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Intorno a la bambina. Intervista a Franca Rovigatti.

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di Florinda Fusco

Vorrei iniziare questa conversazione su la bambina (il verri, 2018, collana diretta da Milli Graffi), ritratto autobiografico di un’infanzia vissuta tra due famiglie, quella d’origine e quella adottiva, negli anni Cinquanta, soffermandomi su quella che a me sembra una questione centrale: lo sviluppo dell’identità femminile. Sia la protagonista che gli altri personaggi in primo piano sono donne. In questo senso si può parlare di un’identità femminile fluida e multiforme che dalla protagonista fluisce verso gli altri personaggi?

Oppure il contrario, identità femminili intorno alla bambina che confluiscono in lei… Nel mondo descritto in questo libro di fatto compaiono donne molto potenti, mentre i maschi stanno in secondo piano, presi da altri affari. La bambina non ha per nulla chiaro quale sia il suo genere: certo, è una bimba, ma… Bisogna pensare che alla fine degli anni Quaranta, quando la bambina nasce, quasi tutti i genitori sperano che il nuovo nato sia maschio: probabilmente, già prima di nascere, la bambina viene pensata e desiderata come maschio. E dunque lei che, come tutti i bambini, vuole essere amata e accettata, si sente anche maschio: questo glielo conferma la madre quando, con grande soddisfazione della bambina, la chiama Capitano; e di fatto, finché può, lei è il leader della banda dei fratellini, li espone a rischi e li trascina in avventure. Più avanti, dagli zii intorno ai dieci anni, la bambina addirittura pensa di poter essere un eunuco – dunque un maschio evirato. Il femminile (rosa, fiocchi, bambole) è perfettamente rappresentato, nella mente della bambina, dalla sorellina Paola, la “femminuccia”. Paradossale, perché la bambina, che è femmina, si trova a disprezzare, attraverso lo specchio della sorella, il proprio stesso genere. Tutto intorno, dicevo, gravita un vasto universo femminile: la madre, la zia, le domestiche, la nonna, le altre zie. Sono tutte donne in qualche modo potenti. Anche la mamma: è vero, è fragile, bipolare, ma è anche, lei e la sua malattia, il vero nucleo attorno a cui ruota l’intera famiglia, tra assenze e umorali ritorni. Lei è potente in questo modo infelice e infelicitante, disturbato e disturbante. La zia invece è potente in modo armonioso: una potenza mai esibita, ma vera, che poggia su un grosso senso di realtà. Si può dire che la madre con i suoi eccessi rappresenta una sorta di dionisiaco “domestico”, mentre la zia mostra il quieto splendore dell’apollineo. La zia è la Regina, così la chiamava lo zio (che invece non era re).

 

Vorrei che ora ci concentrassimo sul rapporto io bambina-io madre tra simbiosi e distanza.

In realtà, questo libro (me ne sono resa conto solo dopo averlo scritto) è centrato sull’assenza della madre. Che, anche in assenza, è tuttavia sempre presente come nostalgia di una simbiosi paradisiaca precocemente interrotta. Paradiso perduto. Nel profondo, la bambina è profondamente ancorata all’universo illusorio della madre. A livello consapevole la bambina disprezza la madre.

 

Nel libro racconti di quanto alla bambina piacesse guardare le riproduzioni dei quadri di Renoir, i suoi nudi, mentre lei stessa aspettava le trasformazioni adolescenziali del suo corpo. Mi interessa, in particolare, la crescita congiunta io-corpo femminile nel libro. Puoi parlarmene?

Lì, quando guarda Renoir, la bambina è molto piccola, e probabilmente quei morbidi nudi le evocano nostalgie materne. Nel caso della bambina (poi bambona) la crescita congiunta io-corpo femminile si è verificata in modo sotterraneo, complesso e in sostanza conflittuale. Nel momento in cui la bambina si avviava all’adolescenza, quando doveva spuntare con tutta la sua grazia la sembianza femminile, ha ricoperto il proprio corpo di una coltre di grasso, imbottendolo per parare i colpi, tenendolo nascosto agli altri (mai preda!) e persino a se stessa. Mi spiace, su questo tipo di integrazione non ho alcuna esperienza. Una plausibile immagine femminile (non si può ancora parlare di identità) l’ho assunta molto dopo, artificialmente. Intorno ai vent’anni, una domestica a casa della zia mi ha dato degli anoressizzanti: non avevo più fame, mangiavo poco e presto diventai  molto carina. L’artificio dell’anfetamina ha probabilmente fatto sì che io considerassi l’immagine del mio corpo come qualcosa di totalmente esteriore, artificiale appunto.

 

Amelia Rosselli pensava che si potesse parlare di scrittura femminile che ha come origine non solo un dato culturale, ma anche biologico. Tu cosa pensi a tal riguardo?

Più o meno negli stessi anni in cui Rosselli pensava ad uno specifico femminile della scrittura, insieme ad un gruppo di compagne femministe, alla Maddalena, avevamo messo su un gruppo di scrittura proprio alla ricerca dello specifico femminile (una sorta di nostro graal). Era il ’77, e io mi ritrovai a inventare una (probabilmente un po’ ridicola) azione teatrale intitolata A mezza maschera, in cui le quattro donne in scena non riuscivano a parlare ed erano solo in grado di emettere grida e suoni inarticolati. Alla fine, alle domande del pubblico, le quattro donne rispondevano, non necessariamente a tono, recitando poesie. In quegli stessi anni avevo scritto un piccolo racconto che si intitolava Storia della ragazza muta che poi parla, il cui “lieto fine” vedeva la ragazza parlare con incomprensibili nonsense. Per dire che a me era ben chiara (in qualche modo forse era ancora vigente) quella sorta di proibizione alla parola (e dunque al pensiero) che per secoli e millenni aveva investito il genere femminile. Devo confessare che allora il nostro graal non riuscimmo a trovarlo. Cosa penso ora, a distanza di oltre quarant’anni? Dico subito che non ho alcuna evidenza di una scrittura femminile fondata su dati biologici.  Sono agnostica: può essere, e può anche essere di no. Tendo a pensare alla scrittura come a un meraviglioso strumento neutro, estremamente duttile, capace di essere sia femmina che maschio. Ovviamente, è impensabile che i ruoli dati dalla nostra cultura al maschile e al femminile non condizionino la scrittura. Nei testi delle donne è certamente più presente il corpo, il tempo, la cura, il quotidiano: perché questa appunto è la secolare esperienza delle donne. Il fatto nuovo è che, dagli anni Settanta del secolo scorso, i ruoli sono stati anche messi in discussione, e questo ha prodotto un’importante presa di parola da parte delle donne. Tante scrittrici, quante al mondo non vi erano mai state…

 

In questo testo non c’è finzione dal punto di vista letterario, in tal senso non è un romanzo o in termini di teoria della letteratura non rientra nel genere epico nel senso di Jonathan Culler. Si può parlare di un diario traslato nel tempo, scritto a sessant’anni di distanza? E dove la distanza è anche fissata dall’uso della terza persona?

Certamente l’uso della terza persona mi ha aiutato a tenere la giusta distanza da una materia che tornava alla luce dopo moltissimi anni. Una materia oscura e vergognosa. Nel senso che tendenzialmente non ci ripensavo mai, l’infanzia era una sorta di nebulosa dai contorni sfumati:  pensavo di non ricordare nulla. Ho cominciato a scrivere queste pagine per me, in un tentativo di mettere insieme, di ricordare. Scrivendo, è successo che un sacco di “pezzi” si sono affacciati alla coscienza: fatti, pensieri, sensazioni. Un puzzle con molti buchi, ma anche ben fornito di pezzi. Quanto ai diari, io non ne ho mai scritto uno, ne ho cominciati diversi, ma sono rimasti quale a tre giorni, quale a dieci, massimo quindici. Erano dei pessimi diari, pieni di elucubrazioni, intenerimenti su di me, autocompiacimenti, vittimismo, illusioni. In questo libro sono stata molto attenta (è stata forse la mia preoccupazione principale) a non indulgere in nessun modo a simpatia, a non tifare per me (come dico chiaramente nella poesia in esergo). L’altra grande attenzione è stata quella di essere il più fedele possibile alla voce reale della bambina e ai suoi veri pensieri. Mi sono potuta permettere un’operazione così spudorata solo dopo i miei sessantacinque anni, e dopo un incontro molto terapeutico con il cancro, che è stato un ineguagliabile incontro di realtà.

 

In che modo la bambina è stata influenzata dalle prose sperimentali apparse in Europa e negli Stati Uniti dalla seconda metà del Novecento ad oggi?

Ho sempre amato le avanguardie e le sperimentazioni nell’arte, nella poesia e nel romanzo, grande ammirazione per gli oulipiani. Le cose che ho scritto prima de la bambina sono tutte sbiecamente sperimentali e confinano col nonsense. Autore adorato Lewis Carroll, ma anche Edward Lear, Lawrence Sterne, Gertrude Stein, E. E. Cummings… la bambina potrebbe essere il meno sperimentale dei miei libri, dato che tutto sommato è una biografia. In realtà, anche questo testo può forse essere considerato sperimentale per l’uso di scritture diversificate: al presente in corpo grande, le cose che succedono alla bambina; al passato tra parentesi in corpo minore, le considerazioni ex post; tra parentesi in corsivo, le poesie; annegati nel testo a illustrare le cose che succedono, i disegni tratti dalle fotografie.

 

Nel testo vi è una sovrapposizione di parole e disegni: mi puoi parlare del rapporto arte-scrittura sia nel libro che nella tua vita?

Lo scrivo nel libro: la bambina, in un tema di prima media in cui viene chiesto cosa si vuole fare da grandi, scrive che lei lo sa cosa vuole fare: vuole scrivere e disegnare, perché solo quando scrive e quando disegna le sembra di “pensare le cose fino in fondo”, di essere davvero “installata” in se stessa. Credo che questa sia stata la mia fondamentale presa d’identità: essere una che scrive, che disegna, che dipinge, che fa cose con le mani. Intorno ai sette anni (questo non l’ho scritto nel libro) mi ero inventata un giornalino, in realtà un quaderno con mie leziose poesiole, con disegni, con l’angolo dei lettori e della moda, con la pagina dei viaggi. Era un giornalino totalmente illustrato. Tutti i libri da me pubblicati sono illustrati da piccoli disegni in bianco e nero. Nel caso de la bambina, le illustrazioni provengono quasi tutte dalle vecchie fotografie di famiglia e i disegni sono come un’altra scrittura a testimoniare ulteriormente della veridicità del racconto.

 

Conoscendo parte della tua arte visiva, ho constatato come alcuni dei tuoi oggetti d’arte sono indumenti femminili. Poi ricordo con grande interesse il tuo video che ha al centro una tua testa nuda multiforme. Mi parli del rapporto arte visiva-corpo femminile?

Molti degli oggetti d’arte che tu hai visto riflettono effettivamente sul vestito e sul vestire. Nella mia prima mostra personale (Milano 2000), il centro era costituito da undici giacche-quadro, o giacche-scultura, e non a caso la mostra si intitolava Sotto mentite spoglie. L’abito riveste il corpo, lo nasconde e modifica. Lo maschera, è finzione. L’ultima mostra, A testa nuda (Roma 2015), espone la mia testa completamente rasata dipinta in varie fogge, ripresa in foto e in video. Tra  mentite spoglie e  testa nuda, io percepisco un percorso che è sempre più orientato a svelare il vero. Di questo percorso fa parte anche la bambina.

 

Appare nel testo un episodio in cui tu immagini che i vicini di casa filmino scene reali della tua adolescenza, un documento che ti sarebbe servito per ristabilire giustizia. Come si sviluppa questa istanza nel testo?

La bambina subisce una serie di allontanamenti dalla casa dei suoi genitori senza che le venga mai detto esplicitamente perché. Sente di essere trattata ingiustamente e fa mille ipotesi sulle possibili ragioni di tale ingiustizia. Questo nucleo mai compreso è come una sorta di mistero che sottende e struttura tutta la storia. E insieme quasi in ogni pagina è presente una muta richiesta di giustizia. Aver scritto questo libro che ristabilisce la veridicità dei fatti mi ha permesso di rimettere le cose al loro posto secondo giustizia. E mi ha tolto ogni residuo di vergogna.

 

 

 

 

Del significato per il futuro delle risoluzioni parlamentari sul passato

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di Giorgio Mascitelli

La risoluzione votata dal parlamento europeo il 19 settembre scorso ‘sull’importanza della memoria storica per il futuro d’Europa’ ha prodotto numerose discussioni e un dibattito, anche se, come hanno notato alcuni osservatori evidentemente preoccupati del provincialismo del paese, quasi solo in Italia. Bisognerebbe ricordare ai cosmopoliti che è naturale che sia così, visto che l’Italia è stato l’unico paese alleato della Germania nazista nella seconda guerra mondiale ad avere avuto un significativo movimento di resistenza ed è l’unico paese, con la Spagna, ad avere una destra che si relaziona in maniera ambigua all’esperienza fascista: va anche aggiunto che caratteristico dell’Italia, acconto a un antifascismo politicamente fondato, una certa retorica mediatica dell’antifascismo, che rischia spesso di essere perniciosa per la sua stessa causa. Resta comunque il fatto che la mozione del parlamento europeo crea un potenziale conflitto tra un’identità democratica italiana fedele ai valori della Costituzione e l’identità europeista espressa da questo tipo di memoria.

Sul piano storico, purtroppo, il principio di non contraddizione non vale e il fatto che sotto Stalin l’Unione Sovietica  sia stata un paese totalitario con i suoi abitanti e imperialista con i suoi vicini è tanto vero quanto il fatto che senza l’Unione Sovietica Hitler avrebbe vinto la guerra. La storia ha una dimensione tragica e non logica della verità e dunque un’istituzione rappresentativa avrebbe dovuto adottare una saggia prudenza nell’esprimere deliberazioni che si basano su situazioni storiche complesse e contraddittorie, ma pretendere una consapevolezza del genere dal personale politico che siede al Parlamento Europeo sarebbe chiedere troppo al generoso sentimento di fiducia nel genere umano che ogni sincero cittadino europeo dovrebbe provare quando pensa ai suoi rappresentanti. Questa risoluzione, peraltro, rivela una natura composita e talvolta contraddittoria, segno di un lungo lavoro di limatura e mediazione, basti pensare che il comma 7 esprime la condanna per ogni forma di revisionismo storico e che l’impianto di questo documento sarebbe impensabile senza l’opera di Ernst Nolte e del revisionismo tedesco degli anni ottanta, oppure all’oscillazione nella terminologia tra comunismo e stalinismo; insomma la risoluzione che dovrebbe favorire una memoria condivisa europea rivela nella sua stessa struttura le profonde divergenze di memoria tra vari paesi e all’interno degli stessi.

Peraltro l’impostazione di fondo della mozione, che mi sembra provenire da un connubio tra conservatori tedeschi e polacchi e forse ungheresi, è interessante perché sembra essere rivelatrice dei fondamenti ideologici di quella che si potrebbe definire la costituzione materiale europea come si è formata, a dispetto dei fallimenti dei tentativi ufficiali, in questi anni. La nuova Europa ha dunque la sua radice fondante nel 1989, che illumina retrospettivamente anche il 1945, non è più socialdemocratica, ma liberista nella concezione dei rapporti sociali e trova un suo fondamento morale nella condanna del debito pubblico come forma di degenerazione della vita individuale e collettiva, pur mantenendo come elemento di continuità con la vecchia l’atlantismo in politica estera.

Non è un caso allora che il vero atto costituente di questa nuova Europa sia stato il trattamento del dossier sul debito greco, con il quale si è rivelato chi è il sovrano che fa la legge e sta fuori di essa, le norme, le punizioni per le infrazioni delle medesime, i veri valori fondanti aldilà delle elencazioni ufficiali, i rapporti di forza e quelli fiduciari per il riposizionamento nella gerarchia dei singoli paesi. E’ chiaro allora che la risoluzione rifletta innanzi tutto il punto di vista della Germania e dei paesi dell’Est europeo, ma non va dimenticato che essa si inserisce in un panorama generale in cui già sei anni fa un documento della banca d’affari statunitense JP Morgan definiva un rischio per la tenuta della UE le costituzioni dell’Europa del Sud nate dall’antifascismo. Allora in questo quadro che coniuga forme di revanscismo dissimulato, difesa delle istituzioni finanziarie private responsabili della crisi e nuovi assetti della governance europea diventa possibile una convergenza tra partito popolare e sovranismi di destra, specie dopo l’annunciato ritiro di Angela Merkel. Vi è anzi il rischio che la fine del cancellierato della Merkel segni il tramonto del katechon, il potere che trattiene dalla dissoluzione, per usare un’espressione biblica in voga nel dibattito politico-filosofico italiano ( senza per questo dimenticare che il cancellierato Merkel ha programmaticamente sottovalutato i rischi di questa convergenza).

In questa senso la vicenda ucraina prefigura già questa convergenza con la sua prevedibile propensione alle avventure: il fatto che Germania e Francia si trovino ora nella necessità di trattare con la Russia per evitare che l’Ucraina diventi una sorta di Bosnia all’ennesima potenza ossia un paese paralizzato in una sorta di tregua perenne con una scia di odi etnici mai sopiti che impedisce qualsiasi tipo di ripresa economica e stabilità politica è la prova eloquente degli esiti di questa propensione. Eppure ciò che è accaduto non produce una riflessione autocritica. Puntualmente infatti troviamo ai commi 15 e 16 della risoluzione l’indicazione della Russia putiniana come continuatrice dell’Unione Sovietica e come paese criptocomunista, quando i riferimenti storici ideali di Putin della sua politica di potenza vanno piuttosto verso un generico nazionalismo e semmai verso lo zarismo ( basterà pensare che il grande kolossal patriottico dell’era putiniana è dedicato alla nascita della dinastia Romanov e non a Stalingrado, che le critiche al liberalismo occidentale rientrano in una tradizione slavofila e non certo comunista, oltre a echeggiare temi cari a tutti i populisti di destra, e che sotto Putin è stata introdotta nelle scuole russe la lettura di Solženicyn). L’indicazione della Russia di Putin quale erede del totalitarismo di Stalin è tuttavia funzionale alla creazione di un sottofondo anticomunista, che è l’unico terreno politico sul quale può avere luogo questa convergenza senza che ne appaiano tutte le ambiguità storiche e politiche.

 

 

Sulla poesia di Landolfi

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di Antonio Prete

La lingua della poesia è per Landolfi lo spazio musicale della confessione, dell’interrogazione di sé, dell’affabulazione interiore. Una sorta di palcoscenico dell’anima. Scandaglio nel segreto di un’intimità confrontata costantemente con l’azzardo del vivere, con la pena del vivere. Esplorazione di sé affidata al suono di una parola che conosce bene l’artificio e il gioco delle maschere, e tuttavia nel suo farsi verso e ritmo, cioè tempo e insieme visione, allestisce un teatro che è rito di difesa dal nulla incombente, dal nero orlo che circonda la parola stessa.

Su Miloš Crnjanski (“Romanzo di Londra”)

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[Presentiamo la prefazione del Romanzo di Londra dello scrittore serbo, uscito per Mimesis, nella collana diretta da Massimo Rizzante. Qui, su LPLC, un’anticipazione del primo capitolo.]

di Božidar Stanišić

 

UN GRANDE, BIZZARRO PALCOSCENICO

 

Non potevo neppure immaginarmi che, l’anno seguente,

 mi sarei ritrovato fra calzolai, in uno scantinato, a Londra.

Miloš Crnjanski, Dalla terra degli Iperborei

Il blues della Maddalena

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[Esce oggi il romanzo Il blues della Maddalena di Francesco Cozzolino e Marco Grasso (Golem Edizioni). Ne pubblico il primo capitolo. ot]

di Francesco Cozzolino
e Marco Grasso

Dovrei dormire un po’ e invece sempre la sensazione di essere inghiottito da una crepa nel muro. Guardo la sveglia: alle quattro la mia battaglia è finita e l’attesa mi accompagna fino all’alba.
Ancora pochi minuti e il Colonnello si presenterà alla mia porta per stuccare la parete. Forse è già sul pianerottolo.
Ho provato a dirgli che la domenica devo lavorare, che la notte devo lavorare, ma lui è una di quelle persone che non capisce le ragioni degli altri, e d’altronde non crede che scrivere sulle bustine di zucchero sia un vero lavoro.
Non posso biasimarlo, anche se la ragione che ci divide è un’altra: per lui lo sfregio nel muro rappresenta un affronto, una sfida che non può essere rimandata.
Ecco cosa ci separa, la crepa potrebbe avanzare, contagiare gli altri muri e trovare il perfetto punto di tensione, ma per me difficilmente diventerebbe una priorità. Io sono in bilico e il Colonnello vuole tirarmi dalla parte dei giusti, quelli che odiano il luogo in cui abitano.
Vivo in un condominio variegato, tre piani costruiti all’inizio del secolo scorso, tre appartamenti occupati e tre sfitti. Un viado come amministratrice, un ex militare in pensione e il Fiasco, un bar immortale che sonnecchia di fronte al nostro palazzo.
Il Colonnello abita nell’appartamento di sopra. È in pensione ed è mattiniero, un pessimo incrocio. Ma c’è di peggio, è un cultore dilettante di storia locale, declama lezioni all’unico vicino di casa con cui può ancora parlare, io.
Lo scampanellio del collare annuncia Eisenhower, il suo yorkshire che con rumore furtivo ogni mattina riversa un rivolo di piscio sul mio zerbino.
Poco dopo, alcuni colpi decisi sono l’inno del capo reggimento degli scocciatori.
«Ragazzo, sei sveglio?»
Il silenzio non funzionerà.
«Andiamo, lo so che sei sveglio. Il generale ha puntato la porta e ha abbaiato. Non sbaglia mai, è un ufficiale come me. Forza, apri: prima cominciamo e prima finiamo.»
Potrebbe andare avanti per ore, per questo mi tiro giù dal letto. «Brutta roba l’insonnia. Ma il mattino ha l’oro in bocca, dove tieni
la spatola?»
È nelle battaglie più importanti che ci si accorge che manca l’arma giusta.
Pantaloni di velluto verde, scarpe da ginnastica e camicia di flanella, il Colonnello passa le giornate affaccendato in cose inutili.
«Ho scritto al Comune questa mattina, – dice mentre impasta lo stucco – ho imbucato la lettera poco prima di venire qui. Stanno facendo crollare le edicole votive. Tu sai che nei vicoli di Genova ce ne sono ancora settantacinque? Un tempo la città ne era piena. È una tradizione cristiana del Medioevo e il picco fu a metà del ’600, quando dominavamo il mondo, prestavamo soldi al re di Francia e bruciavamo vivi i Turchi sulle loro zattere…»
Il Colonnello si gratta la tempia con la spatola e inquadra con aria sicura il mio muro.
«…ah, che tempi. Pensa che allora ce n’erano centinaia. Poi, con la grande speculazione degli anni Sessanta, hanno distrutto tutto. Una delle ditte di costruzione che aprì il centro storico come una scatoletta di tonno cominciò ad accatastarle in una cantina. È andato tutto in malora, e un giorno sono sparite. C’è chi dice che se le siano vendute gli operai. Abbiamo perso le edicole e abbiamo guadagnato i grattacieli.»
Il Colonnello suda e parla, consapevole di avere, da qualche parte, un interlocutore. Si occupa della mia parete con passione e riempie la crepa di stucco.
Nel frattempo lo squarcio si è allungato nella parte sana del muro, la mattina è finita e lui deve dare da mangiare a Eisenhower.
Guardo la crepa e mi sembra educato invitarlo a restare per un caffè. Glielo servo con piattino e bustina dove campeggia il precario frutto della mia fatica: “I sogni sono il lavoro in nero della mente”.
La frase lo incuriosisce, ma la liquida con poco: «Lo prendo nero. Non te la sarai mica presa con me, ragazzo? Sai, a una certa età la gente finisce per evitarti. E la solitudine è un nemico al quale non ti preparano nell’esercito».
Su un tappeto di stucco e calce, io e il Colonnello sediamo uno di fronte all’altro e sorseggiamo un pessimo caffè. Lui a schiena ritta su una sedia, io con aria sconfitta nella mia poltrona.
Non è da tutti usare la buona volontà per sopravvivere in tempi come questi. In fondo non è che una reazione alla solita domanda: cosa fai per tirare avanti? Ognuno risponde come può: «Lo stucco dovrebbe essere asciutto per stasera, mi raccomando non toccarlo. Ripasso domani per vedere com’è venuto».
Lo accompagno alla porta e quando lo sento chiudersi in casa stringo lo scalpello in mano, rimango un momento sul pianerottolo. Eduardo Federico: sulla targhetta il mio secondo nome è discreto come un segreto inconfessabile.
Una volta dentro, il gesto è automatico. Mi avvicino al muro e m’inginocchio davanti alla crepa. Lo stucco ancora fresco si sfalda con facilità, quello già indurito ha bisogno di qualche colpo più deciso, ma in pochi minuti la crepa è come nuova.
Guardo la parete, sembra che sorrida. Non si riesce ancora a vedere dall’altra parte, ma è solo questione di tempo. In fondo il Colonnello ha ragione, la solidarietà è sempre importante. È come condividere un muro, non sai mai chi sono i tuoi vicini di casa finché non li inviti a entrare.
Mi siedo sul pavimento e la osservo. Vedi alla parola crisi. Nel vocabolario cinese si usano due ideogrammi per definirne il significato: cambiamento e opportunità. Nel vocabolario di un giovane occidentale si vince o si perde, e quando non sai bene a che punto sia la partita, un’espressione racchiude il meglio delle filosofie del pianeta: essere nella merda.
A mattina inoltrata apro la dispensa e prendo il necessario per il lavoro: pennelli, rullo e latta di vernice da cinque chili. Fuori dalla finestra la primavera tinge la città di colori caldi. Le scale del palazzo sono grigie e irregolari come quelle che facevano un tempo, quando le cose non erano progettate per essere dritte, ma per durare.
«Carinho!» Wanda è un’esplosione di colori a qualsiasi ora del giorno. Mi regala un sorriso che ha imparato a Bahia e di cui un solo popolo conosce il segreto.
«Ciao, Wanda, tutto bene?»
«No, per fortuna, altrimenti sai che noia, piccolo mio.»
Stretti nel vestito a fiori i suoi bicipiti reggono due sacchi di bottiglie di vetro. Un amministratore che si occupa anche della differenziata metterebbe di buon umore chiunque, ma la cosa più bella è che Wanda è molto più italiana e mascolina di me.
«Ma che vuoi – mi ha detto una volta – la nazionalità è una questione di comfort. È una coperta per ripararti dal freddo. E nessuno può dirmi cosa mettere sul mio letto».
È stata lei a fare i lavori di ristrutturazione del condominio, lascito di un vecchio zio a quanto dice. Il palazzo era in pessime condizioni ed era stata negata l’agibilità. Ma l’amore e i contatti giusti risolvono tutto.
Wanda è un viado, una personalità influente nel quartiere, oltre a gestire vari appartamenti è a capo di un sindacato di prostitute, “il primo del Paese” secondo lei.
Ogni volta che vuole salutarmi mi accarezza la guancia: «Se avessi un’altra vita la dedicherei al tango. Ma se ne avessi altre due, carinho, mi innamorerei dei tuoi occhi tristi».
Un secondo posto non si butta mai via. La saluto quando ormai forse non mi sente più, sono in ritardo per il lavoro.
Esco di casa come se stessi scappando da un uragano, tengo in tasca le cose fondamentali con le quali potrei tirare avanti un giorno in una città allagata: un pacchetto di sigarette semivuoto, uno nuovo, una penna che macchia, un mazzo di biglietti da visita.
La vernice borbotta nella latta, giallo zolfo come lo sguardo di chi ha vissuto troppo tempo a Genova, anziana matrigna che vizia i suoi figli fino a soffocarli.
La cosa più importante è la sfumatura: cerco sempre una tonalità leggermente più chiara dell’originale per fare in modo che in controluce rimanga qualcosa. Nei vicoli, se qualcuno si ferma a fissare un muro per più di un minuto o ha perso la via di casa o è semplicemente annoiato, in ogni caso si merita di vedere qualcosa.
Attraverso tutta la città vecchia per arrivare in via delle Vigne, poi la salita di via Chiabrera dove i tetti si sfiorano e nascondono il cielo. Sono quasi arrivato quando sento quel tono familiare, la lingua più parlata fra
queste vie, il mugugno. Un dialetto che assomiglia a un lamento continuo, l’espressione naturale della città, che ho trasformato in un fruttuoso business.
«Ma io mi dico, cosa passa per la testa di questi teppisti?» Il mio primo cliente della giornata.
«E poi, che vuol dire questa frase? Almeno avesse un senso.»
Tre metri per uno, tratto nero su sfondo giallo, è la bottega di un parrucchiere, un posto dove la gente passa un’infinità di tempo.
Il luogo non è mai scelto a caso. La cornice deve enfatizzare adeguatamente le parole. In fondo sto rispondendo alla pubblicità del futuro, un tempo in cui non basta più un taglio di capelli per sentirsi meglio, nemmeno se è alla moda. Il pennello si muove, ma è come se fissasse per sempre quella scritta.
Se apro un qualunque manuale di psicopatologia mi accorgo di avere una quantità di malattie variabile fra le trenta e le quaranta. La maggior parte delle volte succede di notte. Il trucco è alzarsi e camminare, nessuno busserà più per chiederti se sei vivo o no.
Con questo piccolo stratagemma ho trasformato un insopportabile fastidio in un sistema di lavoro. Io la chiamo insonnia creativa.
Lavoro in due tempi, dalle due alle sei il pennello scrive. Di giorno, nei ritagli di tempo, il pennello cancella. E io sono uno dei tanti giovani creativi che aiuta il quartiere.
Le mie parole hanno vita breve, anche se c’è sempre qualcuno che le vede: chi rientra tardi e chi esce presto, i due momenti migliori della vita di ognuno, quando si lascia e quando si riprende la via di casa. Quando gli occhi sono quasi pieni e quando sono quasi vuoti. Ho il potere del primo e dell’ultimo pensiero nell’esistenza di queste persone; forse non è molto, ma di certo non è poco.
Il viso del parrucchiere tradisce un sorriso, e un cliente soddisfatto significa sempre un altro cliente.
«Venga, le offro un caffè, – dice mentre ammira il risultato – questa è la democrazia: tanti bei discorsi e poi ognuno fa quel che vuole. I giovani, invece di lavorare, vanno in giro a imbrattare i muri».
Al bancone ci servono due tazzine, lui prende una bustina e legge: “La dittatura del sorriso finirà”.
Con un leggero turbamento si volta e ricomincia: «Io il mio negozio l’ho tirato su da solo, quando ho cominciato qui non c’era nulla. Anche adesso non è facile, forse non sarà il quartiere migliore, ma per fortuna rimane gente come lei che si dà da fare».
Pagati i caffè torniamo davanti al muro, lui annuisce ed estrae una banconota da cinquanta. Quando ci stringiamo la mano, recito la mia parte: «Se ha ancora bisogno di me, questo è il mio biglietto. Crac – Agenzia Risoluzione Problemi».
Lei scrive il suo problema, noi glielo risolviamo. Se il problema lo abbiamo creato noi, è solo un dettaglio.
Mi allontano qualche metro per ammirare l’opera. La superficie gialla nasconde un’essenza nera come la pece: “La chiave del successo è la sua necessità”.

Secondo vicolo, secondo cliente. Il mio lavoro continua in una strada del vecchio ghetto ebraico. L’uomo della pescheria è fuori di sé e io lo accolgo con il sorriso di chi capisce i problemi altrui ed è lì per risolverli.
Il suo «mi piacerebbe avere per le mani chi mi ha imbrattato il muro» è solo un nuovo lamento che aspetta di essere consolato.
«I colori della città vecchia sono molto particolari, rosso, giallo, verde acqua: venivano usati perché i marinai che facevano ritorno potessero riconoscere la propria casa entrando in porto; per guadagnare tempo, per essere a casa prima di mettere piede sulla terraferma» gli dico.
È un’idea romantica che mi ha portato ad amare i muri di questa città, ormai li conosco uno a uno, come le pagine di uno spartito che suono ogni notte.
Piazza Fossatello è l’ultima della lista. Ci arrivo quando la luce del tramonto comincia a salire dal mare e mi ricorda che la sera è dietro l’angolo, un momento importante da queste parti.

 

 

Storia con Glasbo

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di Andrea Inglese

 

ᕭ Vi presentiamo Glasbo ! ᕮ

ᕭ Dici il grande Glasbo ? ᕮ

Esattamente quello. Gran belle gambe. Occhi fortuiti.

È ancora viva la carogna. Avrà ventisei anni oggi.

Le vie di ieri non ci sono più. Un saluto a Ciaran Carson

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[Ciaran Carson ci ha lasciato due giorni fa. Come saluto, pubblico qui La scatola nera del traduttore, testo in cui Eleonora Ottaviani riflette sulla sua traduzione di Exchange Place, Belfast (Del Vecchio Editore, 2015), e sul compito del traduttore secondo l’insegnamento dello stesso Carson: «[…]  Il legno dello strumento, ci spiegò, muta le sue caratteristiche ricevendo il calore corporeo del musicista. Allo stesso modo, passando di mano in mano muta sempre il suo suono. Così fa la traduzione». Eleonora Ottaviani ha dedicato un lungo studio all’opera del poeta nord-irlandese, e sta attualmente traducendo Shamrock Tea (sempre per Del Vecchio Editore). In appendice, pubblico anche due poesie da un’altra raccolta, Belfast Confetti,  risalente alla fine degli anni ’80, sempre tradotte da Ottaviani per L’ospite Ingrato, rivista del Centro Studi Franco Fortini.]

 

 

La scatola nera del traduttore

Exchange Place, Belfast, è una fuga. Uno spartito da suonare. Come Glenn Gould per il citato Contrapunctus xiv di Johann Sebastian Bach, Carson esegue una forma narrativa contrappuntistica e polifonica di temi esposti, sviluppati, modulati, ripresi e sovrapposti, inseriti nella cornice di due storie alternate, complementari, e al contempo inglobate l’una nell’altra, che si specchiano e si intrecciano, come elementi di una scatola rompicapo. La sua è un’opera che si fonda sul doppio e sul multiplo: due narrazioni, una in prima persona e l’altra in terza; due personaggi principali, John Kilfeather e John Kilpatrick; due città, Belfast e Parigi; due amici pittori scomparsi; due opere da scrivere, due quaderni di appunti smarriti… cornici che racchiudono un prodigioso numero di altri “doppi”, di memorie, di divagazioni dettagliate, di aneddoti, di rimandi a opere musicali, pittoriche e cinematografiche; una quantità di citazioni da libri, da documenti digitali, da traduzioni e, infine, riflessioni sull’atto stesso del tradurre.

Mi trovo in una selva intricata, dove le cose si rispondono e si confondono, sovrapponendosi, fino al più piccolo particolare: anche la lingua di Carson riflette e sottolinea il tema del doppio attraverso l’uso costante di termini di origine latina, penetrati nell’inglese durante la conquista normanna e che ancora oggi conservano l’ortografia francese, evidenziando così la duplice identità della lingua inglese. Un effetto che verifico non ripetibile, ma a cui, in qualche modo, cerco di fare eco recuperando, quando possibile, un piccolo numero di francesismi usati comunemente in italiano.

Ma non è finita. Procedo, e la complessa stratificazione testuale si riflette in una prosa piuttosto elegante e precisa che, però, ha anch’essa l’aspetto di una fuga musicale, con brani di testo che vengono ripresi in modo ciclico, a volte solo leggermente modificati. E quindi eccomi a ricercare, ritornare, reperire con la massima precisione le parti ripetute e disseminate nel testo anche in modo frammentario.

Ovviamente, non mi sarei aspettata altrimenti, Exchange Place, Belfast dialoga con un numero straordinario di altri testi, citati attraverso l’inserimento di interi brani non sempre evidenziati da virgolette – sarebbe stato troppo semplice, poco coinvolgente – ma anche di “citazioni collage” che assomigliano ad appunti presi in un taccuino e, ancora, di citazioni quasi nascoste, di riferimenti appena percettibili. A volte Carson traduce dagli originali, altre volte riporta e commenta traduzioni altrui. Questo incessante fiorire di citazioni mi coinvolge e mi conquista, ma costituisce anche una delle questioni più complicate da affrontare, poiché la scelta di una traduzione libera e totale rischierebbe di limitare ulteriormente la già difficile riconoscibilità in italiano di molti rimandi intertestuali. Capisco che devo adattarmi in ogni singolo caso e decido, comunque, di tenere sempre in considerazione versioni italiane già in uso, qualora fossero presenti e disponibili, nella speranza di sollecitare il più possibile l’orecchio del lettore, per quanto ardua si mostri l’impresa, data la presenza, spesso, di più traduzioni di un stesso testo. E per la stessa necessità di riconoscibilità e di eco, soprattutto nel caso di autori ampiamente conosciuti come, per esempio, Walter Benjamin, William Shakespeare, John Donne o san Giovanni, scelgo di non discostarmi troppo o, anche, di ancorarmi a traduzioni già esistenti.

Carson è enciclopedico, mi trovo a girare per biblioteche reali e virtuali – mi concedo Wikipedia, perché anche lui lo fa; leggo i libri citati (quasi tutti); consulto siti web su ogni sorta di argomento: taccuini, radio, scatole giapponesi, abiti vintage, musica contemporanea, strumenti musicali, cricket, medicina, droghe leggere; mi iscrivo a forum di collezionisti di accendini vintage, di francobolli, di cappelli, di penne stilografiche; per l’alta sartoria consulto avidamente il blog di un ordine cavalleresco; visito orologiai e produttori di scarpe pregiate; ascolto spesso Glenn Gould. Mentre faccio tutto questo scopro che la fuga può avere in qualche modo a che fare con l’emicrania, oltre che con la musica.

Sono arrivata alla conclusione sapendo di aver ricevuto molto più di quanto potessi restituire e forse è questo un po’ il destino di un traduttore. Ho davanti a me l’immagine di cerchi concentrici che si increspano ad libitum sulla superficie dell’acqua, di storie che riecheggiano altre storie, parole altre parole. E io mi ci trovo dentro.

Nel marzo 2011, Ciaran Carson diresse un workshop al Seamus Heaney Centre for Poetry, a Belfast. Il primo giorno arrivò portando con sé un dizionario e una custodia per strumenti musicali. Dalla custodia estrasse un flauto d’epoca. Montò i pezzi e suonò per noi studenti un antico Aisling irlandese. Quel flauto, costruito nel 1874, era passato per molte mani prima di giungere alle sue. Il legno dello strumento, ci spiegò, muta le sue caratteristiche ricevendo il calore corporeo del musicista. Allo stesso modo, passando di mano in mano muta sempre il suo suono. Così fa la traduzione.

Eleonora Ottaviani

 

da Belfast Confetti

 

Svolta 

C’è una mappa della città con il ponte mai costruito.
Una mappa con il ponte crollato; le strade che mai sono esistite.
Ireland’s Entry, Elbow Lane, Weigh-House Lane, Back Lane, Stone-Cutter’s Entry –
Il progetto di oggi è superato – le vie di ieri non ci sono più.
E il profilo delle prigioni non si può mostrare per motivi di sicurezza.

Si disfa sul retro il rinforzo di lino – Falls Road è appesa a un filo.
Quando mi domandano dove vivo, mi ricordo dove vivevo.
Mi chiedono indicazioni e ci devo pensare. Svolto
in una traversa per liberarmi della mia ombra, e cambia la storia.

 

Turn Again

 

There is a map of the city which shows the bridge that was never built.
A map which shows the bridge that collapsed; the streets that never existed.
Ireland’s Entry, Elbow Lane, Weigh-House Lane, Back Lane, Stone-Cutter’s Entry –
Today’s plan is already yesterday’s – the streets that were there are gone.
And the shape of the jails cannot be shown for security reasons.

The linen backing is falling apart – the Falls Road hangs by a thread.
When someone asks me where I live, I remember where I used to live.
Someone asks me for directions, and I think again. I turn into
A side-street to try to throw off my shadow, and history is changed.

 

Paneperso

L’ho masticato a lungo, questo odore, ma tentare di definirne
l’aroma – lievito, sale, farina, acqua – è come scrivere sulla carta cerata
in cui è avvolto: il pennino non fa che scivolare. O l’inchiostro non attacca.
Quink nero-blu è quello che usavo allora. Mi piaceva il suo esser via di mezzo,
né una cosa né l’altra. Una stilografica Conway Stewart, bluastra-verde
in finta tartaruga… a volte la levetta mi si piantava nella carne viva del pollice,
la ricaricavo: gustavo il risucchio come col pane a tirar su l’ultimo sorso di
zuppa. Si diceva che il McWatters’ in cassetta fosse come la carta-assorbente: pensai
al diario di Leonardo o a un codice a specchio che terminasse con Mangialo.
Bene, alcuni gradiscono la carta assorbente. Quanto a me, consumavo gesso.
Farina cruda, avena. Carta. Carenza di vitamine? Gli angoli dei
miei libri non avevano orecchie, erano rosicchiati. Ma rosicchiati con cura, come l’indice
di un dizionario. Scorrevo tutta la lista di pesi e misure dalla A alla Z.
Così adesso sono nel solaio della farina di McWatters’. Cereali, chili e quintali:

Così tanta materia grezza. Io ero materia grezza. Era un impiego estivo, non
un vero lavoro. Io e quell’altro scansafatiche, parlavamo sempre del più e del meno –
sigarette e whiskey – tra una cosa o l’altra da fare.
Joe riteneva che il Three Swallows di Jameson fosse difficile da battere
sebbene si potesse sostenere la causa del loro Robin Readbreast, o del Gold Label
di Power. Ognuno aveva un tratto che mancava agli altri, per quanto non si riuscisse a descriverlo.
Come il Greens di Gallaher1: secco, affumicato, pungente. Lui aveva i capelli alla bebop –
bee-bap, come dicono a Belfast, una chioma crespa dorata ritta sulla testa –
E diverse volte era finito al fresco per piccoli reati. Furti?
Intrallazzi. Lavoretti notturni. Quelle furbate che ti fanno beccare.
E tant’è, allora si trovava tra una gattabuia e l’altra, come me tra due semestri.

Sembrava che stessero per passare gli ispettori dell’igiene, così ci dettero
secchi zincati, spugne e quegli spazzoloni con la testa di un Golliwog
albino2. Il luogo esalava unto e bisunto, il vapore umido del pane in forno.
Come dicevo, si chiacchierava: calcio, bevute, ragazze, cavalli, anche se io
non sapevo granché di queste cose. Erano nuvole nel cielo blu del futuro.
Lungo la passerella scivolosa da una stanza di cottura all’altra – come nell’Inferno
di Dante, il bagliore notturno dei forni, il molle schiaffo delle forme
riempite a mano a mano – pensavamo al fresco del gabinetto o alla pinta del pranzo.
Il tratto amaro della Guinnes avrebbe permeato pane e zuppa di bue,
finché pane e zuppa e birra sarebbero diventati un tutt’uno. Parlavamo a bocca piena.

Poi si tornava da Ajax, da Domestos3 e al pandemonio di Augia.
Oppure a smistare pagnotte rovinate per i maiali – gli involucri cerati in un sacco,
le fette nell’altro; i maiali, a quanto pareva, erano esigenti. Altre volte,
impilavamo sacchi di farina vuoti: cesure nuvolose che fluttuavano l’una
sull’altra, con le stampe così sbiadite che a malapena si leggeva la scritta;
quella soffocante tessitura serviva solo a passare il tempo. Attimi dilatati,
davanti all’impasto che lievitava, le smagliature perse in enormi vescie di lupo –  Era questa
la neve che splendeva tanto l’anno scorso?

Lavorammo lenti su tutti livelli, finché
non ci ritrovammo nel solaio n. 2, ben alti sopra al frastuono.
La mia ultima settimana. Quanto a lui, non lo sapeva. Ovattati da cumuli dimenticati
di farina, io pensavo al futuro, lui restava sepolto nel passato.
Quel trucco escogitato, quella ragazza conosciuta. Tutto conservato nelle celle.
Stillava soffocati discorsi mielosi, mentre io cantavo Que sera sera.

Chiese se mi sarei ricordato di lui. Scrivemmo i nostri nomi sui vetri imbiancati.
La data, i nomi delle ragazze, cuori e frecce. Inventammo relazioni amorose tra i fornai
e le impacchettatrici – pane e carta – poi ripulimmo tutto.
Il vetro brillava per la prima volta dopo anni. Guardavamo fissi alla finestra
sul finire dell’estate. A intervalli volavano aeroplani verso un altrove:
piccole macchie, le bianche linee del loro passaggio velavano già il blu.
_________
1. Jameson, Power e Gallaher sono tutte e tre note marche di whiskey irlandese.
2. Bambolotto nero dai capelli lunghi e irti.
3. Prodotti per la pulizia della casa

 

Loaf

I chewed it over, this whiff I got just now, but trying to pin down
That aroma – yeast, salt, flour, water – is like writing on the waxed sleeve
That it’s wrapped in: the nib keeps skidding off. Or the ink won’t take. Blue-black
Quink is what I used then. I liked the in-between-ness of it, neither
One thing nor the other. A Conway Stewart fountain-pen, blue-ish green
Mock tortoiseshell…the lever sticking sometimes in the quick of my thumb,
I’d fill her up: a contented slurp like the bread you use to sup up
Soup. MacWatters’ pan loaf, some said, was like blotting-paper: I thought of
Leonardo’s diary, or a mirror code ending with, Eat this.
Well, some people like blotting-paper. I used to eat chalk myself. Raw
Flour, oatmeal. Paper. A vitamin deficiency? The corners of
My books weren’t dog-eared, they were chewed. But neatly chewed, like the thumb index
Of a dictionary. I ate my way from A to Z, the list of weights and measures. So now I’m in
McWatters’ flour-loft. Grains, pecks and bushels:

So much raw material. I was raw. This was a summer job, notreal
Work. Myself and this other skiver, we mostly talked of this and that –
Cigarettes and whiskey – between whatever it was we were supposed
To do. Joe reckoned that Jameson’s Three Swallows was hard to beat
Though you could make a case for their Robin Redbreast or Power’s Gold Label.
One had the edge the others didn’t, though you couldn’t quite describe it.
Like Gallaher’s Greens: dry, smoky, biting. He had this bebop hairstyle –
Bee-bap, as they say in Belfast, a golden fuzz pricked up from the scalp –
And he’d done time at one time or another for some petty crime.Theft?
Jiggery-pokery. Night-shifts. The kind of fly moves that get you caught.
And as it happened, he was between times just then, like me between terms.

It seemed the Health Inspectors were due in a while, so we were given
Galvanized buckets, sponges, those mops with the head of an albino
Golliwog. The place breathed grunge and grease, the steamy, damp of baking bread.
So as I say, we talked: football, drink, girls, horses, though I didn’t know
Much of any of these scores. They were clouds on the blue of the future.
Walking the slippery catwalk from one bake-room to the next – like Dante’s
Inferno, the midnight glare of ovens, a repeated doughy slap
Of moulds being filled – we’d think of the cool of the loo or a lunchtime pint.
The bitter edge of the Guinness would cut through the bread and oxtail soup
Till bread and soup and stout became all one. We would talk with our mouths full.

Then back to Ajax and Domestos, the Augean pandemonium.
Or sorting out spoiled loaves for pig-feed – waxed wrappers in one bag, sliced pan
In the other; the pigs, it seemed, were particular. At other times,
Stacking up empty flour-sacks: cloudy caesurae floating on top
Of one another, the print so faded we barely read the text;
That choked-up weave meant nothing much but passing time. Expanding moments,
Watching dough rise, the stretch marks lost in the enormous puff-ball – Is this
The snow that was so bright last year?
We worked slowly through the levels, till
We found ourselves at last in No. 2 loft, high above the racket.
My last week. As for him, he didn’t know. Muffled by forgotten drifts
Of flour, I was thinking of the future, he was buried in the past.
This move he’d worked, this girl he’d known. Everything stored away in cells.
Pent-up honey talk oozed out of him, while I sang, Que sera sera.

He asked if I’d remember him. We wrote our names on the snowed-up panes.
The date, the names of girls, hearts and arrows. We made up affairs between
The bakers and the packers – bread and paper – then we wiped it all clean.
The glass shone for the first time in years. We were staring out the window
At the end of the summer. Aeroplanes flew by intervals, going elsewhere:
Tiny specks, the white lines of their past already fuzzing up the blue.

 

 

Massacrarsi di cultura

5

(Gabriele Marino è un cercatore di tartufi. Qui di seguito, con precisione maniacale, ci racconta come ha conosciuto l’opera di Tommaso Labranca e quali suoi“tartufi” sepolti ha disseppellito dalla rete. Ma, su tutto, ci da la possibilità di scaricare gratutitamente 14 testi introvabili di Tommaso. Io, di mio, rido all’idea che questo accada proprio su Nazione Indiana. Tommaso, avendolo conosciuto, non avrebbe apprezzato. L’idea di essere associato a qualsivoglia gruppaglia o camarilla sinistroide lo faceva inorridire. Ma lui mi ha fatto il dispetto di morire troppo presto e allora io per ripicca faccio di tutto perché non venga dimenticato. G.B.)

di Gabriele Marino

Inciampare in Tommaso Labranca

Non ricordo esattamente quando è successo. Non ricordo esattamente quando sono inciampato per la prima volta in Tommaso Labranca. Ma credo molto nel fascino dei nomi (che nome bellissimo è Tommaso Labranca, Labranca poi un cognome mai sentito altrove) e nelle coincidenze intese come riscontri (cose diverse che ti piacciono che scopri essere collegate tra loro lo chiameremo “effetto Frank Zappa” o anche trovare già fatta una cosa che avresti voluto fare tu) e quindi direi a causa di una o entrambe queste cose o al loro incrocio.

Labranca aveva a che fare con tante cose che mi piacevano (in questo testo dico tante volte “cose”, quasi quante dico “Labranca”, lo so): le faceva, ne scriveva, ci era immerso, stava sullo stesso scaffale. Probabilmente l’ho scoperto come una delle tante cose strane e belle partorite dal catalogo Castelvecchi di metà/fine anni Novanta. Sforzandomi un po’ visualizzo soprattutto tanti libri che mi piacevano e che lo citavano, che citavano le sue formule cristallizzandole, mantrizzandole: l’Andy Warhol coatto, l’estasi del pecoreccio, Orietta Berti, il neoproletariato, i salmoni del trash, la metafisica della periferia. Sarà stato come quando leggevo Bukowski e in certi racconti brevissimi diceva che Fante o il Camus dello Straniero e del Saggio sulla ghigliottina erano una bomba: i consigli degli amici si accettano sempre e, insomma, prima o poi era normale risalire alla fonte. Risalire a Labranca a un certo punto era diventato, se non necessario, praticamente inevitabile.

Sarei però un cialtrone uno di quelli che tanto lo facevano incazzare, quanto lo facevano divertire, come quel suo amico (ma forse ricordo male e in quella dichiarazione letta non so più dove faceva ammenda in prima persona) che aveva confessato di andare in giro dicendo di ascoltare Edgard Varèse, quando invece gli faceva cagare (la citazione mi aveva colpito perché quando la lessi avevo comprato da poco un doppio cd con l’opera integrale di Varèse, sempre per colpa di Frank Zappa) se dicessi o anche solo lasciassi intendere di essere un esperto o un grande lettore di Labranca. Ho letto poco di Labranca, qualche saggio classico, certo, molte interviste, molti pezzi brevi d’occasione, molto da tanti dei centomila siti che in anni di cicli continui di iperproduttività e successivi autodafé ha seminato in giro, la sua biografia di Skin (trovata a un Libraccio e presa per gusto della sorpresa; la apri e capisci subito che, per quanto pure dentro a una cosa molto di servizio, dentro c’è comunque e inequivocabilmente Labranca) e via così, saltando di palo in frasca.

Labranca ricordo anche di averlo a un certo punto vagamente ricordato da Anima Mia di Fazio e Baglioni. Ma ricordo pure che nel ricordarlo, quando poi ho cominciato a leggerlo anni dopo, sbagliavo sempre (nel ’97 avevo 11 anni): mantenevo la sfumatura di contenuto delle parole, la voce, l’idea di questa figura un po’ strana, un po’ di freak, di “tuttologo del trash o della nostalgia”, qualcosa del genere, ma lo sovrapponevo al corpo di Walter Fontana, altra presenza di quella trasmissione, forse perché negli anni sarebbe andato in qualche modo assomigliandogli, dimagrendo e perdendo i capelli.

Tornando al punto chiave. Labranca soprattutto mi affascinava. Mi affascinava il fatto che scriveva come scriveva delle cose di cui scriveva, mischiando personale, aneddoti, giudizi estetici al limite del crudele, analisi socioculturale e di costume (l’algida parodia dei luoghi comuni), riferimenti colti (e presa per il culo degli stessi), mi affascinava il fatto che non sempre ero d’accordo con quello che diceva, ma mi piaceva comunque. Mi affascinava il fatto che se ne parlava come di un genio, ma di un genio marginalizzato, ostracizzato (“l’esilio a Pantigliate”). Mi affascinava questa sua progettualità generosa, esagerata, dissennata e autolesionista, il fatto che facesse mille cose e che fosse capace di imprimere su tutte il suo marchio, ma che poi se ne stufasse e le abortisse, cancellando tutto. E poi, appunto, questi non saprei come chiamarli se non milanesissimamente come “progetti” non so proprio se geniali, ma sicuramente genialoidi: la vivisezione del Vedovo, il Labranca remix, le cene a tema a casa sua con il fake del liquore famoso. Io uno che a 12 anni voleva fare una fanzine chiamata “Spenalzo” ed è convinto che il tempo più prezioso della propria “formazione” è (non uso un congiuntivo di cortesia epistemica perché ne sono certo) quello passato a cercare minchiate su Internet di notte non potevo che trovare come minimo interessanti le sue cose.

La morte di Labranca mi ha molto e molto egoisticamente colpito, perché proprio in quel periodo stavo maturando finalmente di scrivergli, visto che abitavo a Milano e di solito procedo così: inciampo in qualcosa che mi piace, scrivo a quel qualcuno che l’ha fatta. Magari anni dopo riusciamo anche a incontrarci. Ero un po’ intimidito dal suo personaggio (e più precisamente: dal suo carattere), ma mi sarei sforzato di accrocchiare qualche riga e chiedergli se aveva voglia di incontrarmi, di farsi intervistare, prendere un caffè, non so. All’epoca scrivevo per un sito di musica (Sentireascoltare) e pensavo di chiedergli una playlist commentata, qualcosa sull’elettronica, l’eterno revival degli anni Ottanta. Un bad timing simile mi era successo con Luigi Schenoni, il primo traduttore del Finnegans Wake: volevo scrivergli per attaccare bottone e forse addirittura attaccare briga. Ma cercando la sua mail avevo scoperto che era morto qualche mese prima.

Labranca era esplicitamente anti-semiotico e anche questa sua impostazione diciamo politica da intellettuale, a me semiologo, affascinava. Quando è morto ho pubblicato un piccolo post sulla pagina della rivista di semiotica “Lexia” in cui antologizzavo un suo aneddoto su Eco, il suo anti-intellettualismo e quindi, necessariamente, anti-poststrutturalismo e un ricordo dell’amico semiologo Lucio Spaziante. Questa cosa del “Labranca anti-semiotico” era una di quelle che avrei voluto approfondire con Stefano Bartezzaghi, ma quando ci siamo re-incontrati, dopo qualche anno dal primo incontro, la cosa era successa da troppo poco tempo e mi ha chiesto di cambiare argomento. Anche lo scrittore Marco Drago, guardacaso amico zappiano, all’epoca aveva preferito non affrontare l’argomento Labranca. Troppo presto. Mi rendo conto che il tempismo non è il mio forte.

Divertimento totale Piccola guida al Labranca offline

A un certo punto, attorno al 2013, mi ero direi abbastanza ossessionato forse proprio per colmare i vuoti che dicevo con la presenza online di Labranca e ho cominciato a mapparla: quella in essere e quella che era possibile recuperare a ritroso. Conoscevo da anni WebArchive, ma ne avevo capito il vero potenziale solo quando questo strumento prezioso è stato in qualche modo al centro dello scandalo dei plagi di Luttazzi (uno dei miei molti miti per molti anni e direi ancora tra le mie ossessioni, in questo caso parzialmente sopita), perché ha consentito di tirare fuori post modificati o cancellati dal suo vecchio blog in maniera piuttosto accurata. Così ho provato a fare, senza alcuna pretesa di scientificità se non quella che un po’ va organicamente ascritta alla cocciutaggine, con la presenza online di Labranca.

Qui sotto c’è lo schema brevemente commentato di quello che ho trovato nel tempo: sicuramente non c’è tutto il recuperabile, perché per questo servirebbe un vero informatico. Io sono solo un semiologo con un po’ di fisse e di fisime.

Il mio consiglio è di aprire tutte le schede contemporaneamente e seguire la deriva ipertestuale finché: (1) scoprite accessi qui non indicati; (2) due accessi diversi portano a uno stesso contenuto (che sia qui mappato o meno); (3) vi addormentate (o vi ricordate che dovete consegnare un pezzo per qualche magazine online che non vi paga per scriverlo e dovete pure ringraziare se avete un editor che vi fa le pulci).

Del 2000 è questa home page con la poesia Anna Falchi di Aldo Nove di labranca.com (un sito che, quasi certamente, esiste almeno dal 1999): https://web.archive.org/web/20001018014600/http://www.labranca.com/.

Qui ci sono un bel po’ di materiali del 2002 su labranca.co.uk (forse il suo sito più vissuto): https://web.archive.org/web/20030727234049/http://www.labranca.co.uk/.

Qui le cose del 2003: https://web.archive.org/web/20030207055552/http://www.labranca.co.uk/.

Qui del 2004: https://web.archive.org/web/20040826073026/http://www.labranca.co.uk/index3.htm.

Qui la sezione Anguilla*eel:

https://web.archive.org/web/20020809045925fw_/http://www.labranca.co.uk/anguillaeel.htm.

Qui il mini-sito/parodia Ciellin Dion:

https://web.archive.org/web/20040810072923/http://www.labranca.co.uk/dion.htm.

Nel 2006 a un certo punto è spuntato un “sito non istituzionale”:

https://web.archive.org/web/20060719233639/http://www.t-la.co.uk/, nel cui archivio c’è un sacco di roba testuale: https://web.archive.org/web/20060702120415/http://www.t-la.co.uk/storico.htm.

Da tommasolabranca.eu, altezza 2007 (da cui anche una delle poche immagini di home page di TLA perfettamente conservate; l’abbiamo scelta come copertina di questo testo), un resoconto del party Novantadivisodue (ossia: il suo 45esimo compleanno):

https://web.archive.org/web/20070209081158/http://www.tommasolabranca.eu/novantadivisodue.htm.

Qui tommasolabranca.eu altezza dicembre 2008 (anche qui, pieno di cose): http://www.tommasolabranca.eu/.

Per esempio, la presentazione de Il piccolo isolazionista:

https://web.archive.org/web/20081212072938/http://www.tommasolabranca.eu/ilpiccoloisolazionista.htm.

Libro per cui, peraltro, a un certo punto fu anche registrato, pare, un URL dedicato:

http://www.ilpiccoloisolazionista.com/index2.htm.

Sempre da tommasolabranca.eu si arriva a questo:

https://web.archive.org/web/20070226163438/http://ilcattivo.blog.dada.net/.

Qui il sito della rivista Transplutonian, che nel 2006 figura come “in lavorazione”:

https://web.archive.org/web/20061202060937/http://www.transplutonian.eu/.

Da Labranca’s Eleven (https://web.archive.org/web/20050829002624/http://www.labrancaseleven.com/news.htm; qui “il club” con i nomi e cognomi dei membri in chiaro:

https://web.archive.org/web/20050907174559/http://www.labrancaseleven.com/members.htm) si arriva a labran.ca:

https://web.archive.org/web/20050507170858/http://www.labran.ca/index2.htm.

Qui il sito Ultravoid (.eu), con le sue voci dizionariali:

https://web.archive.org/web/20070521044912/http://www.ultravoid.eu/002a.htm.

Ultravoid (.net, stavolta), invece, appare accessibile solo così:

https://web.archive.org/web/20121101073122/http://www.ultravoid.net/.

Esiste un Issuu del progetto Ossobook, ma è vuoto:

http://web.archive.org/web/20130227033538/http://issuu.com/ossobook.

L’unica cosa ancora online-online di questo anticume Web TLA-iano pare essere questo blog del 2012:

https://labrancalovesyou.wordpress.com/.

Ovviamente, è sempre online Venti Zero Novanta (su cui si trovano, non inserite in sezioni specifiche, chicche come questa: http://20090.eu/Vraghinaroda_Stop%20(07_06_16).pdf).

Idem, sempre online, Tipografia Helvetica (http://www.tipografiahelvetica.ch/).

E ancora online è anche la sua ultima pagina personale, superminimal, svizzerissima:

http://www.tommasolabranca.ch/ (in cui si dice che TLA non è sui social, anche se a un certo punto è esistito questo URL: https://www.facebook.com/tlabranca?ref=tn_tnmn; e anche se in un vecchio post da qualche parte TLA dice di essersi iscritto a questo: https://en.wikipedia.org/wiki/Path_(social_network)).

Labrancoteque 2.0 Quattordici pdf di Tommaso Labranca

Non abbiamo finito. Ora c’è il meglio.

Il 28 gennaio 2014 la data è certa: certi metadati non mentono ho preso e ho scaricato tutti i 14 pdf di Labrancoteque, uno dei centomila suoi progetti, siti, brand di forme di scrittura mi verrebbe da dire eccetera allora online. Era una specie di rivista personale (e un auto-archivio), anzi, come diceva lui stesso, una “egozine”. Era fantastica (leggasi: una di quelle cose che avrei voluto fare io): nel numero su Madonna, il 13 (l’unico ancora online in qualche forma: https://www.yumpu.com/user/labrancoteque.info), per esempio, c’era l’elenco dei pezzi del suo iPod che avevano come tag “Madonna”. Una cosa di un solipsismo così sperticato da essere commovente, poetica. Ecco, uno che fa una cosa del genere va amato. È un gesto io lo leggo così di un romanticissimo cinismo materialista, il gesto di uno che insegue comunque, “nonostante tutto”, l’idea di potersi dire e dare il più possibile, è un’esca per trovare qualcuno che quei titoli se li legga tutti, che gli scriva (senza azzardarsi però a tentare di “ripristinare contatti recisi da tempo”, come si legge qui) che adora quel pezzo del repertorio minore o quel remix e si stupisce invece per l’assenza di quest’altro. È il testo scritto che si stacca dalla pagina, si stacca dallo schermo per diventare un canale di connessione esistenziale. È un microcarotaggio in forma di ossessione di una vita. Forse per me, alla fine, Labranca è stato ed è soprattutto questo.

Chiudendo. A metà agosto (di quest’anno, il 2019), frugando cose di notte, sono finito di nuovo su Labranca (non ricordo come), mi sono ricordato che il 29 sarebbero stati tre lunghissimi anni dalla sua morte, mi sono ricordato di un post di Gianni Biondillo che invitava potenziali archeologi del web a ricostruire le tracce delle sue varie incarnazioni online e a dissodarle, e così gli ho scritto, spiegando un po’ tutta questa storia, un po’ avvitata su se stessa. Il che ci porta qui. Con quel ritardo che conferma l’ipotesi sul (mio eternamente mancato) tempismo.

I pdf, a occhio e croce, li avrò scaricati da qui, ma oggi non si vede più nulla: https://web.archive.org/web/20130526133718/http://www.labrancoteque.info/ (e questo, che sicuramente al progetto era legato, appare direttamente del tutto irrecuperabile: https://web.archive.org/web/20110512200907/http://www.labrancoteque.blogspot.com/).

Altri pdf di TLA sono oggi scaricabili qui: http://www.visiogeist.com/blog/item/opere-di-tommaso-labranca.

E la New Age dalla A alla Z è sfogliabile qui: https://issuu.com/concettarivistaconcettuale/docs.

Mi sia concesso di dire che i “miei” 14 pdf sono semplicemente una goduria, vedrete. E allora godetene, godiamone.

(In fondo, ingenuamente, lo so: mi auguro possano essere ancora più che strumenti per una comunque doverosa filologia una via d’accesso laterale all’opera labranchiana per qualche teenager che la notte sta veglio a cercare meravigliose minchiate per nutrienti perdite di tempo.)

Gabriele Marino Bologna, 18 settembre 2019, ore 5:15

Scarica qui la Labrancoteque completa, 14 pdf:

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Lampedusa

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[Pubblico questo inedito di Ferdinando Tricarico, scritto nel 2011; il finale è stato aggiornato nel 2018. ot]

di Ferdinando Tricarico

Come s’accrocchiano ste carni
dai colori cafardi
sta babele di caini sti casini d’Abele?
Come s’acconciano sti sconci
cenci dell’inconscio
senza troppe ciance
sti sogni in bianco e negrogiallo
sta scacchiera d’arlecchini
sto nascondino di clandestini?
Come s’incrociano sti bastardi
dal pedigree che puzza
sti olezzi di creoli
ste fichesecche del deserto secche
st’ibridi da brividi sti meticci posticci
ste sgnacchere rumene fottimariti
di mogli che non fottono più
sto safari di sari nella subburbia
del Subsahara subumano?
Come s’agglutina sto verso celiaco
co sta stirpe che magna magna
col mal de Sancho Panza?
Come si placcano sti rom iperattivi
apolidi presunti nomadi unti sinti finti
rifugiati in vacanza neristinti di stenti
sul filo atroce dell’asilo camminanti?
Sti schiavottielli ribelli
ci tolgono il lavoro
fanno i soldi col pomodoro
con le dita nei tergicristalli
col piscio dei pappagalli
ballano il liscio nella galera
invece dell’alligalli nella balèra.
Sti barbari bari non stanno mai quieti
s’annegano nel mare
e tornano a galla come merde nelle bare.
Come si fa il bagnetto
nel sangue d’aidiesse de sti fetienti?
Divello incollo ed espello
li aiuto a morire in casa loro
a Lampedusa
promessa di Musa
entrano prima gli Italiani
nella casa chiusa.

Mots-clés__Maiale, porco, cochon

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Paula Rego, Galanteio do príncipe porco [Corteggiamento del principe-maiale], 2006.

 

Maiale, porco, cochon
di Serena Cacchioli

 

Jacques Brel, Les bourgeois -> play

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Paula Rego, Galanteio do príncipe porco [Corteggiamento del principe-maiale], 2006.

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Da Ana Hatherly, 463 tisanas, Lisboa, Quimera Edições, 2006 (trad. di Serena Cacchioli).

Tisane

11

Stavo tranquillamente guardando il mio programma in televisione quando all’improvviso capii che la missione dello spirito creatore è la più trascendente di tutte perché un giorno lo spirito creatore smetterà di essere necessario. È da lì che deriva l’importanza dell’arte e la sua inutilità. Il mio maiale Rosalina è della mia stessa opinione. Tutti i venerdì va dalla parrucchiera a farsi una mise.

26

Camminavo orgogliosa in compagnia del mio maiale quando all’improvviso mi trovai nel più inusitato stato di perplessità quando sentii dire la donna è un essere estraneo.
La perplessità è un accadimento. Per questo capendo velocemente chiesi estraneo a chi. Chi, io lo ignoravo, proferì la famigerata sentenza inciampò e disse lei è incomprensibile ciò è comprensibile. Non esitai. Era visibile. Avanzai e dissi a chi. Ma chi non disse. Allora dissi al mio maiale Rosalina tienimi la coda. Salimmo ancora un gradino. Mi sedetti. Poi chiesi a Rosalina di pettinarmi le orecchie.

28

La civilizzazione consiste nell’imparare a fare naturalmente tutto ciò che non è naturale. È da lì che deriva l’idea dell’angelismo perché l’animale in noi consente tutto. Solo ogni tanto succede di sentire una strana malinconia e scacciando una mosca diciamo che voglia che avrei di andare in campagna.

29

Quando arrivai a casa il mio maiale Rosalina stava scrivendo a macchina. Rimasi in uno stato di perplessità e poi le chiesi cosa stai facendo lì. Senza alzare la testa Rosalina m’indicò il foglio col piede di porco invitandomi a leggere. Il foglio era bianco perché Rosalina aveva tolto il nastro dalla macchina per avvolgerselo alla coda riccioluta che in quel momento agitava con piacere. Rosalina mi ha sempre spinta a immergermi nella metafisica. Perciò senza dire niente mi diressi in cucina. Aprii il cassetto delle posate. Tolsi il coltello grande dalla custodia del trinciante. Accesi il fuoco e misi a scaldare la griglia. Andai di nuovo nello studio dove Rosalina scriveva a macchina. Le tagliai due fettine di lombo. Quel che basta per un bel pasto. Tagliai anche un pezzetto di nastro per abbellire il piatto.

256

Dopo tanti anni senza nessun contatto, questa notte ho sognato il mio maiale Rosalina. Schiva e curiosamente non-mia. Cerco di conquistarla e poco a poco ci riesco. Si erge vestita con il mio pigiama rosso-lampone e dice: voi umani siete molto strani, state sempre lì a volerci tranquillizzare.

302

Oggi è il mio compleanno. Devo festeggiare. Vado al supermercato e compro costolette di maiale in omaggio a Rosalina. In tutti i gesti utili c’è sempre qualcosa di orribile.

 

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

La frontiera

1

di Antonio Iannone

Descrizione di una scena. Lo spazio mentale si dilata nell’immagine, «non si annega in superficie» canta una rèclame fin troppo provvidenziale dal televisore acceso. L’avvenimento è questo grumo di organismi mescolato tra le lenzuola nella forma dell’amplesso, la simbiosi è sublimata nel tessuto da cui entrambi sono occultati – ma a quali occhi? – attraverso la cui trama soltanto docilmente vengono le fonti delle cose esterne. Hanno spento le luci, non per pudore: per lasciarsi invece impressionare da sensazioni non visive, per «sottrarsi al regime dello sguardo» (parole di lui). La bocca incontra un corpo indecifrabile a cui segue una certa riposta uditiva…

Ma il televisore l’hanno lasciato acceso per non dover troppo riconoscere loro stessi.

La camera accoglie due sistemi. Il primo, quello degli amanti, è un sistema in moto, la parodia di una bestialità ancestrale. L’altro, quello della camera stessa, è il sistema inscenato-parodizzato entro cui quella bestialità non traspira se non a causa della congiunzione dei due.

Gli amanti si affannano nell’indagine sul piacere, ma una regione recondita della mente – quella dedita alla memoria – li invischia in parte nella ripetizione. Ogni colpo è dato per liberarsi di un ricordo, come spazzandolo via con la mano. L’immagine prolifica e si dischiude, così che avvenimenti insignificanti fluttuano in uno spazio intermedio tra i sistemi. Senza mai dirsi niente.

Un aneddoto di lei. Accade tutto in una fantasmagoria. Sin dentro i desideri, sin dentro la stanza intestina delle voglie nessuna esigenza ha superato le sue possibilità fattuali di essere soddisfatta e la felicità è dunque venuta come un ospite atteso che tuttavia si insidia irrigidendosi tra le pareti di casa. «Tra me e te c’è questo fastidio della felicità…», è l’archetipo delle considerazioni registrate in un quaderno sulla cui copertina è scritto: “Da non rileggere”Quegli aforismi che soltanto ieri sembravano così acuti sul tema della condizione umana, si esauriscono adesso nel ridicolo di chi si trova di fronte a un’imitazione di se stesso, ma conosce pure meschinità e consuetudini dell’imitato. Come può lavarsi i denti la stessa testa che pensa tanto acutamente? come può lasciarsi vincere dalla pigrizia e posticipare la sveglia di cinque minuti? come può ancora sopportare l’afflusso di sangue della femminilità e assoggettarsi ad esso? La scrittura inerisce al canone del ripudio del corpo. Quando rilegge i frammenti dal diario riconosce sin troppo bene la mano che si libera sulla pagina e la parola che le emerge sulle labbra: finzione. Questa è una donna che fa finta.

Ricorda l’aneddoto soltanto per averlo scritto, così che alla mente non venga ancora l’immagine sopra cui la narrazione ha tentato un certo tessuto letterario ma le parole di quella trama già posata da cui sforzarsi di ricavare un qualche idillio in movimento.

La scrittura, intesa come trasferimento (o anche: rinuncia) di una disposizione emotiva per mezzo di segni grafici, non si priva di alcuni moti infantili negati nell’esercizio letterario a cui è costretta dal mestiere di accademica. È la sua vendetta – anch’essa infantile? È un giudizio… – per aver dovuto sin da ragazza pensare più nitidamente degli altri. Si potrebbero leggere le sue pagine di diario insieme a uno di quegli articoli su “L’Ars amandi tra i pitagorici” che le attraversano il curriculum e osservare quanto i secondi languiscano di tutto ciò di cui i primi abbondano.

«Ieri ho visto A… in un negozio. Sono entrata anch’io per caso, una dottoranda mi ha macchiato la camicia di caffè – e prima di un convegno…! Così ho dovuto raggiungere la città. A… si aggirava tra i reparti con la stessa smorfia innocente di quando l’ho conosciuto. Ed era tutto quanto mi ha permesso di individuarlo contro l’eventualità che si trattasse di chiunque altro. Mi sono nascosta perché non mi riconoscesse, ma di fatto non avrebbe potuto riconoscermi, così come io non ho riconosciuto lui. Due estranei in un negozio. A casa non gli ho raccontato niente… perché ho incontrato un altro, sì: un altro».

Descrizione di una scena, ripresa. Nessuno può osservare il volto dell’altro, come in un gioco. I suoni che l’orecchio percepisce non provengono da alcuna bocca, né il desiderio esige che lo sguardo partecipi all’avvenimento. Lui le tiene la testa come la guardasse negli occhi, ma non osserva altrimenti che la frontiera di oscurità che li separa, la quale circola per l’abitacolo di tessuto.

Il televisore si spegne all’improvviso a causa di un timer programmato due giorni prima: nei giorni di assenza dell’altro, dormono entrambi cullati al sottofondo della trasmissione più soporifera, di solito un talk-show politico. La trovano, ma singolarmente e senza che l’altro conosca questa curiosa congiunzione, una bella arguzia.

La voce di lui è la prima articolazione di linguaggio oltre quella televisiva. E la sua parola designa un malinteso.

Un aneddoto di lui. Accade tutto come lo osservassimo giungere dal piano superiore dell’appartamento, dove ha riposto lo studio entro cui emergono copiosi i suoi «biglietti per l’ordinariato», come li definisce. Uno è sospinto dal vento sino al piano inferiore, dove la bambina è così pronta – «ha preso dalla mamma», scherzano – da afferrarlo al volo prima che raggiunga il pavimento. È un po’ annoiato di essere stato costretto alla distrazione da un avvenimento sopra cui non può esercitare alcun potere, gli ricordano di quanto provi a dimenticare annegandosi nello studio: l’anomalia, il disordine, la cattiva condotta. Argomenti del genere innervano il suo interesse scientifico e i corsi semestrali. Uno di quei docenti di cui nessuno potrebbe dir male.

Dalla balconata dice alla figlia di attenderlo, ma questa ripone il foglio sul primo tavolo che intercede a suo favore e si dissolve oltre lo sguardo. Riesce appena a trattenerne il profilo e dunque la schiena, i capelli tagliati a imitazione di sua madre. Le stanno bene, pur non assomigliandole troppo. Diventerà una donna bellissima, pensa: non sa a quale destino la costringono le parole dell’innocenza.

Si dedica alla pagina. «Dove credevi di andare?», sua moglie sorride di nascosto per non dargliela vinta. La voce della figlia, dal bagno: «Ma’, puoi venire?», «“Mamma” è troppo lungo per la tua generazione?», dice scherzando mentre gli occhi del padre osservano la donna spostarsi da un angolo all’altro. Trafigge lo spazio e distingue due regioni dell’appartamento.

Da adesso non potrai più attraversare la frontiera che lei ha istituito con un passo. Da adesso sei relegato al tuo sistema-mondo. Comunicherai con altri che non ti capiranno.

non ti capiranno non ti capiranno non ti capiranno non ti capiranno non ti capiranno non ti capiranno

Si apparta al piano superiore, e spia. La testa di sua moglie si avvicina alle scale, allora lui si nasconde nello studio. La camera di fianco è quella matrimoniale: di cosa avrà bisogno? cosa mi nascondono?

Se la donna si voltasse verso lo studio del marito, anche soltanto per saggiarne la presenza, potrebbe concedergli l’anelito di un nuovo linguaggio. Si dirige invece verso il piano inferiore, brandendo un oggetto indecifrabile.

È ancora per le scale quando lascia fluire il segreto dal territorio della discrezione: «Benvenuta nel mondo degli adulti!».

Prendono tutti l’entusiasmo alla lettera.

Descrizione di una scena, seconda ripresa. Un istante di incredibile silenzio, i gemiti sono stati raffreddati dal reiterato sottoporsi alle medesime condizioni di piacere. Ancora un’immagine interdice l’amplesso: quella di un’amazzone dai seni enormi che governa dall’alto un sesso di eccezionale dimensione. La scena schiocca nella mente di entrambi nel medesimo istante, e all’oscurità si sostituisce lo splendore di una pornografia condivisa.

È il segnale per cui il grumo recondito di vergogna si dissolva in una parola: il nome della figlia da adulta.

Raimondo Iemma: i nostri misteri non verranno rivelati

0

 

 

Ospito qui una selezione di poesie inedite di Raimondo Iemma. Nato a Torino nel 1982, Iemma ha recentemente pubblicato una raccolta dal titolo La settimana bianca all’interno del XIV Quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2019). Questi ultimi componimenti sono tratti da un’altra raccolta inedita in prima stesura.

«Le migliori poesie dovrebbero sembrare / tradotte da un’altra lingua / di un’altra epoca / nella quale non esiste una letteratura», scrive l’autore. Per vicinanza, saluto allora questi versi attraverso la stessa epigrafe -tratta dal Contre Sainte Beuve- con cui Deleuze decise di aprire il suo libro dedicato a Bartleby lo scrivano: «I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera.»

 

34.

Le nostre cattedrali non sono più

nelle città. Le ricerchiamo

di nascosto, con le cautele dei terroristi

o delle spie (sapendo, o credendo,

di essere inseguiti).

Studiate prima, o incontrate per caso

come alberghi dismessi,

abbeveratoi per uomini, o vecchi

ritiri monacali. Le nostre cattedrali

non sanno di esserlo

e non prevedono raduni.

Che si sappia: i nostri misteri

non verranno rivelati.

 

49.

Non avrò gli oggetti della casa

né le impronte digitali delle molte, ormai,

transazioni, delle visite rimaste registrate

nei magazzini fisici dell’informazione.

Gli oggetti crepuscolari possono finire

col riflettere solo l’istante, e se stessi.

Le migliori poesie dovrebbero sembrare

tradotte da un’altra lingua

di un’altra epoca

nella quale non esiste una letteratura.

E quest’epoca non può che essere futura.

 

81.

È una grande città. La nostra fortuna

è che la disposizione dei piani

su rilievi naturali impedisce

che da un unico punto d’osservazione

la si possa abbracciare. Così lo sguardo

tocca molte città. Il giardino botanico

si insinua non visto fino ai confini del porto.

Il palazzo del governo

(un solido angolare, ma che dalla costa

può somigliare a una sfera

e non si sa quale dei due sia l’inganno)

a orario stabilito emette un richiamo

che rimbalza sulle sponde dei monti

e giunge al mio orecchio

come il canto struggente per un’amata.

 

111.

La montagna per come l’hai sognata

e la cima innevata per quello che è

non sono più due varianti dell’immaginazione.

(Quanti cieli nuovi si preparano

per un solo intatto planetario).

Sarai costretto a imparare

una terza e unica montagna

con la forma stessa del suo nome,

come un bambino la disegnerebbe

in una scuola di eletti misteri.

Dichiararla stupenda non ti peserà

poiché in verità lo è.

 

 

 

Testimony. The United States (1885-1915): Recitative

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di Charles Reznikoff

traduzione e cura di Giuseppe Nava

Accanto a Louis Zukofsky e George Oppen, Charles Reznikoff (1894-1976) è stato una delle figure fondamentali del movimento poetico dell’Objectivism, che si formalizzò negli anni ’30 con un manifesto pubblicato sulla rivista Poetry e poi con una casa editrice dalla vita breve, Objectivist Press. Con Pound e W.C. Williams come figure di riferimento, gli oggettivisti si dichiarano comunque parte del Modernismo americano, e propongono una poesia in cui il significato non è “dichiarato”, secondo una definizione dello stesso Reznikoff, “ma suggerito dai dettagli oggettivi e dalla musicalità del verso”.

Raffaela Fazio, L’ultimo quarto del giorno

1

Nota di lettura di Giorgio Galli

Non è facile parlare della poesia di Raffaela Fazio, perché è una poesia intimamente autosufficiente, che si compie in se stessa e sembra refrattaria alla sovrapposizione di parole che non siano le sue. Eppure occorre che io ne parli, almeno per rendere conto della gioia che ho ricevuto dalla lettura de L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018).
Partiamo dalla musica: una musica discretissima, difficile da individuare all’inizio, ma chiara e tesa. Può ricordare, per l’essenzialità linguistica e il gioco semisommerso delle figure di suono, il primo Quasimodo. Ma è solo una suggestione, perché si tratta di un suono che è proprietà esclusiva dell’autrice. Sembra che le sue poesie vadano lette con voce sommessa ma ferma: una voce femminile melodiosa e intima come quelle delle doppiatrici dei film anni Cinquanta. Un suono affettuoso, ma anche astratto. Che in effetti è possibile realizzare, in tutta la sua ricchezza espressiva, solo nella lettura mentale, e che nasce proprio dal carattere astratto della parola, dalla consapevolezza dei limiti della parola. Non c’è nessun assalto all’ineffabile: solo un pensoso contemplarlo.
E’ una poesia interiorizzata ma estroversa: c’è sempre un Tu, ed è un Tu di cui il dettato poetico enuclea il ruolo affettivo, la quintessenza relazionale, tenendo semisegreto il suo io empirico. Nelle poesie dedicate ai figli, essi non sono mai “rappresentati”: appaiono come destinatari di un pensiero e di un amore di madre. Non ci sono descrizioni in questo libro. Sono assenti i dettagli. La parola è astratta. Concreto è l’amore. Ed è un amore declinato in tutte le sue forme, dall’amore materno all’eros all’agape, sempre come un sentimento germinale, come la scaturigine di una riflessione emotiva pacata e zampillante.
Tanto è peculiare lo stile, tanto è accogliente. Non accoglie solo il lettore, ma anche gli stili degli autori che chiama in causa. Eraclito, ad esempio, viene prima “affiancato” mutuando una sua metafora sul tempo, poi citato. Ma c’è dell’altro. Accogliere, dare, darsi, sono il sottotesto continuo di questa poesia. Anna Maria Curci ha definito “parola dialogica” quella di Raffaela Fazio, ed è una definizione che mi sento di condividere con tutto il cuore. In questa parola si assiste a uno scambio di interiorità. L’autrice rivolge un continuo invito a condividere un’esperienza al limite dell’esprimibile, e perciò solo lambita dal dire: “Vieni”, “rendimi fruibile”, “fa’ la tua parte, credimi”. Ma questo scambio induce una metamorfosi tanto dell’Io quanto del Tu: “a metà / di qua muoio / all’istante / di là / divento / più ariosa / fatta per amore / giardino pensile di un re / per la sua sposa”.
Poesia meditativa, ma che origina sempre dal corpo. Un corpo “sapienziale”, perché il corpo è colui che sente lo scambio amoroso, ma anche il luogo in cui si realizza l’azione del tempo, la morte continua e il continuo ricambio di cellule e tessuti, il “male universale / senza età”, che intacca la vita dei singoli, che è l’essenza tragica del creato: il “morire / in altre forme” che è essenza di un esserci che nasce corrotto, ma che è anche causa della generazione di altra vita, che “non lascia spazio sufficiente… a un pensiero di morte e di caduta”. Nel corpo che invecchia, muta e perde bellezza, ma che ama e che procrea si può realizzare il continuo rinnovarsi del dono: “Vantaggio dell’età / potermi offrire a te / come la copia / fedele minuziosa / di me stessa / darti la libertà / di lavorarmi ancora / senza posa / perché la mia materia / è più docile al pensiero / alla mano / di quella imperitura / dell’originale / che si è perso / nel corpo senza fughe / del reimpiego”.
Il modo che Raffaela Fazio ha di declinare il rapporto tra essere e tempo, tra amore e morte, non mi suggerisce nessun accostamento contemporaneo. Mi ricorda piuttosto Omar Khayyam, la saggezza antica, la Tyche non dei tragici, ma dei lirici: “oltre la morte solo l’amore è guardia di frontiera”; “Ho l’impazienza / della scellerata / ma sono felice e rassegnata / come chi sa / di essere impigliata / a morte / nell’eternità”.
Nella parte finale del libro, la poesia apre un varco al trascendente, che era rimasto sotteso fino a quel momento. Preludio forse alla riscrittura empatica del testo biblico nel successivo Midbar (Raffaelli Editore, 2019). O forse compimento logico di un percorso: l’amore terreno è la risposta cercata a un vuoto cui dappertutto si accenna (“Le tue perdite / strette alle mie mancanze / arrotondano il vuoto per difetto. / L’effetto / siamo noi che ci cerchiamo / e deprediamo il tempo / ma non in linea retta”), mentre l’amore trascendente sembra una risposta proveniente proprio dal centro del vuoto stesso. Un percorso, dunque, all’interno di quella domanda d’amore che è origine di ogni forma del dire.

Ti dirò
di noi
sarò precisa
come è preciso il richiamo
di un piccolo animale.
Per le parole serie
chiederò
materia al volo.
E per l’infinito
che le sperde
non molto:
il buio
del gioco
tra il folto dei rami.

*

Vieni
sui miei possedimenti
nell’abbaglio delle falci
sui terrazzamenti
dei più arditi pensieri
sulle distese contigue
del tempo a noi più simile.
Rendimi fruibile
accendi queste caviglie
non guardarmi.
Fa’ la tua parte, credimi
anche se dico una bugia
e nel goderti mi approprio
di una bellezza non mia
che la vita mi dà
come un’altra terra ignota
al marchese di Carabà.

*

Nella vita pare che tutto
vada restituito.
Il crollo del corpo
alla sua lievità
il dolce di un labbro
alla prima matrice
il fuoco guerriero
al fodero di pace
la bellezza (sempre)
all’alterità
la verità di un’arte
all’insieme e l’insieme
alla più piccola parte.
Va riportata
ogni prova di amore
al mistero
e lasciata
fuori dall’inventario
una cosa soltanto
un fendente di gioia
assoluta insolente
non necessaria.

*

Il corpo è un trapasso
continuo: smistamento
di cellule e tessuti
in tempi disuguali.
Durante questo lutto
del tutto personale
accade
che mi si avventi contro
su da un fosso
una diversa forma
piccola animale
riversa in un’ingiusta
fissità.
Niente
mi costa quella morte
non è mia.
Eppure
mi confessa
che porto nelle ossa
un male universale
senza età.

*

Piccoli accorgimenti

Deglutisci
se ad alta quota
un antico vuoto
fa male.

Se piove a vento
dentro le parole
aspetta.

Quando indivisa
è la notte
non la spartire
neppure con l’amore
guardala
da sotto
cercane l’odore
di scura mammella
– nessuna patria
nessuna risposta –
solo una lenta
animale
suzione di stelle.

E vedrai

un giorno
la notte finisce.

Deglutisci.

*

Ora di punta
(per i miei bambini, dicembre 2015)

Come in un’eterna
ora pendolare
in cui il corpo è sorretto
dal vicino
e superfluo
è perfino un appiglio
così anch’io rimango in piedi
grazie a voi
che vi moltiplicate
ogni giorno un pochino
e aderente
al vostro bisogno
mi tenete
non mi lasciate
spazio sufficiente
per uno scarto muto
che un po’ somigli
a un pensiero di morte
a una caduta.

*

Stai attento
quando con me giochi
al dono e al furto.
Ho l’impazienza
della scellerata
ma sono felice e rassegnata
come chi sa
di essere impigliata
a morte
nell’eternità.

La strategia del gambero

0

 di Gianni Biondillo

Piero Colaprico, La strategia del gambero, Feltrinelli, 2017, 343 pagine

L’ex agente per la sicurezza dello Stato Corrado Gemito è di fronte ad un aut aut. O restare a scontare la pena, 12 anni per una storia balorda di sequestri di persona finita in sesso e morte (del suo più caro amico e collega) oppure accettare la missione offerta dai servizi segreti: infiltrarsi nei loschi piani di due famiglie della ‘Ndrangheta del Nord e far saltare i loro propositi. Missione suicida in cambio della libertà.

E scopre così Ranirate, paese dell’anonimo varesotto, dove la mafia non esiste solo in facciata, ma prospera da anni, fra usura, commerci illeciti e pizzo, grazie a paura, controllo del territorio e connivenze politiche. Gemito ha un piano: si finge imprenditore del divertimento, apre un locale notturno proprio a Ranirate, pieno di belle ragazze e fiumi di champagne. Non avanza, indietreggia. Aspetta che siano i mafiosi a contattarlo. Per poi pungere, forte come un’ape.

Ne La strategia del gambero Piero Colaprico costruisce una macchina narrativa complessa, come un enorme ottovolante dove per la prima parte del racconto si sale lentamente verso la cima per poi precipitare improvvisamente in un vortice di accadimenti, colpi di scena, apparizioni e sparizioni, pestaggi violenti, omicidi, rapine. Tutto l’armamentario del più solido noir così come dovrebbe essere.

Ranirate è lo scenario ideale: provincia all’apparenza pacifica e sonnolenta, in realtà la “Poisonville” perfetta di una falsa coscienza industriosa che non vuole ammetter i suoi intimi legami con l’economia criminale. Gemito ha la furbizia di Ulisse e anche la scelleratezza. Nessun personaggio, della pletora presente nel romanzo, si salva. Tutti compromessi, tutti colpevoli. Tranne una.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 51 del 19 dicembre 2017)

La geografia della mia infanzia

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di Giacomo Sartori

Attorno alla vecchia villa dove vivevamo, la casa di mia nonna, c’era un territorio che era bello e accogliente, ma non ci apparteneva. Apparteneva ai contadini. Che erano esseri ignoranti e retrogradi. E infidi. Paradossalmente erano loro però che conoscevano i segreti di ogni recesso delle campagne e dei viottoli, solo loro erano liberi di percorrerlo a piacere. Lì fuori erano loro che dettavano il buono e il cattivo tempo. Lo constatavo parlando con difficoltà la loro lingua così diversa dalla nostra e entrando nelle loro case dagli odori forti, sperimentando a mie spese come potevo essere accettato. Per mia nonna erano quasi bestie, ma intuivo che sotto le sue frasi sferzanti li temeva. Erano loro i veri padroni dei vigneti, dei pezzi di bosco, delle scarpatine incolte dove cresceva l’erba medica buona per i conigli. I proprietari – i paròni – erano i possessori, ma in realtà regnavano ormai solo nelle loro ville secolari, nei giardini alberati che le circondavano. Al riparo dalle voci rudi, dagli sguardi. Fuori imperversavano loro, i bifolchi, che certo lavoravano, ma anche gridavano, sghignazzavano, e soprattutto guardavano, guardavano tutto. Perché i tempi – questo non potevo saperlo – erano cambiati, la mezzadria era stata abolita.
Bisognava difendersi dai loro sguardi. Mia madre si proteggeva tenendo sempre ben chiuse le tende che castigavano le grandi finestre, non sia mai che qualcuno potesse vederci in casa. Mia nonna per le spazzature faceva scavare una buca dietro gli annessi della villa, e le portavamo lì. Quando la fossa era piena, ma ci voleva molto tempo, il consumismo era solo agli inizi, dava fuoco al suo contenuto. E quando proprio tracimava la faceva coprire e ne faceva aprire un’altra. Non portavamo i nostri resti alla minuscola discarica, forse un metro quadrato, i residui allora erano davvero esiguissimi, all’entrata del paese, dalla quale spesso si elevava un incerto filo di fumo. Lì ci passavano tutti, i bifolchi avrebbero potuto vedere cosa mangiavamo, cosa facevamo, di cosa ci disfacevamo: non esistevano ancora i sacchetti per la spazzatura. E si trattava di resti molto diversi da quelli ai quali erano abituati loro, alcuni li avrebbero giudicati ancora buoni. Non era nemmeno concepibile questo attentato alla nostra intimità.
Mia nonna riceveva l’anziano contadino che lavorava la sua campagna, ora che la famiglia di mezzadri era andata via, nella sua cucina: lui entrava dalla porta sul retro, e salutava con la testa bassa, scalcagnato Sancho Panza con il cappello in mano. Lo stesso uomo sovrappeso avanzava però tra i filari di viti con ondeggiamenti spavaldi da vincitore. E quando lei transitava per la frazione con la Cinquecento per scendere in città, sbucando appena dall’altezza dei finestrini, quasi fosse tornata bambina, guardava fisso davanti. Era il suo modo di salutare, sapeva bene che tutti gli occhi la seguivano. A parte noi e gli abitanti dell’altra villa nessuno aveva la macchina, o anche solo una moto, o una bicicletta.
La domenica andavamo in chiesa, la prima fila della pieve del paesino più vicino, solo e esclusivamente per dovere sociale. Anche quello era un territorio che non ci apparteneva. In casa mia la religione era questo, l’incombenza di mostrarsi in chiesa la domenica, per non apparire superbi. Quelle pratiche sciocche erano necessarie per loro, non per noi, che avevamo l’educazione e la dignità di accettare la vita per quello che era. Lo stesso prete era dalla loro, ogni tanto ci arrivavano delle frecciate. I contadini maschi stavano nel balcone sopra la porta di entrata, al quale si accedeva da una scala esterna, separati dalle donne. O anche all’esterno sul ballatoio che lo precedeva, con il cappello in mano. Irrequieti, sarcastici, surrettiziamente riottosi, impazienti della sbornia domenicale. Noi bambini a tavola intonavamo l’Alleluia imitando la ü dialettale con la quale veniva cantata, che ci faceva morire dal ridere.
La nostra vera patria era lontana e indistinta. Nemmeno io lo conoscevo, mi accorgo a posteriori. Era New York, era Buenos Aires, era soprattutto la bella l’Avana, dove mia madre e le sue sorelle erano nate. Mia nonna diceva basura, non spazzature. E asco, non schifo. Era la prima classe delle navi sulle quali avevano traversato tante volte l’Atlantico. Era l’accademia militare di Modena frequentata da mio nonno assieme all’amico Giovanni, il futuro senatore Agnelli. Era la collina di Torino, dove viveva la sorella di mia nonna, che era stata sposata con il fratello di mio nonno. Le due sorelle e i due fratelli erano primi cugini, tutto restava in famiglia. Era Milano, dove vivevano gli zii ricchi, che sfoderavano sempre gli ultimi ritrovati della tecnica, che ci lasciavano a bocca aperta. Di quei posti così alieni i contadini non avevano idea, perché dalla nostra frazione nessuno era emigrato: la polenta bastava per tutti. Il viaggio più lungo era scendere in città per la fiera annuale dell’agricoltura. I maschi andavano lontano una volta, in Italia, per fare il militare. O per la guerra. Il padre del mio amichetto mi raccontava la ritirata di Russia con le lacrime agli occhi, lacrime di struggente nostalgia: per lui non era stata una tragedia dantesca, era stata l’esperienza più bella della sua vita.
Anche mio padre aveva dei posti che gli appartenevano. Facevano capolino di rado, e erano meno eclatanti, più dimessi, ma esistevano. Il paese già quasi veneto dove era cresciuto, dove compravamo il formaggio del giorno da mangiare scottato in padella, con una consistenza elastica di plastica, e un delizioso gusto di erbe di montagna. E il villaggio di lingua tedesca dove suo padre era stato mandato come gerarca. I crucchi erano suoi nemici, perché li considerava – anche questo lo ho appreso dopo – i responsabili della caduta del fascismo, e anche doveva combatterli sui cantieri stradali dove lavorava, visto che la maggior parte erano lì da loro. Suo padre non ci aveva pensato due secondi, come Cesare Battisti, a arruolarsi nell’esercito italiano, per combatterli (lui ci aveva rimesso solo l’uso di un braccio), e mandarli via. Quel toponimo italianizzato lo nominava però strascicando dolcemente le consonanti.
Certo il vero posto che rimpiangeva, l’unico dove si sentisse davvero a suo agio, era la GUERRA. Ma quella non c’era più, gliel’avevano tolta. Il suo esilio era forse ancora più severo del nostro. Era – lo ho capito solo molto più tardi – un rinnegato. A casa poteva dire quello che voleva, e anzi provocare gli invitati di mia madre, dandogli dei voltagabbana, ma fuori doveva tenere profilo basso. Signoreggiavano i democristiani, i preti, i sindacati. Adesso era così.
Restavano le vette delle montagne. Quelle sì ci appartenevano, erano anzi l’unico spazio che avevamo in comune. Appena ci allontanavamo dalle strade e dalle altre persone eravamo nel nostro dominio famigliare privato. Il cielo immenso era nostro, e anche i larici e le rocce, e gli odori di resina e di vento. Ci andavamo la domenica, l’inverno con gli sci, e l’estate con il sacco sulle spalle. Lì, e solo lì, eravamo una vera famiglia, coesa e appagata. I miei non litigavano, o molto meno, e ognuno aveva un suo allegro tornaconto.
La cima della montagna sopra la città era un caso un po’ speciale, ci apparteneva solo fino a un certo punto. Lì mia nonna dopo la guerra aveva finanziato la costruzione del rifugio che i miei per qualche anno avevano gestito, prima di gettare la spugna. I tempi erano prematuri, e loro non erano proprio tagliati per gli affari e il commercio. Qualche domenica ci tornavamo, anche se La Selva, diventata nel frattempo albergo, era ormai circondata da casermoni più moderni, e noi non ci avvicinavamo. Pure lì in fondo eravamo stranieri, ma anche a nostro agio. La guardavamo come si salutano da lontano delle vecchissime conoscenze che nel frattempo sono diventate ricche e frequentano altre persone.
In città c’era gente più simile a noi, persone che parlavano la nostra stessa lingua, o insomma potevano passare da una all’altra. Con la Cinquecento di mia madre traghettavamo verso quella zona che ci era meno ostile. Lì c’erano i negozi dove lei faceva la spesa, non certo il bugigattolo sfornito vicino alla nostra frazione, lì comprava i vestiti e portava a sistemare la pelliccia di visone, lì c’erano i cinema ai quali mi portava anche a me, il Vittoria e l’Italia, lì vivevano le sue amiche, c’erano i locali dove le incontrava. A me piacevano i compagni delle elementari, e soprattutto quelli già malandrini, quelli che poi sono stati falcidiati dall’eroina. Sapevo risultargli molto simpatico, mi prendevano per uno di loro, e mi piaceva sentirmi accettato. Pur non facendo i compiti come loro ero il secondo della classe, sfruttando la cultura famigliare, ma non me ne volevano. C’era qualcosa di profondamente struggente in quelle amicizie. Certo poi quando tornavo sulla nostra collina mi sentivo a casa mia, potevo scorazzare come mi piaceva, entrare nelle stalle. A differenza dei miei avevo messo le radici in terra nemica.
Le cose si sono chiarite quando sono entrato in classe il primo giorno della quarta ginnasio. Ero arrivato in ritardo, e quando ho aperto la porta tutti gli occhi si sono girati su di me, come si guarda un forestiero vestito di stracci. Avevo i capelli lunghi e la mia giacchetta sdrucita di jeans, e masticavo una gomma. Sono andato a sedermi nell’unico posto libero, accanto alla bionda un po’ grossa vestita come un’anziana baronessa (non a caso adesso dirige il Museo del Castello). Ho capito subito che lì c’erano altre regole, altre gerarchie, e che l’aria era molto pesante. Mia madre aveva avuto la bella idea di iscrivermi alla sezione di tedesco, io che non sapevo una parola di tedesco. E quelli – anche questo è venuto fuori dopo – erano i rampolli delle famiglie che consideravano il tedesco una lingua più importante dell’inglese. Le famiglie che per secoli avevano intrallazzato con i conti di Tirolo. Lì si era ancora in pieno ottocento clericale, l’Italia era ancora molto lontana. Mi sono aggrappato al professore comunista, che parlava di Bertolt Brecht e di Antonio Gramsci e di Cesare Beccaria, e di internazionalismo, come a una corda di salvataggio. Sapevo già che sarei andato via, nel mondo.

 

NdA: questo testo è il mio contributo alla raccolta “Lettere da Nordest”, a cura di Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron, edita da Helvetia (2019), alla quale hano collaborato diciotto autrici e autori veneti, friulani, e trentini: Ubah Cristina Ali Farah, Gianfranco Bettin, Francesca Boccaletto, Antonio G. Bortoluzzi, Roberta Cadorin, Alessandro Cinquegrani, Elisa Cozzarini, Fulvio Ervas, Angelo Floramo, Patrizia Laquidara, Luigi Nacci, Silvia Salvagnini, Giacomo Sartori, Federica Sgaggio, Tiziano Scarpa, Gian Mario Villalta, Stefano Zangrando, Francesco Jori. Scarpa ne parla qui, sul Primo Amore.

I poeti appartati: Valeria Argiolas

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Dylan Thomas, tre poesie

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trad. di Corrado Aiello

 

Questo pane che spezzo

Questo pane che spezzo fu un tempo l’avena,
Questo vino su un albero straniero
Era immerso nel suo frutto;
L’uomo di giorno o il vento a notte
Umiliò le messi, spezzò la gioia dell’uva.

Quando in questo vino il sangue dell’estate
Batteva nella polpa che ornava la vite,
Quando in questo pane
L’avena era allegra nel vento;
L’uomo spezzò il sole, demolì il vento.

Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
Devastare la vena,
Erano uva e avena
Frutto sensuale di linfa e radice;
Il mio vino tu bevi, il mio pane tu addenti.

 

 

Amore nel manicomio

Un’estranea è venuta
a condividere la mia stanza nella casa fuori di testa,
una tipa matta come gli uccelli

Sprangando la notte della porta col suo braccio sua piuma.
Stretta nell’intrico del letto
Lei inganna la casa a prova di cielo lasciando entrare le nuvole

E anche camminando per l’orrifica stanza,
in franchigia come i morti,
oppure monta gli oceani fantasticati delle corsie maschili.

È giunta assediata
Colei che ammette la luce illusoria per il muro riflettente,
Posseduta dai cieli

Dorme nell’angusta mangiatoia e poi cammina nella polvere
E vaneggia a suo capriccio
Sulle assi del manicomio erose dalle mie lacrime passanti.

E preso dalla luce tra le sue braccia infine e caramente
Posso senza fallire
Patire la prima visione che incendiò le stelle.

 

 

E la morte non avrà alcun dominio

E la morte non avrà alcun dominio.
I morti spogli saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna a ponente;
Quando le loro ossa saranno ripulite e quelle ossa scomparse,
Essi avranno stelle al gomito e al piede;
Per quanto impazziti saranno sani,
Per quanto inghiottiti dal mare riemergeranno;
Per quanto perduti gli amanti l’amore no;
E la morte non avrà alcun dominio.

E la morte non avrà alcun dominio.
Sotto i gorghi del mare
A lungo giacendo essi non periranno al vento;
Torcendosi alle torture al cedere dei tendini,
Stretti a una ruota, pure non cederanno;
La fede nelle loro mani si spezzerà,
E l’unicorno i mali trapasserà;
Divisi, finiranno per non fendersi;
E la morte non avrà alcun dominio.

E la morte non avrà alcun dominio.
Più non gridino i gabbiani ai loro orecchi
Né le onde irrompano sulle salse rive;
Ove sbocciò un fiore un fiore mai più
Sollevi il capo ai colpi della pioggia;
Anche se pazzi e morti e sepolti, simili
Teste, martellino tra le margherite;
Forzino il sole finché il sole non collasserà,
E la morte non avrà alcun dominio.

 

*

 

This bread I break

This bread I break was once the oat,
This wine upon a foreign tree
Plunged in its fruit;
Man in the day or wind at night
Laid the crops low, broke the grape’s joy.

Once in this wine the summer blood
Knocked in the flesh that decked the vine,
Once in this bread
The oat was merry in the wind;
Man broke the sun, pulled the wind down.

This flesh you break, this blood you let
Make desolation in the vein,
Were oat and grape
Born of the sensual root and sap;
My wine you drink, my bread you snap.

 

 

Love in the asylum 

A stranger has come
To share my room in the house not right in the head,
A girl mad as birds
Bolting the night of the door with her arm her plume.
Strait in the mazed bed
She deludes the heaven-proof house with entering clouds
Yet she deludes with walking the nightmarish room,
At large as the dead,
Or rides the imagined oceans of the male wards.
She has come possessed
Who admits the delusive light through the bouncing wall,
Possessed by the skies
She sleeps in the narrow trough yet she walks the dust
Yet raves at her will
On the madhouse boards worn thin by my walking tears.
And taken by light in her arms at long and dear last
I may without fail
Suffer the first vision that set fire to the stars.

 

 

And death shall have no dominion

And death shall have no dominion.
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again;
Though lovers be lost love shall not;
And death shall have no dominion.

And death shall have no dominion.
Under the windings of the sea
They lying long shall not die windily;
Twisting on racks when sinews give way,
Strapped to a wheel, yet they shall not break;
Faith in their hands shall snap in two,
And the unicorn evils run them through;
Split all ends up they shan’t crack;
And death shall have no dominion.

And death shall have no dominion.
No more may gulls cry at their ears
Or waves break loud on the seashores;
Where blew a flower may a flower no more
Lift its head to the blows of the rain;
Though they be mad and dead as nails,
Heads of the characters hammer through daisies;
Break in the sun till the sun breaks down,
And death shall have no dominion.

 

*

 

Testi tratti da: The Collected Poems of Dylan Thomas, The New Centenary Edition, edited by John Goodby (Orion, 2014)

Ti s’è svegliato il cuore! Allergia, di Massimo Ferretti

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Una volta ancora, la casa editrice Giometti e Antonello di Macerata ha fatto insorgere un’opera fondamentale da quella cupa fangaia dove vengono gettati gli autori di cui non si è potuto fare un calco preciso. In questo caso si tratta di Allergia, breviario dell’inappartenenza composto dal poeta Massimo Ferretti e stampato per Garzanti nel 1963: «Nella mia vita il viaggio resta il segno / di ciò che doveva essere la vita / se l’avessi capita troppo tardi. / Ma ho capito tutto troppo presto / e ogni viaggio è uno spostamento / da una solitudine a un silenzio». Lette oggi, queste sue parole imbevute di torto mi appaiono come lividi in rilievo, e in ogni nicchia gelata vi spio una lotta per riportarvi calore.

Nato a Chiaravalle il 13 febbraio del 1935, Ferretti morirà a 39 anni a causa di un problema cardiaco, quell’endocardite reumatica che contribuì a fare della sua esistenza il resoconto di chi del mondo ha visto soprattutto le secche, le stretture, e che nonostante ciò ha sparso un rigo d’inchiostro per ogni fitta: «Il suo sperimentare» scriverà Pasolini «non è altro che il suo attaccarsi alla vita: un solo gesto, cioè, che per valere deve essere sempre diverso.». Certo: Ferretti si tormenta, prende congedo, e sembra tramare uno sciopero ogni volta che va a capo. Eppure è proprio questo tenace adoprarsi per fare del libro un perenne scuotimento che bisogna insistere a chiamare poesia.

Così il verso di Ferretti, proprio quando sembra ripararsi nella soffitta della decadenza, ci esorta piuttosto a stravolgere la rovina, a guastare festosamente qualsiasi sentore di prosciugamento, di siccità. Soprattutto, a reclamare la vita: «[…] Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi […] Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare».

Di seguito, pubblico una selezione di poesie dal volume, per gentile concessione degli editori, che ringrazio.

 

 

Da Ad un giradischi

(Il Donchisciotte della Rabbia)

 

[…]

 

Volevo andare a scuola d’ottimismo

quando mi accorsi d’essere felice.

Come chi dice di fotografie lasciate

allo stato negativo

per confortare di contorni bianchi

il buio delle parti addette all’anima

e un alfabeto d’onomatopee:

rutto / pernacchia / fischio / gargarismo /

e un finale a sorpresa di

risate.

 

È aperto – vi prego – non bussate.

 

***

 

Da I versi urbani

 

Tra il pollice e l’indice è tesa

un’arpa di nichel o d’argento…

 

… colore incontrollabile!:

 

con il lampione lontano

e l’interruttore sul muro

alle spalle della finestra

da cui ti contemplo dormire.

 

Ma in questa minuscola rete

è presa «tutta la storia»:

i tetti del centro

gli alberi del rione

 

la Cupola e l’Antenna

Eliogabalo e Accattone

Catullo e Sandro Penna

i preti i preti i preti

le stelle i culi le mammelle

il muschio dei governanti

i vespasiani i ruderi i fascisti

la libertà del meccanismo

i direttori i redattori i professori

i feti gli aborti i figli –

 

i sette colli della tua leggenda

e i sette giorni della mia settimana…

 

Città-capitale,

io ti guardo dal filtro della sostanza

che ho estratto dai buchi del naso

con l’unghia del dito minore.

 

***

 

Da Deoso

[…]

 

Già sento malfidi tremiti,

ecco che il falbo sole s’assiepa!

Il fluire di rabidi fermenti diviene costante… Ecco strabocca!

Ti s’è svegliato il cuore! Sobbuglia!

Più forte ansima su di me con le tue creste,

squassa, divelgi, sfacela questo corpo

che avvelena l’aria che respira

che agita la sabbia dei deserti

che toglie luce al sole.

Il tuo rabbuffoso fermento,

credimi, non è un tormento.

Arremba su di me una sola minaccia:

che tu ti stenda in quieta bonaccia.

E già grandeggia il rumore del silenzio,

seviziatore e tiranno dei suoni…

Lontani si protendono i monti,

dai bivacchi dei pastori s’alzano sopiti fumi –

qui i fari pascolano con i loro lumi.

O voce, questa notte di cinigia

m’è più dolce d’un’alba bigia.

 

Premessa dell’autore a Deoso. Rappresentazione poetica (1954)

Questo nuovo mito è dedicato a tutti coloro che credono – anche se non con troppa fiducia – in un mondo interminato fatto a strati che ogni età, con la sua civiltà, colma, ma non completa; e che il tempo rende sempre più difficile a riempire la parte nuova, perché il progresso si scrolla di dosso anche delle scorie, inevitabili eredità per chi resta. Come ai figli generati dagli uomini e dalle donne che vissero in una ipotetica età dell’argento – se la vogliamo lontana da noi – o dell’uranio – se la preferiamo più vicina – in cui la paura pesava tutta sulle spalle di un capro espiatorio: Deoso, un infelice bastardo, figlio non riconosciuto della Paura e del Genere Umano.

 

Il poeta è un fingitore?

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di Marina Massenz

 

Che cosa voleva dire esattamente Pessoa, autore dai molti eteronimi, quando scriveva: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”?[1] Penso che parlasse del “distanziamento” dell’Io dal testo poetico di cui è autore. È la distanza che permette di dire che, sì, l’autore prova davvero quel dolore, ma è così distante da fingerlo, grazie alla ricerca formale e nel tentativo di passare da ciò che prova quell’Io soggetto all’Io autoriale. È l’Io autoriale che a quel vissuto dà forma, cercando un modo per esprimerlo che possa parlare a tutti, o a molti, che faccia transitare il vissuto attraverso la trasformazione creativa e letteraria in un’espressione che, lasciandosi alle spalle il soggetto, comunichi un sentire più ampio e generale. Insomma, il lavoro di “distanziamento” è quello che consente a una poesia di non essere espressione di un singolo, ma potenzialmente, se è una poesia riuscita, dell’umanità in generale. La finzione non è dunque una falsificazione, bensì un allontanamento da sé, necessario se si vuole fare arte o poesia.

E, come la vita, questo è un viaggio sperimentale che richiede di pensare molto.

 

 

La poesia lirica – quale soggettività?

Esiste dunque una differenza tra l’Io dello scrivente come persona, l’Io autoriale e l’Io del testo. L’io autoriale s’identifica nella ricerca di una soggettività, o soggettivizzazione, che si esprima sì nella sua verità nella poesia, ma nello stesso tempo la guardi come da lontano, come fuori da sé. Si potrebbe dire che ci si pone in un atteggiamento di “osservazione partecipata”, in cui la messa a distanza consente di vedere di più e meglio, separando il proprio vissuto e bisogno espressivo dall’oggetto che si osserva, in questo caso il testo che si vuole comporre. Si tratta di cercare parole il cui valore e senso siano con il vissuto coerenti – la verità, dunque – ma nello stesso tempo non lo siano, nel senso che la forma che l’autore sceglie, le parole, il ritmo, il verso, l’immagine ecc. costituiscono gli strumenti di un lavoro artigianale rivolto a comporre un testo che travalichi il vissuto.

Tale riflessione ci riporta quindi all’idea di dialogo, ad una prospettiva di “parola” che vuole arrivare all’altro. Questo Io autoriale è quello del “laboratorio”, dove il testo viene composto, rivisto, ridotto, modificato; parole vengono sostituite, tolte, trasformate; immagini e suoni dettano il ritmo, emozioni e sensazioni trovano forma. È necessario molto tempo; una poesia necessita di molte revisioni che secondo me devono essere ripetute più volte, anche a distanza di mesi, anche a distanza di anni. Lo scritto ripreso dopo un tempo abbastanza lungo ci appare diverso; a volte banale, da rifare, a volte ancora efficace, da limare, modellare, ricucire…

L’Io del testo è invece la voce che leggiamo e non deve per forza esprimersi in prima persona; anche un noi o un verbo impersonale possono essere questa voce, che certo rimanda a un soggetto, a una persona, ma ha attraversato tanti e diversi gradini nell’opera di distanziamento. Dunque, come dice Pessoa, il poeta è un fingitore! Certo lo sfondo autobiografico esiste, ma la poesia – anche lirica – è diretta all’altro, prende distanza dal vissuto personale nella forma che assume; questa forma, scelta elaborata che si costituisce nel tempo come base della “poetica” di un autore, costruisce quel luogo terzo in cui, grazie all’essenzialità e alla ricerca sul verso nei suoi diversi aspetti costitutivi, il materiale personale può farsi “di tutti”.

Paolo Giovannetti ha trattato approfonditamente in un suo articolo[2] della natura del genere lirico e, in un passaggio in particolare, riferendosi al lavoro di Peter Hühn, ha parlato del tentativo di razionalizzazione operato da questo autore in riferimento all’io lirico. L’ha scomposto in quattro istanze: 1. autore biografico (quello che qui ho definito Io dello scrivente); 2. autore astratto (per me l’Io autoriale, quello della bottega di lavoro, del laboratorio, della ricerca); 3. Parlante-narratore o “Io poetante” (per me l’Io del testo); 4. personaggio (io non saprei distinguere il personaggio dal narratore…). Comunque, concordo con Paolo Giovannetti sul fatto che il ragionare sulla loro reciproca relazione potrebbe essere di notevole utilità.

 

 

La poetica dell’“Io flessibile”

Credo che l’io di ognuno di noi sia un Io poroso, un Io corpo poroso,[3] recettore di tutto ciò che nel mondo vive e accade, anche se spesso questa sensibilità non è conscia. Non viaggiamo come monadi nell’universo, ma siamo un insieme, “torme di tutto”,[4] e veleggiamo tra gli umori non solo intrapsichici, ma anche interpsichici e tra le tensioni dell’universo mondo. Partendo da questa convinzione, credo che la flessibilità dell’Io, al centro della poetica nella mia ultima raccolta,[5] sia da intendere non come svantaggio o difetto, ma anzi come un valore; una fragilità dunque da difendere e salvaguardare, senza negarla o cercare difese. Le teorie sulla poesia che volevano “uccidere l’Io narcisistico dello scrittore” hanno fatto il loro tempo; storicamente hanno avuto un senso e un valore, ma ora mi sembrano esauste. I grandi cambiamenti epocali e le trasformazioni del mondo tutt’ora in corso richiedono la presenza dell’Io come forma anche di testimonianza e di resistenza a un presente onnivoro e potenzialmente annichilente il soggetto. Nella contemporaneità abbiamo a che fare con una sostanziale, reale, fragilità umana.

Siamo sistemi complessi (la teoria della complessità, nata da studi biologici, ci spiega come la cellula cerchi sempre un equilibrio, pur passando attraverso trasformazioni continue[6]) che tollerano solo cambiamenti graduali e necessitano di metabolizzarli, di adattarsi; dal nuovo equilibrio trovato saranno poi in grado di assumere nuovi mutamenti. La rivoluzione informatica, le migrazioni planetarie, il disastro ambientale, richiedono all’essere umano grandi cambiamenti, assimilazione di nuove competenze e informazioni, accettazione di diversità destabilizzanti, assunzione di nuove abitudini comportamentali e sociali. In una prospettiva bio-psico-sociale sono forme di adattamento molto impegnative e richieste in tempi troppo rapidi, con grande destabilizzazione del sistema-uomo.

L’Io è oggi dunque in grande difficoltà: come sostenere l’urto di questi immensi e inquietanti cambiamenti? La poetica dell’“Io flessibile” che attraversa le liriche del mio ultimo libro non accetta di erigere muri a difesa o roccaforti protettive; promuove l’idea di un soggetto capace di accettare la sua oscillazione fra stare eretto e essere flagellato dai venti, stare come “peluzzi alfieri” (p. 33), erba diritta e giovane, ed essere sul punto di sfasciarsi, un soggetto che cerca negli alberi, così solidamente piantati con le radici in terra e la testa fra le nuvole, un modello di resistenza alle intemperie della vita, o chiede aiutanti fra gli altri esseri umani capaci di “fornire le bende” (p. 42). Costituirsi come questa forza flessibile, lasciarsi attraversare dai mutamenti senza rigidità, imparare l’arte di ciò che è essenziale e quella di avere una paura gestibile.

Livia Candiani parla di “Io leggero” riferendosi alla presenza della sua vita e autobiografia nelle poesie che ha scritto. La poetica che sento appartenermi è forse vicina a questo concetto, ma anche differente: è la poetica che altrove[7] ho definito dell’“Io fragile” , ma qui mi sembra di definire meglio chiamandola dell’“Io flessibile”. La fragilità rimanda ad un “crack” sempre possibile, la flessibilità al continuo mutarsi dell’Io a seconda dei contesti, delle esperienze, del tempo, in quel rimaneggiamento che fa di noi stessi qualcosa di sempre simile a sé, ma nel contempo diverso.

Nel convegno Lirica e società / poesia e politica, tenutosi alla Casa della cultura di Milano il 2 marzo 2019, Guido Mazzoni, parlando della presenza dell’Io nella poesia lirica – nella sua forma e nel suo senso, nel suo relativismo etico ed estetico – ha sottolineato come non si possa in quest’epoca negare l’Io, organo di controllo indispensabile. Se di “soggettività” c’è un’inflazione, con il rischio sempre aperto di autoreferenzialità, si può tuttavia vedere nel mondo lirico una forma di reazione, di protesta quasi, contro la reificazione dominante, in cui l’individualità è assoggettata. Esistono a mio parere due antidoti importanti contro i rischi della poesia lirica come “specchio” del soggetto, e sono l’autenticità della propria testimonianza (di cui ha parlato nello stesso convegno Maria Borio) e la forma, che è esito della ricerca personale e nel tempo può produrre un testo che abbia un valore estetico e si possa definire riuscito.

In un altro convegno, una “maratona dialettica”, tenutosi nel settembre 2017 presso la Libreria Claudiana di Milano,[8] Mariangela Guatteri disse: “Quando la scrittura suona con voce chiara e autentica, c’è un’autorità che si rivela, un’onda di realtà in tutta la sua potenza. La poesia è autorevole quando riesce a situarsi nella realtà con un’istantaneità di sguardo in cui il linguaggio stesso è all’altezza della realtà stessa: Il linguaggio poetico ha questa possibilità di aprire istantaneamente al mondo”.

È dunque ancora lo stile a mediare tra soggettività e oggettività, intesa come tempo e contesto in cui si vive.

 

 

La postura autoriale

Ho sentito spesso parlare di “postura autoriale” del poeta. Poiché il termine “postura” appartiene al mio linguaggio professionale (di psicomotricista), non posso che analizzare questa affermazione facendo riferimento all’equilibrio posturale, che determina la stabilità di un corpo in una data posizione. Vorrei perciò mettere in discussione questo termine, perché mi sembra non risponda all’atteggiamento di fondo che potrebbe assumere un poeta oggi; più che di equilibrio, parlerei di continue oscillazione o disequilibri, che non portano alla rottura, al tonfo, ma si lasciano investire dal presente e faticosamente ritrovano o mantengono una parziale stabilità.

Inoltre mi viene da chiedere: quale postura? Eretta, seduta, in ginocchio, prona, supina…? Nel presente cupo e opprimente che ci assedia vorrei poter assumere una postura eretta, intendendo con ciò un’attitudine a fronteggiare le asperità drammatiche del presente per lo meno con una sorta di atteggiamento di opposizione frontale, diritta di fronte al danno, anche se impotente come tutti ci sentiamo. Una sorta di resistenza senza nascondimento che tiene la posizione, la saldezza della propria contrarietà. Dunque eretta, ma non rigida; infatti l’urto del presente comunque arriva e solo con la necessaria flessibilità lo stelo si può piegare al vento senza spezzarsi.

In una o forse diverse mie poesie questa ricerca si concentra sull’osservazione della natura, in particolare degli alberi; come resistono al gelo, al vento furioso, alla grandine, al peso della neve? Li osservo e con ammirazione noto che non crollano a terra, come a me a volte verrebbe naturale. No, è naturale mantenere la propria posizione: come loro, gli alberi, tenendo i piedi/radici ben ancorati alla terra e lasciando che la testa vaghi tra le nuvole, oscillando senza imbragatura e piegandosi al peso senza spezzarsi.

 

 

Quale Io?

Chiuso o aperto al mondo? Come ho già detto, credo che ognuno di noi sia un Io poroso, un Io corpo poroso, sensibile recettore di ciò che intorno a noi avviene, nel mondo prossimo come in quello distante. Questo non significa che ognuno sia in contatto con queste emozioni e sensazioni che lo attraversano; anzi, si potrebbe dire che nella maggior parte dei casi l’Io si difende assumendo un atteggiamento di chiusura a testuggine, specie rispetto a tutto ciò che è scomodo, diverso, difficile da integrare nel proprio pensiero cosciente. Chiuso a testuggine, l’io si dimentica della sua porosità, la rinnega, vive cose che non sa da dove arrivino e cosa significhino, è in balia delle situazioni, inconsapevolmente si esprime per agiti emotivi/pulsionali senza controllo né coscienza: in sostanza reagisce alle difficoltà piuttosto che comprenderle e gestirle. L’io poroso ci espone certo di più, ma nello stesso tempo si allena alla continua trasformazione; solo così, senza chiudersi negandosi all’alterità che sempre incontriamo e che ci viene vicino, possiamo essere recettori sensibili, empatici come, in quanto esseri umani, siamo per natura.[9] La flessibilità e la porosità sono dunque oggi importanti valori da difendere, e il nostro Io è l’unico punto interno psichico capace, con fatica, di mediare e modellare differenti tensioni e direzioni, istinti e ragioni, pensieri ed emozioni.

 

 

Questo articolo è apparso in una prima versione più corta su “Il segnale”, n° 113, giugno 2019.

 

[1] Fernando Pessoa, Il poeta è un fingitore. Duecento citazioni scelte da Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 1988.

[2] Dopo il testo poetico. I molti vuoti della teoria, in “Il Verri”, LX, 61, giugno 2016.

[3] Vedi Didier Anzieu, L’io-pelle, a cura di Antonio Verdolin, Roma, Borla, 1987.

[4] Giancarlo Majorino, Torme di tutto, Milano, Mondadori, 2015.

[5] Marina Massenz, Né acqua per le voci, Milano, Dot.com Press, 2018.

[6] Vedi Alain Berthoz, La semplessità, trad. it. di Federica Niola, Torino, Codice, 2018.

[7] In “Il segnale”, XXXIX, 113, giugno 2019, pp. 30-31.

[8] Diversi degli interventi pronunciati al convegno si possono ora leggere in Teoria & poesia, a cura di Paolo Giovannetti e Andrea Inglese, Milano, Biblion, 2018.

[9] Vedi Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Cortina, 2006.

 

 

 

LA MUTA PER AMORE – ESTRATTO

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di Francesca Canobbio

Precipita il principio poiché si segna solo nel momento successivo all’attacco per recupero di distacco e nel suo vuoto può compiersi come onda e come salire così scendere a terra un colore e il cielo aperto davanti e dietro un’ iris arcobaleno che volteggia ad ogni precipitazione ma prima piove il mare asceso per eccesso sull’equilibrio elementare che è governo di cosa ed ad ogni cosa restituisce il senso ed il sentimento per quanto profondo così si leva acuto dentro la spinta che è di motivo motivazione e sempre nuova di ritmo e fughe