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Cristi e ravioli

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di Ilaria Padovan

Sono io il Signore tuo Dio,
che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto;
apri la tua bocca, la voglio riempire.
(Salmo 80, 11)

Quando le fotocellule non mi vedranno più, allora sarò morto.
Niente di che, solo: le porte automatiche non si apriranno più.
Niente di che: solo / morto.

Un altro /
nientaltro.

E allora ritornerò. Quando mi accorgerò che sarò morto farò esattamente come tutti gli altri prima di me e allora tornerò. Tornerò da te, tornerò da voi, tornerò indietro da tutti quanti e domanderò: che cosa volete / di cosa avete bisogno / che cosa vi rende felici.

Ve lo chiederò
chiederò
chiederò
chiederò

e voi mi risponderete sempressolo le stesse cose di sempre, mi pregherete di farvi quello che è già stato fatto da infinite altre religioni

/ consolazioni.

Quando le fotocellule non mi vedranno più, quando le porte automatiche non si apriranno più, allora saprò che sarò morto: tornerò.
Ed esaudirò qualsiasi vostro desiderio ma voi mi chiederete sempre e solo le stesse cose

/ che sono già successe.

Io vi risponderò che ne avete visti abbastanza di predicatori per non accorgervi della differenza.
Che tu, proprio tu – che è per te che sono tornato – tu scuoterai la testa invece di rispondermi. E quando, scuotendo la testa te ne andrai da me, scoprirò che sarò morto, per davvero questa volta. Allora somiglierò a una pianta che assomiglia a una città: una città immeravigliabile perché ci è già successo tutto dentro.
Allora, non assomiglierò più a niente di ciò che avrete visto

/ giàvvisto

Dunque, somiglierò a una pianta. Forse.
Di tutto quello che conoscete già, quello a cui assomiglierò di più sarà una pianta.
E avrò delle parole precise, ma deciderò di non usarle. E mi siederò in mezzo a voi perché da quando tu te ne sei andata scuotendo la testa non ho nessundove dove stare. Mi siederò con tutte le parole giuste nella bocca: inghiottirò senza masticare: starò male: deciderò di non usarle.

Vi illuderò:
improvviserò:
v’imparadiserò.

In quel momento, saprò di funghi e collasso ma voi, lo stesso, per colpa di quella luce umami che emanerò, vi siederete accanto a me.
Staremo seduti per tanto

tanto

tempo.

Staremo seduti finché non saremo diventati tutti abbastanza tristi e la luce ce la saremo dimenticata e l’odore diventerà di lattice e disinfettante. Allora, allora sapremo che saremo senza più alcuna speranza e, proprio lì, proprio quello sarà il momento. In quel momento, io aprirò la bocca e ne usciranno farfalle che saranno state per troppo tempo prigioniere per avere ancora dei colori, usciranno: fatte di polvere, svaniranno al contatto con l’aria, si sbricioleranno in parole masticate male e senza suono che vi chiederanno: che cosa volete, di cosa avete bisogno, che cosa vi rende felici.
Sarete pronti.

Allora, sarete pronti.

Sarete così tristi da aver dimenticato il significato delle cose buone e sarete pronti a rispondermi con le risposte giuste. Sarete cosìttanto tristi che mi pentirò di avervi fatto tutto quello che vi ho fatto, ma ci si abitua a tutto. Eppure, vi sarete abituati a tutto: mi chiederete ancora e sempre le stesse cose, scuoterete la testa

/ ancora,

io rimarrò seduto

/ di pianta.

A quel punto, ve ne andrete.
Non ci farete neanche caso a me, a tutta quella tristezza, a tutto quel tempo seduti a pensare che fossi un santo invece ero solo morto

/ invece, volevo solo mi chiedeste di rendervi felici.

Rimarrò seduto: senza più farfalle, senza più un odore, senza più sembrare, poi, una pianta.

Tornerete, io lo so che tornerete.
Vi riunirete e tornerete a guardarmi rimanere sedutimmobile ma, questa volta, voi starete in piedi: e vi sentirete meglio. Vi sentirete meglio a guardare me che sono morto e seduto e immobile e senza più parole e senza mai magie. Tornerete: resterete per un po’, all’inizio riderete, mi direte cose orribili, mi confesserete desideri indicibili solo per vedere se sarò capace di realizzarli

e io, sì, lo sarò,
ma non vorrò farlo.
Io volevo tornare
(sono tornato)
per fare qualcosa che non era
quello che mi chiederete voi.

Ma non ve lo dirò.
Io non ve lo dirò.

E quando avrete visto che non saprò fare niente, tornerete ancora, tenendovi per mano alla cattiveria. Mi scuoterete, ferirete, taglierete per vedere se riuscirò almeno a difendermi se non a rispondere alle vostre preghiere. Mi farete di tutto per vedere se sono ancora vivo. Ma io sono solo un ritornato.

Morto: un altro

/ nientaltro.

Avreste dovuto mettermi di fronte a una fotocellula, sarebbe bastato quello: vedere che le porte automatiche del supermercato non si apriranno più. Ma non smetterete, perché non vi verrà in mente la storia delle fotocellule. Non vi verrà in mente perché penserete che sia una cosa che somiglia a una pianta ma io non sono mai stato una pianta.

Tornerai anche tu.
Non scuoterai più la testa: ti sarai dimenticata.
Ti sarai dimenticata di me, di chi ero, di noi, di come siamo stati, perché sarai andata avanti, perché io sarò morto e non importerà un cazzo se sarò ritornato. Tornerai e ti stancherai prima degli altri di quel gioco: ti sei sempre annoiata in fretta, cosìnfretta.
Allora: farai finta. Allora ti inventerai che quando stavamo seduti e pensavate fossi un santo tu ti fossi affezionata. Vorrai illuderti che sei l’unica, che sei la persona giusta per prendersi cura di una cosa tutta rotta, come le foglie di carne e martìri dei cactus che tanto ti piacevano quando andavamo nel deserto. Ti convincerai che riuscirai a farmi fiorire e ignorerai le forchette che mi passano dappartapparte, le cicatrici che non si rimargineranno, i buchi in cui i bambini infilano le dita per giocare. Ti convincerai: ritornerai tuttiggiorni, ma io non fiorirò: sono morto.
E quando vedrai che tutti gli sforzi saranno stati vani, che ti eri sbagliata

ancora. E ancora

allora, piangerai. E mi costringerai a parlarti, ma non avrò più la gola

/ la gola è una piaga

e le parole saranno ghiaia e sangue, ma io dovrò parlarti perché starai piangendo, perché avrò ancora qualcosa da dimostrare e la fedeltà si dimostra sempre e soltanto in un modo: umiliandosi. Allora mi riconoscerai, per un momento, ma mi riconoscerai: un pescepiatto, ti ricordi? Mi chiamavi Pescepiatto. Avevo gli occhi piccoli e vicini, sembravo un pesce / piatto: ora, più una pianta.
Piangerai ancora per il tuo pescepiatto.
Mi prenderai e trascinerai in casa tua, dove ora tu vivi con un altro, perché sono il pescepiatto che ora ti ricordi e mi comprerai vagonate di ravioli che non posso più mangiare perché sono morto, ma tu fingerai di non saperlo e me li ficcherai in quel buco che era, una volta, una gola anche se sono poco più di una pianta, adesso.
Riderai: sarò ancora il tuo pescepiatto

/ mi potrai ancora dare dei ravioli.

Quando mi vedrai stare male – perché mi piacevano tanto ma adesso non posso più mangiarli – me li infilerai come gettoni in una macchinetta guasta alla stazione, ancora surgelati perché ricorderai che amavo i gelati soprogniccosa, e quelli che non entreranno me li spalmerai addosso finché non rimarrà niente / niente, se non una poltiglia di quello che una volta era un pesce piatto che avrebbe mangiato sempre ravioli, poi, gelati.
Ma io non ti dirò niente: fedele.

Fedele
/ per sempre, fedele:
un pescepiatto:
/ tuo.

Un giorno, mi dirai domani e che cosa vorrai farmi, dove vorrai portarmi, cosa vorrai dirmi in quel domani e io rimarrò tutto il tempo ad aspettarlo sapendo che tu ti dimenticherai

/ ti annoierai

e non arriverà mai domani e allora io penserò a dopodomani.
Ti dimenticherai

/ di nuovo.

Come l’altra volta.

Solo che, questa volta, sono morto:
Le fotocellule non mi vedono
più.
Le porte automatiche non si aprono
più.

Dopodomani.

Dopodomani è stato il giorno più bello della mia vita.

Un italiano nell’Inghilterra di Shakespeare

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(Da antico lettore di Frances A. Yeates, sono davvero felice di questa prima pubblicazione italiana –  esce oggi! – di un libro scritto quasi un secolo fa. Parlo di John Florio. La vita di un italiano nell’Inghilterra di Shakespeare di Frances A. Yates. Un libro che si addentra nella vita, negli interessi, negli studi di John Florio – insegnante e forgiatore di parole, «italiano di lingua e inglese di cuore» – raccontando un’epoca intera. La raffinata CasadeiLibri Editore finalmente gli dà vita, grazie alla curatela di Giorgio Ghiberti. Ho chiesto all’editore, che qui ringrazio, il permesso di pubblicare l’introduzione del curatore. G.B.)

di Giorgio Ghiberti

Novant’anni sono passati dal 1934, quando uscì quest’opera prima di Frances Amelia Yates, una storica delle idee che ha dedicato l’intera vita allo studio della cultura europea dei secoli XVI e XVII, applicandosi in particolare all’Inghilterra d’Elisabetta, e a Italia e Francia coeve. Nata sulla Manica, a Southsea, di fronte all’isola di Whigt, nel 1899, si laureò in francese, da ‘esterna’, all’University College di Londra nel 1924, perfezionandosi (‘Master of Arts’), da interna questa volta, due anni dopo. Non era il percorso di studi più appropriato, per chi volesse tentare una carriera accademica ― né la cosa sembrò mai interessarle, in effetti. Nel nido famigliare, sconvolto dalla guerra per la morte in battaglia del fratello Jimmy nell’autunno del 1915, Frances si mantenne sempre al sicuro; e nella ‘New House’ di Claygate, un paesino del Surrey distante meno di 15 miglia da London City, dove gli Yates si trasferirono nel 1925, ella visse sino alla morte, e scrisse tutte le sue opere.

I suoi interessi, centrati dapprima sulla cultura francese, si focalizzarono presto sulla figura di John Florio, e portarono alla pubblicazione del presente volume. Dopo questo suo primo incontro con il grande intellettuale italo-inglese, la Yates prese poi a seguire tutta una serie di intrecci, rimandi e collegamenti, che da lui la spinsero verso Giordano Bruno, e poi da questo a tutta la tradizione ermetica dei suoi tempi, all’occultismo, alla magia, alle complesse ricerche iconologiche che l’approfondimento di quella tradizione richiedeva. Da questi studi d’iconologia nasce il suo lungo rapporto di collaborazione con l’Istituto Warburg, che da Amburgo era stato costretto, nel 1933, a trasferire in fretta la sua sede, e la preziosa biblioteca, a Londra. Parallelamente, la Yates portò avanti, con continue ricerche e pubblicazioni, i suoi studi su William Shakespeare e sul mondo letterario elisabettiano.

Il suo carattere indipendente, ma anche particolarmente sensibile, e la sua completa dedizione alla ricerca, la tennero, dicevo, sempre lontana dal mondo universitario (dal quale le arrivarono, come non è infrequente in questi casi, anche delle critiche); ma la notorietà internazionale acquisita con la pubblicazione delle sue opere profonde e innovative, e presto tradotte anche in Italia, fu notevole. Ed è giusto ricordare qui i suoi intensi rapporti con i nostri migliori studiosi del tempo: dal Cantimori al Garin, da Paolo Rossi a Cesare Vasoli.

Attiva sin quasi alla fine, Frances Yates, ultima della sua famiglia, morì nel 1981, nella ‘New House’ di Claygate, dopo aver perso, l’anno prima, la sorella Ruby.

Ma è solo sull’opera che qui si presenta e sui criteri seguiti per questa prima, e così tardiva, traduzione italiana, che ora vorrei fermarmi. La figura di John Florio è già grande di per sé, nella storia della cultura e della lingua inglese durante i fondamentali decenni a cavallo del XVI e XVII secolo, ma si carica d’un interesse ancora più grande se la si guarda sullo sfondo della ‘questione Shakespeare’, cioè quella dell’identità, formazione e frequentazioni del Bardo. Come una corrente carsica, tale questione ci ha accompagnato, più spesso ipogea, ora invece piuttosto epigea, per tutti i quattrocento anni che ci separano dalla pubblicazione del cosiddetto First Folio scespiriano. Ma non è cosa che io possa discutere qui: me ne dissuade la consapevolezza che ho di me, della mole spaventevole della bibliografia, e anche ― lo devo pur dire ― dei pericoli segnalati dal ben informato e gustosissimo Il Cenacolo Shakespeare di Luigi Ferrari, al quale rimando chiunque volesse sottostimare il problema. Comunque, su questa perigliosa strada, una prima tappa imprescindibile è costituita appunto dal libro che ora vi trovate in mano.

La passione e la tenacia che l’Autrice esibisce nel seguire passo passo il suo Florio, e che saranno ben chiare leggendo, si vanno snodando per una narrazione che procede ― secondo un uso certamente tipico dell’inglese, ma qui elevato al quadrato ― con un andamento fortemente paratattico e con ampio uso del punto fermo: quindi periodi brevi, spesso di una riga o due, tre al massimo. Siamo quindi molto lontani, per tornare ai suoi amati elisabettiani, da qualsiasi nostalgia eufuistica. Un altro abito inglese, sappiamo, è la manica larga nei confronti delle ripetizioni: non

solo di avverbi e congiunzioni, ma anche di verbi e sostantivi; manica che noi italiani, invece, teniamo più stretta. Da qui allora la mia scelta di non seguire alla lettera l’andamento sintattico e lessicale dell’originale, ma d’introdurre (con grande misura, spero, e preservando sempre la fedeltà) qualche subordinazione; di allungare qualche periodo; di evitare qualche ripetizione.

Il quadro si complica maledettamente, invece, nel caso delle tante e spesso lunghe citazioni di poesia e prosa elisabettiane esibite dall’Autrice, delle quali non sono sicuro affatto d’essere riuscito a offrire una traduzione soddisfacente. In quei testi, infatti, si annidano parecchie trappole, a partire dall’ortografia, ben lontana ancora dalla normalizzazione, per arrivare ai modi di dire e alle frasi fatte; e la ricercatezza, l’oscurità, l’ambiguità sono talmente volute che spesso sembra che gli autori s’approfittino del loro lettore. Sarò quindi grato a chi mi segnalerà errori e sviste, gravi o meno gravi.

Nelle note del traduttore ― non poche, visto che il libro italiano è di oltre cento pagine più lungo dell’inglese ―, sempre chiuse fra parentesi quadre, si leggeranno soprattutto delle indicazioni bio-bibliografiche o lessicali: l’Autrice dà molto per scontato, presupponendo una conoscenza del mondo elisabettiano che, almeno qui in Italia, è più dello specialista che del lettore cólto.

Novant’anni non sono pochi, ma aprire la questione dell’aggiornamento sullo stato degli studi ci avrebbe portato troppo oltre.

Ho quindi ritenuto di fermare il calendario a quel 1934, intervenendo con parsimonia solo per riferire qualche notizia ineludibile.

Sarà bene comunque colmare già da ora un periodo lasciato vuoto da Yates: le ultime ricerche su Giovanni Florio, negli anni immediatamente successivi al suo ritorno in Inghilterra, nel 1571, lo collocano a bottega presso un tintore francese, Michel Baynard ― uno dei tanti réfugiés per motivi religiosi ―, e poi forse, dal ’74, morto il Baynard, presso un altro tintore, assai attivo fra gl’immigrati protestanti, il vicentino Gaspare Gatto (o Gatti).

Questo e altro si può ricavare dal recente lavoro di Carla Rossi: Italus ore, Anglus pectore. Studi su John Florio. Vol. 1, Londra, Thecla Academic Press, 2018 (= ROSSI, nelle note), non privo tuttavia di qualche imprecisione.

Ma il tempo passa in fretta, e se avviai la traduzione per i novant’anni del libro della Yates, ora la termino per i quattrocento che ci separano dalla morte del suo protagonista (1625): un italiano che seppe onorare entrambe le sue patrie, avvalendosi con genialità… e dello ius sanguinis , e dello ius soli. Vorrei infine ringraziare il Caso, per l’incontro con Luigi Ferrari, che mi ha introdotto ai deliziosi misteri dell’impervio mondo dei Florio (impervio per loro, dico, quanto affascinante per noi), e, risalendo il sentiero, per un invito di Daniele Serafini, che determinò quell’incontro.

 

Ravenna, aprile 2024 – gennaio 2025 G.G.

 

Tu che fai?

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Disegno di Kika Bohr tratto da Le Monde, foto di Gaza di Jehad AlShrafi
Disegno di Kika Bohr tratto da Le Monde, foto di Gaza di Jehad AlShrafi

di Antonio Sparzani
Tu, nelle vie della città dove, guardingo e ben armato, ti aggiri, vedi comparire, a un tiro di schioppo da te (guarda un po’ che espressione appropriata) un gruppetto di cinque persone, e tu sai con certezza, perché appartieni a qualche “servizio” e hai dei capi bene informati, che esattamente uno di loro è un tuo nemico mortale, ma non hai elementi per capire quale dei cinque sia. In ogni momento può accorgersi di te, ma sembra disarmato e in giro con amici. Tu lo vuoi morto, allora, col tuo potente fucile mitragliatore (molto meglio di uno “schioppo”), pensi che sia un’occasione d’oro e che fai?, spari a tutti e cinque, così sei sicuro?
Tu sei il pilota di un aereo, anch’esso ben armato, che stai sorvolando una città e i capi del servizio cui appartieni ti dicono che hanno saputo che, nell’ospedale Ariafelix che vedi poco distante, si è rifugiato, sperando nella protezione del luogo, un gruppetto dell’organizzazione tua nemica, che sarà in qualche stanza dell’ospedale. L’ospedale è ormai uno dei pochi ancora funzionanti nella zona e contiene molte dozzine di malati e malate, uomini, donne e bambini, di personale addetto alla cura e alla gestione dell’ospedale. Tu, nel tuo arnese volante, hai delle belle bombette che potrebbero radere al suolo l’ospedale in pochi minuti. Tu che fai? Ti porti verticale sull’obiettivo e lasci cadere bombe sufficienti allo scopo?
E così via, molte altre domandine dello stesso tenore in situazioni differenti, ma con la stessa scelta di fondo. Tu che fai? Molto di quello che accade dipende, come tutti capiscono, dalle risposte che vengono date. Il signor Benjamin Netanyahu, detto Bibi (pensano che faccia tenerezza?), ma certo non solo lui, possiede risposte chiare e distinte per “andare sul sicuro”, risposte ben diverse da quelle che darebbe il sottoscritto e spero molti di quelli che leggeranno questo.
Naturalmente (ma in quale senso “naturalmente”? È la natura umana che è fatta così? Domanda complicata cui varie risposte sono state date) non mancano esempi nella storia che conosciamo, di massacri, genocidi, distruzioni di massa, gli Armeni, i Catari, i Tutsi i primi tre che mi vengono in mente — ma non c’è che l’imbarazzo della scelta — con numeri di vittime colossali. Ma nel nostro caso c’è una caratteristica peculiare, si uccidono persone che proprio non c’entrano, solo perché sono “vicino” alle altre, quelle da eliminare.
Alla domanda “tu che fai?” ci sarebbero forse molte risposte possibili, ma ce n’è una radicale; “li uccido tutti, così son sicuro”.
Mi pare che l’evoluzione dei comportamenti in guerra sia nella direzione di dare la risposta radicale di Netanyahu e dei suoi sgherri. Come tutti han già detto mille volte i morti in guerra una volta erano prevalentemente militari, adesso sono prevalentemente civili, e non da ieri. Chi legga con attenzione una descrizione accurata del bombardamento di Dresda da parte dell’aviazione britannica sul finire della II° guerra mondiale non avrà dubbi. Per non parlare di Hiroshima e Nagasaki. Chi ha davvero il potere e i suoi esecutori, mediamente i militari, sembra abbiano una considerazione di “tutti gli altri” come di uno scalino più in basso dal punto di vista del valore della vita. Penso che su questo ci sia molto da meditare.

La Festa di Nazione Indiana 2025

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Quest’anno la Festa di Nazione Indiana si svolge nello spazio di ⇨ Porta Pratello di Bologna, sabato 14 giugno. Saremo ospiti di ⇨ Grisù / Festival di scritture contemporanee – Lo Spazio Letterario e parleremo di democrazia e pensiero critico rispetto alla scrittura sui social in questo particolare momento storico. Ci sarà la Premiazione del ⇨ Concorso Staffetta Partigiana, che ci darà modo di discutere del compito di continuare a raccontare la Resistenza e la Liberazione dal nazifascismo, mentre nuovi fascismi e nuovi sovranismi avanzano sempre di più in Europa e nel mondo. Sempre incentrate su questo tema seguiranno le consuete performance e letture finali dei redattori presenti.

PROGRAMMA

Sabato 14 giugno – Porta Pratello– Contro-tempo 

– 11:00 -12:30Il tempo dei social: scrivere sulle piattaforme occidentali. Democrazia e pensiero critico nell’era di Musk, con Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Renata Morresi, Mariachiara Brunetti, Giorgiomaria Cornelio.

– 16:30 -17:30Tempo del lavoro: tavola rotonda con Fabio Franzin, Stefano Modeo, modera l’incontro Stefano Colangelo.

– 17:30 -19:00Il tempo ereditato. Una nuova generazione e il “compito” di raccontare la Resistenza. Premiazione del racconto vincitore del concorso Staffetta partigiana per under 35, promosso da Nazione Indiana in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Motivazione e illustrazione del concorso e dibattito con Davide Orecchio, Orsola Puecher, Gianni Biondillo, Davide Sparano dell’Istituto storico Parri.

– 20:30La scena del tempo. Tra passato e presente. Performance e letture di Mariasole Ariot, Francesco Forlani, Giorgio Mascitelli, Orsola Puecher, Giacomo Sartori, Ornella Tajani.

– ⁠21:45La neve nera, Angelo Ferracuti introduce il film su Luigi Di Ruscio, in dialogo con Davide Orecchio + proiezione del film.

Sabato 14 giugno 2025

PORTA PRATELLO via Pietralata 58 BOLOGNA

https://www.lospazioletterario.it/progetti/grisu-festival-2025/

Orazio Labbate – Cravuni

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Incipit dal nuovo romanzo di Orazio Labbate

Il cielo serale non aveva nulla che lo tenesse a riposo, giacché un temporale strillava come se i fulmini fossero uccellini invisibili dotati di campanelli nei cumulonembi. Acuiti dalla violenta ostilità dei venti, essi annientavano ogni onesto potere dell’immaginazione.

Era novembre.

Ad Afton, Oklahoma, tutto era, come sempre, orribilmente astratto. Le catapecchie ai lati dell’unica strada principale, infestate dall’insensatezza di genti inette, cadute in basso, preganti una divinità infantile, diffondevano i sensazionali messaggi segreti di chi vive nel terrore di impazzire. Io le odio con entusiasmo sconfinato; con dolorosa euforia sono da sempre, le persone, ricadute nell’indeterminatezza di un caos strammàto, quando i tornado le scalfivano brillavano perfino di degenerazione. Non domina, ad Afton, la complessità crescente, quella degli ingegni fervidi, non esiste la razionalità poiché essa finisce in qualche modo slegata da tutti gli aspetti più profondi. Si percepiva, sempre più estraniato – il primo novembre –, un tuono far tremare il volto beato dell’unica stazione di servizio e con esso di sicuro la putìa di mia madre, Labella’s di Fina Jennifer Salemi. A Sua lurida immagine, di Dio, attraverso la natura disagiata da Esso manifestata, dovremmo comprendere soluzioni incantatorie, tracce di un crimine efferato dalla scoperta dell’irrazionale di Lui stesso. Ma ordinare tali fenomeni, in specie il tuono, significa fare i conti con un’eventualità terrificante per noi impossibile, noi non siamo dèi. Le nostre urgenze, le nostre tragiche cadute, compresa la mia, confidano nello sgomento di un’improvvisa scoperta dolorosa affinché possa continuare a infuriare in noi fino a sfunnàrci di senso.

Vortici dentro vortici sentii quella notte, non vortici di orrore oceanico, bensì del fervore di un rapimento estatico, di uno strappo che mi avrebbe reso difettoso e incompleto. Vagabondavo con la Mustang scura, venuto fuori dal picciddu Dipartimento di Polizia che comandavo, in veste di detective, da dieci anni, con ragione squilibrata, sotto la tortuosità delle gocce di pioggia, per vasàri la mamma prima di assecondare i miei inconsci impulsi tenebrosi subito dopo. Rintanarmi nella mia oscurità del Motel 6, circonfuso dalle indagini sulle leggi del pensiero, far agitare all’impazzata la natura inaccudita delle mie origini siciliane che gemevano e si afflosciavano sotto il peso di anni uguali colmi di svagataggine e imprecisione. I bisogni sempre più modesti m’erano insufficienti, mi imbestialivano; perciò, il mio marasma, si cristallizzava e fossilizzava, restando consumato non dalle donne ma da me stesso. Crudi, amorevoli, banchi di nuvole compensavano, intanto, largamente, l’aspetto lugubre del mio volto, funnùtu di buio. Guardai l’orologio in modo eloquente perché la putìa di mia madre non fosse chiusa. L’unico semaforo in prossimità del negozio sanguinava della sua luce purpurea e mi procurava una speciale soddisfazione appena colava sull’asfalto a mo’ di una smisurata e divaricata ferita in verticale come la coscia nuda di quel santo appestato. Chissà quali ingranaggi immobili ha inventato Dio al suo interno per costruire oggetti conditi di tempo, io fuggo da quel tempo, dagli oggetti del tempo, perché questi oggetti sono impregnati di religione, tuttu e nenti.

Parcheggiai la Mustang, mi incamminai verso il negozio, mentre la pioggia cadeva frettolosa ed entrava in contatto con le pozzanghere, senza operare distinzioni su dove capitombolare. C’è un lieve errore nella scelta e nei modi della morte, sulla sua venuta, sull’attraversamento di quest’apparente paradosso, noi ci apprestiamo a conoscerla seguendo un vero e proprio cerimoniale di degradazione ancor prima di raggiungere il posto dove c’è il morto. Sintìva io, Frank LaBella, un’inimitabile e candida franchezza nell’anima che era preannuncio di morte, cominciavo già a essere scheggiato a fondo da ciò che mi attendeva. La vidi, dunque, subito, distesa nei pressi della porta di ingresso del negozio, sotto il neon bluastro gracchiante, ceduta di carne, alla vergogna della pioggia, con la faccia tra la paura e il martirio, dimagrita al centro come se degli avvoltoi si fossero calati più volte sui resti di una festa.

Il vuoto dello stomaco non è una cosa facile da simulare. Immaginarlo senza maschera, fuori dal gioco, senza turbare una coscienza sperta, con l’umiliazione definitiva del bucu nel posto da cui escono i figli, da cui io sono sorto. Cereali piccidduzzi a forma di lettere galleggiavano nelle interiora acquose di latte e venivano a galla tutte storte e contorte poiché annacquate. Mia madre era stata squartata solo dalla pancia. Mi toccai anche io la pancia, come se fossi stato devastato dalla sua stessa fame, per contemporanea consanguineità. Strinsi in tasca al massimo la mia forchettina a due punte da carne per ferirmi e per sentire il rumorino della carne del palmo che s’apre. Poi mi portai la mano ferita dietro il fianco e fissai il volto di mia madre che era bianco come il quadrante di un orologio. Mia madre era un palcoscenico per fiere e intrattenitori, una rappresentazione mitologica di idee più complesse che infestano sdunàte i nostri sogni. Aggiustai i suoi capelli rossi sparpagliati rimuovendole dagli occhi azzurrino di gas e spostai rimasugli di cereali dalla bocca rapùta per metà da dormiente stonato e senza imbarazzo la baciai per non farla finire dritta nello scorticatoio dell’aldilà senza il mio impulsivo amore. Guardai poi le mani che sciagurate e solenni erano spezzate e attorcigliate. Mi avevano, da piccolo, addormentato, nella nostra casetta roulotte all’ingresso della città, con la stessa prontezza di chi in dignitosa povertà culla un piezzu di pane. Allontanai, però, i pericoli incommensurabili dei ricordi, della debolezza insuperabile, per rinnegare uno scandalo che avrebbe avuto il rumore fragoroso della mia definitiva solitudine.

 


Orazio Labbate, classe 1985, ha pubblicato con Tunué, Italo Svevo Edizioni, Centauria, Giulio Perrone editore e ripubblicato la nuova edizione de Lo Scuru  con Bompiani. E’ stato giurato al Premio Calvino e collabora come critico letterario con La Lettura – Corriere della Sera. E’ editor della collana Interzona di Polidoro.

“Valzer con mia madre da ragazza” – un nuovo libro di Filippo Tuena

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Una vena memorialistica e autobiografica attraversa da sempre il lavoro letterario di Filippo Tuena, a volte sotto il travestimento della finzione, a volte in modo esplicito. E ora si arricchisce di un nuovo capitolo, un nuovo libro in uscita il 6 giugno 2025. Non l’ho ancora letto, ma un libro di Tuena è sempre una buona notizia. In attesa di leggerlo, riporto qui sotto la scheda ricevuta dall’editore.

FILIPPO TUENA
VALZER CON MIA MADRE DA RAGAZZA
Prefazione di Chiara Fenoglio, con disegni dell’autore
Collana Ronzinante diretta da Marino Magliani
Pagine 64, 13 euro
OLIGO
Dal 6 giugno in libreria

In queste pagine intime e private, Filippo Tuena richiama ricordi e memorie, non suoi, ma della giovinezza della madre, convocata dalle nebbie del tempo a presentare un vero e proprio monologo dalla penombra della terza fila di un teatro in rovina, ultimo erede del rinascimentale teatro della memoria di Giulio Camillo, come Chiara Fenoglio mette in evidenza nella prefazione. Anni lontani, tra Roma e l’Istria, Trieste, Fiume e Abbazia, nel delicatissimo contesto del confine orientale italiano tra le due guerre mondiali, alla ricerca di un’identità personale da preservare e tramandare.

È proprio ai ricordi che Filippo Tuena dedica queste pagine: non tuttavia ai propri, bensì a quelli della madre. I ricordi dunque si rifrangono, divengono ricordi di ricordi, memorie altrui rivissute attraverso la scrittura: esse alimentano una riflessione sulla madre, certamente, ma anche sull’ars memoriae, sulla connessione di questa con la retorica, col racconto, con la performatività teatrale, infine con la parola letteraria, se è vero – come scrive l’autore nelle prime righe – che «davvero null’altro che l’atto del ricordare si traduce in lingua scritta». 
(Chiara Fenoglio)

I ricordi che emergeranno o che sono emersi e che io ho riletto in queste antiche pagine e ai quali ho cercato di dare ordine riguardano mia madre e sono quelli che manteneva più cari e che provengono dagli anni dell’adolescenza che trascorse in Istria, ad Abbazia e Fiume. Scrivo di quei luoghi che non ho visitato e ho conosciuto solo attraverso le sue parole.
(Filippo Tuena)

Filippo Tuena si è laureato in Storia dell’arte alla Sapienza di Roma e attualmente vive a Milano. Tra i suoi libri ricordiamo Tutti i sognatori (Fazi 1999, Premio Grinzane Cavour), Le variazioni Reinach (Rizzoli 2005, Premio Bagutta), Ultimo parallelo (Rizzoli 2007, Premio Viareggio), In cerca di Pan (Nottetempo 2023, finalista al Premio Campiello).

I Sonnambuli: IV, Suckert o la blockchain

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di Tommaso Ghezzi

Nel panorama letterario contemporaneo, poche traiettorie creative si rivelano tanto prolifiche quanto eteroclite come quella di Vanni Santoni. Un eclettismo di generi, forme e immaginari che si sviluppa su linee diverse. La peculiarità della sua opera risiede in una tensione incessante alla contaminazione, le linee stilistiche e tematiche non si giustappongono, ma si compenetrano. Possiamo identificare infatti linee separate e contigue ben riconoscibili nella carriera di Santoni: il trittico dedicato alle subculture — pubblicato nella collana Solaris di Laterza e incentrato, rispettivamente, sulla cultura dei free party (Muro di Casse), i giochi di ruolo (La Stanza Profonda) e il mondo del writing (Dilaga Ovunque, già finalista al Premio Campiello 2024)— si affianca alle incursioni nel fantasy-visionario (Terra ignota, sviluppata nei due volumi Risveglio e Le figlie del rito, e L’impero del sogno), così come all’attività critica, istintiva e militante, che lo ha visto come promoter di autori contemporanei che hanno mosso un interesse consistente nel pubblico e nella critica letteraria. Si tratta di figure eterogenee del pensiero e della letteratura come Michael Pollan e Mircea Cărtărescu su tutti, così come i recuperi di autori del passato (penso a von Hoffmanstal).

Vanni Santoni è però soprattutto un narratore. È nella narrativa che si coagula, in modo quasi carsico, l’autentico nucleo pulsionale della sua scrittura. Le ultime tre opere narrative disegnano l’arco di un autore ormai pienamente consapevole dei propri strumenti, capace di coniugare complessità e leggibilità, impianto teorico e piacere del racconto. I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019) si è posto come ambizioso affresco familiare, in cui l’eco di Thomas Mann e del Dostoevskij dei Karamazov è stata traslata in un ordito narrativo che ha sancito la sua consacrazione come “grande autore”, con un pubblico affezionato – quasi una fanbase – e un interesse critico mai superficiale. Nel 2022 con La verità su tutto, uscito sempre per Mondadori, Santoni si è mosso di nuovo nella fertile intercapedine tra la sperimentazione ibrida tra saggio e romanzo — quasi una cifra distintiva dei testi usciti per Laterza — in cui il bagaglio di theory accumulata nei campi del misticismo, dei free party, della psichedelia, e in generale della controcultura degli anni Zero, trova uno sfogo narrativo, fungendo da innesco per lo sviluppo della vicenda.

Già confrontando questa produzione più recente con gli esordi, che già manifestavano le pulsioni centrifughe dell’espressività di Santoni, si può notare come tutto si tenga. I Personaggi Precari – opera di letteratura potenziale, in cui vengono presentati personaggi con caratteri specifici e piccoli elementi di drammatizzazione, i quali non hanno campi di finzione nei quali muoversi, e sono quindi per questo precari – così come i protagonisti di Gli interessi in comune, ma anche racconti usciti in antologia come Emma & Cleo, possiamo constatare la volontà di creare un ciclo di narrazioni, nel quale tornano personaggi, elementi e ambientazioni.

Arriviamo al presente, con Il detective sonnambulo, pubblicato nell’aprile del 2025 Santoni sembra tornare a lambire le proprie origini, premendo l’acceleratore sulla preminenza del racconto, tenendo l’impianto teorico, pure presente, come guarnizione, appoggio, sostegno critico. Attingendo ai fantasmi della formazione adolescenziale — Hubert Selby Jr., Chuck Palahniuk, ma anche Bret Easton Ellis, Irvine Welsh et similia — dà forma a un oggetto narrativo che si colloca all’incrocio tra noir psicotropico e Bildungsroman allucinato.

Il risultato è un romanzo che nel titolo evoca Bolaño e soprattutto Hermann Broch, i cui protagonisti, i suoi Sonnambuli (Pasenow, Esch, e soprattutto Huguenau) incarnano tre declinazioni dell’uomo moderno in segmenti storici sull’orlo dell’abisso e della catastrofe. Allo stesso modo, Martino Suckert — il sonnambulo di Santoni — attraversa un tempo sul punto di disgregarsi, un impero che implode, non più l’Impero tedesco ma il liberismo assolutistico del XXI secolo, un’ecumene digitale ad un passo dalla singolarità, dalla cancellazione dell’umano.

La storia è quella di Martino — o Luther, come viene ribattezzato dalla seconda protagonista, Johanna — giovane italiano che vive a Parigi con il pretesto degli studi universitari, ma che compone piuttosto la sua vita di transiti precari, impieghi volatili: sogna il cinema — nello specifico, la scrittura per il cinema — ma vive un’esistenza interstiziale, una vita nei margini del visibile e del realizzabile. Un cervello in fuga che non è neanche un cervello. Quando incontra Johanna, il suo universo si riconfigura: attraverso di lei penetra in una Parigi polifonica, una città palinsesto in cui l’élite artistica e il sottobosco miserabile si sovrappongono come livelli di un’unica mappa, inafferrabile e pulsante.

Ma quando Johanna scompare, volatilizzata senza preavviso, per Martino Suckert il mondo perde consistenza. È il Peter Pan abbandonato dalla sua fatina, ma senza Isola che non c’è a cui tornare; Martino si mette quindi sulle tracce di Johanna in una caccia spasmodica che somiglia a un open world senza HUD, senza quest log, un’esplorazione cieca attraverso soglie urbane e psichiche che si moltiplicano.

La scomparsa di Johanna aveva reso di nuovo il mondo reale, ero atterrato e mi ero fatto male, e se il mondo era più reale era anche di nuovo senza direzione […] Ma era vero che con lei tutto assumeva un contorno più vivido e anche più semplice, una maggior coerenza potremmo dire, proprio come se ci fosse almeno uno straccio di regia dietro le quinte della realtà, e il caos della metropoli tornava a essere quello che avevo sperato che fosse: un segnale, un indizio, dell’essere più vicino a dove accadevano le cose… Ma dove accadevano? Quali cose, poi? Beato te, Luther, mi diceva Johanna, che non ti fai mai prendere dalla follia del mondo… Magari! Adesso l’impressione era che il mondo fosse tornato ad avere un significato grazie a Tanya: davvero avevo bisogno degli altri per dar senso alle cose?
(Il detective sonnambulo, p. 91)

In questa deriva entra in contatto con Tanja, militante radicale di un gruppo antispecista, il cui attivismo assume tratti ambigui quando la ricerca individua un personaggio chiave, che è allo stesso tempo il vero protagonista e il villain del romanzo: Manfredi Della Torre — figura cardine, asse obliquo del romanzo, avatar contemporaneo del Grande Inquisitore dostoevskiano – è un campo di forze: esperto di blockchain, accumulatore visionario, affabulatore e tycoon, è l’incarnazione estrema del paradosso postmoderno per eccellenza. È personaggio sineddotico del cryptobro, del guru inconsapevole, del ragazzino che si è ritrovato multimilionario bazzicando nel mondo dei bitcoin per puro spirito nerd, interessato per lo più al mercato delle carte Magic ed entrato in contatto con la riserva di valore più rivoluzionaria degli anni ‘10.

Piccola nota di natura personale: Mentre leggevo il romanzo, ho guardato una docuserie intitolata Dirty Pop incentrata sul manager dei Backstreet Boys e degli N-Sync, Lou Pearlman, e mi sono letto Dominio di Marco d’Eramo (Feltrinelli, 2020). Due oggetti lontani, ma che sono finiti per entrare in relazione con il libro di Santoni. Entrambi dedicano ampio spazio al meccanismo fondamentale del potere contemporaneo: la lotta di classe non è finita negli anni settanta, l’hanno continuata i ricchi contro i poveri e l’hanno stravinta; hanno imparato a far bollire lentamente i subalterni, far loro assaggiare la ricchezza e il privilegio quel tanto che basta da impedirgli di riconoscerlo come nemico e renderli complici. E Manfredi Della Torre fa esattamente questo con i personaggi: offre l’accesso a una felicità avvelenata, dà abbastanza potere da far dimenticare chi lo detiene davvero. Manfredi però, essendo un personaggio romanzesco, e in fondo un eroe postromantico, confonde talmente tanto le acque da rimanere egli stesso vittima del castello che ha costruito.

Manfredi – scopriremo poi che anche questo non è il suo vero nome – è poi colui che ha metabolizzato l’estetica e l’etica hippy, la retorica della controcultura, e l’ha rifusa in un apparato ultracapitalistico, un sistema di potere talmente sofisticato da sembrare una setta iniziatica. Silicon Valley e cyberesoterismo, anarcoindividualismo e controllo algoritmico: tutto convive in lui, in una sintesi tecnognostica, troppo bombastica ed elettrificata per non nascondere una debolezza patologica, una malinconia profonda:

– Certo, certo. È un grande dono, sai, Martino, quello di poter creare, – diceva Manfredi […] – io ci ho provato, a creare, non dico che non abbia dei talenti, di certo sono veloce, soprattutto a imparare […] ma in questi stessi anni, questi anni di fortuna e di conseguente, inevitabile ricerca, sono stato costretto a capire che non ho il dono della creazione. La creazione diretta, mi capisci? La magia del fare.
– Be’, di soldi ne hai fatti…
– I soldi! Bof, a parte che io sono stato solo tra i primi ad averli, quei cavolo di bitcoin, ben prima che il valore schizzasse su, – diceva Manfredi […]  – i soldi non sono una creazione. Si dice che i soldi si fanno, è vero, you make money, ma in realtà mica esistono, a meno di considerar tali quei foglietti che la gente tiene nel portafoglio: i soldi sono un’energia astratta, sono mana, ki, orenda, prana, shakti, sono la forza di Star Wars, il chakra di Naruto, non si creano e non si distruggono, crescono, si contraggono, respirano, sono una funzione d’onda con cui puoi o non puoi sintonizzarti…
– Il denaro non dorme mai, come diceva Gordon Gekko in Wall Street.
– Sbagliatisssssimo, Martino. Il denaro dorme sempre, il denaro sogna, è un sogno, un altro piano di realtà, sfuggente eppure grandioso
(Il detective sonnambulo, pp. 152-53)

Manfredi Della Torre non è soltanto un personaggio, ma è la cifra critica del romanzo; è intorno a lui che Martino — e con lui il lettore — comincia a comprendere che la ricerca non riguarda più Johanna, ma qualcosa di più vasto, di più oscuro: la possibilità stessa di orientarsi in un mondo che ha perso il proprio asse.

Anche in Il detective sonnambulo, come già accadeva in Dilaga ovunque, i protagonisti si muovono all’interno di un ecosistema culturale iperdenso, saturo di referenze incrociate, in cui l’arte contemporanea e il collezionismo post-concettuale diventano oggetti di riflessione, ma anche strumenti per decifrare — o forse soltanto per estetizzare — il caos. I dialoghi si muovono liberamente tra il linguaggio di Magic: The Gathering, i riferimenti agli anime giapponesi, soprattutto One Piece, Demon Slayer e Naruto, il folklore globale dei Pokémon, le teorie dell’esperienza sensoriale espansa e le sostanze psicoattive come strumenti di esplorazione dell’interiore.

…questo John Cunningham Lilly aveva dedicato la vita a studiare i delfini, convinto di poterci comunicare telepaticamente col giusto mix di LSD e ketamina… Era anche l’inventore della vasca di deprivazione sensoriale, e quel che mi svelò il tizio accendendo le luci della stanza principale, che lui chiamava “transfert area”, ovvero quella specie di sarcofago hi-tech che stava là in mezzo, pareva proprio uno di quegli aggeggi là: psichedelia quindi, nient’altro che volgare espansione della coscienza… Ora, un po’ di esperienza con gli psichedelici ce l’avevo, perché nel giro californiano erano tutti in fissa con ’ste robe, una volta ero pure andato in questa clinica a Portland, mi avevano dato dei funghi, messo tutto a mio agio in una stanzetta con un “agevolatore” che mi aiutava a guidare il viaggio verso la mia “intenzione”, che era poi avere nuove idee sulle crypto, e nulla, motivi colorati quanti ne volete, ma idee di business zero… Un’altra volta, un altro cryptobillionaire mi aveva fatto una testa così sul DMT, che a suo dire ti avrebbe fatto incontrare entità aliene… Che fai, non provi? Ma il sapore di quella roba nel vaporizzatore era orrendo, tossii di brutto e non vidi che forme caleidoscopiche… Ma avessi anche inspirato a modo, può essere alieno ciò che emerge dalla tua mente?
(Il detective sonnambulo, p. 189)

Il DMT e l’LSD non sono più, qui, droghe in senso classico, ma chiavi ontologiche: dispositivi per varcare soglie percettive, per scardinare la visione ordinaria del reale. La cocaina, paradossalmente, serve invece a “tornare normali” — come se la normatività psichica fosse diventata essa stessa un effetto collaterale, un altro stato alterato. La techno-trance è invocata non come semplice colonna sonora, ma come pratica sciamanica, come vibrazione capace di indurre visioni — qualcosa che si avvicina, inquietantemente, alla meditazione.

Tutti questi personaggi sono figli di un intreccio di sottoculture che Santoni ha già esplorato, raccontato e in qualche modo cartografato nelle sue opere precedenti. Sono creature post-identitarie, fluide, ibride, che si muovono in un paesaggio in cui l’underground non è più un altrove, ma una superficie incorporata nel sistema stesso. Il romanzo, in questo senso, non è soltanto il racconto di una vicenda individuale, ma un tentativo — riuscito, potente — di tratteggiare l’ontologia di una generazione cresciuta tra le macerie dell’utopia, e che ha imparato a usare i suoi detriti come materiale narrativo, come equipaggiamento minimo per attraversare il presente. Nella seconda parte del romanzo, l’intreccio che lega Johanna, Martino, Tanja e Manfredi Della Torre evoca da vicino le geometrie autodistruttive – quasi “giusnaturalistiche” – di Tabù di Giordano Tedoldi (uscito nel 2017 nella collana Narrazioni di Tunué, diretta, guarda un po’, da Santoni stesso). Là, i protagonisti Piero, Lucia e Bruno si ritirano in una sorta di comune fuori dal perimetro della civiltà per liberare le pulsioni e violare ogni divieto; il risultato è un progressivo collasso interno, un’autofagia dei desideri che conduce alla rovina di ciascuno. Allo stesso modo, nel libro di Santoni, i quattro personaggi vivono la loro bolla, il progetto comune tenuto in piedi con un equilibrio molto precario della Schloss, un’enorme spazio di aggregazione e residenza per artisti, attivisti e cryptobro, obiettivo principale di Manfredi Della Torre.

La differenza, però, è nella chiusura: Santoni riesce a convogliare quelle pulsioni verso uno sbocco narrativo che, pur violento, appare necessario e pienamente funzionale sia al senso complessivo dell’opera sia al ritmo incalzante del racconto. Così la spirale autodistruttiva non resta pura dispersione, ma si risolve in un gesto finale che serra le linee di conflitto, rende coerente il disegno e rilancia il romanzo oltre la semplice contemplazione dell’abisso.

Manfredi si fermò, scrollò il capo e disse: – Martino, Martino… Vedi, Martino, – come recitando una preghiera, – noi generosi e ricchi di spirito, stiamo aperti al mondo come fontane, e non impediamo a nessuno di attingere dalle nostre acque. Per questo non possiamo nemmeno impedire a chicchessia di renderci torbidi: non possiamo impedire che il tempo in cui viviamo getti in noi la sua “attualità”, i passanti le cartacce e le bottiglie, i piccioni la loro merda… Ma faremo come abbiamo sempre fatto: lasceremo che tutto ciò scenda giù, in profondità – perché noi siamo profondi, non lo dimentichiamo – e torneremo a essere limpidi… Vero che mi aiuterai, Martino? – A far cosa? Certo che ha ragione Johanna, sei proprio stancante… – dissi così, una cosa normale, e quindi fuori luogo: ma la speranza era di riportarlo almeno un po’ alla normalità.
(Il detective sonnambulo, p. 328)

 

I luoghi che costellano Il detective sonnambulo non sono semplici coordinate geografiche, ma superfici di proiezione, paesaggi simbolici la cui potenza risiede nella loro trasfigurazione. Tutti, in modi diversi, sembrano essere stati risucchiati in un processo di mutazione semantica, in un ribaltamento del loro portato immaginario e politico. La Parigi bohemien, una volta rifugio dell’avanguardia e dell’emarginazione oggi la capitale europea con i prezzi più alti, sede di una postmilitanza diffratta e capillarizzata, infestata dai celerini, dai complottisti manipolabili, dalla sorveglianza diffusa e dall’attivismo postidentitario. Tanto è forte questa geografia del romanzo – che viene ribadita nella prima parte dal name dropping di rue, boulevard, place, toponomastica esplicita – che sarebbe interessante utilizzare lo strumento critico del primo capitolo de Les Règles de l’art di Bourdieu, con gli spostamenti di Frédéric Moreau nella topografia parigina del 1848 che diventano l’orientamento analitico delle posture sociali e linguistiche che il protagonista del romanzo adotta nei confronti del circostante.

C’è poi Davos, che fu la Davos della Montagna Magica, della malattia come soglia conoscitiva e del tempo sospeso come apertura metafisica, è ora la Davos del WEF, emblema del capitalismo estrattivo che finge di redimersi tramite panel e governance. Come Castorp resta suo malgrado coinvolto dallo scenario della malattia, che lo circonfonde, lo determina, così Martino Suckert si lascia trascinare nel vaneggiamento ipermoderno di Manfredi.

E poi ci sono gli Stati Uniti, New York e Palo Alto, la California evocata da Manfredi che non è più il luogo delle comuni hippy, delle scuole vediche, dell’utopia di una controcultura che sfidava la norma, ma è la culla opaca e scintillante della Silicon Valley, dove la forza lisergica è diventata acida, con luoghi che si sono svuotati di visione e riempiti di branding, che hanno mutato pelle e postura, diventando paesaggi della deprivazione sensoriale più che della visione.

Santoni sembra indicarci che la mappa è cambiata, certo, ma non per questo è meno reale: semplicemente, è diventata un campo minato di nostalgia e disincanto, di estetica e di controllo, di memoria e potere. E in questo campo minato, l’unico movimento possibile resta — forse — il sonnambulismo.

Che sia, in fondo, questo il vero sottotesto del romanzo? Il sonnambulismo come forma artistica di diserzione e galleggiamento? Forse l’atto stesso di scrivere è uno stoico aggrapparsi a questo demi-monde vacillante, tra la realtà e l’abisso, un mondo che respinge sempre di più l’antropico e trasforma ogni visione, ogni arte in mercato? Un tentativo — lucido, quasi inconsapevole nella sua inevitabilità — di raccontarci il privilegio stesso dello scrivere, dell’essere “artisti”? Un privilegio che è razzializzato, classista, geografico: tutti bianchi, tutti ricchi, tutti immersi in un’estetica del disfacimento, della perdita, che, però, è sempre filtrata da una rete di salvataggio? Qualsiasi sia il messaggio, è scritto in maniera esemplare.

 

Desire

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di Gianluca Veltri

A volte nelle canzoni si dicono certe cose, anche se c’è solo una piccola probabilità che siano vere. A volte si dicono cose che non hanno niente a che fare con la verità […]. O magari si finisce per credere che l’unica verità esistente al mondo è che sul mondo non c’è nessuna verità”.

Bob Dylan, Chronicles Volume 1

 

Lo avevamo lasciato “aggrovigliato nel blu”, soltanto pochi mesi prima.

Ma Bob Dylan fermo non sa stare. E così torna a New York, dove tutto era cominciato. È lì che realizza e registra, mezzo secolo fa, i brani per l’album “Desire”.

Si tratta di un disco che segna un deciso cambio di registro, dopo un lavoro confessionale e di forte scavo interiore come era stato il precedente “Blood on the Tracks”, ch’era un vero e proprio manuale dei cantautori. Da un lavoro molto introverso, che guardava dentro i propri recessi più intimi, a un album molto estroverso, che getta a piene mani sé stesso nel mondo.

Desire” sarà fortemente peculiare nella discografia del futuro Nobel. Anzitutto per la sua genesi a quattro mani: quasi tutte le composizioni portano anche la firma del regista teatrale e psicologo newyorkese Jacques Levy, che aveva già collaborato con i Byrds; non è frequente riscontrare un sodalizio così totale, sebbene episodico, nel book dylaniano. Ora è momento di fervore aggregativo, per Dylan, in cui si avverte la necessità di condividere, uscire da sé, mescolarsi. E documentarlo. I pezzi di “Desire” saranno infatti l’ossatura del film “Renaldo e Clara”, diretto dallo stesso musicista e, molto più in là, del docufilm di Martin Scorsese “Rolling Thunder Revue”. L’album infatti sgorga dalla stessa fucina da cui nacque la carovana circense della Rolling Thunder Revue, “l’orchestrina di uno spettacolo di vaudeville” itinerante con cui Dylan attraversa l’America, imbarcando per strada poeti, musicisti, amici, coinvolti in una festa mobile. Per questo motivo tante canzoni del disco sono presenti anche nel film: erano nuove di zecca e si prestavano più che mai allo spirito trobadorico del tour.

Tanti sono i brani degni di nota di “Desire”, la cui grana sonora e melodica, fortemente solcata dal violino di Scarlet Rivera e dai controcanti di Emmylou Harris, si muove tra atmosfere esotiche, nostalgie gitane e caraibiche, murder ballads, scenari tex-mex, colori western e echi di sapore mediterraneo, dall’Egitto alla Francia del Sud.

Ma qui vogliamo approfondire soprattutto i due lunghi brani che aprono le rispettive facciate del 33 giri: “Hurricane” (lato A) e “Joey” (lato B).

In queste due canzoni un Dylan neorealista e cinematografico prende posizioni forti, si espone in modo apologetico in favore di due figure assai diverse tra loro: un boxeur nero in carcere e un esponente della malavita italo-americana morto ammazzato.

LATO A. Il pugile Rubin Carter, detto “Hurricane”, era stato condannato per un triplice omicidio avvenuto nel 1967, che aveva mobilitato una vasta corrente di pensiero, convinta della sua innocenza. Dopo una complessa storia giudiziaria durata quasi un ventennio, la Corte Federale si pronuncerà sulla mancanza di equità del processo, affermando che l’accusa fosse stata dettata da motivazioni razziali. Il brano di Dylan, che avrà un suo peso nella vicenda, esce subito dopo l’autobiografia di Carter, quando il tema è assai caldo e gran parte dell’opinione pubblica era schierata in favore dell’ex pugile.

Tutte le carte in mano a Rubin furono truccate,
il processo fu una pagliacciata e lui non ebbe modo di difendersi.
Per il giudice i testimoni a favore di Rubin
erano solo ubriaconi dei ghetti
per i bianchi che stavano a guardare
lui era un buono a nulla sovversivo
e per i neri era solo un negro pazzoide
nessuno dubitava che avesse premuto il grilletto.
E anche se la pistola non venne mai trovata
il pubblico ministero sostenne che il colpevole era lui
e la giuria fatta di soli bianchi fu d’accordo.

La vibrante, lunga ballata (8.35) che apre “Desire” è un pezzo che non va controcorrente, è tutt’altro che impopolare, perché si fa testimonial ulteriore di una campagna ampiamente condivisa: quella a favore dello scagionamento di Rubin Carter. Insomma, qui Dylan sta dalla parte giusta e “Hurricane” sarà destinata a diventare uno dei suoi cavalli di battaglia.

LATO B. La musica cambia decisamente, se giriamo il vinile. La seconda facciata si apre con la fluviale “Joey” (11.05), un memorabile e toccante poema epico in ben dodici strofe. Per un ascoltatore ignaro – è possibile che buona parte degli ascoltatori italiani lo fosse – “Joey” è una piccola Odissea contemporanea, imbastita dal più grande aedo dei nostri tempi. Lenta e solenne, “Joey” è il ritratto elegiaco e elogiativo di un eroe. Peccato che questo eroe fosse un boss della malavita di Brooklyn, Joseph Gallo, detto “Joe il Pazzo”, ucciso in una faida tra famiglie rivali tre anni prima, nel giorno del suo 43esimo compleanno.

Era vero che negli ultimi tempi non portava armi addosso.
Ho troppi bambini intorno”, diceva.
È meglio che neanche le vedano”.
Eppure, un giorno entrò nel locale del suo mortale nemico,
svuotò la cassa e disse: “Ditegli che è stato Joe il Pazzo”.

Un giorno a New York gli spararono in una ostricheria.
Li vide entrare dalla porta mentre aveva la forchetta alzata.
Rovesciò la tavola per proteggere la sua famiglia
e si trascinò fuori barcollando per le strade di Little Italy

Joey, Joey,
re delle strade, ragazzo d’argilla,
Joey, Joey,
perché mai sono venuti a farti fuori?

Era possibile che Gallo venisse visto come una figura in qualche modo atipica di mafioso: lettore accanito, aspirante intellettuale, attento allo stile, forse non estraneo a qualche comportamento edificante, a suo modo fascinoso con i Rayban in stile “Dylan-a-Newport”. Nel loro sodalizio, Dylan e Levy scoprirono di essere fatalmente attratti dalla figura del fuorilegge escluso dalla società, sfortunato, ingiustamente perseguitato, braccato dalla giustizia o dall’opinione pubblica. Il tema, con le sue varianti, ricorre già in “Hurricane”, oltre che in un altro brano dell’album, “Romance in Durango”.

Dylan e Levy imbastiscono il ritratto sentimentale e dolente di un paladino romantico, di un benefattore ucciso ingiustamente. Ma dalla biografia del “ragazzo d’argilla” – a opera di Donald Goddard, all’epoca fresca di stampa – si evince un ritratto radicalmente incompatibile con l’esaltazione di Gallo: psicopatico, violento, misogino, uomo di gang.

Nondimeno, la sua sorte e la sua recente morte violenta diventano un giacimento mitico e compassionevole a cui attingere. A Dylan non interessa più di tanto attenersi alla necessaria verità dei fatti, quanto invece trasformare i fatti in epos.

La canzone, la più controversa nella carriera di Dylan, sarà destinata a suscitare parecchie polemiche e altrettante stroncature, e questo riapre un’annosa diatriba tra l’arte e ciò che è socialmente e eticamente accettabile, visto che “Joey” è una canzone meravigliosa e contemporaneamente il brano più odiato e discutibile di Bob Dylan. Dove sistemiamo il limite? Fin dove alziamo l’asticella al di sopra della quale un oggetto artistico è irricevibile?

È vero che il musicista aveva sempre mostrato fascino per i criminali solitari, e ne aveva cantato le gesta senza suscitare scandali. Ma Levy e Dylan non fecero i conti – o forse sì, calcolandone il rischio – con la circostanza che Gallo non era un personaggio lontano nel tempo come certi pistoleri ormai storicizzati di secoli passati, Billy the Kid o John Wesley Hardin, le cui imprese avevano ispirato dischi precedenti del cantautore. Joe il Pazzo era invece un boss contemporaneo da poco scomparso, le cui gesta tutt’altro che edificanti erano ancora troppo recenti e presenti nella memoria americana. Sembrò assurdo che uno come Dylan, nello stesso disco in cui si ergeva a difensore dei diritti civili di un nero accusato ingiustamente a causa di pregiudizi razziali, dedicasse un poema pieno di pathos all’affiliato di una famiglia malavitosa.

In fondo anche qui, come in “Hurricane”, Dylan cerca di riabilitare, con parecchie chance di successo in meno, una figura sotto accusa. Lo fa da una prospettiva non militante, ma poetica; mentre “Hurricane” è un manifesto politico indignato, “Joey” è un canto epico.

Come spesso gli capita, Dylan, uomo che contiene moltitudini, non ha dato versioni univoche a proposito di “Joey”: è arrivato a paragonare sé stesso a un moderno Omero, definendo anche a distanza di tempo “grandiosa” la sua canzone, ma in altre occasioni ha preferito precisare che il testo del brano è interamente di Levy, e lui si sarebbe solo limitato a musicarlo e a cantarlo. La figura di Joe il Pazzo fu effettivamente tirata in ballo e suggerita al musicista dal suo sodale di turno Levy, che nutriva ammirazione per Gallo dopo averlo personalmente conosciuto. Per i due, in Joseph Gallo prevalevano le caratteristiche del perdente e dell’underdog su quelle del delinquente e del sopraffattore; uomo d’onore degno di rispetto più che spietato criminale. Joseph Gallo, dal canto suo, era desideroso di riuscire gradito all’intellighenzia newyorkese e non risultava del tutto indifferente a una parte di essa, per il suo stile e la sua preparazione culturale, acquisita negli anni di detenzione.

Il critico Lester Bangs – uno di quelli che è quasi inevitabile definire “autorevole” – è stato il più aspro detrattore di “Joey”, fino a considerarla persino una canzone noiosa, oltre che inaccettabile per aver preteso di rendere romantica la storia di un gangster. In realtà Gallo, sia questo aggiunto in fil di voce e per quel che vale, malgrado sia spesso definito “gangster” e “killer”, non fu mai condannato per aver commesso omicidi. C’è infine da aggiungere che in quello scorcio di tempo non era certo infrequente raccontare la mafia romanzandone i protagonisti oltre ogni limite, specie al cinema: Coppola, Scorsese, De Palma.

Insomma, risposta non c’è, almeno non ce n’è una sola, valida per tutti.

Se “Hurricane” unisce, “Joey” inevitabilmente divide. Per un Lester Bangs che la detesta, c’è un Jerry Garcia, il leader dei Greateful Dead, che la adorava. Non che risultare divisivo rappresenti un problema per Bob Dylan: non lo è mai stato.

 

Lunari

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di Giuliana Pala

 

Primo round
Tutto somiglia alla volta (ormai è una volta perché questo libro va pur fatto e il tempo passa)
in cui un uomo stava disteso su un cerchio e quel mondo pareva un altro mondo
e la terra pareva un’altra terra: (è così che si prende tempo una volta che l’ora è esaurita
quando comporre e ricomporre diviene un esercizio per affezionati).
Beato te, amico, che puoi esserti caro sempre, qui serve una salita, una rincorsa
che aiuti a far dell’apparso un racconto ripetibile, frequentabile a ferro freddo. 
Batto, ribatto, faccio incursioni, chiudo gli occhi a giorni alterni sperando
che si apra ancora quel mondo e la sabbia si faccia un paesaggio prossimo.
Ma è breve la visione, e quando qualcuno suggerisce: falla durare, durala, tesoro!
le acque danno in cambio novità mostruose, case di bambole, sghignazzi. 
Eppure, a volte, una boa casca ancora nel mare come un fiore sbocciato
e accorrono animali rapidi da ogni corsia, il mare diviene un giardino e si riempie 
e allora tu guardalo, corri verso il centro, di’ a gran voce: ti vedo, anzi, ti rivedo.

 

 

 

Prima strategia 
Solleva le mani alte e fai un salto nella buca
che lo facciamo vedere anche a te
così quando torni lo fai vedere agli altri, glielo dici dove sei stato
che quelli non ci credono mica, non se lo aspettano
se non fai in tempo, lo sai come va a finire
ci sono pochi istanti di sospensione e uno lo sa
che ci vuole poco per pensarsi in tutto possibile
che succede, che è parte del gioco far tornare i conti
costruire una storia fantastica di piedi volanti
con una versione sempre più vera della tua.
Per questo chiudiamo stretti gli spiragli
che se no qualcosa si impiglia
e tocca darsela a gambe.

 

 

 

Richiesta d’aiuto  
Se ti esponi faccia faccia, se dici una narrazione delle tue
lo sai che finiscono per dirti che forse è vero
che se lo hai pensato esiste, pure Wittgenstein lo dice
che si può trascrivere, dire, fare: metti per iscritto
componi, sfogati dio santo!
Si allontanano sempre nella stessa maniera:
camminano nelle foci come lunghi cortei, avanzano
li vedi andare e tu nel sogno non puoi mettere dito
non puoi infilarci le mani a tirarne fuori uno
uno a caso, quello che vuoi tu
per fargli dire: anche io, cristo!, anche io, uguale.

 

 

 

Seconda strategia
Dentro la buca devi fare un gioco strano: pensare che il vero è sopravvalutato
che niente lo è oppure lo è tutto ma che, in fondo, che importa
devi trovare una disposizione precisa, sospendere il giudizio
lasciare che il razionalismo e ogni margine di certezza collassi.
Solo quando sei così predisposto, ecco che ti circonda una luce forte
il corpo si fa tonico, le punte si sollevano ed è come sott’acqua: tutto fa un suono
abbassato di volume e intensità. Lì sotto si capisce cosa significhi sfondo:
la figura sta al centro, partecipa, traccia un punto di rapida fuga.

 

 

 

Non darti alla fuga 
Ma se cambiamo posto chissà come va a finire
bisognerà piantarla con l’avere fiducia
perché anche per quella ci vuole un credo
ci appariranno alle soste sirene e strani animali alati
e tu dovrai cacciare fuori
un certo coraggio per non farti incantare
si sa che nell’acqua succede di tutto, e il corpo non può più stare fermo,
si sa che si accetta un patto curioso, per cui è il mondo a curiosare
a dirti incalzante: Suvvia! Cos’hai da dire, così distesa?

 

 

 

Avvertimento 
Se ti prendi il mio pesce cielo giuro che ti taglio le mani
a ciascuno il suo!, diceva il saggio quando prevedeva
quando di fronte al colloquio amoroso sollevava lo sguardo
a cercare una coda o una lisca che facesse strada.
Se ti prendi il mio pesce cielo sarà un bel misfatto
e toccherà stabilire un ordine di priorità: acqua // acqua // acqua
valuta tu! ma sappilo che non è un gioco da ragazze
avere a che fare con tanto ben di dio
vedere un giorno di colpo una figura remota
farsi vicina vicina, non sapere davvero che pesci pigliare.

 

 

 

K.O., Kepler Out. 
Bravi tutti! Adesso si torna a casa, infilate i sandali
e di colpo sembra di aver indossato occhiali bianchi
(che binocoli grandi che avete!, che binocoli grandi!)
e che la pagina si sia estesa come un deserto
e abbia fatto col verso un solo misero chilometro
quanto basta per dire: questo è esistito. 
Detto fatto. Il quadro è svanito
A questa distanza, con questa postura, per caso adesso
rivedo un pesce azzurro sorridermi cubitale
aprirmi la strada come uno scrigno:
per inciso, tra i denti: sono vero.

 

 

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Giuliana Pala, Lunari, ExCogita 2025 (collana Distonia)

 

(Dalla prefazione di Riccardo Innocenti e Fabrizio Miliucci)

Un testo che non assomiglia a niente, che non ricorda ciò che solitamente ci capita di leggere. Lunari è una boccata d’aria fresca e salmastra, e ha il gusto del piccolo svarione che prende quando, ritornando a riva dopo un bagno in mare, si sale su uno scoglio poggiando il piede sulle alghe scivolose che crescono fra le patelle e i denti di cane.

Lo stile delle poesie di Pala si allontana con misura e consapevolezza dal grado zero della scrittura, senza indulgere in espressionismi da poeta “pascoliano impazzito” e dimostrando, invece, la fiducia nella possibilità che il linguaggio possa farsi creazione, essere più di un veicolo di immagini paralizzanti.

La ponderosa e sofferta ricerca di questa autrice sulle tracce della propria opera non dà, tuttavia, adito a strutture frammentarie, né tantomeno a un progetto poematico di narrazione del mondo. Lunari è un album di ricordi futuri, un esperimento sul piacere di scrivere e di ricordare, un gioco che si avvita sulla curva infinita di uno specchio riflesso in un altro specchio.

La protratta indecisione fra linguaggio e realtà avvertibile in questi testi produce effetti differenti, ma non per forza contrastanti. Pala, insomma, prova a formare cose con le parole o, al contrario, tagliuzza la materia in sillabe che finiscono per diventare figura di cose. Concreto e astratto – campi dell’espressione che non hanno più luogo al tempo del deep fake – si scambiano senza troppi problemi, vorticando attorno a un io che continua a cercarsi a fatica fra i volti che lo circondano. Da tutto ciò, Pala emerge con un tarlo in testa. Ovvero questo libro.

 

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Giuliana Pala nasce a Oristano nel 1997. Consegue la Laurea Magistrale in Italianistica, presso l’Università di Bologna. Nel 2022 vince il premio Esordi di Pordenonelegge e nello stesso anno lavora come assistente e lettrice per la Georg-August Università di Gottinga. È tra i membri fondatori del progetto Lo Spazio Letterario. Attualmente vive e lavora a Bologna.

 

 

“Il dio dei puppi”: satira queer, autocritica e risate sacre

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di Rosa Maria Di Natale

C’è un dio che non promette salvezza né castiga i peccatori. Un dio che non sta nei cieli, ma sul palco di una drag night. Un dio che detta comandamenti con glitter e rossetto e invita alla liberazione, ma solo se prima hai imparato a ridere di te stessə. Questo dio si chiama Il dio dei puppi, e abita le pagine dell’omonimo libro (Il dio dei puppi è grande e ti punisce) firmato da Alessandro Motta, insegnante, bioeticista e attivista queer, e Dario Accolla, insegnante e attivista gay (Villaggio Maori Edizioni).

È un testo che assomiglia a un culto improvvisato in un retro palco, a un sermone predicato tra ironia, identità e rabbia lucida. Ma più che offrire risposte, il dio dei puppi alza specchi. Non per vanità, ma per necessità: “La parola chiave, in un caso o nell’altro, è sempre quella: marginalità”.

“Puppi”, parola anticamente usata come insulto in siciliano, qui viene risignificata e fatta brillare. “Si è scelto il termine dialettale puppi sia per dare un nuovo significato a quello che era un insulto, sia per creare un nuovo termine in cui la comunità queer possa riconoscersi. Affinché il processo di nominazione non sia affidato al soggetto oppressore, ma a una risignificazione di chi quell’oppressione la subisce”

In una sola mossa linguistica, il dolore diventa potere, lo stigma si fa bandiera. Una lezione capitale: il linguaggio non descrive soltanto il mondo, lo costruisce. E se chi opprime nomina, allora la vera sovversione parte dal togliere la penna al carnefice.

Il dio dei puppi detta i suoi comandamenti – anzi, “suggerimenti”- con l’eleganza impietosa delle grandi icone queer: “Ti ho dato l’orgasmo. Godine!”; “Onora la madre, il padre, la madre e la madre, il padre e il padre, la madre e il padre. Ma solo se lo meritano”. È in questi passaggi che la satira si fa teologia alternativa, un breviario queer che dissacra per rivelare.

Motta e Accolla non risparmiano nessuno, neanche la comunità arcobaleno. Anzi, proprio lì dove la retorica tende a incensare, loro incidono: “Per troppo tempo la comunità queer è stata dominata da quello sguardo (del sistema ndr) che, storicamente, ha marginalizzato le altre identità”. Così, il dio dei puppi diventa anche giudice interno, capace di denunciare il culto della mascolinità tossica, il classismo dentro il movimento, la gerarchia delle accettabilità.

E se la religione ha bisogno di santi, il queer ha bisogno di icone. Ma anche qui il pantheon traballa. Judy Garland, “la madre di tutte le icone moderne”, che con Over the Rainbow regalava una via di fuga oltre i confini dell’eteronormatività. Madonna, che cantava nel 1992 In This Life per l’amico morto di AIDS, diventando una delle prime testimonial globali della lotta. E poi, naturalmente, Raffaella Carrà: “Bionda e non ne parliamo più! Un bel caschetto biondo con la frangia. Flessibile assai che deve fare certi movimenti che la gente dovrà dire: E si vede che questa l’ha creata il dio dei puppi”.

Ma l’adorazione cieca non convince, perché anche le muse cadono. Arisa, un tempo madrina dei Pride, poi indulgente con chi nega i diritti. Cuccarini, in bilico tra passato glitterato e dichiarazioni anti-matrimonio egualitario. “Essere icone non basta: serve coerenza”.

La satira del dio dei puppi tocca anche la più intima delle pratiche queer: il coming out. Un atto di rottura che, come nell’Esodo biblico, ha a che fare con l’uscita dalla casa del padre. “Lasciare la casa paterna è una necessità, soprattutto per quelle persone LGBTQIA+ che vivono in piccoli contesti”. Qui la città diventa la nuova Terra Promessa: Milano, Roma, Bologna, ma anche Palermo e Catania; spazi in cui esistere non è più trasgressione, ma sopravvivenza.

Fabio Corbisiero, sociologo e autore di Città arcobaleno, lo dice chiaramente: “La città, assieme ai suoi quartieri, è l’arena entro cui si articolano i discorsi e i movimenti della comunità omosessuale che, in maniera progressiva, chiede a quella stessa città di farsi carico delle proprie questioni, soprattutto del diritto a spazi pubblici più sicuri”.

Le metropoli diventano santuari, ma anche campi di battaglia. La visibilità non è solo diritto individuale: è pratica politica.

Nel cuore del testo si legge una verità semplice e feroce: “Il problema non è il desiderio omosessuale, ma la paura dell’omosessualità”. Guy Hocquenghem lo scriveva già nel 1972. E Foucault, pochi anni dopo, gli dava man forte: il sesso è terreno di potere, e il piacere è sempre politico. “Il patriarcato disegna il pentagramma, decide il tempo e la chiave, ma siamo noi a metterci le note e a cantarlo”. Il dio dei puppi, in questo senso, è un’orchestra queer che suona fuori spartito.

Il libro di Motta e Accolla non chiede l’adesione cieca, ma l’autoironia. È un testo che riporta la comunità LGBTQIA+ a fare quello per cui è nata: spostare l’equilibrio, rompere le righe, generare bellezza fuori norma. Ma serve moltissimo agli etero, sia perché il “pensiero eterosessuale dominante non ha molto rispetto per coloro che considera «eterosessuali», sia perché (sempre Guy Hocquenghem) “non esiste una reale distinzione del desiderio, tra persone omosessuali ed eterosessuali. Tale divisione è un costrutto sociale da mettere in discussione”.

Perché, come scrivono i due autori, “mentire è necessario. Lo so, lo sai. Ma non su chi siamo. Su quello, non si transige”. E se Dio, questo dio queer e sarcastico, esiste davvero, allora ci guarda mentre balliamo. E ride con noi.

Storie di donne e Resistenza

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di Daniela Cassini

quella che segue è l’introduzione, a cura delle autrici Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke Loiacono, al loro volume “PROTAGONISTE – Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligure“, recentemente edito da Fusta Editore

di Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke Loiacono

Dall’Archivio Storico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Imperia (ISRECIM) affiorano storie straordinarie di fatti e di persone che costituiscono la Storia di questo angolo di Paese, il Ponente ligure, in un periodo particolare e determinante quale la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza, che è stato raccontato in alcune opere fondamentali tra cui la Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria).

E molte altre ne possiamo annoverare, di valenti studiosi e studiose locali, opere che hanno costituito le fonti di questo nostro lavoro, insieme alla raccolta di testimonianze dirette.

Questo è un libro di passione, non pretende di essere esaustivo, ma è un percorso dentro la memoria locale per riprendere il filo di ideali, sentimenti, esperienze e aspettative che interessano ancora, per «orientarsi nella modernità confusa e smarrita», come dice Lidia Menapace. Continuare a ricordare e raccontare vite per sconfiggere il silenzio e l’oblio, per dare nuova voce a protagonisti e protagoniste che, nell’oscuro della quotidianità del loro tempo e poi di archivi polverosi e spesso inaccessibili, ancora parlano a questo nostro tempo attraverso “ricordi comuni” che ci restituiscono in modo potente vicende poco conosciute, ma significative.

Come scrive Carlo Greppi nel suo storie che non fanno la Storia «nulla come la storia con la S maiuscola ci può distogliere dalla sua utilità. La storia politico-diplomatica – in genere, la storia del potere -, la storia economico-sociale e la storia del pensiero o delle idee sono di immenso interesse, ma sono l’architrave su cui, è bene ricordarselo, si innestano le vite delle persone. Che sono in parte inafferrabili, incostanti, contraddittorie – tutti tratti che le rendono uniche. E in questa complessità e unicità, chiunque si può immedesimare.» Ognuna di queste vite racconta di una scelta fatta, che ne rappresenta la particolare unicità. Nel nostro caso, storie di donne “uniche”.

Per quella che è stata definita la “Resistenza taciuta”, il percorso del racconto pubblico della partecipazione delle donne alla Resistenza non è stato facile né immediato dopo la Liberazione, anzi. Solo dagli anni ’60 e più ancora dagli anni ’70, si impone lo studio sul ruolo delle donne durante la lotta partigiana e la sanguinosa guerra civile italiana.

Quegli studi nel corso degli anni rappresentano un patrimonio di intelligenza e di impegno che è il nostro corredo, significativi “nell’insieme”, memorie che colmano una lacuna, facendo emergere la partecipazione attiva delle donne alla Resistenza, come scrive Bianca Guidetti Serra nel suo Compagne, una prima narrazione corale di donne resistenti dell’area torinese. Esperienze, ruoli e responsabilità diversi nell’impegno militante, anche “vissuti” diversi, ma l’inizio di una «autobiografia politica di ciascuna» che con il tempo diventa collettiva. Questi sono stati gli intenti che hanno mosso alcune ricercatrici in quegli stessi anni ’70 a raccogliere interviste ad alcune partigiane della nostra Provincia, nell’ambito di una collaborazione con ISRECIM (1976) e di cui in questo lavoro diamo conto.

Lidia Menapace ribadisce nel suo racconto Io partigiana, la mia Resistenza «una questione non risolta nella Resistenza e nella sua storiografia è quella del riconoscimento del ruolo delle donne. Non si è ancora chiusa e definita, credo anche perché non ci fu un solo modo di essere resistenti nemmeno per gli uomini: anche tra noi donne ci furono quelle più politicizzate, quelle che seguivano mariti fidanzati fratelli, quelle che cercavano di essere emancipate fino a portare armi e quelle che pensavano a una presenza come cittadine di pieno diritto.» Senza dimenticare (e Lidia Menapace non lo fa) «l’imbarazzo e i giudizi della dirigenza resistenziale» all’indomani della Liberazione rispetto alla visibilità delle donne partigiane.

Un emblema di questa presenza concreta costituita da donne, tra vita vissuta e letteratura,  viene da Joyce Lussu nel suo libro di ricordi Fronti e Frontiere, in cui narra la Resistenza in fuga e la lunga clandestinità sua e del compagno Emilio e dove titola ciascun capitolo del  racconto con un nome di donna di quelle incontrate nel suo faticoso percorso, un segno di riconoscenza e riconoscibilità: «Pure io lascio, in cima a ogni capitolo, questi nomi che mi sono cari, non come titolo, ma come dedica; e questo intero libro dedico a mia madre, che a sessantacinque anni ha saputo affrontare il carcere fascista e il confino, con semplicità.»

Ora ci troviamo davanti un importante complesso – sicuramente non ancora completato – di storie di donne di diversa provenienza, con differenze socio-culturali ed economiche, di cui è difficile paragonare le condizioni di vita, partigiane di città e partigiane di campagna. A partire da chi sceglie consapevolmente  la via della lotta antifascista, magari sostenuta da studi, da una famiglia o un  contesto impegnati, la partecipazione femminile si allarga anche in modo sotterraneo e non organizzato, mossa «da un conflitto che si combatte nelle quotidiane sofferenze della vita, giorno per giorno; donne anonime, non colte, lontane dalla partecipazione attiva nella politica, vittime della fame, di altri disagi o violenze che subiscono passivamente  le sofferenti ricadute della guerra totale, fatta di rastrellamenti, bombardamenti, stragi e stupri di massa.» E continua Michela Ponzani in Guerra alle donne: «Il fatto che la guerra sia vissuta attraversando simultaneamente tutte queste esperienze impedisce una sistematizzazione schematica e classificante della complessità delle vicende delle protagoniste, eterogenee, molteplici e compenetranti.» Tutte allo stesso modo pagarono un prezzo molto alto in termini morali e fisici, dalle conseguenze personali molto pesanti. E tutte furono protagoniste anche di una sorta di «guerra privata», per la liberazione di sé stesse.

Si è accesa  così, tardivamente, la luce sulla Resistenza vera delle donne, quella reale e vissuta, non ridotta a immagine stereotipata, rappresentando nella sua essenza una radice di lotte recenti: «Un’appassionante avventura storiografica e insieme, per le protagoniste, una faccenda molto personale. Perché trovare la propria voce, talvolta, è una questione di vita o di morte» chiosa Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne.

Come vedremo, per molte è stato raccontare a voce o scrivere, anche sul finire della vita. Un lavoro di scavo e di svelamento che merita ancora di essere proseguito.

 

Per fortuna l’Archivio dell’ISRECIM è luogo aperto e accogliente ed è stata forte la tentazione di far venire a galla ancora storie di vita che costituiscono una fotografia al femminile del nostro Ponente ligure, incorniciata tra le figure più alte della Resistenza italiana, apparentemente distante nel tempo, ma sempre viva e pulsante, fatta di mille intrecci che ancora ci coinvolgono. Per questo abbiamo pensato a questo libro come ad un “album di famiglia” dell’epoca fatto di scritture ed immagini, un doveroso e sentito riconoscimento alle donne resistenti della Provincia. Un lavoro di tessitura tra ricerche su testi e documenti e testimonianze dirette, tenuto insieme da fili comuni, nuove conoscenze, conferme.

Ecco allora emergere la realtà del Gruppi di Difesa della Donna in Provincia di Imperia, la storia delle sorelle Evelina e Giuliana Cristel, la loro attività resistenziale a Sanremo e la deportazione; la rete fondamentale di tante donne per la sopravvivenza nelle zone contadine dell’entroterra ponentino con le loro rievocazioni; i ruoli decisivi di staffette, infermiere, ostetriche, partigiane combattenti, nella mappa e nell’organizzazione interna della quotidianità della lotta partigiana; la storia sorprendente dell’ebrea tedesca Dora Kellner e la sua pensione sanremese Villa Verde, crocevia e rifugio di esiliati; l’amicizia partigiana di Alba Galleano e Lina Meiffret con i racconti inediti di quest’ultima e infine il diario di una bambina nella Resistenza dei genitori a Ventimiglia, come risulta dai documenti conservati nell’Archivio privato Giacometti-Loiacono.

Il racconto di un’altra Resistenza, complessa e multiforme!

LE AUTRICI

 

La memoria rimossa della “spagnola”

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[All’inizio dell’anno, per Luca Sossella editore, è uscito grazie al lavoro del Laboratorio “Soldado de Nàpoles” L’influenza della guerra. La memoria rimossa della “spagnola”, un volume collettivo che raccoglie quattordici interventi di altrettanti autori e autrici provenienti da campi disciplinari diversi. Questo studio, su di un fenomeno storico tutt’ora in gran parte rimosso, è introdotto da un saggio di Gabriele Frasca, di cui pubblichiamo un estratto.]

di Gabriele Frasca

Il canto dell’oblio

I had a little bird,

Its name was Enza.

I opened up the window

And in flew Enza.

Nursery Rhyme (1918)

Alla memoria di mio padre Vincenzo

e di sua madre Anna Di Tuor

Camp Grant, Illinois

(…)

Gli americani, contrariamente ai cugini europei, la guerra non l’avevano nel sangue. Non ancora. In compenso portavano nell’organismo il virus che avevano trascinato al fronte direttamente – a quanto sembra, ma la questione torna puntualmente a essere dibattuta – da Camp Funston, nel Kansas, dove si era manifestato contagiosissimo fra il tardo febbraio e i primi di marzo di quello stesso anno [1918], provocando nel giro di pochi giorni una quarantina di decessi per complicazioni polmonari. I medici militari, che forse avevano fatto solo in minima parte tesoro di ciò che aveva insegnato loro la guerra civile[1] – che cioè in un conflitto si muore più del propagarsi delle malattie, persino di quelle apparentemente banali, che del fuoco nemico[2] –, non erano riusciti in quell’occasione proprio a capacitarsi della repentinità dell’evento, e forse avevano sottovalutato quelle che sarebbero state le sue conseguenze, convinti com’erano di avere preso tutte le misure necessarie per insegnare ai soldati le più elementari norme d’igiene, e per essere pronti a contrastare, o quanto meno a tenere a bada, ogni eventuale agente patogeno. La medicina nell’arco dell’ultimo trentennio aveva fatto passi da gigante, e da quando la nazione era entrata in guerra, a ispezionare le condizioni sanitarie del contingente in formazione, era stato chiamato uno dei più grandi patologi, William Henry Welch, il preside della facoltà della Johns Hopkins University School of Medicine. Eppure, persino quel luminare non si era mostrato allarmato dall’inatteso incremento di morti per polmonite, al punto che nell’estate di quello stesso fatidico 1918 sarebbe quasi stato sul punto di tornare alla vita civile, ritenendo esaurito il suo cómpito[3]. Ed era stato così che a marzo da Camp Funston, grazie allo spostamento di truppe – che nessuno aveva pensato di arrestare, anche in virtù di un indice di mortalità che poteva ancora essere considerato sostanzialmente basso –, la malattia, la “grippe” (per usare un francesismo in voga) che in tanti avevano ritenuto nient’altro che una recrudescenza della cosiddetta influenza “russa” apparsa per la prima volta nel 1889 e durata diversi anni, si era propagata rapidamente negli altri campi di addestramento reclute del Paese, raggiungendo sul finire del mese anche la popolazione civile. E naturalmente sbarcando ai primi di aprile in Europa, esattamente nel porto di Brest, per l’appunto a braccetto col contingente americano, sempre più sollecitato dagli Alleati ad affrettarsi a compensare le perdite provocate dall’”operazione Michael”, con cui i tedeschi avevano ripetutamente tentato, senza però riuscirci completamente, d’incunearsi fra le unità britanniche e quelle francesi. Da lì, nel giro di poco, seguendo il flusso delle truppe, il morbo aveva dilagato in tutto il continente, raggiungendo inevitabilmente in un baleno la stessa prima linea. Le trincee, da una parte e dall’altra, si erano svuotate rapidamente, ma le vittime maggiori si erano contate in quell’occasione fra i soldati tedeschi, esausti e decisamente malnutriti a causa del prolungato blocco navale inglese[4]. Per il generale Erich Ludendorff, nel ricordare quegli eventi soltanto l’anno dopo, non ci sarebbero stati dubbi: le truppe germaniche erano state fiaccate in quell’occasione dal Blitzkatarrh, come fu inizialmente definita la malattia, più che dalle armi nemiche[5]. La Kaiserschlacht si era rivelata così per loro un disastro, e forse anche grazie all’apporto in verità sottovalutato dei soldati americani, inconsapevoli attori della prima guerra batteriologica mondiale[6]. Ma i virus non militano mai sotto una sola bandiera.

In patria nel frattempo le gerarchie militari erano sempre di più esasperate, e il generale “Black Jack” Pershing, dal teatro di guerra europeo, non faceva nulla per nascondere la sua irritazione: la guerra, giunta infine l’estate e coi tedeschi oramai alle corde prima di quanto non avesse supposto, stava finendo, e il contingente non era ancora pronto, cosa che rischiava infine di renderlo superfluo, e allontanare Wilson dal tavolo delle trattative. Era o non era questo che gli aveva chiesto il presidente? Tempo per costruire ulteriori campi, magari con l’intento di distanziare le reclute, come i medici militari avevano cominciato timidamente a suggerire, non c’era più. Così, la necessità di raggiungere rapidamente il numero giusto di soldati per sferrare la prima offensiva in proprio – come sarebbe infine accaduto solo a due mesi dall’armistizio –, costrinse allora le gerarchie militari americane a una scelta radicale: quella di sovraffollare i campi. Era questo che era successo fra l’estate e l’autunno a Camp Grant, nell’Illinois. Quando il colonello Hagardon ne aveva assunto il comando ad agosto, il numero delle reclute ospitate era già salito da 30.000 – ben oltre la capienza della struttura –  a 40.000, al punto che era stato necessario fare ricorso alle tende. In quello stesso mese, per ironia della sorte, l’ufficiale medico del campo, Joe Capps, aveva pubblicato sul “Journal of the American Medical Association” alcuni suggerimenti per prevenire e controllare il diffondersi di quella strana malattia, consigliando fra le altre cose una quarantena di tre settimane per i nuovi arrivati e un severo distanziamento fra le brande, che avrebbero dovuto essere separate le une dalle altre da tramezzi di stoffa[8]. Il colonnello Hagardon non era insensibile a tali misure d’igiene, ma il rigido autunno dell’Illinois, che cominciò a mordere le carni dei suoi soldati già con l’arrivo di settembre, lo mise di fronte alla necessità di dover operare una scelta, fra il rischio di assideramento degli occupanti delle tende e quello di una caserma stracolma di brande e senza alcuno spazio dove poter isolare nessuno. Sciaguratamente optò per la seconda soluzione… non che se avesse scelto la prima le cose sarebbero andate chissà quanto meglio. A quel punto l’ordigno era stato innescato. E dire che i futuristi italiani, con una lungimiranza – o una cecità – perfettamente in linea con quella di tanti intellettuali borghesi europei alla vigilia del conflitto, avevano definito la guerra «sola igiene del mondo»[9]!

Ma per tornare al colonnello Hagardon, fu l’arrivo di un gruppo di reclute da Camp Devens a far precipitare rapidamente la situazione. In quel campo del Massachussets, operativo solo dal 5 settembre 1917 come acquartieramento temporaneo, era difatti praticamente successo di tutto, da quando si erano avuti i primi nuovi casi di quell’influenza – dichiarata finalmente tale solo il 12 settembre – che altro non era che la seconda ondata della cosiddetta “spagnola”, la più letale, che tornava come un boomerang dall’Europa. Al molo Commonwealth, nel porto di Boston, si era sovrapposta inavvertita alla prima ondata grazie ai marinai di ritorno dal vecchio continente alla fine di agosto[10], per diffondersi rapidamente fra la popolazione e raggiungere nel giro di una settimana per l’appunto Camp Devens, che distava dalla città solo trenta miglia. Nel giro di pochi giorni l’ospedale del campo aveva visto assieparsi seimila ammalati, e la mortalità – a causa del sopraggiungere sempre più frequente di una forma devastante, e forse persino mai vista, di polmonite, che finiva ben presto col tingere di un viola cianotico il volto dei moribondi[11] – aveva finito col toccare picchi in precedenza impensabili[12]. Il tutto accadeva in un inspiegabile vuoto di potere ai vertici del Dipartimento medico militare, da cui il Segretario alla guerra Newton Diehl Baker aveva da poco allontanato per limiti di età il generale medico William Crawford Gorgas – l’eroe della lotta alla febbre gialla e alla malaria nella guerra ispano-americana e durante la costruzione del canale di Panama – prim’ancora che il successore Merritte Ireland s’insediasse al suo posto. Era toccato così al generale medico di brigata Charles Richard, in qualità di facente funzione, inviare per un’ispezione a Camp Devens i migliori ufficiali medici esperti di malattie respiratorie in quel momento a disposizione, fra cui, oltre allo stesso William Welch, il veterano Victor Clarence Vaughan, che sebbene nella sua lunga carriera aveva combattuto tante malattie infettive, era rimasto, a sua detta, psichicamente sconvolto, quando si era reso conto di quanto la medicina non fosse assolutamente in grado di tenere fronte alla situazione[13]. L’agente patogeno restava d’altra parte misterioso, e non c’era bacillo di Pfeiffer o batterio da filtrare che si lasciasse riconoscere, se non come l’agente di una sovrainfezione. Alla fine di settembre i casi nel campo sarebbero diventati 14.000, cioè il 28% dell’intero numero dei soldati lì alloggiati, con 757 decessi[14]. L’allora colonnello Vaughan, dinanzi a un quadro epidemiologico così allarmante aveva suggerito diverse misure di profilassi, non ultima la sospensione di tutti i trasferimenti; e da parte sua il generale Richard, per nulla intimidito dal suo ruolo di facente funzione, non aveva esitato a raccomandare al Capo di stato maggiore March di evitare spostamenti di truppe da quei campi dove la malattia oramai imperversava. E sebbene il generale Peyton March avesse dato a vedere di approvare tale raccomandazione, la macchina bellica era oramai praticamente inarrestabile, così che il contagio, dal nord-est del Paese dove si era inizialmente manifestato, aveva seguito la sua marcia inarrestabile verso sud e verso ovest, seguendo le carovane militari, e arrivando così il 18 settembre a Camp Dix, nel New Jersey, il 20 di nuovo a Camp Funston[15]… e via di séguito verso la California, come nel grande mito fondativo americano[16]. Nel frattempo, dalla costa orientale, continuavano a partire le navi destinate a trasbordare i rinforzi che il generale Pershing non smetteva di reclamare. Il Leviathan, per fare un solo esempio – una massiccia nave tedesca che era stata varata come Vaterland ad Amburgo solo tre anni prima, e si era ritrovata per caso in America all’ingresso della nazione in guerra, finendo così con l’essere requisita – avrebbe levato l’àncora da Hoboken, nel New Jersey, il 29 settembre[17]

Quanto a Camp Grant, la mattina del 21 settembre si erano manifestati già i primi casi, che divennero 108 prima della mezzanotte. In due giorni l’influenza conquistò l’intero campo, e a partire dai primi di ottobre il numero dei decessi si assestò su non meno di 100 al giorno, con i farmaci che cominciavano a scarseggiare e i medici e le infermiere che a loro volta si ammalavano[18]. Quello spreco di vite di giovani in salute, continuo, inarrestabile, il colonnello, che aveva insegnato 14 anni a West Point, non riusciva proprio a tollerarlo. Sempre che non gli risultasse insostenibile la vergogna di non poter eseguire l’ordine d’inviare le reclute verso il loro porto d’imbarco. E quel giorno, l’8 ottobre, dopo aver letto la lista dei nuovi decessi, chiese all’attendente di allontanarsi dall’ufficio, e si sparò un colpo alla tempia. Il colonnello Charles Baldwin Hagardon, a quello che è dato sapere, è l’unico rappresentante delle gerarchie militari, fra tutte le nazioni belligeranti, ad aver volontariamente pagato per le proprie responsabilità nella diffusione di quella che al momento è ancora la peggiore pandemia della storia.

(…)

La conta delle vittime, il cui numero apparve comunque da sùbito spropositato, non potrà mai raggiungere una cifra che possa essere ritenuta ufficiale; e non soltanto perché i dati che giungono per esempio dall’Africa o dall’Asia risultano inficiati dall’inadeguatezza dei sistemi di rilevazione e archiviazione che furono coevi agli eventi, ma anche perché persino in “società ordinate con servizi medici e statistici ben consolidati”, come l’Europa e l’America settentrionale, tutto dipendeva dalle diagnosi mediche individuali, che potevano come si è visto ascrivere i decessi a cause diverse. I morti di polmonite del periodo, innanzitutto, ma anche quelli di tubercolosi, risultano ovviamente indiziati di nascondere da qualche parte il volto violetto del virus. Senza dimenticare che l’influenza all’epoca non rientrava fra le malattie sottoposte all’obbligo di denuncia, e quindi il più delle volte spariva dalle schede necrologiche. Sta di fatto che però proprio in Italia i numeri cominciarono a circolare assai per tempo, forse persino prima che in altre nazioni, grazie all’economista e statistico mantovano, ma di formazione universitaria napoletana, Giorgio Mortara, che pubblicò già nel 1925 per la crociana Laterza il saggio La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra. Le cifre lì ci sono tutte, persino più alte di quelle che successivamente sarebbero state fornite su scala internazionale; anche se in qualche modo si districano a fatica, non tanto dal numero dei caduti nel conflitto, ma soprattutto in àmbito civile da una mortalità complessiva che l’ovvio propagarsi della cosiddetta “triplice endemia” (tubercolosi, sifilide e malaria), e soprattutto gli stenti dovuti a una politica alimentare da parte del Regno d’Italia a dir poco avventata, aveva incrementato non poco. Comunque per Mortara, che a lume di statistica si basava sulla stima dell’eccedenza di decessi tra i civili negli anni in questione, le vittime di “spagnola” nella nostra penisola fra l’ottobre del ’18 e la primavera del ’19 sarebbero state addirittura 530.000, che diventavano facilmente 600.000 aggiungendovi i morti nei comuni invasi dagli austriaci dopo Caporetto (da cui non si avevano conteggi affidabili) e naturalmente i prigionieri di guerra come quelli che aveva visto spegnersi Gadda. Erano cifre spaventose – e lo sono anche quelle più contenute proposte attualmente –; ma erano se non altro qui da noi alla luce del sole, sia pure nella penombra di un volume per molti versi innovativo. E se la guerra, nelle parole di Benedetto XV, era già stata definita il 1° agosto del 1917 un’”inutile strage”, quale espressione, con quelle cifre, avrebbe dovuto rendere conto della ”spagnola” a conflitto ultimato? Massacro? Genocidio? Olocausto? E soprattutto, se nelle parole del papa non si può che leggere un rimprovero a tutte le classi dirigenti delle nazioni coinvolte, chi avrebbe dovuto mai essere ritenuto responsabile di quella vera e propria sconsiderata ecatombe che faceva impallidire la stessa ”inutile strage”? Il fato? L’ignoranza? Dio? I numeri, si diceva, altrove ci hanno messo del tempo per divenire pubblici, rimanendo per lo più a disposizione della consorteria (in ascesa durante tutto il Novecento) degli epidemiologi. In America il primo, e per molto tempo l’unico, a provare a fornirne, fu il batteriologo Edwin  Oakes Jordan, che nel suo volume del 1927 Epidemic Influenza, apparso per l’American Medical Association, avrebbe proposto un numero complessivo mondiale di 21 milioni e seicentomila morti – anzi, per l’esattezza, per ripetere i suoi calcoli chissà in base a quali informazioni così puntuali: 21.642.283 – , una cifra alla luce dei fatti decisamente al ribasso, che sarebbe stata però ritenuta attendibile per circa sessantacinque anni. Il che voleva dire che pur non essendoci in America, come altrove, famiglia che non aveva i propri lutti, nessuno chissà perché era in grado di fare due più due. Va anche detto che persino nel 1991 gli epidemiologi americani Patterson e Pyle si limitarono in verità solo a ritoccare la cifra totale, portandola a 30 milioni, e continuando a sottostimare il numero delle possibili vittime nelle varie parti del mondo. È stato dunque solo a ottant’anni esatti dall’evento che la vera portata della pandemia si è manifestata per quello che era, in virtù dei nuovi conteggi a opera di Niall Johnson e Jürgen Müller, che portarono il numero delle vittime a 50 milioni, sebbene il geografo australiano e lo storico tedesco si sentissero immediatamente in dovere di avvertire che anche quel dato poteva risultare sottostimato, addirittura del cento per cento. E finanche di più, a tenere dietro alla caute proposte dei loro interventi successivi. Il che faceva intravedere un numero di morti inimmaginabile. Solo in America erano decedute almeno 675.000 persone, col rischio che tante altre fossero sfuggite alle registrazioni. Eppure, persino riferendosi alla cifra più bassa, la “spagnola” negli Stai Uniti avrebbe fatto in tal modo più vittime dei soldati stessi americani caduti nelle due guerre mondiali, in Corea e in Vietnam. E se per davvero ci si limita a raddoppiare la cifra minima proposta da Johnson e Müller, un simile raffronto lo si può facilmente portare a livello globale. Com’era stato possibile allora che tutto questo fosse per tanti anni finito nelle pieghe della storia, e sotto il tappeto della storiografia?

(…)

*

Note

[1] Ci avrebbe pensato, nel febbraio dell’anno dopo, e dunque durante la terza ondata di quella stessa malattia, la dottoressa Loy McAfee – una delle 55 donne che furono arruolate, pur senza gradi, dall’esercito americano per incrementare il numero dei medici militari –, pubblicando sul “Journal of the American Medical Association” il breve saggio Epidemic Influenza in the Medical and Surgical History of the Civil War. Si veda Reznick, Jeffrey S., The Past, Present and Future of Memory. Medical Histories of the 1918-1919 Influenza Epidemic in the United States, in Beiner, Guy (a cura di), Pandemic Re-Awakenings. The Forgotten & Unforgotten “Spanish Flu” of 1918-1919, Oxford University Press, Oxford 2022, pp. 234-243.

[2] E questo malgrado un personaggio di spicco come Victor Vaughan, a sua volta veterano della guerra ispano-americana, e sopravvissuto in quel frangente alla febbre gialla, avesse richiamato l’attenzione, dalle pagine del “Journal of Laboratory and Clinical Medicine”, e proprio nel marzo di quell’anno, sul fatto che l’addestramento delle truppe, e il necessario concentramento di tanti giovani provenienti da ogni angolo del Paese nelle caserme, avrebbe inevitabilmente incrementato la possibilità di diffusione di malattie infettive e la stessa mortalità. Si veda Byerly, Carol R., Fever of War, cit., p. 39.

[3] Crosby, Alfred W., America’s Forgotten Pandemic, cit., pp. 3-4.

[4] Barry, John M., The Great Influenza. The Story of the Deadliest Pandemic in History, Penguin, London 2004, p. 171. Andrà ricordato, per passare in rassegna anche il fronte alpino, che mentre la prima ondata in Italia, con i primi casi registrati nell’aprile del 1918 nell’esercito regio, fu relativamente mite – rispetto alle altre malattie che imperversavano in trincea e nei campi di addestramento, dalla dissenteria batterica al tifo addominale, senza dimenticare la scabbia, la tigna e il vaiolo portato dai prigionieri rumeni che giungevano dal fronte russo –, per le forze austro-ungariche, il congiungersi della prima con la seconda ondata dell’epidemia influenzale, fra l’estate e l’autunno di quell’anno, fu addirittura devastante, portando l’esercito schierato sul fronte, in cui tanti si ammalarono e non pochi disertarono, dai 650.000 uomini di luglio ai 400.000 di ottobre (Cornwall, Mark, The Undermining of Austria-Hungary. The Battle for Hearts and Minds, MacMillan Press, London 2000, p. 411). Per quanto riguarda i dati relative all’esercito italiano, si veda Cutolo, Francesco, L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale, I.S.R.Pt Editore, Pistoia 2020, pp. 101-106.

[5] Luderndorff, Erich, Ludendorff’s Own Story. August 1914 – November 1918, Harper and Brothers, New York 1919, vol. 2, p. 277 (si tratta della tempestiva traduzione inglese delle memorie del generale, apparse nel 1919 a Berlino col titolo Meine Kriegserinnerungen 1914-1918).

[6] E dire che una delle prime reazioni in America al propagarsi della malattia era stata l’ipotesi che il morbo fosse stato diffuso sulle coste dai tedeschi tramite gli U-boat… se non, più subdolamente, fra la popolazione civile con la stessa Aspirina. Si veda Opdycke, Sandra, The Flu Epidemic of 1918, cit., p. 8. Su quanto questa teoria della propagazione del contagio da parte del nemico, presente in ogni angolo del fronte, si sia diffusa anche nella letteratura popolare, si veda qui Conforti, Maria, Ricordi nascosti: l’influenza ‘spagnola’ delle donne, pp.

[7] All’alba del 12 settembre del 1918, dopo quattro ore di fuoco di sbarramento, l’American First Army, e alcune divisioni francesi, sotto la guida del generale Pershing, avrebbero attaccato il saliente di Saint-Mihiel, senza riuscire dopo una settimana a prendere Metz. Poi, fra il 26 settembre e l’11 novembre ci sarebbe stata la definitiva offensiva della Mosa-Argonne, che avrebbe coinciso col picco dell’epidemia, in cui il comportamento tentennante di Pershing (che nel frattempo aveva contratto la malattia) costernò a tal punto gli Alleati, che Georges Clemenceau chiese espressamente al presidente Wilson di sostituirlo al più presto (si veda Smythe, Donald, Pershing: General of the Armies, University of Indiana Press, Bloomington 1986, pp. 200-207). Si contarono in quell’occasione ben 100.000 “stragglers”, cioè il 10% dell’intero contingente americano (Byerly, Carol R., Fever of War, cit., p. 110).

[8] Capps, Joe, Measures for the Prevention and Control of Respiratory Disease, in “Journal of the American Medical Association”, 71 (6), August 1918, pp. 448-449. Citato in Barry, John M., The Great Influenza, cit., pp. 210-219.

[9] Il riferimento è ovviamente al citatissimo nono punto con cui iniziava il Manifesto del Futurismo pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti – prima su alcuni quotidiani e settimanali italiani agl’inizi del mese, e poi – sul numero del 20 febbraio del 1909 de “Le Figaro”. Col titolo per l’appunto di Guerra sola igiene del mondo, Marinetti avrebbe poi pubblicato nel 1915 per le Edizioni Futuriste di “Poesia” un’antologia di testi militanti, versione ampliata di quella francese apparsa per l’editore parigino E. Sansot, e intitolata semplicemente Le Futurisme. I futuristi italiani sono comunque chiamati in causa in questa occasione solo come chiassosa e colorata avanguardia delle élites borghesi cólte che mostrarono agl’inizi del Novecento in tutta Europa “una sempre più radicata disponibilità nei confronti della guerra”, ritenuta in buona sostanza “un evento terapeutico benefico per la società e d’impulso al progresso sociale”. Appare comunque evidente che l’opinione pubblica, rappresentata per lo più dalla stampa borghese, fosse in quella fase sorgiva del Novecento più propensa a risolvere le controversie internazionali, in specie quelle che riguardavano lo sfruttamento delle risorse del mondo, con un conflitto armato di quanto non lo fossero i vari governi. Si veda a tale proposito, opera da cui sono stati tratte le precedenti citazioni,  Clark, Christopher, The Sleepwalkers. How Europe Went in War in 1914 (trad. di David Scaffei, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Bari-Roma 2013), pp. 256-257.

[10] Per molto tempo gli storici hanno ribadito come la seconda ondata si sia in realtà manifestata, per usare un titolo di un capitolo del libro di Alfred Crosby, con “tre esplosioni”, e dunque contemporaneamente in Africa, a Freetown, nella Sierra Leone – “grazie” alla nave della marina britannica Mantua –, a Brest, porto francese dove sbarcò la maggior parte delle truppe americane, e per l’appunto a Boston, scalo principale statunitense per gli approvvigionamenti (Crosby, Alfred W., America’s Forgotten Pandemic, cit., pp. 37-41). L’affluire progressivo di nuove informazioni ha inevitabilmente allargato di non poco il numero delle località in cui “esplose” quasi in contemporanea la seconda ondata, a partire dalla costa orientale della Spagna – Echeverri, Beatriz, Spanish influenza seen from Spain, in Phillips, Howard, Killingray, David (a cura di), The Spanish Influenza Pandemic of 1918-1919. New Perspectives, Routledge, London and New York 2003, p. 178 – per finire con la stessa Italia, in cui sono attestati casi fra il 18 e il 20 agosto in provincia di Padova, e focolai non ancora sufficientemente studiati in Italia meridionale (Cutolo, Francesco, L’influenza spagnola del 1918-1919, cit., pp. 106-107, 147-149). Il che vorrebbe dire che il virus si sarebbe per così dire ricombinato in vari luoghi autonomamente.

[11] Fu questo tratto semeiotico a imporre nel mondo anglosassone una delle denominazioni per forza di cose più sinistre della malattia, “purple death” appunto, che non poteva non ricordare l’espressione, “black death”, usata per la peste del 1346-1353. Si veda – esempio di quanto in ambiente medico non ci fu in verità nessun vero e proprio oblio dell’epidemia – Mc Cord, Carey P., The Purple Death: Some Things Remembered About the Influenza Epidemic of 1918 at One Army Camp, in “Journal of Occupational and Environmental Medicine”, 11 (1966), p. 594. L’illustratore medico inglese W. Thornton Shiells ci ha lasciato non poche immagini del volto congestionato dei militari ammalati.

[12] Sebbene, come hanno mostrato alcuni studi, ci sono stati luoghi della terra in cui la percentuale dei morti fra chi aveva contratto la malattia fu spaventosamente elevata, in realtà la mortalità della “spagnola”, persino nella sua seconda ondata, non fu particolarmente dissimile da quelle di altre epidemie influenzali, oscillando fra il 2 e il 3 per cento dei contagiati. A rendere pertanto spaventose le cifre della pandemia fu l’estrema morbosità – nell’accezione della statistica sanitaria, e dunque morbilità – della malattia, con indici di contagio a dir poco vertiginosi. Si veda Johnson, Niall Philip Alan Sean, The Overshadowed Killer. Influenza in Britain 1918-1919, in Phillips, Howard, Killingray, David (a cura di), The Spanish Influenza Pandemic of 1918-1919, cit., p. 132.

[13] “Il momento più triste della mia vita”, avrebbe dichiarato l’illustre virologo al medico George M. Price, “è stato quando ho assistito alle centinaia di morti di soldati nei campi di addestramento dell’esercito senza sapere che cosa fare. È stato in quel momento che ho deciso di non strombazzare mai più i grandi risultati della scienza medica e di ammettere umilmente la nostra crassa ignoranza nel caso specifico” (Price, George M., Influenza – Destroyer and Teacher, in “The Survey”, 41 (1918), p. 367). Vaughan avrebbe ricordato quei giorni con parole non molto dissimili anche nelle sue memorie, giungendo da ultimo alla conclusione che quella “mortale influenza” aveva dimostrato “l’inferiorità delle invenzioni dell’uomo nella distruzione della vita umana” (Vaughan, Victor C., A Doctor’s Memories, Bobbs-Merrill Co, New York 1926, p. 384).

[14] È per un puro caso che siamo in possesso della descrizione più impressionante dei terribili eventi di Camp Devens. Nel 1959, difatti, fu ritrovata in un baule, che conteneva carte mediche del Dipartimento di epidemiologia dell’Università del Michigan, una lettera firmata semplicemente “Roy”, in cui un medico del campo descriveva a un collega altrettanto ignoto quanto stava avvenendo. Ottenuta una copia di questa lettera, Norman Grist, docente di Malattie infettive all’Università di Glasgow, la fece apparire, con una sua breve premessa, sul “British Medical Journal” nel dicembre del 1979. Scriveva Roy il 29 settembre del 1918: “L’epidemia è partita circa quattro settimane fa e si è sviluppata così rapidamente che il campo è demoralizzato e tutto il lavoro ordinario è rimandato a quando sarà passata. Fra gli uomini tutto comincia con quello che sembra un attacco ordinario di “grippe” o influenza, ma quando vengono portati all’osp[edale] sviluppano molto rapidamente il tipo più viscoso di polmonite che si sia mai vista. Due ore dopo essere stati ammessi hanno già macchie color mogano sugli zigomi, e poche ore dopo si può vedere la cianosi partire dalle orecchie per diffondersi su tutto il viso, fino al punto che non è più facile distinguere un bianco da un uomo di colore. È questione di poche ore e sopraggiunge la morte, ed è semplicemente una fame d’aria finché non muoiono. È orribile. Te ne puoi stare lì a vedere uno, due, venti uomini morire, ma vedere questi poveri diavoli cadere come mosche non può che darti ai nervi. Abbiamo una media di circa 100 morti al giorno, e tende a salire. Dentro di me non ho dubbi che si tratta di una nuova infezione mista, ma quale non lo so. Tutto il mio tempo lo trascorro ad auscultare rantoli, rantoli secchi e rantoli umidi, sibilanti o crepitanti e tutto il resto della centinaia di cose che si possono trovare in un torace, e che significano una cosa sola – polmonite – che vuol dire in quasi tutti i casi morte”. Si veda Grist, Norman R., Pandemic Influenza 1918, in “British Medical Journal”, December 22-29, 2 (1979), pp. 632-633.

[15] Il campo del Kansas in questa seconda occasione si comportò particolarmente bene, allestendo un grande ospedale modello, perfettamente ventilato, con i letti ben separati, alternando pazienti posizionati a capo a quelli posizionati a piedi. Il personale medico era ammesso nei reparti solo dopo aver indossato la mascherina. Alcune delle fotografie divenute successivamente iconiche degli ospedali militari americani durante la pandemia provengono per l’appunto da Camp Funston.

[16] Byerly, Carol R., Fever of War, cit. pp. 74-75 e 83-84.

[17] Già nel precedente viaggio all’incontrario il Leviathan era stato devastato dalla “spagnola”, al punto che il giovane Sottosegretario alla difesa Franklin Delano Roosevelt, che era fra i passeggeri ed era stato contagiato, aveva dovuto attendere l’ambulanza per sbarcare il 9 settembre a New York. E ci sono stati anche studiosi americani che nel 2003 hanno ventilato l’ipotesi che la cosiddetta forma grave di poliomielite che avrebbe colpito il futuro presidente nel 1921, non fosse altro che la sindrome di Guillain-Barré, come reazione per l’appunto alla violenta forma influenzale (Goldman, Armond, Schmalstieg, Elisabeth, et alii, Did FDR Have Guillain-Barré?, in “Science”, 302, 5647 (2003), p. 981). Ma quel successivo viaggio verso l’Europa, con i soldati letteralmente stipati l’uno contro l’altro sulle amache che servivano da letti, si trasformò in un vero incubo e in una spaventosa ecatombe, che non finì nemmeno quando la nave giunse a Brest il 7 ottobre. Il tutto è descritto con dovizia di particolari in Crosby, Alfred W., America’s Forgotten Pandemic, cit., pp 125-135.

[18] Opdycke, Sandra, The Flu Epidemic of 1918, cit., p. 50.

Fine di Kaliyuga

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di Danilo Chillemi

Schopenhauer credeva derivare dal sanscrito Brahmā il nostro italiano bramare – capitale osservazione, da meditare mi dico, mentre vago sperduto nella notte senza una trama. Piove deliziosamente. Gironzolo per Corso Magenta deserto per l’avanzata ora notturna. Sotto l’ombrello mi accompagnano pensieri e note di flauto malinconiche – chissà da dove: le aule del Conservatorio sono anch’esse buie e deserte. Fisso la mente invasa dal sonno nella facciata coi due telamoni dell’austero palazzo di drammatico Seicento dell’augusto liceo Arnaldo. Mi dà una malinconica felicità essere in questo parco piovoso e, finalmente, a quest’ora tarda, silenzioso. Penso a Omero che fonda una relazione tra le nebbie e la nostalgia, mentre le sirene degli autoimmondizie si mandano segnali nella notte nebbiosa.

Cercando un’uscita gnostica nella Luce (artificiale) riprendo la via del Corso. Le vetrine illuminate dei negozi sembrano reperti di luce pompeiani, scoperti da scavatori. Attraverso la strada. Titolo di giornale sul Grande Diluvio di Valencia ridotta a giungla meccanica, all’edicola – una catastrofe che non mi tocca: non stanotte, stanotte mi sono messo in sciopero contro il Cosmo. Mi aggiro fra semafori e fanali di auto, come un astronauta viandante all’ascolto del cosmico segnale in Morse che il grande Disco rotto dell’Universo rimanda ininterrottamente nell’Espace Infini. Sono le due di un venerdì. Piazza Duomo è una grigia nebulosa chimerica urbana da cui emergono incongrue cupole. Prendo la galleria centrale che s’inserpenta verso i portici, dove il corridoio si spalanca su una fuga di pareti a specchio. Sul citofono un nome che pare dettato ex alto per me: “Freud” (forse lontana discendente?). Urino contro l’uscio, amichevolmente, e quella strana piscia, ha, su di me, un effetto di calma. Dopo vent’anni di “analisi interminabile” faccio rapido ritorno su via Trieste, finalmente sgravato dal blocco vescicale del mio Traum…

Più in là riconosco la fermata della metropolitana di Vittoria. Scendo: giro i locali a più piani, da un senso all’altro dei binari. Non so che fare salvo chiudermi nel cesso. Eccellente lettura della Bhagavad-Gītā facendo bidet caldissimo nel silenzio della stazione. Quindi risalgo. La piazza è gioiosamente vuota, la sospensione della vita notturna l’ha magicamente bloccata nell’ambra. In una nicchia all’angolo della farmacia un video pannello indica agli uomini la loro via mortis: “il tumore della prostata”. Evocazione involontaria di Paolo (professore di filosofia che rimane prezioso amico nella teca del cuore) che mi dice della soluzione in lui maturata dopo repentina, interminabile, tachicardia: il suicidio preventivo. Gli telefono subito – a vuoto. Suo sms mi avvisa che stanotte non potrà raggiungermi, ma mi manderà intorno alle quattro dell’Energia a distanza per sostenermi durante il cammino.

Continuo la mia fuga di Majorana con sigaretta nell’Invisibile. Sognando di teleguidare sulla Terra addormentata un meteorite che la trafigga, avanzo sotto centralissima villa di via Tosio grondante gelsomino. Pioggia diluviale redentrice, a scrosci. Momentaneo riparo alla fermata del bus dove mi perdo in nere cogitationes sullo spleen – cafard acedia tristitia o come dicit vulgus Schifo – coinvolgente me stesso e tutto l’infinito Niente detto impropriamente Universo. Per terra un pacchetto di Marlboro vuoto e un pezzo di carta gialla.

Sotto uraganico temporale me ne torno rasentando muri a piazza Vittoria. Quasi mi butterei giù dalla metafisica Torre dell’I.N.A., ma farei un brutto vedere là sotto, in fradicio cappotto cammello gualcito. Dopo mancato tuffo ad angelo nel vuoto, costeggio la grande scalinata con architrave in marmo del Palazzo delle Poste, sotto file di finestre strette e oblunghe. Giro, giro, giro, come un pipistrello nella sera al suono dei miei passi. Con divina emozione mi fermo a guardare da sotto deliziosa Loggetta del Monte di Pietà – la visione di Piazza Loggia avvolta in grigia luce quasi lagunare, con la sua cupola di Titanic stellare naufragato a rovescio dentro Buco Nero. Rintocco di campana che pare un colpo profondo di gong: alle 3:00 antimeridiane dell’Orologio sono ancora qui, meditante sotto l’ombrello aperto. Medito sulla mia straordinaria somiglianza ideale con Gregor Samsa, alter ego nottivago in questa Notte randagia senza giorno: lui scarafaggio boemo, io minuscolo scarabeo egizio col supplizio tantalico di spingere il Sole sulla via del ritorno.

Dunque mi dico, vado. Infilo l’angolo della piazza, passo in via San Faustino, esploro. Dopo lungo e lento peregrinare giungo in Carmine – davanti a incantevole chiesa di Santa Maria la luce intermittente d’un lampioncino segnalante gli S.O.S di Dio. Sui muri graffiti “Eco non Ego” e altre scemenze: io proseguo nel mio Friday for Past. All’angolo di via Santa Caterina mi imbatto in bellissima ragazza accennante, che subito scambio per un segnale insensato della Luce, ma è invece uno dei tanti Miracoli della Réclame su cartellone. Improvviso a mia sola memoria un epicedio alle sue Tette.

Poi entro nella stazione metro. Siccome ho fame, mi ingozzo di cioccolata e biscotti a una macchinetta. Prendo la scala mobile che scende e poi risale dentro labirinto di pareti trasparenti più numerose di quelle di un tempio Indù. Masticando a bocca piena esco nella pura tenebra: ma sbaglio strada e imbocco caleidoscopica Galleria Tito Speri che non finisce mai. Deambulo a vuoto come in sogno fino alla fine del tunnel, un po’ drogato dal farmaco Serenase (5mg) che ho preso per frenare certe pirofobiche ossessioni. All’uscita della galleria enorme cartellone di Agenzia Viaggi con spiagge di arena bianca invita a spensierato volo low-cost nei Felici Tropici. Da una ringhiera su cielo plumbeo fantastico su mio risveglio in altri mondi dopo un volo in anestesia totale.

Nel frattempo, lungo il percorso – coppia di gatti che si insegue ai piedi del monumento di Mazzini, strillando perversamente, io che fuggo il Pólemos tra sessi opposti invocando Dioniso, protettore delle grida notturne. Ho sete e per fortuna i distributori automatici continuano a funzionare. Scelgo quello colorato di verde, che ha un buon assortimento di bevande zuccherate, roba buona per profughi analcolici come me. Sotto l’acqua scorrente dai gradini della Memoria riscendo a caracollo sulla diagonale che attraversa il centro storico. All’incrocio un vento da Highlands mi srotola la sciarpa fino a coprirmi gli occhi mentre passo col rosso. Mi ritrovo in via Musei: tutt’intorno alle alte finestre delle case aleggia la Lebbra-Nebbia, io ci sono sommerso come in una campana in fondo al mare.

Cammino, cammino e arrivo al Foro – mi affaccio sul fondale di carie da guerra atomica dove giacciono i rottami del Tempio, fumando e cogitando su una remota Pompei extrasolare che una tempesta magnetica ha sepolto sotto un vulcano morto. Il buio sbuca perfino dai tombini. Rileggo per la millesima volta la scritta «IMP.CAESAR.VESPASIANUS.AUGUSTUS…» del frontone, mentre fari squarciatenebre emanano nella bruma le loro deboli fosforescenze. Improvvisamente, una voce risuona nell’aria alle mie spalle: «Dovrebbero inciderlo sui frontoni dei cimiteri: “Toda la vida es sueño”». Mi volto: è Nicola, più che amico fratello che mi parla. Si toglie la giacca, se la drappeggia sulla spalla sinistra con le dita a uncino, e mi si fa incontro: «Vengo qua dal Vantiniano. Un cartello sul cancello dice che il cimitero rimarrà chiuso fino a tempo indeterminato. I becchini devono saperla lunga sull’Indeterminazione del Tempo…» Mi saluta, lasciandomi del Mana sulle mani e sparisce: «Ci vogliamo bene, però somos dos fantasmas».

L’allucinazione mi lascia, mi riconosco seduto su una panchina di Tebaldo Brusato, sprofondato nel verde con la testa rovesciata, a guardare nell’Erebo voraginoso degli spazi in cui agonizzano mute le Nane Bianche e gli Eoni dharmici si esauriscono come pile elettriche. Ho in tasca una lettera per Bianca che non imbucherò, come un ultimo messaggio lasciato inascoltato nelle segreterie telefoniche del Tempo. Un modo come un altro di occuparmi esclusivamente del Passato, nell’essenziale certezza di saperlo introvabile…

Nel frattempo, la fosforescente luce al neon di un parchimetro mi prende per incantamento. Che cosa indichi non so, forse, soltanto, che sono le cinque. Mi precipito nel vicolo semibuio, ma mentre corro sull’asfalto come un allucinato solitario in stracciato cappotto cammellato, per poco non mi rompo il braccio sinistro per scivolamento su una merda. Nemesi karmica o arcana corrispondenza di eventi cosmici? Domande che mi tengono dietro mentre tuffo, lasciandola a mollo, la scarpa sotto una fontana.

Corso Magenta, ore 5:30: dopo mezz’ora di corsa nel pallore di smog della Vanitas urbana mi ritrovo al punto di partenza. Sto rimirando vecchio grandissimo tavolo da biliardo che campeggia dal fondo oscuro della boutique di un antiquario. Biliardo come (buddisticamente) surrogato del Saṃsāra o forse vero Saṃsāra? Non siamo che palline d’avorio che un Giocatore scaraventa con colpo preciso nella buca preparata. Chi vince, chi perde. Chi reincarnato. Chi entrato in Nirvāṇa. E subito il gioco della Maya ricomincia: la pallina bianca rispunta dalla buca.

Qualcuno (chi? L’inglese John Lennon?) diceva della morte: è solo scendere da un’auto per salire su un’altra. La frase mi trova d’accordo. Salgo sul primo autobus che incontro nell’ora magica crepuscolare delle sei. La notte sta dileguando con estrema dolcezza agonica di nuvole che si sfilacciano in vortici distanti. Mi abbandono a un proverbio indiano sull’andirivieni del mondo. Sepolta nella tasca tengo la Bhagavad-Gītā che apro a caso. Le sue pagine sono un sonnifero insuperabile. Combatto col Sonno che vuole annebbiarmi la Conoscenza, ma ho gli occhi troppo stanchi, li chiudo: Om̐.

Dove si situa lo scrittore? Un dialogo con Filippo La Porta

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[L’11 aprile usciva su questo sito un mio pezzo dal titolo: Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo | NAZIONE INDIANA. In coda al post, sono intervenuti alcuni lettori e, tra gli altri, Filippo La Porta con un suo commento articolato. Questo commento fa parte, in realtà, di un dialogo che esiste da tempo, in forma prevalentemente privata. Ci è sembrata un’occasione per rendere pubblico quest’ultimo scambio, anche perché, per quanto mi riguarda, tocca un punto importante: il posizionamento dello scrittore di fronte alla realtà di cui parla. a. i.]

di Filippo La Porta e Andrea Inglese

Caro Andrea,

ho letto con grande interesse il tuo intervento. Analisi largamente condivisibili, citazioni perfette, ma tu lì dentro dove stai? Ti trovo a fatica. Somiglia a una delle relazioni che nei ’70 preparavano i congressi del Manifesto (cui appartenevo), e che dovevano dare a noi militanti il “quadro” della situazione e motivarci alla lotta. Bene, ma tu sei uno scrittore, non un leader politico né il direttore di Limes – e poi un padre, e poi un cittadino italiano emigrato in Francia, etc. – , da te mi aspetto qualcos’altro. Il mondo da quale prospettiva lo vedi, e lo subisci? Qual è la tua percezione personale della situazione politica attuale? Te ne senti oppresso? Condizionato? Disturbato? Le spettacolari bullshit di Trump per caso ti tolgono il sonno? I bambini di Gaza scuotono la tua coscienza e ti rovinano la giornata (Elsa Morante una volta mi disse che se non sei un po’ qualunquista non puoi neanche prenderti in pace il cappuccino la mattina)? E poi: dato che niente avviene senza il nostro consenso passivo, a quali pratiche sociali e consumi e logiche di potere dai ogni giorno il tuo consenso? Quali compromessi stabilisci per vivere in quello che specie i letterati amano definire l”inabitabile”( e che pure abitiamo, con alcuni privilegi)? Io me lo chiedo continuamente, a proposito di “stili di pensiero e di azione”. E trovo interessante che ce lo diciamo.
Proprio la nostra tradizione, eretica e libertaria, dei Chiaromonte e Castoriadis, mette al primo posto l’individuo, responsabile e inappartenente. Ecco, io vorrei che nei nostri scritti politici e civili ci fosse sempre l’individuo, e cioè una voce personale e unica, insomma noi che parliamo e agiamo nel mondo.

Mi soffermo solo su un tema. La fine del sogno americano, che secondo te già era internamente corroso, già conteneva il buco nero che lo avrebbe inghiottito. Può darsi, lo aveva presentito Scott Fitzgerald nei suoi racconti. Quel sogno di libertà è da subito intrecciato con il mito del successo e con l’imperativo di make money. Ora, non voglio entrare nel merito del New Deal, che comunque fu un grandioso esperimento di patto tra capitale e lavoro (anche se escludeva dei soggetti sociali), e ha indicato un orizzonte in cui muoversi (quello keynesiano della redistribuzione del reddito, dato che il capitalismo non si può eliminare), ma nel ‘900 tu vedi esperimenti sociali emancipativi a cui richiamarsi o da cui farsi ispirare?
Parto da una mia esperienza. Nel 1971 attraversammo l’America in auto, io e tre amici. Venivamo ovunque ospitati (spesso in vere e proprie comunii, tutti quelli che incontravamo per strada – specie in moto – ci facevano il segno “V”, con loro parlavamo del mondo nuovo che stava concretamente affiorando, a volte si faceva sesso (purtroppo non io, allora sovrappeso, ma i due dei quattro diciamo più “carini”!). Ricordi Camus: creare cellule di un’altra società dentro questa società? Come Pasolini qualche anno prima, mi innamorai della New Left: integri e tolleranti, radicali e antidogmatici, fraterni e non ideologici. Altro che i terribili tribuni della plebe delle nostre facoltà occupate. Che “morale” trarne? La cosa più vicina alle nostre utopie politiche, ai nostri ideali comunitari l’ho trovata in alcune isole protette dentro il capitalismo più avanzato (permesse anche dalla ricchezza materiale di quel sistema, o se vuoi dalle sue briciole), e non – ad esempio – nel mostruoso, distopico regime cubano ( ci sono stato 4 volte: dominio dispotico di un ceto politico-burocratico che ha corrotto una delle popolazioni più vitali dell’AL, incoraggiando la delazione del vicino di casa).

Pazzesco! Il sogno di una cosa ritrovato dentro il sogno americano (o almeno dentro una delle declinazioni del sogno americano)! Lo spirito più bello e utopico del ’68, quello del Mondo salvato dai ragazzini, era nelle canzoni di Dylan e dei Jefferson Airplane, nei concerti di Jimi Hendrix (ne vidi uno, pomeridiano, al Brancaccio di Roma nel ’68, avevo 15 anni), nel film di Arthur Penn “Alice’s restaurant”, nella esplosiva controcultura americana dei ’60 e ’70, nel Manifesto di Port Huron (1962), in Paul Goodman e nel discorso di Mario Savio a Berkeley del 1964, nel Grande Lebowski dei Coen, non nel libretto rosso di Mao, nelle istruzioni di Giap sulla guerriglia o negli anatemi antimperialisti di Castro o – dispiace dirlo – negli orrori dei vietcong dopo la loro giusta lotta di liberazione (un milione in fuga sulle barche un milione nei gulag)!

(i nostri Chiaromonte e Castoriadis lo sapevano bene: ovunque il comunismo ha preso il potere ha prodotto miseria materiale e morale, quando non lo ha preso ha prodotto menzogna, ambiguità, tatticismo. Possiamo anche citare Benjamin, che sempre ci dà qualche gratificante brivido teologico, ma la dura smentita della Storia è ineludibile….dato che la parola “comunismo” resta una bellissima parola, per consolarci, con Giuseppe Samonà – su sua proposta – ci definiamo “comunardi”…ma sarebbe un lungo discorso)

Ecco, può darsi che oggi l’America sia solo dominio senza egemonia, però quando vado negli States ritrovo sempre qualche preziosa traccia dell’altra America, di un pensiero dissidente e meravigliosamente libertario, che alimenta la mia immaginazione politica. Anzi, idealmente sento di stabilire un ponte tra la vecchia Europa, con la sua saggezza ironica e tragica, capace di autocritica (unico continente senza la pena di morte), e l’altra America (tutti “parassiti” per Trump!). Inoltre: se pensiamo alla cultura pop, le serie TV e di cartoni animati più importanti per capire oggi chi siamo, per interpretare il nostro presente (Breaking bed, Homeland, Succession, Billions, Mad Men…., l’umorismo nero del genialissimo “South Park”, etc.) sono americane. Qui sembrerebbe che la “egemonia” continui…. E influenza stili di pensiero e d’azione.
Un abbraccio
Filippo

*

Caro Filippo,

cercherò di non lasciarmi obnubilare dall’invidia per il concerto di Jimi Hendrix che hai visto a Roma quando eri quindicenne. E premetto anche, che non tenterò di rispondere alla domanda che poni nella seconda parte del tuo commento: “nel ‘900 tu vedi esperimenti sociali emancipativi a cui richiamarsi o da cui farsi ispirare?” La lascio, però, macerare per bene, tanto è cruciale, in vista di un’altra occasione. Così pure farò per quella sui rapporti con la cultura statunitense. (Una parziale risposta, in questo caso, la avresti ripercorrendo alcune pagine del mio romanzo La vita adulta, che hai letto e di cui hai anche parlato.) Vengo, quindi, alle questioni che tocchi nella prima parte.

“Ma tu lì dentro dove stai?”

È una domanda importante, a cui io cerco di rispondere costantemente, elaborando un certo tipo d’interventi, di presa di parola, che non riguardano la mia specifica identità di “scrittore” o di “poeta”. La considero, questa domanda, uno degli insegnamenti più preziosi del femminismo. “Da dove parli?” Ma rispondere a questa domanda, integrare in un proprio intervento una descrizione del contesto più personale e biografico, all’interno del quale emerge un determinato tema, una specifica urgenza del discorso, non riguarda per forza “l’inappartenenza dello scrittore”. In un saggio sull’antirazzismo europeo, ad esempio, scritto un po’ di tempo fa, ho ritenuto importante spiegare perché la discriminazione nei confronti dei “neri” riguardi anche me, “bianco”, e la mia particolare storia familiare, il contesto sociale in cui vivo, ecc. (l’articolo dapprima uscito su “Testo a fronte”, si trova in formato ridotto anche qui). Così ho fatto, ad un certo punto, in uno degli articoli che ho dedicato su NI alla distruzione di Gaza. Ho spiegato perché la sorte dello Stato di Israele e della popolazione palestinese non equivale, per me, a un evento di politica estera come un altro. Ma questo non c’entra nulla con la mia singolarità di scrittore. Qui intervengono semmai le mie appartenenze d’italiano ed europeo, erede di una storia che include i crimini del nazifascismo e le conseguenze che questi hanno avuto su popolazioni, come quella palestinese, del tutto estranee all’obiettivo della soluzione finale, voluta dal III Reich sul territorio europeo. In molti, casi, insomma, l’esplicitare il proprio posizionamento, il situarsi di fronte a un paesaggio, significa riconoscere delle proprie appartenenze, di classe o di genere, culturali o nazionali. E questo ha senso proprio per ricordare che non siamo menti disincarnate, monadi pensanti o poetanti, al di sopra dei condizionamenti e delle pressioni della storia.

Il riconoscimento delle proprie “appartenenze”, intese come dati di fatto che precedono le nostre scelte di individui autonomi, non significa però aderire acriticamente a esse. E qui il discorso sulla non appartenenza dello scrittore è importante, e per certi versi, con me, sfondi una porta aperta. Ma questo concetto funziona in modo paradossale: faccio di fatto parte delle vostre istituzioni, ma non mi riconosco completamente in esse, e la scrittura è un territorio specifico in cui posso reclamare la mia appartenenza a un’ulteriore società, un ulteriore sistema di valori, che coincide utopicamente e immaginariamente, con i lettori per cui scrivo. Mi sottraggo così, nella zona protetta dell’arte o della letteratura, al peso della maggioranza, all’irrevocabilità del reale. Questo gesto, di per sé, non elimina certo i compromessi che lo scrittore, in quanto cittadino, stabilisce con il mondo sociale che lo circonda, ma gli permette di salvaguardare una certa dose di preziosa insubordinazione rispetto alle attitudini intellettuali della classe dominante. Il trucco di tanti scrittori, intellettuali, accademici, giornalisti culturali, che non vogliono rinunciare a nessuna delle opportunità che offre l’attuale mondo culturale, senza per questo farsi cantori delle posizioni più conservatrici e reazionarie, è quello di sostenere che o si dice di no a tutto, o si abbraccia un opportunismo radicale. Chi osa criticare il capitalismo, dovrebbe per forza vivere come un francescano. Chi denuncia la pochezza delle politiche sul clima, dovrebbe parlarne da una capanna fatta di frasche. Chi mette in guardia dalle minacce insite nella diffusione di certe tecnologie, dovrebbe scrivere sulle tavolette d’argilla. Il rifiuto pubblico di sottoscrivere certe idee e certe parole d’ordine dell’epoca è invece un’azione importante, di portata certo limitata, ma che non è scevra per altro di conseguenze negative. Il non accordarsi al coro, il non-concertare, lo si paga prima o poi, soprattutto nel mondo intellettuale. Ed è questa la prova migliore che l’insubordinazione dello scrittore, assieme ad altre forme di critica, infedeltà e antagonismo, non sono considerate innocue da coloro che difendono le “verità ufficiali”.

Mi chiedi quale sia “la mia percezione della situazione politica attuale”? Ho parlato di questo in un recente articolo su Gaza. Ho scritto che dormivo male. Che facevo incubi politici. Nello stesso tempo, mi dimentico ogni giorno dei bambini sotto le macerie, delle famiglie intere sterminate. (Elsa Morante ha senz’altro ragione. Ma come potrebbe essere altrimenti?) Posso aggiungere che di fronte a un mondo che abbraccia nuovamente forme di pensiero e azione fasciste, perde senso anche lo scrivere. Per chi scrivo? Per piacere a un lettore reazionario, fascista? Scrivo per un mondo che disprezza tutto ciò che non è traducibile in una realtà quantitativa: i soldi delle vendite, i like, i followers? Ma dicendoti questo non sono ancora andato fino a in fondo, fino al nocciolo. E il nocciolo è questo. Lo so benissimo, non posso fare nulla, a livello individuale, perché laggiù qualche innocente sia risparmiato dalle bombe o dai cecchini israeliani. O dalla malnutrizione. Ma questa impotenza trova un suo limite, nel momento in cui, leggo o sento qui, in Europa, in Francia dove vivo o in Italia da cui provengo, certe falsità, certe operazioni di censura o autocensura. Va bene, non posso fare nulla, non posso impedire che il governo Meloni venda armi o faccia affari con Israele, non posso convincere il governo francese a stabilire delle sanzioni, e così via, ma non mi avrete nel vostro coro e nel vostro compatto silenzio. C’entra il fatto di essere scrittore? Non lo so. Ma provo a rispondere alla menzogna, cercando di portare un po’ più di verità, nell’arco mio di comunicazione, anche se è minimo. Un migliaio di lettori soltanto? Ma lo devo fare. E lo faccio senza poter misurarne in alcun modo l’efficacia. E comunque 1) sono convinto che anche una comunicazione “piccola”, di corto raggio, abbia importanza (può fungere da modello per altre comunicazioni di quel tipo); 2) va fatta e basta. Il Winston Smith, di 1984, al colmo della sua impotenza politica, affermava: “La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa liberta, ne seguono tutte le altre”. Le verità storiche non hanno certo il carattere cristallino delle verità matematiche. Ma Orwell vuole dire che non c’è verità, per autoevidente e universale che sia, a salvaguardarsi indenne dalla propaganda politica e dall’autocensura. Bisogna volerlo dire, e volerselo ricordare, che due più due fanno quattro, quando intorno a voi la gente non smette di affermare che due più due fanno cinque.

“Bene, ma tu sei uno scrittore, non un leader politico né il direttore di Limes (…)”

È un’osservazione di assoluto buon senso, Filippo. Perché mai dovrei interessarmi a un complesso studio per specialisti dei cicli egemonici e dell’economia-mondo, io che non sono nella redazione di riviste accademiche o specializzate in geopolitica? Io che non ho titoli per prendere la parola a riguardo? E come mi rimproverava un amico filosofo: Che ti metti a scrivere tu, non specialista, di cose, che qualcun altro scriverà meglio e in modo più approfondito di te? Scrivi poesia, allora fai il poeta! Intervieni sulla poesia contemporanea. Inculca nei pochi lettori dello scomparto “letteratura in versi”, l’idea che tu ne produci e anche ne hai da dire. In effetti, tante volte vorrei rinunciare a inoltrarmi in certe letture e ricerche, perché so che mi costano tempo, fatica, e inoltre non mi garantiranno nessun vantaggio simbolico (il gagliardetto dello specialista, la medaglia del poeta, la piuma sul cappello del militante di riferimento). Lo faccio un po’ mio malgrado, come spinto da un’ossessione che assomiglia a quella della scrittura di finzione, ma è “inclinata” in una diversa maniera. Voglio mettere ordine. Voglio penetrare più in profondità e in ampiezza, oltre la nube dell’attualità. Voglio percepire le strutture storiche, istituzionali e ideologiche che ci hanno dato forma. So leggere e scrivere: e questa concatenazione di pratiche, che ho appreso negli anni di formazione scolastica e universitaria, e nella mia esperienza di poeta e narratore, la voglio utilizzare per condividere con altri questioni comuni, questioni della polis, che ci riguardano tutti. E lo voglio fare al di fuori dei “ruoli” professionali, sanciti dal mondo della cultura e della politica ufficiale. Parlo come uno senza arte né parte, facendo leva esclusivamente sulla pertinenza dell’argomento scelto, della prospettiva abbracciata e della chiarezza dell’argomentazione. Metto in comune qualcosa fuori dalle tempistiche istituzionali. E mi dedico così a un duplice movimento: esploro l’utilità e l’efficacia di un certo strumento intellettuale (Arrighi, Silver, e la loro teoria) e, nello stesso tempo, lo restituisco. E lo faccio per giungere poi a dei nodi, che mi serviranno e che spero serviranno ad altri. Nodi concettuali e fattuali, come quello che sta al cuore di quell’intervento. Si tratta di una citazione che riprendo tal quale:

Abbandonando la promessa egemonica dell’universalizzazione del sogno americano, l’élite statunitense dominante non ha fatto che ammettere che la promessa era ingannevole. Come dice [ImmanuelWallerstein, il capitalismo mondiale, così come è attualmente organizzato, non può soddisfare simultaneamente ‘le richieste combinate del terzo mondo (relativamente poco a persona, ma per molte persone) e della classe lavoratrice occidentale (relativamente poche persone, ma molto a persona)’.[4]

La civiltà che fino a poco fa è stata modello più o meno virtuoso, più o meno contraddittorio rispetto ad altre civiltà, si è rivelata una trappola. Inutile nasconderselo. Nessuno ha certo delle soluzioni immediate e globali da proporre. Ma non si dovrebbe parlare che di questo: della trappola, dell’abbaglio, della contraddizione insanabile, dell’idiozia basata sul diniego. Il fascismo montante ha a che fare con quel diniego. Prende slancio da quell’ignoranza voluta. Ognuno cerchi allora di dirlo, di orientare come può discussioni e mentalità, portando strumenti e in un’ottica di rottura con il sistema di vita esistente. Lo facciano i leader politici, lo facciano i direttori di Limes, lo facciano anche quelli senza arte né parte.

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Immagine: Peter Fischli e David Weiss.

L’eredità del corpo memoria nei libri di Goliarda Sapienza

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Ovvero il suo futuro siamo noi lettrici e lettori

Immagine di Watercolor

di Anna Toscano

Scavalcato il centenario della nascita di Goliarda Sapienza, ricordata in convegni, incontri, libri, letture e molto altro ancora, prende avvio la strada del secondo centenario. In questo maggio Goliarda avrebbe compiuto 101 anni, e la si ricorda ancora. Ma come la si ricorda? O come si vorrebbe ricordarla?  Di certo dando per assodato che L’arte della gioia è un capolavoro della letteratura, non solo italiana, va da sé, e che la sua autrice è una delle grandi scrittrici del Novecento.

Ci molto altri libri scritti da Sapienza che sono da annoverare tra le grandi opere della letteratura, e a oggi tutti i testi lasciati compiuti nel famoso baule al momento della sua morte sono stati pubblicati: alla “S” di Sapienza gli scaffali di librerie e case dovrebbero avere almeno un 84 cm di volumi sistemati uno dopo l’altro.

Questo centenario in entrata, il secondo, è pieno di libri scritti da Goliarda Sapienza, romanzi, lettere, diari, poesie, eccetera. Libri in cui si è travasata, come ha fatto nel grande romanzo, passando alla carta la sua memoria, divenendo da corpo umano a corpo memoria di carta.

Nella prima metà della sua vita corpo e memoria sono strettamente intrecciati alla pellicola, al cinema, al teatro. Si può riassumere la vicenda – il passaggio dal teatro e dal cinema alla scrittura – come un passaggio dal corpo come memoria filmica alla ricostruzione di sé attraverso la scrittura: la gioia del narrare come salvezza di una identità frantumata.

La gioia del narrare in Sapienza è la gioia del trasmettere, del mettere in condivisione, attraverso il cinema o attraverso la scrittura, è un mettere a disposizione il proprio corpo memoria alla narrazione, alla conoscenza. Tutto passa attraverso il corpo di Goliarda, un’autrice che si fa attraversare dalle storie. La sua storia è anche piena di corpi, grandi corpi e piccoli corpi, spesso corpi ingombranti, se pensiamo ai genitori, pure corpi che sono grandi assenti.

Partendo dal corpo di Goliarda, quello che in una recente immagine appare per la prima volta mentre si tuffa da uno scoglio: un corpo in movimento il suo che seppur fermato in un fotogramma racconta molto della storia di lei.

Di Sapienza, del suo corpo, si può parlare a lungo partendo dal corpo di una neonata, nel 1924, nata da una madre ultraquarantenne e da un padre anche non più giovane, una madre il cui corpo era già stato “spossato da parti tremendi / schiantato da lunghi congiungimenti”: due adulti che portano nel loro corpo parte della storia d’Italia e che già avevano avuto molti figli. Sapienza neonata corpo voluto fortemente dopo la morte del fratello, neonata amata e cresciuta libera in una Catania di inizio secolo; troviamo il corpo dell’adolescente Sapienza, già antifascista e impegnata nelle lotte dei genitori e dei fratelli e delle sorelle, ma anche grande amante del cinema e della sua vita libera; il corpo di Sapienza non ancora maggiorenne che prende un treno con la madre, Maria Giudice, alla volta di Roma dove ha vinto una borsa di studio per studiare all’Accademia di Arte Drammatica; il corpo che studia e che cambia per divenire attoriale, che piega sé stesso alle leggi del palco; un corpo sotto falso nome come staffetta partigiana in una Roma devastata dalla guerra; un corpo riconosciuto e riconoscibile negli anni ’50 come attrice affermata; un corpo che si inceppa, si spezza: è il corpo della depressione, non più un corpo memoria ma un corpo custode del passato, non più un contenitore dei ricordi,  ma con delle crepe da cui fuoriescono parti di memoria. Che cosa può spezzare, crepare, un corpo così allenato a custodire memorie?

Qui entra in campo un altro corpo, quello di Maria Giudice, la madre di Sapienza, un corpo che viene sepolto, nel ’52, dopo che per quasi tutta vita è stato a contatto con quello di Goliarda. Negli ultimi mesi di vita di Maria è Goliarda ad accudirne il corpo, possente un tempo e ora tornato bambina. Maria muore in casa. Goliarda e Maria sono sole in casa. L’indomani un funerale modesto, seppur in presenza di vecchi compagni, come Pertini e Saragat. Dopo il funerale Goliarda torna sola. Nella casa non c’è più il corpo memoria di Maria, il talismano di presente e futuro. Prima erano due corpi, due memorie spesso comuni. Ora al rientro il corpo è uno. E Goliarda lo scrive. Scrive il corpo mancante. Come dice un verso di Attilio Bertolucci “Assenza più acuta presenza”. Lo scrive. Lo scrive in versi. È la sua prima poesia, dal titolo “A mia madre”.

La morte di Maria apre una crepa, allarga una crepa, dentro la quale si inseriscono molte cose. E Goliarda scrive. Le prime cose che si inseriscono nelle crepe sono circa duecento poesie che scrive una dopo l’altra dopo “A mia madre”: le scrive, compone una raccolta, la intitola, siamo nel ’53, cerca di pubblicarla. Nessuno la pubblica. Ancestrale è il titolo, è il suo corpo parola, la sua memoria poetica. Finisce in un baule. Con tutti gli scritti che nessuno ha voluto pubblicare.

Il corpo di Goliarda è ora un corpo al buio. Dov’è: lo ritroviamo in ospedale dopo un tentativo di suicidio – ma lei dirà solo che voleva dormire-; lo troviamo squassato dagli elettroshock, scosso dalla terapia psicanalitica e da un altro tentativo di suicidio. La memoria è frantumata, scomposta, scardinata. La depressione occupa tutti gli spazi. Il corpo da amuleto e tempio diviene un qualcosa di lasciato sul divano al buio, un contenitore vuoto.

“Discernere nel cadere”. È un suo verso. È nella raccolta Ancestrale, che in questo momento giace in un baule. E mentre il suo corpo si sfalda così come la sua memoria, mentre cade, lei discerne. E mentre cade vede, comprende, che l’unica cosa che può ridarle la memoria, il suo corpo amuleto, la gioia di narrare e dunque vivere, è la scrittura. Inizia, in tal modo, un lavoro di ricostruzione di sé attraverso la scrittura, la ricostruzione della memoria attraverso il corpo e l’atto dello scrivere.

La sua vita diviene scrittura e con la scrittura ecco altri corpi. Qui giunge un altro corpo, dopo quello di Maria e quello di Goliarda, quello di Modesta. Un corpo che dapprincipio è solo immagine, presenza, vicinanza, e determina la svolta.

Goliarda capisce che l’unica strada per ricostruire la sua memoria e il suo passato, la sua storia, è scrivere, scrivere Modesta, di Modesta, con Modesta. Abbandona la sua vita di prima per vivere di scrittura, per scrivere di Modesta.

Il corpo di Goliarda diviene in tal modo custode di memorie vecchie e nuove. Diviene corpo di nuotatrice e tuffatrice a Gaeta, di donna che scrive. Che scrive di Modesta.

E Modesta prende corpo, prende forma, addirittura cresce e inizia ad avere lei stessa delle memorie, senza peraltro che il suo corpo venga mai descritto. Modesta diviene addirittura, ai giorni d’oggi, corpo filmico.

Sapienza nella sua scelta di vivere di scrittura scrive per sette anni L’arte della gioia, due anni di revisione, e altri anni in cerca di un editore che non troverà. Modesta, la sua figlia corpo di carta, finisce nel baule con tutte le altre parole scritte. Modesta non vede la luce.

Il corpo di Goliarda diviene, negli ultimi anni, anche un corpo recluso, incarcerato, dietro le sbarre, da punire. Ma il corpo di Goliarda ne esce forte nelle sue suture e nella sua accoglienza, accoglie in sé tutti i corpi reclusi che incontra divenendone custode e memoria.

Dopo molti anni – la vicenda è nota – dopo la morte di Goliarda e il suo corpo memoria sepolto, Modesta vede la luce: viene pubblicata, tradotta in molte lingue, letta in molto paesi. Il corpo di carta ha visto la luce e questo corpo di carta contiene molti altri corpi a loro volta contenitori di corpi: Modesta contiene il corpo di Goliarda, che in lei si è travasata, e contiene il corpo di Maria.

Modesta è il corpo memoria testimone, Modesta vive nel suo corpo di carta e viaggia in treni, aerei, macchine, vive in case, librerie e biblioteche in tutto il mondo sotto gli occhi di lettrici e lettori appassionati che a ogni voltar di pagina le danno ossigeno.
Il secondo centenario di Goliarda Sapienza sono Maria, Goliarda e Modesta che ora fanno parte della nostra memoria di lettrici e di lettori, del nostro corpo, del futuro.

Questo testo nasce dall’illuminante richiesta e dal gentile invito di Archivio Aperto e di Giulia Simi di inserire Goliarda Sapienza nell’edizione 2024 del Festival dal titolo The art of Memory.
https://www.archivioaperto.it/

Quando finirà la notte?

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Nota al cuore
di
Francesco Forlani

“Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce.”
Così Matteo racconta della metamorfosi del Cristo (trasfigurazione) che si raccomanda con i tre apostoli di non dire nulla di quanto appena successo e a cui loro avevano assistito.
Nei passati giorni di passioni, processioni, ceneri, costati aperti e crocifissioni, e convivi, incontri del passato, del non più presente, turbamenti dell’inimicizia, di passeggiare come andare a zonzo per le strade della tua città, delle tue strade, dove insieme ai ricordi appare il male di vivere dalla parola imbronciata di sottobosco, sottopopolo, facciate inermi di palazzi abbandonati- questa è Caserta, e altro che consiglio comunale sciolto per camorra, qui tutta la città dovrebbe sciogliersi, fondersi, sparire e trasfigurata riapparire- ho ripensato al Raffaello Sanzio e al suo dipinto.
Nietzsche ne era appassionato al punto di scriverne:
“La metà inferiore, con il ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: l’illusione è qui un riflesso dell’eterno contrasto, del padre delle cose. Da quest’illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo mondo illusorio, simile a una visione in cui quelli dominati dalla prima illusione non vedono niente. Un luminoso fluttuare in purissima delizia e in un’intuizione priva di dolore, raggiante da occhi lontani. Qui abbiamo davanti ai nostri occhi, per un altissimo simbolismo artistico, quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza del Sileno e comprendiamo per intuizione la loro reciproca necessità. Con gesti sublimi [Apollo] ci mostra come tutto il mondo dell’affanno, [la metà inferiore del dipinto con l’ossesso], sia necessario, perché da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice e poi, sprofondando nella contemplazione di essa, possa sedersi tranquillo nella sua barca oscillante, in mezzo al mare”.
Poi nel mio pellegrinare in solitaria ho incrociato sulla strada del rientro da mia sorella, la persona più mite del mondo che è anche il nostro cardiologo di famiglia. Ha nel nome, Cardillo, la parola cuore, però anche volo d’uccello, estasi ortesiana.
Sorpreso dall’inatteso incontro nell’ora d’aria e di crepuscolo mi diceva del bene che fa camminare da soli. Io della visita medica annuale appena fatta a Saragozza con il responso che pareva un avviso di garanzia per gli alti valori alcolici.  E ho condiviso con lui questa storia che stava facendosi racconto nella mente, questa nota che tu lettore hai appena sfogliato, della trasfigurazione, del pensiero a voce alta che mi aveva fatto compagnia lungo il lungo tratto dello stradone che costeggia tutto il parco della Reggia e la sua natura, viva, forestale oltre le sbarre delle inferriate.
E ho concluso dicendogli semplicemente che da non credente preferivo di gran lunga la trasfigurazione alla resurrezione, perché parlava di un risorgere da vivi e non da morti. Un’ esperienza che conosce bene chi sia stato, anche per un solo istante, veramente felice.

 

I sogni non parlano se li svegli – Alba Metaponte

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Tre poesie di Alba Metaponte dal libro

“I sogni non parlano se li svegli” (Edizioni Progetto Cultura, 2025)

 

Princìpi, precetti e regole

Io e mio padre arrivammo dal dottore. La sala d’aspetto era stracolma di gente. Non ci
sedemmo, ci sembrò superfluo. Se avessimo occupato altre due sedie, la nostra attesa si sarebbe prolungata. L’ergonomia ha fatto passi da gigante e il comfort delle sedute ci avrebbe procurato uno stato di relax eccessivo. Decidemmo entrambi di rimanere
protesi verso l’alto con il corpo eretto e gli occhi puntati al soffitto squamoso, un mostro di lana di vetro che raccontava con garbo, quasi in silenzio, tutti i discorsi assorbiti dalle pareti. Mio padre camminava avanti e indietro calpestando sempre le stesse mattonelle con un rituale antipatico. Io per conto mio tenevo la nuca al sole. Le entrate e i corridoi con molto traffico pedonale avevano semafori immaginari per evitare che le persone cozzassero in un calpestio senza sosta. La gente con problemi oculistici, vedeva solo il verde. Mi misi a contare i passi delle scarpe che uscivano, entravano e viceversa. La vita è piena di meraviglie come questa, la matematica dei passi. Le scarpe non lasciavano impronte, ma da una suola guizzarono esseri ricurvi a forma di cilindro o rotondi.
Alcuni disposti a cubo con colorazione di invertebrati marini. Correvano velocissimi in
tutte le direzioni lasciando una scia appiccicosa e multiforme. Una coppia formò una
pappetta grigia nel giunto aperto di un pavimento, si dibatteva e sembrava soffocare.
Non c’era ossigeno, solo frecce direzionali. Una si staccò, strisciò faticosamente
e finalmente si infilò nel taschino della giacca dell’infettivologo, salì pian piano per il
pomo d’adamo come scalando una montagna, ansimando plasticamente. Si fece
coraggio e con la leggerezza di un atleta si lanciò tra le fessure rosate dell’ugola. Il
medico ci chiamò per entrare.

 

Il mago

Il mago viveva in profonda solitudine, usciva solo per comperare cibo e rientrava
correndo per una strada decorata con docili alberi azzurri. A volte dimenticava qualcosa, ma non tornava mai indietro. Si vergognava molto della sua faccia da formichiere, per questo usciva con un mantello nero per nascondere il suo volto. Nessuno vide mai la sua faccia. Solo gli servivano gli occhi per non perdere la rotta. Le sue pupille si allargavano o si riducevano secondo le stagioni. La sua vita era una sequenza di colpi di scena, una liturgia senza regole che mutava in ogni istante adornata di candelabri, scritture sacre e varie decorazioni.
Il mago solo voleva essere mago e niente di più, però non confezionava figure di fumo
per chiunque, né faceva incantesimi per domare dragoni, e nemmeno innamorava
le api che gli pungevano il volto. Girava e rigirava fino a puntare la direzione opposta.
Il cappello gli rubava il giorno come un ladro, e lì solo appariva la sua notte, la sua
compagna con denti stellati, il suo nido affamato di buio. E mentre la luna ululava
ai lupi, lui faceva copie di se stesso.

 

Morte di un tasso

Giacevi dietro un sipario di asfalto, il tuo corpo era così pesante come imbottito di paura per qualcosa che non conoscevi. Macabra la primavera ti portava un feretro per il suo debutto. La morte è incantevole dicevano i corvi. “É laggiù, lo hanno lasciato sulla
strada”. Il silenzio non rispondeva e io neppure. Le voci non si fermarono: “É
circondato di formiche che accarezzano la sua immobilità, guardano le sue mani distese come croci, lo hanno lasciato solo come se non fosse mai nato”. La terra era imbevuta della stessa aura funesta che ricopriva la porta e le pareti della luna. La norte quel giorno cercava una forma per disegnare la sua immagine e la trovò nel tuo
mimetismo, nella tua intelligenza di architetto delle tenebre, nelle cavità del terreno, nel pianto dei tuoi fratelli. Sei diventato così piccolo come una goccia di sangue e le
mosche ballano davanti la tua bara di viaggiatore notturno. La notte come un sicario ti
fermò di colpo mentre con i tuoi piccoli passi di orso uscivi tra le ombre del mais a
cercare la tua libertà. Ascolta come si mescolano nel campo i venti, come piangono gli
uccelli verso il nulla creatore. La tua morte spaventò gli angeli che dormivano nella terra, sotto i tuoi corridoi di cieco, dove adesso le farfalle seminano vermi in un luogo
disabitato. Sotto il tuo corpo emerse la mia mano, ti ho guardato per un istante che
furono mille e le mie lacrime ardenti hanno bagnato il tuo corpo freddo, non ti
abbandonerò con questa cenere di ortica nel petto, con questo inganno dell’oblio.
Lascerò che i tuoi passi si propaghino nel ventre della terra, che spargano le tue radici, e aspetterò la prossima primavera per incontrarti nel fulgore di un fiore bianco di ciliegio, lo stesso fiore che ti ho lasciato un giorno di aprile imbevuta di pioggia e di lacrime.

 

 

 

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Alba Metaponte è nata in Calabria e ha vissuto a Bologna, Roma, Santiago del Cile.  Ha tradotto importanti poeti latinoamericani tra i quali risaltano i cileni Vicente Huidobro, Pablo Neruda, Nicanor Parra, Oscar Hahn e Jaime Huenún; le argentine Alejandra Pizarnik e Olga Orozco; la uruguaiana Marosa Di Giorgio; la peruviana Blanca Varela, la messicana Rosario Castellanos, e molti altri.

Il rituale servile

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di Paolo Morelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tempo fa dovevo recensire un libro dedicato a un sopravvissuto alla deportazione dal ghetto romano e alla Shoah. Lo presentavano al centro culturale annesso al Tempio Maggiore, lucente quel giorno più che mai, affacciato sul lungotevere. Un passo dopo i dispositivi di sicurezza sono stato accolto da sguardi interessati, intensi, anche cattivi, prima di tutto erano a casa loro, dicevano, e potevano seguirmi per tutto il percorso, anzi, almeno due di quegli sguardi, giovani, scuri, pressanti, si sono presi cura di me per tutto il tempo che sono stato lì a prendere appunti, quasi sentivo alla nuca il disappunto per non sapere le parole scritte. Solo dopo, alla fermata dell’autobus per tornare a casa, ho capito cosa volevano o sentivano quegli occhi: non li odiavo, neanche un po’, nemmeno nei fondi recessi, e questo veniva preso con estremo sospetto. Purtroppo da sempre sono uno che ha le cose scritte in faccia, ho pensato, si vede che hanno letto che odio la sopraffazione in maniera nevrotica, dei potenti sempre e prima di tutto, e l’impunità di chiunque, perfino la mia, fino allo schifo e alla pena la odio, e ci sto male poi da una vita per l’infamia di chi si crede vivo se straripa nell’ignoranza di sé e del mondo nel quale esiste o bene o male, quando si lascia abbindolare dalle formule e i rituali della vendetta infliggendo sofferenza, disgrazie e morte agli inermi, perpetrate senza scrupoli, quando abiura alla propria dignità e al suo ruolo intenso di vivente senza provare almeno uno scatto isterico di resistenza. Perché, dunque, non li odiavo?, questo dicevano quegli occhi, due avevo fatto a tempo a fissarli per un momento prima di uscire, un attimo solo perché non si insospettissero di più. Ma bastava, quell’attimo. Perché non li odiavo per niente quegli occhi, sebbene antipatici, se erano di chi si crede appartenente a coloro che stanno dando al mondo un esempio micidiale, forse esiziale? Di chi fa differenza tra le ossa dei morti per fame? Come tutti, quando crediamo di diventare più cattivi perché così bisogna fare, perché è giusto e necessario così ci dicono, e invece diventiamo solo più servi ancora; come uno che è caduto in una trappola e invita gli altri a venire avanti sperando che cadano anche loro, quegli occhi cercavano l’odio che non ci sarà mai e anzi lo pretendevano con arroganza. Io resto banale e non ci credo che uno Stato, qualsiasi esso sia, rappresenti una razza, un’etnia, peggio che mai un Dio o una religione, anzi nemmeno credo sia nel mio nome lo Stato, e finché vivo è sicuro almeno che nessuno riuscirà a farmici credere, nemmeno con la tortura di vedere occhi giovani accecati da un odio per procura, per delusione, per subdolo avvilimento dell’umanità. E che dopo, forse persino stavolta, diranno che non ne sapevano niente.

(NdR: la fotografia è di Hosny Salah, pixabay)

 

Ciò che resta o del verificare

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di Samir Galal Mohamed

KHALIL RABAH, Palestine (1961)

La comunicazione digitale è semplicemente ripugnante, inutile, narcisistica.

Comporta una vergognosa o scarsa dose di autostima. Risiedono qui le cause delle polarizzazioni: nelle sproporzioni. Come scrittore, visualizzo l’asimmetria tra le parole disponibili (reperibili, repertabili) e quelle impossibili da registrare senza risultare offensivo e ridicolo. Ma è tutto nelle cose, si dice – le giustificazioni –, anche questo:

«Io sono R., ventuno anni, del nord di Gaza. Vivo con la mia famiglia. Mio padre è un martire. Salvate la mia famiglia e me».

La biografia di un profilo virtuale, una vita tra le oltre 2 milioni di altre su una superficie di 365 km². Meno di 150 caratteri. È verificabile. Anche quello che dice lo è, o lo è già stato. Verificato. Che si sia verificato davvero, non ha giustificazioni.

Pesche e mandarini

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Foto di zullusim da Pixabay

di Isabella Ballarini

Là in fondo, sotto quella tettoia, c’era un chiosco che vendeva pesche e mandarini.

Non insieme, ovvio: pesche d’estate, mandarini d’inverno.

Se ne stava là da così tanto tempo, dannato cumulo d’immondizia, che nessuno ricordava più quando fosse apparso per la prima volta: un secolo fa? Di più?

Difficile dirlo: il chiosco non parlava. Chiunque gli passasse davanti percepiva il peso del suo silenzio e basta. Non aveva rabbia: accettava anche la più brutta delle cose senza fiatare, stupido banchetto di legno e segatura, con la bilancia piena di ruggine, la frutta posata sul piano. Lo si poteva ignorare, maledire. Non reagiva, non fiatava e il tempo gli passava accanto senza colpirlo.

Da bambino lo fissavo con curiosità. Mi voltavo verso il banco e piegavo le labbra: il piano era scrostato, le assi parevano marce. La frutta dava l’idea di essere andata a male.

A me non interessavano le pesche. E neanche i mandarini.

Non potevano competere con gelati, merendine e gomme da masticare. Pesche. Piramidi di pesche: troppo mature, troppo acerbe, piccole come una noce. Ricoperte di peli, schiacciate sul banco. Sulla buccia, i colpi della grandine. E mandarini: bitorzoluti, pieni di succo e ossa da sputare. L’odore intenso penetrava ogni pietra. Molti ricordano soprattutto quello. L’odore. Si incollava ai cappotti e non se ne andava più. Lo si portava via coi vestiti, con le scarpe, fin dentro le case.

Anch’io ho memoria di quel profumo. Era così forte che nemmeno i gas di scarico lo coprivano: io sgommavo con lo scooter e l’odore era là, nell’aria, nelle narici. Impennavo, per far vedere al chiosco quant’era bello avere sedici anni. E il chiosco nulla, immobile, ogni giorno più vizzo.

Sembrava guardarmi, però. Il giorno in cui iniziai a fumare, lo feci davanti al chiosco. Soffiai il fumo sulla frutta piena di vermi e scoppiai a ridere. Credi di farmi paura? dissi.

Sorgevano case belle, là intorno. Grattacieli, ville. Il chiosco se ne stava immobile nello stesso posto di sempre, ingoiato dal cemento. Io ero di fretta, gli occhi fissi sull’orologio.

Il chiosco camminava al mio fianco. Era là, il giorno del mio matrimonio. Avvolto nel silenzio, incastrato nel solito angolo. Attraversava il tempo senza che mi accorgessi della sua presenza.

Quando nacque mio figlio, era con me. Fermo, traslucido. Si nascondeva nelle piccole cose: nelle spaccature del muro, nelle venature del legno. Sembrava appartenere a un tempo che non era il mio.

Eppure era costante nella mia vita. Quando fondai la ditta, era là. Vide le mie speranze e le mie illusioni. Era accanto a me nei momenti felici, durante il buio. Quando litigai per strada con mia moglie, c’era. Muto e slavato, zitto. Con i palazzi che lo ingoiavano, che non gli lasciavano nemmeno una falce di luce. Mi vide passeggiare con l’altra. Fermo, con la sua frutta terribile sul piano. Cosa pensava, in quel momento sospeso? Non l’avrei saputo. Il chiosco non parlava. Restava immobile, a osservare in silenzio la mia vita. E il tempo passava e lui non si muoveva. Quando firmai le carte di divorzio, c’era. Lacrime e paura e dubbi: lui era con me. Vide il mio successo, la mia crescita infinita. Mi guardò licenziare brava gente, col cuore pieno di fango. Non c’era biasimo, nelle sue vecchie assi. Solo silenzio e frutta ammassata sul banco. Era accanto a me, quando mi innamorai di Lei. Giovane, bella. Ti lascerà, sembrava dire. Io lo guardavo marcire come tutte le cose vecchie. Lo ignoravo, sperando che un giorno il suo sguardo si posasse da un’altra parte. Ma il chiosco non se ne andava: legno scheggiato; pesche e mandarini a cataste, pieni di mistero. Quando sposai Lei, era con me. Piccolo. Vecchio. Sembrava restringersi, tanto era minuscolo. Il giorno in cui mi sentii male, c’era. Ulcera, si disse. Stress che mi perforava lo stomaco. Sputavo sangue e il chiosco era al mio fianco. Cosa vedeva, nel cuore reso duro dagli anni? Soddisfazione? Rimpianto? Impossibile saperlo. Il chiosco non giudicava. Lasciava che ogni cosa attraversasse la mia anima senza fare nulla. Mio figlio smise di cercarmi e lui c’era. Lei se ne andò e lui era là. Brutale. Eterno. Era nato per morire e non moriva. La sua lurida bontà usciva dalle assi. Sanguinava miele. E la ditta perdeva clienti e io non respiravo più. E il chiosco mi guardava. Pura indifferenza fatta di legno e spirito. Non mi dava nemmeno la soddisfazione dell’odio. Se almeno mi avesse detestato, avrei avuto un nemico da combattere. Invece il chiosco mi lasciava da solo davanti all’abisso.

Muori, dissi un giorno, sottovoce. Il chiosco non rispose.

E arrivò il tempo della fine. C’era il sole, quello strano pomeriggio. Lo ricordo a malapena, come se nella testa avessi la memoria di qualcun altro. Camminavo male, appoggiavo di continuo una mano contro il muro. Si sente bene? chiese qualcuno. Feci cenno di non preoccuparsi per me.

Andai verso il bar: i tavolini all’aperto erano pieni di gente. Io mi feci largo tra cappuccini e caffè, muovendomi come il vecchio che mi rifiutavo di essere. Tutti mi guardavano con curiosità: tremavo parecchio, le mani facevano fatica a stare ferme. Raggiunsi un tavolo, afferrai una sedia.

C’era un ronzio potente, nella mia testa, come se il cranio fosse pieno di mosche.

Mi avvicinai al chiosco barcollando sui piedi stanchi. Nessuno provò a fermarmi: tutti mi osservavano da lontano, immobili come pezzi di pietra. Io alzai la sedia fin sopra la testa.

Eppure sarebbe bastata una parola, una sola parola. Avevo bisogno che il chiosco mi parlasse.

Lui non fece nulla. Non aveva paura di morire, maledetto. Aveva vissuto abbastanza, aveva visto abbastanza. E ora sembrava ridere, tanto era pieno di silenzio e frutta.

Colpii il banco con la sedia. Le pesche volarono in aria. I mandarini rotolarono giù. Che stagione era? Pesche e mandarini insieme non si erano mai visti. Colpii. Frutta per terra, sul marciapiede, fin dentro il canale di scolo. Spaccai le vecchie assi: cedettero come ossa stanche. La tenda si strappò in più punti: i brandelli volarono nel vento caldo. Si fermi, gridarono in molti. Io colpivo. Ancora. E ancora. Legno, schegge, frutta. Tutto per aria, tutto in frantumi. Basta, sentii gridare.

Delle mani bloccarono il mio braccio: in molti intervennero per fermarmi. Mi tolsero la sedia dalle mani. Mi costrinsero ad allontanarmi. È malato, sentii dire, è matto. Mi lasciai guidare verso uno sgabello, docile come non ero mai stato. Si sieda, dissero.

Qualcuno mi portò un bicchiere d’acqua. Qualcun altro chiamò le forze dell’ordine.

Io rimasi lì, con le le labbra aperte. E con uno squarcio giù, fin nel fondo dell’anima.

Da “Una storia di sparizione”

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[Capovolte è una piccola casa editrice indipendente, nata nel 2019 con l’obiettivo di offrire una prospettiva di genere intersezionale, su tematiche di attualità e un focus sui femminismi neri. Pubblica prevalentemente saggistica, ma nel 2022 ha aperto una piccola collana di narrativa e poesia (LA PO’ RA – anagramma di “parola” – LAtitudini, la POesia non è un lusso, RAccontarsi), in cui pubblica opere di autrici in diaspora, in italiano o in traduzione. Tra le autrici pubblicate in quest’ultima collana, le brasiliane Djamila Ribeiro, Conceição Evaristo, la poeta italo-somala Rahma Nur, l’autrice luso-angolana Yara Nakahanda Monteiro, la poeta congolese Sarah Lubala e l’autrice italo-marocchina Amal Oursana.]

di Sarah Lubala

Traduzione di Gaia Resta

 

La litania di Maria

Stanno dipingendo le pareti della Collégiale Notre-Dame-des-Anges;
all’interno, 122 angeli dorati accompagnano la Vergine Maria al cielo.
Mentre il crepuscolo sanguina lentamente,
rimango sotto il suo tetto malandato,
sempre più vicina,
sempre più vicina.

Madre,
concedimi una lingua segreta che sia tutta nostra.
Dirò nevicata nella Old Québec e tu saprai cosa intendo:
l’uomo che mi ha trovata nell’oscurità,
il tramonto che si tramutava in tremolio,
i mesi che mi hanno frantumato le ossa.

Nostra Signora delle Sale d’Attesa,
ho vissuto trent’anni nel terrore della forca,
toccata da Dio o dall’amore o dalla pazzia, dipende.
Sono un’orfana della domenica,
figlia del Regno Fantasma,
imploro miele dalla roccia.

Disfattrice di Nodi,
sciogli le pillole segrete nei miei denti,
la buona medicina del significato,
dammi le parole che sono Dio
quando non posso vedere Dio.

*

Una storia di sparizione

Ci sono giorni
ai quali non possiamo tornare –
l’estate in cui il fiume si prosciugò,
una fila di jacarande bianche,
la bocca di marzo
graffiata dalla nostalgia.

Che sciocchi siamo stati
a rifiutare la nostra eredità;
la lunga corda degli uomini nel nostro sangue,
la debolezza dei nostri padri.

Come rubano i giorni tutto ciò che possono;
lo spazio tra i miei denti,
l’umorismo di mia madre,
volumi interi di poesie.

Tu
che chiedi troppo,
che mangi l’aria –
richiama i tuoi cani,
lasciami dormire

*

Canzone per la partenza

in memoria della mia bisnonna

Le mucche stanno morendo nei campi, kokolo;
niente carne quest’estate,
lei viene venduta a un vecchio capo, kokolo;
dalle sue gambe un canto di acqua e sangue.

Lei seppellisce due bambini, kokolo;
due fagotti avvolti nella mussola bianca,
il sudario si impiglia nel cespuglio di rovi, kokolo;
nessuno, solo Dio può ricucire lo strappo.

Lei ripensa a sua madre, kokolo;
ricorda le sue mani ossa d’uccello,
che scavavano sconvolte dalla fame, kokolo;
la terra non ha mai reso.

Queste sono fila di manghi selvatici, kokolo;
le attraversa toccandole con mani e ginocchia,
la notte diventa un canto, kokolo;
nulla può più spaventarla.

*

Febbre

In una stanza d’albergo a Bali
disperdo elettricità,
il farmaco, per un effetto strano, si tende e si incendia,
si infiamma contro di me.

Anche la lingua è un fuoco;
attraverso i denti lenti dell’anno
tutti i giorni della mia vita parlano contro di me.
Guarda il fuoco che mangia il fuoco.
Guarda mentre dà fuoco all’intero corso di una vita,
ed esso stesso viene incendiato dall’inferno.

Dico Walungu, Okapi,
Le Grand Boulevard
Ripercorro il vecchio quartiere:
cerco le donne agli angoli delle strade,
le barche a Maluku,
mi libero dell’erba alta –
lepre luminosa nel fumo della boscaglia.

Sul pavimento piastrellato del bagno,
chiamo un caro amico:
«Sogno fiumi», dico.
«E il fischio acuto delle quaglie blu».

Continuo a vedere mia madre;
è più giovane ora,
il suo corpo arenato su quello di mio fratello.
Lui ha soltanto quattro anni, la febbre lo sconquassa.
Lei supplica la memoria di sua madre.

Come muoiono gli incendi?
Arriviamo alla fine
e invochiamo l’inizio, urlando.

*

Domande che potresti sentire durante un colloquio per la richiesta di asilo

Da dove sei arrivata?

Pensa a un Paese,
smaltato di verde lussureggiante e incontaminato.
Ora immagina che tu abbia la forma di quel Paese,
la lunghezza del tuo corpo
il sogno di un uomo affamato.

Chi ti ha fatto del male o ti ha fatto temere di riceverne?

Là fuori,
il terrore cammina nella pelle degli uomini.
Sciacalli alla porta,
notti lunghe e un bisogno tenace,
il tanfo dei vicoli in ogni letto.

Perché ti hanno fatto del male?

Nessuna donna appartiene a se stessa,
sei una cosa presa in prestito –
oro per il corredo,
stralcio di canzone del fiume,
lo scialle consunto e sottile,
a digiuno sotto i loro sguardi.

Hai paura di tornare nel tuo Paese di origine?

La libertà è il tuo cuore nel vuoto della notte.
Prego di svegliarmi come un uccello;
un canto di tendini e piume,
con ali luminose e senza confini,
liberata da Dio.

 

* * *

The Litany of Mary

They’re painting the walls of the Collégiale Notre-Dame-des-Anges;

inside, 122 gold angels usher the Virgin Mary forward.

In the slow bleed of dusk

I stand below its battered awning,

ever closer,

ever closer.

 

Mother,

grant me a secret language that is all our own.

I’ll say snowfall in Old Quebec, and you’ll know that I mean:

the man who found me in the dark,

twilight turned to trembling,

the months that ground my bones.

 

Our Lady of the Waiting Rooms,

I have lived thirty years gallows-scared,

touched by God or love or madness, depending.

I am a Sunday orphan,

child of the Ghost Kingdom,

begging honey from the rock.

 

Undoer of Knots,

loosen the secret pills inside my teeth,

the good medicine of meaning,

give me the words that are God

when I cannot see God.

*

A History of Disappearance

There are days

we can’t go back to –

the summer the river ran dry,

a row of white jacaranda,

the mouth of March

bruised with longing.

 

How foolish we were

to refuse our inheritance;

the long rope of men in our blood,

our fathers’ weaknesses.

 

How the days steal all they can;

the gap in my teeth,

my mother’s humour,

whole volumes of poetry.

 

You

who asks too much,

who eats the air —

call off your dogs,

let me sleep

*

A Leaving Song

in memory of my great grandmother

The cows are dying in the fields, kokolo;

there is no meat this summer,

she is sold to an old chief, kokolo;

her legs sing blood and water.

 

She buries two babies, kokolo;

two bundles in white muslin,

the shroud is caught in the thorn bush, kokolo;

none but God can mend the tear.

 

She remembers her own mother, kokolo;

she recalls her bird-bone hands,

they dug in wild hunger, kokolo;

the earth never did yield.

 

There are rows of wild mangos, kokolo;

she moves hands and knees between them,

the night becomes the singing, kokolo;

nothing scares her anymore.

*

Fever

In a Bali hotel room

I shed electricity,

some quirk of the medication tends and stokes,

kindles against me.

 

The tongue is also a fire;

through the year’s slow teeth

all the days of my life speak against me.

See fire eat fire.

See it set the whole course of a life on fire,

and itself set on fire by hell.

 

I’ll say Walungu, Okapi,

Le Grand Boulevard . . .

Trace the old neighbourhood:

reach for the women on street corners,

the boats at Maluku,

slip the high grasses –

bright hare in the brush smoke.

 

On the bathroom’s tiled floor,

I reach a dear friend:

«I’m dreaming of rivers,» I say.

«And the high whistle of blue quails.»

*

Questions you are Likely to Hear in an Asylum Interview

Where have you come from?

 

Think of a country,

lush-glazed and untouched.

Now imagine yours is the shape of that country,

the length of your body

a hungry man’s dream.

 

Who harmed you or put you in fear of harm?

 

Out there,

terrors walk in men’s skins.

Jackals at the door,

long nights and dogged need,

the stench of back roads in every bed.

 

Why did they harm you?

 

No woman belongs to herself,

you are a borrowed thing –

gold for the dowry,

snatch of river-song,

the shawl worn thin,

fasting within their sights.