitare i poco avvezzi alle asperità dei gradoni. È frequentata dagli sparuti ospiti della pensione Miramare, perlopiù di una certa età, perlopiù stranieri. Ai giardinetti, capita che suoni un complessino all’imbrunire, certe sere si balla. Se non si ha voglia di battere i tacchi, ci si siede al fresco, c’è il servizio al tavolo, l’aria che tira è discreta, come pure gli avventori. Prima di proseguire oltre, è meglio che si sappia che, da allora, certe notti c’è qualcuno che mi tira le coperte. Aspetta che mi addormenti, che prenda sonno, e si siede in pizzo al letto. Nel dormiveglia, me ne accorgo per il peso, per il materasso che s’affossa e incurva, so che c’è, anche se non lo vedo. Me ne accorgo dall’odore che si porta dietro, anche se negli anni è cambiato, si è inspessito, s’è fatto più aspro e invadente, tanto che al mattino me ne ricordo ancora. Stanotte è tornato a farmi visita, l’ho sentito arrivare come un’onda, i passi che scricchiolavano sinistri fino alla sponda del letto. «Giochiamo?» ha detto a un certo punto con una voce piccola, o almeno così mi è parso di capire. Per lo spavento, il cuore ha preso a battermi forte. Allora, ho allungato la mano e ho acceso l’abatjour, ma a parte me, non c’era nessuno. Un sorso alla volta, ho bevuto il bicchier d’acqua, che avevo lasciato come ogni sera sul comodino, e sono tornata a dormire, con il copriletto tirato su, fino al mento. Al mio risveglio, quando ho capito che si era fatto giorno, ho poggiato i piedi a terra. Ho provato un fastidio immediato, una specie di curioso formicolio, come se le piastrelle fossero ricoperte di briciole. Dal chiarore che si faceva largo attraverso le tende, ho visto che il pavimento era opaco, offuscato da un velo sottile, e ho capito che era sabbia.

 

Il corpo di mio fratello Cesare non fu mai ritrovato.

Franco Buffoni. Poesie

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di Giorgiomaria Cornelio

È uscito per Mondadori Poesie (1975-2025), opera che raccoglie insieme l’intera opera poetica di Franco Buffoni.

Come primo movimento di ricognizione e attraversamento (attraversamento che approfondiremo nei prossimi mesi), propongo qui un atlante di testi scelti dal volume, un itinerario che insiste sugli intervalli temporali, sui ritorni tematici e ossessivi, sui salti e sugli spostamenti improvvisi della lingua — una lingua che sa farsi strumento di analisi e di foratura del quotidiano, che sa interpellare la storia e la biografia, il dolore e la lotta politica, il corpo e la morte. Attraverso questo atlante, si evidenzia la forza e il rigore di una poesia che non si adagia mai, che scarta e riparte, e che chiede da noi, come scrive Massimo Gezzi nell’articolato saggio introduttivo al volume, un esercizio di «riconoscenza»: «è ancora una volta, in fin dei conti, l’oscillazione continua, in atto da più di quarant’anni, fra il celaniano “porsi a fianco” e il céliniano “chiamarsi fuori” a osservare dall’esterno l’avventura delle specie sapiens sapiens»: di entrambe queste posture, oltre che della volontà di non accontentarsi del già scritto e di spingersi sempre plus ultra, dobbiamo essere riconoscenti a Franco Buffoni, e siamo certi che gliene saremo ancora a lungo».

Proprio da questa gratitudine, partiamo nella lettura.

***

da Nell’acqua degli occhi (1979)

Ganimede

Imbastendo un piano

d’abbandono randagio

contava le Erinni

sedendo a bell’agio.

Metteva nell’abbandono

il lato vile

d’autostoppista servile

appena raccolto

e rideva tenuto

pensando che infine

Mercurio

contava quel tanto

che basta per dire

«son io» per entrare.

***

da Theios (2001)

Il fuoco su di te piccolo bambino

Che imperiosamente chiedi

Di farti funzionare il fono

Perché ti piacciono le spine.

Il fuoco dei pensieri su di te

Perché sei da solo tanto forte

A chiedere perché

Fino a domani a chiederlo.

E io, theios tuo,

Sarò la sede del tuo empirismo,

Proverò perché fa tanto male se:

Mi farò male per te.

E se vorrai piccolo bambino

Un giorno cercheremo insieme

Il circo romano nel buio,

Che non mi riuscì di trovare

Perché ero solo.

***

da Del maestro in bottega (2002)

Passioni immobili

Ha letto il mio cervello alla parete

Della lavanderia. Dove era scritto Passoni Immobili

Mutui ratei agevolazioni semestrali.

E venivo dall’acquisto dell’agenda 2002

Presso Buffetti Punto Ufficio

Dove il volume Schemi metrici

Dallo scaffale aveva irriso a me

Da manuale per geometri agrimensori

Quale è.

***

da Guerra (2005)

Alla Costituzione italiana

Le costituzioni, recita il mio vecchio

Dictionary of Phrase and Fable,

Possono essere aristocratiche o dispotiche

Democratiche o miste.

Ecco, per te che non prometti

Di perseguire l’imperseguibile

– La felicità degli uomini –

Vorrei non pensare davvero a quel mixed

Che ricade sugli effetti salvando i presupposti:

Di te che prometti il perseguibile

Vorrei restasse il lampo negli occhi di Gobetti,

Già finito per altro in poesia.

***

da Avrei fatto la fine di Turing(2015)

Avrei fatto la fine di Alan Turing

O quella di Giovanni Sanfratello

In mano ai medici cattolici

Coi loro coma insulinici

E qualche elettroshock.

Perché era un piccolo borghese

Il mio padre amoroso

Non si sarebbe sporcato le mani.

Controllando l’impeto iniziale

Vòlto allo strangolamento

Del figlio degenerato,

Ai funzionari appositi

Avrebbe delegato

La difesa del suo onore.

***

da La linea del cielo (2018)

Poeti

Anch’io mentre di notte

Contemplo da Gignese

Le buone maniere del lago Maggiore

La sua quieta disperazione,

Penso che volentieri

Lascerei la metafisica alle chiromanti

E il parlottìo sull’eternità

Agli orologiai:

I poeti alimentano le poste

Si diceva, ora accendono

Scarichi notturni, dalla rete

Al cartaceo, non si arrendono.

***

da Betelgeuse e altre poesie scientifiche (2021)

Antimateria in excelsis

Uno dei misteri della fisica

Capire perché dopo il Big Bang

Sia caduta l’originale simmetria

Tra materia e antimateria,

Perché abbia prevalso la materia

E dove l’antimateria sia finita,

Perché non vediamo le anti-stelle

E le anti-galassie.

Un’esigenza manifesta

Già nel Dante delle simmetrie

E della regolarità,

Neutrini e antineutrini

Come i beati del cielo della Luna

Rispetto a quelli del cielo di Saturno.

***

Spillover

Traducendo spillover con ripercussioni

Usciamo dal significato economico del termine –

Per cui un’attività trabocca

Producendo effetti anche in altri ambiti –

Ed entriamo in quello figurato del presagio.

Per cui ci chiediamo: è  solo coincidenza

Se ogni volta che muta il clima

Avviene uno spillover, un salto di specie

Che permette trasmissioni virali

Dagli animali all’uomo?

Lo scioglimento del permafrost in Jakuzia

Sta liberando in atmosfera

Spore e batteri vecchi di migliaia d’anni

Come il Bacillus anthracis, la peste siberiana

Che si stacca dalle carcasse delle renne.

E dagli uomini morti nella neve

Tornano in vita il virus del vaiolo

E della Spagnola. Dai resti di un mammut

è riapparso un batterio di ventimila anni fa

E altri più sotto se ne stanno da milioni d’anni.

Che il nostro organismo non sa riconoscere,

Pronti a lasciare i ghiacci per colpirci.

***

da La coda del pavone (2025)

Riso e arte

Chissà, se ridevano, come ridevano

E quando impararono a ridere,

Se lo chiedeva Bataille in Lascaux

Associando con certezza riso e arte.

In seguito fu Villa a dichiarare

Che l’esperienza assoluta

Del primo vivente è l’assassinio:

Uccidere come ferire

Entrare penetrare estrarre sviscerare espellere.

Mentre gli Indù pensavano la Terra

Ben piantata sopra un elefante

In piedi su un guscio di tartaruga.

Appello per il referendum

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di Redazione

L’8 e il 9 giugno 2025 si terranno cinque referendum abrogativi di straordinaria importanza a nostro avviso, ma affinché siano validi occorre non solo che vincano i , ma anche il raggiungimento di un quorum di partecipazione del 50% più uno. Ma prima di vedere le ragioni per votare sì, presentiamo i cinque referendum:

  1. Referendum sui licenziamenti illegittimi: questo referendum propone l’abrogazione della norma del cosiddetto jobs act, che prevede che nelle aziende sopra i 15 dipendenti coloro che sono assunti con il contratto a tutele crescenti non possono essere riassunti neanche se il tribunale ha dichiarato illegittimo il loro licenziamento.
  2. Referendum per la tutela dei lavoratori delle piccole imprese: il quesito propone l’eliminazione del tetto massimo di 6 mensilità di risarcimento per chi viene licenziato in imprese con meno di 15 dipendenti.
  3. Referendum sull’obbligo di causali per i contratti a tempo determinato: il referendum prevede l’abrogazione di quegli articoli del cosiddetto jobs act che consentono ai datori di lavori di proporre contratti a tempo determinato fino a 12 mesi anche in assenza di motivazioni che ne giustifichino la limitazione.
  4. Referendum sulla sicurezza del lavoro: il referendum promuove l’abrogazione di quegli articoli di legge che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro di un dipendente di una ditta che opera in subappalto, di citare in giudizio anche la ditta appaltante.
  5. Referendum sulla cittadinanza italiana: il referendum promuove l’abrogazione di quell’articolo della legge 5/2/1992 che innalza da 5 a 10 gli anni di residenza continuativa nel nostro paese per chiedere la cittadinanza italiana reintroducendo la precedente durata.

Come si può vedere, si tratta di 4 referendum che mirano a introdurre più tutele nel mondo del lavoro e uno che mira a rendere meno complicato il conseguimento della cittadinanza italiana per quegli stranieri che vivono, lavorano e pagano le tasse nel nostro paese. Le due questioni ci paiono strettamente connesse perché il fenomeno delle migrazioni e quello della precarizzazione del lavoro sono due facce della stessa medaglia: è più facile sfruttare coloro che, non godendo di diritti di cittadinanza, sono più facilmente ricattabili e in questo modo imporre poi condizioni lavorative avverse a tutti gli altri lavoratori.

In un discorso tenuto nei giorni precedenti al primo maggio il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato come in Italia i salari reali siano bassi e in diminuzione. Tale situazione non è frutto di coincidenze negative o eventi naturali ma di una politica quarantennale che ha legato la competitività economica del paese a una politica salariale restrittiva, limitando i diritti dei lavoratori e favorendo il precariato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce della popolazione, l’assenza di prospettive dignitose per molti giovani e lo sviluppo di un ceto imprenditoriale inetto e poco incline all’innovazione come dimostrano gli scarsi investimenti privati nella ricerca e nello sviluppo tecnologico, nonché nell’ammodernamento dei macchinari. Questi referendum sono un’occasione per porre un freno a questa rovinosa politica per il paese allargando i diritti sul lavoro in direzione ostinata e contraria a quanto è stato fatto negli ultimi decenni con il restringimento dei diritti.

Infine c’è una ragione più generale per votare e votare sì a questi referendum: veniamo da anni in cui la sottomissione della politica ai poteri economici, l’imposizione di una politica spettacolo dedita a questioni tanto appariscenti quanto irrilevanti e la corruzione di troppi membri del ceto politico hanno allontanato una parte crescente della cittadinanza dalle elezioni e dalla partecipazione attiva alla vita politica, base di ogni democrazia. I referendum sono uno strumento di democrazia diretta, che non comporta nessuna delega a nessuna forza politica, ma sono allo stesso modo uno strumento efficace per riprendersi i propri diritti di partecipazione e far sentire la propria voce. Anche per questi motivi le forze politiche al governo e una parte di quelle solo nominalmente all’opposizione stanno cercando di far passare sotto silenzio questi referendum non parlandone e non informando il pubblico. Eppure “un successo di questi referendum abrogativi equivarrebbe a un risveglio della ragione e, soprattutto della coscienza democratica del nostro paese” e “rifonderebbe la fiducia nella democrazia”, per usare le parole di Luigi Ferraioli (Il Manifesto, 1 maggio).

Per queste ragioni le redattrici e i redattori di Nazione Indiana invitano a votare sì ai cinque referendum dell’8 e 9 giugno.

L’imbattibile lentezza delle tartarughe

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Simone Paglietti intervista Alessandro Gianetti

Simone Paglietti: Toglimi una curiosità. Perché hai scritto una storia ambientata in Italia, pur risiedendo fuori?

Alessandro Gianetti: Devi sapere, caro Simone, ma tu già lo immagini perché vivi all’estero come me, che io l’Italia, Firenze in particolare che è la mia città, l’ho lasciata e non l’ho lasciata. Chi se ne va mantiene una sentinella, un avamposto nel luogo che finge di abbandonare; nel mio caso è un soldatino che mi fa dei rapporti molto dettagliati su tutto ciò che succede, ma il più delle volte sogna o se li inventa, e così son costretto a verificare coi miei occhi se quel che racconta è vero o no. Questo romanzo è una storia che potrebbe essere accaduta nel quartiere di Rifredi, a nord-ovest di Palazzo Vecchio, una decina d’anni fa o l’altro ieri; che sia accaduta o meno non ha importanza, la mia sentinella me l’ha riferita e io, dopo alcuni sopralluoghi, l’ho raccontata.

SP: Già, ma cosa succede in questa vicenda dal nome un po’ selvatico e un po’ filosofico, “L’imbattibile lentezza delle tartarughe”?

AG: Mi verrebbe da risponderti: chiedilo al libro! Tuttavia, non posso cavarmela così; mi vedo costretto a dischiudere il volume che troverai in libreria (sempre che lo trovi, escono moltissimi libri e non sempre ci si orienta). Come avrai visto, in copertina c’è una strada solcata dalle luci delle automobili, fermate da una fotografia con un tempo d’esposizione assai lungo. Le scie trasmettono l’idea di movimento rapido, ma c’è un trucco: è stato il fotografo a creare quell’effetto. Trucco o non trucco, le striature segnano il contrasto con la lentezza delle tartarughe, e rendono il divario tra noi, uomini e donne del XXI secolo, e la vita degli animali. Sai meglio di me che gli animali conservano un’antica saggezza, impermeabile ai cambiamenti, alle rivoluzioni e al concetto stesso di progresso. Sin da quando ero piccolo pensavo che osservare un cerbiatto nel 1980 doveva essere la stessa cosa che osservarlo nel V secolo a.C.. Il cerbiatto non è cambiato da allora, è cambiato il nostro sguardo.

SP: Perché questa geremiade sul cerbiatto e sullo sguardo?

AG: Per attirare la tua attenzione sul fatto che i cerbiatti son sempre gli stessi, siamo noi che abbiamo cambiato il nostro punto di vista su di loro. È naturale, dunque, che il protagonista di questo romanzo veda trasformarsi il mondo attorno a sé nel momento in cui cambia il proprio punto di vista sulla realtà. Non legge più i giornali, perché da quando è disoccupato entra più tardi nel bar dove fa colazione, e i quotidiani son tutti stropicciati, macchiati di caffè. Per un inspiegabile desiderio di purezza, il protagonista è indotto ad aprire un opuscolo che nessuno ha ancora letto, e ci trova argomenti del tutto diversi da quelli di prima.

SP: Non sarà mica un romanzo sulla lettura?

AG: Ti risponderei di sì, ma con riserva. È un romanzo sulla lettura se si intende lettura del mondo; ricerca d’una verità. Oggi, diceva Manlio Sgalambro, il filosofo che scriveva canzoni insieme a Franco Battiato, l’uomo occidentale è incapace d’agire perché non crede più nella trasformazione del proprio ambiente. Siamo sempre più relativisti, e questo è un antidoto ai dogmatismi del passato, ma anche vulnerabili alle verità che ci arrivano già belle che confezionare dai mezzi d’informazione. Il romanzo si cala nelle insicurezze d’un personaggio che cambia idea attraverso la lettura e innesca il confronto con un suo ex-collega, che interpreta invece le cose come si faceva nella «fase storica precedente». Il suo amico-rivale, Ferriano Airaldi, è un sindacalista, figura a rischio d’estinzione.

SP: È un romanzo politico, allora?

AG: Non è un romanzo politico se stai pensando a una ricognizione nelle viscere di quel potere che sembra oggi ancor più inscalfibile che in passato; si tratta invece di un romanzo politico nel senso di polis, di comunità. M’interessava ficcare il naso nel rapporto tra normalità e visione del mondo; nel sospetto che quella che definiamo «normalità» abbia per condizione una certa dose d’inserimento e soddisfazione delle aspettative personali che uno si crea. Cosa potrebbe accadere a un individuo che perde fiducia nella società in cui vive e comincia a sospettarne, a scardinarla, a costruirne una propria visione alternativa – solo in parte malata, certo egoistica e un pò disperata – che considera la più sensata e logica? Il protagonista è un combattente un po’ rocambolesco, un Don Chisciotte se preferisce chiamarlo così.

SP: Perché nel libro parli del reddito di cittadinanza, cosa rappresenta per te?

AG: Capita anche alla letteratura di starsene a lavorare a maglia davanti al caminetto, come una vecchia comare che s’accorge della guerra solo quando i soldati le distruggono il giardino per farci una postazione di tiro. Avevo l’impressione che l’introduzione del reddito di cittadinanza fosse una di quelle rivoluzioni che andassero esaminate. Certo, poi il suo impatto è stato relativo, la messa in pratica assai meno coraggiosa dell’idea che l’aveva ispirata, ma questo accade a tutte le idee. Quando iniziai a scrivere L’imbattibile lentezza delle tartarughe la fase attuativa era ancora lontana, si discuteva del principio e mi pareva uno di quelli destinati a segnare uno spartiacque. Che lo Stato sia disposto a farsi carico della rovina d’una persona è un dato importante, e l’Italia ha dimostrato di non essere ancora pronta. Il dibattito sul lavoro, per giunta, si è progressivamente appiattito: più che un diritto è una fortuna, quando capita.

SP: E poi c’è la tartaruga…

AG: Sì, la tartaruga è un animale particolare, lento e longevo. Rappresenta l’inevitabilità, la costanza, la rassegnazione se vuole, che a un certo punto l’uomo introietta o che subisce; un promemoria che spesso ignoriamo, come se la natura non dettasse già le sue regole, ma fossimo noi a volerle dettare a lei, che ci governa. C’è un quadro che mi colpì quando lo vidi: Paesaggio con Caduta di Icaro, di Pieter Bruegel il Vecchio. Il punto di vista sulla morte di Icaro, che si avvicina troppo al sole e brucia le ali con cui suo padre Dedalo voleva aiutarlo a fuggire dal labirinto, è distorta. Icaro affoga in un angolo del quadro, in basso, mentre il paesaggio è dominato dall’indifferente lavoro di un agricoltore e d’un pastore che pascola le sue pecore. Il pastore volge lo sguardo in alto, come se avesse sentito un grido d’allarme, ma guarda nella direzione sbagliata, e tutto continua a scorrere come se niente fosse accaduto.

SP: Qual è il ruolo dei mezzi d’informazione, in tutto questo?

AG: Mi sembra che ci sia un’allarmante incomprensione di quella che circola fuori dai canali per così dire «ufficiali»: la si sottovaluta o la si mitizza, ma non la si comprende. Il protagonista, da un certo punto in avanti, è una barca senza ormeggi che naviga alla cieca. Credo che la sua crisi rispecchi quella dell’insieme di istituzioni, organismi di tutela, rappresentanza e pubblica opinione, dello Stato per come lo concepiamo in questa parte di mondo. I mezzi d’informazione sono uno specchio della modernità e io volevo renderne l’insufficienza e, a malincuore, l’inettitudine. Per questo la tartaruga è imbattibile, perché non ha bisogno di opinioni o dibattiti, le basta il codice genetico.

SP: Un’ultima domanda, poi ti lascio andare. Anche tu hai dovuto cambiare punto di vista sulle cose, come il protagonista del romanzo?

AG: Hai colto nel segno. Volevo restituire l’atmosfera crepuscolare del quartiere in cui sono nato e ho vissuto fino ai diciott’anni, dove passano il Terzolle e il Mugnone, di cui parla Vasco Pratolini in Cronache di poveri amanti. L’aggettivo «crepuscolare» lo imparai dopo essermene andato; quando ci vivevo avvertivo soltanto una mancanza d’energia vitale che m’impediva d’immaginare la vita all’interno dei suoi confini. Col tempo poi ho capito che era simile a tanti quartieri di città medie e grandi sparse per il mondo, ma non avrei potuto comprenderlo senza uscirne, guardarlo di lontano. La capacità d’osservare si acquisisce con la distanza, come se le cose da vicino fossero troppo ingombranti, e in fondo il protagonista cerca solo una giusta distanza dalle cose. Da lontano anch’io ho imparato a guardare Firenze con gli occhi di chi la ammira, e mi sono abituato alle espressioni di meraviglia. È nato a Firenze, la città del Davide di Michelangelo! Sì, rispondo io, ma la mia città non ha molto a che vedere con quella che conosce lei. Firenze è una dama dai modi coltivati e animo campagnolo di cui s’innamorano in molti, ma i suoi problemi non li confida a nessuno e in segreto cerca confidenti. Spero che il paradosso di Zenone l’aiuti a trovarli.

 

NdR Il romanzo di Alessandro Gianetti “L’imbattibile lentezza delle tartarughe” è stato pubblicato recentemente da Arkadia Editore

 

Marie Ndiaye, una scrittura dell’inquietudine

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di Ornella Tajani

Se c’è una tonalità caratteristica della scrittura di Marie Ndiaye è forse l’inquietudine. Che si tratti di confrontarsi – confusamente, sempre un po’ magicamente – con la figura della madre in Autoportrait en vert (2015) o di raccontare il padre in Le bon Denis, appena pubblicato in Francia da Mercure de France, per l’autrice, classe 1967, la realtà oggettiva è sempre un concetto relativo, una materia manipolabile: del patto autobiografico Ndiaye fa un uso «ludico e segreto», scriveva Patrick Kéchichian su «Le Monde», sicché la verità si sgretola in mille declinazioni possibili, finendo per disorientare il pubblico che legge, per destabilizzarlo.

Succede anche in La strega, suo romanzo del 1996 di recente edito da Prehistorica nella traduzione di Antonella Conti. All’epoca l’autrice non aveva ancora vinto gli importanti premi che la consacreranno – il Fémina nel 2001, il Goncourt nel 2009 –, ma il suo esordio a diciassette anni per le edizioni Minuit l’aveva imposta all’attenzione generale con Quant au riche avenir.

Il titolo di questo libro ora tradotto in italiano non è metaforico: la narratrice, Lucie, è una donna dotata di poteri sovrannaturali ereditati dalla madre, abilissima maga. Nel giorno in cui le proprie figlie compiono dodici anni, Lucie decide che è tempo di iniziarle alla magia, la cui declinazione privilegiata è la chiaroveggenza. Da quel momento un susseguirsi di eventi trascina la protagonista: il marito la abbandona dopo averle rubato una cospicua somma di denaro che lei aveva appena ricevuto dal padre, padre che a sua volta, poco dopo, reclama quei soldi con urgenza. La madre, intanto, recalcitra all’idea di trascorrere – su richiesta della figlia, che spera in una loro riconciliazione – un week-end con lui, da cui si è separata anni prima: nei confronti dell’uomo prova sentimenti di rancore, che potrebbero scatenarsi, come tiene ad avvisare, in qualche malefico prodigio.

Il titolo, dicevo, non è metaforico, ma è semmai ironico, se non persino antifrastico: la strega in questione è molto poco capace di prevedere ciò che accadrà, non riesce anzi a prevedere nulla. Si tratta di una rivisitazione del classico personaggio fantastico, e in questo Ndiaye anticipa di una quindicina d’anni la fata turchina postmoderna di Joël Pommerat, che nella sua riscrittura di Cenerentola metterà in scena una donna che fuma di continuo, dice parolacce e preferisce fallire in trucchi di magia finti come quelli con le carte da gioco, piuttosto che esercitare il suo vero talento. Se Pommerat usa una variazione comica della figura della fiaba all’interno di una riscrittura costruita intorno al malinteso, Ndiaye lascia meno spazio all’umorismo e pone una strega un po’ inetta, consapevole della propria inettitudine, al centro di una narrazione che si svolge nella Francia di provincia, prendendo spazio in case piccoloborghesi, rappresentando ambienti molto «riconoscibili» nel loro anonimato.

La strega sfugge a ogni rigida interpretazione: sebbene in questo testo la magia sia prerogativa delle donne, non c’è un’analogia con la condizione femminile – come succede, ad esempio, in Medusa di Martine Desjardins (Alter Ego 2021). Le figure di madri e figlie si sovrappongono e confondono, qui e nei vari testi dell’autrice, senza chiudersi in contorni precisi, anzi debordando e sfumando come nelle foto di Julie Ganzin che fanno da contrappunto al già menzionato Autoportrait en vert. Il libro non ha una finale a tema, il cerchio non si chiude: chi è scomparso non ritorna, eppure la vita continua, sullo sfondo di una società neoliberista più percepita che descritta, in cui quasi sembra vincere chi resta anaffettivo.

La costruzione narrativa trascina però chi legge fino alla fine, accattivando nell’originalità dei toni e in quella sensazione diffusa, come si accennava in apertura, di leggera inquietudine. Al tempo stesso incuriosisce scoprire oggi un ripescaggio degli anni ’90: un periodo cioè non abbastanza distante da apparire cronologicamente esotico, eppure così nettamente dietro di noi, in cui le adolescenti non vivono ancora sui social, gli adulti non hanno uno smartphone come appendice esistenziale; in cui, per la donna o l’uomo comune, il senso della vita non è completamente schiacciato sull’io, e forse ricercarlo non è poi così importante.

Intervistata da Francesca Maffioli per il Manifesto, Ndiaye spiega che adesso, vent’anni dopo, non riscriverebbe questa stessa storia, non penserebbe il personaggio di Lucie allo stesso modo: eppure dentro La strega, oltre a sentirsi l’eco di ciò che siamo stati fino a poco tempo fa, si scorgono felicemente le tracce della sua scrittura, della sua mente creativa di oggi, pronta a mettere ogni certezza in discussione, a partire dal proprio sentire. Del resto, «ciò che stavo ricordando non solo non era successo, ma non sarebbe potuto succedere in nessun modo»: così si apre il suo ultimo Le bon Denis, che si spera di vedere presto anche nelle librerie italiane.